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http:lanostramatematica.splinder.com Pagina 1 Un bravo docente di Matematica riconosce facilmente i sintomi di una malattia, molto diffusa, purtroppo, nelle aule scolastiche e non solo, la matofobia, ovvero una irrefrenabile paura della Matematica, che, inesorabile, continua a mietere vittime tra gli studenti e non solo quelli italiani. Spesso basta osservare anche per pochi attimi un alunno, per capire se è affetto da questa malattia e per leggere nel suo sguardo una mal celata paura, un’ansia che gli viene dal di dentro e che egli cerca in tutti i modi di nascondere e reprimere. Abbassa gli occhi se lo guardi, durante la dimostrazione di un teorema o la risoluzione di un problema, mentre poni degli interrogativi per stimolare la partecipazione della classe. Teme di essere interpellato, di dovere dare delle risposte, di eseguire calcoli e procedimenti, di interagire con un mondo, che vede precluso dallo stesso terrore che egli prova ad entrarvi, cercando perciò di tenersene lontano. Quando frequentavo i primi anni del Liceo avevo una docente di Educazione Fisica, abbastanza anziana per il tipo di insegnamento che impartiva, ma molto rigida, fanatica dei saggi ginnici con cerchi e clave, velatamente nostalgici del “regime dei di Maria Intagliata Matematica… Tanguera

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esperienza didattica anti matofobia

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Un bravo docente di Matematica riconosce facilmente i sintomi di una malattia,

molto diffusa, purtroppo, nelle aule scolastiche e non solo, la matofobia, ovvero una

irrefrenabile paura della Matematica, che, inesorabile, continua a mietere vittime tra

gli studenti e non solo quelli italiani.

Spesso basta osservare anche per pochi attimi un alunno, per capire se è affetto da

questa malattia e per leggere nel suo sguardo una mal celata paura, un’ansia che gli

viene dal di dentro e che egli cerca in tutti i modi di nascondere e reprimere. Abbassa

gli occhi se lo guardi, durante la dimostrazione di un teorema o la risoluzione di un

problema, mentre poni degli interrogativi per stimolare la partecipazione della classe.

Teme di essere interpellato, di dovere dare delle risposte, di eseguire calcoli e

procedimenti, di interagire con un mondo, che vede precluso dallo stesso terrore che

egli prova ad entrarvi, cercando perciò di tenersene lontano.

Quando frequentavo i primi anni del Liceo avevo una docente di Educazione Fisica,

abbastanza anziana per il tipo di insegnamento che impartiva, ma molto rigida,

fanatica dei saggi ginnici con cerchi e clave, velatamente nostalgici del “regime dei

di Maria Intagliata

Matematica…

Tanguera

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manganelli”. Avevo sempre avuto, fin da bambina, uno spiccato senso del pericolo e

l’esecuzione del salto della cavallina, al centro dell’immensa palestra della mia

scuola, di epoca fascista, mi incuteva un po’ di timore, come quello di poter

improvvisamente cadere durante il salto e farmi molto male. Nonostante siano passati

tanti anni, ricordo lapidarie, incise nella mente oltre che nell’anima, le testuali parole

della mia docente, al mio primo fallimento in quello che da quel momento in poi si

sarebbe rivelato per me solo un impossibile salto: “Anche se hai tutti dieci in tutte le

materie, se non riesci a saltare, io ti boccio!”. Sorrido, al pensiero di cosa avrebbe

potuto rispondere un’alunna spregiudicata dei nostri giorni, ma allora erano altri

tempi e da quel momento in poi l’esecuzione di quell’esercizio ginnico, banalissimo

per la maggior parte dei miei compagni, divenne un incubo per me.

Non mi piaceva saltare gli ostacoli, preferivo la corsa, che mi dava un grande senso di

libertà e l’impressione di volare, come il giovane Mercurio dai calzari alati.

L’ora di educazione fisica da allora diventò un vero e proprio supplizio, che mi

provocava perfino malessere fisico e un’ ansia insopportabile. Questa aumentava

ancora di più, quando mi sentivo ripetere: “Ma come, tanta preoccupazione per un

salto della cavallina?!”

