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Mola mola webzine, "Waypoints and lighthouses"

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“Waypoints and lighthouses” è una raccolta di canzoni, racconti e fotografie a cura del collettivo bio-musicale www.molamola.it pubblicata per festeggiare il primo anno di vita del sito, nel 2013. La compilation dei brani che hanno ispirato i racconti e le immagini è reperibile e gratuitamente scaricabile all'indirizzo: http://molamola-webzine.bandcamp.com/ Tra pochi giorni uscirà il secondo volume del progetto. Altre info qui: http://www.molamola.it/molamola_compilation/

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Immagine di copertina di Barbara Della Porta.Una produzione MOLA MOLA WEBZINE www.molamola.it

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WAYPOINTS AND LIGHTHOUSES di Roberta D'Orazio..................................401. FFWW di Anna G Gala.......................................................................................702. TRASLOCO di Capra.........................................................................................903. IN BASE ALLA DUREZZA DELL'ACQUA di Lucio Carbonelli.................1104. POLVERE di Danilo di Feliciantonio................................................................1505. THE RAIN di Tiresia........................................................................................ 1906. VAGNER LOVE di Da hand in the middle.......................................................2007. VALIGIE APERTE di Nadia Vecchio...............................................................2208. NON OSO NON SO di Laura Serluca..............................................................2409. I SAW HER FACE di Valeria Pierini................................................................2610. HYDROPHOBIA di Angie BackToMono........................................................2811. THE NIGHT APOLLO DIED di Simone Stefanini.......................................3012. FALENE ALLA LAMPADA BLU di Roberta D'Orazio.................................3213. IL SOGNO, L'ADDIO di LorElle....................................................................3714. LONTANI DA DISTOPIA. LA MIA CITTÀ SULLA TUA PELLE di Roberta D'Orazio..................................................................................................... 39CREDITS E PENSIERI AGGIUNTIVI...............................................................41

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WAYPOINTS AND LIGHTHOUSES

A dover seguire gli impulsi emotivi, questo mio scritto fiero e tremolante non avrebbe mai fine.

Dovrei raccontarvi di quella volta che. E anche di quell'altra volta. Come quando ho chiamato i vigili del fuoco perché ero sotto casa e tu stavi dormendo e non sentivi il citofono. Si esagera sempre quando si è sentimentalmente coinvolti. E dovrei dire di due compagne di liceo che condividevano la convinzione che Joe Strummer le avrebbe salvate dagli anni dell'adolescenza mentre provavano a martoriare un basso e una chitarra in una stanza troppo piccola per contenere i loro sogni. Di tante altre cose potrei parlare, ma sembrerebbero prive di senso o quantomeno non attinenti. Per cui tenterò di descrivere in maniera più oggettiva possibile il progetto che Mola Mola webzine presenta ai suoi lettori per festeggiare il suo primo anno di disarmata resistenza nel burrascoso mondo dell'Internet. Dal momento in cui la mia incapacità è piuttosto manifesta, proverò a proporre due versioni, una brevissima ed una estesa:

Versione brevissima: "Waypoints and lighthouses" è una raccolta di canzoni, ognuna delle quali è associata ad un racconto a sua volta illustrato da una fotografia. Alcuni racconti sono stati scritti dai nostri collaboratori, altri da alcuni ospiti speciali. Il tutto è reperibile in maniera gratuita su Bandcamp all'indirizzo: molamola-webzine.bandcamp.com

La compilation è in streaming ed è anche scaricabile: una volta compiuta la seconda operazione potrete godere dell'ebook con parole e immagini, contenuta nella medesima cartella.

Versione estesa: "Waypoints and lighthouses" è una raccolta di canzoni, racconti e fotografie, distinta in due anime complementari:

"Waypoints", compilation di quindici brani, nove dei quali scelti e proposti dai nostri redattori. Tra questi, "Lacrime e rasoi", esclusivo inedito degli Aut Aut, formazione eigthies di un sorprendente Umberto Palazzo, rimasterizzato per l'occasione; la splendida "I saw you face" dei The Men, la cui etichetta (Sacred Bones Records) ha aderito con entusiasmo. Lo stesso di può dire di Jamie Stewart, che ha contribuito con i rumorosi incubi degli Xiu Xiu sintetizzati in una rarissima "Quagga". Jester At Work ha registrato, con l'ausilio del nostro Molecola e di altri amici fidati un'insolita versione primaverile di "Remember to remember". La raccolta comprende inoltre le recenti pubblicazioni di meravigliosi artisti quali: i Blankform, architetture elettroniche, gli Starslugs, protopunk industriale, i Mai Personal Mood, sonorità da poeti intimisti, i Carmilla e il Segreto dei ciliegi, eleganti voli notturni, Simona Gretchen, inquietudine e tumulti wave, gli Albedo, una delle più interessanti

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proposte contemporanee.

La compilation ospita anche sei ospiti speciali (Gazebo Penguins, Da hand in the middle, Tiresia, LorElle, Small Giant) di cui parleremo in seguito, in quanto il loro apporto confluisce anche nella seconda parte del progetto, "Lighthouses".

"Lighthouses" è un'antologia illustrata in forma di ebook di racconti e poesie scritte dai nostri collaboratori e dagli special guest, accompagnati da scatti fotografici realizzati in alcuni casi da artisti scelti dagli autori, in altri casi da forze interne alla redazione, ovvero: Valeria Pierini, vivisezionatrice di anime e corpi, Lucio Carbonelli, il cui sguardo sincero sa perforare con dolcezza la realtà, Danilo Di Feliciantonio, diamante rudimentale, Anna G Gala, dolcezza naif, una coloratissima e deliziosa Penny Lane e il nostro spiritoso tecnico Luca Benni. Ognuno di loro ha contribuito con la propria sensibilità e le propri modi, innestando un tassello prezioso nel composito mosaico di sguardi. Lo stesso accade con i fotografi esterni che hanno amorosamente abbracciato la causa, regalandoci immagini emozionanti: la spontanea vitalità complementare catturata dagli occhi Tiresia e LorElle, le ambiguità notturne incastonate nello sguardo di una divina Agnese Casolani, le riflessioni sull'orlo del mondo di Giuseppe Palmisano, un ritratto in black and white di Antonio Vitale, l'artwork immaginifico dalla spiazzante ispirazione grottesco-mitologica di Alessandro Pagni, i viaggi devastati di Annibale Sepe, la collaborazione prolifica tra la capacità di Walter Trabucco di ghermire i sogni e quella di Millo di trasfigurare la concretezza.

Ogni racconto è associato per via di ispirazione diretta o per una fortuita casualità ad una delle canzoni di "Waypoints". I nostri ospiti speciali di cui sopra oltre a concederci l'uso di uno dei loro strepitosi brani si sono per l'appunto occupati anche della parte letteraria del progetto, in alcuni casi anche degli scatti fotografici. Singolare il caso di Tiresia e LorElle, le cui canzoni sono state riprese con slancio in occasione del compleanno di Mola Mola: i due hanno intrecciato i loro progetti illustrando con immagini e parole poetiche il pezzo dell'altro. Simone Stefanini (Small Giant) ci regala il contrasto di un'emotività malinconica e strabordante che risuona tra le luci colorate della sua "The night Apollo died", Capra dei Gazebo Penguins ricorda le sue nostalgie punk e irridenti, i Da hand in the middle sciorinano con la delicatezza aristocratica che li contraddistingue curiose storie calcistiche.

L'immagine di copertina, che compendia il senso tutto dell'operazione, è stata realizzata da Barbara Della Porta, anima a me complementare, compagna di banco punk al liceo, nonché co-fondatrice

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insieme a me medesima della webzine che stiamo festeggiando, nata per l'appunto un anno fa con lo scopo di fornire uno sguardo trasversale che sappia considerare la musica non come un elemento a se stante ma come parte integrante di una rete di forme d'arte, d'amore, di vite che si intrecciano, percorsi fatti di punti di rotta e fari che illuminano. L'immagine stessa è il suo editoriale, più efficace e diretto di questo mio, così prolisso e altrettanto commosso.

Per i ringraziamenti ai cuori e alle menti e alle anime di Mola Mola, rimando alle ultime pagine.

