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UNIVERSITA’ DI TORINO FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE METODI E TECNICHE DI SERVIZIO SOCIALE I DOCENTE C. PREGNO A.A. 2006-2007 1 Materiale didattico ad uso esclusivamente didattico a.a. 2006-07

Materiale didattico ad uso esclusivamente didattico

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COMMENTO ALL’ART. 1 DELLA LEGGE N. 84 DEL 23.3.93 «ORDINAMENTO DELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE E ISTITUZIONE DELL’ALBO PROFESSIONALE» .......................................................................................................................2

IL PROCESSO DI AIUTO..............................................................................................................9

PREMESSE MODELLO UNITARIO CENTRATO SUL COMPITO........................................17

1. LA DOCUMENTAZIONE ........................................................................................................19

2. PERCHÉ SI SCRIVE?..............................................................................................................24

3. COME SI FA UNA RELAZIONE ............................................................................................26

1. LA VALUTAZIONE ..................................................................................................................27

2. OSSERVAZIONE, ASCOLTO, VALUTAZIONE ...................................................................29

3. L’ASSESSMENT.......................................................................................................................31

4. ALCUNE GRIGLIE...................................................................................................................34

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA FIDUCIA ..............................................................................37

1. IL COLLOQUIO........................................................................................................................41

2. LA VISITA DOMICILIARE.....................................................................................................51

ANZIANI E FAMIGLIE ...............................................................................................................52

INTERVENTI DEL SERVIZIO SOCIALE RIVOLTI A FAMIGLIE E MINORI ...................60

BIBLIOGRAFIA ...........................................................................................................................64

COMMENTO ALL’ART. 1 DELLA LEGGE N. 84 DEL 23.3.93 «ORDINAMENTO DELLA PROFESSIONE DI ASSISTENTE SOCIALE E ISTITUZIONE DELL’ALBO PROFESSIONALE»

ARTICOLO 1 LEGGE 84/93

1. L’assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi

dell’intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative.

2. L’assistente sociale svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione e può esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali.

3. La professione di assistente sociale può essere esercitata in forma autonoma o di rapporto di lavoro subordinato.

4. Nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale.

La professionalità è un insieme di capacità, che consentono ad una persona collocata in un’organizzazione lavorativa di ricoprire adeguatamente una posizione e un ruolo. Professionalità è anche un modo per dire che un soggetto ha un’abilità specifica per svolgere quell’attività lavorativa e la svolge in modo adeguato. La legge 84/93 definisce un profilo dell’assistente sociale, dice chi è e cosa fa, di chi si occupa, ovvero chi sono i destinatari dell’intervento dell’assistente sociale (i clienti, i consumatori). Per cercare di capire cosa significano queste definizioni occorre scomporre le componenti della professionalità, ovvero capire di quali capacità l’assistente sociale deve essere dotato. La professionalità dell’assistente sociale si realizza attraverso delle pratiche di servizio sociale , che includiamo nel termine comprensivo di “processo di aiuto”.

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Le azioni professionali dell’assistente sociale non devono essere confuse con le prestazioni, che sono modalità d’intervento specifiche di un determinato ente. I soggetti destinatari dell’intervento sociale sono la persona, l’organizzazione, il territorio. Sono soggetti diversi, ma che hanno un’interazione fra loro – si dice quindi che le dimensioni dell’intervento sociale sono la persona, l’organizzazione, il territorio. In questo corso vedremo in particolare l’intervento con la persona. Cercherò di inquadrare, in modo generale, la professione, secondo alcune componenti costitutive, comuni alla professione assistente sociale in tutti gli ambiti in cui lavora, il Ministero della Giustizia, i servizi assistenziali di base, i servizi per le tossicodipendenze, la psichiatria, gli ospedali, il privato sociale. In questi ambiti, così diversi, quali elementi comuni compongono l’agire dell’assistente sociale? “Con autonomia tecnico professionale e di giudizio in tutte le fasi dell’intervento”. Che cosa sostiene l’autonomia tecnico professionale e di giudizio? La dimensione della ragione, innanzitutto la facoltà di pensare. La facoltà di pensare serve per discernere, per analizzare, per scomporre, per tentare di ricondurre degli eventi ad un ordine logico; serve quindi a capire l’importanza di un metodo e ad acquisire una metodologia. In generale, per ogni essere umano, il fatto di poter fare riferimento ad uno schema mentale è l’operazione più semplice e più immediata per affrontare una questione qualsiasi. Se lo schema mentale a cui si è fatto riferimento si dimostra valido, buono, utile, lo si potrà ripetere. Se, invece, si provassero sempre percorsi diversi in situazioni simili, le operazioni di memorizzazione di una soluzione, di collegamento con circostanze analoghe, di accumulazione di conoscenza sarebbero altamente improbabili. In altre parole, sarebbe impossibile il passaggio da una azione (o una sequenza di azioni) all’astrazione che consente la ripetizione della sequenza, con le sue varianti necessarie. Perché parlare di metodo nel servizio sociale? Metodo è “cammino verso un termine, una meta prefissata”, “via che conduce oltre”, “modo dritto e breve” “procedere razionale per raggiungere determinati obiettivi”1. Nella definizione è insita una costellazione di elementi, vi sono un movimento ed un fine (cammino verso), ed anche le indicazioni di come compiere questo movimento (modo dritto, procedere razionale). Quindi si utilizza il metodo in relazione al significato di un percorso, alla sua condizione finale – che cosa, nel futuro, di diverso dal presente, immaginiamo che le nostre azioni vadano a costruire e come (i modi dell’azione)2. La facoltà di pensare serve anche a distinguere ciò che è giusto e utile. Si usano correntemente le espressioni: le buone ragioni, dalla parte della ragione. Sembra quindi che agire in modo ragionevole voglia dire attivare una facoltà intellettuale che consenta di distinguere fra il bene ed il male. Ma il bene e il male sono a volte di difficile definizione. L’assistente sociale deve rispondere sempre ad una domanda fondamentale: qual è il bene della persona? Ovvero per chi è il giusto e l’utile, in quella situazione? Molti si sono posti questa domanda, e hanno tentato delle risposte, che sono degli orientamenti universalmente validi: la convenzione sui diritti del fanciullo di New York, del novembre 1989, dice 1 Vc. dotta, lat. methodu(m), s. f. (ma la voc. finale è stata determinante per il suo inserimento fra i s. m.), dal gr. méthodos ‘via (hodós)

che conduce oltre (metá)’. “Questa parola méthodos composta dalla preposizione meta, che vuol dire con, e dalla voce odos, la quale vuol

dire via, significa propriamente appo i Greci quello che i Latini chiamano diverticulum o più tosto iter transversum e noi volgarmente

tragetto, ciò è una via più diritta e conseguentemente più breve dell'altre, la quale più tostamente a quel luogo ne conduca dove d'arrivare

intendiamo. Da questa sua prima e propria significazione fu poi da loro trasportata per traslazione non solo ne' campi ed eserciti militari,

quando i capi vanno a rivedere l'ascolte e sentinelle, ma ancora nelle scienze e nell'arti. Onde metodo non vuol dire altro in questa ultima

significazione, se non una via o un modo diritto e breve, ciò è agevole e spedito, col quale s'insegni arte o vero scienza” (B. Varchi, Del

metodo, in Opere, Trieste, 1859: II 796).

Dizionario Etimologico della lingua italiana, Zanichelli, 2000 2 Su questo punto vds F. Ferrario, Le dimensioni dell’intervento sociale, Roma, Carocci, 1996, pp. 21-27

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(art. 3) che “in tutte le decisioni relative ai fanciulli …l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente” e (art. 20) “ogni fanciullo il quale è…privato del suo ambiente familiare … ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dello stato”. I principi dell’ONU per le persone anziane (risoluzione 46 del 1991) fissano dei principi essenziali da garantire alle persone anziane in tutto il mondo; le parole d’ordine sono “indipendenza, partecipazione, cura, autorealizzazione e dignità”. La facoltà della ragione aiuta a tradurre, nella situazione specifica, il diritto alla cura, all’indipendenza, alla realizzazione. A volte la persona è in grado di dire il suo bene, le sue ragioni: se avessi questo, se potessi fare, starei meglio - altre volte no. Allora bisogna interpretare il desiderio, raccogliere dei segnali, incollare dei dettagli. La facoltà della ragione consente di distinguere tra gli interessi dei diversi soggetti coinvolti in un determinato problema. La facoltà della ragione ci dice che esistono dei percorsi di riflessione e di pensiero che conducono a delle scelte, e che non scegliere è una scelta. Una risposta parziale, alla domanda di beni collettivi (di servizi), l’assistente sociale la dà assumendo come oggetto del proprio lavoro l’organizzazione dei servizi, cercando di adattare tempi, modi, risorse dell’organizzazione ai cittadini e alle loro esigenze prevalenti e non il contrario. Riflettendo, per esempio, se le procedure di accesso ai servizi siano facilitanti o creino confusione e difficoltà; oppure ragionando sulle prassi di segnalazione fra servizi diversi: sono agevoli gli scambi fra il servizio sociale e la scuola, o sono molto intricate, orientate alla dispersione della segnalazione? Riflettendo anche sulla sua appartenenza di professionista all’organizzazione: la mia appartenenza è tale per cui io m’identifico con il mandato di quella organizzazione, e spendo le mie energie e la mia intelligenza per realizzare i fini di quella organizzazione (in generale: produrre servizi) oppure la mia appartenenza è puramente formale? La ragione aiuta a tenere presente di chi è il bene, quali sono i fini delle azioni, se i mezzi sono coerenti con i fini, in ogni specifica situazione, e a non indulgere in risposte facili, approssimative, superficiali. Come altra modalità di risposta dell’assistente sociale alla domanda di beni collettivi vi è la partecipazione dell’assistente sociale ai processi di costruzione delle politiche sociali, con particolare riferimento alle politiche sociali locali. «Il servizio sociale è [quindi] oggi una professione che tenta di rendere operanti gli orientamenti della politica sociale sia istituzionale che di mondo vitale in quanto “tutore del diritto dei cittadini” – affermato appunto dalla politica sociale – di accedere alle risorse pubbliche e private che permettano di tutelare le loro aspettative per una sempre migliore qualità della vita»3. La dimensione della ragione si collega anche al concetto di responsabilità, inteso come consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Tale consapevolezza consente di effettuare delle scelte. Il concetto di responsabilità, in senso morale e non giuridico, compare nelle discussioni sulla libertà: esiste un individuo libero di scegliere e consapevole delle conseguenze delle proprie scelte4. Nel “Dizionario dei vizi e delle virtù”, Natoli fa riferimento all’etica della responsabilità, secondo Weber, il quale «assume quale criterio dell’agire non solo la bontà della condotta – vale a dire la conformità dell’azione alla propria convinzione – ma le conseguenze della stessa ai fini del mantenimento del legame sociale e in senso generale della pace»5. Responsabilità quindi come libertà di scelta e consapevolezza ed anche, secondo Baumann, come coscienza. Baumann infatti dice «la voce della coscienza, che è la voce della responsabilità…la voce della responsabilità è il primo vagito dell’individuo umano. La sua presenza è il segno della vita individuale. Non necessariamente, però, è indice di una vita felice, se felicità significa l’assenza di preoccupazioni (una definizione di felicità altamente discutibile, anche se molto diffusa).

3 M. Dal Pra Ponticelli, Verso la laurea in servizio sociale: ipotesi e prospettive, in “Rassegna di Servizio Sociale”, n. 1,

2000 4 Galimberti U., Psicologia, Garzanti, Torino, 1999

5 Natoli S., Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 142

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L’accettazione della responsabilità non è un compito facile: non solo perché introduce il tormento della scelta (che comporta sempre una perdita e un guadagno), ma anche perché preannuncia la perenne preoccupazione di avere compiuto un errore»6. Ascoltare o non ascoltare, intervenire o non intervenire, osservare o non osservare, partecipare al disagio dell’altro o non partecipare, sono scelte - che hanno delle conseguenze. La responsabilità dovrebbe consentire la scelta migliore possibile, secondo coscienza, in quella data situazione. Un’altra dimensione della professionalità è la dimensione della conoscenza. Utilizzo conoscere per parlare di sapere. Sapere di sociologia, di psicologia, di politica sociale, di diritto – sapere della natura umana, dei meccanismi della comunicazione, delle trasformazioni della famiglia ma anche sapere dove si collocano i servizi sociali nel quadro delle politiche sociali, dove si aprono le contraddizioni tra i diritti sociali dei cittadini e quanto è effettivamente normato ed esigibile. Sapere qual è il concetto di giustizia sociale in quel dato momento storico in quella particolare società. Sapere di metodologia di servizio sociale: che l’analisi di una situazione, individuale e sociale, ha dei precisi parametri di riferimento per essere fatta con rigore e precisione. Sapere che la valutazione non è un fatto istantaneo, ma è l’esito di un percorso complesso di analisi. Sapere come imparare ad apprendere dalla propria esperienza ed utilizzare questo apprendimento per costruire nuove abilità operative. Ma conoscere vuol anche dire una accurata conoscenza di se stessi, negli aspetti più intimi della propria personalità. Essere in contatto, sempre, con gli aspetti più imbarazzanti ed oscuri dei propri pensieri, anche con i pensieri e sentimenti che non ci fa piacere provare. Nel corso di studi si parlerà molto di una sorta di imperativo categorico “non giudicare”7; ma noi siamo immersi in una cultura che produce giudizi e pregiudizi e giudichiamo in continuazione, ci viene spontaneo. L’assistente sociale deve liberarsi di questo imprinting culturale. Deve forzarsi ad uscire da una logica di senso comune, per entrare in una logica di tipo tecnico che dice: non giudicare, ma ascoltare e, successivamente, valutare, interpretare. Che cosa ne so io – si chiede l’assistente sociale - delle ragioni delle scelte di un altro essere umano? Che ne so delle sue condizioni di partenza nella gara della vita, delle sue opportunità o dei suoi disagi? Che cosa ne so del perché dice di no ad un’opportunità che tutti dicono che è la migliore? Ascolto, valuto, faccio delle ipotesi. Un altro aspetto della dimensione della conoscenza: il desiderio di scambiare con altri esseri umani. Ovvero la conoscenza che nasce dal dialogo (dia e logos: discorso tra). Essere desiderosi di sapere, essere interessati al confronto, avere voglia di stare in una dimensione di reciprocità. Ascoltare avendo voglia di farlo. Provare curiosità. Questa costante dell’interazione personale rimanda non solo al rapporto fra i cittadini e l’assistente sociale ma anche al rapporto con il gruppo di lavoro. L’assistente sociale non lavora da solo. Questa è una “conditio sine qua non” nell’esercizio della professionalità: lavorare con altri, lavorare in gruppo. Un’altra dimensione della professionalità: la creatività, intesa come la capacità di inventare, di osare, di prendere strade diverse. Ogni azione nel servizio sociale ha il fine di migliorare quella porzione di realtà – di vita – nei confronti della quale si interviene. L’obiettivo non è mai il corretto completamento della procedura operativa, ma è sempre un cambiamento. Che può essere piccolo o grande, a seconda dell’accessibilità del problema e delle possibilità di soluzione esistenti. A volte la strada per il cambiamento è tortuosa, insolita, bisogna immaginare qualcosa di diverso – un altro percorso di ricerca perché l’approccio consueto non ha dato risultati - oppure accettare una proposta divergente.

6 Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 15

7 non formulare giudizi sulla base di pre-giudizi.

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Creatività è un movimento intellettuale che consiste nel collegare informazioni in maniera imprevedibile, per produrre un ordine nuovo ed è anche ascoltare le proprie intuizioni. L’intuizione non è codificabile, ma c’è, esiste, ed occorre tenerne conto. È un’informazione soggettiva, poco scomponibile, poco riconducibile a percorsi logici, consequenziali (sento che…ma non so spiegarlo), ma è un’informazione importante, che ha un suo peso. In altre parole: essere aperti, accessibili al non previsto, usare la fantasia e scomporre l’ordine logico (da A si può saltare a D, non è obbligatorio seguire sempre il percorso da A a B). In un testo del 19678, che s’intitola “Il pensiero laterale” – sottotitolo “come diventare creativi – Edward De Bono analizza il pensiero che porta alla creazione, che chiama “pensiero laterale”, contrapponendolo al “pensiero verticale”, che è la modalità di pensare che noi comunemente definiamo logica. Il pensiero laterale si preoccupa di trovare nuove interpretazioni della realtà e si interessa di idee nuove di ogni genere, ovvero considera punti di vista parziali, apparentemente poco connessi con il problema, usa capacità non codificabili, come la fantasia, come l’utilizzo dell’intelletto per sfruttare le occasioni date dal caso. Collegherei alla dimensione della creatività la “capacità negativa”, così ben descritta da Lanzara (1993). La “capacità negativa” è la capacita di saper stare nell’incertezza, nell’accettare momenti di indeterminatezza e di assenza di direzione e, contemporaneamente, di cogliere le potenzialità di comprensione e d’azione che possono rivelarsi in tali momenti. Non tutti gli eventi possono essere sempre spiegati esaustivamente o affrontati nella loro totalità: si tratta di essere capaci di accontentarsi di mezze conoscenze e di mantenere le cose in una sorta di animazione sospesa. Ma la sospensione dell’azione o della spiegazione non coincide necessariamente con l’inattività e la passività cognitiva. Essa dispone a lasciare che gli eventi seguano il loro corso, restando in vigile attesa, e a lasciarsi andare con essi senza pretendere di determinare a priori e a tutti i costi la direzione, il ritmo, o il punto d’arrivo. La “capacità negativa” non è solo disposizione esistenziale all’esperienza dell’incertezza. Essa implica anche una disposizione cognitiva: proprio questo stato di indeterminatezza e di temporanea assenza di direzione permette di prestare attenzione ad aspetti della situazione che la tensione performativa al risultato – il risultato a qualunque costo, qualunque esso sia - e alla riduzione d’incertezza o il ritmo della routine non permettono di «vedere» e di apprezzare. È proprio il disinteresse per la ricerca immediata di «fatti» e «ragioni» tanto ovvi quanto rassicuranti che dà quell’apertura cognitiva necessaria ad esplorare possibilità di senso e d’azione non ancora pensate e praticate. Le deviazioni dalla routine standard e dalle situazioni «normali» contengono un potenziale d’innovazione per chi è capace di tollerare la provvisoria assenza di ordine e direzione. In conclusione: nel servizio sociale gli strumenti lavorativi prevalenti non consistono in apparecchiature, ma in competenze professionali: la tecnologia è rappresentata dal sapere, saper essere, saper fare degli operatori. Primo comma dell’articolo 1, seconda parte: dove si esplica l’autonomia tecnico professionale? “In tutte le fasi dell’intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi”. Si lavora con le persone, quindi. Qui c’è una peculiarità e una criticità. Questo lavoro si realizza quindi in uno spazio intersoggettivo, persone che lavorano con altre persone – un termine di uso corrente per parlare di servizi sociali e di alcuni servizi sanitari è “servizi alla persona” - e nell’intersoggettività si depositano sentimenti ed emozioni, che appartengono sia alla persona che si rivolge al servizio sociale che all’operatore. Questa dimensione può essere detta della relazionalità. Il lavoro con le persone implica delle relazioni, ovvero dei legami fra i soggetti dell’interazione. L’assistente sociale, quando entra in contatto con delle domande, che sono conosciute dall’operatore in uno spazio interpersonale, e che possono essere individuali o sociali, mette in moto un complicato processo di ascolto, attenzione, analisi, che si tradurrà, poi, in scelte operative. Per fare ciò il primo strumento che usa è se stesso, la propria persona, con la sua capacità di comunicare, di accogliere, di sentire ciò che l’altro soggetto comunica.

8 De Bono E., Il pensiero laterale , Rizzoli, Milano, 1981, ed. or. 1967

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Usa la propria mente, la sua memoria, il suo pensiero, il suo linguaggio, le sue conoscenze, le sue emozioni – e le traduce in un comportamento professionale. L’interazione umana non è però un territorio neutro, ma è un territorio che gli interlocutori colorano della loro emotività e la vicinanza dell’operatore alla persona si definisce attraverso la capacità di identificazione con la persona stessa; l’identificazione è una fase, occorre uscire dall’identificazione per ritrovare lucidità e restituire alla persona un pensiero interlocutorio su se stessa, affinché la persona apra un dialogo con se stessa. Perché occorre parlare con se stessi, ed è importante aiutare qualcuno a farlo, se questa conversazione è interrotta? Nella nostra cultura si dà valore a ciò che Platone chiamava il “dialogo interno”, quella capacità di confronto con se stessi, che è una condizione per l’integrazione dell’io, per la consapevolezza di sé, per l’azione consapevole, per la definizione di progetti esistenziali che considerino il desiderio e la realtà e il loro equilibrio. L’ascolto consente ad una persona di parlare con se stessa, attraverso l’altro. Questo, in concreto significa per l’assistente sociale che: � il coinvolgimento emotivo è necessario, perché è solo attraverso il coinvolgimento che si può

ascoltare in profondità, comprendere l’altro; il coinvolgimento emotivo è particolarmente evidente ed intenso nel lavoro diretto con la persona, ma non è estraneo ad altre modalità di lavoro sociale: per pensare a delle azioni di sviluppo di una comunità locale io devo essere coinvolto dal punto di vista dei cittadini che in quel territorio vivono, e sentire, non solo a livello razionale, le ragioni delle loro esigenze di miglioramento della qualità di vita di quell’area.

� Che l’assistente sociale pratica una frequente esposizione al dolore. Accade che, per allentare la tensione della sofferenza, la persona consegni questo dolore a qualcun altro, che si prenderà cura, che cercherà delle soluzioni: cioè all’assistente sociale. Il dolore lascia segni, non è senza effetti stare vicini ad esso, non si può rimanere tranquilli come prima, è un’esperienza forte.

La conseguenza immediata di tutto ciò è che l’assistente sociale deve avere un’ampia consapevolezza di sé, per dirsi, senza negare nulla (la rabbia, l’ansia, l’impotenza, la paura) che cosa sta provando, quando sta in contatto, quando è vicino ad un altro essere umano che si vede costretto in uno spazio senza opportunità. Allora, assumendo la positività del coinvolgimento, aggiungo che bisogna volersi contaminare, essere curiosi, avere voglia di conoscere in profondità le persone, i loro stili di vita, le loro strategie esistenziali – in altri termini: il significato che ciascun singolo individuo dà agli avvenimenti della propria esistenza. Coinvolgersi comporta arricchimento, personale e professionale, non soltanto fatica. La pratica dell’ascolto è essenziale in un mestiere di aiuto, ed è l’unica pratica che consente che siano le persone a dire ciò che è importante per loro e per quale aspetto della loro vita chiedono aiuto. Così come la pratica del rispetto: il rispetto inizia da piccole cose, dal riconoscere ciò che riveste significati per la persona, ciò che è importante per la persona stessa e non per l’assistente sociale. La dimensione della relazionalità consente di praticare, concretamente, l’ascolto, il rispetto, la comprensione. Ascoltare e scambiare vuol anche dire ampliare la propria visione. Ci s’immagina l’assistente sociale come un esperto di problemi e di disagi sociali; il che è abbastanza vero, ma l’esperienza del “trattamento del problema” – il maneggiare qualcosa di difettoso per aggiustarlo non è l’unica esperienza dell’assistente sociale. L’assistente sociale non fa solo esperienza diretta di problemi ma incontra esempi di abnegazione, di dedizione, di capacità di vivere in condizioni disagiate, di lucidità pratica, di progettualità creativa, anche laddove non sembra, ad un primo sguardo, che non ci siano né risorse né speranze. Quindi è anche un esperto di strategie esistenziali, particolari, raffinate, differenti. Sottolineo questo aspetto perché è essenziale, per essere buoni professionisti, non stare concentrati soltanto verso il problema (come se fosse un virus da isolare e poi da studiare in laboratorio, su cui applicare vari tipi di soluzioni standard) ma stare soprattutto concentrati verso ciò che è abilità, saper fare, iniziativa autonoma, progettualità spontanea. Altrimenti come si potrebbero mettere in atto dei processi di aiuto, il cui fine è l’autonomia (parziale o totale) delle persone? Concentrarsi sulle risorse – sulle possibilità delle persone di risolvere da sole i propri problemi, con il sostegno del tecnico – comporta, a volte, un grande sforzo intellettuale ed emotivo, perché la

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vicinanza al disagio ed alla sofferenza condiziona lo sguardo e sollecita sempre la stessa prospettiva, la mancanza, ciò che non c’è. Costruire l’abilità di guardare il positivo è un prerequisito della costruzione di professionalità. Articolo 1, secondo comma. “l’assistente sociale svolge compiti di gestione, concorre all’organizzazione e alla programmazione e può esercitare attività di coordinamento e di direzione dei servizi sociali”. Gestione: lavorare direttamente con e per. Non delegare. Non dare gli ordini a qualcun altro. Stare nelle relazioni – con le persone, con gli altri professionisti, con gli amministratori. Saper fare dei programmi d’intervento finalizzati. Coordinare il proprio intervento insieme a quello di altri professionisti, di altri non professionisti. Il funzionamento dell’organizzazione non è qualcosa a cui l’assistente sociale è indifferente; il funzionamento dell’organizzazione incide sulla possibilità dei cittadini di accedere o meno alla risorsa servizi e sulla possibilità di lavorare in modo professionale. Quindi è un compito preciso dell’assistente sociale partecipare alla definizione dei meccanismi organizzativi di un luogo di lavoro. Lavorare nell’organizzazione, e per l’organizzazione, come la preparazione delle risposte che verranno date all’utente, in relazione alla sua domanda ed ai suoi bisogni specifici. La seconda parte indica una prospettiva di un altro modo di esercizio della professione: il coordinamento e la direzione di servizi. Una variazione possibile, dalla dimensione della gestione a quella della programmazione (la definizione dello scenario complessivo in cui si collocheranno le attività di gestione). Articolo 1, quarto comma. “nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale”. L’assistente sociale è un esperto, non è il soggetto che decide. Per essere esperto e per dare elementi a chi deve decidere deve saper fare delle valutazioni esatte, in cui le informazioni siano coerenti con i quesiti oggetto della segnalazione e della richiesta e saper comunicare le proprie valutazioni, le proprie idee. Questo vale per tutti gli interlocutori, da qui l’importanza della documentazione e della cura della comunicazione scritta. Queste dimensioni si collegano nell’operatività, l’agire professionale. L’assistente sociale è un professionista che lavora nella e con la complessità, non semplifica. E’ un professionista che, prima di agire, si chiede perché - chiedersi perché è la domanda fondamentale per capire i significati delle nostre azioni e di quelle degli altri. Perché faccio questo? Perché mi è stata fatta questa domanda? perché questa domanda mi è stata fatta oggi? Perché? è la domanda che apre la comprensione, anche la comprensione che non si hanno sufficienti strumenti per comprendere e quindi bisogna ampliare il bagaglio di conoscenze e quindi studiare e ricercare e che ci sono cose che non si possono comprendere - ci sono perché a cui non c’è risposta, esiste una finitezza nella natura umana che non consente di comprendere totalmente il mondo. Chiedersi perché è un indicatore di professionalità, di competenza e consente di tenere sempre conto della pluralità e della particolarità delle cause, delle spiegazioni, delle soluzioni, delle impossibilità di soluzione, del fatto che ogni percorso di vita è particolare ed irripetibile. Questa legge istituisce l’albo professionale. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine ha scritto ed approvato il codice deontologico dell’assistente sociale. Il codice deontologico che indirizza il fare e dice, al titolo 2, nei principi, che ”la professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo”(punto 6) e, al titolo 3, punto 11 “l’assistente sociale deve impegnare la sua competenza professionale per promuovere la piena autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità ed autonomia, ponendoli in grado di partecipare consapevolmente alle fasi del processo di aiuto”.

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Professionalità è anche la traduzione concreta, in ogni singola azione professionale, dei principi e delle regole del codice deontologico. La dimensione deontologica, dunque, come componente della professionalità. Diomede Canevini9 (1999) sottolinea come una professione matura non possa non dotarsi di un Codice deontologico, e che, nel dotarsi di questo documento, la professione abbia risposto a dei doveri, quali l’esplicitazione del soggetto destinatario del lavoro professionale (“la persona al centro”), la visibilità dei propri valori di riferimento, la tutela delle persone che ricevono un servizio, la dichiarazione di essere una professione di pubblica utilità e al servizio del bene comune10, la definizione della professione e della tutela dei professionisti, e, in ultimo, il dovere di rappresentare la professione in un momento della sua evoluzione.

