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Mimmo Gerratana che per tornare all'aperto picchia contro il vetro della finestra e ronza ronza ronza. Il bambino smette di colpo di scrivere sul quaderno e lo abbandona su un tappeto

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Mimmo Gerratana

Qualcosa di rossoBrevi prose

Prodotto in proprio

In copertina: elaborazione, con un'immagine di Lev Trockij, da “Selbstakt – Studie zur Sema Mappe”, di Egon Schiele (1912)

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Mi lasciai prendere dai nervi, mi chiusi in me stesso e mi tagliai un dito con una lattina di pomodori pelati. E diventai tutto rosso, mi dimenticai dov'ero, cos'ero e cosa facevo - e ancora adesso ho qualche vuoto di memoria. Così lasciai fare al sangue e mi ritirai in un angolo - qualcuno mi chiamò, mi tirò per un braccio, credo che mi fece perdere i sensi - e mi inventai un paesaggio rosso con fiorellini viola, marmitte di macchine sparse su dune di sabbia lucidissima e odore di merda di cavallo. Non mi risvegliai mai più.

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Ecco. Esce appena di casa e incontra gente di tutti i colori. Si raddrizza la cravatta a farfalla sul collo della camicia bianca, fruga nella borsetta in cerca di penne biro, si gratta una coscia attraverso la stoffa dei pantaloni con la punta acuminata di un indice. La luce della città l'acceca per un attimo. Passa una macchina e lo sventolio dell'aria culla i suoi occhi illanguiditi dalla vista fugace di un polso nudo. Quando scambia in banca un assegno da tremila lire nessuno si sogna di chiedere spiegazioni. Fuori il semaforo è rosso. Torna a casa senza una parola.

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C'è gente che aspetta, sbircia attraverso lo spiraglio di una porta socchiusa, passeggia avanti e indietro con le mani in tasca. Il ticchettio di una tastiera di computer riempie le pieghe dello spazio-tempo, lo strascicare di pantofole assorda e atterrisce i più sensibili. Qualcuno accende una luce e gli animi finalmente si rasserenano: c'è chi finge di dare pacche sulle spalle del vicino e chi si avvicina agli angoli per ritrovare segni delle conversazioni di prima. I più timidi accennano passi di foxtrot, ma si interrompono quando una voce dall'altoparlante comincia ad elencare cognomi in ordine alfabetico. L'aria vibra di fiati a lungo trattenuti. La voce pronuncia l'ultimo cognome e svanisce di colpo. Dal soffitto cominciano a cadere gocce d'acqua e la gente cerca di raccoglierla con le mani a coppa per non lasciarne cadere sul pavimento nemmeno una molecola. Fa orrore a tutti il tonfo dei piedi nudi sulle piastrelle di ceramica.

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Comincia con un cerchio alla testa e poi diventa vera e propria intolleranza, rabbia perenne, insofferenza ad ogni contrattempo. Dopo aver cambiato venticinque volte fede politica e partito, la testa ha bisogno di una boccata d'ansia e si lascia cadere su un cuscino con vista su tutta la città. Nella stanza c'è un angolo buio dove un visitatore vecchio di anni ha dimenticato di smettere di parlare, si risistema continuamente i vestiti laceri, chiede a gran voce un paio di scarpe nuove. La testa ogni tanto si ferma per starlo a sentire, ma poi alla tv le trasmissioni s'interrompono e tutto ritorna come prima.

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Te lo avrei detto che ti amavo se non si fosse spenta la sigaretta, lasciando le dita a fumarsi da sole. Te lo avrei detto se avessi potuto toccarti le mani prima di mettermi fra i denti una cucchiaiata di minestra. Non c'è un secondo da perdere: spogliami e mettimi biancheria pulita, lavami i denti, fammi lo shampoo. Te lo avrei detto ma puoi indovinarlo. Ma soprattutto non devi fare rumore, mi distrai. Soprattutto la sera dobbiamo tornare presto a casa, se no la troviamo occupata, le pareti si macchiano, i pavimenti s'insudiciano. Te lo avrei detto ma sai anche questo. Ogni rumore trascina con sé un mazzo umido di amabili conversazioni sul divano del soggiorno. E tu lo sai che non me lo posso permettere.

