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UNICUSANO
Facoltà di Scienze Politiche
Appunti di storia contemporanea
Il Novecento
Seconda parte
La prima guerra mondiale (1)
1
Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco, Gavrilo Princip, uccise con due colpi di
pistola l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e sua moglie,
mentre attraversavano in auto scoperta la città di Sarajevo. Si trattava di un attentato
terroristico molto simile a quelli di matrice anarchica, che avevano già mietuto
vittime tra sovrani e governanti. Nell’Europa del 1914 esistevano molte tensioni
latenti, ma probabilmente, proprio tale attentato fu l’elemento capace di far esplodere
il primo grande conflitto mondiale.
L’Austria compì la prima mossa inviando il 23 luglio 1914 un ultimatum alla Serbia;
il secondo passo lo fece la Russia, assicurando il suo appoggio a quest’ultima. Forte
di tale sostegno, la Serbia accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola
che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti
dell’attentato. L’Austria giudicò tutto ciò insufficiente e il 28 luglio dello stesso anno
dichiarò guerra alla Serbia. Immediatamente la Russia ordinò la mobilitazione delle
forze armate, il che voleva dire porre in essere le premesse necessarie per partecipare
ad un conflitto. Immediata fu la risposta della Germania, che interpretò l’agire russo
come un atto di ostilità nei suoi confronti. Così il 31 luglio mandò un ultimatum alla
Russia, intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. Il giorno
seguente la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le
proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum ed infine con la
dichiarazione di guerra alla Francia. Fu, dunque, il governo tedesco a far precipitare
totalmente la situazione, anche perché la Germania da tempo soffriva di un complesso
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di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni
territoriali.
Il piano di guerra, già elaborato, ai primi del secolo, dal capo di stato maggiore Alfred
von Schlieffen, dava per scontata l’eventualità di una guerra su due fronti, sussistendo
dal 1894 un’alleanza franco-russa. Per Schlieffen bisognava attaccare prima la
Francia, che sarebbe stata messa fuori combattimento nell’arco di poche settimane, e
successivamente la Russia, molto forte militarmente, ma lenta a mettersi in azione.
Per porre in atto il suo piano, però, la Germania doveva invadere il Belgio nonostante
la sua neutralità. La violazione del territorio belga scosse profondamente l’opinione
pubblica e convinse la Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania.
Tutti i governi sottovalutavano la gravità dello scontro che si andava preparando.
Inoltre, in quasi tutti i paesi belligeranti, le forze pacifiste trovarono scarso appoggio.
Il richiamo del patriottismo mostrò, in questa occasione, la sua grande forza e fece
breccia all’interno di tutti gli Stati. La Seconda Internazionale, nata come espressione
della solidarietà dei lavoratori di tutti i paesi, cessò praticamente di esistere: fu la
prima vittima della grande guerra.
La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute
possibilità dei mezzi di trasporto, consentirono ai belligeranti di metter in campo
rapidamente eserciti di proporzioni mai conosciute. Solo la Gran Bretagna non aveva
un esercito di leva, ma riuscì comunque a mobilitare oltre due milioni di uomini.
Gli Stati in guerra possedevano, inoltre, nuove armi come le mitragliatrici
automatiche, capaci di sparare centinaia di colpi al minuto. Si passò così dalla guerra
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di movimento, tipica della concezione strategica ottocentesca e basata sullo
spostamento rapido di ingenti masse di uomini in vista di pochi e risolutivi scontri
campali, alla guerra di logoramento, che vedeva schieramenti praticamente
immobili affrontarsi in una serie di sterili, quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati
da lunghi periodi di stasi.
I tedeschi, ai primi di settembre, si attestarono lungo il coso della Marna, a pochi
chilometri da Parigi. Il governo francese dovette così lasciare la capitale. Nello stesso
tempo anche sul fronte orientale le armate germaniche vincevano i russi nelle
battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri. Successivamente, però, l’ offensiva
russa mise in serio pericolo gli austriaci e preoccupò gli stessi comandanti tedeschi,
inducendoli a trasferire molti uomini dal fronte occidentale a quello orientale, mentre
sotto il generale Joffre i francesi si stavano riorganizzando al di qua della Marna.
Infatti, poco tempo dopo, riuscirono a fare arretrare i nemici in corrispondenza dei
fiumi Aisne e Somme.
In quattro mesi di guerra, sul solo fronte occidentale, si erano avute oltre 400.000
mila vittime.
Molte potenze minori temevano di venire sacrificate da una nuova sistemazione
dell’assetto internazionale, mentre altre cercarono di profittare della guerra per
soddisfare le loro ambizioni territoriali. Di qui la tendenza del conflitto ad allargarsi.
Nell’agosto 1914 il Giappone, richiamandosi al trattato che lo legava alla Gran
Bretagna dal 1902, dichiarava guerra alla Germania. Nel novembre dello stesso anno
la Turchia, legata alla Germania da un trattato segreto, entrava in guerra al suo fianco.
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Nel maggio del 1915 anche l’Italia scendeva in campo contro l’Austria – Ungheria. A
favore degli imperi centrali entrava poi, nel settembre dello stesso anno, la Bulgaria,
mentre il Portogallo, la Romania e la Grecia, presero in seguito parte al conflitto,
schierandosi a favore delle democrazie europee. Decisivo sarebbe poi stato
l’intervento degli Stati Uniti a favore dell’Intesa; gli americani si trascinarono dietro
numerosi paesi come la Cina, il Brasile e altre repubbliche latino-americane. Il
conflitto diventava così veramente mondiale.
Come detto, l’Italia entrò in guerra nel maggio 1915, quando il conflitto era già
iniziato da dieci mesi.
Infatti, il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo italiano, presieduto da
Salandra, aveva dichiarato la propria neutralità. Questa decisione derivava dal
carattere difensivo della Triplice Alleanza: l’Austria non era stata attaccata, né aveva
consultato l’Italia prima di attaccare la Serbia.
Gradualmente, in Italia prese forza la linea interventista per un ingresso nel conflitto
a fianco dell’Intesa e contro l’Austria, che avrebbe consentito di portare a
compimento il processo risorgimentale, ma anche aiutato la causa delle nazionalità
oppresse. Fautori di questa visione erano i repubblicani, i radicali, i socialisti
riformisti di Bissolati, le associazioni irredentistiche, che avevano tra le file numerosi
fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico, come Cesare Battisti. Fautori attivi
dell’intervento erano i nazionalisti e anche i liberal-conservatori, sia pur in forma più
prudente e moderata. Del resto il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli
Esteri Sonnino temevano che una mancata partecipazione al conflitto compromettesse
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la posizione italiana all’interno dell’Europa. L’ala più consistente dello schieramento
liberale, quella che faceva capo a Giolitti, era, però, per la neutralità dello Stato
italiano. Decisamente ostile all’intervento risultava anche il mondo cattolico. Il
nuovo papa, Benedetto XV, assunse un atteggiamento pacifista. Molto netta fu poi la
posizione assunta dalla Cgl e dal partito socialista italiano: una ferma condanna della
guerra che contrastava apertamente con la scelta patriottica degli altri maggiori partiti
socialisti europei, ma rispecchiava l’istinto pacifista delle masse operaie e contadine.
