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L’orso e l’archeologia. Alcuni esempi dalla preistoria al medioevo

l'orso e l'archeologia. alcuni esempi dalla preistoria al medioevo

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chi ossi macellati si trovano negli abitati perché i cacciatori preferivano portarsi a casa le carni del grosso animale già disossate. E tuttavia l’orso rimane nel nostro immaginario come un animale particolare, forse perché è l’unico mam-mifero europeo che può ergersi eretto ed assomigliare un poco all’uomo, sì da farlo essere così spesso presente nel folklore del nostro continente; aggiungo che anche fisica-mente può apparire non molto diverso dall’uomo, con le zampe anteriori che possono sembrare braccia e l’assen-za di elementi troppo distanti dall’uomo (non ha corna, lunghe code, manti colorati ...) sì da renderlo l’animale più facile da imitare nei mascheramenti (Bestie, santi, di-vinità 2003; interessante per le espressioni e i modi di dire sull’orso nel dialetto di Boves, Delpiano - Giuliano 2002, pp. 190-192). Passeremo quindi qui in rassegna le testimonianze che abbiamo trovato, non molte, e che confermano quanto scritto in un recente libro da Michel Pastoureau, dedicato all’orso, definito un re decaduto perché negletto e dimen-ticato nell’arte europea (Pastoureau 2008). Pastoureau è uno storico dell’iconografia medievale: la sua disamina delle fonti storiche e letterarie è ricca di esempi che mostrano come l’orso, ancora ben presente tra le belve affrontate nelle leggende dei cavalieri e nell’a-raldica fino al XII secolo, viene quindi sostituito dal leone e relegato al ruolo di animale grossolano, pericoloso, stu-pido, perfino soggetto a scherzi fino ad essere un gioco, un pupazzo per bambini in età moderna. Il suo esame delle fonti archeologiche, nelle prime pagine, però sem-bra quasi tradire una delusione malcelata per la povertà del protagonista del suo libro ... Lo stesso possiamo dire di Juha Pentikäinen che ha recentemente pubblicato un libro sull’orso nella cultura dei paesi finnici dalla Scandina-via alla Siberia (Pentikäinen 2007): a fronte della ricchezza di dati antropologici, bisogna riconoscere la rarità di dati archeologici e anche che la maggior parte degli oggetti le-gati a tradizioni sull’orso sarebbero invisibili in un contesto archeologico, perché realizzati in materiali deperibili (ma-schere, tamburi, ornamenti in legno e cuoio e pelliccia)3.

“Des découvertes, relativement nombreuses, de squelettes fossiles d’ours des cavernes en Europe centrale et occidentale aux sépultures historiques d’ours brun dûment documentées des contrées nordiques1, on pouvait imaginer une relative continuité des témoignages de la présence et de l’utilisation de ce plantigrade dans les sites néo-lithiques ou protohistoriques d’Europe tempérée. La confrontation avec les données archéologiques et la discrétion de la représentation de l’ours brun parmi les vestiges qui nous sont parvenus des communautés humaines de ces périodes, laissent au contraire l’impression d’une éclipse dans l’hi-stoire des relations entre l’homme et l’ours”.

Rose-Marie Arbogast e Patrice Méniel (2002)

Quando ho assunto l’impegno di pre-sentare le testimonianze archeologi-che dell’orso credevo di trovarmi di fronte a un lavoro sì complesso, ma tutto sommato facile2. Di certo, pen-

savo, l’animale più grosso dell’antica Europa, il maggiore carnivoro del nostro continente, ha lasciato un gran nu-mero di reperti, di raffigurazioni: crani, scheletri, artigli, statue, dipinti ... e poi miti, leggende, menzioni nella let-teratura ... E invece fin da subito ho dovuto accorgermi che non è affatto così. L’immagine popolare dell’uomo preistorico che affronta gli orsi nelle caverne è un cliché moderno destituito di fondamento, le pelli d’orso che or-nano le spalle e le capanne di antichi capi barbari lascia-no al più pochi ossi delle zampe, gli orsi che affrontano i gladiatori non sono che delle povere bestie buttate nel mondo dello spettacolo. Peggio ancora il mondo greco, così ricco di immagini, statue, dipinti: poco, pochissimo, quasi niente sull’orso, nemmeno nella sua complessa mi-tologia. E se pure sappiamo che l’orso era mangiato, po-

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probabilmente significa “il buon bue”, come se si voles-se esorcizzare o blandire la grossa fiera (fig. 1). Se guar-diamo ora all’estremo nord-est dell’Europa, alle lingue finniche, negli oltre centosessanta soprannomi dell’orso in finlandese c’è di tutto (Pentikäinen 2007, pp. 94-96; Lot-Falck 1961, pp. 109-112 per le lingue dei popoli della Siberia): riferimenti ad altri animali (“bue della foresta”, “gatto della foresta”, “mio lupo”, addirittura “uccellino” e “piede di serpente”), alle sue attività venatorie (“ter-rore dei vitelli”, “mangia-vitelli”, “ghiotto di miele”), a sue caratteristiche fisiche (“ciccione“,“sdentato”, “torace nero” e, come sempre quando si ha a che fare con so-prannomi, non mancano gli aspetti sessuali, come “pene nero”, “grosso pene” o “osso del pene”, per la presenza dell’osso penico), altri nomi più affettuosi (“buonuomo”, “nonnino”, “ospite”, “vecchio della foresta”), altri invece terrorizzanti (“occhio maligno”) o rispettosi e ossequiosi (“signore d’oro”, “re d’oro”, “grande foresta”). Non ci si deve stupire allora se nell’Europa settentrionale le lingue indoeuropee hanno adottato nuovi nomi che significano “bruno”, “peloso”, “mangia-miele” ...

il paleolitico e il MeSolitico (fino al 6.000 a.c.)

La presenza di grandi orsi nelle caverne della preistoria, durante l’ultima glaciazione, è una delle immagini più radicate nella nostra cultura, spesso in ricostruzioni di combattimenti e lotte con uomini primitivi armati di rozze lance, oppure con sempre questi nostri antenati intenti in un rito attorno al cadavere della grande belva (tra le pubblicazioni più recenti: Mano 2006 sul Cuneese; I cac-

Questa nostra esposizione avrà un ordine cronologico e sarà geograficamente circoscritta all’Europa e al bacino del Mediterraneo dalla preistoria al medioevo. In coda, sa-ranno riportate come appendice le testimonianze sull’orso dei più importanti testi di zoologia dell’antichità.

una Breve introDuzione linguiStica: il noMe Dell’orSo

Il nome dell’orso ha avuto un destino particolare (IEW, p. 875; Buck 1949, p. 186; Pastoureau 2008, pp. 49-61). Da un lato c’è una grande fascia di lingue che va dall’In-dia al Mediterraneo e all’estremo occidente con nomi da un’antica parola che ricostruita dai suoi esiti doveva essere *rktho-s: nelle lingue indiane rksa-, nelle lingue iraniche abbiamo l’osseto (unisco discendente delle lingua degli Sciti) ars e l’avestico (la lingua dei testi sacri dei Persiani) arša; in armeno arj è stato influenzato da arjn ‘bruno scu-ro’; in hittita hartagga; in albanese arí; in greco árktos (e la forma più recente árkos); in latino ursus; nelle lingue celtiche il gallico ha artos, il medio irlandese art, il gallese arth. Invece nell’Europa settentrionale e orientale l’orso ha denominazioni che derivano da soprannomi, come dal colore bruno del suo pelo nelle lingue germaniche (an-glosassone bera e inglese bear, antico altotedesco bera e tedesco bär, norreno bjorn ...), dal pelo ispido e irsuto nelle lingue baltiche (lituano lokys, lettone lācis), e infi-ne nelle lingue slave un nome che significa “il mangia-tore di miele” (slavo ecclesiastico medvedi, serbocroato medvjed, russo medved, polacco niedzwiedz). Anche in irlandese, oltre l’antica forma art, c’è mathgamain, che

Fig. 1. Le lingue indoeuropee nel I millennio a.C. e i nomi dell’orso (dis. F. Rubat Borel).

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per altro, questa promiscuità [tra uomo e orso] è acciden-tale, e dipende dalle acque che sconvolsero e confusero due giacimenti di diversa età. La caverna servì prima di covo agli orsi, ai leoni, alle pantere, poi, questi scompar-si, dopo lungo volgere di tempo, fu occupato dall’uomo neolitico” (Issel 1908, p. 178). Non escludeva tuttavia che nel Paleolitico ci fossero casi di scontri tra uomini e orsi e che gli ossi di questi fossero utilizzati: “ ... mentre io ritengo che i cocci sopradescritti sono più recenti dell’U. spelaeus, non è men certo per me che colà questa fiera ebbe a imbattersi coll’uomo, e ne fa fede un pezzo di mandibola inferiore, che osservai, sulla cui superficie in-terna si vedono solchi e tagli, fatti artificialmente mentre l’osso era ancora fresco” (Issel 1908, p. 178)5. Al di là delle diatribe italiane, furono alcuni contesti delle Alpi svizzere che nella prima metà del XX secolo porta-rono a riconoscere una cultura particolare dell’uomo di Neandertal, denominata Paleolitico alpino o Musteriano alpino, dove le grotte sarebbero state frequentate sia da-gli uomini che dagli orsi. I Neandertal avrebbero cacciato in modo molto intenso l’Ursus spelaeus, provocandone i grandi giacimenti di ossi e anzi l’avrebbero venerato rac-cogliendone i crani, ridislocandone i resti in altari e am-massi... A formulare questa teoria fu soprattutto Emil Bächler che indagò alcune grotte della Svizzera centro-orientale (Wildkirchli nel 1902, Drachenloch nel 1917-1923, Wildenmannlisloch nel 1923-1927) dove migliaia di resti ossei di orso delle caverne sembravano dislocati secondo schemi particolari, con ammassi di crani, gli ossi lunghi adiacenti alle pareti, altri ossi spezzati apparivano come manufatti; avendo ritrovato in alcuni recessi alcuni manufatti litici e le tracce di focolari, gli parve che gli ossi d’orso fossero stati manipolati dall’uomo (Bächler 1940; Pignat 2002; Leuzinger - Leuzinger 2002; Tillet 2002, con un censimento delle principali grotte con orsi e resti dell’uomo di Neandertal) (fig. 2). Di lì, altri archeologi e so-prattutto gli etnografi iniziarono a riconoscere numerose tracce di culti dell’orso, ben più complesse degli ammassi di crani e ossi di Bächler: un cranio sotto una lastra di pie-tra, circondato da ceneri, nel Petershöhle in Germania; tre crani con disposizione quasi stellare nella grotta Kölyuk in Ungheria; crani e ossi nelle nicchie della grotta Veternica in Croazia ... e spesso alcune fratture apparivano intenzio-nali, realizzate con strumenti litici (Pacher 2002) (fig. 3).Si volle allora confrontare questi presunti rituali con quelli

ciatori paleolitici 1984 e Museo archeologico del Finale 2004, pp. 14-15 sui giacimenti delle grotte della Liguria di Ponente; Philippe 1993 sulle grotte del monte Grenier in Savoia; Uomini e orsi 1997 sul Carso triestino)4. L’or-so delle caverne, l’Ursus spelaeus, estintosi tra 15.000 e 12.000 anni fa, di taglia superiore all’orso bruno, l’Ursus arctos, ancora esistente, appariva come un essere enorme e mostruoso e sicuramente (nell’immaginario) pericoloso per l’uomo. Solamente recentemente si è scoperto che, in realtà, era un animale vegetariano che saliva sui pascoli alpini negli intervalli di riscaldamento del clima (Bocherens 2002; Argant - Argant 2003; Tillet 2003; Pacher 2003). Il cliché dell’orso delle caverne come rivale dell’uomo è antico nel nostro immaginario, risalendo alla metà del XIX secolo quando, contemporaneamente, si svolgevano le prime ricerche paleontologiche nelle caverne, si sviluppa-va la disciplina dell’archeologia preistorica e si diffondeva la teoria dell’evoluzione. Così, quando Bartolomeo Ga-staldi, geologo e pioniere della preistoria italiana, e i suoi informatori locali iniziarono ad esplorare le grotte del Cu-neese, ricche di giacimenti di ossi di orsi, più volte cercaro-no, e sperarono di trovare, delle tracce di frequentazione umana, ma vanamente. È significativo, sia per lo spirito della ricerca di allora che per il grande rigore scientifico e onestà intellettuale, il resoconto di Gastaldi nelle grotte di Bossea del 1865: quando da una vertebra d’orso uscì del carbone vegetale, finalmente credé di essere di fronte alla prova della contemporanea frequentazione delle caverne da parte degli orsi e dell’uomo, ma subito si avvide che il carbone si trovava sopra una stalattite che incrostava la vertebra, segno che era giunto lì per ruscellamento (Mano 2006). La convinzione di una compresenza di uomini e orsi nelle caverne continuerà nei decenni successivi tra i fondatori della paletnologia italiana, come dimostra l’insistenza di Pellegrino Strobel, convinto che vi siano nelle Alpi Apuane manufatti di ossi d’Ursus spelaeus, seppure tutti prece-denti al Neolitico, mentre un ricercatore di forse minori conoscenze ma scrupoloso, come Giovanni Battista Ame-rano, rispondendogli annotava: “Le ricerche che ho fatto mi hanno persuaso che quando apparve per la prima volta l’uomo nel Finale, benché vivesse ancora il grand’orso del-le caverne, tuttavia fosse già formato il detto ossario [della caverna delle Fate, dove recuperò 40 crani, 300 mandibo-le e suppose che vi fossero i resti di oltre 1500 esempla-ri]” (Strobel 1889; Amerano 1889; Amerano 1892, con un elenco delle grotte in cui ha effettuato delle ricerche; Mochi 1915, ancora sulle Alpi Apuane). È pur vero che trent’anni dopo, in una lettera a Luigi Pigorini, Amera-no scriverà: “ ... molte ossa dell’U. speleus (sic) sono evi-dentemente lavorate dall’uomo” (in Leonardi - Paltineri 2008). Il fatto è che le datazioni assolute tra XIX e XX secolo erano impossibili da ottenere e le stesse osserva-zioni sulle modalità di formazione dei giacimenti e degli strati erano a volte ingenue, altre volte erano gli stessi indagatori che non superavano il carattere amatoriale del cercatore di ossi e di selci, sconvolgendo stratigrafie e producendo false associazioni. Così Arturo Issel, il più attento ricercatore ligure, assieme ad Amerano, e dotato di ben maggiori acume e conoscenze scientifiche, poté riconoscere che i manufatti neolitici (ceramiche, innanzi-tutto) erano ben posteriori ai depositi di resti faunistici: “ ... nel caso presente [la Caverna delle Fate, nel Finalese]

Fig. 2. Il culto dell’orso nel Paleolitico nelle ricerche di E. Bächler (da Bächler 1940 in Premiers hommes dans les Alpes 2002, pp. 59 e 125).

