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“L’ITALIA LIBERALE: I FONDAMENTI DELLO STATO UNITARIO E IL COMPLETAMENTO DELLUNITÀPROF. VINCENZO BARRA

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Università Telematica Pegaso L’italia liberale: i fondamenti dello stato unitario

e il completamento dell’unità

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 I FONDAMENTI DELLO STATO UNITARIO ------------------------------------------------------------------------- 3

2 IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE -------------------------------------------------------- 10

3 LA III GUERRA D’INDIPENDENZA E LA “QUESTIONE ROMANA” ---------------------------------------- 13

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 16

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e il completamento dell’unità

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 I fondamenti dello Stato unitario

Con l’unificazione della penisola, l’Italia era diventata, per popolazione e per estensione

geografica, uno dei maggiori paesi d’Europa. Ben diverse però erano le condizioni di sviluppo del

Paese, in cui il tasso medio di analfabetismo era il 78 per cento con punte del 90 per cento nel

Mezzogiorno e nelle isole. La maggioranza della popolazione viveva nelle campagne e trovava il

proprio sostentamento nell’agricoltura, in cui era impiegato circa il 70 per cento degli italiani. Allo

sconvolgimento del precedente assetto politico non aveva corrisposto quella profonda

trasformazione della società che da tante parti ci si augurava, anche perché la società non aveva

avuto il tempo di cambiare e di adeguarsi alla nuova situazione politica del Paese.

Non furono comunque felici i primi tempi dell’Italia venuta fuori dal lungo sforzo risorgimentale. E

questo non solo dal punto di vista di Mazzini e dei democratici, che avevano sempre collegato a

quello dell’unificazione il proposito di una profonda trasformazione sociale e morale del paese

(Mazzini aveva anche pensato […] a una «terza Roma» che adempisse a una grande missione di

liberazione dei popoli oppressi).1

La linea di continuità con il passato fu garantita dall’estensione delle istituzioni piemontesi al nuovo

Stato e dalla ristrettezza della classe politica, che si identificava pienamente e completamente con la

componente moderata, mentre la componente democratica venne tagliata fuori e con essa qualunque

progetto innovatore o riformatore in campo amministrativo o sociale.

Difatti, dopo la morte improvvisa di Cavour, il 6 giugno 1861, il grande stratega della unificazione

nazionale, a solo qualche mese di distanza dalla proclamazione della nascita del regno d’Italia (il 17

marzo), alla guida dei liberali moderati successe Ricasoli, che ne era, insieme a Cavour, l’esponente

di maggior prestigio. Delle due componenti politiche che fecero l’Unità, cioè quella moderata e

quella democratica, fu da subito quella moderata ad assumere la direzione del nuovo Stato. Ciò

voleva dire che furono l’aristocrazia e la grande borghesia a tenere in mano le fila del nuovo Stato:

fu adottato per il Regno lo Statuto Albertino e non fu convocata alcuna una Assemblea costituente,

perché poteva mettere seriamente a rischio l’impianto monarchico e moderato dello Stato. Quindi, il

re Vittorio Emanuele rimase II, pur essendo il primo monarca di un nuovo Stato, e anche le

Legislature parlamentari si continuarono a contare senza interruzioni con le Legislature del

1 G. GALASSO, Storia d’Europa. Età contemporanea, vol.3, pag. 55.

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Parlamento piemontese precedenti all’unificazione. Sostegno non irrilevante alla egemonia dei

moderati fu anche l’appoggio di Napoleone III, imperatore dei Francesi, garante dell’ordine davanti

all’opinione pubblica del suo paese.