IL PROCESSO DI AIUTO

I Lo scopo della relazione d’aiuto che l’assistente sociale instaura con l’utente è quello di fargli raggiungere un maggiore livello di autostima, di autonomia, di senso di responsabilità sostenendo un processo di cambiamento nel suo modo di percepire la realtà, di viverla sul piano emotivo, di reagirvi sul piano comportamentale in modo che attraverso anche un uso adeguato delle risorse istituzionali e comunitarie, alle quali l’assistente sociale facilita l’accesso, sia possibile ottenere un cambiamento della situazione socio – ambientale e delle relazioni interpersonali che la connotano. L’obiettivo del servizio sociale quindi non è tanto quello di curare una patologia individuale o sociale, quanto quello di sostenere nell’utente un processo di apprendimento di modi diversi di pensare, sentire, agire, che rendano più adeguati e funzionali i suoi sforzi per affrontare e risolvere la sua situazione/problema, anche con il supporto di tutte le risorse materiali ed immateriali che l’assistente sociale può riuscire ad attivare in rapporto al progetto di aiuto che ha fatto con l’utente stesso e che entrambi sono volti a realizzare. Il processo di aiuto del servizio sociale, in questa ottica, si realizza quindi a diversi livelli: - sul piano razionale – emotivo, cercando di ottenere un cambiamento nel modo di percepirsi da

parte dell’utente, nel modo di percepire la realtà con le difficoltà e i problemi (…) - sul piano comportamentale, sostenendo l’utente nell’adempimento di determinati compiti che

servono a realizzare il progetto di soluzione dei problemi definito e concordato insieme (…) - sul piano organizzativo – promozionale, lavorando sulle risorse istituzionali, sulle reti sociali,

sulle forze ambientali positive per coinvolgerle intorno al progetto formulato, costituendo un set di aiuto in grado di sostenere l’utente nel processo di cambiamento personale e relazionale (…)11

9 M. Diomede Canevini, Il Codice deontologico dell’assistente sociale: cenni di storia ed attualità, in “Rassegna di servizio

sociale”, 4/99, pp. 7-8 10

Il lavoro sociale promuove il benessere sociale degli individui, dei gruppi umani e delle comunità; agevola la coesione

sociale in periodi di cambiamento. Raccomandazione n. 1/2001 del Comitato dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea 11

Howard Goldstein, Il modello cognitivo umanistico nel servizio sociale, Roma, Astrolabio, 1988, p. 21

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II Per processo di aiuto intendiamo l’azione teoricamente fondata, metodologicamente ordinata12, attraverso cui gli operatori, collocati nel contesto dei servizi sociali, rispondono ai bisogni singoli e collettivi dell’utenza attivando le proprie competenze professionali, le risorse istituzionali, le risorse personali, familiari dei richiedenti. Lo scopo fondamentale è di produrre un cambiamento nel modo di valutare e di affrontare i problemi, di prevenire la cronicizzazione del bisogno, di promuovere iniziative di solidarietà sociale. Il termine processo indica non solo il susseguirsi nel tempo di operazioni tecniche o di interventi, ma più precisamente la graduale costruzione di un contesto interpersonale in cui l’articolazione di varie competenze professionali, l’accesso alle risorse, l’uso del rapporto professionale diventano strumento di cambiamento. Il termine aiuto va inteso oltre che nel senso di azione diretta all’utenza, nella più ampia accezione di programmazione e gestione dei servizi giacchè il processo di aiuto non si colloca al di fuori di un’organizzazione, ma si attua nell’interazione tra operatori, utenza, servizi. Nell’affrontare il processo di aiuto nelle sue varie fasi metodologiche diamo particolare rilievo agli aspetti pragmatici di tale rapporto e quindi sottolineiamo i fenomeni relazionali propri dell’incontro tra diversi soggetti con proprie percezioni ed aspettative che influiscono sulla valutazione dei problemi, sul tipo e la modalità di intervento e sulla stessa gestione del ruolo dell’operatore13.

12

Si connette al percorso del metodo – valori, teoria, scelta, sequenza operativa, apprendimento dall’esperienza 13

Milena Lerma, Metodo e tecniche del processo di aiuto, Roma, Astrolabio, 1992, p. 91

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III L’intervento del servizio sociale si può definire come un processo di aiuto messo in atto da un professionista collocato nel contesto di un sistema organizzato di servizi, per lo più di tipo pubblico, rivolto a singoli, gruppi, soggetti collettivi, teso ad attivare un “cambiamento” sia nel modo di porsi dei singoli, dei gruppi e collettività di fronte ai problemi che li riguardano o dei quali intendono farsi carico, sia nel rapporto fra esigenze evidenziate e risposte personali, collettive, istituzionali da attivare o già disponibili. Il processo di aiuto del servizio sociale si pone anzitutto come obiettivo quello di aiutare l’individuo, il gruppo o la collettività ad utilizzare in modo più appropriato le risorse necessarie per risolvere il proprio stato di bisogno; risorse che sono innanzitutto personali (la propria capacità di reagire e di affrontare i problemi) ma anche ambientali - familiari (la capacità di entrare in contatto e di utilizzare le reti naturali di solidarietà sociali e di aiuto) e sociali (le risorse istituzionali o collettive organizzate in servizi, strutture, prestazioni). La relazione professionale attraverso cui si attua il processo di aiuto tende a sostenere la persona, il gruppo, la collettività nello sforzo per capire meglio la propria situazione, per vedere se esistono risorse da utilizzare, come attivarle, entrarvi in contatto, utilizzarle. Si tratta quindi di un processo di “cambiamento” a livello razionale-emotivo che porta ad una gestalt14 diversa della situazione e sviluppa la capacità di reazione e di iniziativa dell’utente in modo da stimolarlo a ritrovare la propria capacità di compiere azioni (…) che servano a rimuovere le cause della situazione di disagio. (…) Il valore di fondo che guida l’azione del servizio sociale consiste nel ritenere l’uomo un valore, dotato di infinite potenzialità, capace di apprendere e di modificarsi continuamente, libero nelle proprie azioni anche se consapevole dei condizionamenti ambientali sui quali può a sua volta agire15. Il servizio sociale parte dal presupposto che le persone non reagiscano solo meccanicamente alle influenze ambientali ma riescano ad incidere attivamente sui di esse e a trasformarle; il concetto di adattamento nel servizio sociale va inteso pertanto non in senso deterministico16. (…)[il] processo di aiuto (…) pur avendo anche esiti di tipo terapeutico è soprattutto “educativo”17 (si tratta cioè di un processo di apprendimento sociale). (…) è un aiuto al sistema utente per lo sviluppo di capacità per attuare un processo di soluzione dei problemi e di presa di decisioni. La (…) attuazione del piano [d’intervento] si concretizza in una serie di compiti che devono essere eseguiti dal sistema utente mentre l’assistente sociale si pone al suo fianco nel ruolo di mediatore, facilitatore […] svolgendo compiti di sostegno, chiarificazione, aiuto per la sperimentazione di nuovi comportamenti, attivazione e gestione di risorse istituzionali e collettive, ecc.18

14

forma, figura, configurazione. In questo contesto può essere tradotto con “configurazione”. La psicologia della forma

(gestaltpsycologie) sostiene che i processi mentali della conoscenza, e in particolare dell’esperienza percettiva, si

organizzano in configurazioni unitarie la cui totalità è qualitativamente differente dalla somma dei singoli elementi che la

compongono ed irriducibile ad essi. U. Galimberti, Psicologia, Garzanti, Milano, 1999, p. 822. 15

Visione ecologico-sistemica. 16

Orientamento interazionista per quanto riguarda il rapporto individuo-ambiente. 17

Prospettiva cognitivista: ha come obiettivo ristrutturazioni cognitive, attraverso l’esame di realtà (comprese le convinzioni

e le credenze, ed i dati oggettivi), per giungere allo sviluppo di capacità relative alla soluzione da adottare, attraverso uno

schema contrattuale tra sistema utente e sistema d’aiuto. 18

M. Dal Pra Ponticelli, Problemi di definizione e riferimenti teorici, in Il servizio sociale come processo di aiuto, Franco

Angeli, Milano, 1993, p. 19-25

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IV Il cambiamento con che cosa ha a che fare? Con la trasformazione e in sé la trasformazione è neutra, non è né buona né cattiva. Una variazione in uno stato – in questo caso, poiché parliamo di esseri umani, una variazione nel modo di pensare, agire, comportarsi, stare nella relazione con gli altri ecc. Il cambiamento dev’essere connesso ad un fine – per assumere un valore, positivo/negativo. Goldstein fa riferimento ad una trasformazione di un individuo che può essere interpretata come � autorealizzazione. È una direzione condivisibile di cambiamento. � L’autorealizzazione non dev’essere confusa con l’individualismo. L’autorealizzazione deve tenere

conto dei nostri legami con gli altri, si colloca in uno scenario sociale e quindi deve tenere conto delle esigenze emergenti da qualcosa che è di più dei desideri umani (l’ideale morale). «L’uomo che cerca di definire se stesso in una maniera significativa deve necessariamente muoversi in un orizzonte di questioni importanti. Da ciò deriva che quelle modalità della cultura contemporanea che si concentrano sull’autorealizzazione in opposizione alle richieste della società, o della natura, che escludono la storia e i vincoli della solidarietà, negano in effetti se stesse. Queste forme narcisistiche, egocentriche, sono in realtà vacue e banalizzate (…) in altre parole, io posso definire la mia identità soltanto sullo sfondo di cose che hanno un’importanza. E accantonare la storia, la natura, la società, le esigenze della solidarietà, insomma ogni cosa tranne ciò che trovo in me stesso significherebbe eliminare tutti i candidati ad una qualunque importanza»19. Negli studi sulla società globale si fa riferimento alla trasformazione dell’individuo da cittadino politico in consumatore (l’homo sociologicus che cede il passo all’uomo consumatore): l’idea della libertà si è ridotta alla possibilità dell’atto del consumo, allo scegliere fra le risorse (abbondanti) a disposizione di molti. «Il problema è che l’uomo consumatore […] il turista del villaggio globale rischia di essere presociale e astorico: presociale, perché più interessato allo spettacolo della differenza che al rapporto con l’alterità, più incline a una continuità senza coinvolgimento che a una corresponsabilità, astorico perché incentrato sull’intensità emozionale dell’istante, senza riguardo per ciò che viene prima o per le conseguenze che le sue pratiche di ricerca della massima e immediata gratificazione possono produrre sull’ambiente»20. L’uomo consumatore è un promotore della libertà senza responsabilità. Questo corso si muove in controtendenza: si cerca di insegnare agli studenti nei corsi di metodi e tecniche di servizio sociale ad attivare dei percorsi verso l’assunzione di responsabilità: la responsabilità della propria vita, delle proprie intenzioni, del proprio impegno , dei propri valori, del proprio modo di relazionarsi, sono essenziali in qualunque percorso di cambiamento – dell’operatore, dell’utente. E la responsabilità dell’individuo si colloca nella storia e nella società.

� Questo è un esempio di complessità di un termine – l’autorealizzazione - che si tende ad interpretare sempre come positivo; il principio della libertà della persona, in servizio sociale, si declina in “autorealizzazione e autodeterminazione”. La possibilità di realizzare i propri desideri, all’interno di un confine dato, i desideri degli altri e il rispetto delle regole di base della società, e la possibilità di scegliere. Scegliere è una possibilità enorme, che implica delle responsabilità: poter scegliere implica l’accettare di fare un errore. L’autodeterminazione, come possibilità di scelta, non è sempre praticabile: pensiamo alla protezione sociale, laddove la protezione sociale si traduce in una violazione dei desideri e delle aspettative della persona – per il suo bene. Si può fare riferimento a certe istituzionalizzazioni di anziani, in cui l’autosufficienza è molto ridotta, non ci sono risorse nella rete familiare, ci sono risorse limitate dal punto di vista istituzionale , per cui la scelta (dei servizi) è quella della situazione più tutelante, quindi non la casa, ma l’istituto. Rispettare l’autodeterminazione, per un operatore sociale vuol dire, a volte, accettare di attuare interventi imperfetti, parziali, nella logica del rispetto del desiderio, con dei rischi, per la persona, per l’operatore (che si assume la responsabilità di predisporre un intervento imperfetto).

Cambiamento, in servizio sociale, non è un termine assoluto, che indica sempre una variazione consistente in una situazione (“ho cambiato il mio modo di vedere la vita”), può essere una variazione, minima (un miglioramento), una conservazione.

19

Charles Taylor, Il disagio della modernità, Roma, Laterza, 1999, p. 48 20

C. Giaccardi, M. Magatti, L’io globale, Roma, Laterza, 2003, p.145-146

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Occorre differenziare nei progetti gli elementi di cambiamento dagli elementi di conservazione o restauro. Non sempre è produttivo predisporre cambiamenti, occorre soprattutto agire per conservare, consolidare, restaurare, accompagnare il deterioramento21. Una pratica di lavoro sociale che consenta di continuare ad esistere. Non usare solo ruspe, martelli pneumatici, dinamite: avere la mano leggera, pulire, spolverare, consolidare, medicare e non tagliare. Si pensa, erroneamente, che il non cambiare sia un fallimento: da qui nascono gli accanimenti, terapeutici, educativi. Accettare un aiuto, ad esempio, è già un cambiamento: si tratta di continuare nella propria condizione di vita (pensiamo ad una condizione di non autosufficienza, irreversibile) con una risorsa aggiuntiva, che può essere l’aiuto del servizio sociale, che prima non c’era. Per concludere: � il processo di apprendimento–cambiamento è un processo mentale che consente una

modificazione durevole del comportamento per effetto dell’esperienza, consente quindi un cambiamento.

V Il paradigma educativo – promozionale, innescare processi di cambiamento, non curare le patologie. Parlo di paradigma perché assumere questo orientamento ha significato una svolta enorme nel pensiero di servizio sociale. Dalla storia di servizio sociale si evidenzia come il centro d’interesse iniziale del servizio sociale fosse centrato sulla cura, sulla riparazione – dal modello di tipo caritativo ai moderni sistemi di welfare che si sono articolati attorno all’idea che dei diversi problemi sociali potesse farsene carico la società organizzata (lo stato). La responsabilità della società si è trasferita, per delega, alle professioni sociali – qualcuno doveva tradurre in pratica l’atteggiamento di opposizione e di lotta alle patologie sociali collettive. Questo ha significato, concretamente, che agli operatori sociali è stato dato il mandato di salvatori/risolutori. Che questo tipo di mandato non funzionasse era difficile intuirlo a priori, bisognava percorrerlo ed applicarlo per capire che era sbagliato. Questo primo paradigma del lavoro sociale possiamo chiamarlo “burocratico industriale” o “medico”, le cui caratteristiche principali sono: � tendere ad avocare a sé (l’operatore che lo assume) ogni responsabilità della cura e del

benessere; considera la persona solo per la patologia che ha, quasi come fosse un materiale da manipolare e sul quale produrre benessere (un atteggiamento di tipo industriale)

� enfatizzare la trasmissione unidirezionale di risorse – l’operatore sociale vede se stesso esclusivamente come un tecnico addetto all’erogazione di risorse tecnico-materiali, da convogliare addosso all’utente

� tende ad astrarre la persona, considerandola a tu per tu, come se il cerchio delle relazioni non fosse una parte della persona stessa22.

Qui troviamo il tema della dipendenza dell’utente dall’operatore, dell’assioma dell’incapacità delle persone di essere autonome e quindi di avere delle competenze, della distanza emotiva, dello scarso valore della relazionalità, della non considerazione dei contesti di vita (le relazioni della rete primaria e l’ambiente di vita in senso lato). Il paradigma promozionale educativo triplica le responsabilità (l’operatore – la persona – il sistema di servizi), quindi assume maggiore realismo e evidenzia le competenze, le opportunità evolutive, il cambiamento possibile. Non si concentra sul problema, ma sulle risorse – personali e sociali. La funzione educativa compete a tutte le professioni che operano nel mondo dei servizi alle persone e non solo agli “educatori”23. Il lavoro educativo è un lavoro che produce riscontri concreti nella vita delle persone, riscontri che hanno un forte valore simbolico. 21

I progetti di riduzione del danno o quelli di accompagnamento - alla morte, per esempio - si collocano in questa

dimensione. 22

Fabio Folgheraiter, Operatori sociali e lavoro di rete, Trento, Erikson, 1990, p.149-150 23

Alle professioni definite come educative

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Il superamento di un malessere materiale, la conquista dell’alfabeto, la risoluzione di un disagio psico – relazionale sono aspetti che hanno in comune il fatto di avere riscontri concreti nella vita delle persone, e di avere un forte valore simbolico (ad esempio la risoluzione di un disagio mi consente di fare esperienza di benessere, di successo, di sostegno da parte di qualcuno, ecc. - un cambiamento significativo). In altri termini, il valore simbolico – il valore immateriale – del lavoro educativo è dato dal presentare agli altri, da parte della persona stessa, un’immagine rinnovata della persona che si è sottoposta al trattamento educativo (prima del disagio – dopo il disagio) e di aver una diversa percezione di sé – presentare a se stessi un’altra immagine, di colui che ha appreso o riappreso a fare, a comunicare; di potere esibire, quindi, agli altri e a se stessi, un’immagine trasformata. Ne consegue che il lavoro educativo – che produce questo valore simbolico – non può non essere parte del lavoro sociale24. Se no, non si capisce dove sia la qualità, il significato del cambiamento. Educare al cambiamento interessa l’uomo, in tutte le età e condizioni della vita. Ma è anche educarsi al cambiamento. Quindi non solo sapere essere, ma saper divenire25. Saper divenire si connette direttamente al tema della flessibilità, intesa come la capacità di mettersi in discussione, di non essere rigidi, di accogliere pensieri di altri, che sono magari in contrasto con ciò che pensiamo noi, di accettare che qualcun abbia qualcosa da dire sullo stesso argomento su cui noi abbiamo qualcosa da dire – accettare saperi diversi ed esplorazioni del mondo diverse dalle nostre. VI Alcuni termini ricorrenti: la domanda, il problema, l’oggetto di lavoro, il cliente/l’utente26. La domanda. Ciò che è richiesto esplicitamente o implicitamente, consapevolmente o in termini inconsci. Esiste la domanda esplicita (espressa) e la domanda implicita (inespressa). La domanda è direttamente collegata alla storia della persona: chiedo ciò che mi sento di chiedere, chiedo ciò che m’immagino di poter chiedere. Per fornire servizi adeguati o di qualità è fondamentale rispondere a ciò che la popolazione o il mercato richiedono. È necessaria una capacità di lettura della domanda: quindi raccogliere la domanda esplicita, letterale, ma non soltanto, sentirsi sollecitati a scoprirne il significato in relazione alla storia dell’individuo. La domanda va maneggiata, scomposta, interpretata. Ciò è necessario per disegnare un progetto d’intervento. Un’organizzazione di servizi fornisce una prefigurazione delle possibili risposte che può dare: per cui la persona orienta la propria domanda in rapporto a questa prefigurazione – m’immagino che... Col tempo si sviluppa una certa congruenza (routine) tra cittadino e servizio. Fornire ai clienti un’immagine diversa del servizio li aiuta a formulare domande differenti27. I problemi: il problema fa parte della vita. È un quesito, un dilemma, un’incognita che attende una soluzione. In un modello teorico classico, il processo di servizio sociale individuale di Helen Perlman (1957), l’autrice afferma che il processo di servizio sociale individuale è essenzialmente un processo di soluzione di problemi28, ma questo non vuol dire che il servizio sociale risolva tutti i problemi, deriva dal concepire l’intera vita umana come un processo continuo di soluzione problemi. Questo processo, che riguarda tutti gli esseri umani, dalla nascita alla morte, ha essenzialmente due

24

Duccio Demetrio, Lavoro sociale e competenze educative, Roma, NIS, 1988, p. 11 25

idem, p. 25 26

Tratto da A. Orsenigo, La costruzione dell’oggetto di lavoro e il modo di trattarlo nella progettazione, Animazione

Sociale, 11/99 27

La routine non è solo un evento negativo: consente conoscenza e la costruzione di un codice comunicativo comune. Nello

stesso tempo, un’immagine altra di servizio dà l’idea di una “cura” diversa. Se mi preoccupo non solo del fatto che una

persona sia iscritta al Centro per l’Impiego (per ottenere un aiuto economico), ma che abbia anche la licenza media e una

formazione professionale, come operatore sto ampliando i margini dell’interazione persona-servizio, ed inserisco un

elemento nuovo nel progetto di vita della persona. 28

H. Perlman, Il processo di servizio sociale individuale, in M. Dal Pra Ponticelli (a cura di), I modelli teorici del servizio

sociale, Astrolabio, Roma, 1985, p. 53 e sgg.

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finalità: la riduzione di uno stato d’insoddisfazione o il passaggio ad uno stato di soddisfazione maggiore. L’assistente sociale interviene laddove la naturale capacità della persona di risolvere i problemi viene a mancare, per diverse ragioni (una condizione di stress particolare, ad esempio). Questa premessa per ricollocare il termine in una dimensione di normalità. Il termine problema, nel modello della Perlman, può essere una qualsiasi questione esistenziale. Altri due autori, Allen Pincus e Anna Minahan, affermano che quando si parla di una situazione come di un problema, abbiamo già formulato un giudizio su quella situazione. Si può quindi dire che un problema è un insieme fatto di tre parti collegate: - una condizione o situazione sociale; - delle persone che hanno giudicato problematica la condizione o la situazione sociale; - i motivi e le basi della loro valutazione29. Questa definizione di problema ci aiuta a collocare ogni problema (individuale o collettivo, definito da un individuo o definito istituzionalmente) in uno spazio di relatività – il problema esiste quando è definito come tale30. Questo ci mette un po’ in crisi, vuol dire che i problemi hanno bisogno di essere pensati per esistere: i problemi come frutto di una costruzione sociale ed individuale � non esistono in natura, ma sono il prodotto di complesse costruzioni in cui s’intrecciano rappresentazioni di sé e del mondo, emozioni e razionalità, memorie, pensieri, ricchezze e mancanze, rappresentazioni del passato e prefigurazioni del futuro. Per pensarli, le organizzazioni devono ricorrere a strumenti per pensare, più o meno consapevoli, quadri di riferimento, contenitori, schemi mentali. L’uso di stupefacenti in sé non è un problema, lo è in rapporto ad un sistema di norme, valori, paure, emozioni collegate. Le droghe leggere, le droghe pesanti: chi dice che le prime non siano un problema per la salute, chi dice che sono danno allo stesso modo. Inoltre, i problemi sono relativi nel tempo: un problema non è sempre un problema. I problemi sono in divenire, vanno collocati su un asse temporale; ciò che è oggi un problema, tra un anno potrebbe non più esserlo. L’individuazione dell’esistenza dei problemi può essere uno specifico compito del tecnico; si dice che solo i tecnici riescono a individuarli � riconduzione da parte dei tecnici dei disagi, desideri, domande dei clienti ai veri problemi che li originano. È un modello di razionalità forte: il paziente descrive i sintomi, ma è il medico che definisce il problema. Autorità del tecnico. Il limite di questo modello è che, siccome i tecnici hanno memorizzato le soluzioni per una serie di problemi, sono indotti a riconoscere quelli collegati alle soluzioni e non altri; si dice “le organizzazioni sono piene di soluzioni alla ricerca di problemi”. Definire qualcosa – un fenomeno sociale, un comportamento individuale – come problema è anche un potere: qualcuno ha il potere di definire qualcosa come problema: i tecnici, i dirigenti, i gruppi politici, i media, specifiche organizzazioni, la comunità scientifica. Dare potere alle persone è accettare che possano dare una loro definizione di problema e creare le condizioni affinchè possano dirlo. Poi si può negoziare, se il problema individuato dal tecnico è un altro o se il tecnico non ha soluzioni per quel problema.

29

A. Pincus., A. Minahan, Un modello integrato per la pratica del servizio sociale, in M. Dal Pra Ponticelli, cit. , p. 254 30

lettera inviata dal sig. Francesco R. alla redazione di Leggo, pubblicata il 1.12.2004: «Ho letto la lettera spedita dal sig.

Federico Antonelli e pubblicata qualche giorno fa. Sono perfettamente d’accordo con lui circa i problemi e i rischi legati al

fenomeno dell’immigrazione. Anzi, è stato fin troppo tenero. Per quanto mi riguarda, questo fenomeno va considerato un

problema e non una risorsa, come qualcuno vuol farci credere. Un problema che sta sfuggendo di mano alle Istituzioni. Se

noi, ad esempio, permettiamo a questa gente di offendere la religione cattolica, le nostre tradizioni, la nostra cultura, il futuro

è alquanto compromesso per quel che riguarda la sicurezza a casa nostra! Non è però solo colpa degli immigrati, ma anche di

quei falsi buonisti, ipocriti e tolleranti a tutti i costi, tutti quelli che accusano le persone che desiderano solo vivere in pace e

tranquillità e non a contatto con questi extracomunitari sempre più arroganti e fuorilegge. Bisognerebbe cominciare a far

pesare ai clandestini il loro status e quindi evitare di dar loro ogni sorta di assistenza, con tanto di alloggio e di vitto gratis,

presso i soliti enti para-religiosi, monetine ai semafori, ecc. Soprattutto, bisognerebbe rispedire al mittente quelli che

delinquono senza far scontare loro alcuna pena in Italia, visto che la popolazione carceraria è in massima parte rappresentata

proprio da immigrati»

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Nel sociale, possiamo identificare due grandi categorie di problemi: quelli generali, istituzionalmente definiti, capaci di orientare e di identificare un servizio e i soggetti che ad esso accedono; quelli specifici: sono quelli legati al singolo caso trattato, costruiti volta per volta. Al problema, noi attribuiamo molti significati: 1. sinonimi d’imperfezione. La situazione ideale è quella senza problemi 2. un giogo da sopportare: essi sono legati al destino, è un titolo di merito sopportare la gravosità

dei problemi, non c’è nulla da fare; 3. una sfida: risolvere problemi appassiona � è la sfida (contro l’imperfetto, il disordine)

individuale o di gruppo del problem solving. Si accompagna alla convinzione che è essenziale aver imparato il maggior numero di soluzioni possibili a problemi predefiniti;

4. oggetti di ricerca, occasioni di relazioni, stimoli della curiosità. La centratura sulla loro soluzione si accompagna con il piacere per il percorso di ricerca. Sono opportunità e non solo minacce, stare con i problemi, esplorare con curiosità31.

Possiamo trattarli in modi diversi: a. evitarli; l’oggetto di lavoro è il fastidio e non il problema configurato dal cliente, esterno o

interno, si è guidati più dall’interesse individuale che da quello collettivo b. risolverli-eliminarli. Tendenza all’efficienza: non ci si riesce a rappresentare i problemi senza

soluzione, si cerca di passare ad altri i problemi irrisolvibili, sino al paradosso “se non c’è soluzione, non c’è problema”

c. gestirli: mantenere una relazione meno costosa e distruttiva con essi, si impara a convivere, senza essere travolti.

Il tema del problema è direttamente connesso all’oggetto di lavoro: il problema o la parte dei problemi sui quali decidiamo di intervenire (problemi di cui ci prendiamo cura); ciò che è possibile fare, date le risorse limitate, è investire sulla quota di problemi sui quali ci si può effettivamente alleare con i clienti per giungere a una loro soluzione o migliore gestione. L’oggetto di lavoro non s’impone; esso è costruito dall’operatore, in relazione con il cliente ed in funzione dei modelli, delle routine, della cultura del servizio e dell’ambiente in cui opera. L’oggetto di lavoro ha due dimensioni: quella generale in cui è l’organizzazione ad individuare i confini dell’area in cui i suoi membri sono autorizzati ad investire; e quella particolare, gli oggetti di lavoro specifici dei singoli progetti, costruiti sui particolari problemi del singolo cliente. Gli oggetti di lavoro generali sono in una certa misura predefiniti � hanno la forma di mandati sociali ai servizi, di direttive, di programmi, di tendenze culturali, costituiscono il “quadro generale degli indirizzi”, l’organizzazione dà delle piste per individuare l’oggetto di lavoro. Non è però così automatica, la chiarezza nei servizi circa l’oggetto di lavoro, non è per nulla scontata. Gli oggetti di lavoro sono concetti, simboli, relazioni tra persone, gruppi, organizzazioni. Di fronte alla difficoltà di individuare gli oggetti di lavoro si tende ad ipersemplificare. Buttarsi soltanto su aspetti molto concreti o marginali (l’arredamento anziché il funzionamento dell’ufficio). Occorre una solida alleanza con i clienti (cittadini o altri servizi) nella costruzione degli oggetti di lavoro; un’alleanza di lavoro tra operatori e clienti. Il cliente: il soggetto individuale o collettivo che beneficia del prodotto, che acquista, direttamente o indirettamente, il servizio, che interagisce con un’organizzazione per ottenere un intervento capace di risolvere o ridurre un problema. I clienti sono sia esterni all’organizzazione che interni. I clienti nei servizi sono rappresentabili come prosumer (tra producer e consumer), come utenti, utilizzatori di servizi e contemporaneamente come elementi attivi nella costruzione del prodotto stesso, nella realizzazione dei servizi ed anche nella loro progettazione. Integrazione tra i progetti dei clienti e quelli dell’operatore, dall’équipe, dal servizio.