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“Il fatto è che un orso, quando viene aperto e sezionato, ha un aspetto penosamente umano; specialmente le zam-pe assomigliano spaventosamente a mani e piedi di un bambino” (Maraini 2001, p. 65).Tornando al Paleolitico, gli ultimi cinquant’anni di ricerche hanno mostrato l’insussistenza delle ipotesi di un culto dell’orso, di una frequentazione coeva delle grotte, di cac-cia all’orso (Stiner 2002; Tillet 2002; Pacher 2002).Innanzitutto, i depositi di ossi si sono formati su un lun-ghissimo lasso di tempo, di decine di migliaia di anni: il gran numero di esemplari è perfettamente compatibile con un orso che muore durante l’ibernazione ogni quattro o cinque anni; prova ne è il fatto che la maggior parte dei resti ossei appartiene a individui particolarmente deboli, come piccoli e anziani. Le datazioni assolute, effettuate prevalentemente con il radiocarbonio, mostrano una re-mota antichità della maggior parte dei depositi, tra gli 80.000 e i 30.000 anni. Non ci sono tracce di ferite e colpi inferti con armi e manufatti sui resti ossei, perciò non c’è nessun elemento che provi che gli orsi sono stati uccisi, e le fratture riscontrate sono dovute o a fenomeni geologici o al calpestio di altri orsi. E soprattutto, tutti i depositi, an-che laddove pare di vedere una selezione delle ossa, sono naturali: il ruscellamento e i passaggi continui e prolungati nei secoli degli orsi scompongono gli scheletri e porta-no a ridislocare le diverse parti dello scheletro in maniera selettiva per forme e dimensioni. Non ci sono manufatti associati ai momenti di formazione dei depositi di ossa: semplicemente, nello scorrere dei secoli, può accadere che, in una grotta dove nelle decine di migliaia di anni precedenti gli orsi erano andati ad ibernare e a morire, vi siano passati uomini che abbiano perso degli strumenti o che vi abbiano acceso un fuoco (chi perdesse oggi una penna biro al Colosseo, di certo non è contemporaneo degli imperatori Vespasiano e Tito). Per altro, i depositi di ossi si trovano nei più profondi recessi delle grotte, mentre la frequentazione umana è prevalentemente concentrata nelle gallerie e nelle sale d’accesso. Qualche frammento di osso d’orso appariva lavorato ai primi ricercatori: alcuni avevano le estremità levigate, altri portavano striature e ancora frammenti di perone e di co-ste sembravano lavorati per ottenere dei bottoni o fibbie, asportando un lato alle estremità e lasciando un setto-re centrale a risparmio. Erano queste le prove di un uso dell’orso da parte dei Neandertal? Fino alla metà del XX secolo sono stati in molti a crederlo, quasi assumendolo come certezza. Se prendiamo un caso piemontese, nella grotta di Sambughetto Valstrona, indagata nel 1949, la maggior parte dei numerosi resti ossei di Ursus spelaeus è frammentata e paiono esservi dei segni di graffi di leone e tuttavia Carlo Maviglia ritenne che le coste fossero state lavorate per produrre fibbie, pur mancando l’industria liti-ca che inequivocabilmente avrebbe dimostrato un’attività umana (Maviglia 1952). In realtà, se già si era dubitato che questi non fossero altro che fratture naturali e, sempre per il Piemonte, porto il caso dei rinvenimenti al Ciutarun sul Monfenera (Fedele 1966; 1974; Fozzati 1974), è con il breve ma documentato articolo di Giacomo Giacobini che si dimostra, partendo dalla biomeccanica dell’osso, che tutte le fratture dei cosiddetti bottoni o fibbie sono in re-altà casuali, dati dal calpestio degli orsi sugli scheletri dei loro simili (Giacobini 1982) (fig. 4). Ovviamente, qualche oggetto realizzato con ossi di orso

delle popolazioni delle terre settentrionali dove era ancora presente un ambiente simile a quello dell’Europa durante l’ultima glaciazione (Siberia, Lapponia, Alaska, Canada), dove l’orso è il carnivoro di maggiori dimensioni e rive-ste un importante ruolo nelle credenze e nelle tradizioni locali. Si pensi al rito degli Ainu, lo iyomande, nelle iso-le settentrionali del Giappone, che allevavano per alcuni anni un orsacchiotto catturato per poi ucciderlo in un rito propiziatorio in cui l’animale, chiamato “piccolo dio”, ve-niva “inviato in cielo” e dopodiché ne erano mangiate le carni (Maraini 2001, pp. 33-72; Lajoux 2002); oppure si considerino i rituali siberiani (Lot-Falck 1961, passim; Pentikäinen 2007). Punto di partenza era la convinzio-ne che quelle popolazioni di cacciatori nordici avessero conservato la cultura degli Europei dell’ultima glaciazione (sostanzialmente, quindi, che non fossero stati in grado di evolversi culturalmente nel corso degli ultimi diecimila anni) o al più che vivendo in condizioni ambientali simili allora avessero sviluppato usi simili. Oggi si sa come la comparazione etnologica possa essere utile per compren-dere alcuni comportamenti o processi di fabbricazione di manufatti, ma che non si possa estendere forzatamente come modello interpretativo. Tra fine XIX e inizi XX secolo, poi, non mancava una certa tendenza a vedere come simi-li gli orsi e gli uomini preistorici, entrambi che si riteneva vivere nelle caverne, entrambi che si pensava coperti di peli ... e mi pare interessante sottolineare che tutto ciò av-viene negli stessi anni in cui l’orso ricompare nella cultura europea, ma come pupazzo di pezza, figura buffa e ami-chevole per i bambini (Pastoureau 2008, pp. 301-308). Sarà macabro, ma riporto una frase di Fosco Maraini di quando assisté a una delle ultime cerimonie di sacrificio di orso degli Ainu dell’isola di Hokkaido nel marzo del 1954:

Fig. 3. Il preteso culto dell’orso: a. i siti in Europa; b. la grotta Veternica; c. la grotta Kölyuk (da Pacher 2002, fig. 1, 5 e 7).

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È più complesso, e molto suggestivo, il caso dei supposti flauti ricavati con gli ossi lunghi degli orsi. Gli esemplari più antichi sarebbero stati trovati nelle grotte di Divje Babe I in Slovenia, di circa 45.000 anni fa, e di Geissenklösterle in Germania, di circa 36.000 anni fa, in contesti muste-riani, ovvero dell’uomo di Neandertal. Su femori d’orso, rimangono due e tre fori, perfettamente allineati, mentre la serie sarebbe continuata in frattura. Mancano le estre-mità dello strumento, con l’imboccatura e l’eventuale an-cia, che invece si ritrovano su alcuni flauti, vecchi di circa 15.000 anni, su osso lungo di uccello. La scoperta dell’os-so di Divje Babe I ha suscitato un ampio dibattito, per-ché proprio sulla tradizione della questione di strumenti o meno in osso di orso è stata contestata o affermata l’iden-tificazione come flauto o invece si è sostenuto che i fori fossero casuali e dovuto a morsi o deterioramento (Leo-cata 2000-2001; scettico Tillet 2002 e 2003)6. Comunque sia, è la mancanza di prove di una lavorazione all’estremi-tà che mi pare dover lasciare in sospeso l’identificazione come strumento musicale, e in particolare come flauto, di questi ritrovamenti, almeno quelli più antichi (fig. 5). Non ci sono quindi rapporti tra l’uomo e l’orso? Certa-mente, ma limitati. Nella Grotte du Regourdou nella Francia sudoccidentale tra il 1960 e il 1965 è stata in-dagata una sepoltura di Neandertal in cui il corpo, privo del cranio, con la costruzione di una struttura di pietre e la deposizione degli elementi dello scheletro di un’orsa, scarnificata (Bonifay 2002): indubbiamente un contesto importante per riconoscere gli usi funerari del Paleoliti-co medio e la presenza di offerte, forse con significato alimentare. Arrivare da quest’esempio a voler vedere un culto dell’orso, si va troppo lontano. Per altro, si trattava di Ursus arctos, e non di Ursus spelaeus ... L’orso non è neppure particolarmente frequente nell’ar-te del Paleolitico superiore (40.000-10.000 anni fa circa, quando si diffonde in Europa l’uomo anatomicamente moderno, l’Homo sapiens, ed è scomparso l’uomo di Ne-andertal) sulle pareti delle grotte (Rouzaud 2002, con il corpus completo delle raffigurazioni allora note; Morel - Garcia 2002; Azéma 2009, pp. 24-25). È vero che in genere i carnivori sono rari, ma l’orso è noto in solamente una sessantina di esemplari, che rappresentano tra l’1% e il 2% degli animali riconosciuti (fig. 6). A fronte della

esiste, ma in età molto più recente. Tra gli amuleti, si pos-sono segnalare, sulle Alpi venete-trentine, un osso peni-co di orso con due tacche parallele sui lati opposti dalla Grotta di Paina datata all’Epigravettiano finale (Guerreschi - Leonardi 1984), mentre nel deposito castelnoviano del Riparo di Romagnano III è un metatarso ad avere delle tacche sottilmente incise disposte irregolarmente e con tracce di ocra rossa (Broglio 1984).

Fig. 4. Esempi delle cosiddette fibule musteriane (da Giacobini 1982, fig. 2).

Fig. 5. Esempi dei pretesi flauti da ossi di orso: a. da Divje Babe I; b. da Istallósko; c. da Potocka Zijalka (da Leocata 2000-2001, figg. 1 e 2).

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In molti casi non ne compare che la testa, spesso il corpo completo, di profilo, con l’animale a quattro zampe. Sola-mente una volta apparirebbe ritto sulle zampe posteriori, nella grotta di Font-de-Gaume. Nell’ultimo decennio la scoperta e la pubblicazione della Grotte Chauvet, nella Francia meridionale, ha suscitato grande interesse per l’antichità delle pitture (le datazioni radiocarboniche della frequentazione della grotta danno 29.000-32.000 BP) e per lo stile complesso e altamente espressivo delle raffi-gurazioni di altri animali, come i leoni (La Grotte Chauvet 2001; Clottes 2005) (fig. 8). La caverna era intensamente frequentata dagli orsi, che hanno lasciato sul fondo le loro orme, per cui si possono riconoscere i percorsi effettuati da adulti e da piccoli lungo le pareti (La Grotte Chauvet 2001, fig. 32) (fig. 9), e numerosi resti ossei, con casi sug-gestivi come il cranio ricoperto da concrezioni sul quale si è formata una stalattite (La Grotte Chauvet 2001, fig. 48) (fig. 10). E inoltre, quindici pitture rappresentanti orsi si dislocano sulle pareti. Ciò che più a suscitato interesse è il cranio posto intenzionalmente su un masso piatto nel mezzo di una vasta sala dove si trova un’altra quarantina di crani (fig. 10). Questo ha fatto ripensare a culti dell’or-so, in un ambiente così intensamente frequentato dal plantigrado, che sarebbe stato una sorta di mediatore tra l’uomo e il cosmo (La Grotte Chauvet 2001, pp. 204-209, figg. 202 e 203). Questa interpretazione mi pare si basi sulle suggestioni e non sia che una rielaborazione delle vecchie ipotesi del culto dell’orso. Innanzitutto, un cranio posto su una pietra piatta non implica, di conseguenza, nessuna forma di culto: quante cose noi poniamo in una posizione centrale per i motivi più vari? Non ho trovato una planimetria dei crani disposti attorno a questo e se uno di questi ha sopra l’arcata sopraciliare una traccia di carbone, in una grotta può essersi formata in mille modi: un tizzone caduto dalla torcia, l’uomo che inciampa e che

pochezza degli esemplari, è vero però che almeno un de-cimo delle caverne ornate (ventitré) ha delle raffigurazioni di orsi, per lo più in un solo esemplare per ogni contesto, tranne tre grotte, Chauvet, Les Combarelles e Les Trois-Frères, che assieme sommano oltre trenta immagini. Per la maggior parte dei casi, le figure sono incise, mentre laddo-ve il profilo è dipinto prevale il nero o il rosso (questo colo-re soprattutto nella Grotte Chauvet). L’orso è distinguibile dagli altri carnivori, come il leone delle caverne (che non aveva la criniera, a differenza del maschio della attuale Panthera leo), per la forma più tozza ma soprattutto per il cranio bombato che caratterizza l’Ursus spelaeus dall’Ur-sus arctos, e dalle poderose zampe anteriori che portano a una gobba molto marcata all’altezza delle spalle (fig. 7).

Fig. 6. Percentuali delle specie rappresentate nell’arte paleolitica (da Azéma 2009, fig. 4).

Fig. 7. Esempi di orsi nell’arte paleolitica (da Rouzaud 2002, rielaborato).

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Fig. 8. Orsi dipinti nella Grotte Chauvet (da La Grotte Chauvet 2001, figg. 62 e 193).

Fig. 9. Orme di orso nella Grotte Chauvet (da La Grotte Chauvet 2001, figg. 30 e 32, rielaborate).

fa cadere a terra la fiaccola ... Soprattutto, sono i dati statistici degli animali rappresentati che mi fanno dubitare di un culto dell’orso: 74 felini (leoni e almeno una pan-tera), 67 mammut, 65 rinoceronti, 40 cavalli, 31 bisonti, 16 stambecchi, 15 orsi, 12 renne, 9 uri, 7 cervi megaceri, 4 cervidi, 2 cervi, 2 buoi muschiati, 1 gufo. Perché allora non un culto del leone o del mammut o del rinoceronte, animali solitamente non numerosi? Passiamo a considerare eventuali scene di interazione tra uomo e orso. Le scene di combattimento tra uomo e orso

sono rarissime, a dispetto delle ricostruzioni moderne che mostrano spesso scene di lotta, per lo più con un grup-po di cacciatori che circonda la belva. Forse un combat-timento, forse piuttosto un uomo attaccato da un orso, è su una rondella frammentaria di scapola della grotta del Mas d’Azil, datata al Magdaleniano (18.000-11.000 BP), e quindi sarebbe un Ursus arctos, onnivoro, e non il mitizzato Ursus spelaeus, già estinto e comunque vege-tariano (Duhard 1992, fig. 4; Morel - Garcia 2002, fig. 6) (fig. 11). Purtroppo è estremamente lacunosa e dell’orso

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come se fossero state bersaglio di tiri di lance e proiettili, altre volte sono semplicemente dei tratti dipinti o incisi che paiono lance. Si ritiene che questi siano dovuti a ri-tuali di caccia, in cui la raffigurazione dell’animale viene colpita evocando uno scontro reale. In questo sono parti-colarmente suggestive alcune immagini in cui dalla bocca dell’orso escono delle linee incise che ricordano dei fiotti di sangue. La raffigurazione più evocativa è quella nella Grotte des Trois-Frères nell’Ariège, datata al Magdalenia-no, tra 17.000 e 10.000 anni fa (Morel - Garcia 2002, fig. 10). Per cronologia e caratteristiche dell’orso (assenza del-la bombatura del cranio, spalle poco sviluppate) dovrebbe trattarsi di un Ursus arctos, crivellato da numerosi cerchi incisi sul corpo, sulle zampe, sui quarti posteriori, men-tre numerose linee escono dalla bocca, come un fiotto di sangue o il fumo di un respiro pesante. In Italia troviamo un’altra fiera, questa volta un lupo, che ricorda questo orso, cronologicamente contemporanea (Epigravettiano recente) su un ciottolo nella laziale Grotta Polesini, con incisioni puntuali e lineari sul corpo (Radmilli 1954-1955; Radmilli 1993, che contesta Mussi - Zampetti 1993 che considerano gli stacchi naturali e casuali) (fig. 12).Con la fine del Paleolitico e delle glaciazioni, e l’estinzione di Ursus spelaeus, abbiamo ovviamente solo più testimo-nianza di Ursus arctos: d’ora in avanti, quando scriveremo di orso, sarà solo a questa specie che ci riferiremo. In Trentino, nel Riparo Dalmeri, di oltre 11.000 fa, famoso per i ciottoli dipinti, alcuni di questi raffigurano dei lupi e degli orsi e uno in particolare ha un’orsa davanti a un pic-colo (Dalmeri et al. 2005a, fig. 5; Dalmeri et al. 2005b, fig. 9) (fig. 13). Nei resti ossei del riparo, dominati dallo stam-becco (86,46%, con quasi 7.500 elementi identificati), ci sono delle testimonianze di orso, ma non si tratta che di 46 ossi, pari allo 0,53% di tutti gli elementi identificati (che lo fanno essere però il carnivoro più rappresentato) e limitati a denti, falangi e metapodi (tra le ossa lunghe, l’unica presente è una porzione laterale di femore, con

rimane solamente la zampa. Su una faccia, l’uomo è af-frontato dalla belva, mentre nell’altra è ormai atterrato e anche qui dell’orso si vede solamente la zampa che pare ghermire il corpo. La figura umana è evidenziata da brevi striature sui margini del dorso e della pancia, che credo siano graffi, pur non essendo presenti sulla faccia b, dove l’uomo appare di schiena o sventrato. Un altro caso è su una placchetta di scisto nella Grotte du Péchialet, dove un orso in piedi pare abbattere un uomo, mentre un altro gli si pone dietro, forse armato (Morel - Garcia 2002, fig. 1). Altre figure, sia su piccoli oggetti che rappresentate sulle pareti delle grotte, sia nella scultura nella grotta di Montespan, riportano invece dei distacchi della superficie

Fig. 10. Crani e resti di orso nella Grotte Chauvet: in alto a destra, il cranio deposto su un masso, a sinistra quello ricoperto di ocra (da La Grotte Chau-vet 2001, figg. 47, 48, 200 e 203).

Fig. 11. Rondella in osso incisa dalla grotta del Mas d’Azil (da Duhard 1992, fig. 4, rielaborata).