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Addosso avevo qualcosa di rosso quando suonò il telefono e decisi di cambiare casa. Ebbi il tempo di alzare il ricevitore, sentire tenere banalità fra due adolescenti e una sirena passare sotto la finestra, che mi venne il desiderio di fare le smorfie alla mia immagine che mi guardava dall'altro lato dello specchio. Ma riuscii a cancellare lo specchio e in quel momento un turbine di cose da fare mi entrò nella mente facendo capriole. Molti passanti avevano i capelli grigi e le barbe brizzolate, donne venivano avanti lungo i marciapiedi con i seni che cascavano. Si fece sera e immaginai un coltello da cucina lucido e ben affilato. Suonò ancora il telefono e si sciolse il nodo di una scarpa. La città, sotto, si affannava a costruire i suoi abituali rumori. Decisi di lasciare andare i minuti da soli. Almeno per un po', almeno per quella volta. Avevo voglia di opere di bene.

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E disegnò con un dito le sue prossime decisioni. Cioè, fece un passo dopo l'altro, sperò in una giornata di sole, si comprò una rivista a fumetti, si lasciò ubriacare di spiegazioni tecniche da un amico col pallino dell'elettronica. Intanto le grandi ideologie del secolo cadevano a una a una accanto alla moto di un vigile urbano con la divisa sbottonata. A mescolare speranze a breve termine, macchie sui jeans, citazioni da libri di storia e scene di film polizieschi ci pensarono subito dopo la pioggia e il fango. E qualcuno là vicino rubava.

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All'improvviso si sorprende a dire a se stesso: non sono pronto per andare in Africa. Cos'è, si risponde dopo un po', un segno di consapevolezza geopolitica? No, è un vago sapore di noccioline rimasto chissà come in bocca. Ali trasparenti si chiudono intorno a un ventre esasperato di carezze, e una luna gonfia di umidità si dondola pericolosamente sopra una strada intasata, un accendino da mille lire che da mesi non sbaglia un colpo. Non ci credeva che i soldati sarebbero partiti e avrebbero lasciato fermi sui marciapiedi tutti gli stranieri. Seduto sul balcone ha mal di pancia e gli vengono rutti continui. Eppure...

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Dalle piante dei piedi sale lentamente l'esigenza di accendere la lampada che pende dal soffitto stellato. Ma da ogni stella dell'intonaco gocciolano con lentezza esasperante scaglie di propellente solido per missili. Accanto, un bambino scrive sul suo quaderno con calligrafia tonda tonda: se il cielo non è sereno, allora è giallo; se la tigre non è sazia, allora è ape. La mamma si trucca le punte degli alluci, gonfia il petto, va a fare la spesa col suo autotreno. Io sto seduto al tavolo di cucina morto di sonno. Pure, sento che dopo tutto dovrei tentare di scoprire da dove viene la fuliggine che si posa a strati compatti sul pavimento del balcone. Le calze sporche, penso, vanno posate con calma, a una a una, nel cestello della lavatrice. Il caffè gorgoglia sottovoce nella macchinetta. Quindi, se il fuoco non è acceso allora è una vespa che per tornare all'aperto picchia contro il vetro della finestra e ronza ronza ronza. Il bambino smette di colpo di scrivere sul quaderno e lo abbandona su un tappeto a rossi disegni navajo. Un cane smette di abbaiare. Il giornale comincia a urlare fra le dita della mamma: si avvertono diffuse carenze d'affetto.