Tale giustissima constatazione da parte della “normalità” mi faceva sentire ancora più

stupida, incapace ed inadeguata.

Non ho mai provato la paura della Matematica, ma quella del salto della cavallina sì,

e credo, tuttavia, che non debba esserci molta differenza!

La matematica, insieme ad altre discipline scientifiche, è vista da molti studenti, ma

anche da tanti adulti, con un certo timore, che spesso, anche armati di buona volontà,

non si riesce a fugare, allo stesso modo in cui io, pur prendendo correttamente la

dovuta rincorsa, non riuscivo a vincere il terrore a pochi passi dal terribile attrezzo.

Molti, bambini ed adulti, ostentano il rifiuto della Matematica, accompagnato quasi

sempre da ansia e paura, che difficilmente riesce a spiegarsi e ad accettare chi ama

questa meravigliosa disciplina.

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Esiste tanta letteratura in proposito e sono stati allestiti in alcune Università

statunitensi, come quella dello Utah, ad esempio, negli anni 80, corsi contro la paura

della Matematica e per il recupero degli adulti che ne soffrono.

Da cosa può nascere la matofobia, chi ne ha la responsabilità? Le cause possono

essere molteplici: paura dell’insuccesso, mancanza di motivazione e disistima

generalizzata nei confronti della disciplina, spesso associata ad una cultura, radicata

in certi ambienti, della scarsa utilità del sapere scientifico rispetto a quello

umanistico: discriminazione errata, data l’ormai da tempo acclarata unitarietà dei

saperi.

Si può avere paura della Matematica perché spesso genitori ed insegnanti te la

presentano come un orco pauroso, pronto a divorarti se non sei a lui riverente e

sottomesso. Quante maestre hanno bacchettato poveri piccoli innocenti, solo perché

incapaci di mandare a memoria quell’odiosa tavola pitagorica, imprigionata in quella

griglia, da cui si sentivano oppressi come dietro le sbarre di un’oscura prigione. E le

punizioni dei genitori solo per aver sbagliato qualche semplice operazione, invece

dell’incoraggiamento e dell’offerta di una ulteriore possibilità?

Anche la mancanza di abitudine alla riflessione, il considerare la Matematica ostica,

arida, fredda ed astratta possono ingenerare la paura di questa disciplina. Ed è questa

paura che crea ostacoli all’apprendimento, non la mancanza di capacità o delle

cosiddette attitudini, da parte dei discenti che non sono portati per la Matematica!

Evidentemente alla base della matofobia, per chi ne è affetto, esistono esperienze

negative, di cui la paura della Matematica è l’effetto piuttosto che la causa.

Ad ogni insegnante di Matematica sarà capitato di imbattersi in studenti con sintomi

da ansia da Matematica, che nasce spesso anche da un fallimento devastante, un

senso di frustrazione profondo, davanti ad un foglio bianco su cui dover scrivere la

risoluzione di un problema a dir poco “impossibile”.

L’abbiamo letto, e continuiamo a farlo, quello sguardo di chi vede alzarsi un muro

invalicabile tra sé e la matematica, che non consente di comunicare ed interagire.

Dall’ansia, da veri e propri attacchi di panico, all’ossessione, il passo è breve.

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Il matofobo si convince sempre più di essere un deficiente e di essere considerato tale

da compagni e docenti. La sua autostima, scesa sotto zero, ingenera in lui un senso di

colpa e di vergogna, che lo frustrano e lo deprimono.

A tal proposito lo studioso Mitchell Lazarus, analizzando la matofobia, sostiene che il

fallimento in Matematica attraversa una “fase di latenza” prima di manifestarsi

chiaramente, come ad esempio nel caso dello studente di scuola superiore, abituato ad

uno studio mnemonico. Quando lo studente vedrà i suoi voti abbassarsi

precipitosamente e gli verrà chiesto di usare le conoscenze matematiche in un modo

nuovo, logico e ragionato, si sentirà mancare il terreno sotto i piedi. Allora si riterrà

incapace, insicuro ed avrà una terribile paura di sbagliare, specialmente se

l’insegnante ed i compagni demonizzano gli errori, ritenendoli un motivo di vergogna

per l’alunno.