Benito Mussolini, direttore dell’ “Avanti!”, dopo aver condotto una campagna per la
neutralità, si pose tra gli interventisti. Destituito dal suo incarico e poi espulso dal
partito, fondò nel novembre 1914 un nuovo quotidiano, “Il Popolo d’Italia”, che
divenne la principale tribuna dell’interventismo di sinistra.
Ma ciò che, in definitiva, decise l’esito dello scontro tra neutralisti ed interventisti fu
l’atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re. Salandra e
Sonnino, fin dall’autunno del 1914, allacciarono piani segretissimi con l’Intesa, pur
continuando a trattare con gli Imperi centrali, e decisero infine, con l’avallo del re e
senza informare né il Parlamento né altri membri del governo, di accettare le proposte
della stessa Intesa, firmando il 26 aprile 1915 il Patto di Londra con Francia,
Inghilterra e Russia. Le clausole principali prevedevano che l’Italia avrebbe ottenuto
in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine naturale del Brennero, la
Venezia Giulia e l’intera penisola istriana, oltre ad una parte della Dalmazia con
numerose isole adriatiche. Bisognava, però, superare la prevedibile opposizione della
maggioranza neutralista della Camera, cui spettava la ratifica del Trattato. Quando
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Giolitti ai primi di maggio, non essendo al corrente della firma del patto di Londra, si
pronunciò per la continuazione delle trattative con l’Austria, ben trecento deputati gli
manifestarono la solidarietà, inducendo Salandra alle dimissioni. Ma la volontà del
Parlamento fu superata dalla decisione del re, che respinse le dimissioni di Salandra,
mentre le manifestazioni di piazza si fecero sempre più minacciose. Il 20 maggio
1915, costretta a scegliere fra l’adesione alla guerra e un voto contrario che avrebbe
sconfessato con il governo lo stesso sovrano, la Camera approvò, col voto contrario
dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo, che la sera del 23
maggio dichiarava guerra all’Austria. Il 24 iniziavano le operazioni militari.
Disorientati ed isolati, i socialisti non riuscirono ad organizzare una vera opposizione.
La stessa formula “né aderire né sabotare” era poco più che una dichiarazione di
principio e una prova di impotenza.
L’Italia entrò in guerra e le sue truppe furono guidate dal generale Luigi Cadorna.
Durante tutto il 1915, l’esercito italiano non riuscì a riportare vittorie decisive. La
stessa cosa accadeva alla Francia. In quell’anno gli unici successi furono ottenuti sul
fronte orientale dagli austro-tedeschi, prima contro i russi, poi contro i serbi, questi
ultimi attaccati simultaneamente dall’Austria e dalla Bulgaria.
All’inizio del 1916, i tedeschi, sul fronte occidentale, attaccarono i francesi a Verdun.
Nel giugno dello stesso anno, mentre si andava esaurendo l’offensiva tedesca a
Verdun, l’esercito austriaco passò all’attacco sul fronte italiano, cercando di penetrare
dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due l’esercito nemico. Gli italiani
furono colti di sorpresa dall’offensiva, che fu chiamata Strafexpedition, ossia
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spedizione punitiva contro l’antico alleato colpevole di tradimento, riuscirono
faticosamente ad arrestarla sugli altipiani di Asiago e successivamente a
contrattaccare. Durante questa spedizione cadde prigioniero Cesare Battisti, che fu
condannato a morte per alto tradimento. L’Italia non perse alcun territorio, ma il
contraccolpo psicologico fu grande. Salandra si dimise e il suo posto fu preso da
Paolo Boselli. Il cambio al timone non comportò alcun mutamento: nel corso
dell’anno furono combattute cinque battaglie sull’Isonzo, tutte prive di risultati
tangibili, salvo quello, più morale, della presa di Gorizia.
Sul fronte orientale, i russi lanciarono in giugno una violenta offensiva recuperando i
territori persi l’anno prima. I successi zaristi spinsero la Romania ad intervenire a
fianco dell’Intesa. Ma il suo intervento si risolse in un totale disastro: gli imperi
centrali riuscirono a vincerla, impossessandosi delle sue risorse agricole e minerarie.
Tuttavia le forze austro-tedesche non riuscivano a riequilibrare il loro svantaggio,
soprattutto a causa del blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. Invano
la flotta tedesca aveva tentato un attacco contro quella inglese nella penisola dello
Jutland.
Due anni e mezzo di guerra non avevano risolto la situazione. La vera protagonista
divenne, così, la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni
difensive. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa, logorava i combattenti nel
morale e nel fisico. I soldati non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere
qualche pericolosa azione notturna o, quando scattava un’offensiva, per lanciarsi
all’attacco delle trincee nemiche.
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Gli assalti, che di regola iniziavano nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un
intenso tiro di artiglieria. Così, mentre gli ufficiali di complemento, ossia quelli non
di carriera, restarono fedeli alle motivazioni ideali originarie, i soldati semplici non
avevano idee precise sui motivi per cui si combatteva la grande guerra e la
consideravano come un flagello naturale. La visione eroica del conflitto restò, così,
prerogativa di alcune esigue minoranze, come le truppe d’assalto tedesche, o gli
arditi italiani.
Il primo conflitto mondiale si caratterizzò anche per i nuovi ritrovati della tecnologia,
come le armi chimiche, gas che venivano indirizzati verso le trincee nemiche,
provocando la morte per soffocamento di chi li respirava.
Ma, entrarono nel teatro di guerra anche il carro armato e il sottomarino. Furono i
tedeschi ad intuire le possibilità di questo secondo nuovo mezzo, utilizzato per
attaccare le navi da guerra nemiche e per affondare quelle mercantili. Nel maggio del
1915 proprio un sottomarino tedesco affondò il transatlantico inglese Lusitania, che
trasportava più di mille passeggeri, fra cui 140 cittadini americani. Le proteste degli
Stati Uniti furono così elevate da convincere i tedeschi a sospendere la guerra
sottomarina indiscriminata.
Durante il primo conflitto mondiale anche le popolazioni civili furono coinvolte nello
sforzo bellico. I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo
dell’economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la
gigantesca macchina bellica. In Germania si giunse, addirittura, a parlare di
socialismo di guerra. Strettamente legate ai mutamenti dell’economia furono le
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trasformazioni dell’apparato statale. Ovunque i governi vennero investiti da nuove
attribuzioni e dovettero farvi fronte con l’aumento della burocrazia. In realtà la
dittatura militare vigente in Germania, non differiva da quella instaurata in Francia
nell’ultimo anno di guerra dal governo di unione nazionale di Georges Clemenceau, o
da quella esercitata in Gran Bretagna da David Lloyd George.
Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini divenne la propaganda: questa
non si rivolgeva solo alle truppe, ma cercava di raggiungere anche la popolazione
civile.
Con il protrarsi del conflitto e con l’inasprirsi del regime repressivo all’interno dei
singoli Stati si rafforzarono i gruppi socialisti contrari alla guerra. Nel convegno di
Zimmerwald del 1915, Lenin, leader riconosciuto dei bolscevichi, aveva sostenuto la
tesi secondo cui il movimento operaio doveva profittare della guerra e delle
sofferenze che essa provocava nelle masse, per affrettare il crollo dei regimi
capitalistici. Le tesi di Lenin, riproposte all’inizio del 1917, nel saggio
L’imperialismo fase suprema del capitalismo, trovarono adesioni nelle minoranze di
estrema sinistra, che agivano all’interno dei partiti socialisti europei.