Ho finito.

Roberta D'Orazio

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01. FFWW

Ecco.E’ il momento giusto.Devo farcela.Sono certo che posso farcela.Ma devo essere veloce.Devo guardarmi bene attorno.E stare molto attento.

Tutto tace. Non c’è nessuno qui intorno.Lui non mi vede.E’ lontano.Sono stato furbo ad arrivare fin qui.Però il fatto di non vederlo mi mette ansia.Potrebbe apparirmi improvvisamente davantie sarei fritto.No. Adesso basta titubanze. Devo iniziare a correre. Più veloce possibile. E devo farlo ora.Ora!

Com’è bello correre a perdifiato in mezzo al grano ancora verde.Quando corro non penso a nulla.E ora mentre corro, non voglio guardarmi indietro.Non voglio guardarmi attorno. Voglio solo guardare avanti.E correre. Correre.

Devo farcela. Ci devo arrivare.Posso salvarmi.Non so che fine hanno fatto gli altri.Ma non posso pensare a loro adesso.Devo pensare a me.

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E devo correre più veloce.Sempre più veloce.Ormai ci sono quasi.Se svolto l’angolo di quella casa è fatta.

No!Eccolo!Mi ha visto!Devo correre più veloce di lui.Sto correndo più veloce di lui!Non riesce a raggiungermi.Posso ancora farcela.Ecco…ci sono!Sì! Ci sono!Ce l’ho fatta!

TANA PER ME!!!

Parole: Anna G Gala.Immagine: Anna G Gala.Brano: “FFWW”, Blankform

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02. TRASLOCO

Non sono uno di quelli che a 30 anni ha fatto 500 traslochi.Ne ho fatto uno prima dei 10 anni da Correggio a Correggio, che non ricordo.Poi sono andato a stare a Bologna, da Bologna si è passato alle colline di Bologna in un brutto paesino di nome Monterenzio, e dalle colline di Bologna alle colline di Modena a 5 minuti da Zocca.L’ultimo è stato il trasloco più serio, specie perché avevamo 2 gatti oltre alle nostre persone.Però quando andammo a stare a Monterenzio avevamo questa vicina, di cui non ricordavamo mai il nome. Era molto gentile. Si trovava sempre i nostri gatti sul letto, a volte dentro agli armadi. Per scoprire come si chiamava cercavamo di sbirciare l’intestazione delle bollette nella cassetta delle lettere, ma erano ancora intestate a suo marito che però era morto qualche anno prima. Il marito si chiamava Folletti di cognome. Una sera avevamo chiamato degli amici a cena. Sentiamo suonare alla porta e quando apriamo li troviamo che ridono tantissimo perché sul campanello della vicina c’era scritto Folletti Rosa. Perché Rosa era il cognome di lei. E noi non l’avevamo mai notato in due anni. Questo per dire che?

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Niente, che tuttora non ricordo come si chiamava questa vicina e un po’ mi dispiace. Forse è morta pure lei adesso.

Parole: Capra (Gazebo Penguins).Immagine: Luca Benni.Brano: “Trasloco”, Gazebo Penguins

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03. IN BASE ALLA DUREZZA DELL'ACQUA

Katia infila una mano nella scatola, e non sa cosa ci trova dentro. Katia tocca una cosa che le sembra acqua, eppure non sa come sia possibile possa esserci dell’acqua in una scatola, «Com’è possibile», si chiede, infatti. Katia è cieca, dalla nascita. È abituata a non vedere, vedere è un verbo che non esiste, per lei, anche se lo usa, sì, mentre gli altri si ritrovano imbarazzati a interrompersi, quando parlano con lei. «Hai visto quella cosa, lì…». Katia non ci fa caso. Katia non ha nemmeno dovuto chiudere gli occhi, prima di infilare la mano, «Metti la mano qui», le ha detto D, e lei lo ha fatto, senza nemmeno vedere il piccolo pezzo di stoffa che copriva l’apertura, però è stato bello sentirlo scorrere sul dorso della mano, morbido, vellutato.

D ha un tatuaggio in faccia, sulla fronte, in mezzo, o meglio: ciò che resta di un tatuaggio. Una cosa impossibile da non vedere. Una mattina si è svegliato e se lo è ritrovato lì, rimandatogli dallo specchio di un bagno sconosciuto. Un piccolo simbolo che aveva visto su un libro sfogliato qualche giorno prima, il simbolo del sole, o qualcosa del genere. Il tatuatore gliel’aveva anche chiesto, «Ma sei proprio sicuro?», e lui aveva risposto, «Certo che sì, sono sicuro», tra le risate degli amici, e la birra che gli alleggeriva la testa. Il tatuatore aveva fatto il suo lavoro.

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Quando D è tornato a casa mamma è scoppiata a piangere, però questa volta il suo era un pianto diverso, come se ormai fosse tutto finito, un pianto ancora più sommesso, ancora più silenzioso, ancora più disperato. D ci si era abituato, a sentire mamma piangere, a volte gli capitava di sentirla di notte, quelle poche volte che dormiva a casa. Mamma lo carezzava sulla guancia e «Vado a letto», diceva, anche se erano solo le nove, «la cena è in tavola». D mangiava e poi si addormentava davanti al televisore, vestito, gli anfibi allacciati fino a sopra.

Quella notte D non aveva dormito a casa, era tornato verso le undici di mattina, aveva visto le lacrime riempire gli occhi di mamma ed era subito andato a chiudersi in bagno. Aveva preso il coltellino che teneva sempre in tasca e aveva cominciato a incidersi la crosta di sangue coagulato che di lì a qualche settimana si sarebbe trasformata in tatuaggio permanente. Più incideva e più scavava, più scavava e più non sentiva niente. Il sangue aveva cominciato a colargli giù per la faccia quasi subito, come un sipario lo aveva visto ricoprirgli gli occhi riflessi nello specchio, scendere poi giù, a riempire il lavandino, che da bianco si era fatto rosso, scuro. D non ricorda per quanto tempo è rimasto in bagno, quel giorno.

Katia ha incontrato D al parco dove va sempre, insieme al suo cane. Il suo cane si chiama Terranova,

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come la razza a cui appartiene, le hanno detto che è tutto nero, e così Katia gli ha voluto dare questo nome perché, anche se lei non sa nemmeno cos’è il nero, almeno il cane sa di esserlo, perché i terranova sono tutti neri. «Punti di vista da cieca», pensava tra sé Katia, e le veniva da ridere. D l’aveva vista sorridere e si era avvicinato, forse più per il cane, che per la ragazza, però. D si era seduto sulla panchina, e aveva cominciato ad accarezzare il cane, mansueto. «Come si chiama?», aveva chiesto D, «Chi è? », aveva detto Katia, e poi, «Si chiama Terranova», senza nemmeno girare la testa. Katia aveva degli occhiali neri che le nascondevano gli occhi, e aveva continuato a guardare davanti a sé per tutto il tempo in cui D era rimasto lì ad accarezzare il cane.

Katia e D Avevano inventato un modo nuovo di parlare, Katia voleva sapere il mondo com’era e D glielo diceva.

«Com’è il sole oggi?», chiedeva Katia.

«Giaguaro», rispondeva D.

«E il cielo?», continuava Katia.

«Pecorelle», diceva serio D.

«E questa cos’è?».

«Una scatola».

«E cos’è una scatola?».

«È un posto che ci entri dentro e poi stai bene».

D era contento di aver incontrato Katia. Katia non poteva vederlo, e lui pensava che questo fosse un bene. D però poteva vedere Katia, quanto fosse bella, e un po’ era triste, perché «Ti sto ingannando», diceva, «tu non mi vedi». «Io ti vedo invece», diceva sempre Katia, e quando lo diceva si toglieva gli occhiali scuri, apriva le palpebre, e mostrava quei suoi occhi azzurri, belli, lattiginosi, coperti. Katia sorrideva, e a D veniva da piangere. Una volta da qualche parte D aveva letto che la vita è l’arte dell’incontro, e anche se non aveva capito bene cosa volesse dire, pensava che davvero adesso la sua vita fosse diventata arte, dopo aver incontrato Katia. Sperava non sarebbe mai finita.

«Allora, che senti?», le chiede D.