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C'era pure, credo, una ragazzina con centinaia di sorrisi pronti fra i denti. Ma soffriva perché indovinava sempre in anticipo le risposte alle sue domande. Allora si chiudeva nella sua stanza, piegava fogli di giornale per farsene cappelli e cambiava tutta la tappezzeria nel giro di un'ora. Dopo era difficile riuscire a farla stare zitta. Più tardi, nel bel mezzo di una violenta lite pomeridiana, il balcone della cucina fu spalancato all'improvviso da un colpo di vento, e tutti si abbracciarono e si scambiarono baci sulle guance. Qualcuno corse ad accendere la radio.

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Io, sento dire a uno, non guardo mai né a destra né a sinistra quando attraverso la strada: mi aspetto sempre un pezzo di cornicione in testa. Io invece lascio lampeggiare occhiate in tutte le direzioni e un attimo dopo cado in letargo. Un immenso corteo ci oltrepassa in una folata di vento: donne, uomini, vecchi, bambini, giovani, cani al guinzaglio, piccioni in spalla. Grandi striscioni rossi contro tutto e tutti, perfino contro di me, che ho gli occhi che pesano quintali. Dopo il corteo la primavera, il risveglio. Dove è passata la folla si fa strada il letto di un fiume impetuoso, e mentre torno a casa rischio più volte di precipitarvi dentro.

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Di fronte c'è la distesa grigia del mare, sopra un cielo altrettanto grigio e a destra il disco rosso del sole che sta appena emergendo. Coi piedi in bilico sui cubi frangiflutti, una ragazza completamente nuda si accarezza i seni e annusa l'aria salata fino a sentirsi soffocare. E' nuda, ma i pochi passanti non ci fanno caso, la guardano appena attraverso i finestrini chiusi. La ragazza saltella sugli spigoli dei blocchi di cemento e improvvisa un defilé mostrando con disinvoltura la pelle e i ciuffi di peli sul pube e sotto le ascelle. Un clacson. Una frenata brusca. Un fragore di metallo. Lamenti di feriti. La ragazza si copre come può il petto e il bassoventre.

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Un do di petto. Un assordante, paralizzante do di petto esce da una finestra dell'albergo di fronte. Dietro la finestra la faccia di un giapponese e il maglione rosso del tenore che si esercita. Ma l'altro di fronte non ne può più e si avvicina stancamente a una scrivania, apre il primo cassetto, tira fuori una vecchia Colt, la olia, la lucida, la carica e si avvia verso il balcone. Prende la mira sul petto del giapponese attraverso la fessura fra le imposte semiaperte e fa fuoco. Ma dopo una frazione di secondo sente a pochi millimetri da un orecchio il sibilo della pallottola che ritorna. Il do di petto comunque si è interrotto. Lui osserva scivolare via la pistola da una mano e si riavvia i capelli con l'altra. Non succede più nulla. Sente solo che a poco a poco si sta dissolvendo.

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La pioggia che picchietta sui vetri dà lezioni di geografia ai sentimenti. Un colpo di tosse programmato con anticipo sale su attraverso la gola, e ognuno si volta dal proprio lato. Muscoli che fanno male, ossa pressappoco stanche. Idee che si sciolgono sui muri. Rutti acidi. Aspirina. Bisogna fare chilometri per conquistare un bicchiere d'acqua. Ogni movimento brusco stacca pezzi di intonaco dai muri, scaraventa macchine l'una contro l'altra. E non c'è quasi differenza fra il pensare e l'essere pensati. E un manico di scopa vibra nell'angolo dove sta appoggiato da tante ore. Un teorema. Non c'è risposta? Basta così.

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Sono tre. Entrano da una finestra, frugano nelle stanze, nei cassetti, perfino nella pattumiera. In cucina aprono scatolette di tonno sottolio, stappano una bottiglia di vino rosso, mangiano, bevono. Quindi si gettano vestiti sul grande letto matrimoniale. Si svegliano dopo un paio d'ore, ben riposati, si avviano verso la porta d'ingresso ed escono sparendo a piedi per una stradina non asfaltata. L'anno seguente sbucano all'altro capo della viuzza, si riconoscono appena, sentono crampi allo stomaco, si guardano continuamente intorno. Il buio s'impietosisce e li inghiotte.