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La prima guerra mondiale (2)
Nei primi mesi del 1917 si verificarono due nuovi eventi, destinati a mutare il corso
della guerra.
Agli inizi del mese di marzo, uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si
mutò in una imponente manifestazione contro il regime zarista. I soldati, chiamati a
ristabilire l’ordine, rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono con i
dimostranti: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo fu arrestato con la propria
famiglia.
Il 6 aprile gli Stati Uniti decisero di entrare in guerra contro la Germania che, ai primi
di febbraio, aveva ripreso un'offensiva sottomarina indiscriminata. L’intervento
americano, pur facendo sentire il suo peso solo in capo a parecchi mesi, fu decisivo
sia sul piano militare, che su quello economico, tanto da compensare il grave colpo
ricevuto dall’Intesa, dopo l’uscita di scena della Russia.
Il crollo del regime zarista era stato il preludio alla disgregazione dell’esercito russo.
Molti reparti rifiutarono di riconoscere l’autorità degli ufficiali e molti soldati-
contadini abbandonarono il fronte e tornarono ai loro villaggi. Il tentativo del governo
provvisorio di attuare un'offensiva contro gli austro-tedeschi in Galizia fu un
fallimento. Da allora la Russia cessò di fornire qualsiasi contributo alle forze
belligeranti.
Il malessere delle truppe degenerò in episodi di ammutinamento, come in Francia,
dove fu chiamato il generale Philippe Pétain, sostenitore di un uso più umano delle
stesse truppe, in battaglia.
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Anche all’interno dei governi degli imperi centrali si andavano moltiplicando gli
episodi di insubordinazione alle autorità militari. Particolarmente delicata era, del
resto, la posizione dell’Impero austro-ungarico, dove l’andamento non brillante della
guerra aveva ridato forza alle aspirazioni indipendentiste delle nazionalità oppresse.
Alla costituzione di un governo cecoslovacco in esilio seguì, nel 1917, un accordo fra
serbi, croati e sloveni per la costituzione di uno Stato unitario degli slavi del Sud, la
futura Jugoslavia. Consapevole del pericolo di disgregazione dell’Impero, il nuovo
imperatore, Carlo I, avviò dei negoziati per una pace segreta. Ma, le sue proposte
furono respinte dall’Intesa. Non ebbe miglior fortuna una iniziativa di papa Benedetto
XV, che invitò i governi a porre fine all’inutile strage.
Il 1917 fu un anno difficile per l’Italia. Fra maggio e settembre, Cadorna ordinò una
nuova serie di offensive sull’Isonzo con risultati però modesti. A Torino si verificò
tra il 22 e il 26 agosto una protesta che, originata per la mancanza del pane, divenne
una vera e propria sommossa.
Il 24 ottobre 1917, l'armata austriaca, rinforzata da sette divisioni tedesche, attaccò le
linee italiane sull’alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto. Gli
attaccanti misero in atto la tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare
rapidamente nel territorio nemico sfruttando la sorpresa, per metter in crisi lo
schieramento avversario. La manovra fu così efficace che buona parte delle truppe
italiane dovettero abbandonare le loro posizioni. L’esercito venne dimezzato e si
ritirò sulla nuova linea difensiva del Piave. Prima di essere rimosso dal comando
supremo, dove fu sostituito da Armando Diaz, Cadorna gettò le colpe della disfatta
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sui suoi stessi soldati, accusando i reparti investiti dall’offensiva, di essersi arresi
senza combattere. In realtà, la disfatta fu determinata da molteplici errori degli stessi
comandi, che si erano lasciati trovare impreparati dall’attacco sull’alto Isonzo.
Successivamente, l’esercito italiano, impegnato sul Piave e sul Monte Grappa, si
difese valorosamente evitando una sconfitta, che avrebbe portato alla totale
catastrofe.
Il nuovo governo italiano di coalizione nazionale, presieduto da Vittorio Emanuele
Orlando trovò, a sua volta, un robusto consenso tra le forze politiche. Gli stessi leader
della sinistra riformista, con Turati, assicuravano la loro solidarietà allo sforzo di
resistenza del paese. Inoltre, a cominciare dal 1918, fu svolta un’opera sistematica di
propaganda tra le truppe, attraverso la diffusione di giornali di trincea e la creazione
di un Servizio P (propaganda), che si affidava all’opera degli ufficiali inferiori e si
valeva della collaborazione di numerosi intellettuali. Attraverso la propaganda si
cercava di prospettare ai soldati la possibilità di vantaggi materiali in caso di vittoria:
fu in questo clima che cominciò a serpeggiare la parola d’ordine della terra ai
contadini.
Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1917, una insurrezione guidata dai bolscevichi
rovesciava in Russia il governo provvisorio. Il potere fu assunto da un governo
rivoluzionario presieduto da Lenin, che decise di porre fine ad una guerra divenuta
ormai impossibile e dichiarò la sua disponibilità ad una pace “senza annessioni e
senza indennità”. La stessa pace fu conclusa il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk, ai
confini con la Polonia: la Russia dovette accettare condizioni molto dure, che
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comportavano anche la perdita di un quarto dei territori europei del suo Impero. Con
la pace, Lenin salvò tuttavia il nuovo Stato socialista e dimostrò al mondo che la
trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione era realmente possibile, sia
pur ad un prezzo elevato. Per rispondere alla sfida di Lenin, l’Intesa dovette
accentuare il carattere ideologico della guerra, presentendola come una crociata della
democrazia contro l’autoritarismo. Questa concezione trovò il suo massimo interprete
in Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti. Nel 1917, entrando in guerra, egli
dichiarò che il suo paese avrebbe combattuto non in vista di particolari rivendicazioni
territoriali, ma col solo obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi,
di difendere i diritti delle nazioni e di instaurare un nuovo ordine basato sulla pace e
sull’accordo tra popoli liberi.
Nel gennaio del 1918, quasi in risposta all’armistizio russo-tedesco, Wilson precisò le
linee ispiratrici del suo pensiero in quattordici punti. In essi, egli rivendicava
l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione,
l’abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti. Egli, inoltre,
indicava alcune proposte concrete per l’assetto europeo dopo il conflitto: piena
reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei tedeschi dai
territori russi, restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena, possibilità di
sviluppo autonomo per i popoli soggetti all’Impero austro – ungarico e a quello turco,
rettifica dei confini italiani, secondo le linee indicate dalla nazionalità. Nell’ultimo
punto, Wilson si proponeva di istituire una Società delle Nazioni per assicurare il
mutuo rispetto delle norme di convivenza tra i popoli.
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Per la verità, i governanti dell’Intesa non condividevano il programma wilsoniano, o
lo condividevano in parte. Dovettero, però, far mostra di accettarlo sia perché
avevano troppo bisogno dell’aiuto americano, sia perché speravano che il suo
programma fosse un antidoto alla Russia bolscevica.
Nel marzo del 1918, i tedeschi riuscirono a sfondare fra Saint Quentin e Arras e
avanzarono in territorio francese. In giugno, l’esercito di Hindenburg era di nuovo
sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni tedeschi a lunga gittata. Sempre in
giugno gli austriaci tentarono di attaccare le forze italiane sul Piave, ma furono
respinti.
A metà luglio, un ultimo attacco sulla Marna fu fermato dagli anglo-francesi che
agivano sotto il comando unificato del generale francese Foch e cominciavano a
giovarsi dell’apporto degli Stati Uniti.