Ma anche gli errori sono utili, fanno riflettere e sviluppano le capacità critiche.

Naturalmente l’insegnamento della Matematica ha una grande responsabilità in tutto

questo. Spesso non solo nell’immaginazione, ma anche nella realtà, purtroppo, la

Matematica viene trattata come una disciplina poco flessibile, nei cui problemi la

soluzione viaggia in un binario unico, ed è affidata a formule mandate a memoria,

che non si sa da dove nascono né a chi sono da attribuire. Molti docenti, ancora oggi,

si ostinano a presentare gli aspetti puramente formali della Matematica, usando

metodologie didattiche ormai fuori moda ed oserei dire “fuori luogo”, contribuendo

notevolmente alla matofobia. Un formalismo esasperato, soprattutto nella prima età

scolare, annulla l’interesse degli allievi, non motivati a cogliere gli aspetti più

interessanti, utili e ludici della disciplina. Non dobbiamo poi meravigliarci del rifiuto

e della fobia dell’alunno, spesso anche molto intelligente, nei confronti di un simile

insegnamento.

Occorre dunque che ogni bravo docente riveda il proprio metodo didattico, cercando

di renderlo al passo coi tempi, tenendo conto del mondo in cui vive lo studente,

bombardato da mille stimoli e attratto da “gioielli”, sempre più nuovi ed appetibili,

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frutto delle moderne tecnologie, e dal fascino irresistibile di certi social network e

programmi televisivi, molto spesso demenziali e diseducativi.

Come possiamo pensare che uno studente, immerso in un tale mondo, se ne possa

stare seduto tranquillo, per ore, a risolvere lunghissime e complicate espressioni

algebriche, operazioni con i radicali doppi, equazioni trigonometriche e logaritmiche,

senza alcun disagio e senza protestare, ripetendosi continuamente fino allo

sfinimento: “Accidenti, ma a che servono queste cose?!”

Il docente, inoltre, dovrà cercare di convincere gli alunni che la loro ansia da

Matematica, se controllata, può anche essere costruttiva. In fondo anche i matematici,

perfino quelli grandi, certamente, hanno provato e provano ansia quando si

propongono di risolvere un problema complesso o di dimostrare un nuovo teorema e

la storia della matematica è ricca di esempi. Eppure la loro reazione non è quella del

matofobo, ovvero di negare l’ansia, bensì quella del suo controllo, cioè di provarla,

ma nello stesso tempo di vincerla.

In questo può aiutarlo il ribadire la considerazione che fare Matematica non

presuppone necessariamente particolari abilità e talento innati, ma autostima, molta

pazienza e la consapevolezza che ciascuna persona di normale intelligenza ha la

capacità di pensare matematicamente e che in realtà lo fa continuamente ed

inconsapevolmente nella propria vita quotidiana e in ogni ambito della conoscenza,

perché la “prezzemolina” sta dappertutto.

Tutto questo dovevo far capire anch’io, soprattutto a due miei alunni di una terza

classe delle superiori, un paio d’anni fa.

Diego e Sonia, due sedicenni, compagni di banco, graziosi fidanzatini, dal fisico

asciutto ed armonioso, erano anche una coppia di provetti ballerini di Tango e

campioni regionali.

Li avevo visti ballare durante uno spettacolo di fine anno scolastico, rimanendo

letteralmente folgorata dalla loro bravura, resa ancora più evidente dalla loro intesa

sentimentale. I loro giovani corpi danzavano dolcemente ed armoniosamente

avvinghiati, mentre eseguivano una sensuale “lustrada”, un passo in cui il piede di

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Sonia si fermava per un istante sulla caviglia di Diego e poi, molto lentamente,

scivolava lungo la gamba, in atto di sedurre in modo elegante e sensuale il proprio

compagno di danza. Dalle casse poggiate sul palco del bellissimo Auditorium della

scuola, in sottofondo, le melodiose e struggenti note di Libertango di Astor Piazzolla,

cadenzavano i passi di danza della giovanissima coppia.