La “piemontesizzazione”, cioè l’estensione automatica all’Italia delle leggi piemontesi, non fu però

una scelta felice, e comportò molti problemi e contrasti. Del resto, i problemi da affrontare erano

numerosi e molto grandi:

[…] il bilancio dello Stato era in gravissimo passivo; le spese per la difesa e per opere pubbliche

indispensabili come le ferrovie non si potevano evitare; nel Sud, su un terzo del territorio nazionale,

si agitava un brigantaggio legato a nostalgie e manovre borboniche; fondere legislazioni e

ordinamenti diversi era ancor più difficile di quanto si fosse pensato; la «scorciatoia» adottata con

l’estendere le leggi e le istituzioni sabaude a tutta l’Italia era fonte di gravi malcontenti e tensioni; la

rappresentanza politica era ristretta per estrazione sociale e sempre molto legata alle regioni

d’origine con grave danno di una prospettiva nazionale di governo. Peggio ancora sembravano

andare le cose sul piano internazionale. Mentre restavano da acquisire all’unità nazionale almeno

Venezia e Roma, il nuovo Stato veniva considerato all’inizio poco più di un protettorato francese e,

anche, inglese.2

Esaminiamo adesso più da vicino l’impianto del nuovo regno sotto i suoi principali aspetti.

a) Impianto politico

Lo Statuto albertino fu esteso senza modifiche a tutto il Regno, per cui il Parlamento era formato da

una Camera elettiva composta da 443 deputati, e dal Senato, di nomina regia, la cui carica era

vitalizia. I senatori venivano scelti fra categorie fisse: vescovi, ministri, ambasciatori, magistrati,

alti ufficiali, deputati con 6 anni di esercizio, cittadini particolarmente eminenti ecc. I requisiti per

l’elettorato passivo, e cioè per essere eletti alla Camera, erano: avere almeno 25 anni; l’avere

ottenuto la metà più uno dei voti del collegio uninominale a doppio turno; giurare fedeltà al re e allo

Statuto. Il mandato parlamentare era completamente gratuito e non retribuito, perché si riteneva un

2 Ivi, pag. 55.

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principio ovvio che «chi fa gl’interessi della nazione provvede anche ai propri»3. Per l’elettorato

attivo, cioè per avere diritto di voto, bisognava avere almeno 25 anni e pagare almeno 40 lire di

imposte dirette oppure appartenere a determinate categorie professionali. Con questi criteri ristretti,

soltanto l’1,9 per cento della popolazione aveva possibilità di votare. Difatti, l’estensione al resto

d’Italia della legge elettorale piemontese, basato sul collegio uninominale e sul diritto di voto a

censo molto ristretto, riservato perciò ai ceti più ricchi o con importanti funzioni pubbliche

(magistrati, alti funzionari e insegnanti), resero la base politica nella società molto limitata. Per di

più a ciò si affiancava un Senato che serviva essenzialmente a cooptare nel sistema il ceto nobiliare.

Si assistette perciò al paradosso che mentre i plebisciti, attraverso i quali era nato il nuovo Stato, si

erano svolti a suffragio universale, la rappresentanza politica era limitata a pochi privilegiati delle

classi più agiate. Il «paese legale», perciò, era scarsamente rappresentativo del «paese reale».

b) Impianto amministrativo

La legge che unificava il sistema amministrativo dell’Italia fu approvata il 20 marzo 1865

dopo lunghi dibattiti: fu scelto di costituire un apparato centralistico e gerarchico. Il regno «era

suddiviso in una serie di livelli amministrativi (province, circondari, mandamenti e comuni), che dal

centro giungevano sino a investire tutta la realtà periferica»4. Nacque in tal modo uno Stato

fortemente accentrato, in cui la massima autorità locale era il prefetto, che rappresentava il governo

nelle province in cui era suddiviso il regno. Quindi, il governo centrale tramite i prefetti, esercitava

il controllo amministrativo della politica locale, infatti il prefetto non solo rappresentava «il potere

esecutivo in tutta la provincia», provvedeva all’esecuzione delle leggi, vigilava «sull’andamento di

tutte le pubbliche amministrazioni», sovrintendeva alla pubblica sicurezza (con diritto di disporre

della forza pubblica e di richiedere l’intervento della forza armata)

ma anche, essendo a capo della deputazione provinciale, doveva garantire la piena aderenza della

politica provinciale e (indirettamente) comunale a quella centrale; a lui direttamente, o alla

deputazione provinciale da lui presieduta, la legge attribuiva i principali controlli sull’attività degli

enti locali.