Alla fine di luglio, le forze dell’Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi, passarono
al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto la Germania subì una grave sconfitta ad Amiens.
Da quel momento, le sue truppe cominciarono ad arretrare, mentre i generali tedeschi
compresero di aver perso la guerra. La loro preoccupazione era quella di sbarazzarsi
del potere, che avevano tenuto fino a quel momento e di lasciare ai politici la
responsabilità di un armistizio che si annunciava duro, ma che avrebbe permesso alla
Germania di concludere la guerra con l’esercito integro e il territorio nazionale
intatto. Il compito di aprire le trattative toccò ad un governo di coalizione
democratica, formatosi ai primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici
e dei cattolici del Centro. Intanto, a poco a poco, gli alleati tedeschi venivano
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sconfitti. La prima fu la Bulgaria, poi l’Impero turco. Alla fine di ottobre, anche
l’Austria-Ungheria dovette cedere. Il tentativo di trasformare l’Impero austro-
ungarico in una federazione di Stati semiautonomi non riuscì ad arrestare la volontà
indipendentista dei vari movimenti nazionali. Cecoslovacchi e slavi del Sud diedero
vita a Stati indipendenti, mentre le truppe di nazionalità non tedesca abbandonavano
il fronte in numero sempre maggiore. Sconfitti sul campo, a Vittorio Veneto, gli
austriaci firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l’armistizio con l’Italia, che entrò
in vigore il 4 novembre.
Intanto la situazione peggiorava in Germania. I marinai di Kiel, dove era concentrato
il grosso della flotta, si ammutinarono e diedero vita a consigli rivoluzionari
sull’esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono
i socialdemocratici, pure presenti nel governo “legale” del Reich. Un
socialdemocratico, Friedrich Ebert fu proclamato capo del governo, mentre il Kaiser
dovette fuggire in Olanda, come pure l’Imperatore d’Austria. L’ 11 novembre, i
delegati del governo tedesco firmavano l’armistizio nel villaggio francese di
Rethondes, accettando le dure condizioni dei vincitori: consegna dell’armamento
pesante e della flotta, ritiro al di qua del Reno delle truppe, annullamento dei trattati
con la Russia e la Romania, restituzione unilaterale dei prigionieri. La Germania così
perdeva una guerra, che più degli altri contribuì a far scoppiare. Gli Stati dell’Intesa,
vincitori grazie all’aiuto di una potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e
provati, per l’immane sforzo sostenuto.
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Un compito complesso era quello che attendeva gli statisti nella conferenza di pace, i
cui lavori iniziarono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles, presso Parigi. Vi
parteciparono solo gli Stati vincitori, mentre i vinti furono chiamati in un secondo
momento per sottoscrivere i relativi trattati.
Nel 1918, Wilson aveva sollecitato la formazione di una grande organizzazione degli
Stati per garantire il rispetto dei diritti dei popoli contro le aggressioni. In realtà,
l’attuazione del programma del presidente americano si rivelò difficile e, per certi
versi, impossibile.
Le potenze europee vincitrici volevano ricavare dalla loro vittoria il maggiore
guadagno possibile, facendo pagare ai vinti tutte le conseguenze e le spese della
guerra. La Francia riteneva lecito punire la Germania e impedirne la ripresa
economica e militare; l’Inghilterra voleva garantirsi la supremazia sui mari e in
campo coloniale, l’Italia chiedeva, oltre ai territori indicati nel Patto di Londra, anche
il possesso della città di Fiume. La conferenza fu, dunque, lunga e piena di contrasti.
Alla fine prevalsero gli interessi delle due maggiori potenze europee, la Francia e
l’Inghilterra, che trassero dalla vittoria i maggiori profitti. Il principio di
autodeterminazione dei popoli fu accantonato: i nuovi Stati vennero definiti senza
tener conto delle volontà e delle aspirazioni delle minoranze etniche.
I trattati di pace conclusi furono cinque, e vennero firmati in varie località nei
dintorni di Parigi: ad esempio a Versailles fu concluso quello con la Germania,
mentre a Saint-Germain, quello con l’Austria.
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Il trattato di Versailles fu un vero Diktat imposto ai tedeschi. Con tale trattato
l’Alsazia e la Lorena venivano restituite alla Francia, che ottenne anche per quindici
anni, il possesso del bacino della Saar, ricco di carbone. Alcuni distretti di frontiera
tedeschi vennero ceduti al Belgio, alla Danimarca e alla neonata Cecoslovacchia. Le
zone polacche e tedesco-polacche della bassa Vistola, eccetto Danzica, divenuta città
libera, passarono al nuovo Stato polacco. Tutte le colonie tedesche vennero divise tra
Inghilterra, Francia e Giappone.
L’esercito tedesco fu ridotto a 100.000 uomini con armamento leggero. La Germania
dovette rinunciare alla sua marina da guerra ed abolire il servizio di leva. Dovette,
inoltre, riconoscere la propria responsabilità di aver provocato la guerra e le furono
imposte “riparazioni” stabilite, in seguito, in 132 miliardi di marchi-oro, da pagare in
trent’anni.
Il Trattato di Saint-Germain venne sottoscritto con la neonata Repubblica d’Austria.
Sulle rovine dell’Impero asburgico nascevano tre nuovi Stati: l’Ungheria, la
Cecoslovacchia e la Jugoslavia. L’Austria, come detto, venne ridotta ad una piccola
repubblica senza alcun legame con l’Ungheria e le fu, inoltre, vietato di unirsi
politicamente con la Germania. Inoltre, dovette cedere la Galizia alla Polonia, la
Transilvania e la Bucovina alla Romania, il Trentino e l’Alto Adige fino al Brennero,
l’Istria, con l’esclusione di Fiume, e parte della Dalmazia, all’Italia. Rispetto alle
clausole del Patto di Londra, all’Italia non vennero date Valona, né il protettorato
sull’ Albania.
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L’Europa, uscita dalla conferenza di Parigi, contava dunque ben otto Stati nuovi, sorti
dalle rovine dei vecchi imperi. Ad essi si sarebbe aggiunto, nel 1921, lo Stato libero
d’Irlanda, con l’esclusione della zona settentrionale, l’Ulster, che rimaneva sotto il
controllo inglese.
Nella Conferenza di pace venne anche fondata la Società delle Nazioni, la cui sede fu
fissata a Ginevra. Essa incominciò ad essere operante il 28 aprile 1919.
La nuova organizzazione internazionale avrebbe dovuto regolare pacificamente le
controversie fra gli Stati. Il nuovo organismo sovranazionale prevedeva, nel suo
statuto, la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra, come strumento di
soluzione dei contrasti, il ricorso all’arbitrato, l’adozione di sanzioni economiche nei
confronti degli Stati aggressori. Tuttavia essa non riuscì a sottrarsi alla volontà degli
Stati più forti e, per questo, non sempre ricoprì fedelmente il ruolo per cui era stata
progettata. La sua azione in favore della pace fu inoltre resa meno efficace dalla
mancata adesione di importanti Stati, come gli Stati Uniti, che pur avevano proposto
la nascita dell’organizzazione e, almeno inizialmente, dalla esclusione degli Stati
sconfitti come la Germania, oltre che della Russia socialista.