«Sento l’acqua», risponde Katia.

«E com’è l’acqua?», dice D.

«L’acqua è dura», dice Katia, «quest’acqua è dura».

«Ma l’acqua non può essere dura», dice D, «l’acqua scorre e basta, dimmi che senti».«Io sento quest’acqua», dice Katia, «la vedo, è dura, è un’acqua che scorre, ed è dura, e continua a

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scorrere, come se volesse infrangersi, come se l’acqua volesse parlare e dire: ecco, tu mi vedi così, ma io sono altro. È l’acqua che scorre, e che può farti male, ma non lo fa apposta, però».«Non capisco», dice D.

«Lascia perdere, punti di vista da cieca», dice Katia, sorridendo, e toglie la mano dalla scatola.«Adesso tocca a te».

«Ma io so cosa c’è dentro», dice D, «l’ho fatta io, questa scatola».

«Adesso è diverso», dice Katia, «chiudi gli occhi, e guarda».

Parole: Lucio Carbonelli

Immagine :− Fotografia colorata: Lucio Carbonelli− Fotografia in bianco e nero: Antonio Vitale

Brano: “Remember to remember (spring version)”, Jester At Work

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04. POLVERE

Il bollettino diramato dai media nazionali fu salutato con una strana esultanza da parte della sparuta folla assiepata di fronte alle vetrine. Le notizie d’agenzia - battute rapidamente - si diffondevano con altrettanta velocità, rapite dalla foga d’informare più o meno esaustivamente e di palesarsi più come oggetto di consumo che come necessità.La mattina giungeva quasi a conclusione e il corpo dell’uomo, avvolto in una giacca comoda ma leggermente consunta, cominciava a mostrare i primi cenni di cedimento alla fatica. Le ore si erano susseguite in maniera decisamente convulsa.L’individuo nascose il volto tra le pieghe del colletto ed osservò la gente guardare le televisioni disposte in linea, tutto come se fosse una sorta di sistema metareferenziale, una specie di quadretto neo-surrealista in cui il caso dispone le circostanze, gli spazi e i corpi in maniera insolita, caricandoli di nuovi sensi. Il suo occhio era una telecamera che guarda altre telecamere guardare qualcosa registrato da un altro obiettivo. Un atto di cannibalismo di massa, a livello iconografico. L’Iching recita nell’esagramma degli Angoli della Bocca: guarda all’alimentazione ed alle cose con le quali un uomo/ cerca egli stesso di riempirsi la bocca.

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Aveva preso alla lettera il suggerimento.L’uomo si mosse giusto per carpire uno stralcio di parole che suscitarono il suo interesse ormai preso in ostaggio della contemplazione del limitrofo: “Dicono che mi hanno trovato”, pensò, rendendo complesso il concetto aggiungendovi una certa dose di ironia molto simile ad uno spruzzo di veleno. Voltò le spalle alla scena e cominciò a dirigersi in direzione opposta, piegando leggermente la testa in avanti, con le mani in tasca.

La quarta esplosione della giornata colpì, come le precedenti, dei punti della città non eccessivamente popolati e nemmeno eccessivamente strategici, per cui i danni furono generalmente di carattere urbanistico / architettonico. Si contava qualche ferito, non grave. La perizia e la precisione dimostrate dall’attentatore fecero subito pensare agli inquirenti che dal piano puramente terroristico ci si dovesse spostare su quello simbolico per cercare di interpretare l’operato del primo e anticiparne le azioni. L’intuizione fu utile ma presa in netto ritardo, per quanto si possa poi opporre resistenza ad uno scacchista esperto che ha un paio di mosse di vantaggio, per quanto rallentarlo si potesse considerare funzionale a qualcosa, se non a ritardare l’epilogo della partita nell’attesa di un errore di chi conduce il gioco. Una strategia vincente può essere quella di cercare di produrre una serie di sbagli calcolati che possono indurre l’avversario a prendere coraggio, inconsciamente, e a farlo aprire quel tanto che basta per colpirlo dritto al cuore, in un paio di turni.

Palazzi storici cadevano a pezzi in una overture di detriti, legno vecchio bruciato dalle fiamme vive, fumo vomitato dagli squarci nelle pareti. Le mura di qualche negozio che si sbriciolano come biscotti nel pugno di un bambino. Polvere mossa dal vento, in nuvole grigiastre che si spostano privando della vista coloro che le attraversano.La giornata volgeva al termine scandita dai rintocchi degli inneschi e dalle sirene dei soccorritori. La notte fu una coltre di tenebra, una chiusa dal sapore di tregua sulle ostilità che ancora non avevano rivendicazioni precise, attori principali e moventi degni di nota.L’arte del caos è disciplina adusa a chi frequenta un certo tipo di stoicismo.Due giorni dopo il docente si recò in aula con il solito passo che non faceva presagire alcuna esitazione. Osservava la realtà delimitata dalla struttura moderna che caratterizzava l’Ateneo, il susseguirsi di pieno e vuoto, vuoto e pieno, persone e vuoto.Ancora calde di dibattiti televisivi e articoli di approfondimento da leggere in linea, le notizie dell’attentatore si moltiplicavano approfondite e “informate” da giornalisti, opinionisti ed esperti dell’ultima ora. Il risultato fu la creazione di una sorta di opera aperta, per cui il mostro diventava a tutti gli effetti un’opera collettiva che ognuno ampliava di una sfaccettatura, rendendone sempre più vaghi i dettagli proprio perché ormai eccessivamente saturo di dettagli superficiali. Tutto ciò

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contribuiva a creare un’atmosfera di vaga pesantezza, che confortava il responsabile, capace di sfruttare coloro che avrebbero dovuto agevolare la sua cattura per creare il diversivo perfetto, una finezza psicologica assolutamente notevole. Per molti era ormai un mitomane, per altri uno psicotico devastato dalla crisi economica, per altri il gesto eversivo di qualche cellula fuori controllo, desiderosa di uscire fuori dall’oblio.Tutti concetti diversi e così lontani dalla realtà.

Il docente entrò in aula e osservò con distacco gli universitari che ricambiarono il pensiero con la stessa distanza. L’uomo pensò che la nuova classe dirigente risponde positivamente agli stimoli e assimila velocemente certi comportamenti, nonostante tutto. Di solito chi è alla guida di qualcosa ha il dovere di avere meno interazioni possibili con tutti. L’avevano capito subito.Mantenere le giuste lunghezze e allo stesso tempo coinvolgerli in un gioco di parti ormai istituzionale. Abituarli ad essere seguiti, mai a camminare a fianco di qualcuno.“Forse oggi è il caso di fare qualcosa di diverso”, pensò tra se.Aprì la valigetta e la eviscerò degli appunti su Bernini e di un vecchio manuale con un movimento calcolato, fulmineo e sicuro.L’idea di farla finita così come aveva programmato lo eccitava tanto da procurargli un’erezione che la cattedra nascose tagliando a metà la sua figura come un mezzobusto della televisione. Soddisfare la sua ultima - estrema - perversione lo trasformò, secondo dopo secondo, in una persona capace di andare oltre il risoluto.Osservò uno ad uno coloro che a breve avrebbero dovuto ereditare le conoscenze che egli stesso avrebbe girato loro. Un sorriso gli apri la faccia mentre il primo boato invase la struttura imponendosi all’attenzione distratta degli studenti, ora vivi di terrore.Il rumore fece trasalire i presenti che ben presto si accorsero di essere incolumi. Un vecchio stabile, utilizzato come archivio, era esploso a diversi metri da loro. Nessuna vittima.C’è chi vide una scintilla di soddisfazione negli occhi del professore quando, dopo aver notato l’innesco nelle sue mani, una quarantina di studenti si lanciarono su di lui per strapparglielo di mano. Alla necessità di disarmarlo si affiancò il bisogno, quasi fisico, di un pestaggio di gruppo come risposta alla circostanza di stress, bisognosa di un qualcosa di liberatorio. Altri, probabilmente, agivano sulla spinta di un desiderio insito di epos, da eroe per un giorno.Il docente, dall’altro estremo della situazione, assaporava il linciaggio come un orgasmo multiplo, un rituale con il quale avrebbe trasceso la sua natura fisica in un residuo momento di apoteosi mistica.Cazzo duro nei pantaloni e membra morbide per i colpi subiti, se ne andava piano piano con l’immagine di un documentario che aveva visto anni prima, in cui, in una scena, un afgano sopravvissuto ad un attacco americano ripeteva che chi non ha paura della morte non muore mai.