31

Un esempio di esplorazione che diventa fonte di sopravvivenza è nella Novella degli scacchi di Zweig: il protagonista per superare il

silenzio e l’isolamento della prigionia inizia a giocare a scacchi con se stesso.

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PREMESSE MODELLO UNITARIO CENTRATO SUL COMPITO

Nelle scienze sociali si usa il termine modello come “schema di riferimento”; il modello è una struttura logica con cui osserviamo la realtà per costruire la teoria. Nelle scienze sociali le teorie sono di tipo idiografico – il che vuol dire descrivere e spiegare un particolare universo, reale, farne la storia, cercarne le leggi. In antitesi all’orientamento nomotetico che ricerca leggi generali, senza riferimenti spaziali e storici. La teoria nell’ambito del servizio sociale si colloca a due livelli: - la teoria della pratica � teoria operativa e metodologica che si fonda su processi osservativi-

induttivi (dal particolare al generale) che originano degli enunciati ricavati da generalizzazioni empiriche;

- la teoria per la pratica si colloca al livello normativo del sapere, cioè si costruiscono modelli di intervento per la pratica32.

Sanicola (1989), ritiene che l’elaborazione teorica nel servizio sociale si sviluppi su due coordinate fondamentali - le ipotesi esplicative finalizzate alla comprensione di situazioni problematiche ad elevato livello

di complessità, su cui fondare l’intervento - le ipotesi operative finalizzate all’intervento (prevenire e risolvere). «In altre parole la professione si organizza intorno a una capacità di aiuto…: ciò presuppone una capacità di conoscere e di comprendere una realtà complessa[…]la conoscenza non è di ordine teoretico, non persegue la conoscenza in sé come tensione scientifica, ma è ordinata all’operatività, obbedisce alla logica dell’azione»33. Quindi il sapere degli assistenti sociali è un insieme di percorsi di conoscenza, che consentono ad un soggetto di identificare delle ipotesi idonee per assumere delle decisioni e delle scelte finalizzate al raggiungimento di scopi reali. Questi percorsi di conoscenza sono dei veri e propri ambiti e dei luoghi di esperienza. Sanicola così definisce l’itinerario di conoscenza dell’assistente sociale: - il percorso socio culturale, ovvero le trasformazioni della società italiana; - il percorso delle politiche sociali; - il percorso tecnico scientifico (scienze umane e sociali); - il percorso dell’esperienza «concerne il confronto degli assistenti sociali con la situazione di

bisogno[…]in presa diretta[…]si tratta perciò di un impatto di vita, anzi di vite, che nella storia del servizio sociale ha determinato la realizzazione di iniziative diventate nel tempo vere e proprie opere sociali[…]da questo impatto di vita come modo di conoscere e dall’elaborazione di queste esperienze ne deriva che gli assistenti sociali hanno tratto informazioni ed indicazioni utilizzate poi per innovare a livello del modello di intervento»34.

L’esperienza è quindi uno specifico ambito di conoscenza. Per costruire un modello teorico in servizio sociale occorre tenere conto di diverse variabili: 1. i principi e i valori del servizio sociale 2. le teorie delle scienze sociali 3. le teorizzazioni della prassi – teoria della pratica del servizio sociale che porta alla formulazione

di rappresentazioni sociali sulla figura e l’attività dell’assistente sociale e alla definizione di generalizzazioni operative.

4. Queste tre variabili consentono la definizione di un modello, che avrà al suo interno un processo metodologico, degli strumenti, delle tecniche.

La variabile 1 e la variabile 2 devono essere messe a confronto (il servizio sociale si deve sempre rifare al concetto di uomo come valore che è a fondamento della sua prassi); inoltre devono essere teorie utili agli obiettivi del servizio sociale. A che cosa serve un modello teorico? A rendere l’intervento dell’operatore prevedibile, cioè di sapere quale tipo di risultati attendersi dalla propria azione e quale percorso percorrere. Un

32

M. Dal Pra Ponticelli (1985), I modelli teorici del servizio sociale, Astrolabio, Roma 33

L. Sanicola, Processi interattivi tra discipline professionali e discipline di base nel servizio sociale, in O. Cellentani, P.

Guidicini (a cura di) (1989), Il servizio sociale tra identità e prassi quotidiana, Franco Angeli, p. 45 34

L. Sanicola, Processi interattivi…, in O. Cellentani, P. Guidicini, op. cit., p. 53

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modello serve all’operatore per dare spiegazioni – a se stesso e agli altri – su ciò che ha fatto o intende fare35. Due grandi aree di modelli teorici: - i modelli derivati dalle teorie psicodinamiche (freudiane, neofreudiane, psicologico-

umanistiche); - i modelli derivati dalle teorie ecologico-sistemiche. Modello integrato, Pincus, Minahan, 73 – la pratica del servizio sociale si focalizza sul rapporto fra le persone e i sistemi del loro ambiente sociale, per cui occorre lavorare sia nei confronti delle persone, per migliorare la loro capacità di risolvere i problemi, sia sulle risorse sociali. Si individuano 4 sistemi di base: sistema agente di cambiamento (l’assistente sociale e l’ente), sistema bersaglio (l’area problematica su cui investire gli sforzi di cambiamento), sistema cliente (chi beneficerà del cambiamento – il singolo, la collettività), sistema di azione (il coordinamento fra persone e servizi e forze sociali per progettare e realizzare gli interventi). Le funzioni del servizio sociale sono36: 1. aiutare le persone a sviluppare e ad usare in modo più efficace le capacità personali di reazione

e di problem solving: l’assistente sociale svolge questa funzione con le persone che non riescono a far fronte ai propri compiti esistenziali

2. stabilire dei legami iniziali tra le persone e i sistemi di risorse: le persone possono non essere collegate ai sistemi delle risorse perché non sanno che ci sono o non sono in grado di utilizzarli

3. facilitare l’interazione e modificare e costruire nuovi rapporti fra le persone e i sistemi di risorse sociali: la natura delle interazioni può aggravare i problemi anziché risolverli

4. facilitare l’interazione, modificare e costruire dei rapporti fra le persone all’interno dei sistemi di risorse: questa funzione mette l’accento sui rapporti all’interno dei sistemi di risorse (es. la famiglia)

5. contribuire allo sviluppo e al cambiamento della politica sociale: gli assistenti sociali lavorano per attuare dei cambiamenti nelle politiche sociali. Ad es., sollecitano l’attenzione sui bisogni non ancora soddisfatti. Capacità di interagire con l’interlocutore politico, il decisore: documentare ed argomentare.

6. elargire le risorse materiali: risorse indispensabili per la sopravvivenza delle persone 7. funzionare da agenti di controllo sociale: gli assistenti sociali controllano il comportamento delle

persone i cui atti deviano dalle leggi e dalle norme sociali oppure le cui azioni potrebbero danneggiare altri; controllano il comportamento di chi potrebbe ricevere un danno dal comportamento di altri. oppure attività di vigilanza (comunità, istituti) questo mandato deriva direttamente dal fatto che l’assistente sociale è un operatore dipendente di un attore del sistema di risorse sociali (pubblico dipendente, incaricato di pubblico servizio).

Funzioni e compiti del servizio sociale: Dal Pra Ponticelli, 1987 Funzioni Attività Dimensione individuale del servizio sociale

• Rapporto con l’utenza: a) aiutare le persone e i gruppi a sviluppare le

proprie capacità di affrontare e risolvere i problemi propri e delle comunità e a svilupparsi

b) mettere in contatto le persone e i gruppi con le risorse istituzionali e comunitarie.

- consulenza psico-sociale - intervento socioassistenziale

• studio della situazione • formulazione piano d’intervento • attuazione piano d’intervento

- segretariato sociale

Dimensione organizzativa-gestionale e promozionale del servizio sociale

• promozione ed organizzazione di servizi, prestazioni, strutture e

Nei confronti dell’organizzazione - collaborare ad una organizzazione

funzionale dell’ufficio - informare e proporre agli organismi

35

M. Dal Pra Ponticelli (1985), I modelli teorici del servizio sociale, cit., p. 19 36

idem, p. 249

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risorse istituzionali e comunitarie: a) contribuire ad una gestione efficiente,

efficace ed umana dei servizi e delle risorse; promuovere e coordinare le risorse istituzionali con quelle del privato sociale

decisionali progetti per l’attuazione di servizi e prestazioni per problemi collettivi

- collaborare con operatori di altri servizi per attività preventive

nei confronti della comunità - diffondere informazioni sui problemi sociali

e i servizi - costituire gruppi come risorse - integrare servizi e risorse pubbliche e

private Dimensione di ricerca e progettuale del servizio sociale

• rilevazione e studio dei problemi e delle risorse del territorio ed elaborazione piani d’intervento

a) conoscere i problemi e le risorse del territorio per progettare, promuovere e organizzare prestazioni e servizi efficienti ed efficaci, integrando risorse istituzionali e della comunità

• sviluppo e trasmissione della cultura professionale

a) teorizzazione dalla pratica per contribuire alla elaborazione delle basi teoriche del servizio sociale

- promuovere e collaborare ad indagini, inchieste, ricerche per la conoscenza dei problemi e delle risorse del territorio

- documentazione sistematica e rielaborazione del proprio lavoro

- apprendere la capacità di riflettere sul proprio lavoro

Le fasi del procedimento metodologico (Dal Pra Ponticelli, 1987)

1) individuazione e riconoscimento del problema sia individuale che sociale (definizione del problema, pertinenza del servizio)

2) raccolta di informazioni per una prima analisi della situazione 3) valutazione della situazione 4) fissazione degli obiettivi, formulazione del piano, contratto per la sua attuazione 5) attuazione del piano 6) verifica dell’andamento del processo di aiuto e dei risultati ottenuti 7) conclusione del processo

Le fasi del procedimento metodologico (Ferrario, 1996)

1) contatto 2) contratto 3) realizzazione 4) conclusione

1. LA DOCUMENTAZIONE

La documentazione è il complesso delle attività e operazioni occorrenti per raccogliere e classificare materiale bibliografico, informativo, dimostrativo, ecc.: d. storica, d. bibliografica; l’insieme dei documenti prescritti per la costituzione di una pratica burocratica o amministrativa (Devoto, Oli, 1990)

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Il documento è “scrittura atta a fornire una prova o convalida in ambito burocratico, amministrativo, giuridico; qualsiasi oggetto utilizzabile a fini di consultazione, ricerca, informazione” (Devoto, Oli, 1990). La distinzione tra i due termini è importante: il documento è collegato prevalentemente al dato, mentre la documentazione è portatrice di informazioni e conoscenza, perché frutto di un percorso di analisi ed elaborazione (Bini, 2003) Che cos’è il dato? Elemento per la conoscenza, esistente nelle cognizioni teoriche e pratiche, individuabile e isolabile, suscettibile di elaborazione, conservazione e diffusione, ma ancora estraneo all’utilizzazione o accoglimento (i dati anagrafici sono isolabili, sono utilizzabili soltanto in rapporto a qualcos’altro: ad esempio, l’identificazione, correlata a specifiche esigenze, l’accesso a prestazioni, a benefici – se ho meno di 26 anni posso avere sconti ferroviari, se ho più di 65 anni posso avere la pensione sociale, ecc.) L’informazione si situa ad un livello più complesso, più astratto: elemento che modifica lo stato di conoscenza; è lo stato dinamico del dato, il suo incidere nel quadro delle conoscenze, modificandolo. Il dato diviene informazione quando è recepito, inserito in una rete di dati, correlato ad essi ed interpretato37. La d. è un insieme di informazioni, prodotto di un’attività consapevole di raccolta ed analisi di dati, volta ad un obiettivo specifico di conoscenza, ed è contemporaneamente uno strumento di comunicazione. In servizio sociale. la d. è uno strumento professionale. In servizio sociale, la d. come insieme di informazioni pone il problema del recupero dei dati e dell’informazione: “la raccolta informazioni per una prima analisi della situazione” è la seconda fase del procedimento metodologico, così come proposto da Dal Pra Ponticelli (1987), che descrive la fase in questo modo «le informazioni sono fornite essenzialmente dall’utente in un processo di aiuto alla persona o dal gruppo, se il processo di aiuto si realizza tramite un gruppo, o da persone significative dell’ambiente o da documentazione esistente. Per l’analisi di un problema sociale o di una istituzione, invece, ci si serve di altri strumenti, quali l’osservazione, la lettura di documenti, il contatto con testimoni significativi, la ricerca. […] dalla corretta e approfondita conduzione [della raccolta informazioni] dipende l’esito dei risultati che si vuole raggiungere nell’intero processo (soluzione di problemi, presa di decisioni) […] la raccolta informazioni e l’analisi della situazione devono essere più complete possibile, tenendo presente tutti i possibili collegamenti fra un problema concerto presentato o rilevato e il sistema sociale più vasto (approccio ecologico) nel quale possono trovarsi le cause del problema o che può divenire “bersaglio” per l’avvio a soluzione della situazione problematica»38 Nella valutazione, che è la fase successiva, si confronta la raccolta informazioni con le conoscenze teoriche (Dal Pra Ponticelli, 1987). La d. è comunicazione, in quanto consente a un esterno al processo di produzione della d., l’accesso alla conoscenza e alle informazioni contenute nella d. stessa. La d. è un canale di comunicazione particolare che, a differenza di altri canali (come ad esempio la trasmissione orale): • è più mediato e distante dalla fonte dell’informazione • rende permanente il messaggio (quindi con possibilità di riusarlo, riadattarlo, aggiornarlo) • può essere richiesto tassativamente dalle organizzazioni burocratiche per trasformare alcune

decisioni in atti concreti e finalizzati.

37

L. Bini, Documentazione e servizio sociale, Roma, Carocci, 2003 38

M. Dal Pra Ponticelli, Lineamenti di servizio sociale, Roma, Astrolabio, 1987, p.120-121

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La documentazione ha delle funzioni di raccolta, elaborazione, produzione, trasmissione di informazioni ma anche di produzione di metacomunicazione, cioè riflessione sull’azione professionale. È uno strumento informativo proprio sia della professione che dell’organizzazione di servizio, che deve fare i conti con i contesti amministrativi e tecnici in cui viene usata e prodotta: da qui derivano le sue caratteristiche di complessità. Esistono due codici di riferimento su cui si basa il sistema informativo di ogni organizzazione di servizio, il codice burocratico - amministrativo e quello professionale. Il codice burocratico amministrativo precisa e consente il rispetto di norme e procedure formali, che forniscono ai cittadini garanzie di tutela (le norme sono uguali per tutti, e non s’inventano di volta in volta secondo l’estro del momento), quindi ha un’utilità specifica. La documentazione burocratica è obbligatoria, e registra i corretti percorsi dell’operatore pubblico e dà al cittadino la possibilità di “vedere” il lavoro dell’operatore pubblico: si pensi all’accesso agli atti, così come la sancisce la 241/90. C’è però spesso difficoltà di comunicazione e di accettazione reciproca tra i due codici; il primo viene considerato obbligatorio (quindi inderogabile ma poco significativo), il secondo è lasciato alla libera scelta dell’operatore, come se documentare azioni professionali fosse un’attitudine personale e non un’esigenza connessa all’esercizio stesso della professionalità. La sovrapposizione tra obbligo formale e necessità professionale può ingenerare demotivazione e perdita di significato rispetto alla documentazione stessa, per cui la documentazione non produce “nuova conoscenza”39 ma adempimenti. I rischi connessi alla non produzione di documentazione professionale sono diversi: • la perdita di dati rispetto a determinate situazioni e quindi l’impossibilità di lavorare secondo

un progetto con degli obiettivi e di verificare se il comportamento professionale è adeguato o debba essere modificato;

• la perdita di dati sulla singola situazione e quindi l’impossibilità di trasmettere informazioni ad altri operatori, il che causa danni nella gestione del caso e non consente confronti fra operatori;

• la perdita di dati rispetto a determinate situazioni (o fenomeni) sociali: solo un operatore, attraverso il proprio lavoro, può scoprire dei particolari dati di realtà e renderli leggibili per coloro che operatori non sono; quindi l’abbandono di una funzione di ricerca che può generare programmi di lavoro (ad esempio modifiche organizzative) e prospettive di azione sociale (un esempio: un assistente sociale, nel suo quotidiano, incontra trasformazioni sociali, nuovi bisogni, realtà vecchie e nuove di povertà: è suo dovere raccogliere questi elementi, strutturarli, dare loro una visibilità, organizzare delle proposte operative attorno ad essi - se nessuno avesse pensato di leggere, coscienziosamente, le domande di aiuto e di sostegno provenienti dalle famiglie affidatarie, non sarebbero mai nati i gruppi di sostegno per l’affidamento familiare; oppure se l’elenco degli abbandoni nella scuola dell’obbligo rimane un mero elenco di numeri e non lo si incrocia i dati più generali sulla scolarità della popolazione, sulle condizioni delle scuole della zona, non è possibile tentare una loro lettura con la scuola e con quanti altri possono essere interessati ad un miglioramento delle condizioni di vita anche attraverso l’accesso alla formazione scolastica di base).

Neve (1993) afferma che «i processi cognitivi che sottostanno all’azione del documentare ne fanno un luogo privilegiato di pensiero che, in quanto tale, dà spazio alla soggettività, ai sentimenti dell’operatore, permettendogli di guardarli, di fare i conti con essi (il che è possibile appunto distanziandosi un po’ dall’evento: in tal senso documentare aiuta a pensare)»40. Ed anche «mi viene infine spontaneo evocare le dimensioni dell’interesse e del piacere di pensare: spesso ce lo neghiamo, rafforzandoci nell’idea che il tempo per pensare è un po’ rubato all’attività del servizio. Analogamente, la natura stessa della ricerca e della scoperta che accompagnano l’attività del documentare, richiede anche movimenti di creatività e fantasia per rielaborare i dati,

39

Nuova conoscenza: l’osservazione e l’analisi di bisogni sociosanitari nuovi, emergenti; ed anche il miglioramento

complessivo della competenza, da parte dell’operatore, nel maneggiare modalità di documentazione. 40

E. Neve, Significati della documentazione nel lavoro dell’assistente sociale, in “Rassegna di Servizio Sociale”, 2/93, p. 36

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per inventare e sperimentare modi e forme di documentazione via via più aderenti alla difficile definizione dei processi umani e sociali. Questo non significa negare la fatica e la sofferenza del pensare (e del documentare), ma permettersi di sentire che si può farvi fronte»41. Occorre, infine «pensare alla produzione di documentazione – sia imposta che scelta dall’operatore – come costruzione di un contenitore dotato di senso, utile per andare più “dentro” alla realtà, per scoprire regolarità, interrelazioni, eccezionalità dei fenomeni, oltre che come carta per negoziare professionalità. Esso funziona come tutela, difesa per l’operatore in quanto gli permette innanzitutto di distanziarsi per un po’ dall’immediatezza e dal coinvolgimento dei dati della realtà esterna, agevolando il contatto con “parti interne” di sé, producendo così nuova conoscenza spendibile nel momento della reimmersione nella realtà esterna»42. In un saggio del 1993, Emma Fasolo Paglia, facendo riferimento a Busnelli (1988) spiega le ragioni per cui la documentazione è necessaria. Ritiene che ci siano due motivi di ordine etico, tre di ordine tecnico. «Il primo motivo etico riguarda il rapporto tra l’operatore e l’utente. “Il rapporto professionale non è una passeggiata amichevole senza meta […]: ha obiettivi da raggiungere, programmi da rispettare, strategie da attivare che costituiscono un dovere professionale”. Documentare il percorso di questo apporto è quindi un segno di rispetto verso l’utente perché implica che l’operatore si assume tutte le responsabilità che si riferiscono al dovere professionale di cui si parla e ne verifica l’attuazione. Il secondo motivo etico deriva dal fatto che la documentazione non la si fa solo per se stessi o per l’utente ma anche per altri colleghi, altri professionisti, per la struttura per cui si lavora, […] per altre strutture. Serve dunque a collaborare con altri. “collaborare tramite la documentazione richiede umiltà, capacità di esporsi alle verifiche, volontà di migliorare […]. I motivi tecnici riguardano - l’indispensabile sostegno alla memoria fornito dalla documentazione, con il che si evita di

deformare la realtà con ricordi personali che tendono ad essere selettivi; - la possibilità di riflettere con obiettività ed esattezza sia immediatamente che a distanza di

tempo su quello che si è fatto, e quindi di correggere errori e individuare difficoltà: la documentazione è pertanto uno strumento di crescita professionale;

- la possibilità di effettuare ricerche e studi su base documentaria, di comunicare con altre professioni e […] dimostrare la capacità di evolversi della professione in risposta ai bisogni, di diffonderne la conoscenza, di valorizzarne le potenzialità»43.

Ducci (1997) distingue la d. per esercizio dalla d. di esercizio (in Bini, 2003). La d. per esercizio comprende i regolamenti, i piani, le istruzioni relative all’attività corrente (le circolari), la d. relativa all’archivio delle risorse. In questa categoria possiamo distinguere tre sottocategorie: - documenti dell’organizzazione dell’ente (in generale) - documenti dell’organizzazione dell’ente specifici per il servizio sociale (la determina

sull’organizzazione del comune di Torino, i progetti cittadini, la delibera sull’assistenza economica)

- documenti di tipo organizzativo specifici dell’articolazione zonale del servizio sociale (delibere della circoscrizione, capitolato d’appalto fra ente locale e cooperativa, le relazioni annuali dei singoli comuni che concorrono a formare la relazione annuale del consorzio).

La d. di esercizio include la rappresentazione del processo di aiuto nelle diverse forme in cui questa è possibile, a seconda degli scopi della rappresentazione stessa. Può essere divisa in sottocategorie:

41

idem, p. 38 42

idem, pp. 34 - 35 43

E. Fasolo Paglia, Misurare gli interventi: le ragioni e il come, in M. Diomede Canevini (a cura di), Documentazione

professionale e valutazione degli interventi, 1993, Fondazione Zancan, p. 72-73. Le citazioni tra virgolette sono tratte da E.

Busnelli, La documentazione dell’educatore professionale, in Rassegna di Servizio Sociale, n. 4/1988

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- la rappresentazione del processo di aiuto: la cartella sociale che contiene: le relazioni, il diario del caso, i verbali delle riunioni di équipe, le decisioni amministrative relative all’erogazione di interventi e prestazioni;

- le consultazioni per i processi decisionali dell’ente; - la rappresentazione dell’attività di rete interna ed esterna al servizio, gruppi di lavoro, gruppi

informali, comitati, ecc. (protocolli d’intesa, procedure di collaborazione tra enti, modalità di raccordo tra pubblico e privato sociale)

- d. conoscitiva sul territorio (morfologia e risorse) in cui opera il servizio sociale - atti organizzativi interni del servizio; - i progetti elaborati in sede locale. A queste categorie si può aggiungere la documentazione per l’informazione di terzi, per inviare informazioni al di fuori dell’ente: per informare la popolazione delle attività del servizio, per far conoscere una determinata problematica dell’area, per far conoscere un servizio (volantini, locandine, inviti, articoli sui giornali locali, ecc.)44. La cartella sociale è un modo specifico di documentazione, per rappresentare il processo di aiuto nella sua dimensione individuale, e contiene • tutti i dati oggettivi sulla persona e sulla sua situazione socioeconomica, abitativa, sanitaria,

culturale, ecc. (compresa la documentazione inerente) (la modulistica) • la valutazione dell’assistente sociale su quali siano i problemi più urgenti da affrontare e con

quali risorse • il piano di lavoro con l’indicazione dei vari partner del progetto di aiuto (membri delle reti

primarie, altri professionisti) e con l’indicazione dei compiti di ognuno, nonché a quali risorse si farà riferimento; le indicazioni circa l’ipotesi evolutiva del caso stesso

• il diario del caso, cioè la descrizione, in una sequenza cronologica, dei vari interventi effettuati dall’a.s. e da altri operatori del servizio sociale, i verbali delle riunioni sul caso con altri operatori (come gli incontri con gli insegnanti o con i volontari); i colloqui con la persona

• le relazioni inviate ad altri enti (il Tribunale per i Minori, il Difensore Civico, l’Assessorato alla Casa, ecc.)

• gli atti amministrativi prodotti rispetto alla specifica situazione (proposte di sussidio, esenzioni da pagamenti, richieste di rateizzazione, ecc.)

• la corrispondenza ricevuta su quel caso (segnalazioni sul caso, o lettere dell’utente - dove si mettono gli auguri di Natale?)

• la corrispondenza inviata all’utente (informazioni, convocazioni, richiesta di documenti, chiarimenti).

L’obiettivo di una cartella sociale ben compilata, completa, aggiornata è soprattutto quello di una raccolta sistematica di dati su una situazione, e sul modo in cui è stata affrontata, in modo che, in qualsiasi momento, l’assistente sociale possa ricostruire il percorso del caso e fare una verifica del proprio lavoro e del cammino delle persone. Bini (2003) propone uno specifico fuoco di attenzione per la stesura del diario cronologico del caso, la storia di vita. Secondo l’autrice, la d. correntemente utilizzata non pone sufficiente attenzione alla storia di cui la persona è protagonista, e quindi ai suoi percorsi di soluzione problema, alle sue risorse personali, alle sue strategie. Il diario cronologico ripercorre la storia degli eventi – ma da quando è iniziato il rapporto con il servizio sociale. La persona può raccontare la propria storia in tempi diversi, in modi diversi, e questa storia si può disperdere, non essendoci spazio adeguato nella cartella sociale. La Bini (2003, p.93) propone una griglia – elaborata nel corso di laurea dell’università di Firenze. Questa griglia ha il vantaggio di - evidenziare i pieni ed i vuoti delle informazioni in possesso dell’assistente sociale - sistematizzare le conoscenze e le notizie provenienti da fonti diverse - integrare prospettive di conoscenza diverse - favorire la raccolta di informazioni tra operatori diversi

44

M. Dal Pra Ponticelli (1987), Lineamenti di servizio sociale, Astrolabio, Roma, p. 178-179

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- favorire la lettura incrociata di biografie simili e diverse, per leggere le peculiarità e le similitudini dei percorsi individuali, e quindi consentire apprendimenti dall’esperienza che favoriscono programmazione

- fornire elementi qualitativi per il governo delle politiche istituzionali. La griglia è questa: Data Età Carriera

familiare Carriera scolastica e lavorativa

Carriera Morale

Carriera sociale

La documentazione non è un opzional, e non è neppure un compito facile: ha un fine intrinseco di accessibilità, per cui non può essere strutturata in una maniera tale da non renderla utilizzabile da altri. La d. rimanda quindi alle competenze comunicative dell’assistente sociale, in particolare alla comunicazione scritta. «Scrivere, per un assistente sociale, rappresenta un atto quotidiano, spesso collegato alla diffusa convinzione che esso rappresenti una semplice trasposizione grafica del linguaggio verbale»45.

2. PERCHÉ SI SCRIVE?46

Si distingue tra parola scritta creativa e parola scritta referenziale: un testo che riferisce un pensiero, un’informazione, un fatto, un’emozione. Perché scriviamo: • per informare • per analizzare (si attende la nostra conclusione) • per argomentare (obiettività, ordine logico, valore degli argomenti, consistenza della

conclusione).

1. per scrivere bene bisogna saper scrivere correttamente

2. solo partendo dalla lettura si arriva alla scrittura: solo analizzando con attenzione un testo che funzioni perfettamente, scoprendone le regole che lo fanno funzionare si possono stabilire delle regole similari, personali.