“Come mai, mi chiedevo, il fascino della bellissima Matematica non riusciva, come

quello del Tango, ad affascinare quei giovani, che invece mostravano entrambi, in

sintonia anche in questo, una fobia chiaramente dichiarata ed una reale incapacità di

approcciare in modo naturale e proficuo l’odiosa disciplina?”

Era il primo anno che li avevo come alunni e per loro era il primo approccio

matematico con le coniche. Mi ero resa subito conto delle loro difficoltà, evidenti,

nonostante la loro frequenza pressoché costante, considerate le prove massacranti del

ballo e qualche assenza per la partecipazione a concorsi e campionati.

Mi parve strano che se la cavassero abbastanza bene in tutte le materie, tranne in

Matematica. Mi misi subito in discussione, cercando di capire se fosse mia la

responsabilità del disagio di quei ragazzi dinanzi alla importantissima materia di

studio. Consegnavano i compiti in classe quasi in bianco e facevano di tutto per

evitare le interrogazioni, mortificati dalla sola idea di dover fare la famigerata, penosa

scena muta o di commettere errori grossolani che avrebbero suscitato l’ilarità e la

suscettibilità dell’ insegnante, la quale avrebbe reagito, secondo loro, con severi

rimbrotti.

Gli argomenti matematici venivano da loro ritenuti di elevata entità intellettuale e per

pochi eletti, senza sapere che tutti gli individui fanno Matematica in modo spontaneo,

automaticamente ed inconsapevolmente.

Sembravano, in apparenza, attenti durante le lezioni, come spesso succede a chi non

ha interesse per la Matematica e si limita ad ascoltarne con timore reverenziale una

lezione, senza osare effettuare alcun genere di intervento. In realtà erano distanti e

nascosti dietro il muro spesso ed impenetrabile, che li riparava dalla “bestia nera”,

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così ostile e diversa dalle altre discipline e soprattutto dal Tango, che tanto, invece, li

attraeva e li appagava.

Come avrei potuto recuperare quei due ragazzi? Avevo bisogno di tentare strategie,

alternative nella mia metodologia, che mirassero al coinvolgimento di quei due

giovani e permettessero loro di acquisire, a poco a poco, in modo consapevole, le

conoscenze e competenze matematiche, di cui mancavano.

Occorreva sperimentare un’ occasione di apprendimento, creata apposta per Sonia e

Diego, capace di vincere quella sorta di incantesimo che li obnubilava, isolandoli dal

mondo del pensiero matematico. Mi proposi di affrontare l’impresa, oltre che per il

bene dei due ragazzi, anche come sfida alle mie abilità professionali.

Mi chiesi allora: “Quali sono gli interessi di questi alunni, cosa piace loro?”

“Danzare il tango” mi risposi. Ma cosa c’entrava la Matematica in tutto questo?

Avevo letto qualcosa su dei libri e anche qualche documento in rete circa

l’applicazione della Matematica al Tango Argentino. Cadeva proprio a fagiuolo!

Decisi di introdurre lo studio delle coniche e di aggiungervi anche curve algebriche,

solitamente non previste dalla programmazione: la lemniscata di Bernoulli, la

cardioide, ma anche la Versiera di Agnesi. Mi prefissai l’obiettivo di incentrare il

mio intervento didattico nel ballo, in un’attività giocosa , in grado di smontare quel

sacro palco in cui la Matematica recitava la solita tragedia , causa d’ ansia e di timore

nella psiche di quei giovani.

Misi al corrente il Dirigente Scolastico e il Consiglio di Classe di questo mio

miniprogetto ed ebbi carta bianca. Non dissi però nulla ai ragazzi, né volevo far

capire a Sonia e Diego che l’esperienza che avremmo realizzato fosse destinata quasi

esclusivamente a loro.