3 N. MALVEZZI, L’indennità ai deputati, Zanichelli, Bologna 1905, p. 9.

4 G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Il Mulino, Bologna 2013, pag. 76.

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L’idea delle regioni come ente intermedio venne subito abbandonata per timore che potesse

alimentare pericolosi regionalismi, tanto più pericolosi in uno Stato unitario così giovane.

Con la legge Rattazzi, inoltre, si stabiliva che anche la carica di sindaco era di nomina regia e che

questi rispondesse al governo. In pratica, il sindaco veniva scelto dal ministero dell’Interno fra i

consiglieri comunali, su suggerimento del prefetto. Egli era, da una parte, il «capo

dell’amministrazione comunale» e, dall’altra, «uffiziale del Governo», era perciò sia il

rappresentante della comunità locale, sia un funzionario governativo nominato dall’alto.

Già nell’ordinamento del 1865, dunque, erano presenti alcuni punti fermi destinati a riproporsi in

tutta la storia successiva del potere locale.5

La legge Casati, invece, stabilì la creazione di un sistema scolastico nazionale, con istruzione

obbligatoria e gratuita dei primi due anni delle elementari.

c) La classe politica liberale

Dopo la morte di Cavour, 6 giugno 1861, in Parlamento si stabilì subito una concentrazione

governativa moderata e monarchica, contrapposta allo schieramento democratico e repubblicano e

“antisistema”, che cioè non accettava come legittimo il sistema che si era costituito in Italia, a

cominciare dalla soluzione monarchica. Le due tendenze non potevano convivere: si perpetuò la

convergenza verso il centro che era iniziata con il “connubio” tra Cavour e Rattazzi nel 1852, come

una necessità per assicurare la stabilità politica e istituzionale del Paese. Col connubio era nata la

“Destra storica”, cioè il gruppo dirigente che aveva sostenuto Cavour e che avrebbe governato

ininterrottamente l’Italia unita per i primi quindici anni di vita nazionale.

La Destra storica era composta da uomini che avevano militato nei due schieramenti, moderato e di

centro sinistra, ma che avevano trovato unità nel programma politico dell’unità nazionale. Dal

punto di vista sociale era formata essenzialmente da proprietari terrieri centro-settentrionali. Fu così

esclusa dalla gestione del potere una parte della società politica fino ad allora parte attiva al

Risorgimento: cioè la componente democratica e garibaldina. Del resto questa esclusione fu

simbolicamente rappresentata dall’incontro a Teano (26 ottobre 1860) fra Garibaldi e Vittorio

Emanuele: Garibaldi aveva esaltato in sommo grado la componente democratica con la conquista

5 Ivi, pag. 78.

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del Mezzogiorno, ma fu una vittoria della parte moderata la consegna del regno di Napoli a Vittorio

Emanuele.

Le prime elezioni politiche, nel 1861, portarono alla costituzione di una maggioranza moderata di

300 seggi sul totale di 443, per effetto del voto strettamente censitario.

In realtà, da subito nacque un particolare sistema politico, che non prevedeva alternative di potere al

proprio interno, proprio perché le opposizioni avevano la caratteristica di essere opposizioni al

sistema politico stesso. Sia l’opposizione cattolica (all’estrema destra), che quella democratica e

repubblicana (all’estrema sinistra), ritenevano quel sistema politico un frutto di prevaricazione ai

danni della maggioranza della popolazione e delle sue reali aspirazioni, e quindi delegittimavano il

sistema, non lo riconoscevano legittimo. La classe dirigente liberale, perciò, fece fronte comune

contro i nemici dello Stato e fu costretta a trovare sempre e solo al suo interno le possibilità di un

ricambio, senza che ci fosse una alternanza tra destra e sinistra al governo o tra maggioranza e

opposizione.