E se da un lato, la vita della Società delle Nazioni risultava, sin dalla nascita, in salita,
dall’altro, gli Stati Uniti davano vita ad una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto
delle responsabilità mondiali, esprimendo la loro chiara volontà di non occuparsi
delle faccende europee.
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La Rivoluzione russa del 1905 e del 1917
Fra le grandi potenze europee, la Russia era la sola, che quasi alla soglia del XX
secolo, vivesse ancora in un sistema autocratico, nemmeno temperato da forme di
limitato costituzionalismo. I successori di Alessandro II, Alessandro III e Nicola II,
accantonarono ogni forma di occidentalizzazione. Ma se diveniva inattuabile
qualsiasi progresso nel settore politico, in campo economico, qualche piccolo
miglioramento si realizzò soprattutto nel settore industriale, già sul finire
dell’Ottocento. Tuttavia il tenore di vita della popolazione russa, che cresceva con un
ritmo vorticoso, restava molto basso. Tra i contadini aveva riscosso abbastanza
successo la nascita, nel 1900, del Partito socialista rivoluzionario, nato dall’unione di
gruppi anarchici e populisti.
Dappertutto, comunque, serpeggiava il malcontento e, la guerra col Giappone, nel
1904, aumentò tale situazione di crisi.
Così, in una domenica di gennaio del 1905, un corteo di più di 150.000 persone, a
Pietroburgo, si dirigeva verso il Palazzo d’Inverno, residenza dello zar, per chiedere
maggiori libertà politiche ed interventi di varia natura, atti ad alleviare il disagio nel
quale viveva la stragrande maggioranza della popolazione. Ma, la risposta dello zar
fu una brutale repressione, nella quale morirono più di cento persone. Da tale
repressione derivò un’ondata di agitazione per tutto il paese. Sorsero così, in molti
centri, dei nuovi organismi rivoluzionari, i soviet, ossia i consigli, rappresentanze
popolari elette sui luoghi di lavoro e costituite da membri revocabili, secondo un
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principio di democrazia diretta, che si ispirava alla Comune. Il più importante tra
questi, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario della
capitale ed esercitò un grande potere in tutta la Russia. In ottobre, lo zar sembrò
disposto a cedere e promise libertà politiche e istituzioni rappresentative. Allo stesso
tempo però, le autorità favorivano la formazione di movimenti paramilitari di estrema
destra, le centurie nere, ed organizzavano spedizioni punitive contro i rivoluzionari, e
pogrom antiebraici. Così, tra novembre e dicembre dello stesso anno, terminata la
guerra in Giappone, lo zar decretava la fine della stagione dei soviet e schiacciava,
con durezza, le rivolte in tutta la Russia. Ristabilito l’ordine, promise l’elezione della
Duma, ossia di una assemblea rappresentativa, richiesta fortemente dai gruppi
liberal-democratici, che volevano avviare un processo di democratizzazione nella vita
politica russa. Diversa, al riguardo, la posizione dei bolscevichi, che non nutrivano
fiducia nei confronti delle istituzioni borghesi ed erano convinti che la classe operaia
dovesse guidare il processo rivoluzionario. La prima Duma, eletta nel 1906, a
suffragio universale ma con un complicato sistema che privilegiava i proprietari
terrieri, dotata di pochi poteri per condizionare l’esecutivo, fu sciolta dopo poco.
Stessa sorte subì la seconda Duma, eletta nel febbraio del 1907, la quale vedeva
rafforzate le ali estreme, destra reazionaria e socialisti rivoluzionari, ai danni del
centro, rappresentato dai costituzionali – democratici, i cadetti. A questo punto lo
zar modificò la legge elettorale, stabilendo che il voto di un proprietario valesse
cinquecento volte quello di un operaio: la Duma divenne, così, un’arma docile al
servizio dello zar, essendo formata solo da aristocratici. Artefice della politica
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repressiva zarista fu il conte Pëtr Stolypin, primo ministro nel 1906, in sostituzione
del troppo liberale Vitte. Punto chiave della sua autoritaria riforma fu la dissoluzione
della struttura del mir: in base ad un decreto, i contadini ebbero la facoltà di uscire
dalle comunità di villaggio, diventando proprietari della terra, che coltivavano;
godendo di facilitazioni creditizie poterono acquistare altre terre, sottratte al demanio
statale o cedute, dietro indennizzo, dai latifondisti. Lo scopo era quello di creare una
piccola borghesia rurale, punto di riferimento per una modernizzazione economica e
garanzia di stabilità politica. Ma, il progetto riuscì solo in parte. Dei nuovi piccoli
proprietari nati con la riforma, una parte andò ad ingrandire il numero dei ricchi
contadini, i kulaki, mentre la maggioranza non ottenne che piccoli appezzamenti di
terra senza ottenere alcun significativo miglioramento del livello di vita. Tutto ciò
favorì l’esodo dalle campagne, e determinò ancor più forti squilibri sociali nel paese.
Quando, nel marzo del 1917, il regime zarista venne abbattuto dalla rivolta degli
operai e dei soldati di Pietrogrado fu creato un governo provvisorio di orientamento
liberale, costituito per iniziativa della Duma e presieduto da un aristocratico, il
principe Georgij L’vov. Obiettivo dichiarato dal governo era quello di continuare la
guerra a fianco dell’Intesa e di promuovere una sorta di “occidentalizzazione”, che
favorisse lo sviluppo economico. Condividevano questa tesi i liberal - moderati, i
menscevichi e i socialisti rivoluzionari. Questi ultimi erano divisi in correnti
eterogenee, ma quasi tutte consideravano inevitabile il passaggio attraverso una fase
democratico-borghese. Per questo accettarono, con i menscevichi, di far parte del
secondo governo provvisorio, costituito da L’vov nel maggio 1917. Gli unici a
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rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi, convinti che solo la classe
operaia avrebbe potuto mutare le sorti del paese. Anch’essi, colti di sorpresa dallo
scoppio della rivoluzione, assunsero sulle prime una posizione di attesa. Come era già
accaduto nel 1905, al potere “legale” del governo si era subito affiancato e
sovrapposto il potere di fatto dei soviet: soprattutto di quello della capitale, che agiva
come una specie di parlamento proletario, emanando ordini spesso in contrasto con le
disposizioni governative. Quello che la rivoluzione aveva ormai messo in moto era,
secondo lo storico Edward H. Carr, “un movimento di massa animato da un
entusiasmo enorme e da visioni utopistiche di emancipazione dell’umanità dai ceppi
di un potere remoto e dispotico[…]L’idea di un’autorità centrale era tacitamente
respinta. Soviet locali di operai o di contadini spuntarono in tutta la Russia, e talune
città o distretti si dichiararono repubbliche sovietiche; comitati operai di fabbrica
rivendicavano un’autorità esclusiva sulla loro sfera, i contadini si impadronivano
della terra e se la dividevano. E su tutto incombeva il desiderio di pace, il desiderio
che avessero fine gli orrori di una guerra sanguinosa ed insensata”1.
Questa era la situazione nell’aprile del 1917, quando Lenin, leader dei bolscevichi,
rientrò in Russia dalla Svizzera. Giunto a Pietrogrado, diffuse un documento Le tesi
di aprile, in cui rifiutava la diagnosi corrente sul carattere borghese della fase
rivoluzionaria in atto e poneva in termini immediati il problema della presa del
potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria
sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati: era invece la Russia, in quanto
“anello più debole” della catena imperialista, a offrire le condizioni più favorevoli per 1 Cfr. E. H. Carr, Storia della Russia sovietica, Torino, Einaudi, nove tomi, 1964-1980.