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Pensò che sarebbe stato bello immortalare i suoi ultimi vizi in un nastro da rivedere all’infinito, lo snuff movie perfetto, le cellule sane che assalgono quella impazzita per permettere all’organismo di eliminare il male esercitando un male maggiore, brutale, religioso. L’immagine gli sfiorò la mente un attimo prima che il nero in dissolvenza assorbisse nel buio le ultime istantanee nitide, in accelerazione, del circostante. Non un secondo di timore, nessuna esitazione nemmeno in quel breve arco di tempo che anticipa il finale.La situazione tornò ad essere normale un paio di giorni dopo la dipartita del mostro, quando le autorità ormai avevano definito i dettagli del caso e attribuito al primo la paternità degli attentati che avevano turbato il pubblico vivere.I salotti dei talk show ospitavano le ultime testimonianze della sua fine, orride conduttrici che inorridivano a loro volta mentre pretendevano i dettagli di questo fine vita spettacolarizzato coi fuochi d’artificio del disgusto moralista. L’erezione del mitomane durante l’assalto, una specie di pre-rigor mortis profetico, era argomento di conversazione assai frequente che veniva poggiato sulla lingua di docili sciacquettine da attrici navigate che sanno come va il mondo e ciò che piace alla gente.Gli studenti erano puntualmente intervistati e contribuivano ad alimentare le aspettative erotiche del mondo della comunicazione con ammiccamenti e dichiarazioni di circostanza. C’è chi affermava di non aver notato lo squilibrio del professore pur avendo passato diverso tempo in sua compagnia. Chi non avrebbe mai pensato che un tipo così distaccato, così a modo, sarebbe stato capace di arrivare a tanto. Chi aveva descritto con dovizia di particolari la vicenda bollandola come la fine di un incubo, capace di terminare solo dopo aver sfogato la propria violenza in una forma improvvisa e collerica.C’era anche chi, di fronte ad un decadimento così totalizzante, si aggrappava con forza a parole di speranza e sostegno per tutti. Ci furono moltissimi “dobbiamo essere forti ed andare avanti”, “quello che è successo ci ha scosso, ma supereremo tutto”, “un giorno tutto questo sarà soltanto un brutto ricordo”, tutti espressi in maniera impeccabile e così mediaticamente convincenti. Le esortazioni tacquero quando il rumore della nuova esplosione superò in decibel il volume delle parole e le inghiottì in un boato improvviso e terrificante, risucchiando tutto nella realtà delle cose. La polvere di cemento si levò dal terreno come un velo mosso dal vento, sporcando di lacrime gli occhi di molti, ben chiusi già da prima che lo scoppio liberasse una nuova porzione di cielo nascosta dalla sagoma di un posto non ben definito e non così importante come si potrebbe pensare.

Parole: Danilo Di Feliciantonio.Immagine: Danilo Di Feliciantonio.Brano: “Body hammer”, Starslugs.

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05. THE RAIN

Lui guarda verso il cielo con gli occhi pieni di speranza. Alza gli occhi in attesa della prossima nuvola.In paese tutti sapevano di Andrea. Tutti sapevano quello che gli era successo.Ognuno dispensava consigli. Ognuno aveva una raccomandazione da fargli ma nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi e, semplicemente, farla. Dirla, una-parola-dopo-l’altra.E così Andrea passava le sue ore a fissare il cielo con i suoi occhi che, se non fosse stato per la speranza serbata, oggi avrebbero avuto la sembianza di due cotolette panate di polvere.Terra, polvere, pietre. I piedi affondano tra i solchi e sprofondano nei ricordi e Andrea non è più con noi ma è sempre lì in attesa.Oramai tutto attorno è arido come i discorsi dei suoi compaesani.Tutto attorno è secco come il letto dove scorreva impetuoso il loro amore.Andrea aspetta. Aspetta la pioggia.

Parole: Tiresia.Immagine: Tiresia.Brano: “The Rain”, LorElle.

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06. VAGNER LOVE

Questa è una storia vera. Dunque, come ogni storia vera, va trattata con garbo e piglio naturalistico. Cos’è Vagner Silva de Souza (non chi ma cosa, come ogni essere umano che trascende la sua condizione per diventare feticcio)? E’ uno dei numerosi esempi di quello che possiamo definire il sogno brasiliano: ossia calcare i campi di calcio per sfuggire alla fame, calcare i campi di calcio per diventare l’erede maschio di O’Rey Pelé. Come Gesù mando i suoi discepoli ad annunziare la buona novella ai quattro angoli della terra, così il Dio del futebol periodicamente manda i suoi figli prediletti, i ragazzi delle terre di Rio, a predicare al mondo una buona novella post-moderna, fatta di veroniche e dribbling, di movenze feline ed arabeschi irraggiungibili. Vagner è uno di questi. Se vogliamo un profeta minore rispetto a certi suoi illustri predecessori: l’androgino Falcao, l’orgoglioso Zico, il setoso Ronaldo. Per distinguersi cosa avrebbe potuto fare il nostro Eroe? Semplice. Andare controcorrente, discostarsi dalle masse, raggiungendo una terra contraddittoria e misteriosa al contempo: la Grande Madre Russia. E’ il 2004, l’anno nel quale l’evangelizzazione brasiliana si spinge più ad Ovest. Certo, già da prima calciatori verdeoro avevano superato la cortina di ferro, tra figure barbine e deprecabili. Ma Vagner fu il primo che capì una nuova modalità di comunicazione, il linguaggio più vicino allo spirito del mondo moderno:la sfrenata copulazione con soggetti di sesso femminile. Ogni sera Mosca diventava per lui terra fertile, luogo di baccanali sfrenati, di celebrazioni della quinta essenza dell’anima, dove la prostituta, il pusher, la gente semplice, tornava ad essere orgogliosamente protagonista in società. Questa forma di riscatto è passata tutta per le mani di questo piccolo, grande uomo nero, le cui trecce blu hanno lasciato, si dice, una scia ancora visibile lungo l’infernale tratta della Transiberiana. Spesso il male ha ostacolato questa splendida favola. Per ben due volte il suo

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cammino ecumenico è stato drasticamente interrotto, riportando il Nostro in Brasile, nel Flamengo. Ma il contratto degli uomini è nullo di fronte al patto che Dio ha stabilito con i suoi figli. Oggi Vagner è tornato a Mosca, la sua Chiesa. Qualcuno di voi potrebbe pensare “E’ una storia falsa, sono stato con delle escort e nessuna mi ha detto di conoscerlo”. Poveri illusi, è inutile presentarsi in un bordello moscovita e chiedere di Vagner Silva de Souza. Quello è il regno dei vivi e non dei morti. Quello è il regno di Vagner Love.

Parole: Da hand in the middle (due di loro sono i nipoti di Rodotà).Immagine: Luca Benni.Brano: “Vagner Love”, Da hand in the middle.

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07. VALIGIE APERTE

Sono le 11 di sera e questa è l’ora in cui mi manchi di più. L’ora delle parole, delle canzoni e dei resoconti della giornata, dove anche la più grigia prendeva le tonalità pastello. Ricordi le notti passate al telefono e tutte le mail? Cenavo davanti al pc per non perdere neanche un attimo. E tutte le canzoni che qualche volta abbiamo cantato insieme per quella via, urlate in pieno giorno prima di andare verso la stazione per guardarci da un finestrino e strappare già i giorni dal calendario. Ti ricordi quando ti chiamavo perché tornavo a casa e volevo compagnia? Preferivo la tua voce alle mie cuffie. Dimmi che tu non sia ormai pieno di ricordi, non abbia visto troppi cieli e le tue labbra non siano sazie di baci. Vorrei solo trovare di nuovo lo spazio tra le tue braccia, quella piccola tana per starci dentro durante gli inverni più freddi. Oggi sono sotto casa tua, sono venuta per lavoro in questa città che ti vede vivere ogni giorni, avevo voglia di fare quattro passi da sola, non so chi o cosa, mi ha portata qui, l’ho capito quando ho visto i graffiti, il venditore straniero simpatico che mi ha salutata e quella strada inalberata che tanto ci piaceva d’autunno, e ho continuato a camminare.