d) La politica economica della Destra storica

Secondo l’impostazione cavouriana, la politica economica della Destra storica fu liberista. Molti

problemi vi furono in relazione al processo di unificazione del mercato interno, di espropriazione

dei beni ecclesiastici, e problemi dovuti alla abolizione delle barriere doganali fra gli ex Stati

italiani. Anche l’adozione della tariffa doganale sarda e l’introduzione della lira piemontese

turbarono le economie locali. A tutto questo si aggiunse il forte aumento della pressione fiscale,

anche sui generi di largo consumo. Lo Stato, infatti, si trovava sull’orlo della bancarotta per avere

ereditato l’enorme debito pubblico di tutti gli Stati preunitari, per le spese di guerra e per lo sforzo

di sviluppare la rete viaria e soprattutto ferroviaria del Paese. Il sistema tributario piemontese, fra i

più duri rispetto a quelli degli altri Stati italiani, venne automaticamente esteso a tutta l’Italia.

Cardine della politica della Destra fu perciò il pareggio di bilancio. L’opera di Quintino Sella,

ministro delle finanze, fu tutta orientata in tal senso. Vennero istituite nuove tasse: sui consumi,

sulla ricchezza mobile, sui monopoli di Stato, quella fondiaria e ciò creò un grande malumore nella

società. La guerra del 1866 aggravò ancora di più la situazione tanto che nel 1867 fu necessario

adottare il “corso forzoso” della lira, cioè fu sospeso l’obbligo delle banche di convertire in oro le

banconote. Il corso forzoso rimase in vigore fino al 1881.

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La tassa più odiata e criticata fu la tassa sul macinato, approvata nel 1868, in base alla quale

Il contadino [che] portava al mulino i cereali da cui ricavare le farine che servivano per il

sostentamento della sua famiglia ne riceveva una quantità minore di prima, poiché una parte serviva

per la tassa, da versare direttamente al mugnaio.6

La tassa sul macinato, anche per le sue odiose modalità di riscossione, diede luogo a manifestazioni

e sommosse spontanee duramente represse dal governo.

Il pareggio di bilancio fu raggiunto, faticosamente e a prezzo di tanti sacrifici, nel 1876. La

situazione più difficile era quella del Mezzogiorno, gravato di tasse e privato della rivoluzione

sociale in cui aveva sperato. Il malessere per la mancata divisione fra i contadini dei latifondi, la

esasperata fiscalità, ed anche il gravame della leva obbligatoria, furono tra le cause del cosiddetto

“brigantaggio”, ferocemente represso con la legge Pica del 15 agosto 1863. Il divario tra nord e sud

del Paese aumentò inarrestabilmente.

e) L’unificazione dell’esercito

L’unificazione dell’esercito fu tra i primi e più importanti problemi con cui si misurò la classe

dirigente italiana, perché era nell’esercito che venivano al pettine, nel modo più evidente possibile,

tutti i nodi irrisolti del Risorgimento: il problema del completamento dell’unificazione; l’opera di

omogenizzazione politica e amministrativa soprattutto del Mezzogiorno; riemergeva con potenza il

problema del ruolo del garibaldinismo e della democrazia nel nuovo Stato.

Si scelse di abbandonare per l’esercito il “modello francese”, basato cioè su un esercito permanente

ma di ridotte dimensioni, per andare verso il “modello prussiano”, con una ferma più breve ma

obbligatoria.

L’esercito italiano si formò con la fusione degli eserciti preunitari attorno al nucleo piemontese. La

fusione, però, pose seri problemi di selezione, soprattutto per le nomine degli ufficiali. Lo stato

maggiore piemontese preferì, infatti, nominare i nuovi ufficiali con affrettate promozioni e

6 A. LEPRE, C. PETRACCONE, Storia d’Italia dall’Unità a oggi, Il Mulino, Bologna 2008, pag. 36.

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addirittura utilizzando gli ufficiali borbonici, piuttosto che i garibaldini, guardati sempre con

sospetto per i valori e gli ideali democratici e potenzialmente “sovversivi” che incarnavano.