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la rivoluzione. Per l’immediato, l’obiettivo era quello di conquistare la maggioranza
nei soviet e di lanciare le parole d’ordine della pace, della terra ai contadini poveri,
del controllo sociale della produzione da parte dei consigli operai. Questo
programma poteva apparire utopico, ma faceva leva sullo stato d’animo delle masse
operaie e contadine e consentì al partito bolscevico di allargare i consensi.
Tuttavia si accentuava la frattura con gli altri gruppi socialisti, che avevano accettato
di partecipare al governo di coalizione e di collaborare alla prosecuzione dello sforzo
bellico. Il primo episodio di ribellione palese al governo provvisorio, si verificò a
Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per
impedire la partenza al fronte di alcuni reparti. I bolscevichi, che inizialmente non
avevano approvato l’iniziativa, cercarono poi di assumerne il controllo. Ma,
l’insurrezione fallì per la presenza di truppe fedeli al governo. Alcuni leader dei
bolscevichi vennero arrestati o come Lenin costretti a fuggire.
In ogni caso, nell’agosto dello stesso anno, il principe L’vov si dimise e fu sostituito
da Kerenskij. Tuttavia la posizione del nuovo presidente del Consiglio era screditata
dal fallimento dell’offensiva contro gli austro-tedeschi da lui promossa in luglio: il
nuovo astro nascente era il generale Kornilov. Ai primi di settembre questi lanciò un
ultimatum al governo, chiedendo il passaggio dei poteri alle autorità militari.
Kerenskij reagì facendo appello alle forze socialiste, compresi i bolscevichi. Il
tentativo di colpo militare fu stroncato, ma ad uscire fortificati dalla vicenda furono
proprio i bolscevichi, protagonisti della mobilitazione popolare, che conquistarono la
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maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca. Per Lenin, rientrato in patria, i tempi
erano maturati per preparare l’insurrezione contro il governo provvisorio.
La decisione di rovesciare il governo Kerenskij fu presa dai bolscevichi il 23 ottobre
1917, in una drammatica riunione del Comitato centrale del partito, nella quale Lenin
dovette superare forti opposizioni. Favorevole all’insurrezione fu Lev Davidovic
Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij, che ne divenne il massimo
organizzatore. Kerenskij tentò di correre ai ripari, chiedendo aiuto alle truppe, che
però non obbedirono. La mattina del 7 novembre, soldati rivoluzionari e guardie
rosse, ossia milizie operaie armate, dopo essersi assicurati nella notte il controllo di
punti nevralgici della capitale, circondarono ed isolarono il Palazzo d’Inverno.
L’attacco fu incruento; pochissime le vittime nei rari e confusi scontri. Quando
cadeva l’ultima resistenza del governo provvisorio, si riuniva a Pietrogrado il
Congresso panrusso dei soviet, ossia l’assemblea dei delegati dei soviet di tutte le
province dell’ex Impero russo. Il congresso approvò due decreti proposti da Lenin. Il
primo faceva appello a tutti i popoli dei paesi belligeranti a firmare una pace giusta e
democratica, senza annessioni e senza indennità. Il secondo stabiliva che la grande
proprietà terriera era abolita immediatamente e senza alcun indennizzo. Il nuovo
potere tendeva così ad avere l’appoggio delle masse contadine, accontentate nelle
loro aspirazioni più immediate. Veniva costituito un governo rivoluzionario
composto solo da bolscevichi e di cui Lenin divenne presidente, che fu chiamato
Consiglio dei commissari del popolo. Tutte le altre forze politiche furono escluse:
solo la minoranza di sinistra dei socialrivoluzionari si schierò col nuovo governo ed
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entrò a farne parte, successivamente, con tre esponenti. Le altre forze politiche
protestarono, ma non organizzarono manifestazioni: preferirono aspettare la
convocazione dell’Assemblea costituente, le cui elezioni erano state fissate per la fine
del mese di novembre. I bolscevichi riportarono solo nove milioni di voti, ottenuti per
lo più nei grandi centri. Quasi scomparsi i menscevichi ed i cadetti. I veri trionfatori
furono i socialrivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza assoluta con oltre
400 seggi, grazie all’elettorato rurale. Ma, i bolscevichi non volevano rinunciare al
potere. Riunitasi la prima volta in gennaio, la Costituente fu immediatamente sciolta,
grazie all’intervento di militari bolscevichi, che ubbidivano ad un ordine del
Congresso dei soviet.
Questo atto di forza era in linea con le idee di Lenin, che non credeva alle regole
della democrazia borghese e riconosceva al solo proletariato il diritto di guidare il
processo rivoluzionario, attraverso le sue espressioni dirette come il soviet e la sua
sedicente avanguardia organizzata, il partito. Con lo scioglimento della Costituente, il
potere bolscevico rompeva definitivamente con le altre componenti del movimento
socialista, ponendo le premesse per l’instaurazione di una dittatura di partito.
Se era stato facile per i bolscevichi impadronirsi del potere, molto difficile si
presentava il compito di gestirlo. Un compito certo reso ancor più difficile dal fatto
che i bolscevichi non potevano contare sull’appoggio di altre forze politiche. Inoltre,
molti ufficiali ed intellettuali abbandonarono il paese, assieme a numerosi esponenti
dell’aristocrazia, dando vita al più imponente fenomeno di emigrazione politica mai
verificatosi fino ad allora. In Stato e Rivoluzione, scritto alla vigilia della rivoluzione
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d’ottobre, Lenin riprendeva la definizione di Marx sullo Stato, come strumento del
dominio di una classe sulle altre e prevedeva che, una volta scomparso questo
dominio, lo Stato si sarebbe avviato verso una rapida estinzione.
Per quanto riguardava la guerra, l’ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di
una sollevazione generale dei popoli europei, da cui sarebbe scaturita una pace equa.
Ma, ciò non accadde. La pace separata con la Germania, come visto, che fu conclusa
il 3 marzo 1918 con la firma del durissimo trattato di Brest-Litovsk, risultava, per i
comunisti, una scelta priva di alternative.
Gravissime furono anche le conseguenze del trattato a livello dei rapporti
internazionali. Le potenze dell’Intesa considerarono la pace come un tradimento ed in
risposta cominciarono ad appoggiare concretamente le forze antibolsceviche, che già
dal 1917 si erano andate organizzando in varie zone del paese. L’arrivo dei
contingenti stranieri servì a rafforzare l’opposizione al governo comunista,
soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i cosiddetti bianchi. Fra la primavera
e l’estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi, prima nel Nord della
Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi
penetravano nella Siberia orientale. Tutto ciò scatenò una guerra civile in molte zone
del paese. Nel 1918 frattanto, lo zar e tutta la sua famiglia furono giustiziati nel
timore che venissero liberati dai controrivoluzionari.
Il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, lasciando da parte le utopie
antimilitariste e i progetti di autogoverno popolare. Nel 1917 era intanto sorta la
Ceka, ossia una polizia politica. Nello stesso periodo venne istituito il Tribunale
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rivoluzionario centrale, col compito di processare chiunque disubbidisse al governo
operaio e contadino. Nel 1918, tutti i partiti d’opposizione vennero messi fuori legge
e fu reintrodotta la pena di morte, che era stata abolita dopo la rivoluzione d’ottobre.