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Mi hai vista suonare in un pub e sei venuto tutte le volte che ci sono ritornata, mi avvicinai per presentarmi, ma era come se ti conoscessi già. Eri l’unico che mi prestava davvero attenzione ed applaudiva ad ogni canzone, mi confessassi che era per la tua passione dello scrivere, del tuo interesse per la musica, ma infondo ti sentivi a tuo agio a parlare con me. Ci raccontavamo ogni sciocchezza e sembrava importante. Ho fondato il mio gruppo con due vecchi amici di infanzia, abbiamo cominciato a girare davvero e le cose funzionavano, e ogni tanto ripassavo per quelle parti e venivi a salutarmi, e anche quando ero in viaggio ti continuavo a leggere, sempre. Era come un appuntamento fisso, una sorta di incontro che mi rendeva felice già due ore prima, come la volpe e il piccolo principe. Ci siamo fatte le promesse più belle, quelle taciute, quelle dove le parole non servono, bastavano gli sguardi, e la fantasia cominciava a scorrere come immagino le tue mani sulla tastiera, un giorno ho persino pensato che potessi sentire una canzone e pensare a me. Adesso hai cambiato numero di telefono e hai deciso di non aspettarmi più. Ci sono amori che nascono nello stesso quartiere o nella stessa città, o amori che prendono i treni e attraversano gli aeroporti e sfidano i chilometri e gli amori che nascono da una passione comune. Ora sono seduta su questo marciapiede e non so quanto aspetterò, non so se hai cambiato indirizzo di casa o se uscirai da quel portone. Ti lascerò una nuova canzone sulla tua porta. Mi sento come quelle sere di inverno al cinema, quando tieni il posto al tuo amico che è in ritardo, il film sta iniziando e hai già iniziato a mangiare i pop corn, ci butti la borsa sopra e sorridi a qualsiasi persona che tenta di sedersi dicendo: “ No, questo posto è occupato”, vorrei vederti arrivare e dire " Ehy Ale, vieni! Ti ho tenuto il posto".

Parole: Nadia Vecchio.Immagine: Giuseppe Palmisano.Brano: “Valigie Aperte”, My Personal Mood.

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08. NON OSO NON SO

Libri, culle e padelle.Siamo in affitto.Riparerai l’asse del cesso mentre tutto è turchese. Ti ho messo delle stelle dentro agli occhi.Da quel giorno sei diventato vanitoso e acerbo.Ti ho portato dietro in tutti i miei traslochi.Con gesti caldi sei diventato una pantofola consumata. Una carta da parati gialla e taciturna.Mi trasferisco per un po’ mentre tu dormi le mie notti.Indosso un paio di jeans ed il maglioncino che mi hai regalato a Natale.Ho voglia di un posto molle.Voglio essere un barattolo di marmellata da dentro.Questo è il tempo grande, questo è il modo.Quel treno in stazione è un tempio in rovina.E’ un piatto unto ammucchiato in cucina.Una pattumiera che trabocca di fondi di caffè.

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Corre presuntuoso verso gli alberi e le stelle. In prestito ho i suoi occhi astuti e quadrati. A te strapperò le ginocchia. La scena è ormai piena di erbacce.Ed oggi sento di essere un recipiente pieno a metà. Del resto c’è sempre qualcuno più a Nord di me.

Parole: Laura Serluca.Immagine: Annibale Sepe.Brano: “Non oso non so”, Carmilla e il segreto dei ciliegi.

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09. I SAW HER FACE

Non immaginavo che un passo col piede destro potesse portare a tutto questo.New York era umida ma dopo quel passo, assoluto, esiziale, ho buttato il tempo a cui credevo di appartenere all’indietro, tuffandomi preso da una forte gravità, impotente e rapito, a faccia in giù verso la totalità delle cose che potrei mai vedere in questa e in altre vite. In fin dei conti non ero più a New York, ero in numerosi luoghi e anni contemporaneamente, senza distinzione di epoca, tutti trascorrevano davanti a me, dopo quel varco, e, la molteplicità dei miei ego roteava in bella mostra come in un caleidoscopio. Inebetito mi ritrovai la gamba destra fradicia quando scoprii che il tardo e grigio pomeriggio si era specchiato in quel passaggio, trovandosi vestito a notte, con lampade in

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cielo, grandi come stelle, vicinissime e atroci, ed io, davanti a me avevo una grande luce. Non era la Luna, erano Beatrice, Francesca, Desdemona, Ginevra e Isotta. Dalla carta e l’immaginazione si sono tutte svegliate per schierarsi davanti a me. Capì che sono sempre esistite, che quello che puoi immaginare esiste, quello che è stato scritto ed immaginato è vero. Nei secoli passati ed in questo tempo indefinito in cui mi trovo, e anche in quel prima che ho gettato, a causa della gravità di quel passo col piede destro, all’indietro. Ed io vedevo il compendio dei due mondi, quello razionale e quello immaginifico, davanti a me. Tutto esiste. Il destino mi aveva concesso di osservare la Bellezza mentre camminava assorta rispetto tutti i mondi che io vedevo in quel frangente, il viso, fuori da ogni umana concezione, sembrava dire: ‘I’m not there’. Ultraterrena e leggera, l’ho vista, tutto questo ho visto, in un tempo fuori dalle cose, eppure è stato un lampo, io pensai tutto questo e lei si voltò sul mio viso. Quel tempo dilatato si era contratto e sembrò appena trascorso un nanosecondo dall’attimo in cui feci quel passo. Non tornai più nella New York che conoscevo, forse nemmeno a guardare il mondo con il filtro di prima. Tutto a causa di una voragine, una pozzanghera, specchio d’acqua, di pioggia e di infinito.

Parole: Valeria Pierini.Immagine: Valeria Pierini.Brano: “I saw her face”, The Men.

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10. HYDROPHOBIASOMETHING MUST BREAKL’estate dell’anno bisestile divampa persino e forse all’estremo nella periferia di provincia, incendiando l’asfalto recente dell’extraurbana che strangola la chiesa. A stento lacero il bozzolo asfissiante della polvere del sagrato facendomi strada verso l’entrata, che accoglie ombrosa come un utero spalancato il formicaio di figure silenti a cui perfettamente si addice oggi la nera divisa di sempre. Mi allineo alle pareti quasi sperando che mi risucchino, che io sparisca assorbita dall’intonaco marcio. Ma la folla è un magma che preme e dirama i suoi rivoli di carne, rigettandomi riluttante e attonita fra le file mute delle panche.È un ronzio sordo la voce del prete, uno sciabordio di palude quasi inaudibile, su cui si involano frastornati i pensieri di tutti. Incuranti della bara, i nostri occhi affamati come buchi neri cercano solo la grande foto da divo che la sovrasta, in cui tu sembri allontanarti ostentando distacco, serrando appena la mascella contro gli zigomi affilati come in un’ultima affermazione d’esistenza. Stordita dall’afa e dalle inani pratiche del culto, conficco lo sguardo nell’immagine ipnotica: ripercorro il tracciato così familiare del volto, ricompongo la fibra della pelle e il movimento sottile dei tendini, la vibrazione nascosta che affiora nervosa dalle linee del collo. Il tuo corpo prostrato dagli eccessi, dalle cicatrici e dalle bruciature di sigaretta somministrate quale doverosa pratica adolescenziale, logorato dall’ansia e dall’abbandono, infiacchito dal lavoro estenuante e dall’insonnia, il tuo corpo ha ceduto e ha sancito il mistero per tutti.