La “piemontesizzazione” dell’esercito comportò l’estensione delle norme sabaude: cioè il sorteggio

delle reclute in ferma per 5 anni e l’esonero solo dietro pagamento. Il servizio militare obbligatorio

era particolarmente duro e sconosciuto negli altri Stati preunitari, e fu causa di malcontento

soprattutto al Sud, dove fu alto il fenomeno della renitenza alla leva ed anche della diserzione vera e

propria.

Molto più ridotto fu il ruolo della Marina militare, che nacque dalla fusione di quella piemontese

con quella napoletana. Fu più problematica la creazione di una Marina unitaria, rispetto alla

creazione dell’esercito, a causa delle rivalità tra ufficiali, soprattutto per la resistenza degli ufficiali

della orgogliosa e invitta marina borbonica alla piemontesizzazione.

Contemporaneamente il Partito d’Azione rilanciava la prospettiva opposta di «popolo in armi», cioè

un esercito popolare con cui completare l’unificazione di Veneto e Lazio. Questa prospettiva fu

inoltre un modo di reazione da parte dei democratici meridionali e radicali mazziniani e garibaldini

contro l’egemonia politica della Destra. Ma il governo sciolse senza remore l’esercito di Garibaldi.

Non per questo venne mai meno la voglia di forzare la mano al governo e costituire gruppi di

volontari per conquistare Roma e Venezia. Il conflitto passò da ideologico e politico a conflitto

armato quando l’esercito regolare si scontrò con i garibaldini, che si stavano preparando a marciare

su Roma, all’Aspromonte, nell’agosto del 1862. Lo stesso Garibaldi fu catturato ed arrestato.

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2 Il Brigantaggio e la questione meridionale

I governi della Destra storica che si succedettero dopo la morte di Cavour si impegnarono ad

attuare una forte concentrazione del potere nelle loro mani. Le basi del potere della Destra erano

costituite dagli strati sociali già predominanti nel periodo preunitario. Infatti, nelle regioni dove era

già iniziato un processo di modernizzazione furono gli esponenti dei ceti più agiati, attivi e colti a

prevalere nell’amministrazione dello Stato e degli organi locali; mentre nelle regioni rimaste più

arretrate, furono ancora i grandi proprietari terrieri insieme alla borghesia a mantenere la propria

posizione di predominio. Non a caso, uno fra i primi gravi problemi interni che la Destra dovette

affrontare fu proprio legato alla condizione di arretratezza economica, sociale e civile del

Mezzogiorno d’Italia.

Non c’è dubbio che l’unità d’Italia ebbe i suoi contraccolpi più negativi sul Regno di Napoli che da

Stato autonomo diveniva un insieme di province, ma non solo: l’abolizione delle vecchie tariffe

protezionistiche espose di colpo le industrie dell’ex Regno alla concorrenza estera; l’abolizione

della corte, la chiusura di tanti uffici e istituzioni di governo, la soppressione dello stesso esercito

borbonico provocarono un forte aumento della disoccupazione e un non indifferente sbandamento

tra gli ex militari borbonici. L’Italia era stata unita territorialmente ma non spiritualmente, e lo

stesso Cavour prima di morire aveva dovuto riconoscere che vincere l’Austria era stato nulla in

confronto alle difficoltà che si sarebbero ancora dovute superare. Troppe erano le diversità e i

problemi che accompagnavano e allontanavano un paese appena unito: l’arretratezza

dell’agricoltura meridionale, legata ancora ai vecchi sistemi di coltivazione feudali, chiusa ad ogni

innovazione e progresso, mentre al nord invece la condizione dei contadini e delle terre era

notevolmente migliore, soprattutto grazie ai miglioramenti fatti in tale direzione dai proprietari

terrieri; l’analfabetismo endemico soprattutto al sud; i lavori pubblici praticamente inesistenti, i

centri abitati isolati e uniche strade praticabili sentieri fangosi; assenti ferrovie; condizioni sanitarie

deplorevoli; diffuso era il colera e la malaria come anche al nord. Per non parlare, inoltre, delle

diversità non affatto trascurabili di lingua, leggi, monete, pesi e misure. «Non stupisce, quindi, se

all’interno di tale quadro, proprio all’indomani dell’unità, prendeva avvio la più vasta, lunga e