Si procedeva anche alla riorganizzazione dell’esercito, ricostituito ufficialmente nel
febbraio 1918, col nuovo nome di Armata rossa degli operai e contadini. Artefice
principale della stessa riorganizzazione militare fu Trotzkij, che rese la milizia
popolare una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina. Nella
primavera del 1920 le armate bianche erano sconfitte, a parte qualche residua sacca
di resistenza, e la fase più acuta della guerra civile poteva dirsi esaurita.
Il regime bolscevico subì, però, un inatteso attacco esterno. A sferrarlo fu, nell’aprile
1920, la nuova Repubblica di Polonia. I governanti polacchi, infatti, insoddisfatti dei
confini definiti a Versailles, decisero di profittare della debolezza del nuovo regime
russo per recuperare i territori appartenenti alla “Grande Polonia” due o tre secoli
prima. L’Armata rossa riuscì però a respingere l’offensiva e a giungere sino alle porte
di Varsavia ma, alla fine di agosto, una controffensiva polacca costrinse i russi alla
ritirata. Si arrivò, infine, nel dicembre 1920 alla conclusione di un armistizio e quindi
alla pace nel marzo 1921. La Polonia vide in parte accontentate le sue aspirazioni
territoriali, incorporando ampie zone della Bielorussia e dell’Ucraina. La guerra
contro l’aggressione straniera aveva però accresciuto in Russia il senso di coesione
nazionale, riavvicinando molti oppositori al regime sovietico, ormai identificato come
una nuova “patria socialista”.
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Le forze bolsceviche avevano compiuto il miracolo di far nascere il primo Stato
socialista in un paese arretrato. Fra i dirigenti bolscevichi era diffusa, tuttavia, l’idea
che questa fosse una situazione transitoria e, alla lunga, il regime comunista avrebbe
potuto sopravvivere solo con l’aiuto del proletariato dell’Europa più progredita. In
questo clima, Lenin decise di realizzare un progetto concepito sin dall’inizio della
prima guerra mondiale, ossia sostituire alla vecchia Internazionale socialista una
nuova Internazionale comunista, che coordinasse gli sforzi dei partiti rivoluzionari di
tutto il mondo e rappresentasse una rottura definitiva con la socialdemocrazia
europea. Del resto, dal 1918, i bolscevichi avevano assunto la nuova denominazione
di Partito comunista di Russia. La riunione costitutiva dell’Internazionale comunista,
o Terza Internazionale, ebbe luogo a Mosca ai primi del marzo 1919. Vi
parteciparono una cinquantina di delegati, provenienti dalle ex province dell’Impero:
nasceva così il Comintern. Nel primo anno di vita, la nuova organizzazione non
svolse attività di rilievo. La sua struttura e i suoi compiti precisi vennero, infatti,
fissati nel II Congresso, che si tenne a Mosca nel luglio 1920. I partecipanti, questa
volta, furono numerosi e rappresentavano 69 partiti operai provenienti da ogni parte
del mondo. Lenin, in un documento di ventuno punti, fissò le condizioni di
partecipazione al Comintern. Nel documento si affermava, tra l’altro, che i partiti
aderenti avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome
in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia
sovietica, rompere con le correnti riformiste, espellendone i principali esponenti.
Condizioni così pesanti suscitarono, in seno al movimento operaio, accesi dibattiti e
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facilitarono nuove scissioni. Fra la fine del 1920 e l’inizio del 1921 fu comunque
raggiunto quello che era stato lo scopo principale del congresso: creare in tutto il
mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del
partito guida. In tutta l’Europa occidentale, i partiti comunisti rimasero, però,
minoritari rispetto ai socialisti. Il legame col Partito bolscevico e con la Repubblica
dei soviet divenne un fattore di debolezza o, quanto meno, un limite alle possibilità di
espansione delle forze comuniste in Europa occidentale.
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Lenin, Stalin e la Russia comunista
Quando i comunisti presero il potere, l’economia russa si trovava in una situazione
estremamente grave. Ancor più grave era il dissesto finanziario. Le banche furono
nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati. Ma, tutto questo servì a poco, visto
che il governo non era in grado di riscuotere le tasse, ed in più costretto a stampare
carta moneta priva di qualsiasi valore. A partire dal 1918, il governo bolscevico cercò
di attuare in campo economico una politica più energica ed autoritaria, che fu definita
col termine di comunismo di guerra. Fu incoraggiata, senza per altro molto successo,
la formazione di comuni agricole volontarie, le fattorie collettive (kolchoz), e furono
anche istituite delle fattorie sovietiche (sovchoz), gestite dallo Stato o dai soviet
locali. In campo industriale, il comunismo di guerra fu inaugurato da un decreto del
giugno 1918, che nazionalizzava tutti i settori più importanti. Si cercò quindi di
utilizzare i vecchi quadri dirigenti delle imprese, spesso affiancandoli con funzionari
di partito, e di reintrodurre nelle fabbriche criteri di efficienza, compreso il sistema
del cottimo, ossia del salario legato al rendimento. Grazie al comunismo di guerra, il
regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune importanti funzioni
della vita organizzata, e soprattutto poté armare e nutrire il suo esercito.
Nonostante tanta buona volontà, però, alla fine del 1920 il volume della produzione
industriale era di ben sette volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano
spopolate e nelle campagne il raccolto dei cereali risultava dimezzato rispetto
all’anteguerra. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell’illegalità, con
gli inevitabili fenomeni di “borsa nera”. I contadini manifestarono sempre più
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chiaramente la loro insofferenza, dando vita nell’inverno 1920-’21, a vere sommosse.
La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del 1921, quando, per effetto
congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le
campagne della Russia e dell’Ucraina, provocando la morte di almeno tre milioni di
persone. Non meno imbarazzante, per il potere comunista, era il dissenso operaio, che
cominciava a serpeggiare in forme sempre più evidenti. Gli operai, infatti, erano
delusi sia per la scomparsa di una vera rappresentanza sindacale, sia per il regime di
militarizzazione imposto in molte fabbriche. Nel marzo del 1921, a ribellarsi al
governo furono i marinai della base di Kronstadt, presso Pietroburgo: i dirigenti
comunisti risposero con una dura repressione militare.
Sempre nel marzo 1921, si tenne a Mosca il X Congresso del Partito comunista. Sul
piano politico, tale Congresso segnò la fine di ogni aperta dialettica all’interno del
partito, vietando la formazione di correnti organizzate. In campo economico fu
abbandonato l’esperimento del comunismo di guerra e avviata una parziale
liberalizzazione nella produzione e negli scambi.
La nuova politica economica, Nep, aveva l’obiettivo principale di stimolare la
produzione agricola e di favorire l’afflusso dei generi alimentari verso le città. Ai
contadini si consentiva di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, una volta
consegnata agli organi statali una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si
estese anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo
Stato mantenne, però, il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali.
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Nelle campagne, i nuovi spazi concessi all’iniziativa privata, stimolarono la ripresa
produttiva, ma favorirono il riemergere dei contadini ricchi, i kulaki, che giunsero a
controllare il mercato agricolo. La liberalizzazione del commercio aumentò la
disponibilità dei beni di consumo, ma provocò la nascita di un’altra classe di
trafficanti, i nepmen, la cui ricchezza contrastava col basso tenore di vita della
maggioranza della popolazione urbana. In queste condizioni, l’industria non poteva
dare lavoro a tutti quelli che lo richiedevano. Nelle città cresceva il numero dei
disoccupati. I salari erano, inoltre, piuttosto bassi, mentre la contrattazione rimaneva
difficile, a causa dall’assenza di una vera organizzazione sindacale.