Fig. 12. Le raffigurazioni di un orso e di un lupo feriti nella Grotte des Trois-Frères, in alto, e nella Grotta Polesini, in basso (da Radmilli 1993, fig. 1).

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di numerose armi in selce nella caverna e di un proiettile nel collo dell’orsa, si crede che si tratti di un incidente di caccia: la belva ferita a morte si rifugia nella grotta, il cacciatore la segue e lì muore anche lui (Morel 1993) (fig. 14). Vedremo che ottomila anni dopo, nella media età del Bronzo, un altro orso, colpito da una freccia, morirà in una grotta a Ormea, nelle Alpi Marittime piemontesi. Comunque, l’orso non era solamente cacciato, perché alla fine del Mesolitico francese, nel VI millennio a.C., alla Grande-Rivoire nel massiccio del Vercors a 580 m s.l.m., un orso maschio di cinque-sei anni viveva con gli uomini con una museruola che ha provocato una deformazione simmetrica con superfici lisce e arrotondate tra primo e secondo molare, risultato di un legaccio con il quale l’ani-male è cresciuto e che gli aveva profondamente inciso la mandibola (Chaix 2002) (fig. 15).

i priMi agricoltori europei: neolitico eD età Del raMe (6.000-2.200 a.c)

La maggiore rivoluzione nel popolamento e nello stile di vita dell’antica Europa è avvenuta circa settemila anni fa, quando dall’Anatolia, attraverso i Balcani e le coste del Mediterraneo, si sono diffusi nel nostro continente l’agricoltura e l’allevamento, con la possibilità quindi di nutrire molte più persone di quanto non facesse la caccia (almeno venti persone in più nello stesso territorio) e ov-viamente una maggiore sedentarietà. Questa nuova età si chiama Neolitico (per l’Italia settentrionale 6.000-3.500 a.C.), ovvero l’età della nuova pietra, perché si introduce l’uso di strumenti in pietra levigata a fianco delle tecniche

tracce di scarnificazione). Si tratta di almeno quattro in-dividui, uno con meno di cinque mesi, l’altro di otto e di due adulti. Le tracce di macellazione sulle falangi non sembrano finalizzate allo spellamento perché per questo si preferisce incidere la pelle all’altezza del radio, mentre paiono dovute invece alla disarticolazione (Fiore - Taglia-cozzo 2005; 2008).È a questo torno di tempo, più precisamente all’11.700 BP, che risale una delle rarissime testimonianze dirette di caccia all’orso bruno. Nella Grotte du Bichon a La Chaux-de-Fonds, in Svizzera occidentale, sono stati trovati gli scheletri di un uomo e di un’orsa. Poiché la disposizio-ne dei corpi non pare intenzionale e grazie alla presenza

Fig. 13. Ciottolo dipinto con forse un’orsa e davanti il piccolo dal Riparo Dalmeri (da Dalmeri et al. 2005b, fig. 9).

Fig. 14. Gli scheletri di un uomo e di un’orsa nella Grotte du Bichon (da Morel 1993).

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tra V e III millennio a.C., che si mostra la fragilità, e in fondo l’insussistenza, della ricostruzione della Gimbutas. È per altro curioso che l’antica cultura religiosa preindo-europea sarebbe sopravvissuta proprio nelle terre che per prime sarebbero state investite ed occupate dagli invasori dalle steppe euroasiatiche: la Russia, i Paesi Baltici, la Peni-sola Balcanica settentrionale. Ma al di là delle critiche alla sua grande teoria storica e religiosa, rimangono interes-santi o almeno suggestive alcune sue considerazioni sul-le raffigurazioni di animali nell’Europa antica, compreso l’orso. La Gimbutas riteneva che il cervo e l’orso avessero uno stretto legame con la Dea del parto, ipotizzando an-che un legame tra le parole inglesi bear “orso” e to bear “portare” ma anche “generare, partorire”, che non ha nessun valore linguistico-storico. In particolare l’orso ma-schio sarebbe stato una divinità della vegetazione e per questo sacrificato una volta l’anno, come mostrerebbero le immagini del Paleolitico superiore. Citava in tal senso i vasi zoomorfi del Neolitico della Penisola Balcanica. Così nella cultura Karanovo, diffusa nel VII millennio a.C. in Bulgaria e nella Romania meridionale, ci sono molte sta-tuette con una gobba, per lo più inedite perché conside-rate non abbastanza belle, che potrebbero essere inter-pretate come orsi. Maggior certezza si ha nella cultura Vinča dei Balcani centrali a fine VI-V millennio a.C. per le statuette di donna, dove il volto femminile è però piatto e appuntito verso il basso, come se fossero delle maschere di orso. In braccio tengono un bambino, altre volte han-no una cesta o marsupio attaccato alle spalle (Gimbutas 1990, fig. 184)8. I vasi a forma di orso sono invece presen-ti per un lunghissimo periodo, seppure con forme molto differenti. Dal Peloponneso alla Dalmazia nel corso del VI millennio a.C. si diffondono vasi con l’apertura obliqua, poggianti su quattro piedi tozzi e cilindrici, e dalla grossa

di scheggiatura, cui succede l’Eneolitico o età del Rame (3.500-2.200 a.C.), allorché cominciano a diffondersi i primi strumenti in metallo (asce, pugnali, lesine) e si af-fermano le prime profonde differenze sociali all’interno delle comunità, con l’emergere di capi e guerrieri. In alcu-ne regioni europee l’introduzione dell’agricoltura avviene attraverso la migrazione e la colonizzazione dei territori da parte di contadini e allevatori, in altre invece sono le po-polazioni locali di tradizione mesolitica che acquisiscono le nuove tecniche dai vicini. L’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento porta a una profonda trasformazione nell’ideologia, nella concezione del mondo, nella religio-ne. Diventano più forti i legami con la terra, con il succe-dersi dei lavori agricoli stagionali, con alcuni animali alle-vati o cacciati che assumono il valore di simbolo. E anche qui, le raffigurazioni di orsi non sono affatto numerose ... Alcuni studiosi dell’Europa centro-orientale hanno inter-pretato che la rarità dell’orso nella mitologia e nelle rap-presentazioni iconografiche ed archeologiche europee sia dovuta alle ideologie indoeuropea e semitica prevalente-mente maschilistiche, laddove l’orso sarebbe invece una raffigurazione della divinità femminile. In tal senso, l’ela-borazione maggiore è venuta da Marija Gimbutas per la quale la Dea era stata venerata sotto forma di orso, cervo, serpente, uccello (Gimbutas 1990, pp. 113-119) nell’Eu-ropa agricola prima dell’arrivo degli Indoeuropei, guerrieri e maschilisti (le ipotizzate migrazioni sarebbero avvenute tra V e III millennio a.C.)7. Le teorie della Gimbutas si basa-vano su una grande quantità di reperti archeologici dalla ricchissima iconografia, che erano interpretati basandosi anche sul folklore moderno dell’Europa centro-orientale, in particolare dei Paesi Baltici e della Penisola Balcanica. In realtà, è proprio nella mole di confronti archeologici, an-che disparati, uniti da una preconcetta visione di un’antica Europa agricola e femminista sommersa dai guerrieri che portavano lingue indoeuropee in più ondate migratorie

Fig. 15. La mandibola dell’orso della Grande-Rivoire, con i segni del morso (da Chaix 2002).

Fig. 16. Vasi a forma di orso dal Neolitico dell’Europa centro-orientale: a) da Abraham in Slovacchia; b) da Sipenitsi in Ucraina; c) da Smilcic presso Zara; d) da Syros nelle Cicladi (da Gimbutas 1990, figg. 186-188).

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cati magici o eroici dovuti alla difficoltà della cattura del più grande carnivoro europeo. In ciò, mentre resti ossei di esemplari di età infantile o subadulta si ritrovano negli abitati, i canini sono ricavati solamente da orsi adulti. In questi casi particolari, come gli abitati perilacustri, dai resti archeologici si può valutare non solo quanti orsi (e lo stesso vale per gli altri animali) sono stati uccisi, ma anche quanti esemplari nel corso del tempo. Nei villaggi di Clairvaux e Chalain, dove la dendrocronologia ha per-messo di determinare che tra il 3.700 e il 3.400 a.C. una capanna aveva una vita di circa sette-otto anni prima di essere abbattuta o abbandonata, si è ricostruito che in quel periodo i membri di una casa hanno lavorato le pelli e pellicce di 4 tassi, 2 castori, 1,5 martore, 1,5 gatti sel-vatici, 0,5 orsi, 0,5 puzzole, il che significa che le pellicce non erano importanti nell’abbigliamento, che era preva-lentemente di fibre tessili vegetali come il lino (Pétrequin - Pétrequin 1988, p. 49). Non si deve dimenticare, inoltre, che l’orso era anche una riserva alimentare di non poco conto, come mostrano i resti ossei delle fasi di XXXII se-colo a.C. di Chalain, dove sono rappresentate pressoché tutte le parti del corpo, comprese le zampe e la cassa to-racica, ovvero laddove vi era più carne (fig. 18). E tuttavia si deve notare che la maggior parte degli ossi riguarda le zampe e il cranio, ovvero dove l’apporto di carne è limi-tato, e che per di più non è stata ritrovata nelle discariche davanti alle case, ma raggruppata attorno ai focolari o nel retro degli edifici, come se le parti di orso avessero un uso o un significato differente da quelle degli altri ani-mali. Certamente si deve considerare che nelle pellicce d’orso si potevano conservare le ossa delle zampe e in tal caso la loro presenza presso i focolari si intende come testimonianza di giacigli, oppure che le zampe fossero dei trofei, mentre invece le ossa lunghe (quelle che hanno un significato certamente alimentare) sono disperse in tutto l’abitato (Arbogast - Méniel 2002, figg. 2 e 3) (fig. 19).

ansa ad anello verticale. La superficie ben levigata è spes-so decorata da motivi incisi, con incrostazioni bianche che contrastano con il rosso dell’orlo. Ancora più interessanti sono due orsi internamente cavi, a quattro zampe, ben sagomati, con sul dorso l’imboccatura, molto distanti l’u-no dall’altro geograficamente e cronologicamente: il più antico, della prima metà del V millennio a.C. della cultura Lengyel, da Abraham in Slovacchia, è decorato da fasce parallele dipinte, l’altro inornato della cultura Cucuteni del 3.700-3.500 a.C. da Sipenici in Ucraina occidentale. E infine, diverso per forma ma assai famoso, l’orsetto che sostiene un bacile con un’apertura che dà al ventre della bestiola, dalla pancia decorata da linee parallele, il dorso a reticolo e gli occhi sottolineati da linee colorate, ritrovato nell’isola di Syros nelle Cicladi e risalente al III millennio a.C. (fig. 16). Sono manufatti di grande bellezza, ma da qui trarre una ricostruzione teologica alla Gimbutas è ec-cessivo per la grande distanza cronologica dei reperti e tutto sommato la loro rarità.È probabile che l’orso, animale delle foreste e di grande mole, fosse macellato e depezzato là dove era stato cattu-rato e ucciso, perché negli abitati i resti ossei ritrovati sono per lo più limitati alle ossa delle zampe e del cranio. Un cranio d’orso, assieme a manufatti, fu rinvenuto nel fossa-to dell’abitato fortificato di Marechoul in Francia orientale nel Neolitico finale (corrispondente più o meno alla nostra età del Rame) e ritenuto un rito di fondazione (Arbogast-Méniel 2002)9. Tuttavia il fatto che i canini fossero stati estratti e che si evidenziassero delle tracce di usura dell’os-so incisivo mi porta a dubitare che ci si trovi davanti ad uno scarto di macellazione. Alla lunga, la maggior parte delle testimonianze è limitata a canini usati come ciondoli per decorazione, assieme a denti di lupo e volpe o di cer-vo e cinghiale. L’elaborazione del dente non consiste che nella perforazione della radice o, più raramente, nella mo-dellazione di una piccola gola. Dalla forma non parrebbe che ci siano particolari valori da assegnare all’orso rispetto agli altri animali, tranne le maggiori dimensioni del dente. Mancano anche le imitazioni in altri materiali, come l’osso o la pietra, che solitamente sono buoni indicatori di signi-ficati e simbolismi legati a oggetti di difficile reperimen-to. A seconda dei siti tra Svizzera e Francia orientale, del Neolitico finale nordalpino, corrispondente all’età del Rame italiana, l’incidenza dei canini d’orso negli ornamen-ti personali varia notevolmente da contesto a contesto e forse anche da periodo a periodo, dal 60% e addirittura 100% a Horgen nel 3.200 e 3.150 a.C., a solamente il 12,5% a Chalain nel 2.600 a.C. e appena il 4,8% attorno al 2.750 a.C. (Maréchal et al. 1998, fig. 13). Tutt’al più, Rose-Marie Arbogast e Patrice Méniel per i siti perilacustri di Chalain e Clairvaux nella Francia orientale, nelle fasi di frequentazione nella prima metà del III millennio a.C., no-tano che, poiché i canini d’orso a volte si trovano sparsi nell’abitato come se fossero stati persi (cosa difficile per un oggetto che può arrivare anche a 10 cm di lunghezza, o addirittura in più esemplari vicini), a questi si può attri-buire un particolare significato per cui o in quel momento avevano cessato di avere un valore simbolico, oppure non erano trasmissibili ad altre persone (Arbogast - Méniel 2002; Pétrequin - Pétrequin 1988 per il contesto arche-ologico, in particolare p. 108) (fig. 17). Il canino d’orso perduto quindi in realtà sarebbe un oggetto (un trofeo di caccia?) ormai defunzionalizzato da eventuali signifi-

Fig. 17. Pendagli da canini d’orso nei villaggi neolitici di Chalain (da Arbo-gast - Méniel 2002, fig. 1).

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avrebbero potuto essere usati dagli orsi durante il letargo invernale. L’unico oggetto antico deperibile ricavato da un orso che si è conservato è il berretto di pelo di Ötzi, l’uomo il cui cadavere praticamente intatto fu ritrovato il 19 settembre 1991 nella conca, ricoperta da ghiacci per cinquemilatre-cento anni, vicino al rifugio del Similaun tra Alto Adige e Tirolo austriaco (Spindler 1998, pp. 156-157; de Marinis - Brillante 1998, pp. 81-83; didattico, con ricco appara-to iconografico, Sulzenbacher 2001) (fig. 20). Il berretto fu rinvenuto solamente durante la seconda campagna di ricerca, nell’agosto del 1992, ai piedi della roccia su cui giaceva il corpo mummificato. Un rischio, durante il recupero, era che la manipolazione del berretto potesse distaccare e far cadere i peli e questi andar persi. Fu perciò fatto sciogliere il ghiaccio con una macchina che produce-va vapore, mentre l’acqua di fusione era continuamente aspirata. Contemporaneamente, una cinepresa filmava tutta l’operazione. Il berretto fu quindi riposto in una sca-tola di metallo che, dopo essere stata nascosta sotto la neve per mantenere la temperatura prossima agli 0° C, fu rapidamente portata alla Soprintendenza di Bolzano e di lì ai laboratori del Museo di Magonza, dove dopo essere stato ripulito con acqua distillata, è stato ingrassato, im-bevuto di una sostanza chimica e liofilizzato ed infine re-staurato. Il manto di peli esterno si è conservato, pur rima-nendo estremamente delicato e sempre sotto il pericolo di distacco, come è avvenuto nel corso dei millenni al pelo di capra del giaccone. Il berretto è stato confezionato con pezze cucite assieme fino ad avere una forma troncoco-nica, con 25 cm di altezza, su una base ovoidale. All’orlo inferiore erano fissate due strisce di cuoio per sottogola,

Lo stesso vale per i crani, che come vedremo sono tra le parti anatomiche quelle che più si ritrovano nei contesti di età successiva, anche se proprio l’estrazione di elemen-ti pregiati per l’uso alimentare (cervella, lingua, eventuali muscoli facciali, oltre ai canini per ornamenti) potrebbe aver reso più comodo il trasporto nel villaggio della testa dell’orso rispetto ad altre parti anatomiche, che bastava disossare durante la battuta di caccia. A proposito delle falangi d’orso nelle capanne, per quel che può valere solo come confronto e non come interpretazione di queste testimonianze archeologiche, nelle popolazioni siberiane un cacciatore munito di una zampa è ritenuto protetto nell’affrontare il grande plantigrado vivo, così come i Tun-gusi a nord del lago Bajkal proteggevano l’entrata della loro tenda appendendovi una zampa d’orso (Lot-Falck 1961, pp. 100-101). Guardiamo due siti a noi prossimi del Neolitico dell’Italia nordoccidentale. Nella grande caverna delle Arene Can-dide a Finale Ligure, usata per millenni come abitazione, stalla e magazzino, la presenza di orso è occasionale e di-scontinua nel tempo e anche qui sono rappresentati pre-valentemente denti e ossi delle zampe (Sorrentino 1999). In Piemonte, nel sito della Maddalena di Chiomonte in Val di Susa, l’orso è relativamente abbondante, trentacinque reperti ossei su 800 ossi animali analizzati, ed è rappre-sentato prevalentemente da ossa della zampa e del cranio (Fedele 1989; 2002). Sono ventuno i frammenti prove-nienti dai contesti della fine del Neolitico-inizi dell’età del Rame (3.700-3.200 a.C.), anche se lo stato di conserva-zione degli strati rende incerta una precisa datazione e fa sì che sia possibile che ci siano infiltrazioni di materiali più recenti. Inoltre molti vengono da ripari sotto roccia, che

Fig. 18. Percentuali dei resti ossei di orso nel villaggio di Chalain nel XXXII secolo a.C. (da Arbogast - Méniel 2002, fig. 2).