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sanguinosa forma di “guerra civile” della nostra storia: il brigantaggio»7. Già diffuso al tempo dei

Borbone come forma di protesta contro le violenze e i soprusi della classe dirigente, il

«brigantaggio», come venne definito in modo dispregiativo dalle classi al potere, divenne una vera e

propria guerra civile che il giovane Stato unitario dovette affrontare. Un fenomeno complesso e

dalle molteplici ragioni: la nuova pressione fiscale; il bisogno mai assopito da parte della

popolazione rurale, di avere terre da coltivare; lo scioglimento dell’ex esercito borbonico e il

conseguente sbandamento degli ex militari ancora fedeli alla monarchia; infine, ma non ultimo, il

servizio di leva obbligatoria, che sottraeva per cinque anni le giovani braccia al lavoro dei campi e

al sostegno delle proprie famiglie.

Tra il 1861 e il 1866 buona parte dell’Italia Meridionale fu percorsa e scossa da bande armate

costituite da contadini, ex militari ed ufficiali dell’ex esercito borbonico, che saccheggiavano le

proprietà e i beni dei signori locali, dichiarando così guerra aperta al nuovo Stato. Un fenomeno di

rivolta antistatale, dunque, denunciante non solo condizioni di vita precarie ma soprattutto una

totale mancanza di fiducia nello Stato. Sostenuto sia dall’omertà delle masse contadine, sia dall’ex

re Francesco II, rifugiatosi a Roma, e che sperava in una più ampia rivolta popolare che lo

riportasse al trono, sia, anche se marginalmente, dalla chiesa (con l’opera nascosta di protezione

condotta dai conventi) che di certo non voleva l’annessione dello Stato Pontificio al Regno.

Per debellare, almeno dal punto di vista militare, la piaga del brigantaggio, nel 1863 veniva emanata

la «legge Pica» che autorizzava il pieno schieramento di forze per la repressione armata dei briganti.

Ci vollero ben cinque anni di violenze e spargimenti di sangue e processi ed esecuzioni sommarie

per chiudere la dolorosa pagina del brigantaggio nell’Italia Meridionale postunitaria.

A metà degli anni ‘70 dell’Ottocento un ristretto gruppo di intellettuali incominciò a porsi il

problema di quali fossero le effettive condizioni del Mezzogiorno rurale. Nasceva una “questione

meridionale” dove il Meridione veniva indagato come “problema” della nascente nazione, da

indagare, comprendere e possibilmente risolvere. Il primo ad usare questa espressione fu il

napoletano Pasquale Villari, nelle sue Lettere meridionali pubblicate nel 1875, in cui denunciava,

per l’appunto, già l’esistenza di una «questione meridionale», trattando delle condizioni di

sfruttamento dei contadini da parte del vecchio ceto di proprietari terrieri e dell’inesistenza di una

classe media capace di rappresentare i bisogni delle masse e non i propri. Alla denuncia di Villari si

7 P. BEVILACQUA, Breve storia dell’Italia Meridionale dall’Ottocento a oggi, Donzelli editore, Roma 1996,

pag. 5.

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unì, poco dopo, quella dei due studiosi toscani Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, che scrissero

La Sicilia nel 1876, un moderno libro-inchiesta interamente scritto sulla base di indagini condotte

sul campo che insieme alle polemiche, denunce civili e proposte politiche, contribuirono alla nascita

politica e culturale della “questione meridionale”. Altri studiosi come Pasquale Turiello e Giustino

Fortunato portarono il loro contributo poco più tardi, anch’essi ispirati dal profondo desiderio di

comprendere e migliorare una situazione che fin dal principio si delineava in tutta la sua

complessità.