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La bruna ha capelli corti e denti ingrigiti dal fumo, cammina ancheggiando e spende continuamente soldi per chewingum, coca-cola e patatine fritte. Veste preferibilmente di nero. Al giovane muscoloso ma snello che la sta ascoltando evoca visioni d'oppio: lo inonda di seduzioni che lui fatica a scacciare via con larghi gesti delle braccia. Anche lui però ha il sedere un po' sporgente, e lei cerca di sbirciare proprio lì nelle poche parentesi in cui lo lascia parlare. Ma poi esauriscono tutti gli argomenti e il soffitto del bar comincia a incombere minaccioso sulle loro teste ricciute. La mano tesa di uno zingaro che chiede l'elemosina finisce per lasciarli ambedue tramortiti.

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Dentro di me ho pareti completamente bianche. Non riesce a colorarle nemmeno il succo di pesca che trangugio con avidità da più di sei ore. Ho un cerotto sull'indice della mano destra e un altro alla tempia sinistra. Da qualche mese dormo poco, ma in compenso sono diventato goloso di dolci e alla tv insisto a cercare i canali che trasmettono partite di calcio. E sto attento che le piccole ferite non lascino macchie di sangue su lenzuola e vestiti. Stop.

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Ma a volte è come se mi sentissi evaporare in una nuvola d'acqua. Lo sento. Le mani si confondono con i disegni cachemire sulla stoffa del divano, i piedi diventano dello stesso colore marmo dei pavimenti. E a volte mi scappa una risata stridula mentre grattugio il formaggio per la pasta al pomodoro. E l'udito intanto mi si fa sensibilissimo: ascolto per ore il guazzare del pesce rosso nella sua boccia di vetro in cima al frigorifero. Purché il pesce non smetta di pensarmi: sarebbe la fine.

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Un giorno finalmente riuscì a catturare lo scarafaggio che percorreva chilometri e chilometri sui pavimenti delle stanze. Lo prese, gli allargò con cautela le zampette che tremavano e cercò di appiccicargli sul petto una minuscola scaglia d'oro, come alta onorificenza al miglior guardiano della casa. Ma poi quella notte non riuscì a prendere sonno.

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Per una volta alla circonvallazione non c'è nessuno. Sullo sfondo, il cono di Monte Cuccio ha in cima una nuvola verticale che gli dà l'aspetto di un placido vulcano preistorico. Da un momento all'altro mi aspetto di sentire scivolare su una guancia la grande lingua di un brontosauro di indole mansueta. Ma si mette a piovere, l'acqua mi filtra nella spina dorsale e mi sento scuotere da brividi di gelo. Allora, innanzitutto lancio un lungo grido: così, per eccesso di prudenza. E distruggo meticolosamente un pacchetto nuovo di sigarette. Non avrei mai pensato di diventare tanto caritatevole con la mia nevrosi. Ma lei tutto sommato non lo sa, e accetta di procedere da sola.

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Lei intanto si scarica i nervi sulla mia schiena nuda. Cioè, mi sevizia con una frusta invisibile ma senza rendersene conto. Io prima la lascio fare, poi però reagisco cercando di attribuire con precisione a lei ogni mio difetto, ogni mia minima perfidia. Subito dopo l'abbraccio come se niente fosse, e lei mi abbraccia come se niente fosse. E i figli ascoltano, si godono il trambusto senza smettere di fare i compiti. Poi tutti e quattro usciamo e ci lanciamo tra la folla, riempiamo carrelli di cibo, piccoli elettrodomestici, piatti e bicchieri di plastica, ci incamminiamo di nuovo verso casa trascinandoci dietro slitte indiane che pesano quintali. Davanti al portone siamo sfiniti e al verde, così lasciamo andare i pacchi alla deriva e cominciamo a farci le coccole in strada.