I REMEMBER WHEN WE WERE YOUNGL’intera notte vomito la mia frustrazione, reclamo risposte riversa nel bagno intenta nella divinazione dei fondi del cesso. E mentre l’estate cola fin dentro settembre deglutisco i giorni ingoiando rum, collezionando lettere inchiodate agli anni andati scruto tracce del crimine autoinflitto ed espello il senso di colpa, trasudando condanna verso i fulgidi esempi a cui sempre hai guardato, che sempre hai invocato a salvare la tua esistenza dalla mediocrità. Processo l’immaginario occultando le nostre scelte, atterrita dal fardello del fallimento della missione di salvezza, dal peso che ben più grande sovrasta chi per te ha saputo esserci sempre. Io incolpo la legittimazione e

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l’autocompiacimento, condanno i nostri anni al filo spinato, crocifiggendo i nostri amplessi disperati e le nostre dichiarazioni d’amore impossibili. Rinnegare la musica e i sogni, erigere altari ai grandi suicidi come se centinaia di dischi potessero nobilitare la tua stupida morte.Lo stomaco assorbe i giorni suppurando impotenza, e il dolore dilata le ore sventrate in solitudine. La mia stanza viene eletta a teatro autoptico in cui dilaniare ciò che resta: il ricordo e la muta presenza, l’odore lontano e l’ombra del contatto. Sul giradischi il sole nero artificiale segna una nuova nozione di tempo per le mie giornate, abbandonata sul pavimento contro la parete. Le altre persone continuano a vivere nell’estate che spira, mentre io continuo a interrogare i miei morti.

TOUCHING FROM A DISTANCESi illude la gente di poter annacquare la violenza nelle parole comuni, che si moltiplicano nei giorni come una prole sfornata e subito negletta, di eludere l’orrore collezionando esperienze e accumulando condivisione: l’inganno durevole impone alla perdita di farsi leggera se frazionata ed equamente distribuita, di rimpinguare le preziose riserve di saggezza, foriere della lucidità e del controllo necessari a fronteggiare le tragedie a venire. Ma io coltivo un lutto solitario, perché so che la dignità del dolore esige che sia preservato dalla dispersione. Mi espongo tenace alla memoria più vivida e mi sfianco nel riesumare i resti di momenti necrotizzati. Sottopongo a dissezione la tua vita in ogni sua parte e convoco nel mio proscenio mentale ciascun istante uno ad uno, nella replica incessante di quanto oramai si dilegua inconsistente.La costante e deliberata frequentazione della mancanza irrigidisce il mio corpo, che mostra la sua rivolta in spasmi notturni e singhiozzi convulsi. Contraggo il volto verso l’alba impertinente alle cinquecinquantadue, gli occhi si lanciano paralleli nel buio come autostrade imboccate al contrario, lo sterno schiaccia gli organi interni, è una pietra tombale. Mi trascino nel presagio d’autunno congedando noi che siamo stati giovani e ci siamo amati, osservando l’anatomia mutilata del mio corpo che patisce un’assenza. La cicatrice lunga pochi centimetri incisa sul mio polso destro, che hai lasciato come suggello di eterno amore e imperitura fratellanza, saluta ogni giorno in cui continuo a essere viva. Era questo, in fondo, quello che volevi?

Parole: Angie BackToMono.Immagine: Alessandro Pagni.Brano: “Hydrophobia”, Simona Gretchen.

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11. THE NIGHT APOLLO DIED

Dopo che abbiamo litigato, ho guidato come un pazzo per raggiungere casa mia e nell'aprire la porta, mi sono sentito come Rocky nella notte in cui Apollo muore. Mi ci è venuto da ridere. È stato come entrare in camera mia nel 1987. Di fronte al letto avevo il poster di Stallone con i pantaloncini a stelle e strisce ed i pugni al cielo, abbandonato da qualche parte, quel tentativo fallimentare di scrivere Iron Maiden sulla tasca gialla dell'Invicta, chiuso a preservare il diario, scrigno delle nascenti e già tremende pulsioni dell'adolescente me. Allora mi sono sdraiato sul letto a fissare il soffitto, sentendomi di nuovo quell'incontenibile tumulto. Ci sono stato per ore. Ci ho visto l'infinito. Mi devo essere addormentato, sprofondato in un sogno che sembrava vero. Fumavo una sigaretta ed il vento mi rubava il fiato, avrei dovuto vederti al campino da calcio ma una volta giunto, tu non c'eri. La tua amica mi ha chiamato per darmi una lettera, che ho letto quando se n'è andata, con quella faccia mesta. Si è fermato il vento, il pallone è rimasto sospeso e nessuno si è mosso per un periodo indefinito, poi sono corso a casa. Mi sono sdraiato sullo stesso letto dal quale mi sono risvegliato oggi. Ho guardato lo stesso soffitto. Ho cercato di contenere qualcosa che mi faceva bruciare lo stomaco e

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gli occhi, poi sono esploso. Quando mi sono alzato, ho pensato: la prossima volta andrà meglio. La prossima volta.

Parole: Simone Stefanini.Immagine: Penny Lane.Brano: “The night Apollo died”, Small Giant.

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12. FALENE ALLA LAMPADA BLU

Siamo qui, Lo Zoppo ed io, come accade da due anni a questa parte. Lo Zoppo non è veramente tale: ha finto di essere invalido, falsificando il proprio incedere e i propri documenti, per avere più possibilità di ottenere questo lavoro. È basso, questo sì, ma del resto l'elenco dei requisiti fondamentali prevedeva che lo fosse. E a me piace esattamente così. Ci incontriamo tutte le sere quando i cancelli sono chiusi. Quando anche l'ultimo fuoco d'artificio esplode, relegando questo posto ad un insolito ed ingannevole silenzio. Dio solo sa quante volte ho pensato che anche la mia testa potesse scoppiare, durante quello che chiamano “il consueto saluto trionfale”.Ma ogni volta Lo Zoppo mi stringe, ed io dimentico ogni dettaglio, compresa l'emicrania lacerante che mi accompagna sin dalla prima volta che ho messo piede qui. Sono venuta a vivere a Fairytale più o meno quattro anni fa. Ma vivere è un concetto molto lontano da ciò che succede tra queste mura. Non che le mie aspettative fossero molto diverse. Quando andai via di casa, non portai via con me i vestiti buoni. Non mi lavai nemmeno la faccia, e lasciai i capelli in disordine. Eppure sentivo ancora su di me il peso di quell'ossessione, a causa della quale a nulla valevano i miei sforzi per dimostrare agli altri e a me stessa che la mia esistenza era meritevole di una qualche attenzione più profonda

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rispetto a quelle che mi venivano dispensate. Non che mi mancassero gli occhi puntati addosso. E il problema era esattamente quello.Sin da bambina, ero talmente bella che i miei genitori pensarono immediatamente che nella vita non avrei dovuto compiere la benché minima fatica. Che gli insegnanti all'università mi avrebbero sempre promossa con ottimi voti, che sarei sempre piaciuta agli amici, che mi sarebbe bastato sbattere le ciglia e ondeggiare sui fianchi per ottenere un eccellente posto di lavoro.La mia bellezza diventò ben presto un vestito troppo pesante perché io potessi indossarlo con disinvoltura. La tramutai in pillole che mi servivano a dormire bene la notte, e a calmarmi quando ero agitata, quando le pareti della mia testa diventavano amplificatori di una confusione indicibile, eppure sistematica e ronzante, uno sciame di elicotteri, sirene e macchine in corsa a schiantarsi contro la notte. Ne presi congedo come si fa col servizio militare nei giorni di festa, eppure nemmeno le azioni più drastiche mi misero al riparo dai suoi tentacoli dorati. Consegnai il mio curriculum e le mie ottime referenze presso ogni bettola disposta a darmi un posto da lavapiatti, lavapavimenti, qualsiasi mansione per cui il mio aspetto non influisse sull'approvazione della mia candidatura. Quando leggevano i miei titoli, e quando mi guardavano, mi sorridevano perplessi, e mi mandavano via con un divertito “Le faremo sapere”. Dopo aver vagato a lungo, mi presentai a Fairytale. Non avevo una chiara di idea di quello che sarei andata a fare. Negli uffici direzionali si sentiva un fortissimo odore di smalto e di zucchero filato. “Leggo che lei ambisce al posto di donna delle pulizie. Ma abbiamo già preso una rumena. Ho in mente un altro compito per lei, più adeguato alla sua grazia.” mi disse l'amministratore.