Distanza tra parola orale e parola scritta: • la parola orale esaurisce la propria durata (il suo tempo) nell’immediatezza: vive di autonomia

espressiva nel momento in cui è pronunciata e rimane (a volte deformata) solo nella memoria di chi ascolta;

• la parola orale è un meccanismo di proiezione, consente di rendere dei dati (significati) in sequenze foniche

• la parola scritta è un meccanismo di trascrizione • la parola scritta rimane fissata sulla carta, ha una sua autonomia espressiva che non può (non

dovrebbe) essere manipolata da chi legge; è un segnale permanente, si realizza in uno spazio limitato, accessibile tutto insieme

45

M. Dellavalle, Fascino e responsabilità dello scrivere nel servizio sociale, in La Rivista di Servizio Sociale, n.4/2000, p. 3-

4 46

il tema è trattato facendo riferimento a G. De Rienzo, Guida alla scrittura, 1998, Bompiani, Milano

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• la parola orale è accompagnata dai gesti, dal tono della voce, dallo sguardo, da tutta una gamma di espressioni corporee - coinvolge la globalità degli strumenti comunicativi della persona;

• chi parla entra in rapporto diretto con il suo interlocutore e ne subisce, immediatamente, il contrasto o il consenso: può quindi modificare il modo in cui parla o i contenuti del discorso;

• il contesto della parola orale è un contesto naturale (o che appare tale): è un contesto di comunicazione primario. La naturalità del contesto permette delle variazioni, non previste, generate dal rapporto tra chi parla ed il destinatario della comunicazione verbale;

• queste variazioni sono accettate ed accolte, attese. Se dico “non ho capito” ad una persona che mi sta parlando, ciò che mi attendo è una variante nel discorso che mi dia la possibilità di seguire; o se dico il mio pensiero, mi attendo che la risposta sia coerente con il mio punto di vista, anche se questo punto di vista diverge dal discorso iniziale;

• il discorso scritto non ha questa regola della variazione; • la parola orale è immediata e improvvisata. Ci sono alcune forme di parola orale che assumono impropriamente alcune qualità della parola scritta, mediata e stabile, anziché immediata e improvvisata: la recitazione ne è un esempio: la parola orale perde la sua spontaneità, si parte da un testo scritto – la parola orale della recitazione (o della relazione a un convegno) è un’interpretazione di un testo, è stabile ed instabile. La parola scritta nasce (in chi scrive) in una pausa di riflessione e di silenzio e viene recepita (da chi legge) in uno spazio interiore di riflessione e di silenzio. «La lettura non può essere assomigliata a una conversazione, foss’anche con il più saggio degli uomini; che la differenza essenziale tra un libro e un amico sta non già nella loro maggiore o minore saggezza, bensì nella maniera di comunicare con loro: in quanto la lettura, al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel ricevere comunicazione del pensiero di un altro, ma restando pur sempre solo, ossia continuando a godere della potenza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione dissipa immediatamente, continuando a poter essere ispirato, a rimanere in pieno lavoro fecondo dello spirito su lui stesso. Infatti, una delle grandi e meravigliose caratteristiche dei bei libri […] è questa: che per l’autore essi potrebbero chiamarsi “conclusioni” e per il lettore “incitamenti”»47 . Chi scrive (a differenza del pittore e del musicista, che usano rispettivamente i suoni ed i colori) usa un materiale apparentemente non specifico, le parole, usate da tutti, da chi scrive e da chi parla. Per questo motivo si sottovaluta (spesso) l’aspetto tecnico della scrittura, mentre a nessuno verrebbe in mente di sottovalutare l’aspetto tecnico di altri strumenti creativi (leggere le note, saper suonare il violino, saper dipingere). Il discorso scritto, se vuole comunicare qualcosa, deve • presupporre la presenza e l’attenzione del lettore, senza poterla però verificare: l’attenzione è

immaginata prima che accada ed orienta il discorso; inoltre bisogna anche prevedere le reazioni di chi legge;

• inoltre chi scrive, oltre a preoccuparsi di dire cose che ritiene importanti, deve dirle in modo che siano comprese, e riescano a vivere da sole, indipendentemente da chi le ha scritte - la parola scritta vive in un contesto artificiale, quello della pagina, di un insieme di pagine, di un libro

TRE REGOLE PER LA PAROLA SCRITTA 1. La convenienza e la proprietà del lessico: la parola scritta deve diventare autonoma rispetto a

chi la scrive: deve significare da sola un pensiero, un racconto di fatti, l’illustrazione di un prodotto ecc. La proprietà e la convenienza del lessico: la scelta della parola giusta in un contesto

47

Proust M., Giornate di lettura, 1979, Einaudi, Torino, p. 134

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2. l’architettura - o la struttura - del testo (la trama) ed il ritmo: la sua organizzazione 3. la grammatica del testo: la costruzione sintattica, periodi brevi o lunghi, l’uso della

punteggiatura. Come dice Lucarelli «ho cercato di fare l’unica cosa che uno scrittore […] deve fare quando scrive: raccontare una storia che gli piace nel miglior modo possibile e con le parole più belle che sa»48.

3. COME SI FA UNA RELAZIONE

«La relazione sociale è lo strumento di comunicazione scritta nel servizio sociale: nessuna descrizione degli avvenimenti può sostituirsi ad un testo che trasmetta gli esiti dei processi tecnico professionali di analisi, valutazione, progettazione»49. La relazione sociale non è un resoconto di fatti, una descrizione, una fotografia: contiene elementi descrittivi e narrativi, ma selezionati, ordinati, dotati di un senso, in rapporto all’interlocutore della relazione sociale. Il destinatario/interlocutore della relazione è una variabile centrale: «la comunicazione [deve essere] specifica per quell’interlocutore, [lo stesso deve essere] individuato in relazione al suo modello culturale, alle sue competenze e al suo ruolo in ragione dei quali è coinvolto nel processo comunicativo e in quello di aiuto»50.

Gli elementi essenziali in una relazione Ducci, 1988

Coordinate: - l’oggetto - il contesto a) destinatari b) scopi c) formalità e informalità - progettazione della relazione

• ricerca e raccolta informazioni • selezione delle informazioni

- progetto di testo • introduzione • parte centrale • conclusione

- redazione del testo - verifica del testo

Moffa, Salvetti, 1998 1. Il contesto

• Il mandato in base al quale nasce la scrittura • Il destinatario/l’interlocutore • Gli scopi in relazione all’utente e al suo problema

2. i contenuti • l’oggetto • la selezione delle informazioni • la trattazione degli argomenti

3. la forma del testo • pianificazione del documento • scelta del linguaggio e carattere del documento

Bini, 2003 • destinatario • obiettivo/scopo • eventuali riferimenti ad altre comunicazioni intercorse

48

Lucarelli C., Il lato sinistro del cuore, 2003, Einaudi, Torino 49

M. Dellavalle, Fascino e responsabilità…, cit., p. 15 50

B. Moffa, T. Salvetti, Comunicare nel lavoro sociale: la relazione scritta, in La Rivista di Servizio Sociale, n. 1/98

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• persone coinvolte: dati anagrafici • storia individuale e familiare • processo metodologico • [percorso] • eventuali interventi effettuati • attività collaterali • tematiche specifiche della situazione • modelli teorici di riferimento, criteri, indicatori • elementi conclusivi • proposte e progetti • tempi e costi • firma dell’estensore/ente di appartenenza

1. LA VALUTAZIONE

Per definire un progetto occorre avere valutato la situazione, avere quindi effettuato una valutazione. Valutazione vuol dire “giudizio, stima, perizia”. La valutazione è quindi un giudizio qualitativo, ponderato. La vita dell’uomo è accompagnata da processi di valutazione che orientano costantemente le sue scelte, dalla più piccola a quelle più importanti. La valutazione è anche dettata dalla necessità di dare un significato ai segnali che provengono dall’ambiente e dalla relazione con gli altri, per definirne la “pericolosità” o meno. In questa accezione la valutazione ha una funzione di rassicurazione. Poiché valutiamo costantemente, si può adattare alla valutazione un assioma della Scuola di Palo Alto “non si può non valutare”. La v. è molto legata alla soggettività, soggettività che in un contesto professionale può divenire fonte di difficoltà e di confusione, se non viene riportata alla dimensione istituzionale: ovvero l’assistente sociale non cerca di comprendere la situazione in rapporto a se stesso, ma in funzione dell’obiettivo che persegue, come professionista in una istituzione e portatore di un mandato sociale di cui è stato investito dall’istituzione. La sua è quindi una valutazione razionale, che considera gli elementi soggettivi come componenti del processo di v., insieme ad altre informazioni; non è un pre-giudizio, ma una lettura di elementi diversi, correlati ad una determinata realtà. La valutazione tecnico-professionale è un’attività professionale complessa: è un giudizio, conseguente ad un processo di ricerca, basato sulla raccolta e l’interpretazione di informazioni. In altri termini: la v. è un’azione razionale di giudizio rispetto a un determinato oggetto. Esistono connessioni tra la v. e il processo decisionale, in quanto in servizio sociale il percorso di valutazione si deve concludere con un progetto, ovvero con delle decisioni operative e un percorso di applicazione delle decisioni prese. La valutazione e’ un processo che consente e orienta le scelte, ed è conseguenza di una correlazione fra informazioni.

Alcune regole per la valutazione tipiche dell’approccio scientifico: • le procedure per la raccolta delle informazioni sono esplicite, chiare, riproducibili; • le informazioni raccolte sono pertinenti, affidabili, il più possibile complete; • l’interpretazione è coerente, plausibile, non formulata tramite asserzioni ma attraverso una

serie di argomentazioni rese disponibili per eventuali confutazioni.

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Nel lavoro sociale, il momento del fare è strettamente legato a quello del capire, interpretare e valutare51. Si trova ciò che si cerca, ciò che si conosce e si riesce a vedere (Allegri, 2000). La valutazione, che è la base di un progetto d’intervento, secondo l’ottica sistemica, va costruita collegando le informazioni raccolte in maniera circolare, evidenziando le reciproche influenze tra i sistemi coinvolti nel problema. Si deve tenere conto del fatto che l’origine di un problema non è mai collegata a fattori singoli causa - effetto e che il problema non è attributo di quel singolo utente (chiunque esso sia, singolo gruppo o comunità) e non si deve prescindere dal considerare il contesto come elemento significativo sia per la comprensione del problema che per l’individuazione delle strategie d’intervento. Si supera quindi il concetto di “colpa” del singolo, anche perché la colpa si situa ad un livello logico diverso, in quanto attiene alla morale, mentre l’analisi professionale ha come obiettivo di comprendere una situazione per capire come è possibile modificarla. La valutazione, secondo una prospettiva ecologica, riguarda l’individuazione del campo in cui lavorare (in cui collocare il progetto d’intervento) e contiene il bilancio delle risorse delle competenze, delle motivazioni e dei vincoli in gioco nella situazione, all’interno del rapporto persona/ambiente. Ferrario (1996) propone, nella fase di contatto, dei fuochi di attenzione, utili per costruire una valutazione della situazione, attraverso la ricostruzione degli ambienti di vita e dei percorsi della persona: a) la richiesta: che cosa si domanda (soldi, casa, consigli, aiuto generico, comunità, casa di

riposo) b) la segnalazione o l’auto attivazione della persona - attraverso quali canali la richiesta è

giunta al servizio? - quali altri soggetti sono in gioco? che immagini del servizio ha la persona? (il modo in cui la domanda giunge al servizio)

c) la collocazione della richiesta - in quale quadro si colloca la domanda, cioè • chi è il soggetto che la presenta • da quale contesto di vita emerge • come il contesto di vita si connota in termini di risorse e di vincoli • quali circostanze hanno mosso la persona • che rapporto esiste tra la domanda e la situazione di disagio e di difficoltà d) le azioni ed i tentativi: che cosa è stato fatto per fronteggiare il disagio e con chi e) le soluzioni che la persona si è data per reggere fino ad ora (rivedere le soluzioni già pensate

serve per evitare di ripercorre strade che si sono rivelate fallimentari) f) le intenzioni o le previsioni rispetto alla situazione g) le aspettative dal servizio e dall’operatore, onde chiarire le attese e la loro fondatezza h) le modalità che la persona adotta nell’incontro (aggressività, collaborazione, passività ecc.). Campanini (2002, p. 107 e sgg) propone un percorso di analisi della situazione che si situa a tre livelli: l’ambiente sociale, l’istituzione, l’utente. Per quanto riguarda l’utente si può dire che l’attenzione si deve rivolgere «prevalentemente al momento presente e alle relazioni che l’utente sta sperimentando all’interno del suo sistema o con altri sistemi significativi. Del passato sono ritenuti significativi quei fatti che hanno introdotto differenza nella storia di ogni individuo o sistema, distinguendo i fatti reali da quelli relazionali […]l’elemento indicativo risulta comunque essere non il fatto in sé, ma le retroazioni che il sistema ha messo in atto e come in conseguenza di queste si è riorganizzato». Si potranno raccogliere informazioni attraverso i colloqui, attraverso l’osservazione dell’individuo nella famiglia, nel suo contesto sociale, ma anche osservando l’assistente sociale e la famiglia come sistema in relazione, a sua volta in relazione con il contesto sociale. Campanini dedica una particolare attenzione, così come Ferrario, alla raccolta informazioni nel primo contatto con l’utente.

51

Alessia Maggi, La valutazione della qualità nei servizi sociali: un processo finalizzato a riconoscere i significati delle

azioni, in Rassegna di Servizio Sociale, n. 2/01

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Poiché la raccolta informazioni ha il fine di comprendere la situazione, è opportuno sottolineare che «non bisogna fare nulla (pagare bollette, trovare lavoro, parlare con i professori a scuola, far domanda alle case popolari…) se prima non abbiamo capito la natura della crisi che la famiglia sta attraversando[…] una volta che abbiamo imboccato la china dell’interventismo non finalizzato, è difficile fermarsi a pensare. È difficile domandare a una famiglia la data di nascita dei suoi membri dopo due anni che lavoriamo per lei: suona ridicolo e per tale motivo improponibile. Prima di fare qualsiasi cosa, quindi, dobbiamo capire. E capire non è facile»52. Le aree significative su cui centrare la raccolta delle prime informazioni sono (Campanini, 2002, p. 116): - i dati anagrafici del richiedente e del suo nucleo familiare - gli elementi relativi al suo contesto ambientale e sociale - l’inviante - le informazioni sul problema - l’analisi della richiesta. Quando parliamo di elementi relativi al contesto ambientale e sociale includiamo dati come la situazione economica, la scolarità, le condizioni abitative, la composizione familiare, le condizioni di salute. Sono dati oggettivi, relativamente semplici da reperire, che servono per inquadrare la situazione. Ma anche dati rispetto al contesto, ad esempio la zona in cui vive la famiglia, il tipo di contesto sociale in cui è inserito (contesto urbano di periferia e contesto montano sono molto differenti). Questi diversi fuochi di attenzione orientano la raccolta informazioni, la base per costruire una valutazione. Secondo Dal Pra Ponticelli (1987) le informazioni sono fornite essenzialmente dalla persona in un processo di aiuto – nella fase iniziale e anche in fasi successive – o da persone significative dell’ambiente o da documentazione esistente. Altri metodi per la raccolta informazioni sono l’osservazione, la lettura di documenti, il contatto con testimoni significativi, la ricerca (queste due ultime modalità sono particolarmente indicate per l’analisi di un fenomeno sociale). Dalla corretta raccolta informazioni dipende l’esito dei risultati che si vuole raggiungere nell’intero processo, quindi le informazioni devono essere le più complete possibili, in relazione al problema che si sta esaminando. In riferimento al fatto che la principale fonte d’informazione è la persona/il nucleo, si parla di «v. collaborativa», intesa nei termini di partecipazione degli utenti al processo di raccolta informazioni che li riguarda53. Si può sintetizzare dicendo che l’osservazione e l’ascolto, con dei fuochi d’attenzione, sono la base per la v. La v. si può differenziare in quattro momenti (Allegri, 2000) 1. ex ante, prima dell’avvio di un programma o di un intervento 2. in itinere, in corso di realizzazione 3. conclusiva, al termine dell’attuazione del programma o dell’intervento 4. ex post, quando l’intervento o il programma cominciano a produrre risultati.

2. OSSERVAZIONE, ASCOLTO, VALUTAZIONE

Spesso si è soliti pensare che l’ascolto e l’osservazione siano atteggiamenti semplici e spontanei. Il fatto stesso di usare delle espressioni che fanno riferimento a degli organi di senso (l’occhio e l’orecchio) fa immaginare che l’o. e l’ascolto siano processi naturali, quando in realtà si tratta di processi culturali54.

52

S. Cirillo, Famiglie in crisi e affido familiare, 1986, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p. 15-16 53

C. Evans, M. Fisher, La valutazione collaborativa: verso una ricerca controllata dagli utenti, in I. Shaw, J. Lishman (a

cura di), La valutazione nel lavoro sociale, 2002, Erickson, Trento, ed. or. 1999 54

F. D’Angella, L’ascolto e l’osservazione nella progettualità dialogica, Animazione Sociale, 11/1998

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«L’osservazione viene definita, nel lavoro sociale, come fonte d’informazione o attività di comprensione che implica la percezione e la decodifica della comunicazione non verbale. Si tratta di un fondamentale strumento di conoscenza che consente di rintracciare connotazioni meno evidenti ma sostanziali e di cogliere ciò che non appare né viene esplicitato […] Nelle molteplici occasioni in cui l’assistente sociale entra in contatto con famiglie, l’uso consapevole dello strumento dell’osservazione può permettere di comprendere la famiglia, la sua situazione/problema, il suo contesto di vita, ma anche la configurazione famiglia/servizio e quindi le modalità con cui avviene il primo approccio, le caratteristiche della richiesta, le aspettative e le reazioni della famiglia/utente e dell’operatore. Potranno essere, così, colti importanti indizi riguardanti la situazione di vita del bambino e le relazioni che intercorrono tra lui e le figure genitoriali, gli altri adulti, ed i diversi ambienti con cui entra in contatto […] La possibilità di saper cogliere questi segnali è strettamente connaturata a competenze dell’operatore che attengono sia alla sfera cognitiva (sapere che cosa osservare e su cosa fermare l’attenzione, sapere quali elementi possono costituirsi come indice di rischio, segnale di disfunzionalità individuali o familiari) che a quella relazionale, nel senso di poter tollerare sentimenti ed emozioni forti, connesse al contatto, o anche solo all’eventualità di un contatto, con la sofferenza di bambini e adulti»55 «Guardare» e «ascoltare» sono atti diversi, ma sono eventi che possono accadere contemporaneamente: osservo il racconto che una persona fa della sua vita, e il modo in cui lo racconta, e nello stesso tempo oriento i miei pensieri ed il mio comportamento su una posizione di ascolto, che è ascolto della persona, comunicazione del mio ascolto verso la persona, ascolto interno delle emozioni che provo. La capacità di ascolto, peraltro, è una delle componenti dell’abilità relazionale dell’assistente sociale. Gli operatori sociali di un servizio non osservano ed ascoltano in modo neutrale, ma attraverso quadri culturali di riferimento. Io guardo, ascolto, classifico: ogni classificazione è arbitraria «includiamo degli oggetti sotto la stessa classe non perché sono intrinsecamente simili, ma li consideriamo simili perché guardiamo il mondo attraverso un certo sistema classificatorio. Non stupisce dunque che i sistemi di classificazione varino nel tempo e nello spazio, da società a società» (M. Douglas, 1995, p. 118, cit. in D’Angella, Olivetti Manoukian, 1998). L’operatore osserva ed ascolta utilizzando le proprie mappe cognitive – ogni mappa è un punto di vista, una prospettiva di ascolto e di osservazione su una molteplicità di segnali. Tanner e Le Riche (1999) distinguono l’o. intenzionale da quella informale o implicita. L’o. intenzionale è quel tipo di o. che ha una finalità e dei riscontri operativi ben definiti e che si distingue anche per il potere che caratterizza l’osservatore. L’osservatore osserva facendo riferimento alle proprie conoscenze teoriche, e alle tradizioni epistemologiche di cui è portatore. Tanner e Le Riche evidenziano due tradizioni epistemologiche, il «modello scientifico» e il «modello narrativo»56. il «modello scientifico» è collegato alle scienze naturali e al loro sviluppo: gli elementi chiave, in questa prospettiva, sono l’oggettività, l’attendibilità e la validità della ricerca, nella quale l’osservatore dovrebbe essere il più oggettivo possibile. Questo modello è collegabile ad approcci di tipo quantitativo, ad esempio osservazione delle frequenze, come la frequenza di comunicazione ripetitiva da parte di un anziano che soffre di demenza e osservazione dell’effetto della comunicazione ripetitiva sul carer dell’anziano. Queste informazioni si possono tradurre in grafici e diagrammi. In questo tipo di o. è escluso il punto di vista dell’osservatore. In altre parole: l’osservatore è esterno al processo di o. I sistemici la pensano diversamente: in Campanini, 2002, p. 63, nel descrivere l’analisi di un’organizzazione si precisa che «anche se l’osservatore non è parte del sistema osservato (non è

55

Dellavalle M., Minori da tutelare, genitori da aiutare. L’intervento sociale nel contesto italiano, in Crivillè A., Genitori

violenti, bambini maltrattati, 1995, Liguori, Napoli 56

K. Tanner, P. Le Riche, Osservazione e valutazione, in I. Shaw, J. Lishman (a cura di), cit., pp. 191-192

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un membro dell’organizzazione), non può considerarsi esterno, in quanto con la sua osservazione partecipa, insieme all’oggetto osservato, alla creazione di una nuova realtà (il sovrasistema osservatore-osservato). Dal momento che chi compie l’analisi non può collocarsi in un punto equidistante, dall’osservatore, dall’oggetto e dall’osservazione stessa, ne consegue che ogni analisi è sempre soggettiva e pertanto definibile come punteggiatura». Ogni osservazione definisce un punto di vista, che, proprio perché uno, è parziale. I diversi punti di vista devono essere messi a confronto: l’o. fatta dall’assistente sociale si mette a confronto con l’o. fatta dalla persona sulla propria condizione, con l’o. fatta da un altro operatore. Queste considerazioni introducono al «modello narrativo» che valorizza la soggettività del processo di o. «In contrasto, con l’approccio scientifico, che sostiene la neutralità della conoscenza, nell’orientamento narrativo la conoscenza non potrà mai essere neutrale, essendo il frutto di esperienze personali e contestuali […] il modello narrativo si caratterizza […] per un approccio olistico: tende ad abbracciare l’intero (e complesso) panorama degli eventi e dei processi a cui assiste l’osservatore»57. L’o., sia che abbia come focalizzazione un particolare o l’insieme (rapporto madre-figli, il funzionamento della famiglia) viene registrata in forma narrativa. Questo comporta - la scelta fra ciò che va incluso e escluso - il livello di precisione adottato - la terminologia impiegata. Il ruolo di osservatore racchiude uno spazio per la riflessione: «l’o. inizia dalla visione, comporta un processo di riflessione e racchiude la possibilità di un monitoraggio riflessivo, da cui scaturisce lo spunto a cambiare»58 . L’o. è una metodologia che può essere applicata a tutti gli ambiti del lavoro sociale: nel lavoro diretto con le persone, nell’analisi dell’organizzazione, ecc.

3. L’ASSESSMENT

Il termine assessment si riferisce alla raccolta informazioni e all’analisi effettuate dall’assistente sociale rispetto alla situazione di una singola persona o di una famiglia. Questa definizione viene quindi utilizzata in riferimento alla dimensione del caso singolo. La traduzione italiana più vicina al termine assessment è valutazione, che però ha il limite di non indicare la fase precisa del processo di intervento in cui si colloca questa v.; di parla di v. intermedia quando si analizza lo svolgersi del processo di aiuto, e di evaluation quando di fa una v. o una verifica finale. La traduzione più semplice, ed ovvia, sembra essere quella di v. iniziale – ma v. iniziale ha il limite di non ricomprendere quegli assessment a cui non segue un intervento. Un’altra traduzione potrebbe essere quella di v. dei bisogni, ma anche questa traduzione prende in considerazione soltanto un aspetto. Queste diverse accezioni giustificano l’intraducibilità della parola. «Assessment significa: valutazione ed accertamento di fatti e situazioni in vista di un giudizio discrezionale e quindi di una presa di decisione ponderata»59. Questo giudizio si può concludere con la stessa procedura di v. – la v. delle capacità genitoriali, a cui non fa seguito alcun intervento – oppure può essere una v. ad una successiva presa in carico o la fase iniziale di un intervento di un aiuto articolato nel tempo. L’ assessment può essere di diverso tipo, a seconda della finalità prevalente: - valutazione dei bisogni - valutazione del rischio - valutazione di accesso alle prestazioni.

57

K. Tanner, P. Le Riche, cit., p. 192 58

idem, p. 196 59

J. Milner, P. O’Byrne, L’ assessment nei servizi sociali, 2005, Erickson, Trento, p. 10 (ed. or. 2002)

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L’assistente sociale può, individualmente, effettuare queste valutazioni, oppure possono essere fatte da un’équipe. Un altro tipo di distinzione può essere fatto tra assessment direttivo centrato sugli esperti, basato esclusivamente sul punto di vista dei professionisti chiamati alla valutazione, e tra l’ assessment relazionale, in cui la definizione del problema è fatti con i soggetti interessati dal problema. La v. di accertamento o di accesso alle prestazioni rientrano nella prima categoria. Assessment come accertamento: - consiste nella raccolta e nell’analisi delle informazioni volte ad accertare la situazione di una

persona o un nucleo familiare - la raccolta delle informazioni riguarda fatti rilevabili il più possibile in maniera oggettiva: il

reddito, la scolarità, i contatti tra genitori e gli insegnanti. Tutto ciò che è rilevabile in modo abbastanza oggettivo

- inoltre, la raccolta informazioni riguarda anche il punto di vista delle persone rispetto a loro stesse, alla loro situazione, agli altri soggetti coinvolti nella situazione (cosa pensa di…).

Questi due livelli di informazioni servono per formulare un giudizio professionale, il cui centro varia a seconda dell’utilizzo che ne verrà fatto. Questo tipo di valutazione può concludersi in se stesso o aprire la prospettiva di un intervento. L’accertamento è centrato sull’operatore. L’assistente sociale raccoglie il punto di vista delle persone, ma l’esito di un accertamento formale è una sua responsabilità e può anche non essere condivisa dalle persone soggette all’accertamento. La condivisione ed il controllo sono inversamente proporzionali: minore è il grado di condivisione, più alto è il livello di controllo che caratterizzerà l’intervento (quindi, nella compresenza aiuto/controllo, l’operatore sociale si attesterà all’interno di un’area maggiormente orientata al controllo60). La dimensione di accertamento è presente in qualsiasi intervento complesso di lavoro sociale. Assessment come valutazione del rischio «E’ il procedimento finalizzato a valutare se è probabile che si verifichi un dato fatto o una data situazione pericolosa per il benessere di un certo individuo o per la collettività. Comprende gli stessi elementi di contenuto dell’accertamento (fatti oggettivi e idee dei diretti interessati), con la differenza che la valutazione guarda al futuro, piuttosto che al presente […] come l’accertamento, anche l’assessment del rischio consiste in un giudizio professionale dell’operatore, che può essere o meno condiviso dai diretti interessati e può risultare orientato al successivo sviluppo di un processo di aiuto (o di un intervento di controllo) oppure può costituire un’elaborazione esclusiva. È questo il caso in cui un operatore deve pronunciarsi circa la pericolosità per sé o per gli altri di una persona instabile. In queste situazioni il giudizio sarà formulato in stretto raccordo con una diagnosi psichiatrica. All’operatore sociale potrebbe essere richiesto [espressamente] un giudizio ecologico, cioè sul grado di qualità e sicurezza dell’ambiente sociale in cui la persona a rischio di comportamenti pericolosi si trova a vivere»61. Assessment come valutazione del bisogno Serve per individuare quale bisogno prevalente, o quali bisogni insoddisfatti, presenta un individuo, una famiglia, una collettività. Poiché il servizio sociale si occupa di problemi spesso concepiti in

60

Il controllo è la dimensione prescrittiva dell’aiuto (l’aiuto centrato sull’esperto): controllo che tu non ti faccia male, ti

controllo affinché nessuno ti faccia del male. Per controllarti – per vigilarti – può essere necessario che le persone che sono

accanto a te modifichino i loro comportamenti, oppure che si allontanino, oppure che tu ti allontani dal tuo ambiente. Ti

controllo non solo sull’assenza di disagio e di rischio, ma anche sulla tua realizzazione: ti controllo affinché tu stia bene – ed

è interesse tuo ed è interesse della società che tu stia bene. La tutela di questo interesse – individuale e sociale – definisce la

necessità di strutturare una funzione di controllo, esercitata da operatori sociali professionali. 61

J. Milner, P. O’Byrne, cit., p. 12-13

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termini di bisogni insoddisfatti, la valutazione dei bisogni stessi è una componenti fondamentale nell’attività degli assistenti sociali ed è collegata ad ogni altro tipo di assessment. Si considerano le necessità di vita di una persona nel loro insieme e nelle loro interrelazioni; questo vuol dire che non ci sono aree estranee all’interesse dell’assistente sociale. L’assessment è un processo ampio, distinguibile dalla decisione di lavorare per risolvere uno specifico problema, «come tale, prende tendenzialmente in considerazione [tutte] le necessità personali, sia legate alla sopravvivenza che all’autorealizzazione personale: quelle economiche, quelle legate alla gestione della salute e alla propria sicurezza, quelle abitative e di gestione della quotidianità, il bisogno di contatti sociali, di relazioni affettive, di istruzione e via dicendo […] l’ambito di competenza del servizio sociale è definibile in base alle conseguenze che la mancata soddisfazione di un bisogno essenziale ha sulla qualità della vita delle persone. Se la mancata risposta a una o più necessità non consente all’utente il mantenimento di un certo standard di qualità della vita, allora il problema può rientrare fra quelli di cui si occupano gli operatori sociali»62. Si pone quindi la questione del riconoscimento dei bisogni e del rapporto tra la loro soddisfazione e il benessere della persona (i bisogni indotti non rientrano in questa categoria e, in ogni caso, sono solo relativamente interessanti per l’assistente sociale). Vi sono delle criticità nell’assessment dei bisogni - la prima è la distinzione tra i bisogni definiti dall’operatore, i bisogni percepiti dai diretti

interessati (ciò che le persone desiderano), i bisogni espressi (quelli che generalmente vengono esposti attraverso la domanda). La persona può non ritenersi in stato di bisogno, anche se l’assistente sociale rileva delle necessità insoddisfatte al di sotto dello standard della qualità della vita accettabile. Oppure la persona si sente in stato di bisogno, ma non ritiene di accettare aiuti. Qui si pone il problema dell’autodeterminazione - la persona è in grado di percepire i suoi bisogni e di dire consapevolmente di non volerli soddisfare? Intervenire o lasciar perdere?