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Davanti alla più antica focacceria della città sta fermo un uomo un po' brizzolato che recita a richiesta passi dei Vangeli, versetti del Corano, paragrafi del Capitale, articoli delle Costituzioni europee. Più che recitarli, li declama, li intona davanti a platee che vanno da zero a uno, a centinaia di spettatori in pantaloni corti e macchine fotografiche che pendono su petti, spalle, ascelle. Quando ha finito di recitare entra nella focacceria. Torna fuori dopo qualche minuto mordendo un panino con la sua aria distinta, dinoccolata, e parlando tra sé e sé in dialetto stretto. L'ultimo boccone gli sparisce tra i denti assieme a un'imprecazione allegra. Appena si lamenta che ha sete, i turisti vanno via alla spicciolata. Lui raccoglie dal selciato un frammento di buccia di ficodindia e se lo sistema con cura all'occhiello. I bordi subito dopo si macchiano di rosso.

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Ha un dubbio perenne che le indebolisce i seni, fa ballonzolare i fianchi, le provoca continui mal di testa e le fa odiare le pareti di casa. Eppure chi la vede la segue, le rivolge la parola, la tempesta di telefonate a tutte le ore. E questo, per giunta, la fa sentire indispensabile, essenziale per il suo dubbio: il dubbio non può vivere senza di lei, è pazzo di lei, l'ama da morire. Si tratta solo di tenere il conto dei monumenti della città (ossia, conservare la memoria immediata dei propri dolori), distruggerli ad uno ad uno e poi una volta a casa ricordarsene a malapena (conservare la memoria remota, almeno finché si può). Basta poco: versare un po' di sangue in cambio di una goccia di sudore, cambiarsi le scarpe, riposare.

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Poi con le parole ho fatto il tiro a segno sui barboni che dormivano sotto i portici della stazione. A ogni sillaba un poveraccio crollava giù stecchito, ma con una faccia che pareva beata, le braccia atteggiate come chi discute animatamente e gesticola. Dissolvenza. O forse in realtà il sogno era questo: stavo in una macchina che non sapevo guidare e mi facevo a uno a uno tutti i cassonetti dell'immondizia allineati su una strada vuota. O forse non era nemmeno questo. Dissolvenza. Probabilmente precipitavo giù da una finestra al piano rialzato, ma non arrivavo mai all'impatto con il marciapiede due metri più sotto. Ma ancora non ci siamo. Dissolvenza, dissolvenza, dissolvenza. Il telecomando mi scotta le dita. Avrei preferito cadere, sbucciarmi un ginocchio e poi contemplare ispirato le crosticine che si sarebbero formate sulle ferite. Avrei preferito curarmi con calma. Avrei preferito...

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Quando mi portano in questura perché sono senza documenti, mi comporto con grande dignità. Mi lascio fare per ore il terzo grado. Mi lascio chiedere chi sono, da dove vengo, dove vado, mi lascio fotografare davanti e di profilo, non batto ciglio quando aprono un fascicolo a mio nome e mi prelevano una goccia di sangue, ma non ho cuore di chiederne il motivo. Solo quando vogliono sapere come passo le mie giornate, mi chiudo in un attimo di pausa prima di rispondere che da tempo mi sopporto a malapena.

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Allo Zen, racconto a nessuno in particolare, scorrono prati e campetti di calcio, stagnano rigagnoli di fogna, pozze di fango, delinquenti, dignitosi impettiti e palazzi tutti uguali. Nel video le facce si muovono a malapena, stanno molto in ombra, parlano continuamente fitto fitto e sottovoce. Non si capisce niente, se non la presenza di un cane mangiatore di bambini che fruga tra i rifiuti e fa fuori in breve tutti gli avanzi. L'America? E' passata. E' rimasta dietro le spalle di qualcuno che passeggia dopo ore di duro lavoro. Lì ogni minuto uccidono non so quante persone, indipendentemente dal sesso, l'età o la razza. Qui basta pizzicarsi le braccia: la vita va avanti lo stesso.