Cercai di definire in che modo poter bypassare attraverso il Tango Argentino

l’approccio alla bestia nera, così fredda e temuta. La musica, i passi di danza, i

movimenti corporei e soprattutto le cosiddette figure del Tango e la passionalità che

sprigionavano, erano un ottimo veicolo per far passare un approccio all’insegnamento

scientifico.

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Mi proponevo di creare il giusto rapporto tra gli alunni e il sapere matematico

attraverso il Tango, di far riconoscere ai ragazzi stessi alcune curve geometriche,

tracciate dai piedi dei due tangueri, durante la danza, e di far cogliere le loro

proprietà intrinseche.

Programmai accuratamente l’esperienza, come se si trattasse di una normale attività

laboratoriale; destinai la data in cui effettuarla e la comunicai ai ragazzi solo qualche

giorno prima.

Divisi l’attività in due tempi, durante i quali sarebbero stati utilizzati i seguenti

materiali:

grandi fogli di giornale, nastro adesivo, forbici, cinepresa, un sacchetto di farina

(di circa 5 Kg), il laboratorio informatico mobile, dotato di software dinamico, di cui

la mia scuola fortunatamente è fornita, e un CD musicale di Astor Piazzolla.

Nella prima parte dell’attività i protagonisti sarebbero stati proprio Diego e Sonia,

che avrebbero tenuto un breve corso introduttivo sulle origini e sulla cultura del

Tango, di cui avrebbero illustrato i principali passi e figure.

Dopo aver ricavato un ampio spazio nell’aula, spostando opportunamente i banchi, si

sarebbero ricoperti alcuni metri quadrati di pavimento con i fogli di giornale, uniti tra

di loro con l’adesivo e cosparsi uniformemente di farina, su cui i due tangueri

avrebbero eseguito il loro appassionato tango, accompagnati dalla musica di

Piazzolla.

Uno studente, con l’hobby della fotografia, avrebbe filmato l’esibizione dei compagni

con una cinepresa e successivamente, terminato il ballo, avrebbe ripreso molto da

vicino le “tracce” lasciate dai piedi dei ballerini sullo strato di farina .

La seconda fase dell’attività sarebbe stata dedicata proprio alla osservazione di quelle

vere e proprie figure geometriche e alla loro riproduzione su carta e mediante

software dinamico, quale il Cabrì o Geogebra.

Quando comunicai ai ragazzi questo mio piccolo progetto, essi rimasero in un primo

tempo sorpresi, un po’ anche preoccupati per la mia salute mentale e incuriositi dalle

particolari finalità. I più stupiti furono proprio Diego e Sonia, che si guardarono negli

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occhi con aria interrogativa, in cui si leggeva chiaramente : “Cos’ha a che fare il

nostro Tango con la bestia nera?!” Tuttavia accettarono fiduciosi, tranquillizzati

anche dal fatto che non avrebbero dovuto né eseguire un compito in classe, né

tantomeno sostenere un’interrogazione. Già questa loro favorevole disposizione

d’animo era un buon punto di partenza.

In effetti i due ragazzi di buon grado e con competenza illustrarono, eseguendole

materialmente, le diverse figure del Tango Argentino come salida basica, paseo,

ocho, quadrato, cruzado, calesita, planeo ecc.

Mentre eseguivano i passi , sul pavimento imbiancato venivano descritte chiaramente

la cardioide, la lemniscata di Bernoulli, il cui grafico ha la forma di un otto coricato,

e tante altre curve.

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Nell’esposizione molto puntuale e coinvolgente di Sonia e Diego mi colpì molto

l’analisi di due passi particolari, la Calesita e il Planeo, in cui si poteva studiare il

movimento dei piedi di Sonia dentro lo spazio che ella condivideva col suo dolce

tanguero.