- La seconda è la distinzione tra assessment guidato dai bisogni e assessment guidato dalle prestazioni. Le prestazioni possono schemi di riferimento in cui si tende ad incasellare i bisogni. Non è la stessa cosa, la centratura sul bisogno e la centratura sulla prestazione63. La centratura sulle prestazioni rinchiude la visione dell’operatore. L’effetto paradossale che si può creare è che l’operatore non rilevi il bisogno perché non c’è la prestazione corrispondente, questo esclude qualunque strategia creativa nella ricerca di una soddisfazione non routinaria dei bisogni.

Assessment come controllo di accesso alle prestazioni «Consiste nel valutare se una persona ha diritto a una certa prestazione erogabile dal sistema di welfare o direttamente, attraverso servizi pubblici, o indirettamente tramite specifici finanziamenti a soggetti privati, di mercato o di terzo settore […] la valutazione di accesso alle prestazioni è dunque una funzione tipica degli assistenti sociali che lavorano nelle pubbliche amministrazioni. Attraverso questo tipo di assessment essi concorrono al procedimento amministrativo finalizzato a mettere in atto le decisioni di politica sociale riguardo alla distribuzione delle risorse. La valutazione di accesso alle prestazioni è quindi un’operazione che risponde non tanto all’interesse del singolo, quanto a quello dell’ente e della collettività che, attraverso il gettito fiscale, ne garantisce il finanziamento: si tratta di allocare i fondi in maniera equa, evitando di destinarli a chi non ne ha “veramente bisogno”. Ovviamente i criteri di accesso alle prestazioni sono orientati a favorire chi presenta le situazioni di bisogno effettivamente più gravi, o almeno questo è l’obiettivo dichiarato con i quali vengono costruiti»64. Assessment multiprofessionale Si tratta di un assessment condotto dall’assistente sociale con altri professionisti. Può essere finalizzato a valutare l’accesso alle prestazioni – come nel caso dell’Unità Valutativa Geriatrica, in questi casi l’équipe valutativa è stabile, definita per regolamento. Oppure si può trattare di

62

idem, p. 14 63

Dire “ha bisogno di mangiare” non è dire “l’utente ha bisogno di un pasto a domicilio” 64

J. Milner, P. O’Byrne, cit., p. 16-17

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un’équipe che si incontra per discutere di un singolo caso. L’assessment multiprofessionale porta con sé le tipiche difficoltà che si riscontrano a lavorare fra professionisti diversi. Assessment come valutazione della capacità di azione nell’ottica di rete (agency assessment) «[è] il tipo di assessment sociale per eccellenza, posto che si tratta di valutare la capacità delle persone coinvolte in un problema, conclamato o potenziale, di attivarsi per un fronteggiamento congiunto dello stesso, entrando in dinamiche di rete […] Si tratta di una valutazione che si propone di arrivare a conoscere quanto le persone che hanno “bisogni” o “problemi” siano consapevoli egli stessi e quanto siano disponibili o in grado di agire per farvi fronte. L’operatore sociale non valuta per capire che cosa deve fare lui […] bensì per capire come stanno agendo attualmente e come potrebbero agire in futuro ancor meglio, con il suo aiuto indiretto, le persone interessate. L’assessment della capacità di azione presuppone un’impostazione relazionale del processo di aiuto, in cui l’operatore è “sociale” proprio in quanto è capace di attivare una relazione di reciprocità con le relazioni di vita a tal punto da arrivare a basare il suo aiuto sulle loro capacità intrinseche […] Nell’agency assessment, la dimensione sociale assume anche un ulteriore significato: il benessere (o il malessere) non si produce per l’azione (o la mancata azione) individuale della singola persona, quanto piuttosto dall’azione congiunta di più persone coinvolte nella situazione (rete di fronteggiamento). L’agency assessment consiste dunque nella ricognizione della rete relazionale di fronteggiamento esistente, nell’individuazione di potenziali agenti per progetti a valenza collettiva (sviluppo di comunità). Schematizzando l’assessment dell’azione è orientato a cogliere: 1. come è formata (se esiste) la rete di fronteggiamento naturale del problema in questione,

ovvero: (a) chi si rende conto – più o meno esplicitamente che qualcosa non va; (b) chi è coinvolto nel fronteggiamento, cioè quali persone stanno già facendo qualcosa, con esisti più o meno soddisfacenti;

2. chi eventualmente, tra quanti non sono già coinvolti nell’aiuto, sarebbe disposto a dare il suo contributo (o ha il dovere istituzionale di attivarsi)»65

4. ALCUNE GRIGLIE

La raccolta informazioni si modula in relazione ad ogni specifica situazione trattata. Ad esempio, ci si può attrezzare con delle griglie per rilevare informazioni rilevanti su situazioni simili. Le griglie non esauriscono il percorso di ricerca alle diverse domande. Le griglie sono utili, consentono di classificare, identificare, hanno un rischio: prescrivono i tempi, i modi, gli oggetti da vedere e da sentire. Le griglie hanno bisogno di essere integrate da altre informazioni, più narrative. Lo schema di Guay66 propone di pensare una griglia di v. iniziale in rapporto al quesito “qual è il problema”. Per gli anziani, può essere utile una griglia per la rilevazione del grado di autosufficienza, attraverso degli indicatori concreti, che ci danno la dimensione di come impostare un piano di assistenza domiciliare. CHI HA IL PROBLEMA? CHI HA POSTO LA RICHIESTA DI AIUTO? Paziente designato, nucleo familiare, persona-sostegno, parenti, amici, conoscenti, vicini, comunità, operatore

PERCHE’ PROPRIO ORA?

Eventi critici, lutti, crisi esistenziale della persona-sostegno, problemi familiari o coniugali 65

idem, p. 18-21. Si veda anche, a questo proposito, la griglia elaborata da Guay (2000) 66

J. Guay, Il case management comunitario, 2000, Liguori, Napoli

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QUAL E’ IL GRADO DI MOBILITAZIONE AL CAMBIAMENTO?

Si tratta di una situazione di degrado graduale o di crisi? Crisi ricorrenti? Chi è disposto a mobilitarsi?

QUAL E’ IL PROBLEMA?

La descrizione: attuale, futura – è in questo punto che s’inseriscono le griglie Il positivo: valutazione delle competenze

QUALI SONO LE RISORSE DELLA RETE?

Componenti della rete Tipi di supporto (ADATTAMENTO DA GUAY, 2000)

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QUESTIONARIO PER LA VALUTAZIONE DEL LIVELLO DI AUTOSUFFICIENZA DELL’ANZIANO (CASCIOLI, 2001)

ATTIVITA’ LIVELLO DI AUTOSUFFICIENZA AUTOSUFFICIENTE PARZIALMENTE

AUTOSUFFICIENTE NON AUTOSUFFICIENTE

MOBILITA’

� Entrare e uscire dal letto � Muoversi in casa � Uscire di casa � Salire le scale

CURA DELLA PERSONA

♦ Lavarsi ♦ Vestirsi e spogliarsi ♦ Fare il bagno ♦ Tagliarsi le unghie dei piedi ♦ Mangiare ♦ Tagliare il cibo ♦ Medicarsi ♦ Farsi la barba ♦ Piegarsi a prendere una scarpa

dal pavimento ♦ Usare i servizi igienici ♦ Mordere e masticare cibi duri ♦ Dormire e riposare ♦ Attività ricreative e del tempo

libero

CURA DELLA CASA

• Cucinare • Pulire i pavimenti • Fare lavori giornalieri usuali • Fare lavori domestici leggeri • Fare lavori domestici pesanti • Coordinamento facoltà mentali

in altri compiti (specificare): • ……………………………………

COMUNICAZIONE

� Vedere � Leggere un giornale � Vedere un volto a 4 metri � Sentire � Udire una conversazione con

più persone � Udire una conversazione con

una persona � Parlare � Organizzazione del pensiero in

linguaggio chiaro o altra forma di comunicazione

ALTRE ATTIVITA’

� Sedersi e muoversi senza sbandamenti

� Controllo minzione e sfinteri � Capacità di controllo della dieta � Capacità di gestione di

eventuali terapie � Altro (specificare): � …………………………………..

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ALCUNE RIFLESSIONI SULLA FIDUCIA

La fiducia ha a che fare con la speranza e con la sicurezza. Secondo il dizionario di psicologia, curato da Galimberti, la f. è «stato rassicurante che deriva dalla persuasione dell’affidabilità del mondo circostante percepito come ben disposto verso il soggetto. Questa condizione influisce positivamente sul comportamento eliminando inquietudini e malessere che conducono ad atteggiamenti di chiusura, rifiuto e scetticismo. Erickson ha introdotto l’espressione fiducia di base, poi ripresa da Balint e da Winnicot, per indicare la fase dello sviluppo, corrispondente allo stadio orale, durante la quale il bambino percepisce di essere accolto e benvoluto dall’ambiente circostante acquistando quella sicurezza che gli consente, in opposizione a ciò che sente come affidabile, di riconoscere il male e la negatività. La presenza di circostanze traumatiche in questo periodo può incidere sulla fiducia di base con conseguenti ripercussioni a sfondo depressivo o nevrotico-impulsivo nella psicologia dell’adulto »67. La fiducia ha a che fare con la speranza (la persuasione dell’affidabilità non è certezza assoluta, è, in un certo senso, una scommessa – la speranza ha a che fare con l’attesa68) e la sicurezza (il mondo circostante è ben disposto) e consente delle distinzioni (riconoscere il male) – e fare delle distinzioni consente di effettuare delle scelte. Queste scelte contengono un rischio (Sciolla, 2004). Questi contenuti della f., la speranza, la sicurezza, la differenziazione, sono anche presenti nel concetto di fiducia originaria: Rigotti (1999) sostiene che la fiducia è il sentimento maggiormente necessario per la costruzione dell’ordine sociale e che è originaria, ovvero è presente nelle persone, a meno che non sia intervenuto l’atteggiamento della sfiducia. La fiducia sarebbe dunque originaria: senza una qualche forma di fiducia non potremmo neppure lasciare il letto la mattina (Rigotti fa riferimento a Luhmann); se questa tesi è vera, è plausibile pensare che la fiducia sia una componente naturale del comportamento umano, un fatto indubitabile, un’evidenza. Il concetto di fiducia originaria serve per spiegare l’esistenza di questo sentimento e la sua importanza nello sviluppo individuale e nella vita sociale. La fiducia originaria è però una forma di fiducia tra non eguali, tra non pari. Perché è la fiducia del bambino che chiede cibo ed attenzione. È diretta a chi detiene il potere – il genitore – da parte di chi non lo detiene – il bambino. Riflette un rapporto di disuguaglianza, che nel caso del bambino piccolo è giustificato. La famiglia non è il luogo della democrazia, i bambini non sono uguali ai genitori, i bambini devono avere fiducia sino al giorno in cui saranno uguali ai genitori. Anche il rapporto medico-paziente riflette questa diseguaglianza. Il potere del medico è un potere tecnico, non gerarchico come quello dei genitori, ma la distribuzione di potere tra le parti è ineguale. I regimi politici totalitari chiedono fiducia ai governati: abbi fiducia in me perché io mi prenderò cura di te, non interferire con il mio lavoro, io ti darò benessere e sicurezza. È una diseguaglianza che permane – nel caso della famiglia la disuguaglianza si riduce: progressivamente il figlio partecipa a ciò che lo riguarda, mette in discussione il modello della fiducia assoluta, cioè che l’altro – il genitore – sappia sempre esattamente qual è il bene del bambino. Il figlio diventa libero, non sta più all’interno dell’obbligo della fiducia. Esiste quindi, nella vita sociale, una dimensione di fiducia a senso obbligato, diseguale e non equilibrata (Rigotti, 1999). Fiducia come sentimento individuale, quindi, che consente - interazioni ed azioni sociali

67

Galimberti U., Psicologia, 1999, Garzanti, Milano 68

«la speranza è dunque un desiderio che si declina al futuro» Natoli, 1997

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- costruzione di rapporti sociali. Fiducia come sentimento sociale, che consente - il rapporto con le istituzioni - il rapporto con la società civile. Questi due livelli di fiducia hanno, ovviamente, un’interdipendenza tra di loro. Pittaluga dice che avere fiducia dipende dalla capacità di “affidarsi”, di distinguere tra pericoli e rischi, capacità che viene appresa in seguito ad esperienze positive che premiano la scelta di assumere impegni nonostante l’incertezza del risultato – avere fiducia diviene quindi una soluzione a problemi specifici di rischio. Avere fiducia significa riuscire a fare una valutazione, assumendo una scelta, nei confronti di una persona, di un gruppo di azione sociale, di un leader politico, di un programma politico, in una condizione di libertà nella scelta e di consapevolezza che l’investimento su un determinato problema non comporta una garanzia di successo. Parlando di fiducia sociale generalizzata, è interessante fare riferimento alla fiducia estesa agli altri in generale, che è l’indicatore più utilizzato per valutare il capitale sociale e la cultura civica di una società. Sciolla cita una ricerca longitudinale, 1981-1999 su Stati Uniti, Francia, Spagna, Italia , in cui alla domanda «lei direbbe che si può avere fiducia nella maggioranza della gente o che non si è mai troppo attenti e prudenti nel trattare con la gente?», emerge che nel 1981 meno del 30% del campione italiano esprime fiducia verso gli altri; la percentuale sale negli anni 90, verso il 35% e si mantiene stabile sino al 99. Avere fiducia consente la cooperazione sociale; nella cooperazione sociale, si accetta l’incertezza del risultato e l’imprevisto possibile. La diffidenza non consente la cooperazione. La cooperazione sociale si collega alla fiducia che nasce da un paradigma liberale di comportamento morale, dalla fiducia che si instaura tra pari quando qualcuno ritiene che dar fiducia ad un altro su una data cosa significhi affidargli la gestione della cosa stessa per un dato periodo, non occuparsene e non controllare subito come viene gestita, ma supporre che l’altro la stia conducendo nel modo migliore (Rigotti). È una fiducia tra pari69, ben diversa dalla fiducia obbligata di cui si parlava prima. Dare fiducia vuol dire correre il rischio che qualcuno ci possa danneggiare, nella speranza – che non è certezza – che quel qualcuno non ci danneggerà. Fiducia e cooperazione non sono la stessa cosa, la fiducia è innanzitutto un’aspettativa e tra l’aspettativa e l’azione c’è uno spazio occupato dalla relazione che intercorre tra gli eventi previsti e quelli che si verificano; la fiducia è un prerequisito per arrivare alla cooperazione, ma che tuttavia, non sempre, un gruppo di individui fiduciosi gli uni negli altri riesce sempre a cooperare positivamente. Inoltre l’esistenza di relazioni fiduciarie è necessaria ma non sufficiente per definire una cooperazione in senso positivo. Certe organizzazioni criminali sono fortemente costruite sulle relazioni fiduciarie e sulla cooperazione, ma hanno dei fini antisociali. Occorre quindi tenere presente dove – verso quale oggetto – la fiducia è orientata. Perché la fiducia giunga ad accordi di cooperazione occorre che sia riempita di contenuti positivi e di meccanismi di controllo affinché le aspettative dei singoli (dei vari attori sociali) non s’inceppino reciprocamente. Nelle società moderne viviamo in un sistema di scambi in cui vi sono scambi di carattere personale, in cui la fiducia può essere direttamente gestita sia scambi impersonali, in cui la fiducia è accordata in astratto (abbiamo fiducia nel fatto che l’ENEL eroghi la luce elettrica con continuità, che il valore dell’euro sia sufficientemente stabile per consentirci gli acquisti, che la Polizia Municipale regoli il traffico, che l’autobus arrivi più o meno in orario – la fiducia dei risparmiatori è un argomento di cui si parla molto, si veda il caso Parmalat ). Moltissimi eventi della nostra vita quotidiana sono organizzati da strutture competenti. Spesso la fiducia nei sistemi astratti non richiede alcun incontro con gruppi o individui che sono responsabili di quel sistema. Accadono però delle situazioni in cui è possibile/necessario incontrare i responsabili dei sistemi – chiamiamo nodi di accesso le occasioni in cui le persone vengono a contatto con i responsabili.

69

L’altro, in questo caso, è il gruppo di appartenenza, di cui il singolo fa parte – ma il gruppo non è la somma dei singoli, è

un’entità a sé.

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La fiducia nei sistemi astratti è data sia dall’affidabilità dei nodi di accesso sia dal sapere e dalla competenza dei sistemi esperti – il sistema astratto specializzato in una competenza (mi fido del medico e dell’ospedale). La fiducia che do al sistema esperto è filtrata dal rapporto che si stabilisce con le persone concrete che in quel determinato contesto rappresentano l’istituzione. I nodi di accesso sono quindi dei punti di connessione, tra il cittadino e l’istituzione. Sono punti fragili: attraverso il rapporto che si stabilisce tra il cittadino e il nodo d’accesso, si può rafforzare o indebolire la fiducia nei sistemi astratti. Le esperienze compiute nei punti di entrata condizionano: Pittaluga parla di comportamenti conseguenti a cattive esperienze, rassegnato cinismo o disimpegno (adozione di comportamenti scorretti). «Anche la fiducia istituzionale è una forma di fiducia generalizzata , che […] comporta immagini di credibilità […] impersonali e astratte, simile alla fiducia nei sistemi esperti di cui parla Giddens (1990), quando ad esempio, prendendo un aereo o comprando una casa si fa affidamento sull’intero sistema in cui si è inseriti, senza che si conosca direttamente né il proprietario della casa né il comandante del volo. Alcuni sostengono che questo tipo di fiducia sia più facilmente revocabile in relazione alle prestazioni effettivamente realizzate dalle istituzioni»70. Sciolla prosegue affermando che “il caso italiano” è significativo da questo punto di vista: tra istituzioni dello stato (e loro rappresentanti), chiesa, forze armate, solo le ultime due godono di una qualche fiducia. La fiducia nel parlamento71, da parte degli italiani, è molto bassa nel 1981, ma migliora (1999), passando dal 30 al 34,1% (superiore a quella degli Stati Uniti, dal 50% al 30%). La fiducia nella chiesa passa dal 57% del 1981 al 60,2% del 1999. La fiducia nelle istituzioni è astratta, basata sul “confidare” (ancora, speranza ed attesa): si confida, dice Sciolla, che le istituzioni politiche funzionino nello stesso modo in cui si confida che una banca non faccia sparire il denaro che abbiamo risparmiato. Questa fiducia astratta, che ha una bassa misura di credibilità, per la quale non si possiedono le alternative (non si può stare senza istituzioni politiche o istituzioni sociali), comporta differenza nella reazione alla delusione, rispetto alla delusione di aver malriposto la nostra fiducia in altre persone. «Seguendo la distinzione di Luhmann [1989, 127] “nel primo caso, reagiremo alla delusione attribuendola all’esterno, nel secondo caso dovremmo attribuirla all’interno, e alla fin fine rammaricarci della scelta fatta”. Questo potrebbe spiegare, almeno in parte, perché da delusioni ripetute provenienti da istituzioni è più difficile risollevarsi. Attribuire la delusione all’esterno vuole, infatti, dire che non è dipeso da noi se l’istituzione è venuta meno alle nostre aspettative. In questi casi, però, le due opzioni studiate da Hirschman [1970] – “exit” o “voice”, defezione o protesta – non sempre sono possibili. La prima, l’exit, è per quasi tutte le istituzioni impensabile. Non si può “uscire” dallo stato, dalla scuola, ecc. la seconda opzione, la protesta, benchè non impossibile, è comunque difficilmente attivabile. Infatti la lontananza e astrattezza di molte istituzioni – pubbliche e private – rende molto difficile e costosa l’organizzazione del dissenso nei loro confronti»72. L’atteggiamento del confidare, in seguito a ripetute delusioni provenienti dalle istituzioni, si trasforma in impotenza e può divenire “diffidenza” che può portare a sentimenti di completa alienazione civica ed estraneità. Questa diffidenza, che transita dalle istituzioni ai servizi pubblici (i servizi per la salute, i servizi alla persona, i servizi educativi) è diffusa, dice Pittaluga, la quale non fa esplicito riferimento alle «ripetute delusioni del cittadino», ma ai contenuti della delusione, tra cui citiamo la natura stessa del prodotto erogato da questi servizi (un prodotto intangibile), il possibile contrasto tra il desiderio del fruitore del servizio e la possibilità di prestazione che il servizio stesso può dare, le difficoltà organizzative, la contrazione delle risorse, la scarsa preparazione di parte del personale. Gli atteggiamenti di fiducia o di diffidenza nei confronti del sociale sono influenzati dalle esperienze fatte nei luoghi di accesso delle istituzioni pubbliche, la qualità della risposta dell’assistente sociale è quindi essenziale ed è legata al suo essere una persona responsabile, competente, affidabile – un ponte tra l’anonimato dell’istituzione e la persona viva e reale. Nelle società tradizionali, il clima di fiducia che attraversava le piccole comunità era fondato su elementi ascritti, come i legami di parentela, il fatto di conoscersi tutti, l’appartenenza alla stessa

70

L. Sciolla, La sfida dei valori, 2004, Il Mulino, Bologna, p. 78 71

Una scala che assomma la percentuale di “molta” ed “abbastanza”. 72

L. Sciolla, cit., p. 120

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religione. Con lo sviluppo della modernità, si è fatto riferimento all’autonomia dell’individuo e alla capacità di scommettere sull’altro, inteso come un soggetto moralmente autonomo. La fiducia basata su questo tipo di scommessa non ha basi di tipo ascrittivo – è una sorta di fiducia attiva, non è basata sul fatto che l’altro sia del mio paese, del mio sesso, della mia religione, ma è una fiducia costruita su un rapporto di reciproca affidabilità. Questa fiducia dev’essere negoziata, proprio per la sua specificità, non è data. Come si costruisce l’affidabilità dell’altro? Mettendolo alla prova, sperimentandolo, partendo dalla fiducia originaria. Le considerazioni fatte sinora evidenziano la criticità del ruolo dell’assistente sociale. L’assistente sociale non nasce come libera professione – uno dei maggiori rischi che corre oggi l’assistente sociale nello svolgere il suo lavoro proviene dalla mancanza di fiducia nei sistemi astratti, in particolare per quanto riguarda quei sistemi che chiamiamo istituzioni sociali. Gli assistenti sociali non sono i soli a rappresentare l’istituzione – è vero però che sono sempre nei punti di entrata e quindi svolgono una funzione delicatissima tra il sistema istituzionale e la persona concreta che formula la domanda al servizio. Nappi usa questa espressione, per definire l’assistente sociale “operatore di confine tra i nodi della comunità ed i nodi del sistema servizi”. Mi sembra una bella immagine. Il cittadino giunge al servizio influenzato dalle sue esperienze precedenti – esperienze familiari e culturali, ed ha un atteggiamento ambivalente (l’ambivalenza è alla base di tutte le relazioni di fiducia, sia che si tratti di un rapporto con sistemi astratti che con individui). Quando la richiesta diventa pretesa, il conforto sperato si trasforma facilmente in ostilità. E’ come se le aspettative collegate all’idea generale che per qualunque problema esiste una soluzione, da qualche parte, venisse messa alla prova, concretamente, nel rapporto individuale con il rappresentante dello Stato, Stato che in generale viene considerato sempre meno degno di fiducia. La mancanza di soluzione al problema conferma la sfiducia nello Stato e nei suoi rappresentanti. È nella fase di risposta, quindi, che l’assistente sociale rischia di diventare un soggetto di proiezioni negative. È la natura della risposta stessa che porta con sé questo rischio: il meccanismo domanda-risposta non funziona, nel servizio sociale, la domanda ha bisogno di un trattamento, di una valutazione. Inoltre di solito la qualifica di esperto non viene attribuita all’assistente sociale e la mancanza di tale investitura ha una ricaduta sulla relazione professionale. Incontrano maggiore fiducia nell’opinione pubblica le attività offerte dai “corpi intermedi”, quali i gruppi privati e le associazioni volontarie, in cui predomina il rapporto duale – tra la domanda e l’offerta -, senza l’interposizione del terzo estraneo rappresentato dall’istituzione pubblica (con le sue regole, le sue norme, i suoi obblighi d’intervento), inoltre le finalità delle associazioni volontarie sono delimitate, il che consente un confronto valutativo, mentre è molto più difficile valutare gli esiti degli interventi professionali. Inoltre l’interpretazione stessa del concetto di solidarietà è differente nell’ambito volontario e nell’ambito istituzionale, pur rappresentando una matrice comune. Faccio riferimento al cardinale Martini73 che distingue due aspetti qualificanti della solidarietà e questa distinzione la trovo perfettamente accettabile anche in una prospettiva laica. Martini parte da due icone bibliche, la parabola del Buon Samaritano e quella del Giudizio Universale: da una parte, il Samaritano, uomo che si ferma a soccorrere un ferito (cosa che altri non hanno fatto) è il testimone della solidarietà immediata e dei tempi brevi, di quella forma di solidarietà che viene giocata nel quotidiano, nei rapporti di ogni giorno al di là dei ruoli, delle convenienze, per essere e comportarsi, semplicemente, da essere umano. Nel Giudizio Universale, vi è lo stupore di chi sta a destra e di chi sta a sinistra del Giudice nel sentirsi dire «avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere». Tutti dicono di non essersene mai accorti. Qui si va oltre l’aspetto immediato della solidarietà, si evoca una solidarietà espressa tramite l’assunzione di responsabilità sociali di carattere secondario che non permettono immediatamente di vedere l’effetto del proprio comportamento sugli altri. In altri termini, il servizio volontario e il lavoro professionale hanno riferimenti valoriali comuni ma finalità e strutturazioni diverse. Si potrebbe dire che il volontariato si colloca maggiormente, non esclusivamente, nell’area della solidarietà immediata e questo consente una maggiore visibilità ed

73

in Zani B., Palmonari A., Manuale di psicologia di comunità, Bologna, Il Mulino, 1996 p. 10 e sgg

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una vicinanza particolare alle persone. Queste diverse collocazioni – volontari più vicini, servizi pubblici un po’ più distanti, intrappolati nelle proprie procedure - a volte diventano un nodo critico, che al di là degli stereotipi , può rendere difficile la comunicazione fra i due ambiti perché sembra che si abbia una visione diversa dell’uomo. Se riportiamo questa differenza, della solidarietà immediata e della solidarietà differita, al tema della fiducia appare evidente come sia più facile, più semplice, più istintivo affidarsi a chi pratica una solidarietà immediata, visibile, concreta. Il mandato dei servizi pubblici - per conto dello Stato - è un mandato ampio, le competenze si allargano, i confini del proprio intervento sfumano74. Il rischio che gli aspetti impersonali sostituiscano quelli personali è forte, e l’operatore, confuso tra l’assumere il ruolo di vittima, di colpevole, di salvatore finisce con l’adempiere a compiti rigidamente prescrittivi o di “cornucopia inesauribile”. La fiducia è un bene prezioso, che si gioca nella relazione, e che ha bisogno di essere addestrata ed amministrata, ma di cui non è possibile fare a meno (Mutti, 1999).