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Nello stesso attimo ho perso e recuperato la via di casa. Mi sentivo bene e male, lucido e intontito. Poi, mentre desideravo accomodarmi in un lungo sogno, mi sono ritrovato a infilare la chiave nella toppa, aprire, richiudermi la porta alle spalle, entrare al posto di dogana.

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Armeggia da vari minuti con un lettore automatico di dolori ai piedi inventato qualche centinaio d'anni prima. Per andare più a fondo solleva con delicatezza gli artigli, e intanto dalle narici scappano fiammelle rosse scoppiettanti. Trova una sofferenza all'alluce destro e una al mignolotto sinistro, ma non sa come farvi fronte e allora si gratta la cresta con gli zoccoli delle mani. Deve ricordarsi come si fa a pensare, a creare immagini che quasi prendano vita. Ma in fondo non si lagna: è giovane, ha appetito, uccide che è un piacere, piange almeno una volta al giorno. Chissà se dura...

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Eppure qualcuno deve venire. O almeno, mi sembra di aspettare qualcuno. Comunque non mi pare di riconoscere questa distesa di sabbia e la fila di alte palme che pendono sul mare come in una cartolina del Kenya. Spero nero, e invece al sole divento rosso come un pomodoro, ho la pelle scorticata che mi viene via a brandelli, sono arrostito. Al sole pare che tutto vada avanti più in fretta, che la storia se la faccia di corsa... però ancora non è venuto nessuno. Aspetto e brucio. Desidero acqua e getto via sale attraverso la pelle, mi disidrato, mi prosciugo. E comincio a incartapecorire, e dopo un po' brandelli di me cominciano a spargersi sulla sabbia. Eppure non smetto di aspettare. Qualcuno deve venire. Verrà. Ora i brandelli si fanno ancora più piccoli, sono minuscoli coriandoli che svolazzano nel sole. Coriandoli rossi, arrostiti. Respiro attraverso minuscole branchie sparse sui minuscoli coriandoli, e chissà perché penso agli ostrogoti mentre conquistavano Roma... forse perché erano numerosi come coriandoli, e io con le mie minuscole branchie sparse per ogni dove. Ma non ho bisogno di difendere ogni pezzetto di me. Qualcuno prima o poi deve venire.

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Si gonfia, ingrassa come una palla. E la casa si riempie di forfora. Intanto si dà un contegno, si comporta come se non avesse niente da dire, atteggia la faccia a un'espressione austera, imperiosa, si dà ordini con durezza di sergente. Poi, finalmente si decide a uscire dal portone, trascina il suo immenso carico d'acqua sulle strade dietro la via Libertà e guarda con alterigia i paracadutisti e gli alpini di guardia davanti ai portoni. Oltrepassandoli rimbalza lentamente sull'asfalto. Ha una sete crescente. Dopo qualche minuto non riesce più a voltarsi indietro: il suo diametro ha superato la larghezza del marciapiede e le macchine di passaggio ormai gli sfiorano il fianco, facendo ondeggiare l'acqua che ha dentro. Fa sforzi sovrumani per evitare di mettersi a rotolare distruggendo le auto parcheggiate. Quando sente che non può resistere più, getta un sospiro di vapore e a malincuore comincia la solita terapia: un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l'alto... da ripetere dieci volte prima e dopo la passeggiata mattutina.