Poco si comprende davvero del modo in cui si è trasformato il Mezzogiorno se non si tiene conto

delle particolarissime relazioni sociali, improntate all’arbitrio personale e alla violenza del più forte,

che ne hanno per così lungo tempo regolato la vita interna.8

E’ solo tenendo presente il profondo legame di subordinazione personale del contadino al padrone

della terra, unico detentore del potere poiché possessore della terra e quindi datore delle risorse

necessarie per vivere, si poteva iniziare a comprendere il difficile rapporto della società contadina

con lo Stato, apportatore, invece, di soprusi perché imponeva nuove tasse, toglieva i figli alle

famiglie, bisognose di forza lavoro, con il servizio militare, difendeva gli interessi dei più forti. Il

rapporto che venne a crearsi tra cittadini e Stato fu un rapporto di profonda sfiducia, alimentata dal

fatto che questo non seppe mostrarsi garante della giustizia, capace di tutelare gli interessi di tutti.

Esso [Stato] si presentò, di fatto, come una componente interna alle gerarchie esistenti nella società,

sicché la grande massa della popolazione, anziché trasferire la propria fiducia alle istituzioni

liberali, la conservò e la rafforzò nei confronti dei poteri tradizionali realmente dominanti nella

realtà locale: le famiglie proprietarie, i gruppi, le reti di parentela.”9

8 Ivi, pag. 39.

9 Ibidem.

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3 La III guerra d’indipendenza e la “questione romana”

In seguito alla alleanza fra Italia e Prussia, il nuovo Stato si trovò a combattere la sua prima

guerra contro l’Austria, per conquistare Veneto e Trentino. La terza guerra d’indipendenza però,

parallela alla guerra tra Prussia e Austria, fu per il Paese un vero trauma. Infatti, l’esercitò subì una

pesante sconfitta a Custoza (24 giugno 1866) e anche la marina perse lo scontro navale a Lissa (il

20 luglio 1866), nonostante la superiorità numerica dell’esercito italiano rispetto a quello austriaco,

che invece era impegnato su due fronti. Gli unici successi militari furono ottenuti da Garibaldi sulla

strada di Trento. Ciononostante, grazie alla fulminante vittoria della Prussia, l’Italia acquistò il

Veneto, che però fu ceduto dall’Austria non direttamente all’Italia, ma alla Francia perché lo

concedesse all’Italia, dato che l’Austria non si riteneva battuta sul fronte italiano. Nell’ottobre del

1866, quindi, il Veneto fu annesso al regno d’Italia. Al Trentino e alla Venezia Giulia, invece, si

dovette rinunciare e fu dato l’ordine ai garibaldini di ritirarsi dai territori che avevano conquistato.

A quest’ordine Garibaldi rispose con il famoso telegramma di una sola parola: «Obbedisco». Dopo

la guerra, però, Garibaldi sbarcò in Toscana e si pose alla testa di 3.000 volontari pronti ad invadere

il Lazio. Le truppe francesi però, sbarcate a Civitavecchia, armate dei nuovi fucili a retrocarica,

fermarono sanguinosamente l’avanzata dei garibaldini nella battaglia di Mentana (3 novembre

1867). Questo episodio fece spostare decisamente l’opinione pubblica verso la Prussia e contro la

Francia di Napoleone III. Difatti, allo scoppio della guerra franco-germanica del 1870, l’Italia

rifiutò ogni aiuto alla Francia, e dopo la caduta di Napoleone III e la fine dell’Impero, fece sapere di

non essere più vincolata al rispetto della “Convenzione di settembre” (del 15 settembre 1864), con

cui si era impegnata a rinunciare a Roma come capitale e a difenderla anche da eventuali attacchi

garibaldini. A testimonianza e garanzia di questo impegno si era trasferita la capitale da Torino a

Firenze (1965).

Difatti, dopo lo spostamento della capitale a Firenze, la situazione era ormai in stallo. I moderati

cercavano di realizzare il principio cavouriano della separazione tra Stato e Chiesa, e speravano in

un paziente lavoro di mediazione colla Chiesa, grazie al quale essa prima o poi volontariamente

avrebbe lasciato il potere per arrivare alla conciliazione tra liberalismo e cattolicità. I democratici,

invece, anticlericali, volevano una conquista violenta, che segnasse lo scontro tra ragione e fede.