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Marittime al di sopra di Ormea, dello scheletro di una gio-vane orsa con infissa nel femore sinistra una punta di frec-cia ad alette a codolo, tipologicamente tipica del Bronzo Medio e Finale dell’area alpina occidentale, coincidente con le datazioni radiocarboniche sui resti ossei che danno l’animale vissuto tra XVII e XVI secolo a.C., mostra appun-to l’attività di caccia in luoghi lontani dagli abitati (Ventu-rino Gambari 2001; 2009; Giacobini et al. 2001). Ma sicu-ramente, se la preda fosse stata raggiunta dai cacciatori, sarebbe stata scorticata e depezzata là sulle montagne e al massimo ne avrebbero portato a valle la pelle, con gli ossi delle zampe e i denti. Su quarantun siti svizzeri dell’età del Bronzo, ci sono re-sti ossei di orso solamente in 19 e in tutti questi è rap-presentato da pochissimi reperti, tranne nei due siti dei Grigioni, in pieno ambiente montano, di Crestaulta e di Munt Baselgia (Schibler - Studer 1998, fig. 78). Queste quantità attestano una presenza diffusa dell’orso, seppu-re limitata per lo più a canini usati come pendenti o agli ossi delle zampe che mostrerebbero l’uso di pellicce negli abitati. La situazione è analoga a quanto riscontriamo in Italia, dove i resti di orso sono presenti ma assai limitati sia numericamente che tipologicamente, anche nei siti in ambiente montani quale il Trentino-Alto Adige, come rile-va Alfredo Riedel, al quale si deve la maggior parte degli studi delle faune pre-protostoriche della regione, segno che è trascurabile, come in genere tutta la fauna selvatica, tranne in parte il cervo e i capriolo che sono ancora le specie più cacciate con il cinghiale (Riedel 1986a; 1985; 1997). Se resti ossei di orso sono piuttosto numerosi e vari nell’abitato perilacustre di Ledro, generalmente negli altri sono rari o rarissimi, come il frammento della zampa nell’abitato del Bronzo Finale di Sonnenburg in Val Puste-ria (e quindi viene di nuovo in mente la presenza di pel-licce, come rilevato nei villaggi perilacustri nordalpini) così come all’Aica di Fié (Riedel 1984; 1986a, tab. 45; 1986b).

coi i capi annodati tra di loro, ma una delle stringhe era strappata poco sopra il nodo. Forse fu durante la caduta e la morte di Ötzi che il laccio si ruppe e il berretto ruzzolò o scivolò ai piedi della roccia su cui giaceva il corpo e lì fu coperto dalla neve. Il pelame è grigio chiaro e inizialmente si credette fosse di camoscio, solamente ulteriori analisi hanno determinato che si trattava di orso; incertezza si ha invece per la suola delle scarpe, che un’analisi microscopi-ca ha detto essere di cuoio bovino, un’altra invece di orso (la tomaia è in pelle di cervo). Si segnala infine un altro reperto che attesta l’allevamento di un orso, certamente catturato da cucciolo e tenuto per lunghi anni legato, come abbiamo visto alla Grande-Rivoi-re alla fine del Mesolitico. Nell’abitato perilacustre svizzero di Portalban-Les Grèves un orso di dieci anni ha passato la sua vita con un legaccio attorno al muso, passante per i suoi denti (Olive 2004). Si tratta della maniera per tenere un orso legato, come vediamo sia presso quei popoli sibe-riani che allevano cuccioli di orso per i loro culti, sia presso le corti medievali, dove ornavano i serragli dei principi, sia presso zingari e mendicanti che esibivano gli orsi alle fiere.

l’età Del Bronzo (2.200-900 a.c.)

La rarità di reperti ossei di orso continua anche nell’età del Bronzo (“sparso, ma alquanto raro” annotava Pellegrino Strobel in uno dei primi studi sulle faune nelle terrama-re, i grandi abitati di XV-XIII secolo a.C. dell’Emilia, forse stupendosene a fronte della ricchezza nelle grotte che si iniziava a indagare, Strobel 1883), sempre per gli stessi motivi che abbiamo visto per il Neolitico, al punto che i reperti a nostra disposizione sono quasi solamente canini perforati alla base e usati come decorazione o qualche osso di zampa. L’eccezionale scoperta nella Grotta degli Orsi, nelle Alpi

Fig. 19. Ripartizione dei resti ossei di orso nel villaggio di Chalain nel XXXII secolo a.C. (da Arbogast - Méniel 2002, fig. 2).

Fig. 20. Il berretto in pelo di orso di Ötzi, l’Uomo del Similaun (da Sulzbacher 2001, p. 45).

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(orsi?) che meglio sagomati (uomini) negli abitati perila-custri del lago di Le Bourget in Savoia, dove per altro ci sono anche alcune rarissime statuette di lontra (Kerouan-ton 2002, fig. 14) (fig. 21). Più certa l’identificazione colla statuetta alta appena 4 cm, dalla fattura poco accurata, la testa assottigliata, muso appuntito, collo massiccio, corpo cilindrico, coda appena accennata, zampe posteriori cilin-driche, organi sessuali maschili fortemente evidenziati da-gli strati del 1.300-1.000 a.C. di Castellaro di Gottolengo, dove per altro c’è anche una piccola e grossolana figura di quadrupede che potrebbe essere un orso a quattro zampe (Barocelli 1970, p. 126 e fig. 29d,2; Salerno 2001, n. 38) (fig. 22).

Un discorso a sé ritengo costituiscano i canini, utilizzati come ornamenti nei corredi funerari di Bronzo Antico di Romagnano-Loc e della Vela di Valbusa e presenti in due esemplari anche nella terramara di Santa Rosa di Poviglio nel Bronzo Medio e Recente e alla Rocca di Rivoli (Nicolis 2000; Marzatico - Tecchiati 2002, fig. 1,22 e 29; Riedel 2004; Barfield 1976). Alla fine dell’età del Bronzo, tra XI e X secolo a.C., risale il frammento di omero di orso da Breolungi di Mondovì (Bedini 2001): anche qui una prova di uso alimentare? Non possiamo inserire in questo elenco i resti di orso rinvenuti nelle campagne degli anni ’70 nella grotticella della Boira Fusca a Cuorgnè (Fedele 1983, fig. 3): la frequentazione è molto lunga, con industria litica epipaleolitica, una sepoltura collettiva del Bronzo Antico, una moneta altomedievale e manufatti contemporanei. Al più, indica che questa grotticella è stata usata come riparo da un orso bruno. Un altro problema è che, essendo il corpo dell’orso piut-tosto tozzo e non caratterizzato da elementi particolari, come le corna di un bue o di un cervo, la testa e le zampe sottili di un cavallo, il muso e la criniera di un cinghia-le, diventa difficile rappresentare o riconoscere il grosso plantigrado nelle statuette ceramiche presenti in nume-rosi abitati della piena e avanzata età del Bronzo in Italia settentrionale e nell’arco alpino10. In particolare, possiamo chiederci se non fossero raffigurazioni di orsi eretti, e non di uomini, quelle statuette ritenute antropomorfe, con corpo in piedi, che hanno gli arti molto corti, sia le gambe che le braccia limitate a dei moncherini, la testa appena abbozzata e poggiante su un collo largo, a volte più del capo, su un corpo piuttosto lungo in proporzione. Ce ne sono così tra X e IX secolo a.C., sia con testa e arti tozzi

Fig. 21. Statuette fittili dai villaggi sommersi nel lago di Le Bourget: a sinistra, lontre, a destra, figure antropomorfe o orsi (da Kerouanton 2002, fig. 14).

Fig. 22. Probabile statuetta fittile di orso dalla terramara di Castellaro di Gottolengo (da Salerno 2001, n. 38).

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selvatici riguarda anche quelle specie che rappresentano il tipico carniere del cacciatore (cervo, cinghiale, caprio-lo), segno dell’importanza che riveste l’allevamento come fonte esclusiva dell’approvvigionamento di carne e che la caccia ormai è un’attività così particolare e aristocratica che probabilmente la consumazione della cacciagione e lo scuoiamento degli animali da pelliccia avveniva durante le stesse battute, senza pervenire negli abitati (Méniel 1987, pp. 89-94). Eppure, per la sua grande forza, l’orso è presente nell’ono-mastica celtica (Delamarre 2003, pp. 55-56) con nomi come Artus, che significa semplicemente “orso”, Artula, “orsetta”, misto tra la radice celtica e il vezzeggiativo fat-to alla latina, tant’è che in un’iscrizione questa è la madre di una Ursula pienamente latinizzata, il bel nome celtico Comartiorix “re degli orsi” e forse Artebudz, che sarebbe un composto con buddos o bussos, che significa “labbro” o “pene”, dalla credenza del vigore sessuale dell’orso e dalla presenza di un osso penico, attestato a Ptuj in Slo-venia, dove come vedremo ci sono delle statuette di orso. Ricordiamo che il nome del mitico re dei Britanni che si opponevano ai Sassoni invasori, diventato simbolo della cavalleria, Artù in italiano, Artorius nelle fonti antiche lati-ne, prende nome proprio dall’orso ...Un ruolo dell’orso nella religione celtica ci viene da alcune testimonianze più tarde, successive alla conquista roma-na, quando alcune antiche credenze erano rimaste sotto

i celti

Nell’età del Ferro, corrispondente in Italia ed Europa gros-so modo al I millennio a.C., l’orso è quasi del tutto assente nei contesti archeologici. Così non era di certo in natura, perché la copertura forestale era ancora notevole, para-gonabile a quella che sarà nel medioevo, ma rimangono validi i motivi per cui è poco attestato nelle età precedenti: le carcasse erano scuoiate e depezzate prima di portarle nei villaggi e così Patrice Méniel, nella disamina sulla cac-cia e l’allevamento dell’età di La Tène (450-52 a.C.) in Gal-lia lamenta appunto l’assenza quasi totale di resti d’orso, notando che “... contrairement à l’habitude, les indices sont d’autant plus réduits que l’animal est grand ...” (Méniel 1987, p. 93). Nella presentazione più dettagliata dei resti faunistici da specie selvatiche dagli abitati dell’e-tà del Ferro nell’area alpina e prealpina nordoccidentale (Svizzera, Francia orientale, Germania sudoccidentale) si evince che la percentuale di animali catturati e uccisi dalla caccia è minima (meno del 5% dei resti ossei nell’età di Hallstatt, 800-450 a.C., addirittura meno dell’1% per l’e-tà di La Tène, 450-50 a.C.: Schibler et al. 1999). L’orso è presente in sedici contesti su quaranta, ma la quantità di ossi è trascurabile: al massimo dodici a Berna e a Châtil-lon-sur-Glâne, per lo più una manciata. Purtroppo non ci viene detto di che parti anatomiche si tratta: denti, ossi delle zampe, crani ... Questa rarità di resti ossei di animali

Fig. 23. La statua della dea Artione e dell’orso (da Pastoureau 2008, fig. 5).

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ai Margini Del MonDo antico: i gerMani e l’europa Settentrionale,

gli Sciti e l’europa orientale

Come abbiamo appena detto, nella Germania settentrio-nale troviamo delle unghie e zampe di orso nelle tombe dell’età del Ferro. Per il resto, ammettendo di non aver avuto accesso alla ricca bibliografia sul mondo germanico, dal poco che ho visto anche lì gli orsi sono rari. Segna-lo che ci sono orsi raffigurati di profilo a quattro zampe nell’arte rupestre della Norvegia (Pentikäinen 2007, tav. X). Come per il mondo celtico, a questa povertà icono-grafica e archeologica si oppone la tradizione dei gruppi di guerrieri che si identificavano con gli orsi, i Berserkir, di cui però abbiamo testimonianza attorno al 1.000 d.C. in Scandinavia e che perciò mi pare eccessivo voler estende-re a tutto il mondo germanico protostorico (Pastoureau 2008, pp. 39-48). Al più, segnalo che tra III e IV secolo d.C. presso il popolo germanico orientale dei Taifali vigeva una forma particolare di servitù e soggezione dei giovani verso i guerrieri adulti, che si potevano liberare solamen-te uccidendo un cinghiale o un orso, evidentemente tra le due bestie più pericolose nel loro territorio (Ammiano Marcellino Hist., XXXI,9).Neanche presso gli Sciti l’orso ha molta fortuna, prefe-rendogli leoni, cervi e cinghiali. Questa popolazione delle steppe, famosa per la meravigliosa oreficeria, ci ha però lasciato alcune tra le più graziose raffigurazioni di orso: il bustino di un orsacchiotto, di certo senza simbologie di potenza o forza, con gli occhi sgranati, le orecchie alte, la boccuccia aperta e le zampine è stato raffigurato su delle piccole applique in argento ritrovate nel ricco corredo del-la tomba principesca della seconda metà del IV secolo a.C. di Agighiol in prossimità del delta del Danubio, simili alle testine su un coprinaso dal tumulo di Oguz, del IV secolo a.C. (I Daci 1997, p. 191; Schiltz 1994, p. 220, figg. 162 e 345) (fig. 25). Ben diverso, dalla bocca mostruosa, è in-

la nuova veste della romanizzazione. Il caso più famoso è quello della dedica ritrovata a Muri presso Berna alla dea Artione (appunto un derivato dal nome dell’orso) del-la donna Licinia Sibinilla, di II secolo d.C.: una scultura in bronzo dove su una base rettangolare si dispongono accanto a un albero un grosso orso a quattro zampe che rivolge il muso alla dea seduta, con alla mano destra una patera e sulle ginocchia un piatto pieno di frutti, mentre a fianco, a sinistra, su un pilastrino, è posato un cesto da cui escono dei vegetali (LIMC, II.1, p. 856-7, e II.2, tav. 628) (fig. 23). Altre dediche a Artione si trovano lungo il Reno, mentre nelle Alpi francesi, a Beaucroissant, è Mercurio che assume l’epiteto di Artaio (Jufer - Luginbühl 2001, p. 23; alcuni altri riferimenti in Green 1999, pp. 217-218). Al di là dell’omonimia e dei dati linguistici e religiosi, dob-biamo constatare che non ci risultano rappresentazioni di orsi nell’arte celtica, dove invece sono rielaborati leoni, grifoni e altri animali dell’iconografia mediterranea. Così nel famoso calderone di Gundestrup l’unico orso sarebbe sul piccolo disco del fondo, dove sono raffigurate le co-stellazioni del Toro, grande e centrale, Orione, la Lucertola o Dragone e in piccolo l’Orsa Polare, accoccolata, stando a una recente interpretazione (Goudineau - Verdier 2006, p. 71) (fig. 24). Nei riquadri a sbalzo del grande calde-rone d’argento, ritrovato in Danimarca e fabbricato nel nord della Penisola Balcanica attorno al 100 a.C., non ci sono orsi, pur di fronte a una ricchissima fauna mitica, con lupi, tori, cervi, delfini, cani, aquile, grifoni e perfino due elefanti. Il repertorio animale pare perciò rifarsi a quello greco classico, che rifugge, come vedremo, l’orso, forse troppo grossolano da rappresentare. Anche per i pochi ar-tigli di orso in alcune tombe in Gallia ritrovati come orna-mento o le ossa delle zampe incenerite, segno di un man-tello bruciato, la distribuzione dei ritrovamenti nell’antico Belgio (con qualche caso anche presso i Belgi emigrati in Britannia), con casi analoghi nella Germania settentriona-le, ci pare di poter vedere una tradizione germanica e non celtica (Arbogast - Méniel 2002, fig. 4).