1. IL COLLOQUIO75

Credere molto nella comunicazione, ma non nel senso che la mia parola sia terapeutica per te, ma nel senso che attraverso la mia parola tu puoi acquisire il dialogo con te stesso, e se diventi loquente con te sei già fuori dal dolore o comunque hai la possibilità di leggerlo, e leggerlo vuol dire metterlo in un contesto, visualizzarlo, non lasciarsi assorbire completamente da esso. Umberto Galimberti, 1996 Premessa Il colloquio è la tecnica base del servizio sociale. La capacità tecnica non è in contrasto con la spontaneità, essa consente una forma di maggiore spontaneità: 1) l’operatore capace può derogare dalle tecniche nel caso lo ritenga necessario, 2) la capacità tecnica lascia libero l’operatore di rispondere da essere umano al cliente. Possesso e padronanza di una conoscenza tecnica hanno vantaggi: conoscere significa essere preparati, essere preparati vuol dire avere meno ansia, ridurre l’ansia dà all’operatore la possibilità di rispondere al cliente con sensibilità ed in modo soddisfacente. Colloquio e conversazione Un colloquio è diverso da una conversazione in quanto l’interazione è volta a raggiungere uno scopo scelto coscientemente (spesso il fine del colloquio è di trovare uno scopo reciprocamente accettabile). 1. dal momento che il colloquio ha uno scopo preciso il suo contenuto è scelto per facilitare il

raggiungimento di tale scopo. Viene escluso ogni contenuto non pertinente allo scopo; il contenuto avrà un’unità, una progressione ed una continuità tematica.

74

la storia del servizio sociale non è solo storia di una professione o di un gruppo di professionisti; è anche storia di una

funzione esercitata all’interno di un contesto sociale e istituzionale con dei confini precisi (Parisella, 2000).

75

Tratto da A. Kadushin, Il colloquio nel servizio sociale, Roma, Astrolabio, 1980 (ed. or. 1972)

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2. se si vuole raggiungere lo scopo qualcuno si deve prendere la responsabilità di dirigere l’interazione in modo da farla procedere verso la meta. Questo comporta una distribuzione di compiti fra i vari partecipanti: uno è l’operatore - intervistatore, l’altro è l’utente - intervistato. I rapporti di ruolo sono strutturati, l’operatore conduce il colloquio. In una conversazione non esiste niente del genere.

3. il fatto che un partecipante sia l’operatore e l’altro l’utente implica una relazione non reciproca, asimmetrica. Per due ragioni principali: una persona formula delle domande e un’altra risponde; inoltre, l’operatore agisce in modo tale da incoraggiare l’utente a rivelare molto di sé, mentre lui non rivela quasi niente. L’utente rivela un’ampia parte della sua vita, l’operatore solo il suo io professionale.

4. il comportamento di ogni persona, in una conversazione può essere spontaneo e non programmato, le azioni dell’operatore, invece, devono essere programmate, deliberate e scelte coscientemente per raggiungere lo scopo.

5. nessuno è costretto ad iniziare una conversazione. Il professionista, invece, è obbligato ad accettare la richiesta di un colloquio da parte di un cliente, qualunque siano le idee riguardo alla riuscita del colloquio stesso. L’operatore non può far terminare il colloquio per motivi personali, senza essere imputato di abbandono di responsabilità. Un colloquio richiede un’attenzione precisa all’interazione. Si ritiene che l’impegno dell’operatore a partecipare al colloquio sia più intenso.

6. avendo uno scopo il colloquio di solito è un incontro formalmente organizzato. Momento, luogo, periodo di tempo definito, al contrario di quanto succede in una conversazione.

7. poiché lo scopo del colloquio non è il divertimento non si evitano i fatti e i sentimenti spiacevoli. Anzi c’è un impegno specifico ad evocare i fatti spiacevoli se questo si rivela d’aiuto; in una conversazione c’è l’accordo implicito di tralasciare argomenti spiacevoli.

In sintesi: il colloquio si differenzia da una conversazione in quanto implica l’interazione personale per uno scopo conscio, reciprocamente accettato; ha una struttura formale, una divisione di ruoli chiaramente definita e un insieme di norme che regolano il processo di interazione. Il colloquio nel servizio sociale Il colloquio nel servizio sociale riguarda il contenuto del servizio sociale, viene fissato per raggiungere gli scopi del servizio sociale e ha luogo prevalentemente – non esclusivamente - nei centri di assistenza sociale. Il colloquio è la tecnica più importante - ma non l’unica - attraverso la quale si raggiungono gli scopi del servizio sociale. Agli scopi generali si aggiungono gli scopi dell’ente al cui interno il colloquio effettivamente si svolge (i vari tipi di servizi, con le loro specifiche competenze). Nel colloquio ci si sforza di ottenere la massima partecipazione da parte dell’utente (mentre nelle interviste effettuate per i sondaggi di opinione si fa esattamente il contrario: l’intervista è standardizzata e si cerca di contenere le opinioni individuali) e di rendere massima l’individualizzazione del contenuto. Kadushin distingue tre grandi categorie di colloqui: informativi (svolgere un’indagine sociale), diagnostici (giungere ad una valutazione) e terapeutici (effettuare un cambiamento). Le tre categorie di colloqui a volte sono intrecciate e possono coesistere in un medesimo colloquio. Colloqui d’informazione o di indagine sociale Questo tipo di colloquio è una raccolta selettiva di materiale biografico (della persona), collegato alla sua situazione sociale ed al problema per cui si è rivolto all’ente. Quindi i parametri relativi al colloquio informativo riguardano sia informazioni relative alla comprensione della domanda, sia relative al tipo di aiuto che l’ente può fornire. Generalmente i primi colloqui vengono dedicati in modo più esclusivo ed esplicito ad ottenere informazioni; è una fase che può preludere ad un intervento sociale (dopo avere effettuato una valutazione). Il colloquio non è l’unica fonte possibile di informazioni, l’osservazione diretta è un’altra fonte. Si possono raccogliere dati in altri modi (leggendo materiali già in possesso al servizio, ad esempio la documentazione su un caso). Attraverso altri colloqui, non più con l’utente.

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Colloqui diagnostici , finalizzati alla determinazione di idoneità per un servizio. In questa categoria si possono includere i colloqui di selezione delle famiglie adottive o affidatarie. Lo scopo di questi colloqui è di ottenere informazioni utili per prendere delle decisioni. Quindi anche la decisione se fare o meno un progetto d’intervento e di che tipo. Colloquio terapeutico, serve per definire un accordo - scritto o orale - sulla base delle potenzialità della persona (e della sua rete) che individui i compiti dei diversi soggetti e per sostenere, razionalmente ed emotivamente, le persone nel percorso di svolgimento dei compiti. Un’altra classificazione del colloquio in servizio sociale può essere fatta facendo riferimento ai contesti relazionali dell’utente. I possibili contesti in cui l’operatore può intervenire sono: - l’individuo - la coppia - la famiglia76. Si possono analizzare i tre contesti facendo riferimento alle caratteristiche, alle problematiche e alle potenzialità dell’interazione (Zini, Miodini, 1997, p. 83-92). Kadushin non fa riferimento ai contesti relazionali secondo la classificazione di Zini e Miodini, ma prende in considerazione il colloquio di gruppo. Nel colloquio di gruppo, le regole sono simili a quelle del colloquio individuale. C’è un conduttore, e ci sono delle fasi, c’è uno scopo. Per essere produttivo, un colloquio di gruppo richiede che i membri si attengano a delle norme - permettere a ognuno di esprimersi senza interruzioni - ascoltare attentamente ciò che gli altri stanno dicendo - rispondere a ciò che gli altri hanno detto - fare in modo che il proprio contributo e la propria risposta siano attinenti al tema discusso - portare in discussione materiale significativo e importante senza arrestarsi di fronte ai tabù

sociali (gli argomenti di cui non si deve parlare) - accettare l’aperta discussione e la critica del gruppo - accettare le limitazioni che vengono poste a comportamenti aggressivi, sia verbali, che di altra

natura, che potrebbero creare una frattura nel gruppo - incoraggiare l’espressività emotiva. I vantaggi dei colloqui di gruppo: - il fatto di incontrare una famiglia insieme, piuttosto che separatamente, consente all’assistente

sociale di ottenere in meno tempo una comprensione e una conoscenza della famiglia, delle relazioni al suo interno, degli stili di comunicazione fra i membri, di ciò che ogni membro ritiene importante, se esiste o meno una visione unitaria del desiderabile, di evitare “i segreti di famiglia”, di fare un esame di realtà collettivo. Questo assunto è vero sia nella fase di conoscenza che nella fase successiva, di trattamento della situazione;

- consente anche lo sblocco dell’interazione (pensiamo a membri di una famiglia che non si parlano fra di loro), e quindi la mediazione fra le istanze e le visioni dei singoli;

- i problemi possono essere affrontati da più prospettive, le ipotesi di soluzione sono affrontate da più soggetti, la definizione di un contratto è con tutti i soggetti coivolti nel problema

- inoltre il colloquio di gruppo consente una maggiore efficienza: incontrare insieme più coppie che hanno fatto domanda di adozione consente di trasmettere informazioni a più persone, e di consentire la circolazione delle informazioni possedute dalle coppie fra di loro.

Gli svantaggi dei colloqui di gruppo: - il timore di mettere in evidenza aspetti intimi del proprio pensiero - il gruppo può inibire

76

Zini M.T., Miodini S., Il colloquio di aiuto, 1997, Carocci, Roma

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- il gruppo può centrarsi su antichi rancori, e quindi la comunicazione può risultare bloccata, o centrarsi su un unico punto critico.

- il centro d’interesse, per l’operatore, non è più l’individuo ma il gruppo; l’assistente sociale deve mantenere aperta la comunicazione fra sé e ogni membro del gruppo e fra ogni membro del gruppo e gli altri

- nel colloquio di gruppo si devono conciliare gli scopi di più persone, che possono distorcere lo scopo per cui era stato fissato il colloquio

- nel gruppo il silenzio è una responsabilità condivisa da tutti. Il colloquio individuale non ha preistoria. La diade operatore - utente non si è mai incontrata prima. Al contrario, i fratelli, le coppie di coniugi, i parenti, hanno interagito prima del colloquio di gruppo e hanno una storia di interazioni, degli schemi già collaudati di comunicazione. Questa storia viene portata nel colloquio di gruppo. Questo è un dato di fatto con cui l’operatore si deve confrontare quando incontra la famiglia. Colloquio e comunicazione Il colloquio è una forma specializzata di comunicazione; l’interscambio comunicativo interessa due persone, dotate entrambe di un sistema di ricezione, di un sistema di elaborazione e di un sistema di trasmissione. Il sistema ricevente è costituito dai cinque sensi. Vi possono essere delle barriere nella comunicazione. Un possibile livello di barriera: la sensazione della distanza sociale tra operatore ed utente. Un altro è la differenza di linguaggio tra assistente sociale ed utente: ogni gruppo sociale ha il suo gergo ed il suo particolare uso della lingua, per cui l’assistente sociale dovrà essere in grado di farsi capire anche da coloro che “non parlano la sua lingua” - tradurre, appunto, le proprie parole, come segno di rispetto e per facilitare la comunicazione. La ricezione del messaggio: la persona che riceve il messaggio ha il suo bagaglio personale di barriere mentali, schermi e filtri che la proteggono dalla ricezione di messaggi che la rendono ansiosa o la mettono a disagio. I meccanismi di difesa costituiscono una distorsione del messaggio udito; nella proiezione sentiamo il messaggio non nei termini in cui è stato pronunciato ma come lo avremmo detto noi in quella situazione. Non sentiamo soltanto ciò che decidiamo di ascoltare ma ciò che ci aspettiamo di sentire, che venga detto o meno. Il sistema di credenze (la cultura dell’operatore) include le attese che lo predispongono a dare certe risposte. Si tende a pensare per categorie77, si danno agli individui gli attributi dei gruppi ai quali sembra che appartengano e si tende a sentire ciò che ci si aspetta che essi dicano piuttosto che ciò che dicono in realtà. Durante un colloquio l’operatore investe una notevole dose di energia nell’elaborazione delle comunicazioni che ha ricevuto, analizza le comunicazioni che riceve e trasmette queste comunicazioni per correggere l’eventuale disturbo nella trasmissione. Occorre tenere sempre conto dell’esistenza della possibilità di non avere capito - il correttivo per l’ignoranza presumibile è il rimando: si controlla la comprensione del messaggio chiedendo delle conferme o dei chiarimenti. Attraverso questo procedimento si può giungere, per gradi, ad un “accordo di realtà”, il che vuol dire lavorare insieme su fatti che l’operatore e l’utente hanno riconosciuto come problematici. L’accordo di realtà, spesso, è parziale: un pezzo di accordo è comunque un inizio, mantiene l’aggancio tra la persona ed il servizio, consente di definire dei precontratti. Si può definire «la competenza comunicativa come l’insieme di quelle capacità che favoriscono lo scambio di informazioni attraverso il linguaggio verbale e attraverso i segnali non verbali […] utilizzate prevalentemente nell’interazione faccia a faccia. Questa competenza si esprime in: - funzione di invio efficace dei messaggi - funzione di ricezione dei segnali e delle informazioni che essi forniscono

77

Nella valutazione si era fatto riferimento alle classificazioni, e alla loro arbitrarietà.

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- funzione di decodifica dei messaggi inviati - meccanismi interni all’individuo, quali consapevolezza, congruenza interna, feedback interno,

ecc., necessari al monitoraggio dei propri comportamenti comunicativi»78 Quando ci si parla, si parla anche con se stessi, vi sono monologhi interiori dell’utente e dell’operatore. Un esempio, dal testo di Kadushin: un’intervista fatta dopo un colloquio ad un utente e ad una assistente sociale, su cosa pensavano mentre si parlavano; l’ultima parte è interessante: l’utente - una donna con figli, sola, che ha chiesto assistenza per i bambini poiché deve essere ricoverata in ospedale, dice “avrò veramente bisogno di un aiuto se dovrò farmi operare. I bambini non sanno badare a se stessi, sono troppo piccoli” e intanto pensa “perché devono rendere tutto così complicato? Non mi ha nemmeno chiesto l’età dei bambini e quanti sono. E ora vuole parlare con qualcun altro (il medico). Parli con me, sono io quella che conosce la situazione meglio di tutti.” L’operatore competente L’operatore che si comporta da persona cordiale e che ha un atteggiamento di accettazione stabilisce un’atmosfera che fa diminuire l’ansia. Una buona interazione fra l’operatore e la persona si può collegare ad un accordo sul fine del colloquio. Questi due aspetti possono coesistere separatamente, senza rapporti fra loro - succede quando l’operatore enfatizza gli aspetti di accettazione ed empatia, perdendo di vista gli scopi: l’operatore ascolta, accoglie, comprende, vuole fare delle proposte - per esempio una rilettura di una situazione familiare - ma non ci riesce, viene assorbito dalla dimensione dell’accoglienza, che è importantissima, ma non si può dimenticare che il colloquio sta in una sequenza di un processo di aiuto, per cui dovrebbe inserirsi in un percorso di cambiamento. Ci sono delle regole, per l’operatore, appropriate ad un colloquio: 1. incoraggiare l’autodeterminazione della persona 2. atteggiamento non giudicante: l’operatore non è lì per lodare o biasimare, ma unicamente per

comprendere (non giudizio ed accettazione si coniugano insieme: il che non vuol dire che l’operatore aderirà acriticamente allo schema di riferimento dell’utente, ma ne riconoscerà la validità, per quella persona - ovvero sottolineerà costantemente, dentro di sé, la relatività culturale dei propri punti di riferimento).

3. non fare fretta alle persone (concludere le frasi al posto loro, avere già capito tutto, non dare il tempo di ordinare ed esprimere i propri pensieri)

4. fare attenzione (ovvero controllare e gestire) al conflitto tra la promessa di libertà fatta alla persona e il doversi prendere delle responsabilità nei confronti dei suoi bisogni

5. l’interesse per la persona, che dev’essere alto - interesse che le persone riconoscono, se c’è 6. rispetto per l’individualità delle persone - trattare le persone come individui singoli, particolari,

unici 7. comprensione empatica: comprendere con sensibilità ed accuratezza la natura dell’esperienza

dell’utente - si attua una comunicazione del tipo “sono con te”. L’operatore sente con l’utente - qui inizia l’esperienza della com/partecipazione al dolore. Empatia significa entrare, con l’immaginazione, nella vita interiore di qualcun altro; bisogna comunicare all’utente che si sta percependo e sentendo la sua situazione

8. genuinità ed autenticità: essere veri ed umani durante il colloquio. Il che implica spontaneità e sensibilità - l’operatore dà un esempio concreto di disponibilità alla comunicazione, se non si pone in tal modo non può chiedere di essere disponibile all’utente. È un gioco di equilibri tra “non posso essere tuo amico perché la mia posizione nella tua vita è diversa da quella di un amico, io sono un tecnico, un professionista” e “ti sono accanto come essere umano e perché il mio essere un buon tecnico è dato dalla vicinanza che provo e ti dimostro”, quindi un gioco di equilibri tra trasmettere emozioni e, di nuovo, neutralità

78

Zini, Modini, cit., p. 19

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9. la garanzia della riservatezza: ciò che viene detto tra l’utente e l’operatore rimarrà tra loro, non verrà divulgato in giro. La storia della persona è un bene privato. Occorre però ricordare che esiste un sistema di servizi, al cui interno sta il servizio sociale, che possono parlarsi e comunicare tra loro: questo occorre dirlo, occorre precisare che il contenuto dei colloqui verrà riferito ad altri operatori, se è necessario, motivando il significato di queste comunicazioni, e chiedendo comunque alla persona il consenso.

Queste regole attengono ad ogni colloquio, sia che l’interazione sia positiva o no. Qualità personali idonee a stabilire un buon rapporto: cordialità, pazienza, comprensione, tolleranza, sincerità. Inoltre quanto meno l’operatore è ansioso ed incerto tanto maggiore è la sua probabilità di essere competente. In genere l’operatore esperto è più competente. L’operatore che ha maggior successo è cordiale, disponibile, aperto psicologicamente e capace di un controllo elastico su stesso e sulla situazione di colloquio. Un operatore competente è un operatore che ascolta. L’ascolto contiene quattro aspetti conseguenti: l’attenzione, la percezione, l’elaborazione e la risposta. - L’attenzione è «la volontà di proiettarsi verso l’altro con l’intenzione e il desiderio di cogliere

tutti i segnali di richiesta, nello sforzo di sospendere temporaneamente ogni giudizio e nel controllo del coinvolgimento emozionale, per mettersi realmente a disposizione dell’altro e del suo problema»79

- «percepire il messaggio significa riceverlo effettivamente, cioè permettere allo stimolo di arrivare al cervello attraverso gli organi di senso e riconoscere il tipo di stimolo ricevuto; accettarlo a livello cosciente, cioè decodificare e comprendere il messaggio inviato nei termini in cui è stato emesso. […] nelle relazioni umane è molto difficile distinguere ciò che è situazione obiettiva da ciò che è opinione soggettiva»80

- «elaborare il messaggio significa approfondirne il contenuto, non tanto alla ricerca del senso attribuito dall’operatore, ma per comprendere ciò che sente e vive l’utente, per arrivare ad una comprensione comune, attraverso feedback e restituzioni […] approfondire come viene vissuto il problema aiuta a comprendere se c’è accordo o disaccordo tra operatore ed utente e se vi sono tutti i requisiti per approfondire la presa in carico»81

- «nel rapporto tra cliente ed assistente sociale la risposta assume il valore di riformulazione sistematica della domanda e di restituzione rielaborata delle informazioni date e raccolte dall’utente; comunica all’utente che la sua domanda è stata accolta e che è stata compresa la situazione affettiva che la accompagna. La riformulazione scaturisce, quindi, da una operazione di valutazione e di scelta del materiale raccolto […] la scelta del materiale richiede all’operatore capacità decisionale […][e] capacità di riorientamento delle linee e dei comportamenti idonei alla realtà»82

Vi possono essere due tipi di risultati in un colloquio, strumentali ed espressivi. Le soddisfazioni espressive sono tratte dal rapporto instaurato; i risultati strumentali derivano da ciò che l’assistente sociale di fatto fa per aiutare il cliente a risolvere i problemi per cui l’utente è venuto. Facendo riferimento ad una ricerca del 1956, interviste post colloquio ad alcuni utenti emergevano questi due tipi di soddisfazione: risultato strumentale, c’è la speranza che l’operatore dica o faccia qualcosa per risolvere almeno in parte il problema; risultato espressivo: il piacere, la gratificazione derivanti dal contatto con una persona interessata che comprende ed accetta e appare disponibile ad ascoltare la tua storia.

79

Zini, Miodini, cit., p. 56 80

idem, p. 56 81

Zini, Miodini, cit., p. 57 82

idem, p. 58

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Dalla parte dell’utente, un aneddoto: una signora ad un gruppo di incontro fra utenti «chi dice che essere assistiti non sia un lavoro! Si deve imparare come comportarsi quando si va giù per un colloquio. Devi essere sicura di tenere giù la testa e di sembrare triste, di non parlare forte e così via. Ci vuole proprio una certa preparazione per essere assistiti. Non voglio dire che si debba far finta, no, voglio dire che quando hai bisogno dell’assistenza non puoi entrare e sembrare troppo orgogliosa perché possono indisporsi. Le persone che ti fanno compilare i moduli si aspettano che tu abbia un certo aspetto. E a volte bisogna lavorare duro per arrivarci» (1970). Ogni singolo colloquio di una serie di colloqui è parte di un processo, di una successione di passaggi che, nel tempo, realizzano gli obiettivi del rapporto tra l’ente e l’utente. Si può fare una distinzione tra i colloqui anche a seconda di chi ha preso l’iniziativa di effettuare il colloquio. Le combinazioni possono essere: - colloqui richiesti dall’utente - colloqui richiesti dall’assistente sociale all’utente - colloqui richiesti dall’assistente sociale ad altre persone coinvolte o da coinvolgere nel processo

di aiuto - colloqui richiesti all’assistente sociale da altre persone. Questi elementi sono importanti per capire il contenuto del colloquio e la motivazione degli interlocutori (Dal Pra Ponticelli, 1987). Le fasi del colloquio

Un colloquio può essere diviso in fasi 1. il cammino verso il colloquio. Inizia, prima che i soggetti si incontrino, nei loro pensieri man

mano che si muovono verso l’incontro. L’utente decide di chiedere assistenza, attraverso una riflessione - questa riflessione a volte viene esplicitata “non sono venuto prima perché volevo arrangiarmi da solo” “ho parlato con una mia amica e mi ha detto di venire” “ho pensato che avreste potuto aiutarmi per”. Ciò vuol anche dire che prima del colloquio reale vi sarà un colloquio immaginario, che lo prepara. Alcune decisioni sono obbligate: nel nostro sistema di servizi occorre rivolgersi all’ente pubblico per una domanda di adozione, per esempio, o per un’assistenza economica continuativa, per inserire un minore in comunità alloggio, per accedere ad un servizio per disabili. Altre decisioni obbligate attengono alle prescrizioni dell’autorità giudiziaria. Non solo l’utente può effettuare la scelta di contatto, ma a sua volta l’assistente sociale può essere il soggetto che decide che l’utente deve essere sentito. Il colloquio è influenzato da ciò che l’ha preceduto, sia dal punto di vista dell’utente che dell’operatore (che avrà pensato a cosa dire, con più o meno profondità, a seconda del tempo a sua disposizione o dei dati che ha, anche per l’operatore esiste un colloquio immaginario prima del colloquio reale). Sia l’operatore che l’utente portano con sé al momento del colloquio il proprio retroterra culturale, le proprie storie personali. Il momento che precede il colloquio è anche il momento delle motivazioni: l’utente può avere molta resistenza e lo stesso si può dire dell’operatore (all’utente può essere prescritto di andare ad un colloquio, l’assistente sociale anche può trovarsi in una situazione di prescrizione: un dato colloquio può essere necessario, obbligatorio, per la gestione di un caso ma magari si è in ansia, o ci si sente incompetenti). L’operatore, comunque, ha compiti precisi: orientare il colloquio in rapporto allo scopo, incoraggiare la partecipazione, il che vuol dire trasformare, per quanto è possibile, la non volontarietà in volontarietà - aprire delle brecce verso la comunicazione possibile.

2. la programmazione del colloquio: la disponibilità di tempo dell’ente (e dell’operatore) influenza l’inizio del colloquio - il tempo d’attesa e l’orario, che dovrà tenere conto delle esigenze dell’utente (può/non può prendere permessi dal lavoro, deve accompagnare i bambini a scuola, ha un parente anziano da accudire, ecc.). Il rispetto del tempo è rispetto del tempo dell’operatore, come pure di quello dell’utente.

- la preparazione dell’operatore: è chiaramente un’azione di anticipazione mentale sul colloquio stesso. Possiamo evidenziare due grandi aree: il colloquio di cui si conosce l’argomento ed il colloquio ignoto. Esempio del primo tipo di colloquio: la convocazione di una famiglia per il rimando di quanto scritto al Tribunale: l’operatore può agevolmente strutturare la sequenza

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degli argomenti, trovare “le parole per dirlo”, immaginarsi le obiezioni possibili, studiare le risposte, avere un’idea dell’impatto delle proprie parole, anticipare il clima comunicativo - tenendo anche conto dell’imprevisto; oppure una richiesta di colloquio su un tema definito, una richiesta di assistenza economica. Secondo tipo: segretariato sociale, ricevimento senza appuntamento: l’assistente sociale non sa chi verrà né che cosa verrà chiesto. Entrambe le tipologie presentano difficoltà diverse: trovare “le parole per dirlo” in maniera comprensibile e corretta - cioè tale da non interrompere immediatamente la comunicazione, con una reazione aggressiva o depressiva - non è semplice, occorre riuscire a definire esattamente lo scopo del colloquio stesso, i termini adatti (rivedere il nostro vocabolario a seconda dell’interlocutore), la sequenza dei passaggi logici, valutare le ipotetiche risposte possibili; non è neppure semplice mettersi in una posizione di flessibilità tale da reagire congruentemente verso domande diverse - qui l’operatore ascolta ed accoglie, valuta e fa proposte limitate: anzitutto, proposta numero uno, definisce se quella data domanda è di competenza dell’ente e se sì, quali passaggi ulteriori sono necessari per una presa in carico effettiva (un altro colloquio - sulla situazione nel suo insieme o su un argomento specifico: la donna sola con figlio che viene per una questione economica e nel corso del colloquio dice che ha problemi con il padre del bambino: se il tempo del colloquio è stato destinato al discorso economico si concorda un’altra occasione per parlare di quest’altro aspetto, con altre persone, una visita domiciliare, la presentazione di documenti, ecc.).

- il tempo: nella preparazione dell’operatore è di particolare importanza l’aspetto temporale: un buon tempo per un colloquio è variabile tra mezz’ora, un’ora. Fare colloqui troppo lunghi è improduttivo: l’attenzione dell’operatore scende, ci si comincia a ripetere: si può anche dire che più il colloquio è lungo più ci si allontana da una vera conclusione - che è una decisione su qualcosa. L’assistente sociale deve quindi imparare a rispettare il tempo, ad usarlo efficacemente: non fare fretta alle persone, ma neppure lasciare che lo spazio si dilati senza controllo. Avere sempre in mente lo scopo del colloquio aiuta moltissimo. Tempo vuol anche dire scegliere di programmare un colloquio difficile in un momento in cui l’operatore è più lucido; vuol anche dire agevolare il più possibile l’utente nella scelta di un orario adeguato ai suoi impegni.