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Il telefono squilla dopo otto lunghi giorni di sonnolenza. Rispondo con un grugnito dopo aver lasciato a fatica il fondo del divano, e una voce mi inchioda per venti minuti filati al ricevitore raccontandomi una settimana intera di sofferenze, contrattempi, malattie e inquietudini, e subito dopo mi dice quanto è triste perché non può uscire di casa, ma il motivo mi è sfuggito nel grumo di una delle tante frasi ripetute di corsa. Io comunque ascolto - non posso fare altro - in piedi accanto al frigorifero in cima al quale nuota con aria distaccata il mio pesce rosso. Ascolto fino a quando non comincia a sudarmi l'orecchio incollato all'auricolare, tremo assieme alla voce, soffro con lei, m'inquieto con lei, quasi guaisco. A un tratto però mi si staccano i circuiti della gola e sale a galla un ritornello: due e due fanno quattro, quattro e quattro fanno otto. E qualche suono dev'essere uscito, perché la voce all'improvviso si ferma e mi fa "come?" con tono pressoché atterrito. No, nulla, faccio subito per scusarmi. E lei di rimando: "Scusi, ho sbagliato numero". E io: ma s'immagini... assieme al clic della comunicazione che s'interrompe. Resto in piedi col telefono in mano, ma ormai sono perfettamente sveglio. Guardo il pesce che sguazza nella sua boccia con sempre maggiore noncuranza. Fuori c'è il sole. Il vento latita. Alla finestra, allungo un braccio e tocco il palazzo di fronte per accertarmi che non sto sognando. Mando giù chili di caramelle. Per ammazzare il tempo leggo a voce alta il dizionario. La mia mente intanto elabora per conto suo: se suona di nuovo il telefono fanno sedici, se invece è la porta fanno trentadue, sessantaquattro se arrivano i ladri. Poi mi accoglie di nuovo la nebbiolina che stagna sotto il sole. Mi correggo: la nebbia. Mi correggo: il sole.

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Le amebe lo trovano seduto sul divano della cucina, a dormire con la testa crollata sul petto. Gli urtano una guancia coi tentacoli ma lui apre gli occhi solo per un attimo. Allora lo prendono delicatamente in braccio, lo riportano a letto, gli rimboccano le coperte. Dopo venti secondi sentono il suo respiro regolare e si allontanano in silenzio lasciando scie rossastre sul pavimento. La mattina dopo lui si sveglia di buonora e sorride. Si sente in forma. In una tasca dei pantaloni trova una figurina con l'immagine di Trockij.

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C'è una fila di finestre chiuse da mattoni rossi forati, e dietro i mattoni ombre che si agitano, saltano, fanno le capriole. Arriva una sirena e sotto il palazzo si sente uno stridio di freni, lo scalpiccio di molti piedi, lo scatto delle sicure di due o tre pistole Beretta. Poi ogni rumore svanisce. Solo un rullo di tamburi in lontananza, grida di folla, la lama di una ghigliottina che cade giù, un discorso alla radio, il parlottare di due fidanzatini mano nella mano.

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Penso all'improvviso che dovrei dire qualcosa a qualcuno, ma non mi viene in mente nulla e continuo a camminare per la casa con le mani in tasca. C'è soltanto il solito pesce rosso che mi guarda dalla sua boccia di vetro sul frigorifero, e c'è solo una macchia rossa, forse di ruggine, all'angolo fra una parete e il tetto del soggiorno, che mi pare si allarghi e invece rimane immutabile da anni. Allento a poco a poco tutte le mie difese e rilasso i muscoli uno alla volta: le correnti d'aria cominciano a trasportarmi in volo da una stanza all'altra.

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Ti avrei accarezzato tutta la notte se non ti fossi liquefatta sul pavimento della camera da letto. Immagino che ora non mi resti altro che tuffarmi dentro di te o berti fino all'ultima goccia. Purché tu non decida all'improvviso di cambiare forma o, per scuotermi, preparare e costringermi a trangugiare una spremuta di limoni senza zucchero. Ma no, comunque, non farti venire scrupoli. Ancora non mi sono nemmeno pettinato.