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e il completamento dell’unità

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Tra le due posizioni vi era l’intransigenza cattolica dottrinaria e politica, manifestata apertamente

con l’enciclica di Pio IX Quanta cura dell’8 dicembre 1864, con il Sillabo, una raccolta dei

principali errori dottrinari dell’epoca moderna. Inoltre, il Concilio Vaticano I (8 dicembre 1869) e la

proclamazione del dogma dell’infallibilità del papa deteriorarono ulteriormente i rapporti collo

Stato. La situazione di stallo terminò solo con la caduta di Napoleone III, in seguito alla quale

Roma fu presa colle armi, il 20 settembre 1870, dall’esercito italiano. Fu varata la legge delle

Guarentigie (ossia delle garanzie) il 13 maggio 1871, quale atto unilaterale (non riconosciuto dalla

Chiesa) di compromesso tra laicismo anticattolico (che non voleva concedere nessun privilegio al

papa, ma gli riconosceva solo un’autorità spirituale) e cattolicesimo-liberale (che perseguiva

l’assoluta e totale separazione fra Stato e Chiesa): il compromesso tra queste due correnti si

concretizzò nella legge delle Guarentigie in cui si prevedeva una moderata separazione dallo Stato,

che infatti si impegnava a tenere nel giusto conto il ruolo e l’influenza della Chiesa nella società. La

persona del papa, al pari di quella del sovrano, era dichiarata sacra e inviolabile; gli si riservavano

onori sovrani e il godimento perpetuo dei palazzi vaticani e della villa di Castelgandolfo; garantiva

al papa libera comunicazione con i cattolici sparsi nel mondo e l’immunità diplomatica per gli

ambasciatori stranieri accreditati presso la Santa Sede; inoltre concedeva al papa un appannaggio

annuo di tre milioni. Così, il 1° luglio 1871, Roma diventava la capitale d’Italia.

Con la legge delle guarentigie veniva meno sia la prospettiva cattolico-liberale di una riforma

morale della Chiesa, completamente separata dallo Stato e «liberata» dall’antica struttura gerarchica

e autoritaria, sia quella del laicismo anticattolico. Si imponeva invece l’idea di un contemperamento

tra separatismo e giurisdizionalismo, in quanto la riaffermazione dell’autorità dello Stato non

doveva essere disgiunta dalla realistica valutazione del ruolo e dell’influenza della Chiesa sulla

scena internazionale e sulla società civile italiana.10

Ma Pio IX non volle accettare una legge unilaterale e per di più emanata da uno Stato ai suoi occhi

illegittimo e usurpatore, ed anche l’appannaggio concesso dallo Stato non fu mai incassato.

L’intransigenza del papa rese impossibile una conciliazione fra le masse cattoliche e le istituzioni

del nuovo Stato. Anzi Pio IX proibì, con il documento Non expedit (cioè: “non conviene”), del

1874, ai cattolici di partecipare alla vita politica dello Stato italiano, contribuendo a ridurre ancora

di più il numero di votanti, già ristrettissimo a causa delle limitazioni di censo.

10

F. CAMMARANO, Storia dell’Italia liberale, Laterza, Bari 2011, pag. 47.

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Ad ogni modo, con l’ingresso di Vittorio Emanuele a Roma potevano considerarsi formalmente

raggiunti gli obiettivi storici del Risorgimento italiano.11

Concludendo e schematizzando, si può ben affermare che la Destra storica, nei primi quindici

difficili anni di esistenza dello Stato nazionale, aveva risolto brillantemente, pur fra contraddizioni e

difficoltà, quattro gravissimi problemi:

1° aveva quasi del tutto portato a compimento il processo di unità nazionale, con l’annessione del

Veneto e del Lazio;

2° aveva risolto la “questione romana”, fatto di Roma la capitale e sistemato, anche se in via

unilaterale, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa;

3° aveva raggiunto nel 1876 il pareggio del bilancio, pur se con una politica finanziaria spietata;

4° aveva portato a compimento la formazione delle infrastrutture economiche (cioè le strade ed il

sistema ferroviario).

11

Ibidem.

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