- il luogo del colloquio: possibilmente una stanza tutta per sé, come direbbe Virginia Woolf. Dove si riducono al minimo - possibilmente a zero - le interruzioni: sono segnali di poco rispetto per l’utente e sono elementi che deconcentrano l’operatore. I libri suggeriscono una stanza accogliente, ordine sulla scrivania: posso fidarmi a consegnare la mia storia ad un assistente sociale che ha visibilmente, sotto forma di disordine molte altre storie in mente? Qui sta molto all’operatore: dare la sensazione dell’ordine mentale, della presenza, dell’attenzione, oppure inviare il messaggio “è proprio così, come vede, non c’è più spazio per nulla, molto probabilmente la sua richiesta andrà perduta”. Inoltre non è detto che il colloquio avvenga sempre e solo in un ufficio: la visita domiciliare, ad esempio, è un colloquio che non avviene nei locali dell’ente; oppure il colloquio può essere effettuato in moltissimi altri luoghi: l’ufficio di un altro operatore, la scuola, l’ospedale, la casa di riposo, il carcere ecc.

3. la fase iniziale del colloquio. Istruzioni elementari: salutare chiamando la persona per nome, essere cortesi, sorridere, offrire una sedia, uso delle frasi rituali (tecnicamente “comunicazioni empatiche”: “come sta?” , “Prego, si accomodi”, “Buongiorno”). Occorre agevolare il passaggio dall’informalità delle relazioni sociali all’interazione formale del colloquio (alla fine, è il contrario). Questa conversazione ha il vantaggio di dare all’utente il tempo di familiarizzarsi con l’operatore e di farsi un’idea della sua persona. Questa non è una regola obbligatoria: la regola obbligatoria è sicuramente quella di mettere la persona a proprio agio, quindi la conversazione generale, centrata su aspetti di esperienza dell’utente, può essere usata all’inizio, alla fine, durante, se è necessaria per smussare una situazione di tensione (come dare il permesso di fumare o offrire un fazzoletto di carta ad una persona che piange), fare delle pause o dimostrare, in modo non verbale, partecipazione. Lo scopo del colloquio non è quello di fare conversazione, quindi non bisogna eccedere nei tempi di quest’ultima, altrimenti si crea confusione nell’utente (“ho aspettato tre settimane per parlare del tempo?”). Di solito, è l’assistente sociale che chiede qual è il motivo per cui l’utente si è presentato al servizio - si può essere generici “mi dica pure” o specifici “per quale problema si è rivolto ad un assistente sociale”. Se qualcun altro ha fatto un precolloquio ed ha compilato una scheda si può partire dai

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dati raccolti. Lo scopo del colloquio dev’essere circoscritto e non troppo ambizioso, altrimenti è facile cadere nella genericità (conoscere una persona è un obiettivo ambizioso). Un obiettivo generale nei primi colloqui è quello di definire perché una persona è venuta al servizio e che aspettative ha nei confronti dell’ente, iniziare a stabilire un contatto (il contatto è una fase, non si esaurisce quindi in un incontro); i colloqui all’interno di un progetto di aiuto sono, da un certo punto di vista più facili, perché lo scopo di ogni colloquio s’inserisce in un quadro più ampio. Il compito principale dell’operatore nella fase introduttiva del colloquio è quello di favorire il rapporto interpersonale. Un altro compito è quello di spiegare chiaramente all’utente il significato del colloquio stesso.

4. la fase di sviluppo del colloquio. Due aspetti: l’estensione (molti punti) e la profondità (un

argomento trattato a fondo, ed anche che cosa la persona prova rispetto ad un dato fatto della propria vita - su ciò che prova la persona s’inserisce “il rapporto col dolore” dell’operatore sociale); sono in posizione antitetica. Alcune tecniche per incoraggiare l’utente a parlare:

♦ espressioni di comprensione ed interesse (“certo”, “capisco”, “ continui”) o cenni di assenso col capo, sorrisi: sono ricompense sociali che incoraggiano a parlare. Dicendo inoltre “continui” l’operatore ha l’opportunità di raccogliere più dati

♦ riflessione: il commento riflessivo indica che si è attenti e si vuole approfondire un argomento, si può ripetere una parola o una frase dell’utente, o dire una frase che riprende quella dell’utente, leggermente modificata. In un certo senso, l’operatore fa da specchio. Le risposte riflessive sono affermazioni, non domande

♦ chiarificazione ed interpretazione: la chiarificazione rispecchia ciò che l’utente ha detto, ma lo traduce in un linguaggio più familiare affinché divenga più comprensibile. Si gioca su un piano di comprensione intellettiva. L’interpretazione come esplicitazione delle deduzioni dell’operatore su ciò che è stato narrato.

♦ riassunto: l’assistente sociale riesamina ciò che è stato detto e dà alla persona una direzione, esplicita gli argomenti trattati e quelli non ancora discussi; in sostanza l’operatore dice che cosa ha capito del racconto dell’utente. Questo serve all’utente per “capire se e che cosa l’operatore ha capito” e per effettuare eventuali correzioni.

♦ domande: è la tecnica usata più frequentemente per incoraggiare a comunicare fatti rilevanti. Le domande fatte bene - non inquisitive - aiutano la persona ad organizzare l’esposizione del suo problema; le domande indicano una direzione, senza imporre limitazioni (digressioni rispetto alla risposta vera e propria). L’atteggiamento con cui si fa una domanda è importante quanto la domanda stessa; se la persona è depressa, il tono della domanda dovrebbe indicare comprensione ed appoggio; se è ostile, riconoscimento ed accettazione dell’ostilità (il che vuol dire non forzare verso una vicinanza relazionale impossibile in quel momento). La domanda può contenere informazioni (“vi è la possibilità di avere un aiuto domiciliare, che cosa ne pensa?”). Le domande possono essere aperte o chiuse (“da dove cominciamo?” - aperta; “quando era adolescente com’era il suo rapporto con i suoi genitori?” - chiusa). Ci sono domande più astratte e domande più concrete “come punisce i suoi figli?” è più astratta di “quando i suoi figli non ubbidiscono e la fanno arrabbiare, che cosa fa?”. Nella categoria domande concrete si possono collocare le domande investigative (servono per chiarire i dettagli): un aspirante genitore adottivo dice che ama i bambini, la domanda investigativa è “che bambini conosce? Cosa fa con loro? Cos’è che le piace di quei bambini?”. Le domande investigative ipotetiche pongono situazioni ipotetiche ma realistiche per vedere la reazione “cosa succederebbe se...”. Un tipo particolare di domanda investigativa ipotetica è la richiesta di immaginare un futuro che corrisponde al desiderio (una giornata con il bambino adottato, con il nipote per cui si chiede l’affido): la ricchezza o la povertà di questo racconto forniscono molti elementi di comprensione. Far domande è un’arte difficile: le domande devono essere chiare e comprensibili e corte, e l’operatore deve dare il tempo alla persona di pensare la risposta; non bisogna suggerire la risposta - “vero che...”. Le domande inoltre dovrebbero consentire un’elaborazione da parte della persona, non risposte sì/no; non bisogna fare più domande insieme “che cosa pensa dell’adozione? Come si vede come genitore adottivo? Ha intenzione di adottare più fratelli?” “la salute va meglio? Le è arrivata la pensione? Come va con quello sfratto?”. Una domanda classica che riguarda la profondità è “che cosa pensa di ciò” o anche “come sta, come si sente in questa situazione?”. Rivelare i propri sentimenti porta con sé la

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paura del rifiuto (dei sentimenti stessi): quindi l’assistente sociale deve dimostrare di non avere paura dei sentimenti, di poterli accogliere, dare degli incoraggiamenti di ricompensa (“lo so che è difficile parlare di questo ed è un segno della sua forza il discuterne”). Gli eufemismi (le attenuazioni), le metafore, le generalizzazioni (“è normale che gli adolescenti non vadano d’accordo con i genitori”) ammorbidiscono le domande, riducono l’ansia, diminuiscono le resistenze.

♦ cambiamenti di argomento nel corso del colloquio: in alcuni momenti è necessario (un argomento è esaurito, si gira attorno senza venire al dunque, ecc.). Il cambiamento di argomento dev’essere chiaro e spiegato alla persona. “Potremmo approfondire questo punto?”, “possiamo parlare di quest’altro aspetto?”

♦ ascoltare più che parlare: un buon ascolto parte dal riconoscimento e dall’accettazione di una situazione d’ignoranza. Vuol dire lasciare che i nostri preconcetti vengano messi in crisi (non distrutti, messi in crisi). L’ascolto può anche essere simulato (si parla con se stessi invece di ascoltare): è una difesa dell’operatore, quando si annoia, quando ha i fatti suoi, ecc., non va bene; è vero che l’operatore pensa ed ascolta, ma dovrebbe pensare al colloquio, non alle vacanze. Non distrarsi richiede autodisciplina: la comunicazione verbale è caratterizzata dal fatto che svanisce rapidamente, se uno non fa più che attenzione, la comunicazione è perduta.

♦ il silenzio nel colloquio: ha molteplici significati, è una pausa per riordinare le idee, per cercare una risposta, perché non c’è più niente da dire, un modo per esprimere una confusione così grande che non ha parole. L’operatore aspetta - rispetta il silenzio - ma non ci si può perdere nel silenzio e il troppo non va bene (perché ostacola il colloquio), quindi deve assumersi la responsabilità di rompere il silenzio (direi dopo qualche minuto): un silenzio troppo lungo genera tensione e rende difficile il proseguimento del colloquio

♦ prendere appunti durante il colloquio: ovvero la memoria di ciò che è stato detto. Kadushin sostiene che prendere appunti distrae e riduce l’attenzione all’interazione. Ci sono però dei colloqui dove è essenziale prendere appunti, anche perché la memoria meglio allenata non riesce a seguire tutti i passaggi ed i dettagli, chi ha detto che cosa (soprattutto se gli interlocutori dell’assistente sociale sono più di uno). Con un buon allenamento, è possibile scrivere e fare attenzione, se lo scrivere non disturba le persone con cui si è in colloquio. Certo ci sono colloqui più semplici, dove non è necessario seguire tutti i passaggi, per cui si può effettuare una registrazione finale, dopo il colloquio. Per registrare bene un colloquio (e non farne solo una sintesi dei contenuti: si presenta la signora e chiede il rinnovo del sussidio) ci vuole abbastanza tempo (forse di più che fare il colloquio) e si pone una domanda fondamentale: cosa deve essere registrato e come? Lo scopo, che guida il colloquio, guida anche la scelta della registrazione. Si nota, in genere, nelle cartelle di servizio sociale che l’operatore, pur essendo quello che registra, non compare mai: non fa domande, non dice nulla. Sono contenute soltanto le affermazioni dell’utente. Ma all’operatore servirebbe sapere come ha condotto il colloquio, per apprendere dalla propria esperienza, anche scrivendola.

♦ la conclusione del colloquio: un colloquio sfuma, verso la fine, non si conclude bruscamente ma gradualmente, l’intensità emotiva si allenta, si evidenziano gli accordi raggiunti. L’assistente sociale deve saper dire delle frasi conclusive, che concludono il colloquio ma mantengono aperta la relazione tra operatore ed utente. Il confine naturale di un colloquio è il tempo. L’altro confine è lo scopo, ma un colloquio può deviare e l’operatore può non essere in grado di mantenere la direzione del colloquio.

♦ l’operatore, dopo ogni colloquio, dovrebbe fare un colloquio con se stesso e rivedersi in azione e capire che cosa è stato efficace e cosa no e capire come le proprie reazioni (collegate ad aspetti emotivi e culturali: sentimenti e pensieri) hanno condizionato il colloquio, facendolo andare in una direzione piuttosto che in un’altra.

Lerma (1992) distingue le tecniche di convocazione dalle tecniche di indagine. Definisce il problema della convocazione come il modo con cui l’assistente sociale sceglie di mettersi in contatto con l’utenza. Inoltre, facendo riferimento alla prospettiva sovraindividuale, sottolinea come sia opportuno, quando una persona chiede un intervento per cambiare il comportamento di un membro della propria famiglia, sia opportuno proporre una convocazione dei conviventi e non della sola persona segnalata come disfunzionante.

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Per quanto riguarda le tecniche di indagine evidenzia che «l’indagine circolare richiede lo spostamento dell’attenzione dal presunto portatore del problema al contesto relazionale di cui egli è parte e quindi dal punto di vista singolo al confronto tra vari punti di vista. L’indagine, in tal modo, non consiste solo nella rilevazione di dati in senso burocratico […] bensì nella costruzione di una mappa di rapporti del sistema utente finalizzata alla comprensione della situazione in cui si è determinato quel certo problema»83. Le domande utili84. - Domande iniziali: dare la parola a chi viene per la prima volta, perché esprima il suo punto di

vista, o lasciare la libertà a chi vuol parlare, o rivolgersi alla persona più debole o meno importante (per esempio un bambino). Le domande devono riguardare il motivo per cui ciascun convocato ha accettato di venire, se è interessato, se è venuto di malavoglia, ecc. Può essere importante non iniziare con le domande dirette sul problema, ma sul colloquio stesso, sulla presenza dei partecipanti in quel dato momento, ricostruire il percorso della partecipazione dei singoli affinché tutti si sentano considerati.

- Domande per definire il problema: vertono intorno alle opinioni sul problema così come è percepito nel presente, in collegamento col passato e con le sue possibili soluzioni, come si colloca il problema nella storia della famiglia, quando una certa situazione è diventata problema.

- Domande per valutare le possibili soluzioni al problema: servono per capire se le aspettative rispetto alla soluzione sono realistiche o meno ed il grado di intenzionalità rispetto al un percorso di soluzione problema – cosa ognuno è disposto a fare per risolvere il problema.

- Domande volte a stabilire le relazioni con altri sistemi. Servono per capire le relazioni fra il sistema e altri sistemi significativi. Rientrano in questo ambito i rapporti all’interno delle famiglie estese. Vanno inoltre considerati i rapporti con i servizi socio-sanitari ed assistenziali già intervenuti nella situazione.

- Domande volte a ricostruire la storia della famiglia: servono ad acquisire informazione sulle tappe più significative del ciclo vitale della famiglia.

- Domande per testare come si prendono le decisioni nel gruppo. Tendono a stabilire se nel nucleo c’è possibilità di accordo su cui fare leva, se il problema provochi dei conflitti su chi ha il diritto di decidere o dei comportamenti di delega o di ostruzionismo.

Occorre inoltre osservare il comportamento analogico dei partecipanti al colloquio, se vi è coerenza o incoerenza tra le dichiarazioni verbali e il comportamento. L’assistente sociale dovrà far notare, con garbo, le eventuali incoerenze e proporre una loro possibile decifrazione.

2. LA VISITA DOMICILIARE

Si ha una visita domiciliare quando la persona, la famiglia viene raggiunta nel suo ambiente di vita quotidiana, nel suo domicilio. Nasce dalla pratica medica, si diffonde nell’attività filantropica – rappresenta il segno della disponibilità del benefattore. La visita domiciliare accompagna la nascita della professione assistente sociale � toccare con mano, vedere le condizioni reali di povertà (primo novecento, anni 40). Prima connotazione - verifica (i vigili sanitari anni 50/60 aiutano gli assistenti sociali) - controllo La visita domiciliare è un particolare tipo di colloquio che si svolge in uno spazio diverso dallo spazio istituzionale in si svolge la attività quotidiana dell’assistente sociale (Cellentani, 1995):

83

Lerma M., cit., pp. 114-115 84

tratto da Lerma M., cit., pp.115-117

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- la richiesta di fare questo tipo di colloquio parte dall’operatore (l’operatore a domicilio è l’istituzione a domicilio)

- l’uso della visita domiciliare non può essere un automatismo – è una scelta (una scelta che può essere definita stabilmente, nelle procedure del servizio: per poter effettuare dei colloqui con persone che hanno una mobilità ridotta, è necessario incontrarle nella loro casa)

- attraverso la visita domiciliare si estorcono delle informazioni prima ancora che la persona abbia scelto di darle

- è un momento di intensità nella relazione operatore utente quando? - è un cambiamento di setting - quando la relazione lo consente, quando la relazione lo richiede perché - dev’essere chiaro per l’operatore e per l’utente - quindi esplicitare i motivi della visita domiciliare ambiti di utilizzo prevalenti della visita domiciliare - per raccogliere informazioni (per conoscere) - per sostenere la relazione - per verificare che determinati accordi siano stati rispettati (verifica) Spazio - è lo spazio della persona, si riduce la distanza tra operatore e utente Da soli o in due? - che cosa significa per la persona arrivare in due? - È un’invasione? - È un segno di attenzione? Se si è in due (o più di due) - esplicitare il motivo per cui si è in due o più di due - non parlare tutti insieme, fare una domanda per volta

ANZIANI E FAMIGLIE L’allungamento della vita è un indicatore di sviluppo sociale. Quindi, il fatto che nostra società invecchi non è da considerare come un fatto negativo, ma come una conseguenza dei sistemi di tutela della salute. Il miglioramento delle condizioni di vita – nei paesi occidentali – e la tutela della salute diffusa ha allungato la speranza di vita (il numero di anni che una persona può mediamente aspettarsi di vivere) - nel 1995, la speranza di vita per i maschi era di 74,8 anni e per le femmine di 80,9. L’età anziana può essere anche l’età della dipendenza, della necessità di cure quotidiane: l’allungamento della vita ha fatto emergere un soggetto sociale fragile, l’anziano (il grande anziano), con problematiche di vario tipo, legate a parziale o completa non autosufficienza. Non bisogna però considerare gli anziani come un tutto indifferenziato, e la condizione anziana come l’età negativa della vita. Quando si diventa anziani? Quando la carriera lavorativa termina e ci si ritira dalla vita attiva (si smette di fare il mestiere prevalente che si era esercitato durante l’esistenza). Il pensionamento, quindi, è convenzionalmente l’inizio dell’età anziana. Ma c’è differenza tra un anziano di 65 anni e un anziano di 90, anche se la condizione di pensionato permane. L’età

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anziana si distingue in almeno due grandi aree: gli anziani giovani (60-75 anni), e gli anziani anziani o grandi anziani (76 e oltre). Il pensionamento può essere un’esperienza traumatica, di perdita, che innesca un cambiamento totale nella vita di una persona – se l’attività lavorativa era il centro del mondo di una persona, la perdita del lavoro rischia di essere la fine delle speranze e dei programmi per il futuro. I neopensionati sono persone attive, di fatto si danno da fare per aiutare gli altri: siano familiari o estranei (le associazioni di volontariato, le parrocchie, i patronati sono prevalentemente sostenuti da anziani). La condizione anziana, di fatto, ha molto da dare alla società, e occorre riconoscere questo fatto, evidenziare gli anziani come risorsa e non come un peso sociale. Per quanto riguarda il contributo degli anziani alla vita familiare: aumenta il numero delle famiglie in cui tre generazioni contigue si trovano a vivere nello stesso tempo storico: la società del futuro sarà una società multigenerazionale. Multigenerazionale non solo perché tende a crescere il numero delle generazioni compresenti, ma anche perché queste generazioni si differenziano all’interno di una stessa fase di vita (la diversificazione delle generazioni anziane: anziani giovani e grandi anziani). A ciò si aggiunge la complessità degli intrecci familiari che hanno percorsi di vita più complicati di un tempo: ad esempio, un numero sempre maggiore di anziani si trova a dover sostenere fino ad età avanzata i figli separati/divorziati e i nipoti nati da matrimoni falliti. Fra le generazioni esistono dei legami, per cui il nonno si occupa del nipote, il genitore accoglie il figlio separato, la figlia anziana si occupa del genitore novantenne. Sicuramente, i rapporti di parentela sono caratterizzati da obblighi di carattere generale che sono considerati più importanti dell’interesse e delle inclinazioni personali: i parenti sono persone sulle quali si pensa di fare affidamento. Il rapporto genitori figli è l’asse portante attorno al quale si costruiscono gli altri rapporti con i parenti. La generazione più coinvolta nel processo di dare, aiuti di tipo economico o assistenza o sostegno è quella di età centrale (la cosiddetta generazione di mezzo) che fornisce aiuti economici alla generazione più giovane e aiuti di cura a quella più anziana. Come se esistesse un patto implicito: i genitori dell’età di mezzo forniscono cura e assistenza alla generazione più anziana dalla quale in tempi precedenti avevano ricevuto aiuto sia economico sia di cura nell’allevamento dei figli; d’altro canto, aiutano economicamente e in altro modo la generazione più giovane stabilendo quei legami e quei vincoli di reciprocità e di solidarietà che garantiranno, nella migliore delle ipotesi, di essere accuditi nella vecchiaia (è una sorta di struttura di lealtà fra generazioni). La rete di solidarietà familiare è di primaria importanza per le donne sole con figli che sanno di poter contare sulla famiglia d’origine per aiuti economici, di cura dei figli e per quelli domestici, così come per gli anziani che anche se vivono prevalentemente da soli o con il coniuge, sono spesso inseriti in una rete di rapporti affettivi, di scambio e di solidarietà con figli e nipoti. Questo tipo di sostegno reciproco si sta indebolendo nelle aree urbane del Nord Italia, dove vivono molti anziani soli, soprattutto donne, che sperimentano una situazione di isolamento relazionale e sociale e che possono trovarsi in condizioni di indigenza o povertà. Peraltro i grandi anziani di oggi costituiscono l’ultima generazione con un numero consistente di figli e con matrimoni stabili, quelli del futuro non potranno contare su una solidarietà familiare così forte. Questo costituirà un problema sociale tutt’altro che irrilevante. Quando la disponibilità a offrire tempo, aiuto, attenzioni viene assunta al di là dei confini della propria parentela e diventa una scelta di utilizzo del proprio tempo, allora nascono le iniziative di solidarietà, nelle forme e dei modi che una persona ritiene adatti a sé. Non tutti i volontari anziani hanno particolari abilità comunicative, per esempio, ma magari hanno grandi abilità organizzative: non è che solidarietà sia soltanto una serie di comportamenti codificati, di aiuto diretto, ma sono anche tutte quelle attività, che concorrono a sostenere la vita di un’organizzazione, a coordinare un progetto, a promuovere azioni di partecipazione sociale, a tutelare dei diritti (la Cittadinanza Attiva-Tribunale per i Diritti del Malato fa appunto questo: segnala alle istituzioni le disfunzioni e le inadeguatezze; è vitale, per delle organizzazioni che producono servizi, avere un confronto ed un rimando del proprio operato).

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Il fatto che esista una forte partecipazione degli anziani (in particolare degli anziani giovani) alla vita familiare e alla vita sociale, non può far dimenticare che la condizione anziana (soprattutto da una certa età in poi) può essere una condizione di grande fragilità – e necessita di servizi, peraltro su grandi numeri.

TORINO: Struttura della popolazione per sesso e classi di età

Dati aggiornati al 31/12/2001

Eta' MASCHI FEMMINE TOTALE 0-4 17.777 16.941 34.718 5-9 16.492 15.484 31.976

10-14 16.590 15.584 32.174 15-19 17.529 16.482 34.011 20-24 22.092 21.153 43.245 25-29 34.361 32.418 66.779 30-34 39.465 36.314 75.779 35-39 37.840 35.463 73.303 40-44 32.480 31.488 63.968 45-49 29.213 29.981 59.194 50-54 30.285 32.915 63.200 55-59 28.714 30.957 59.671 60-64 30.465 34.471 64.936 65-69 26.417 32.058 58.475 70-74 22.742 30.239 52.981 75-79 15.551 24.887 40.438 80-84 7.774 15.008 22.782 85-89 4.193 10.689 14.882 90-94 1.354 4.603 5.957 95-99 184 1.006 1.190 >=100 22 125 147 Totale 431.540 468.266 899.806

108.702 maschi + 153.086 femmine = 261.788 cittadini > di 60enni 85.396 grandi anziani (ultra 75enni) Si aprono quindi delle considerazioni rispetto al rinnovamento delle politiche sociali e dei servizi. Il primo obiettivo è il mantenimento, il più a lungo possibile, dello stato di benessere della persona. La promozione della salute non è un argomento di interesse secondario per le politiche sociali. In uno studio del 1998 sulla salute a Torino e sulle diseguaglianze si afferma che «la salute è uno specchio dello stato di benessere di una società. L’ambiente sociale e l’ambiente fisico in cui una persona vive e lavora, quindi il reddito, l’istruzione, l’organizzazione del lavoro, le caratteristiche della famiglia e le condizioni psicosociali, costituiscono i più importanti determinanti della salute. Pertanto una ampia redistribuzione della prosperità, lo sviluppo di un ambiente di vita sociale e comunitaria simpatetico, e l’investimento sulla persona, sulle sue risorse individuali fisiche ed intellettuali, sono i migliori presupposti per una politica di promozione della salute»85. Lo studio analizza le cause di mortalità nell’area torinese, nel periodo 1981-1995 ed è interessante fare riferimento ad un aspetto poco conosciuto, il rapporto tra casa, luogo di residenza e mortalità. Nello studio si afferma che la mortalità cresce con il disagio abitativo. Nel periodo di follow up considerato, 1981-1991, sono significativamente maggiori le percentuali di mortalità tra chi vive in una casa molto disagiata (senza servizi igienici interni) o in una casa in affitto disagiata (con

85

Costa G., Cardano M., Demaria M. (a cura di), Torino, storie di salute in una grande città, 1998, Città di Torino, Ufficio

di Statistica, Osservatorio socio-economico

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gabinetto interno, riscaldate con stufe o caminetti) e chi vive in case più agiate (considerando le varie gradazioni tra la casa con termosifoni e servizi interni e la casa agiata). Il disagio abitativo è anche uno dei fattori di vulnerabilità sociale. La promozione della salute è una politica pubblica nel senso che la costruzione della salute è una politica sociale che punta sui cambiamenti degli ambienti, degli stili di vita, dei sistemi sanitari, sul cambiamento complessivo di tutto l’insieme delle condizioni di vita. E’ altresì un settore di lavoro, caratterizzato dalla comunicazione, dall’educazione, dal lavoro di comunità. A titolo esemplificativo, si può ricordare che le esperienze di promozione della salute e, più in generale, di promozione della qualità della vita hanno avuto all’interno dell’OMS vari tipi di percorsi come i network delle “città sane”, degli “ospedali sani”, delle scuole che promuovono la salute, di ambienti di lavoro che garantiscono la salute. La promozione della salute come politica pubblica pone la questione dell’integrazione fra le politiche e l’integrazione tra il settore sociale e quello sanitario. In particolare, il problema dei confini amministrativi tra i settori sociale, sanitario e sociosanitario è cruciale per il funzionamento dei servizi alle persone. I bisogni e la domanda si presentano tendenzialmente in modo unitario, mentre le risposte dipendono dalla distribuzione delle competenze fra gli enti. La necessità di raccordare le competenze degli enti all’unitarietà dei bisogni è la base strutturale delle politiche d’integrazione sociosanitaria. Si tratta di un accordo di senso: se il servizio sanitario ha il compito di promuovere la salute86 (prestazioni sanitarie a rilevanza sociale) e i livelli essenziali delle prestazioni sociali erogabili dagli enti locali implicano, tra gli altri, misure di contrasto e alla povertà e misure di sostegno per le responsabilità familiari, allora è evidente che, assunti come determinanti per la salute, tra gli altri, le condizioni sociali87 sono necessarie azioni comuni per raggiungere un obiettivo comune, che è un obiettivo di tutela della qualità della vita. Il problema dell’integrazione fra le politiche pubbliche, quindi, per un’efficace promozione della salute, e all’interno di questo scenario, il problema dell’integrazione socio-sanitaria, al cui interno si colloca una domanda sociale cruciale: l’esigenza di cura è destinata ad aumentare, ovvero l’invecchiamento della popolazione porta con sé delle fragilità. La cura è un concetto con molte implicazioni: cura è l’attività prestata dal servizio sanitario, o dai servizi sociali, ma cura sono anche le relazioni mosse da affetto, amicizia, solidarietà88. Dagli anni 80 si stanno recuperando le forme dell’assistenza informale, dei natural helper (parenti, amici, vicini). Nelle situazioni in cui i rappresentanti dell’assistenza formale riescono a stabilire un

86

la promozione della salute è un concetto più esteso del concetto di prevenzione dalle malattie, significa immaginare degli

scenari ecologici della salute, in cui s’intrecciano responsabilità individuali e collettive e in cui si agisce verso le condizioni

sociali che determinano lo stato di salute di una popolazione. Nell’agosto 2001 il Ministero della Sanità è diventato il

Ministero della Salute. Così commenta questa trasformazione Veronesi «se la salute è l’obiettivo, la sanità è solo uno dei

mezzi […] questo il concetto di base di quel nominalismo che in pratica significa un vistoso allargamento di prospettiva e che

ribalta il ruolo dell’istituzione sanitaria […] la salute non è solo questione di medici e farmaci, ospedali ed esami. Il

benessere fisico e psichico (per non parlare di quello sociale), come ha convenuto da decenni l’Organizzazione Mondiale

della sanità, dipende soprattutto da fattori che sfuggono alle possibilità di intervento diretto dei camici bianchi e riguardano

invece insegnanti e professori, imprese e sindacati, ambientalisti e volontari, economisti ed esperti della comunicazione. E

non ultimi, i singoli cittadini e le famiglie […] la conquista della salute […] rappresenta una responsabilità che ci riguarda

tutti, indistintamente, da semplici cittadini a persone responsabili nelle nostre famiglie e nei nostri ruoli professionali pubblici

e privati» U. Veronesi, L’amaro medicinale Storace, L’Espresso, 12 maggio 2005 87

In Costa G., Cardano M., Demaria M. (a cura di), cit. I determinanti della salute di una popolazione sono riconducibili a

quattro categorie: l’impronta genetica, l’assistenza sanitaria, i comportamenti individuali e le condizioni sociali. Le

condizioni sociali come determinanti della salute sono quelle che in tutta la storia umana hanno segnato il profilo di salute

delle popolazioni, sino alle differenze sociali nella salute legate alla diversa vulnerabilità alla malattia dei soggetti, in ragione

della loro posizione sociale.