Fig. 24. Il fondo del calderone di Gundestrup, con simbologie astrali: tra le zampe posteriori del Toro e la coda del Dragone, l’Orsa (da Goudineau - Verdier 2006, p. 71).

Fig. 25. Una delle applique in argento di Aghighiol (da I Daci 1997, fig. 165).

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Fig. 26. Cucchiaio in osso da Bice Oba sull’Ural (da Lebedynsky 2001, p. 235).

Fig. 27. Vaso bronzeo dalla necropoli etrusca dell’Occhio Bello di Bisenzio (da Gli Etruschi 2000, p. 541).

Un combattimento, o scena di caccia, è sulla faccia incisa (l’altra faccia è iscritta) di una delle stele di Novilara nelle Marche, della metà del VI secolo a.C.: due uomini armati di lancia affrontano un toro da un lato, un orso dall’altro, mentre sopra c’è un’apparente scena di combattimen-to tra due gruppi di armati sulle rive di un fiume (Piceni 1999, p. 244, fig. 402a) (fig. 28). La rappresentazione è molto sommaria, con la sola linea di contorno, ma dell’or-

vece la testa di un orso sul manico di un cucchiaio in osso di produzione sauromata da Bice Oba presso il fiume Ural (Lebedynsky 2001, p. 235) (fig. 26).

gli etruSchi e gli italici

Nel mondo etrusco-italico, prima dell’influsso dell’arte greca, si ha qualche immagine di orso, il carnivoro di mag-giori dimensioni della Penisola. Alla seconda metà dell’VIII secolo a.C. risale un vaso bronzeo dalla tomba 22 della necropoli dell’Occhio Bello di Bisenzio sul lago di Bolsena, usato come cinerario (Torelli 1997, p. 36, fig. 25) (fig. 27). La scena molto complessa è formata sul coperchio da un essere mostruoso, seduto, dalle ampie narici, con le zam-pe unghiate, con al collo una lunga catena, e tutt’attor-no una danza di sette guerrieri. Sulla spalla del vaso, altri nove guerrieri armati di scudo e di lancia (non conserva-ta), interrotti da un uomo preceduto da un bue che tiene per la coda o per una corda e da un uomo con lancia e mazza. La scena è stata interpretata da Mario Torelli come un rito funebre con guerrieri che danzano la pirrica e un bue condotto al sacrificio. Il mostro centrale sarebbe una figura infera, tuttavia suggerirei che prenda ispirazione da un orso o che sia un orso identificato come creatura infera (i tratti scimmieschi sono dovuti allo stile, piuttosto rozzo, delle sculture).

Fig. 28. Stele da Novilara (Piceni 1999, fig. 402a).

Fig. 29. Il mito di Caeculus infante (da LIMC, VIII.2, tav. 351).

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so, che è a quattro zampe, visto di profilo, si sono voluti tracciare, con due brevi tratti, la bocca e un orecchio.Al margine del mondo italico, devo segnalare che non risultano immagini di orsi nelle raffigurazioni di cacce nell’arte rupestre della Val Camonica. Tornando all’Italia peninsulare, non manca un mito se-condario, quello di Caeculus, eroe di Preneste nell’antico Lazio, che sarebbe stato allevato da una leonessa (LIMC, VIII.1, p. 544; Grimal 1990, p. 112, non riporta la tra-dizione della fiera che diede ospitalità al bambino) (fig. 29). Tuttavia il particolare che il nome dell’eroe significhi “cieco” (come si pensava fossero gli orsacchiotti appena nati, come si legge nel testo di Plinio qui riportato in ap-pendice) e la raffigurazione sui piedi di una cista di bron-zo, di fine V secolo a.C., ora a Berlino, in cui l’eroe infante è allevato da una fiera dalla criniera, che voltata gli lecca il fondo della schiena (e Plinio scrive che gli orsacchiotti, nati informi, prendono il loro aspetto sagomati dalla lin-gua della madre), ci fa chiedere se all’origine la belva non fosse un’orsa e solamente più tardi sostituita dai mitografi nella più nobile ed esotica leonessa.

i greci

Delle culture dell’antica Europa, quella presso la quale l’orso ha goduto di meno fortuna è la Grecia. È impressio-nante come, in una tal ricchezza di miti, di raffigurazioni artistiche, di testimonianze letterarie, l’orso non compaia che poche, rarissime volte. Addirittura nella loro lingua, così ricca e creativa, hanno formato da árktos “orso” so-lamente 13 parole (escludendo i pochi toponimi e nomi propri di persona), contro 33 da lýkos “lupo” e quaran-tasei da léõn “leone” (conteggi effettuati in Montanari 1995). Nessun eroe affronta orsi, neppure Ercole che ha com-battuto contro mostri, leoni, tori, cervi e perfino cavalli carnivori. Quest’assenza per altro coinvolge anche i lupi, forse si tratta di animali per quanto feroci ritenuti troppo comuni ed ordinari. Ma ciò che colpisce ancora di più è la quasi totale assenza di metamorfosi di uomini e semidei in orsi. Si sa che una delle caratteristiche dei miti greci è la trasformazione del protagonista in un animale, un albero, un elemento naturale. Ebbene, solamente in un caso si ha l’eroina trasformata in orsa (Pastoureau 2008, pp. 24-33; Pentikäinen 2007, pp. 16-19). Callisto è una ninfa o la figlia di Licaone, re dell’Arcadia. Avendo fatto voto di ver-ginità, era nel gruppo di compagne di caccia di Artemide tra i boschi e i monti. Zeus se ne innamorò e si unì a lei ingannandola dopo aver assunte l’aspetto di Artemide o di Apollo. Generò un figlio, Arcade, e fu uccisa da Arte-mide perché irritata dal voto infranto o perché istigata da Era gelosa. Zeus la trasformò nella costellazione dell’Orsa Maggiore, oppure fu mutata in orsa per punizione da Ar-temide o da Zeus per sottrarla alla vendetta di Era (Grimal 1990, pp. 102-103). Il figlio Arcade a sua volta, dopo aver regnato sui Pelasgi del Peloponneso che da lui prenderan-no nome di Arcadi, sarà trasformato nella costellazione di Arturo, il Guardiano dell’Orsa, perché mentre era a caccia attaccò un’orsa, non riconoscendovi la madre, e per cat-turarla entrò in un tempio sacro a Zeus Licio (cioè dei lupi): il dio per impedire il matricidio o per evitare che fossero puniti per il sacrilegio, li fece diventare due costellazioni

Fig. 30. Il mito di Callisto: a) e b) l’inizio della metamorfosi in vasi apuli; c). Arcade incontra Callisto trasformata in orsa, mosaico di età romana (da LIMC, V.2, tavv. 604 e 605).

(Grimal 1990, pp. 57-58). Di questo mito le raffigurazioni della metamorfosi sono pochissime e limitate alla Puglia tra il 380 e il 370 a.C.: su un frammento, resta solamente la testa della fanciulla e le dita che diventano zampe, in una oinochoe invece Callisto, seduta, dai capelli ormai ir-suti si guarda una mano che si trasforma in zampa (LIMC, V.1, pp. 940-944 e VI, 2, tav. 604). L’incontro tra Callisto e Arcade è in un mosaico a Italica in Spagna, tra II e III secolo d.C., con il giovane che scaglia il giavellotto contro l’orsa (LIMC, V.1, pp. 940-944 e VI, 2, tav. 605); credo che però qui più che la raffigurazione di un mito si abbia a che fare con uno spettacolo del circo che mette in scena la vicen-da, come vedremo accadere in età romana (fig. 30). Le al-tre comparse di orsi sono poca cosa11. In una versione del mito, il bambino Paride, esposto sul monte Ida per ordine del padre Priamo di Troia perché gli era stato predetto che da lui sarebbe venuta la rovina della città, fu allevato per alcuni giorni da un’orsa prima di essere raccolto da alcuni pastori (Grimal 1990, p. 481). Il nonno paterno di Ulisse, il padre di Laerte, era Arcisio, figlio dello sfortunato eroe Cefalo e di un’orsa, con la quale si era unito per obbedire all’oracolo di Delfi (Grimal 1990, pp. 113 e 626). Un’altra fanciulla della schiera di Artemide ha un mito con un orso: in Tracia Polifonte che, ispirata da Afrodite irritata per la sua verginità, si innamorò di un orso e da questo ebbe due figli, Agrio il selvaggio e Orio il montanaro, in una grotta dove si era nascosta per sfuggire allo sdegno di Artemide (Grimal 1990, p. 522). Si evoca spesso il culto di Artemide nel santuario di Brau-ron, nell’Attica, dove le fanciulle che compivano il rito, al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, erano chiama-te orse, ma devo ammettere che del sacrificio di orse al termine del rito, menzionata da alcuni autori moderni, non ho trovato riscontro nei testi antichi (RE, III,1, cc.

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oggetti di vita quotidiana come le lucerne e ceramica o i piccoli bronzi, segno di una familiarità e di una certa popolarità della belva, che doveva essere la più frequen-te negli spettacoli del circo. Ad esempio nella ceramica sigillata della Gallia della seconda metà del II secolo d.C. spesso compare un cavaliere attaccato o che attacca la grossa fiera (Stanfield - Simpson 1958)12. È da notare che il cavaliere è armato di spada e non di lancia ed è sem-pre voltato indietro o tira di fianco, più come se si stesse difendendo che se fosse un cacciatore, il che mi fa pen-sare che si tratti in realtà di uno spettacolo nel circo, con la trasposizione mitica nella raffigurazione del centauro (Stanfield - Simpson 1958 p. 214, tav. 123, 42; p. 35, tav. 40,469; p. 188, tav. 100,1 e 3; p. 194, tav. 106,22; p. 184, tav. 98,14; p. 161, tav. 83,9 e 10; p. 165, tav. 85,3; centauro a p. 263, tav. 163,75); non mancano per altro le scene di dannati ad feras (Stanfield - Simpson 1958, donna dannata ad beluas con orso p. 248, tav. 145,8). Per altro, i dati etnografici mostrano che la caccia all’orso effettuata a cavallo è nettamente minoritaria (6,72% per le popolazioni di cacciatori-raccoglitori dell’Asia e dell’A-merica subartica, il che può aver inciso in negativo sulla percentuale) e che comunque sono lancia o picca le armi per uccidere la belva (Binford 2002). Con più sicurezza abbiamo episodi di caccia quando ci sono degli orsi che fuggono; da notare che invece è piuttosto raro che siano leoni a fuggire: è forse una testimonianza di realismo, es-sendo l’orso presente e cacciato in Gallia, mentre il leone è importato e caratterizzato da numerosi valori mitologici e di prestigio? Altre volte, con orsi in coppia che attaccano cervi, si vede un episodio naturale (Stanfield - Simpson 1958, p. 161, tav. 82,5). Sulle lucerne possiamo vedere orsi in fuga, orsi che balzano o attaccano cervi, semplici teste, orsetti rappresentati come piccoli animaletti pelosi e dal muso abbassato (Bonnet 1988, p. 73, fig. 20; Di Filip-po Balestrazzi 1988, nn. 277, 400, 402,403, 649; Larese - Sgreva 1997, n. 288; 1997, n. 153; Di Filippo Balestrazzi 1988, n. 571) (fig. 33). Non mancano orsi sull’artigianato artistico, come la termi-nazione a testa ursina (e non di cane, come scrivono gli

824-825; Strabone IX,399; Pausania I,23,7; Euripide Iph. Taur., 1466; Aristofane Lysisistr. 465; Erodoto VI,138; Pa-stoureau 2008, pp. 27-28; Pentikäinen 2007, pp. 19-20). E comunque, anche qui se mai all’origine c’era un culto con orsi, come apparirebbe dalla terminologia, non pare lasciare tracce evidenti nei resti archeologici. Elinor Bevan ipotizza che l’immissione dell’orso nel culto di Brauron possa essere piuttosto recente e di origine peloponnesia-ca, rilevando che le poche immagini del santuario attico raffigurano uomini e giovanette nei riti, mentre inaspet-tatamente manchino gli orsi, come mostra la scheda di Lilly Kahil sull’iconografia di Artemide (LIMC, II.1, pp. 676-677) (fig. 31). Infatti l’orso è negletto non solo dal mito ma anche dall’arte greca. Sarebbero solamente sette i templi e santuari nei quali sono state rinvenute immagini di orsi e di questi tre erano dedicati ad Artemide (Bevan 1986, pp. 18-27). Un rilievo da Claros, forse proveniente in realtà dall’Acropoli di Atene, e alcuni elementi del grup-po scultoreo della statua di culto di Artemide a Brauron si datano al V e IV secolo a.C. L’orso potrebbe essere un in-flusso del culto di Artemide Orthia, preposta alle nascite, originaria dell’Arcadia. Sono miti secondari, particolari. E per il resto, non mi risultano orsi nella pittura su ceramica sia in Grecia che in Italia, tranne quei due vasi apuli dove però non abbiamo un orso, ma l’inizio della metamorfosi di Callisto, limitandosi a una zampa e ai capelli irsuti.

il MonDo roMano

Nemmeno nel mondo romano l’orso ha fortuna nelle immagini sacre, facendomi segnalare al più a Teurnia, nell’attuale Austria meridionale, un’immagine di Diana nel suo aspetto di Nemesi, davanti a due bestiarii (i gla-diatori specializzati nei combattimenti con gli animali) che attaccano un orso (LIMC, VI.1, p. 766 e VI.2, tav. 447) (fig. 32): dedica di gladiatori o di appassionati ai giochi del circo, senza legami al culto della dea. Della dea Artione e di Mercurio Artaio in Gallia abbiamo già visto.Le scene di caccia all’orso si fanno più frequenti sugli

Fig. 31. Artemide e le bambine “orse”: a sinistra, statua fittile da Corfù; a destra, rilievo in marmo da Brauron (da LIMC, II.2, tav. 504).

Fig. 32. Rilievo di Nemesi Diana (da LIMC, VI.2, tav. 447).

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editori) di una chiave di bronzo da Concordia in Veneto, di I-II secolo d.C. (Antichi bronzi di Concordia 1983, p. 44) o su anelli da Aquileia e da Poetovium/Ptuj scolpi-ti nelle perle d’ambra (dalla stessa località abbiamo già segnalato il personale Artebudz), dove troviamo animali tozzi proni, con muso corto e fitto pelame, dalla coda corta, da alcuni interpretati come cani ma che mi paiono essere evidentemente degli orsi (Gaggetti 2001, nn. 119-124). Non ci sono incertezze sull’identificazione con orsi, invece, per la piccola scultura in ambra deposta tra l’80 e il 100 d.C. nel ricco corredo della tomba 1 della necropoli di Ulpia Noviomagus nella Germania Inferiore (oggi Ni-mega in Olanda), con l’orso dalla testa e la zampa rivolte verso l’alto e un foro sul dorso per l’inserimento su un supporto (Koster 2007) (fig. 34). Si ha qualche esempio anche nel ricco vasellame d’argento delle Gallie, in scene dionisiache, adatte al contesto (appunto, servizi da ban-chetto) come l’orso seduto accanto a un asino che scalcia

Fig. 33. Lucerna romana (da Larese - Sgreva 1997, n. 153).