Ad oggi rivesto la carica di Principessa Uno, la cui figura è liberamente ispirata a quella di Biancaneve, e coordino le lunghe passeggiate delle altre Principesse tra i vicoli artificiali dell'immenso parco dei divertimenti. Con nessuna di loro vado d'accordo. Se voi poteste immaginare quanto astio scorre nei nostri sorrisi fasulli, forse non portereste i vostri bambini a giocare qui. Dormiamo nel grande prefabbricato a forma di Castello Incantato, e non usciamo mai, perché le direttive aziendali non lo prevedono. Divido la stanza con Principessa Cinque, una cocainomane madre di tre gemelli avuti a sedici anni e poi lasciarti marcire in un istituto. Di tanto in tanto manda loro dei soldi. La notte russa così forte che spesso nemmeno i calmanti riescono ad aiutarmi a dormire.

Incontro Lo Zoppo quando tutti sono andati a letto, e della parata regale delle guardie non rimane alcuna traccia. Le guardie sono le ultime a ritirarsi nel prefabbricato, ormai del tutto calate nel ruolo a loro destinato nell'universo parallelo di Fairytale. Ci amiamo teneramente contro le recinzioni color vaniglia del Bosco delle Fate, radura di verde

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posticcio che attraversiamo di giorno, quando Lo Zoppo svolge con serietà e perizia il suo lavoro di Nano Musico nel reparto affidato alla mia tutela. Non so molto di lui, non ho mai chiesto il suo nome, ma pare sia un truffatore scampato al suo destino proprio con la storia dell'invalidità. Quando la sua bocca impavida rovescia il suo ardore sul mio incarnato pallido, la mia testa smette di esplodere, e il mio corpo, dopo lunghi tumulti, trova finalmente pace. Lo Zoppo non mi ha mai detto che sono bella, e di questo gli sono infinitamente grata.

Ma stasera io e Lo Zoppo ci siamo spinti oltre il confine occidentale del nostro Reparto, fino al Galeone dei Pirati, nell'area più remota del parco giochi. Nessuno di noi accenna a ciò che è accaduto nella mattinata, ma è evidente che entrambi ci stiamo pensando.

A mezzogiorno in punto, poco prima della parata delle maschere, l'Amministratore ha chiamato tutti i dipendenti nel suo ufficio. Nessuno mancava all'appello - i Corsari, scapestrata combriccola dedita alle bische clandestine. Principessa Due, malata di una forma di cleptomania limitata al furto di caramelle ai bambini. Supergnomo, la mascotte del parco, costretto a trascorrere diciotto ore al giorno in un costume integrale di gommapiuma all'interno del quale piange copiose lacrime pensando ai suoi figli prematuramente scomparsi. E via dicendo. Le cose che so non me le hanno raccontate loro, no. Qui a Fairytale nessuno parla con nessuno. Io parlo solo con Lo Zoppo, e nemmeno troppo a dire il vero, e con Lacrima.

Lacrima è la strega del reparto dei Colli Fioriti. È vecchia che sembra avere cent'anni, e ha un orribile sfregio sul volto che non sa confondersi con gli innumerevoli solchi che il tempo ha disegnato. Eppure i bambini non hanno paura di lei: le si avvicinano spavaldi come falene alla lampada blu. Lei si infastidisce, spaventata da ogni contatto, e li scaccia agitando il lungo bastone di faggio, cantilenando un anatema che invoca il potere di pianti e di lame contro quei ragazzini insolenti. È lei che mi racconta la vita precedente di chiunque, qui dentro. Come faccia a sapere tutte queste cose, è un mistero. Mi ha parlato una volta di quando era giovane, di quanto fosse innamorata di un uomo che scrisse per lei la canzone che nasconde il segreto del suo nome.

La aria greve e circospetta dell'amministratore non preannunciava nulla di buono. Ci ha detto che sì, il bilancio aziendale andava bene, ma non benissimo. E che suo malgrado ci sarebbero stati tagli al personale. Secondo i suoi calcoli, una ventina di lavoratori avrebbero dovuto abbandonare i confortevoli alloggi di Fairytale andando a cercare fortuna altrove. Ma la sua estrema magnanimità gli impediva di decretare la sorte di quegli sventurati.

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“È per questo che non sarò io a decidere. Nominerò in separata sede, tra voi, due ausiliari, i cui nomi resteranno segreti, che mi aiuteranno a capire chi, tra voi, non adempie in maniera perfetta ai suoi compiti, meritando più di altri di allontanarsi dalla nostra ridente comunità.”

Due ausiliari. Come dire: due talpe. Due infami. Non sappiamo nemmeno quando l'amministratore li sceglierà.Potrei svegliarmi domani, essere convocata nel suo ufficio. E potrei essere io.

Non so se sia più orribile questo pensiero, o il fatto che Lo Zoppo potrebbe sospettare di me. O se l'aspetto peggiore sia piuttosto il fatto che per quanto ne so, Lo Zoppo stesso potrebbe tradirmi. Se fossimo nominati entrambi per questo ingrato compito, saremmo salvi. Ma non ne sono nemmeno così certa.

Eppure desidero andare via da questo posto dal giorno stesso in cui vi ho messo piede. Da quando ho firmato quel contratto arresa alla consapevolezza che non sarei mai riuscita a sfuggire al mio aspetto. Mi domando dunque, mentre la lingua ruvida dello Zoppo incontra la mia, se questa orrenda possibilità costituisca in realtà una speranza di fuga. Forse potremmo appropriarci nuovamente dei nostri nomi e vivere una vita vera.

Mi sorprendo a pensare che sarebbe bello se Lo Zoppo venisse con me. Ma non oserei chiederglielo. E andrei via sola.

Mi sono sempre augurata che qualcosa di buono potesse allontanarmi da Fairytale. Fino a quando mi sono rassegnata, smettendo di guardare oltre i cancelli, e portando avanti il mio lavoro con determinazione cieca, io, la Principessa Uno, temuto capo del reparto Principesse. E pensando al mio futuro, immaginavo – all'avvento della prima ruga sul mio viso – una altrettanto rispettabile carriera nel settore Streghe: è così che vanno le cose.

Riemergo dal groviglio delle mie riflessioni quando Lo Zoppo mi dice: “Hai il sapore della ciliegia”. La prima affermazione di stampo vagamente romantico di sempre. Mi saluta biascicando: “A domani, piccola Uno.”

Addormento il mio corpo stanco sulle lenzuola color vaniglia della mia stanza nuda. Principessa Cinque russa più che mai. Vorrei soffocarla col mio cuscino. Tagli sul personale. Quando mi sveglio trovo un biglietto sul comodino. Sulla carta increspata e giallastra svolazzano parole d'inchiostro in

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un messaggio a cui penserò per tutto il tempo a venire.

È mattina, il tempo è scandito come sempre dall'assetto marziale delle sfilate, dagli orari cadenzati che penetrano sin nei nostri passi. Gli sguardi di sospetto moltiplicano le paure in un gioco di specchi più grande e magnifico di quello della Reggia dell'Illusionista, e di tutte le altre attrazioni. L'unica a non mostrare sgomento evidente è Lacrima. Si aggira nel parco trascinando con sé il paradosso austero della sua camminata inelegante. Scaccia i visitatori con il bastone continuando a cantare quelle parole che non capisco del tutto.

Siamo tutti aggrappati alla stessa domanda: “Chi sarà la talpa?”

Se anche fossi io, l'ulteriore infame potrebbe segnalare il mio nome. Non sono più certa che sia quello che voglio. Ma nel dubbio, oggi ho lasciato le caviglie scoperte.

Ogni Principessa che si rispetti sa che nessuna parte del corpo va mostrata, se non il viso. Ogni centimetro di pelle dev'essere adeguatamente coperto. Lo sa bene Principessa Otto, la cui epidermide racconta orride ustioni in qualsiasi punto, eccezion fatta per il suo volto etereo e perfetto.

Se l'infame mi vedrà, riporterà il mio comportamento scorretto. Ed io sarò finalmente libera. Non so cosa me ne farò di questa sensazione sconosciuta. Lo Zoppo mi saluterà dicendomi: “Arrivederci, piccola Uno”, e saprà lui stesso di aver detto una bugia.

Ed io gli dirò: “Mi chiamo Anna.”E sarà la prima volta che pronuncerò il mio nome.