88

G. Colombo, E. Cocever, L. Bianchi, Il lavoro di cura, 2004, Carocci, Roma

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rapporto di fiducia con i rappresentanti dell’assistenza informale si crea una sorta di circolo virtuoso, da cui l’utente non può che trarre beneficio. Un esempio di interazione tra assistenza formale ed assistenza informale è rappresentato dalle esigenze di cura delle persone anziani non autosufficienti o parzialmente autosufficienti. Questa interazione è una scommessa di fiducia. La cura è un diritto: ognuno di noi ha il diritto di essere curato, ma ha anche il diritto di curare le persone che ama. La questione del diritto di cura ribalta le priorità; significa porre al centro la persona e progettare gli interventi partendo dalle esigenze delle persone e del contesto relazionale in cui sono inserite. Queste premesse sono presenti nella legge sull’assistenza, che prevede una corresponsabilità tra soggetti pubblici e privati nei confronti dei bisogni di sostegno e cura delle persone. Poiché l’esigenza di cura aumenterà, come si affronterà questo bisogno di cura nei prossimi anni? Chi si prenderà cura di coloro che ne hanno bisogno? I dati evidenziano delle situazioni tipo: da una parte, figli e figlie che lavorano e che hanno un loro carico familiare, dall’altra anziani con una speranza di vita di più di ottant’anni, rimasti soli nella loro casa, che non riescono più a badare a loro stessi. Le figlie sono prevalentemente donne di mezz’età, che hanno costruito la loro vita su una doppia presenza, lavoro familiare e lavoro per il mercato, che hanno bisogno di costruirsi una vita non più scandita dalle esigenze degli altri, che si trovano a dover iniziare di nuovo dei percorsi di cura e sostegno e che alla fatica del lavoro di cura devo aggiungere il peso della delusione per aver immaginato un altro futuro e non poterlo realizzare. Possiamo definire questa generazione come “generazione di mezzo”: due generazioni chiedono le sue cure, le sue attenzione, le sue risorse, morali, cognitive, affettive. Questo ci dà un dato importante: le persone che curano – sia nell’ambito familiare che in quello di buon vicinato – hanno a loro volta bisogno di aiuto. C’è fatica nel curare. Ciò significa che le politiche di sostegno rivolte ad anziani e disabili non possono non prendere in considerazione il lavoro di cura svolto dai familiari. Questo apre uno scenario nuovo. Innanzitutto, creare una cultura in cui il curare sia sentito come positivo ed arricchente, e non solo fatica, anche attraverso la sua visibilità e il suo riconoscimento sociale. Più piani: - le esperienze personali che diventano sapere sociale, ricchezza collettiva, passaggio di

competenza ed abilità - il piano delle politiche e degli interventi operativi: che devono tenere conto che attorno a chi è

curato vi è una rete di relazioni, la quale consente all’intervento del servizio di essere svolto e che integra l’intervento del servizio. Il mantenimento di legami sociali in generale agisce come fattore di promozione della salute.

Occorre valutare il contributo e la collaborazione dei familiari nella fase di progettazione e di valutazione dell’intervento. I familiari intergiscono continuamente con gli operatori Vi sono molti pregiudizi sui familiari. La cura familiare è un valore culturale che unisce il diritto alla cura e il dovere di curare, costruendo un incrocio, un intreccio tra i diritti del curato e i diritti del curante. Gli operatori devono farsi promotori di questa cultura. Le domande più urgenti sono: - quali sono i disagi ed i bisogni delle persone che curano, come si affrontano, chi se ne fa

carico? - Come contribuire a far uscire dall’ombra e a rendere più visibile il lavoro informale di cura

svolto da familiari, vicini e volontari, ovvero come favorire la nascita sul territorio di situazioni concrete che inneschino processi di riconoscimento sociale

- Come dare valore e spessore al gesto di cura ? Una proposta è la carta dei diritti delle persone curanti89. Ovvero

89

Colombo G., Dai bisogni ai diritti delle persone che curano, Animazione Sociale, 2002

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- riconoscimento del lavoro svolto - sicurezza (come sostegno emotivo e nelle decisioni) - garanzia di poter contare su adeguati servizi - accessibilità a interventi di sollievo

- partecipazione (essere parte integrante di un progetto assistenziale) - informazione (sulle condizioni della persona, sulla mappa dei servizi, sugli iter burocratici) - formazione e aggiornamento - opportunità di mantenere il lavoro

La cura di persone disabili e non autosufficienti riguarda per la maggioranza donne. Non vi è equilibrio fra i sessi nelle attività di cura. Oggi (ISTAT 01) le persone con più di 65 anni sono circa 10,2 milioni, pari al 17,7% della popolazione residente nel nostro paese; si può stimare che almeno una famiglia su dieci abbia al proprio interno un componente anziano disabile. Solo il 2% degli anziani è residente in strutture di ricovero. Nel 1997 lo studio INRCA ha effettuato una ricerca su 424 diadi – anziano e familiare maggiormente impegnato nella cura nel territorio delle ASL di Ancona, Senigallia, Fabriano, Camerino, Bologna Sud e Ferrara. La media dell’età degli anziani è 85 anni, di cui il 71% è di sesso femminile. Il 57% ha una disabilità molto grave, il 12% grave, il 31 % moderato. Il deterioramento mentale è presente nel 51% dei casi in modo completo, grave nel 12%, moderato nel 20%. Dalla ricerca emerge che l’assistenza familiare all’anziano non autosufficiente impegna nell’ordine le figlie (40 % dei casi), le nuore (18%), le mogli (15 %), i figli maschi (14 %), i mariti (6 %), e altre categorie di parenti (8 %). I care giver sono stati intervistati sul loro benessere e il loro disagio: - il 29% lamenta un peggioramento del carico oggettivo (riduzione delle risorse finanziarie,

perdita di libertà personale, tempo libero e modifiche nello stato di salute) - il 30% è colpito da grave stress - il 19,3% è fortemente insoddisfatto della propria vita - l’1,3 % prova con continuità sentimenti negativi verso l’assistito, mentre il 48% lo prova

qualche volta. Si è ulteriormente analizzato il campione, sulla base di alcune variabili (i livelli di carico oggettivo e soggettivo, stress, ansia, insoddisfazione della propria vita) per poter ipotizzare le forme di sostegno più idonee per i caregiver che sopportano il disagio più elevato. Si sono individuati tre gruppi di carer: - quelli con disagio elevato, 25% del campione - quelli senza disagio, 39,5% - quelli in condizione di benessere, 34,5%. Si è quindi preso in considerazione il gruppo con disagio elevato (un caregiver su quattro). Questo gruppo ha due caratteristiche principali: - caratteristiche dell’anziano: stato di salute, esigenze assistenziali, uso di servizi - caratteristiche del caregiver: età, professione, servizi socio-sanitari richiesti, stato di salute

(numero di patologie), tipo e intensità dell’assistenza prestata, attitudini verso l’attività assistenziale. Sono le donne di più di 60 anni ad essere in una condizione di malessere maggiore; a ciò contribuisce la convivenza con l’anziano e un basso grado di istruzione del carer. Il carer è maggiormente disagiato quando non è occupato (disoccupato o pensionato).

I diretti interessati chiedono: - sostegni economici per organizzare meglio l’assistenza - usufruire di centri sociali/ricreativi (centri di assistenza diurna) - partecipare a corsi di formazione sull’assistenza. Accettano l’opportunità di un ricovero temporaneo.

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Questi dati possono considerati indicatori generali, che evidenziano delle situazioni tipo: da una parte, figli e figlie che lavorano e che hanno un loro carico familiare, dall’altra anziani con una speranza di vita di più di ottant’anni, rimasti soli nella loro casa, che non riescono più a badare a loro stessi. Le figlie sono prevalentemente donne di mezz’età, che hanno costruito la loro vita su una doppia presenza, lavoro familiare e lavoro per il mercato, che hanno bisogno di costruirsi una vita non più scandita dalle esigenze degli altri, che si trovano a dover iniziare di nuovo dei percorsi di cura e sostegno e che alla fatica del lavoro di cura devo aggiungere il peso della delusione per aver immaginato un altro futuro e non poterlo realizzare. Possiamo definire questa generazione come “generazione di mezzo”: due generazioni chiedono le sue cure, le sue attenzione, le sue risorse, morali, cognitive, affettive. Questo ci dà un dato importante: le persone che curano – sia nell’ambito familiare che in quello di buon vicinato – hanno a loro volta bisogno di aiuto. A ciò aggiungiamo che: il bisogno di essere curati aumenterà in futuro. Con un ulteriore elemento di complessità: noi siamo immersi in una cultura che nega, paradossalmente, questo bisogno questo bisogno (siamo immortali e inattaccabili). Questa negazione alimenta la cultura dell’indifferenza, dell’esclusione nei confronti di chi è debole e malato, perché testimonia, fisicamente, concretamente, il limite della condizione umana (la malattia, la vecchiaia e la morte). Come si affronterà questo bisogno di cura nei prossimi anni? Chi si prenderà cura di coloro che ne hanno bisogno? Ciò significa che le politiche di sostegno rivolte ad anziani e disabili non possono non prendere in considerazione il lavoro di cura svolto dai familiari. Questo apre uno scenario nuovo. Innanzitutto, creare una cultura in cui il curare sia sentito come positivo ed arricchente, e non solo fatica, anche attraverso la sua visibilità e il suo riconoscimento sociale; e valutare il contributo e la collaborazione dei familiari nella fase di progettazione e di valutazione dell’intervento. I familiari interagiscono continuamente con gli operatori L’intervento centrato sulla famiglia considera l’anziano inserito in un sistema ecologico che, oltre a lui, include il gruppo familiare, l’ambiente fisico, l’ambiente sociale. L’operatore, in questa logica, deve considerarsi un erogatore di prestazioni tecniche e un coordinatore e integratore di risorse. Egli deve possedere le risorse relazionali adatte a far sì che l’anziano mantenga i suoi legami sociali e favorire i contatti e i collegamenti fra l’anziano, la sua famiglia, le figure professionali. Per coinvolgere i familiari occorre tenere conto della realtà emotiva in cui sono calati, l’avvicinarsi della morte dei genitori mette ciascuno di fronte alla scoperta dell’inevitabilità della propria morte. La criticità maggiore si ha quando al bisogno di domiciliarità (di restare nel suo ambiente) della persona anziana non autosufficiente si accompagna il bisogno del familiare curante di respiro, di interruzione nella continuità della cura, di poter affidare il proprio parente in buone mani, di spartire l’onere con altri. Occorrono competenze di mediazione per trovare una soluzione che sia accettabile per tutti. Il progetto deve dunque tenere conto dei bisogni e dei desideri di tutti, e dei giochi relazionali in atto (le domande di chi è il problema, perché proprio adesso, perché il problema è diventato un’emergenza, sono utili per capire la trama delle relazioni). Il progetto deve coinvolgere tutti, si deve creare una partnership tra operatori e familiari. Occorre riflettere sulle scelte etiche di chi si prende cura, capirle, ascoltarle, valorizzarle. Svalorizzarle significa non dare credito a queste persone come soggetti competenti. Occorre sviluppare strategie operative che sappiano sostenere i valori etici che si sono sviluppati in un contesto familiare, senza scaricare sulla famiglia delle responsabilità che sono responsabilità assunte dallo Stato nei confronti dei cittadini. In un testo del 1988, Il lavoro sociale con l’anziano, M. Marshall90 fa riferimento a particolari abilità dell’assistente sociale:

90

M. Marshall, Il lavoro sociale con l’anziano, 1988, Erikson, Trento, ed. or. 1983

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- abilità di comunicazione: • Ascoltare e capire l’anziano • Spiegare e rassicurare • Aggancio al mondo esterno • La comunicazione non verbale • Il significato dei ricordi • Non avere fretta

- abilità di valutazione: • Guardarsi attorno • Aspetti sanitari • Le attività quotidiane • I contatti sociali • Le forme di aiuto • Le preoccupazioni dell’anziano.

Tipologia degli interventi di rete con l’anziano91 - stimolare le potenzialità degli anziani e l’attività delle risorse (gruppi di auto/mutuo aiuto,

gruppi di incontro fra anziani, programmi di mutua assistenza, reti di volontari) - supporto per l’assistenza continuativa dei familiari (formazione, servizi di tregua, orientamento

e supporto emozionale, gruppi di auto aiuto per familiari, assistenza domiciliare, assistenza economica)

- coordinamento delle reti informali - attivare reti attorno a problemi comuni degli anziani.

91

Folgheraiter F., Operatori sociali e lavoro di rete, Trento, Erickson, 1990

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INTERVENTI DEL SERVIZIO SOCIALE RIVOLTI A FAMIGLIE E MINORI

«Sostenere una famiglia in crisi significa porre in atto una serie di operazioni volte ad appoggiare, fortificare, rendere più stabili le condizioni di vita del nucleo, facendo sì che i genitori possano sperimentare nuovi comportamenti e nuovi modelli relazionali più adeguati alle esigenze di crescita dei minori. Significa altresì promuovere lo sviluppo di ambienti sensibili e solidali che favoriscano occasioni di scambio, confronto, supporto sociale, mutuo aiuto fra le famiglie ed offrano ai bambini opportunità di socializzazione, attenzione diffusa, ascolto: in una parola, si tratta di evitare o favorire l’uscita da condizioni di isolamento sociale, fattore considerato altamente incidente rispetto al maltrattamento infantile»92. Un esempio di cooperazione tra famiglie e servizi, il progetto Famiglierisorse della provincia di Reggio Emilia, realizzato nel periodo luglio 1996-1998. Questo progetto è nato dalla considerazione che le famiglie, nella situazione attuale, devono fronteggiare difficoltà nuove e di difficile decifrazione (problemi educativi, problemi economici, occupazionali). Mentre i servizi per le famiglie e l’infanzia, in particolare il servizio sociale, tendono a leggere il nuovo disagio delle famiglie con le ottiche consuete (di routine). «Così, di fronte ai problemi quotidiani, le famiglie trovano intorno a loro supporti non sempre adeguatamente attrezzati: da un lato associazioni di familiari che tendono ad assumere una carica corporativa e ideologica, dall’altro operatori sociali da cui spesso si sentono colpevolizzate e che tendono ad affrontare i loro problemi secondo ottiche settoriali, inadeguate ad assumersi il sostegno dei problemi che il nucleo familiare genera. Questa situazione si inserisce nel più ampio scenario della ridefinizione del welfare, in cui l’aumento esponenziale del numero e della complessità dei bisogni sembra rendere insufficiente la pur imprescindibile politica delle buone collaborazioni tra pubblico e privato sociale e richiede che la comunità locale nel suo insieme (società civile e istituzioni) si riappropri del disagio che la attraversa. […] le forme stesse del disagio si sono fatte sempre meno definibili secondo le categorie tradizionali: la devianza conclamata ha abbandonato la massiccia visibilità in piazze e strade e si è insinuata nella vita quotidiana di un numero crescente di famiglie normali: si è passati dal tossicodipendente in piazza allo sballo circoscritto al fine settimana, dal minore deviante in riformatorio a molti ragazzi problematici a scuola. Diminuiscono simultaneamente le aree della devianza conclamata e della “normalità” mentre aumenta la zona del disagio invisibile che riguarda in particolare bambini e ragazzi normali, provenienti da famiglie normali, che viene intravisto alle elementari, si manifesta ed esplode alle medie e successivamente diventa ingestibile93. È un fenomeno che comprende non solo gli esiti più estremi (abbandoni scolastici, comportamenti deviante) ma anche quelli più silenti (demotivazione, disaffezione, smarrimento, passività, scarsa autonomia di giudizio e di condotta, ricerca di sicurezza tramite sottomissione a modelli che si presentano forti) […] Si potrebbe dire che i problemi sociali sono problemi di tutti. Non solo perché è giusto eticamente che tutti se ne facciano carico o perché in qualche modo arrivano a toccare tutti, ma anche perché occorre l’apporto di tutti per riconoscerli, nominarli e gestirli»94. Questo progetto ha degli obiettivi che sono - aiutare i servizi a considerare le famiglie non solo come portatrici di problemi ma anche di

risorse «in grado di cooperare nella definizione dei bisogni e nella costruzione delle risposte» - aiutare le famiglie ad abbandonare delle prospettive di soluzione problema autoreferenziali,

passando dalla rivendicazione di un diritto all’assunzione di una responsabilità comune.

92

Dellavalle M., Forme di aiuto a sostegno o in sostituzione della famiglia biologica, in Lenti L. (a cura di), Tutela civile del

minore e diritto sociale della famiglia, Volume sesto, 2002, Giuffrè,p. 114 93

I media sottolineano, di fronte a particolari dati di cronaca che riguardano adolescenti e giovani, il dato della normalità – è

una tragedia non attesa, quella che si genera in un contesto “normale”. Mentre nel mondo della devianza può accadere di

tutto. Erika e Omar sono esempi di questa enfasi legata alla logica dell’impossibilità della devianza nella normalità. Se il

delitto fosse avvenuto in una periferia popolare, si sarebbe potuto classificare come l’esito di un percorso di degrado che

conteneva già gli elementi per finire in tragedia. 94

Mazzoli G., Se la famiglia diventa risorsa, in Animazione Sociale, n. 2/2000, p.68

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Dal punto di vista pratico non si è immaginato un servizio con una sede, ma una serie di opportunità, formative, informative e consulenziali in varie sedi di servizi della Provincia di Reggio Emilia. Perché occorre aiutare i servizi a considerare le famiglie non solo come problema ma anche come risorse? Perché la prospettiva del problema – guardare il problema, scomporlo, risolverlo – sta sia nelle competenze tecniche che nel mandato istituzionale dei servizi. Dice ancora Mazzoli «la difficoltà a modificare l’atteggiamento dei servizi sembra derivare prevalentemente dalla problematicità della reinterpretazione del mandato istituzionale che considera esclusivamente le famiglie come bisognose di cure (in caso contrario non le vede) e al contempo impone ai servizi un’unica modalità di erogazione: dare. Si tratta di una situazione simile a quella della scuola dove il mandato istituzionale legge lo studente solo come scatola vuota da riempire di saperi (e non come portatore di esperienze, di risorse e di difficoltà specifiche), mentre all’insegnante è chiesto esclusivamente di essere un trasmettitore di sapere e non un ascoltatore o un attivatore di risorse»95. Dellavalle (2002) distingue gli aiuti alla famiglia biologica in due livelli. Nel primo colloca - il segretariato sociale: offerta di informazioni, orientamento e facilitazione nell’uso corretto dei

servizi; - la presa in carico dei casi si pone come obiettivo quello di aiutare la famiglia a ritrovare o

acquisire la capacità di svolgere i compiti esistenziali. All’interno della presa in carico si può collocare la consulenza psicosociale;

- il sostegno educativo, che si caratterizza per l’accompagnamento dei soggetti nella quotidianità, laddove è fondamentale per genitori, bambini e ragazzi poter osservare, apprendere e sperimentare modalità costruttive di vivere le relazioni educative. Campanini (2000) definisce questo intervento come “appoggio domiciliare con finalità educative”, finalizzato alla responsabilizzazione genitoriale delle figure genitoriali. È un intervento che l’assistente sociale attiva a favore dei minori in difficoltà, ma che non gestisce direttamente se non in alcune parti (valutazione preliminare dell’intervento, definizione del progetto d’intervento al cui interno si colloca il sostegno educativo, formulazione di un contratto con la famiglia e il minore, in cui siano esplicitati i compiti della famiglia e i compiti del servizio sociale (assistente sociale ed educatore) monitoraggio dell’intervento e sua ridefinizione, se necessario, confronto con l’educatore).

Nel secondo livello, che Dellavalle definisce “concreto-strumentale”, si tratta di ridurre le pressioni dovute a difficoltà concrete, materiali (problemi finanziari, abitativi, assenza di un genitore, ecc). Si parla quindi di - assistenza economica - assistenza domiciliare - centri diurni - affidamento diurno - borse di formazione lavoro - accesso agevolato a soluzioni abitative, nell’ambito dell’edilizia popolare - accesso agevolato ai servizi educativi e scolastici per la prima infanzia. Questo secondo livello è quello che alcuni autori chiamano “intervento socioassistenziale” (Dal Pra Ponticelli), “contesto assistenziale” (Campanini): è il livello in cui si collocano le risorse materiali che l’assistente sociale utilizza nel trattamento di un caso. La consulenza psicosociale «L’intervento più complesso nell’ambito del processo di aiuto del servizio sociale […] è la consulenza psicosociale (nel passato indicata come casework) che tende ad aiutare la persona a cambiare atteggiamento nei confronti dei propri problemi attraverso una serie di colloqui volti alla chiarificazione, al sostegno, alla migliore comprensione della situazione e alla progettazione di possibili soluzioni per uscirne. Una volta intravisto, insieme all’utente, quale potrebbe essere il cammino da fare (piano di intervento) per risolvere la situazione, sia l’utente che l’assistente

95

Mazzoli G., cit., p. 71

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sociale si impegnano nell’attuazione di una serie di compiti che servono a risolvere la situazione. Qui si colloca l’utilizzazione delle risorse dell’ente […e] si collocano anche una serie di impegni (contratto) che si assume l’utente […] L’aiuto all’utente attraverso la consulenza psicosociale è […] un processo consapevole e razionale da parte dell’assistente sociale che segue un preciso procedimento metodologico, è basato su principi e teorie esplicitabili e utilizzabili. Questo è il livello massimo di capacità professionale dell’assistente sociale […] La consulenza psicosociale viene utilizzata dal servizio sociale per affrontare problemi inerenti alle difficoltà da parte dell’utente o della intera famiglia di far fronte a situazioni legate all’assunzione di nuovi e improvvisi ruoli sociali o compiti esistenziali (pensionamento, adolescenza, gravidanza, emigrazione, perdita del lavoro, scarcerazione, malattia) oppure nelle situazioni in cui un individuo deve cambiare atteggiamento nei confronti della società e delle sue norme (affidamento in prova al servizio sociale) oppure in situazioni in cui vi siano difficoltà a livello delle relazioni interpersonali in famiglia o nei confronti di istituzioni sociali (rapporto difficile giovani-anziani, disadattamento scolastico, ecc.) oppure in situazioni croniche che possono portare a un logoramento o a un peggioramento delle capacità individuali di affrontare i problemi o nelle relazioni interpersonali (famiglie con anziani cronici, famiglie di handicappati, ecc.»96. Campanini (2000) distingue tra le richieste consulenziali e le richieste di tipo assistenziale. Le richieste consulenziali sono richieste prevalentemente collegate alla richiesta di un aiuto professionale come “sostegno alla normalità” (il che non impedisce che, anche in un contesto assistenziale, maturino richieste di consulenza). In questo ambito Campanini colloca la richiesta consulenziale alla fase di disorganizzazione che la famiglia attraversa di fronte ad un evento stressante (interno o esterno) del proprio ciclo di vita. La consulenza psicosociale è un intervento immateriale, che si sviluppa attraverso una serie di colloqui – luoghi di costruzione e strutturazione di una relazione di aiuto - in cui l’assistente sociale ha dei compiti: - dirimere e chiarificare i nodi problematici presenti nella situazione - supportare il soggetto e/o la famiglia nel percorso di ridefinizione delle regole e delle distanze

tra i vari sosttosistemi - favorire l’adempimento di compiti esistenziali da parte del soggetto e dei componenti della sua

famiglia. La consulenza psicosociale si connette direttamente alla funzione educativo promozionale del servizio sociale, che sottolinea «il valore di apprendimento del processo di aiuto come esperienza significativa [e rappresenta] la centralità del lavoro con e per le risorse personali-ambientali […] All’interno di questa funzione educativa si articolano molteplici attività proprie del servizio sociale; […] attività di consulenza, di interlocuzione dialogica atta a sviluppare confronti, riflessioni, valutazioni, autoanalisi, ecc.; ma soprattutto preoccupazione dell’assistente sociale è di far fare esperienza alle persone (di vario tipo, come ad esempio di utilizzo di risorse, di piccoli progetti di cambiamento nei comportamenti, nel modo di guardare la realtà, nel modo di pensare), accompagnando tali esperienze con appropriate riflessioni, feed back, verifiche, così da massimizzare apprendimenti che sviluppino capacità e autonomia»97 La consulenza psicosociale ha come fine il supporto, nell’analisi e nell’azione, rispetto a compiti esistenziali che in un dato momento possono risultare critici e quindi è un mezzo per riorganizzare le risorse di un sistema familiare in crisi; si distingue dall’intervento psicoterapeutico, volto a superare dei blocchi evolutivi e a superare dei modelli d’interazione rigidi che possono essere origine di gravi patologie. La segnalazione all’autorità giudiziaria minorile In un recente testo dal titolo “La tutela giudiziaria dei minori in Piemonte” (2005), edito dalla Regione e scritto dai Presidenti della Sezione Famiglia e Minori della Corte d’Appello, del Tribunale per i Minorenni e dal Procuratore della Repubblica per i Minorenni, a pag. 15, viene specificato quando segnalare

96

Dal Pra Ponticelli, Lineamnenti di servizio sociale, cit., pp. 56-57 97

Neve E., Il servizio sociale, 2000, Carocci, Roma, pp. 194-195

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a. i servizi hanno l’obbligo di procedere alla segnalazione quando - vengono a conoscenza che un minorenne si trova in situazione di abbandono - hanno collocato in luogo sicuro un minore moralmente o materialmente abbandonato o allevato

in locali insalubri o pericolosi oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o altri motivi incapaci di provvedere alla sua educazione (art. 403 C.C.).

- hanno notizia di un minore che esercita la prostituzione - hanno notizia di un minore, straniero, privi di assistenza, vittima dei reati di prostituzione e

pornografia minorile o di tratta e commercio b. in generale i servizi sociali e sanitari devono procedere ad una segnalazione quando vengono a

conoscenza di un pregiudizio grave o di un pericolo serio di pregiudizio relativi ad un minorenne, per rimuovere i quali non bastano gli interventi sociali e sanitari e occorre un provvedimento che incida sulla potestà dei genitori. Il provv. può disporre

- l’allontanamento del figlio [o dei genitori o dei conviventi dalla residenza familiare] - la decadenza dei genitori dalla potestà sul figlio - la dichiarazione dello stato di adottabilità del figlio - la regolamentazione della potestà divisa dei genitori - l’imposizione di prescrizioni affinché i genitori tengano una condotta positiva o si astengano da

una condotta pregiudizievole. Le forme di aiuto, per il minore, in sostituzione della famiglia biologica98: - affidamento residenziale - casa famiglia - comunità educativa - inserimento in famiglia adottiva – interrompe i rapporti con la famiglia di origine, ed è

irreversibile, terminati i vari gradi di giudizio (Tribunale per i Minorenni, Corte d’Appello sezione Minorenni, Corte di Cassazione).

98

Dellavalle M., cit., p. 117

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