Fig. 34. Orso in ambra (da Koster 2007).

sul frammento di orlo di un piatto di bronzo ricoperto di argento da Saulzoir, nel nord della Francia, della prima metà del III secolo d.C., oppure l’orso che insegue due antilopi o giovani cervi nel fregio di animali della situla prodotta nella Germania Inferiore tra il 150 e il 175 d.C. da Otterstadt nel Palatinato, o ancora il combattimento tra due orsi, uno che balza in attacco, l’altro in difesa a testa bassa, separati da un albero, in una scena silvestre con amorini danzanti, di II-III secolo d.C. trovati nel tesoro di Thil in Aquitania (Baratte 1989, nn. 106, 123, 197). Infine, erano il tipico soggetto dionisiaco del tiaso con il carro tirato da due fiere che avendo la testa che termina in una punta affusolata potrebbero essere orsi (Dragendorff - Watzinger 1948, tav. 15, 161).Con l’età imperiale le raffigurazioni di orsi diventano par-ticolarmente frequenti sui sarcofagi e sui mosaici degli edifici pubblici e privati. Eppure anche qui non si tratta di rappresentazioni di episodi mitici (escludiamo da questo la scena di Orfeo tra le fiere, che appare un catalogo delle specie animali selvatiche, o peggio, come vedremo, una sorta di spettacolo nel circo: LIMC, VII.1, pp. 81-105, e VII.2, tavv. 57-77) (fig. 35), ma legate a momenti della vita reale antica, o almeno a quegli aspetti ritenuti parti-colarmente prestigiosi dai committenti: scene di caccia o di spettacoli nel circo. In una generale scarsa attenzione verso il mondo naturale se non antropizzato, tipico della cultura antica, la caccia è forse l’attività umana che più di tutte ci dà immagini dell’ambiente antico. È da questi contesti che si può intravvedere quale fosse la concezione della natura per gli antichi e in ciò gli animali sono raffi-gurati o perché prede o perché ornamento di giardini o perché al più oggetto di curiosità. Gli orsi non sono che grossi animali, spesso presenti nelle foreste come prede o avversari, o come semplici comparse. Nella villa di età costantiniana di Antiochia, nel grande mosaico ora al Louvre, l’orso è la preda di tre cavalieri assieme alla tigre e al leone, quasi fossero la terna di fiere del migliore cac-ciatore (Dorigo 1966, p. 196, fig. 148). Sempre da An-tiochia, ma ormai nel VI secolo d.C., nel grande Mosaico della Caccia Worcester si cacciano molte fiere, soprattutto leoni, e vi è anche una scena di rapimento di un tigrotto, dopo aver allontanato la madre: gli orsi sono in disparte, abbattuti con una lancia al collo, con un orsacchiotto so-litario, forse destinato ad essere rapito dai cacciatori per essere condotto in un serraglio (Parrish 2005, fig. 5) (fig. 36). Nemmeno nella villa siciliana di Piazza Armerina gli orsi paiono rivestire grande importanza. Mancano nelle grandi venationes (le cacce simulate nelle arene) e nelle catture di animali, così come nelle scene complesse (tran-

Fig. 35. Mosaico di Orfeo tra le fiere, da Blanzy-lès-Fismes, inizi del IV secolo d.C. (da LIMC, VII.2, tavv. 57-77, n. 111)

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presente (quasi un terzo) è infatti il leone, sia maschio con la criniera, che femmina, e addirittura qualche piccolo, e non mancano le pantere. È evidente qui che la caccia è in-tesa come attività prestigiosa per la nobiltà dell’animale e il riferimento a miti di antichi eroi. Maggior legame con la realtà hanno invece le cacce al cinghiale (un quarto delle raffigurazione) e al cervo (un quinto), mentre non man-cano, seppur poco numerosi, lepri, tori (ricordiamo che la forma selvatica, l’uro, era ancora presente nell’Europa centrale, oltre ai miti che vedono bovini come protago-nisti) e nelle regioni mediorientali e africane onagri (asini selvatici), struzzi ed antilopi. Ci sono anche alcuni elefanti, aquile e serpenti ... Ma se andiamo a vedere i carnivori europei, ecco che non c’è nessun lupo, forse perché con-fondibile con il cane, o piuttosto con l’animale simbolo di Roma, e gli orsi sono tutto sommato rari, se teniamo conto del fatto che si tratta dell’animale più pericoloso del nostro continente: appena il 7%. Molto spesso l’orso è presente in complesse scene di caccia dove la parte prin-cipale è tenuta da altre fiere come il leone o addirittura il cinghiale. Così attorno al 300 d.C. su sarcofagi da Cahors e Bourges in Gallia ci sono scene di caccia al cinghiale e al cervo, con un orso in fuga che si volta per far fronte all’at-tacco di un cavaliere. Un episodio di caccia a un gruppo di orsi effettuato da cavalieri con torme di cani è su un sarcofago a Palazzo Lancellotti a Roma, del 320-330 d.C.: due orsi affrontano i cavalieri, un altro in fuga, di un altro già abbattuto non compare che la testa a terra (fig. 39). Sempre a Roma, su un sarcofago di fine III secolo d.C. a Villa Doria Pamphilj, all’estremità sinistra ci sono due orsi, uno dei quali azzanna un vitello, forse usato come esca; comunque sia, nella stessa scena i cacciatori affrontano anche due cinghiali (fig. 40). Stesso realismo in un sar-cofago coevo da Ostia, in cui un orso è attaccato da un cacciatore mentre un cane gli è balzato sul dorso. Non è raro per altro che l’orso non solo sia un mero comprimario in una scena con i più nobili leoni o con il cinghiale, ma addirittura che sia ridotto ad animale già ucciso, facendo solamente capolino con la sua testa tra la vegetazione o tra le gambe di cacciatori e fiere: è valida anche in questi casi l’osservazione che il corpo tozzo e grosso dell’orso sia

ne che tra le molte fiere nella scena di Orfeo nell’ambiente 35 e due orsi che balzano nel peristilio attorno al cortile, ma si tratta ancora di poca cosa). Abbiamo però 13 teste di orso, viste di profilo, tra i 156 medaglioni con teste di animali nel peristilio dell’ambiente 19d, così come altre teste sono all’interno di volute vegetali nell’ambiente 46c: mere decorazioni (Carandini et al. 1982, pp. 128, 138, 300, fogli VII-XIV, XV, XLV) (fig. 37). Anche se consideriamo le scene di caccia sui sarcofagi, prevalentemente di III e IV secolo d.C., vediamo però su-bito come anche in queste rappresentazioni prevalgano le convenzioni artistiche e culturali (Andreae 1980, pp. 143-185 e 195)13 (fig. 38). L’animale di gran lunga più

Fig. 36. Scena del Grande Mosaico della Caccia Worcester da Antiochia, VI secolo d.C. (da Parrish 2005, fig. 5).

Fig. 38. Percentuali degli animali cacciati nei sarcofagi romani (dati da An-dreae 1980, p. 195).

Fig. 37. Mosaico dall’ambiente 19d della villa di Piazza Armerina (da Caran-dini et al. 1982, p. 156)

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Metamorph. IV,13; Plinio Nat. Hist. VIII,131). Marziale, nel suo opuscolo dedicato ai giochi nel Colosseo, ci descrive supplizi e spettacoli che vedono orsi come protagonisti, che anzi sono tra le fiere le più numerose, più di leoni e tigri che pur prevalgono nel nostro immaginario e nelle molte scene sui mosaici (Marziale L. spect. VII, XI, XV, XXI,

poco elegante da rappresentare rispetto a un felino o a un irsuto cinghiale? Lo stesso si può dire per gli spettacoli nel circo, dove appunto gli orsi erano ben presenti, ma nelle rappresentazioni si preferiscono i più eleganti leoni (Augenti 2001, nn. 14, 16, 17, 18, 31). La forma di intrattenimento più comune erano le vena-tiones, ovvero delle rappresentazioni nell’arena di cacce dove gli orsi erano catturati come se fossero nelle foreste. Gli orsi erano tra le belve di più facile reperimento alme-no in Europa, come è attestato da numerosi testi lette-rari, forse meno soggetti agli stereotipi e ai modelli delle iconografie. Uno spettacolo particolarmente complesso è raffigurato su un rilievo a Sofia, dove orsi combattono contro tori, pugilatori, condannati a morte e addirittura un coccodrillo (Augenti 2001, pp. 45-46) (fig. 41). Su una pedana, un orsacchiotto con la testa coperta da una maschera di scimmia è seduto circondato da bambini o pigmei, anch’essi mascherati. Interessante uno degli spet-tacoli, dove dietro una porta girevole, la cochlea, cerca di nascondersi un condannato: questo serviva a far infuriare ancor di più l’orso, che attaccava inizialmente vanamente il pover’uomo che credeva così di potersi proteggere per un poco (fig. 42). Gli orsi probabilmente ancora dalle fitte foreste e dai monti dei Balcani erano stati radunati dal ricco greco Democare nel II secolo d.C., come vedremo tra poco, e nel 61 a.C. se n’erano portati a Roma ben 100 dalla Numidia, tra le attuali Tunisia e Algeria (Apuleio

Fig. 39. Sarcofago romano da Palazzo Lancelotti a Roma (da Andreae 1980, tav. 107,2).

Fig. 40. Sarcofago romano da Villa Doria Pamphilj a Roma (da Andreae 1980, tav. 95,1).

Fig. 41. Rilievo con scena di spettacolo nell’arena da Sofia (da Augenti 2001, p. 45).

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XXI): lo sfortunato Laureolo, condannato a morte, è lega-to a una croce dove viene dilaniato da un orso della Cale-donia (l’odierna Scozia, dove gli orsi sono ormai estinti da secoli), tragica fine che subisce anche da parte di un’orsa un musico nella parte di Orfeo, fino a suscitare la tetra battuta che la belva era stata mandata da Euridice; nei combattimenti tra animali, che più erano interessanti più portavano bestie rare o che in natura non si sarebbero mai incontrate, un orso viene scaraventato in aria da un rino-ceronte, che fa fare la stessa fine a due manzi, un bufalo e un bisonte, mentre un leone per sfuggirgli preferisce essere infilzato dai giavellotti, oppure un altro è ucciso dal cacciatore Carpoforo assieme a un leone e un leopardo (e Marziale non perde l’occasione di fare un gioco di parole tra l’orso e il punto cardinale Artico, da dove proverreb-be). Di tutti gli epigrammi, però quello che ritengo essere il più interessante è quello dove si ricorda il buffo spetta-colo della cattura di un orso, deridendolo mentre furioso si impiastriccia nel vischio non riuscendo più a fuggire: il riso viene suscitato dal fatto che il grosso animale è cat-turato come se fosse un uccelletto. E quattro secoli dopo è buffa anche la scena di combattimento nel circo nel dittico di Areobindo (Spätantike und frühes Christentum 1983, pp. 637-639). I consoli alla fine dell’Impero erano soliti celebrare la loro nomina con due tavolette di avorio, legate tra di loro (i dittici), sulle cui facce erano scolpiti i ritratti degli imperatori, scene allegoriche, il console e i suoi famigliari o altre scene, comprese quelle dei giochi nel circo e le corse delle bighe che erano offerte dal ma-gistrato appena nominato. Il console Areobindo nel 501 d.C. fa incidere un dittico con su una faccia una venatio di leoni, sull’altra invece una scena con orsi, uno dei quali attacca una sorta di gabbia sferica, un altro un uomo ar-mato, un terzo invece si accascia mentre viene colpito dal calcio di un cavallo e un uomo si nasconde dietro una por-ta, probabilmente la cochlea che abbiamo già incontrato nel rilievo di Sofia (fig. 43): è sempre e solo con l’orso che si induce a scene anche comiche nel circo, mentre ne sono esenti i nobili leoni e le rare tigri. In altri dittici si hanno invece delle scene tipiche di caccia all’orso, come quello al Louvre del 400 d.C., che era affrontato con la picca, oppure catturato mettendogli un cappio al collo, mentre si osserva che a volte due esemplari possono combattere tra di loro, in piedi (Alföldi-Rosembaum 1983, fig. 4) (fig. 44). Per altro, i casi in cui l’orso è ritto e stante sulle zampe posteriori (ovvero non è appoggiato al corpo dell’uomo

Fig. 42. Particolare del rilievo con scena di spettacolo nell’arena da Sofia: un orso e un condannato separati dalla cochlea (da Augenti 2001, p. 46).

Fig. 44. Il dittico al Louvre, 400 d.C. (da Alföldi-Rosembaum 1983, fig. 4).Fig. 43. Il dittico di Areobindo, 501 d.C. (da Roma e i barbari 2007, p. 211).

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tacolo, così come altri miti che vedono eroi o pastori tra le belve, primo tra tutti Paride, che abbiamo detto essere legato a antichi miti di orsi. Così, il grande mosaico nelle Terme Occidentali dell’isola greca di Coo, di III secolo d.C., ha nel quadro centrale il giudizio di Paride, mentre nel bordo vi è un fregio continuo di scene di caccia a orsi, tori, cinghiali e cervi (De Matteis 1994). Sono gli orsi le belve su cui cadono le attenzioni dell’artista, ben 11, af-frontati da cacciatori a piedi con stocchi o a cavallo, in diversi momenti e atteggiamenti della lotta. Che si tratti di uno spettacolo circense e non di un semplice mito si capisce dal fatto che dei nomi sono scritti a fianco sia dei cacciatori che degli orsi, come se fossero delle celebrità. D’altra parte, la scena del giudizio di Paride come introdu-zione agli spettacoli nell’arena è ben descritta da Apuleio (Metamoph. X, 30-34). Oppure per la nascita di Afrodite nella conchiglia tra le spume del mare, eccola nel grande mosaico di età Severa di Zeugma, sull’alto Eufrate, firmato da Zosimo di Samosata (Darmon 2005, fig. 10). Il quadro centrale ha Afrodite nella conchiglia, attorno c’è una sce-na di caccia di amorini contro leoni, pantere e antilopi, ma anche un orso in fuga ed un altro che affronta un amorino armato di lancia e scudo: è evidente che qui si è preferito volgere in decorazione e scherzo la reale venatio con i gladiatori sostituiti dai puttini (fig. 45).Ma si tratta di spettacoli e non di vere e proprie rappre-sentazioni di miti, anche perché gli orsi sostanzialmente mancano nel mito greco, come abbiamo visto. Tutt’al più gli orsi compaiono nelle ricche decorazioni con sfondo naturalistico di mosaici, pitture murali o di alcuni sarco-fagi. In questi, un carattere particolare prendono le scene dove i personaggi principali sono amorini che cacciano o combattono. È evidente che non si tratta più di episodi mitici, ma di allegorie e scherzi e decorazioni. Di tutti que-sti, credo che il più bell’esempio sia un sarcofago a New York del 120-130 d.C. dove gli amorini sono su bighe o a cavallo: ma gli animali al giogo o montati sono fiere come orsi, leoni e leonesse, tigri, cinghiali, capri (Kranz 1984, cat. 316, p. 244, tav. 90, 2) (fig. 46). Nelle decorazioni pit-toriche di Pompei, eccone una di IV stile con un amorino che combatte con la lancia contro un orso (Barbet 1985, p. 199, fig. 141).

o dell’animale che sta attaccando) o colpisce con le sue possenti zampe anteriori sono molto rari quasi evitando confronti con l’uomo. Plinio ne accenna di sfuggita ed aggiunge che anche quando scende dagli alberi lo fa al contrario, come gli uomini (Plinio Nat. Hist. VIII,130, vd. anche qui l’Appendice). Al più l’orso è rampante, come quando attacca un gladiatore armato di scudo o balza al collo di un toro o di cervo, e conosco solamente un caso in cui è raffigurato senza davanti un avversario o una preda su un vaso in ceramica sigillata (Stanfield - Simpson 1958, p. 40, tav. 44, 514). Torniamo un attimo all’epigramma in cui nel circo un dannato nella parte di Orfeo tra le belve è sbranato da un’orsa. Se all’inizio ho detto di scartare il mito di Orfeo, è perchè occorre ricordare questo tipo di condanna e spet-

Fig. 45. Mosaico con Afrodite e amorini a caccia, da Zeugma (da Darmon 2005, fig. 10).

Fig. 46. Sarcofago romano con corsa di carri guidati da amorini e tirati da belve (da Kranz 1984, tav. 90,2).