L’esperienza, in fondo, era anche per me una novità, che approcciavo con i miei

ragazzi ed insieme a loro mi incuriosivo e meravigliavo. Sulla bianca coltre del

pavimento, il loro passo aveva lasciato una bella traccia, abbastanza evidente, molto

simile al più comune tipo di conica: la circonferenza, anche se non perfettamente

sovrapponibile a questa.

Nell’esecuzione del Planeo, il piede destro di Sonia poggiava fisso sul pavimento

come la punta di un compasso, mentre il sinistro ruotava come la sua matita, ad una

distanza di 40 cm circa, descrivendo, evidentemente, la circonferenza come luogo

geometrico.

Nell’esecuzione della Calesita, invece, Sonia aveva tenuto i piedi ad una distanza

molto ravvicinata, stavolta il sinistro fisso e il destro mobile, ad una distanza pari alla

lunghezza del piede, descrivendo una circonferenza di raggio più piccolo del

precedente.

1- calesita 2- planeo

P --------------- C

CCC

C--------------- ---------------------- P

P

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2 - planeo 1- calesita

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1 - Traccia della calesita

2 – Traccia del planeo 2

P

P

O

O

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I ragazzi e io stessa rimanemmo piuttosto impressionati soprattutto dalla forma

geometrica della traccia lasciata dai piedi di Diego sul pavimento: sembrava un

quadrifoglio,

ma il mio occhio riconobbe facilmente che si trattava della ripetizione circolare ,

ottenuta con la sequenza di quattro lapis. Con questo nome si indica qualsiasi

posizione in cui uno dei partner danzatori sembra disegnare coi piedi cerchi o altre

figure sul pavimento.

Se indichiamo con O il punto di appoggio del piede di Diego e con P la posizione

dell’altro piede in ciascun lapis, unendo tutte le posizioni di P, si ottiene la seguente

famosa curva: una quartica circolare razionale.

Ognuna delle curve rilevate rappresentava un luogo, che i ragazzi avrebbero dovuto

definire per disegnare la curva. In pochi minuti su tutti i monitor dei computer

4

4 – traccia dell’esecuzione di 4 lapis consecutivi

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comparve per prima la circonferenza richiesta, realizzata con Cabrì e con il supporto

dell’insegnante tecnico pratico.

Probabilmente, se avessi introdotto l’argomento in modo tradizionale, molti alunni

avrebbero prestato poca attenzione e soprattutto i due tangueri, come di solito

accadeva. Invece tutti e venti i ragazzi seguivano l’esperienza con interesse e

partecipazione , anche Sonia e Diego, per la prima volta, e probabilmente perché si

trattava di una lezione di Matematica anomala. Approfittai subito di quel clima di

attenzione e distensione, per formalizzare alla lavagna la definizione, l’equazione

cartesiana e quella generale e le proprietà della circonferenza. Passai poi a far

determinare equazioni e grafici di circonferenze sotto particolari condizioni e fasci di

circonferenze con l’uso dello slider di Geogebra, affrancando così gli alunni

dall’eseguire calcoli lunghi e laboriosi.

Mi limitai solo ad assegnare per casa semplici esercizi applicativi, per consentire loro

l’assimilazione di quanto avevano sperimentato in classe.

Evidentemente, per tutta la durata dell’esperienza, la mia attenzione fu rivolta

soprattutto ai due fidanzatini, per scrutare, senza che loro se ne accorgessero,

eventuali reazioni e cambiamenti di atteggiamento. In verità i ragazzi mi sembrarono

molto sereni. Probabilmente, da ragazzini intelligenti quali erano, si erano resi conto

di aver fatto Matematica inconsapevolmente e che erano stati proprio i loro piedi

a disegnare quelle curve geometriche.

Al suono della campanella, aspettarono che uscissero tutti i compagni, si

avvicinarono a me , e Diego, con un leggero imbarazzo, mi chiese: “Prof, a che ora è

domani pomeriggio lo “sportello di Matematica”?”. Mi parve che i suoi occhi, di un

azzurro intenso, e quelli di Sonia brillassero di una luce nuova, e forse…anche i miei!