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Tutti guardavano la donna bruna che non smetteva mai di parlare, e però tra una frase e l'altra faceva vaghi accenni a malesseri fisici, dimenava la lingua in mezzo ai denti, diceva che aveva voglia di questo e di quello. Poi si sentì davvero male e si piegò su se stessa con una smorfia di dolore, e tutti fuggirono atterriti. Restò sola sulla strada e solo un grosso cane randagio le si accoccolò accanto difendendola dal vuoto. Pure a me capitò di passare di lì, ma non riuscii a vederci nulla di anormale.

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Sento un piccolo boato e subito dopo un crepitio sotto la finestra della camera da letto. Mi alzo, mi avvicino barcollando, apro le imposte e vedo una macchina inondata di fiamme rossissime che si alzano quasi fino a me, al primo piano. Sulla strada lo scalpiccio di un paio di piedi che fuggono. Non mi resta che guardare lo spettacolo del fuoco sulla strada senza illuminazione, sotto il cielo senza luna e senza nuvole. Io sono senza parole e senza forze ma guardo con crescente agitazione: gli occhi mi danzano all'impazzata. A letto, poi, mi perseguita per tutta la notte il tema musicale di un film.

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Al lavoro scrivo scrivo scrivo. Finisco per mescolare le parole, le idee, per dimenticarmi di fumare o di bere un po' d'acqua. L'aria secca del condizionatore mi irrita gli occhi e le luci al neon mi fanno baluginare riflessi metallici davanti alle pupille. Non mi accorgo nemmeno che esplode tutto il piano terra del palazzo accanto. I colleghi scendono a curiosare tra le macerie, io resto seduto a cercare di mettere a fuoco la prospettiva dello stanzone, il tetto e le pareti, i pavimenti foderati di plastica, i tavoli di plastica, le sedie di plastica, i computer di plastica. E smetto di colpo di scrivere, parlare, vedere, sentire, toccare. I primi che tornano dall'incendio si accorgono subito del mio stato, e allora mi prendono di peso, mi depositano in uno sgabuzzino e si chiudono la porta alle spalle. Mi è parso di vedere uno che portava una cravatta a fasce rosse e blu. O forse era a quadrettini. O forse a losanghe. O forse a righine. Il dubbio, lo confesso, mi ha poi torturato per mesi.

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Finì che mi portai a casa un sacchetto pieno di arance sanguinelle. In cucina mi piazzai davanti al lavandino e cominciai a spremerle una per una, finché non riuscii a riempire di succo tutte le bottiglie che avevo sottomano. Rimisi le bucce nel sacchetto e scesi giù in strada a gettarle nel cassonetto. Quando risalii, tutte quelle bottiglie rosse mi fecero una paura da cani.

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Il tavolo è una tettoia per le scarpe sudate, una sedia ripara le mutande sporche, sotto il divano c'è una penna senza beccuccio. Sulle pareti resti di ragni morti e mosche spiaccicate. Le zanzare sfuggono. Fuori dalla porta lo stuoino e sotto lo stuoino le due pagine centrali di un settimanale. Nello scantinato è rimasto chiuso un geco. E la strada vivacchia. L'Africa è a una notte di mare. Bandiera rossa: lo stipendio mi si scioglie subito in mano. Bandiera rossa: ancora non funzionano le insegne al neon di ogni abitante del pianeta. L'imposta di un balcone sbatte e nei conteggi saltano mal di testa, dolori reumatici, insonnia. I medici vogliono vedere i documenti prima di intervenire. Le lenzuola devono essere di puro cotone (in caso contrario non riuscirei a prendere sonno). Sono dittatura le parole dette col sorriso sulle labbra. Il municipio langue. Una pianta di geranio in genere rimane se stessa. Un sibilo. La casa sente una lancinante mancanza di musica. Pensavo che mi sarebbe bastato se mi fossi fermato qui, ma avevo alle calcagna un tale col pelo rossiccio e le zanne che si sbriciolavano al sole: allora ho preferito accennare solo un breve saluto di passaggio.