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cittadino, con gladiatori e belve cui far sbranare dei con-dannati. Tutta l’attenzione andava su delle orse, alcune acquistate, altre regalate al munifico cittadino, ma le more dell’organizzazione, sotto la canicola estiva, fecero morire le belve, fiaccate dall’inerzia e da un’improvvisa epidemia. Il popolino si buttò sui corpi delle grosse fiere, ormai ridot-te a “relitti ferini di corpi semivivi”. I briganti escogitarono allora un piano per derubare il ricco ma sfortunato Demo-care e si presero la bestia di maggiori dimensioni per man-giarsela tra di loro. L’orsa fu scuoiata e ne trattarono la pelle, ben conservando la testa e gli artigli. Le carni furono mangiate avidamente dai complici che quindi giurarono che il più coraggioso tra di loro e “non necessariamente il più forte” avrebbe rivestito le spoglie della belva per entrare nella casa, facendo credere ai ricchi proprietari e ai servi che fosse l’unica belva supersite. Che la carne d’or-so fosse consumata non pareva essere una cosa strana, perché la giustificazione dei ladri per prendersi la fiera era proprio un uso alimentare. Fu scelto, per mascherarsi da orso, Trasileone, il cui nome però significa “ardito come un leone” (e di nuovo l’orso passa in secondo piano di fronte al grande felino) ... Il falso animale fu accolto nella ricca casa di Democare, che così sperava di por rimedio al disastro dello spettacolo fallito. Nella notte il furfan-te travestito da orso uscì dalla gabbia, uccise i servitori vicini e fece entrare i complici, confidando che nessuno sarebbe intervenuto vedendo una tale belva furiosa per la casa. Tuttavia la servitù fece fronte al pericolo e circon-dò il falso orso, infilzandolo con stocchi e scatenandogli contro i cani. Trasileone morì sbranato, ucciso e dilaniato come un orso, combattendo come un orso. Al di là della connotazione picaresca dell’episodio, tipica dei romanzi antichi, emergono subito alcuni elementi che si rifanno a più antiche credenze e tradizioni: l’episodio avviene in Grecia, nella Penisola Balcanica, e non nell’Africa di cui è originario Apuleio; i briganti si cibano delle carni dell’or-so, come in molte popolazioni nei riti dell’orso allevato o mangiato da cacciatori e guerrieri (pensiamo ai riti siberia-ni e ainu); dell’orso si tengono la testa, la pelle e gli artigli, con i quali si riveste un uomo che non solo combatterà da orso, ma sarà un vero e proprio orso, fino a morire come avrebbe fatto la fiera. Eppure in tutta questa relativa ricchezza di attestazioni artistiche, i resti ossei di orsi rimangono molto rari, come già nelle età precedenti. Mi viene in mente, ad esempio, il frammento di mandibola rinvenuta in uno strato romano tra terzo e ultimo quarto del I secolo a.C. del chiostro del medievale monastero della Visitazione a Vercelli (Cavallo 1996). Quali fossero i numeri delle stragi di animali che abbia-mo visto raffigurati su mosaici e sarcofagi ci è noto dal-le fonti storiche, che si stupiscono e compiacciono della magnificenza degli spettacoli con decine di fiere in età tardorepubblicana e centinaia e migliaia di belve in età imperiale. In un saggio sull’impatto delle attività umane antiche sulla natura, come inquinamento, estinzioni, di-struzioni ambientali, sfruttamento eccessivo delle risorse, Karl-Wilhelm Weeber presenta i dati letterari ed epigrafici degli spettacoli del circo (Weeber 1991, pp. 102-117). Al di là dei numeri enormi, sarebbe importante poter capire quanto questi massacri abbiano influito (ovviamente ne-gativamente) sulle popolazioni naturali. Non pare tuttavia che l’orso ne abbia risentito in maniera definitiva, perché

Con il tardoantico ci sono alcune immagini meno crudeli e anzi a volte anche buffe, come l’uomo che cerca di scac-ciare a sassate un orso penetrato in un frutteto raffigurato su un capitello di Vienne nella Gallia meridionale alla fine del IV secolo d.C. (Lavagne 2003, p. 140, n. 324, tav. 211) o l’orso seduto sulle zampe posteriori verso il quale un Si-leno spinge un caprone, in una ricca decorazione vegetale con fiere, nel mosaico del Sileno legato di El-Jem in Tunisia (Malek 2005, fig. 4).Con il cristianesimo della tarda antichità, in Oriente com-pare ancora qualche orso, oltre che nei mosaici con scene di caccia e spettacoli del circo, ancora tanto popolari. Ma gli esempi sono pochi, forse perché inizialmente la belva mal si presta al simbolismo della nuova religione. Ecco un orso nella chiesa di San Cristoforo a Kabr-Hiram nel 575 d.C. (Kier 1970, p. 70, fig. 285) o attorno al 530 d.C. nel memoriale di Mosé sul Monte Nebo in Giordania ritrovia-mo la solita scena di caccia alle fiere con un cavaliere che con la lancia attacca un orso voltato (Parrish 2005, fig. 14) (fig. 47) o sempre sul Monte Nebo, nella chiesa del diacono Tommaso, il combattimento tra un orso a quattro zampe e un uomo armato di spada e scudo, vicino a una vigna dove un vignaiolo è tra le viti che si arrampicano agli alberi (Balmelle - Brun 2005, fig. 3). Tutto sommato poca cosa, fino a quando non avremo in Piemonte l’orso che danza con l’uomo a Casale Monferrato (Kier 1970, p. 66).Un episodio assai interessante, riguardante orsi da usare negli spettacoli circensi ma anche immedesimazioni tra uomini e orsi, è narrato da Apuleio nel suo romanzo “L’a-sino d’oro o Le metamorfosi” della metà del II secolo d.C. (Apuleio Metamorph. IV,13-21). Dei briganti raccontano che un giorno a Platea in Grecia si stava allestendo un grande spettacolo al circo pagato da Democare, un ricco

Fig. 47. Mosaico con scena di caccia dal Monte Nebo in Giordania, 530 d.C. (da Parrish 2005, fig. 14).

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la popolazione e portato a mettere a coltura aree in pre-cedenza a bosco. La distruzione dell’ambiente naturale, la competizione dell’uomo, la scomparsa di territori che non solo gli davano alimenti ma anche rifugio hanno con-dotto all’estinzione dell’orso. In questo esito inglorioso, sono testimonianze preziose quelle che mostrano come l’orso diventasse un alimento, quando catturato, negli scarti e tra i rifiuti alimentari di numerosi siti medievali nel Cuneese, come nella torre di Santo Stefano Belbo e nel castello di Manzano a Cherasco; un cranio spaccato sagittalmente tramite fendenti è stato trovato nel castello di Montaldo di Mondovì nelle fasi di XVI secolo d.C. (Sciol-la - Aimar 1992; Bedini 1995; Aimar et al. 1991) (fig. 48). Infatti secondo gli antichi statuti e regolamenti comunali

nel medioevo nel nostro continente sarà straordinaria-mente abbondante, fino all’età moderna quando i fucili e la completa antropizzazione del territorio ne provoche-ranno la pressoché completa estinzione in Europa occi-dentale e meridionale, tranne alcune popolazioni relitte nei recessi marginali delle catene montuose. Eccone i dati spaventosi, anche se può darsi che con l’andar del tem-po i numeri riportati non siano affidabili ma gonfiati dalla propaganda: nel 168 a.C. Publio Cornelio Scipione Nasica e Publio Lentulo mostrano a Roma 63 belve africane e 40 tra orsi e elefanti (questi ultimi prede di guerra dagli eser-citi dei re ellenistici orientali), Gordiano I (238 d.C.) offre 100 leoni, 1000 orsi, 200 cervi, 150 cinghiali, 300 struzzi, 30 asini selvatici ..., Probo (276-282 d.C.) 300 orsi, 100 leonesse, 100 leopardi , 100 leoni (questi ultimi, essendo addomesticati, pare non abbiano riscosso molto succes-so perché poco spettacolari) ... Le città minori non erano di meno, come abbiamo visto con Democare di Platea; a Minturno nel 249 d.C. furono uccisi 10 orsi in uno spetta-colo che si protrasse per quattro giorni, nella non lontana Benevento gli orsi furono 16.

il MeDioevo

Con il medioevo la ricchezza di fonti storiche, letterarie ed iconografiche ci porta numerose testimonianze sull’orso, che però ormai superano le competenze dell’archeologo. Segnalo quindi il recentissimo libro di Michel Pastoureau, ma anche alcuni studi sull’area italiana ed alpina che mo-strano come l’orso fosse animale molto diffuso sulle Alpi e gli Appennini fino al XVI secolo (Pastoureau 2008; An-dreolli 1988; Montanari 1988). Mi chiedo se a decretarne l’estinzione pressoché completa non siano state le armi da fuoco, che ne permettono l’uccisione senza correre i rischi di una lotta corpo a corpo, e soprattutto lo sviluppo dell’agricoltura montana che, dalla diffusione della patata a partire dalla fine del XVIII secolo, ha fatto aumentare

Fig. 48. Frammenti ossei macellati di orso dal castello medievale di Montaldo Mondovì (da Aimar et al. 1991, fig. 141).

Fig. 49. Mosaico della cattedrale di Aosta, 1200 circa (da Perinetti 2000, fig. 7).

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piemontesi al principe o al castellano suo rappresentante va consegnato per ogni orso abbattuto un terzo dell’a-nimale nella cuneese valle Stura e nelle valli di Lanzo la spalla ad Usseglio, la testa a Mezzenile e Ceres, mezzo quarto a Lemie e sole sei coste a Coassolo, dove per altro tra il 1367 e il 1370 si catturarono 42 orsi (la metà dell’at-tuale popolazione di orso marsicano!) (Micheletto 1991; Cibrario 1851, p. 312).Oltre all’orso in uno dei mosaici della cattedrale di Aosta assieme a draghi e pantere (Perinetti 2000, fig. 7) (fig. 49), in Piemonte si trova una delle più belle raffigurazioni del grande animale nel medioevo, quello che pare danzare o affrontare in piedi un uomo nel mosaico pavimentale nel duomo di Casale Monferrato, all’interno di un meda-glione in un ricco decoro con soggetti tratti da favole o allegorie morali realizzate probabilmente a metà del XII secolo d.C. (Pianea 2000) (fig. 50). Infine, l’orso dello stemma di Biella, raffigurato a quattro zampe davanti un albero di faggio, molto normale e poco aristocratico a differenza dei, rari, orsi rampanti dell’aral-dica: ma non sarà forse proprio dall’emblema dell’orso che, per cattiva interpretazione del disegno, un simbolo popolare dei biellesi è in piemontese ël babi ‘d Biela, “il rospo di Biella”? E quindi di nuovo, il povero orso dileg-giato a partire dalla fine del Medioevo, come segnala più volte Michel Pastoureau.

Fig. 50. Mosaico della cattedrale di Casale Monferrato, metà del XII secolo (da Pianea 2000, fig. 8).

appendice

Riporto qui i passi sull’orso dai trattati scientifici antichi di Aristotele di Stagira (384-322 a.C.), il grande filosofo greco, di Gaio Plinio Secondo il Vecchio (23-79 d.C.), generale romano e autore dell’enciclopedia antica Storia naturale, e di Claudio Eliano (170-235 ca. a.C.), intellettuale romano che scrisse in greco un trattato sugli animali dall’intento moralistico più che scientifico.

Dalle Ricerche sugli animali (Perì ta zōa historíai) di Aristotele14

Libro II.1. ... Fra gli stessi quadrupedi provvisti di peli, alcuni ne hanno tutto il corpo ricoperto, come il maiale, l’orso, il cane ... L’orso ha in-vece quattro mammelle, mentre altri animali ne hanno bensì due, con due capezzoli, ma site presso le cosce: è il caso delle pecore ...17. ... Gli animali provvisti di dentatura completa, invece, hanno un solo stomaco: così l’uomo, il maiale, il cane, l’orso, il leone, il lupo (anche lo sciacallo ha tutte le parti interne simili a quelle del lupo). Tutti dunque hanno un solo stomaco, cui segue l’intestino: ma alcuni presentano uno stomaco piuttosto grande, come il maiale e l’orso (e quello del maiale ha poche pieghe lisce), altri l’hanno molto più piccolo e poco più grande dell’intestino, come il leone, il cane e l’uomo ...

Libro V.2. ... Fra i quadrupedi, le orse giacciono sdraiate pur compiendo il coito nello stesso modo degli altri che restano in piedi, cioè con il ventre del maschio contro il dorso della femmina ...

Libro VI.18. ... Sia gli orsi sia i lupi diventano in questo frangente [durante l’accoppiamento, n.d.R.] aggressivi nei riguardi di chiunque si avvi-cini, mentre combattono meno fra loro perché nessuno di tali animali vive in greggi. Anche le orse sono aggressive dopo la nascita dei cuccioli, proprio come le cagne ... 30. Le orse si accoppiano, come si è già detto, non facendosi montare ma stando sdraiate al suolo. La loro gestazione dura trenta giorni15. L’orsa partorisce uno o due piccoli, al massimo cinque. L’orsacchiotto alla nascita è piccolissimo in rapporto alle dimensioni del corpo della madre: esso nasce minore di una donnola ma più grande di un topo. È privo di peli e cieco, e sia gli arti sia la quasi totalità delle sue parti sono praticamente indistinti. L’accoppiamento ha luogo nel mese di marzo, e il parto verso la stagione dell’ibernazione. In questo periodo sia la femmina sia il maschio diventano assai grassi. Dopo aver allevato i piccoli, le orse ricompaiono al terzo mese, quand’è ormai primavera ... È difficile catturare un’orsa gravida.

Libro VIII.5. ... L’orso è onnivoro. Mangia frutti, arrampicandosi sugli alberi grazie all’agilità del suo corpo, e legumi; mangia anche miele, spezzando gli alveari, e granchi e formiche, oltre ad essere carnivoro. Grazie alla sua forza può attaccare non solo i cervi ma anche i cinghiali, se riesce a piombare loro addosso all’improvviso, e i tori; fronteggiato il toro a breve distanza, si getta supino, e quando il toro

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si appresta a colpire gli avvolge le corna con gli arti anteriori, e azzannatagli la spalla lo rovescia a terra. L’orso riesce per breve tempo anche a camminare eretto sui due piedi. Prima di mangiare la carne, la lascia sempre marcire ... 6. ... L’orso non succhia né lambisce, bensì inghiotte l’acqua a sorsate ... 17. Fra gli animali vivipari quadrupedi, ibernano istrici ed orsi. Ora, che gli orsi ibernino è manifesto, ma si discute se lo facciano per il freddo o per qualche altra causa. Durante questo periodo, in effetti, i maschi e le femmine diventano grassissimi, tanto che non possono muoversi facilmente. La femmina partorisce in questa occasione, e resta rintanata finché non sia giunto il momento di condur fuori gli orsacchiotti, ciò che fa in primavera, verso il terzo mese dopo il solstizio. L’ibernazione dell’orso dura al minimo circa quaranta giorni; nelle prime due settimane dicono resti assolutamente immobile, mentre nella maggior parte dei giorni seguenti, pur restando nella tana, si muove e si ridesta. Nessuno o quasi ha catturato un’orsa durante la gestazione. In questo periodo è chiaro che esse non mangiano nulla: infatti non escono, e quando vengono prese lo stomaco e gli intestini risultano vuoti. Si dice anche che, non ingerendo alcuni cibo, l’intestino dell’orsa venga quasi a richiudersi, e per questo, appena uscita, essa mangi dell’aron per distendere l’intestino e dilatarlo ...