(Questo racconto non è ancora terminato, e probabilmente non lo sarà mai. Ma scrivere questo pezzetino è stato bello.)

Parole: Roberta D'Orazio.Immagine: Agnese Casolani.Brano:

− “Lacrime e rasoi”, Aut Aut (Umberto Palazzo)− “Quagga”, Xiu Xiu

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13. IL SOGNO, L'ADDIO

Un altro risveglio ti accoglie,ti senti intorpidito e fai fatica ad alzarti dal letto,le immagini affiorano improvvisamente nella tua testa.Trasparenti, flebili, intermittenti.Provi a concentrarti e a ricordare,a riordinare i vari pezzi del rompicapo, così da poter capire che cosa hai sognato.Il sogno, credi di sapere cosa sono i sogni...La verità è che quelle immagini confuse non sono altro che un errore.Sono rimaste dentro di te grazie al mancato tentativo della tua mente di cancellarlenell'intento di salvare il tuo nuovo corpo dalla follia e dal declino.Sì, la tua anima viaggia da un corpo a un altro ogni qualvolta essi muoiono.Si nutre di vita e si oppone alla morte.Arduo da comprendere per la tua mente.Lei non è in grado di sopportare la vita eterna.

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Ad ogni tuo risveglio, se così si può chiamare, semplicemente cerca di annientare tutta quell'informazione che non potrebbe sostenere.Ma, non essendo perfetta, qualche volta, fallisce nel suo intento.E' così che è nata la parola sogno, perché la mente non demorde nell'eternaricerca di una spiegazione, una risposta.Il sogno non esiste.Il viaggio esiste. La vita esiste. La tua anima esiste.L'addio esiste.

Parole: LorElle.Immagine: LorElle.Brano: “Il sogno, l'addio”, Tiresia.

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14. LONTANI DA DISTOPIA. LA MIA CITTÀ SULLA TUA PELLE

Costruirò la mia città sulla tua pelle perché siano chiari i confini che la dividono dal nero attorno – dal rumore dei tram, dai mostri di amianto che graffiano ricordi, dalla folla che scalpita per schiantarsi nel primo vuoto che incontra – per questo costruirò la mia città sulla tua pelle, perché sia fatta di aria e di luce.Poserò la prima pietra sul tuo ventre, piano, per non farti male, e sarà la piazza in cui ci incontreremo, quella tua piccola pancia con i tavolini dei bar, e i lampioni accesi, voci amichevoli e le solite lamentele di quel vecchio ubriacone che conosciamo da sempre. E mi vedrai goffo, e imbarazzato, a inciampare nelle tue smagliature come fossero varchi che il tempo apre sui sampietrini, e non un punto di te prescinderà dal tuo ventre: i tuoi tunnel sotterranei e sanguigni che riversano energia rossa e le strade – gambe e braccia con cui ti estendi verso le tue dita, periferia affluente. E non avremo mostri d’amianto, non mangeremo memoria in cambio di luci schizofreniche: le tue dita sanno, da sole, scostare il cemento.Verrò ad abitarti quando è sera tardi e ti cadono stelle dagli occhi per il sonno. Chiederò rifugio al tuo viso – le grandi finestre azzurre spalancate su un mondo piccolo e immenso, e la tua bocca,

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piccola botola che conduce alla vecchia cantina del tuo stomaco, dov’è umido ma posso restare quando sono triste e stanco.Ed esploderò di gioia quando il tuo ventre edificherà la cupola di una cattedrale ed io, là dentro, sarò tuo figlio e mi racconterai una favola di antica memoria. E non saprò se sarai tu mia madre, la mia amante o la mia città, se io ti abbia creato o tu abbia creato me o se, in fondo, non ci sia differenza tra l'una e l'altra cosa.

Parole: Roberta D'Orazio.Immagine:

− Fotografia: Walter Trabucco / WM Studio− Disegno: Millo

Brano: “Pance”, Albedo.

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CREDITS E PENSIERI AGGIUNTIVIVoglio ringraziare ovviamente i Blankform, e Yuri, inconsapevole protagonista della mia fotografia. (Anna G Gala)

Ringrazio DaviScabbier e Gaetano. (Angie BackToMono)

“Remember to remember (Spring Version)”, Jester At WorkTesto e musica di Antonio Vitale.Antonio Vitale: voce, chitarra acustica.Alessio D'Onofrio: chitarra elettrica.Molecola: organo.Registrato su 4 tracce a cassette da Antonio Vitale. Registrazioni addizionali e missaggio a cura di Molecola.

A te che hai ispirato questo racconto senza saperlo, alle emozioni che hai regalato sempre taciute, alla mancanza che non vedi ma che avverti, alle canzoni che accompagnano ogni singolo momento e alle tue, alla tana vuota e Roma, dove ho immaginato il tutto, agli amici, ai mood e Pipo per aver racchiuso le stesse emozioni in contenitori diversi, e a te che leggi e indossi i nostri vestiti per 3 minuti. (Nadia Vecchio)

Ringrazio Carmilla e il segreto dei ciliegi ed in particolare Giuliana. Un grazie ad Annibale Sepe che si è occupato della parte fotografica di questo progetto e Massimiliano Santosuosso a cui dedico questa frase: ... dentro a una vertigine che danza e ci porta al di là del tempo fino a ritornare sulle labbra l'incanto è lo stesso e tu sei... ...dentro a una vertigine che danza e ci porta al di là del tempo ...dentro a una vertigine che danza e ci porta al di là del tempo... (Laura Serluca)

Grazie a Zaelia Bishop e Marco Marzuoli perché sono rispettivamente la causa e la fine di questo lavoro. Grazie a Sacred Bones nella figura di Caleb. (Valeria Pierini)

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A mia figlia Luna, mia unica vera opera d'arte, nata da me e dalla quale sono nata risorgendo a nuova vita, guidata dal più splendente tra i fari nella notte. A Luca, terra stabile su cui il mio cuore burrascoso trova rifugio dopo anni di terribili tempeste. A Sara Barile, Walter Trabucco e Millo per la mattinata bellissima che abbiamo trascorso al mare. “Lontani da Distopia” è stato originariamente scritto per uno spettacolo dei Teatri Offesi ma ha trovato collocazione ideale tra le note di “Pance” degli Albedo, per la cui concessione ringrazio V4V. Ad Agnese Casolani perché è bravissima. A Jamie Stewart , interprete negli anni della mia adolescenza di tutti i miei disturbi emotivi: se mi avessero detto che un giorno avrebbe risposto “Of course!” a una mia proposta di collaborazione non ci avrei mai creduto: “Quagga” è la sonorizzazione perfetta dei rumori nella testa della Principessa Uno. Ad Umberto Palazzo, per aver tirato fuori dal cassetto delle sue meraviglie un pezzo così bello e averlo regalato a me, ispirando il personaggio di Lacrima, che rappresenta la verità. Alle persone che amo, non molte ma incredibilmente perfette. (Roberta D'Orazio)

Mola Mola webzine ringrazia, oltre agli artisti partecipanti tutti, i propri collaboratori, quelli attivi e quelli che lo sono stati, contribuendo ai nostri piccoli sogni:. Nello specifico, queste persone sono: Davide Di Gesualdo, Valeria Pierini, Nadia Vecchio, Angie BacktoMono, Penny Lane, Lucio Carbonelli, Alessio Basile, Molecola, Anna Elettra, Il Conigliastro, Anna 'G' Gala, Francesco de Lisio, Fabio Zavatta, Jacopo Serotti, Danilo Felix Di Feliciantonio, Sara Basciani, Marco Vignali, Laura Serluca, Luca Buonaguidi, Stefano D'Elia, Guglielmo Perfetti, Viola Fuffa Clematis, Emy Kjgfsdr, Stefania Ferrante Graphic, Giacomo Gianfreda, Noam Arp, Jessica Pignatti, Francesco De Rosa, Simona Zicoski, Martina Matarrelli, Michele Kruisinga, Fabio Lucca, Michele Montagano, Alessandro Vigliani.

Sito web: www.molamola.itContatti: [email protected] / [email protected]: www.facebook.com/molamolawebzineBandcamp: molamola-webzine.bandcamp.com

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