Dalla Storia naturale (Naturalis historia) di Gaio Plinio Secondo16

Libro VIII.(54) 125. Nei mesi invernali [l’istrice] si nasconde, abitudine che è tipica di molti animali e soprattutto degli orsi. (55) 126. L’accoppiamento di questi ultimi ha luogo all’inizio dell’inverno e non avviene nel modo consueto di tutti i quadrupedi, ma i due animali stanno sdraiati e abbracciati; poi avviene la separazione in caverne diverse, nelle quali le femmine danno alla luce dopo 30 giorni per lo più cinque piccoli. Questi sono palline di carne bianca, prive di forma, poco più grandi dei topi, senza occhi, senza peli; hanno soltanto gli unghielli già sporgenti. Le madri a poco a poco li plasmano, leccando questa massa. Niente è più raro che vedere un’orsa partorire. I maschi stanno nascosti per quaranta giorni, le femmine per quattro mesi. 127. Se non hanno tane, se le costruiscono con un insieme di rami e di arbusti, impenetrabili alla pioggia e coperte di molli fronde. Nelle prime due settimane sono preda di un sonno tanto profondo che non si svegliano neppure se vengono feriti. Allora, in modo che desta meraviglia, durante questo loro letargo ingrassano. Il loro grasso è molto adatto per farne medicine ed è potente contro la caduta dei capelli. Dopo questo periodo stanno seduti e vivono succhiandosi le zampe davanti. Le madri riscaldano i piccoli infreddoliti stringendoli al petto, con un modo di covarli che non è diverso da quello che gli uccelli usano per le loro uova. 128. È incredibile a dirsi, ma Teofrasto crede che durante il periodo di letargo anche le carni cotte dell’orso crescano, se vengono conservate; egli afferma che nel loro ventre non si trova allora traccia di cibo, se non una piccolissima quantità di liquido, e che hanno soltanto poche gocce di sangue intorno al cuore, e che non ce n’è per niente nel resto del corpo. 129. Escono all’aperto in primavera, ma i maschi sono molto grassi, e non saprei indicarne la ragione, perché, come abbiamo detto, non sono ingrassati nel sonno tranne che per 14 giorni. Quando escono mangiano un’erba chiamata aro per pulirsi l’intestino, altri-menti indurito, e tritano i ramoscelli con i denti, per domare la bocca. I loro occhi si sono indeboliti e per questo motivo cercano i favi, perché le api feriscano il loro muso ed il flusso del sangue ne possa alleviare la pesantezza. 130. Debolissima è nell’orso la testa, che invece è la parte più forte nel leone. Perciò, se vengono inseguiti e stanno per precipitarsi da una rupe, si gettano nel vuoto coprendosi la testa con le zampe e spesso, nell’arena, muoiono con la testa spezzata da un pugno. In Spagna credono che nel cervello dell’orso sia contenuto un veleno e bruciano le teste degli esemplari uccisi negli spettacoli del circo, perché si è convinti che questo veleno una volta bevuto scateni nell’uomo una rabbia da orsi. Camminano anche su due zampe; scen-dono dagli alberi all’indietro. 131. Affaticano col loro peso i tori stando sospesi con le quattro zampe al loro muso ed alle loro corna. Nessun altro animale è più scaltro nel far del male pur nella sua stoltezza. Negli annali è stato scritto che durante il consolato di Marco Pisone e Marco Messalla [61 a.C.], 14 giorni prima delle calende di ottobre [18 settembre], Domizio Enobarbo, che rivestiva la carica di edile curule, presentò nel circo cento orsi della Numidia ed altrettanti cacciatori etiopi. Mi meraviglio che abbiano aggiunto “della Numidia”, perché si sa benissimo che in Africa l’orso non esiste17.

Da La natura degli animali (Perì zōōn idiótētos) di Claudio Eliano18

Libro I.31. Orsi, lupi, leopardi e leoni sono resi arditi dai loro poderosi artigli e dalle affilate zanne ...

Libro II.19. L’orsa non è capace di partorire la prole e nessuno, vedendo i suoi nati subito dopo il parto, potrebbe affermare che sono esseri viventi. Sebbene l’orsa abbia indubbiamente sofferto i dolori del parto, in realtà ciò che è uscito da lei è solo un mucchietto di carne, indistinto, informe, privo di connotati. Tuttavia la madre lo ama, lo riconosce come proprio figlio e lo scalda tra le cosce, lo liscia con la lingua, ne modella le membra e gli dà a poco a poco una forma tale che tutti, vedendolo, direbbero che è un cucciolo di orso.

Libro III.21. Eudemo19 riferisce che sul monte Pangeo, in Tracia, un’orsa, approfittando del fatto che la tana di un leone era rimasta incustodita, assalì i suoi nati, che erano ancora molto piccoli e incapaci di difendersi, e li uccise. Quando il padre e la madre tornarono dalla caccia e videro che i cuccioli erano stati trucidati, furono presi, naturalmente, da grande furore e si gettarono sull’orsa, la quale, tutta impaurita, si arrampicò il più velocemente possibile sopra un albero e si accovacciò, cercando di sfuggire alla loro insidia. Evidentemente erano venuti lì proprio col proposito di punire l’orsa assassina; infatti la leonessa si pose in agguato ai piedi del tronco, volgendo verso l’alto lo sguardo iniettato di sangue; il leone invece, tutto sconvolto e fuori di sé per il dolore, si mise a vagare per le montagne e trovò sul

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suo cammino un taglialegna. Costui, come lo vide, si impaurì, abbandonando l’ascia, ma il leone cominciò a fargli festa, si sollevò sulle zampe e cercò, per quanto gli fu possibile, di abbracciarlo e leccargli il volto con la lingua. Il legnaiolo, allora, si rinfrancò e il leone, circondandolo con la coda, lo condusse là dove aveva abbandonato l’ascia e gli fece segno con le zampe, insistentemente, di raccoglierla; poiché l’altro non capiva, la raccolse lui stesso con la bocca e gliela porse; poi lo indusse a seguirlo e lo portò presso la sua tana. Anche la leonessa, come lo vide, gli andò vicino e cominciò a fargli festa, guardandolo con aria addolorata e volgendo gli occhi verso l’orsa. Il taglialegna guardò in quella direzione e capì che le due belve dovevano aver subito un’offesa da parte dell’orsa. Allora cominciò a colpire con l’ascia la pianta finché quella non si abbatté al suolo, trascinando nella sua caduta anche l’orsa che fu subito sbranata dalle due fiere. Il leone poi accompagnò quell’uomo, sano e salvo, nel luogo dove l’aveva precedentemente incontrato e lo lasciò a continuare il lavoro che stava facendo prima.

Libro IV. 45. Eudemo racconta una storia straordinaria ed eccone il contenuto. Un giovane cacciatore, capace di convivere con le bestie più sel-vatiche, che egli aveva domato fin da quando erano cuccioli, aveva come compagni con cui condividere il pasto un cane, un’orsa e un leone. Questi animali per un po’ di tempo, dice Eudemo, vissero tra di loro in pace e con sentimenti d’amicizia reciproca; ma un giorno accadde che, mentre il cane giocherellava con l’orsa e l’importunava coi suoi scherzi, essa si infuriò e comportandosi diversamente dal solito assalì il cane e con gli artigli dilaniò il ventre di quell’infelice creatura, facendola a brani. Il leone, riferisce lo stesso autore, sdegnato per questo fatto, prese in odio l’orsa, ritenendo che avesse compiuto un’azione contraria al patto d’amicizia, e vivamente addolorato per la morte del cane che considerava un caro compagno, fu colto da un giusto sentimento di collera e si vendicò su di lei, facendole ciò che quella aveva fatto al cane. ...

Libro V.49. Quando gli orsi fiutano dei cacciatori che di fronte a loro si sono gettati per terra, trattenendo il fiato, non li assalgono poiché li credono morti, dimostrando in questo modo la loro ripugnanza per i cadaveri. ...

Libro VI.3. Ho già descritto come l’orsa partorisca della carne informe che poi, aiutandosi con la lingua, corregge e quasi, potremmo dire, modella. Ma voglio aggiungere adesso, cogliendo questa occasione molto opportuna, ciò che ho passato sotto silenzio. L’orsa, dun-que, partorisce durante l’inverno, e poiché teme il rigore del gelo, attende l’arrivo della primavera e non conduce mai all’aperto i suoi cuccioli prima che abbiano compiuto il terzo mese. Quando si accorge di essere gravida, dal momento che essa considera la gravidanza come una malattia, va in cerca di una tana (è per questo motivo che l’ibernazione dell’orso è chiamata folia20). L’orsa fa il suo ingresso nella tana non camminando, ma strisciando sul dorso, e così cancella le orme che potrebbero riuscire utili ai cacciatori. Dopo che è entrata nel suo covo, se ne sta tranquilla e lima, potremmo dire, la sua figura, riducendone il volume; si comporta in questo modo per quaranta giorni. Aristotele, tuttavia, dice che l’orsa rimane nella più completa immobilità per quattordici giorni e per i rimanenti si limita a rigirarsi. Per tutti i quaranta giorni non tocca assolutamente cibo; le basta leccarsi la zampa destra. A causa di questa rigida astinenza dal cibo il suo intestino si raggrinza e restringe, ma l’orsa che lo sa, quando esce dalla tana, mangia la pianta che si chiama gichero21. Questo vegetale produce flatulenza, apre l’intestino e lo allarga, rendendolo così atto a ricevere il cibo. Quando l’orsa si è di nuovo rimpinzata di gichero, mangia allora un po’ di formiche e in questo modo può evacuare molto agevolmente. Dalla mia descri-zione, cari lettori, avete appreso come gli orsi sappiano in modo naturale e in giusta misura riempirsi di cibo ed evacuare senza dover ricorrere a medici e decotti.

Libro VII9. Quanto sto per dirvi riguardo all’orso, mostra senza dubbio la sua intelligenza. Se un’orsa con i cuccioli è inseguita dai cacciatori, essa sospinge i suoi nati in avanti più che può; quando però si accorge che non ce la fanno più per la stanchezza, allora ne prende uno sul dorso e l’altro in bocca, e dopo aver raggiunto un albero, vi si arrampica sopra. Quello che sta sulla groppa della madre si tiene aggrappato con gli artigli, l’altro invece, mentre quello si arrampica, è trattenuto dai denti. Se un orso affamato si imbatte in un toro, non ingaggia con lui una battaglia diretta e all’ultimo sangue, ma ricorre a questo metodo di lotta: lo afferra per il collo e lo piega, stringendo la sua presa; il toro muggisce stretto nella morsa, ma poi le sue forze cedono e si abbatte a terra, e così l’orso si rimpinza delle sue carni.

Libro VIII1. ... Gli Indiani usarono questo accorgimento per mostrare ad Alessandro, figlio di Filippo di Macedonia, come fossero forti questi loro cani. Lasciarono libero un cervo, ma il cane non si mosse, poi un cinghiale e quello rimase fermo; successivamente fu liberato un orso, ma neppure allora il cane si mosse; fu infine lasciato libero un leone: «e quello, come lo vide, fu preso da un violento attacco di bile» [Iliade, XIX,16] poiché in esso vedeva il suo vero avversario; non indugiò, dunque, né si trattenne, ma piombò su di lui e opprimendolo con la sua forte presa gli strinse il collo ...

Libro XVII31. ... Gli Armeni, data la natura selvaggia del loro territorio, infestato da un gran numero di animali feroci, raccolgono questi pesci e li mettono a seccare sotto la vampa del sole; poi li triturano, tappandosi prima il naso e la bocca per non aspirare l’odore che esala dalle loro carni spezzettate e che potrebbe farli morire. Dopo averli infarinati, cospargono questo intruglio nelle zone maggiormente infestate dalle fiere; hanno anche l’abitudine di mescolare con questa farina dei fichi. In tal modo eliminano cinghiali, gazzelle, cervi, orsi, asini selvatici e capre (anche loro selvatiche). Tutti questi animali, per l’appunto, sono avidi di fichi e di farina. Uccidono invece il altro modo i carnivori, come ad esempio i leoni, i leopardi e i lupi. Operano su un fianco di una pecora o di una capra domestica un

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taglio largo abbastanza da potervi introdurre una mano e vi spargono dentro la farina; poi pongono quest’esca (veramente micidiale!) alla portata delle belve ricordate sopra. Quando dunque un leone o un leopardo o un lupo o qualsiasi altro animale feroce si imbatte in questa esca e la mangia, muore immediatamente ....

* Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie - Piazza San Giovanni 2 - 10122 TorinoE-mail: [email protected]

note

1 Si tratta di alcune tombe di età vichinga della Svezia settentrionale.2 Questo contributo trae origine dall’incarico conferito all’autore dall’Ente Gestione Parchi e Riserve Naturali Cuneesi (Chiusa

di Pesio) nel giugno 2007 per una ricerca bibliografica e la compilazione di schede sull’orso in contesti archeologici dalla prei-storia al medioevo, sotto la direzione della dott.sa Marica Venturino Gambari della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie, nell’ambito del progetto “Quando c’erano gli orsi...”.

3 Durante la redazione di questo articolo, la mostra curata da Juha Pentikäinen Orsi e sciamani è stata allestita presso il Museo di storia naturale di Firenze (inverno 2007-2008) e il Centro studi e museo di arte preistorica di Pinerolo (autunno 2009).

4 In attesa delle esplorazioni delle grotte del massiccio del Marguareis nelle Alpi Marittime, i più famosi giacimenti di ossi di Ursus spelaeus in Piemonte sono nel capo opposto della regione, sul Monfenera tra Val Sesia e lago d’Orta, noto già nel XIX secolo e portato alla ribalta dagli scavi tra il 1954 e il 1957 di C. Conti, purtroppo non condotti con un metodo scientifico moderno, in occasione dei quali furono trovati i primi manufatti musteriani (Conti 1960; Lo Porto 1960). L’orso nella grotta Ciota Ciara è così abbondante che rappresenta il 95% dei resti ossei nella relazione di Francesco Fedele della ripresa delle ricerche a partire dal 1964 (Fedele 1966; 1972; 1974).

5 In Issel 1908 è dedicata un’amplissima parte alle grotte delle Alpi Marittime con depositi di ossi di orsi (Giacimenti quaternari, pp. 146-264): Caverna delle Fate a Finale, pp. 164-181; grotte della Valle dell’Aquila, pp. 181-182; Caverne del Rio e di Mar-tino a Finalborgo, pp. 182-186; Caverna di Verezzi, pp. 186-190; Grotta del Colombo a Toirano, pp. 190-191; Grotta del Pa-store o Livra, pp. 191-196; Caverna della Giacheira a Pigna, pp. 196-201, i Balzi Rossi a Ventimiglia, pp. 205-257; le grotte sul versante piemontese, dove non conosceva nessun manufatto o resto osseo umano, a Bossea, al Caudano di Frabosa Soprana e al Bandito presso Borgo San Dalmazzo, pp. 257-264; per queste ultime, cfr. ora anche il contributo di Livio Mano in questo volume, con bibliografia.

6 Leocata 2000-2001 porta numerosi altri casi, in molti dei quali è evidente che si tratta di perforazioni naturali o casuali. In particolare, è da rigettare l’interpretazione come strumento musicale della mandibola di Potcka Zijalka in Slovenia, con una fila di fori sul canale mandibolare, che ha invece un’origine patologica, così come alcune mandibole forate da Prélétang, dovute ad ascessi e con il bordo arrotondato, segno che l’animale è vissuto a lungo dopo che si è realizzato il foro (Tillet 2002; 2003).

7 Per Roma, dove il culto dell’orso sarebbe precedente l’influsso etrusco, Alföldi 1974.8 A p. 53 Marija Gimbutas scarta giustamente l’interpretazione come teste di orso o di gatto dei coperchi dei vasi di Vinča e fa

notare che dovrebbero invece essere teste di civetta perché hanno un becco, e non un muso, e le orecchie a punta sarebbero i ciuffi di pelo degli strigidi.

9 In Italia ci fa venire in mente la zampa di cane coperta da un bicchiere in ceramica depositata nella trincea di fondazione della palizzata del villaggio neolitico della seconda metà del VI millennio a.C. di Lugo di Romagna (Degasperi et al. 1998, fig. 5).

10 Ad esempio Fasani - Salzani 1975 danno una generica definizione di figurine fittili di quadrupedi a Frattesina e Villamarzana, mentre altrove distinguono bovini, canidi, equini; Negroni Catacchio 1978.

11 Pastoureau 2008, pp. 28-29 scrive che anche Atalanta e Melanione o Ippomene furono trasformati in orsi, ma nei testi antichi da lui citati la metamorfosi è in leoni: Ovidio Metam. X,704; Apollodoro Bibl. III,9.

12 Un indice di figure avulse dal loro contesto e trattate singolarmente in Oswald 1936-1937, nn. 1574-1633, tav. LXV-LXVIII. 13 Immagini di caccia all’orso nei sarcofagi nn. 1, 6, 15, 22, 25, 27, 45, 47, 60, 78, 81, 101, 107, 124, 128, 134, 158, 164, 167,

184, 185, 193, 206, 208, 219, 239, 244, 246, 24714 Traduzione di M. Vegetti, ed. UTET, Torino 1971.15 Il traduttore qui emenda il testo greco hèméras “giorni” in heptádas “settimane”.16 Traduzione di E. Giannarelli, ed. Einaudi, Torino 1983.17 In realtà, l’orso bruno sulle montagne dell’Atlante era presente fino alla seconda metà del XIX secolo.18 Traduzione di F. Maspero, ed. Rizzoli, Milano 1998.19 Filosofo greco e naturalista del IV secolo a.C., discepolo di Aristotele. 20 Da phõleós “tana”.21 Il gichero, o calle selvatica o pan dei serpenti e altri nomi, è l’Arum italicum, già menzionato da Aristotele e Plinio, che provoca

dermatiti ed irrita la bocca.

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