La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria era stata varata nel luglio del 1918,
in piena guerra civile, e rispecchiava l’originaria impostazione operista e consiliare
del gruppo dirigente bolscevico. Essa si apriva con una “Dichiarazione dei diritti del
popolo lavoratore e sfruttato”, dove si proclamava che il potere doveva
“appartenere unicamente e interamente alle masse lavoratrici e ai loro autentici
organismi rappresentativi: i soviet degli operai, dei contadini e dei soldati”.
La Costituzione prevedeva che il nuovo Stato avesse carattere federale, rispettasse
l’autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all’unione, su basi di parità, con altre
future repubbliche sovietiche. La prospettiva a lungo termine era quella di un’unica
repubblica socialista mondiale.
In realtà, quella che si attuò, tra il 1920 e il 1922, fu semplicemente l’unione alla
Repubblica russa (che comprendeva anche l’intera Siberia), delle altre province
dell’ex Impero zarista, nelle quali i bolscevichi erano riusciti a prendere il potere,
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dopo aver eliminato le altre forze politiche. Nel dicembre 1922, i congressi dei soviet
delle singole repubbliche decisero di dare vita all’Unione delle repubbliche socialiste
sovietiche (Urss).
La nuova Costituzione, approvata nel 1924, si basava su di una complessa struttura
istituzionale, il cui potere supremo era affidato al Congresso dei soviet dell’Unione.
Il potere reale era, però, concentrato nelle mani del Partito Comunista, l’unico la cui
esistenza fosse prevista dalla Costituzione. Era il partito, tra l’altro, a controllare la
polizia politica, come pure a fornire le direttive ideologiche e politiche, a cui si
conformava l’azione di governo. Il partito era organizzato secondo criteri di rigido
centralismo. Lo Stato, che si proclamava fondato sulla democrazia sovietica e sulla
libera federazione fra le diverse nazioni, finiva con l’essere governato, attraverso un
apparato fortemente centralizzato, dal ristretto gruppo dirigente del Partito
bolscevico.
Lo sforzo di trasformazione del paese, intrapreso dai bolscevichi, non riguardò solo le
strutture economiche e gli ordinamenti politici. Anche i comunisti, come tutti i
rivoluzionari, miravano a cambiare nel profondo la società, a cancellare valori e
comportamenti tradizionali. L’educazione della gioventù tendeva alla creazione
dell’uomo nuovo: tutto era finalizzato alla nascita di una cultura adatta alla realtà
socialista. Ma altrettanto importante diventava la lotta, che i bolscevichi conducevano
contro la Chiesa ortodossa, in quanto espressione di una visione del mondo che essi
volevano estirpare, poiché incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina
marxista. La lotta per la scristianizzazione del paese fu condotta con molta durezza:
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confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi. L’influenza
della Chiesa non fu del tutto eliminata, ma molto ridimensionata. La stessa Chiesa
ortodossa, che pure contava su di una presenza capillare nella società russa, era, già
prima della rivoluzione, indebolita e non poté opporre alcuna resistenza. Il governo
rivoluzionario stabilì, tra i suoi primi atti, il riconoscimento del solo matrimonio
civile e semplificò le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Fu
proclamata la parità tra i sessi e la condizione dei figli illegittimi venne equiparata a
quella dei figli legittimi.
Il settore in cui maggiormente operò il nuovo regime fu quello dell’istruzione, resa
obbligatoria fino all’età di quindici anni. Si cercò, inoltre, di collegare la scuola al
mondo della produzione, privilegiando l’istruzione tecnica su quella umanistica. Il
nuovo governo si preoccupò, come accennato, di formare ideologicamente le nuove
generazioni, incoraggiando l’iscrizione in massa nell’organizzazione giovanile del
partito, il Komsomol, ossia l’Unione comunista della gioventù e, facendo largo spazio
all’insegnamento della dottrina marxista.
Nell’aprile del 1922, l’ex commissario alle Nazionalità Josip Djugasvili, detto Stalin,
fu nominato segretario generale del Partito comunista dell’Urss. Poche settimane
dopo, Lenin venne colpito dal primo attacco di quella malattia che ne avrebbe
limitato le capacità di lavoro e lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924.
Finché era rimasto sulla breccia, Lenin aveva controllato il partito; con la sua malattia
e la contemporanea ascesa di Stalin, le cose cambiarono. I dissensi interni si fecero
aspri e si intrecciarono con una sempre più evidente lotta per la successione.
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Il primo grande scontro, all’interno del gruppo dirigente, ebbe per oggetto il
problema della centralizzazione, della burocratizzazione del partito e degli enormi
poteri, che si andavano accumulando nelle mani del nuovo segretario generale Stalin.
Protagonista sfortunato della battaglia, volta a limitare le prerogative dell’apparato e
a ridare spazio ai principi della democrazia sovietica nella conduzione del partito e
dello Stato, fu Lev Trotzkij. Per le sue doti personali e per il ruolo di primo piano
svolto nelle fasi della presa del potere e della guerra civile, Trotzkij era il più
autorevole e popolare, dopo Lenin, fra i capi bolscevichi. Tuttavia, risultava isolato
rispetto ad altri leader di primo piano, come Zinov’ev, Kamenev, Bucharin, i quali
fecero blocco col segretario generale, che poté così rafforzare la sua posizione.
Lo scontro fra Trotzkij e Stalin, cominciato nell’autunno del 1923, non riguardava
solo il problema della burocratizzazione. Trotzkij collegava, infatti, l’involuzione del
partito all’isolamento internazionale dello Stato sovietico, costretto a dedicare energie
preziose alle esigenze della difesa e a sopportare da solo il peso della sua arretratezza.
L’Unione Sovietica doveva da un lato accelerare i suoi ritmi di industrializzazione,
dall’altro concentrare i suoi sforzi nel tentativo di favorire l’estendersi del processo
rivoluzionario nell’Occidente capitalistico e soprattutto nei paesi più sviluppati.
Contro questa tesi, per cui fu coniata l’espressione rivoluzione permanente, scese in
campo lo stesso Satin. Egli sosteneva, infatti, che, nei tempi brevi, la vittoria del
“socialismo in un solo paese” era “possibile e probabile” e l’Unione Sovietica aveva
in sé le forze sufficienti per fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. La teoria del
socialismo in un solo paese rappresentava una rottura con quanto era stato affermato
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sino ad allora dai bolscevichi, anche se aveva il vantaggio di adattarsi alla situazione
reale, che da tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione
mondiale e offriva, inoltre, al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico.
Le potenze europee, tra il 1924 e il 1925, si decisero a riconoscere lo Stato sovietico e
ad instaurare con questo, normale rapporto diplomatico. Tutto ciò, rafforzò la
posizione di Stalin. Il risultato fu l’ulteriore emarginazione di Trotzkij.
Ma, sconfitto Trotzkij, venne meno il legame principale, che teneva uniti i suoi
avversari e il gruppo dirigente comunista conobbe una nuova drammatica spaccatura.
L’occasione del nuovo scontro fu offerta dalla politica economica. A partire
dall’autunno del 1925, Zinov’ev e Kamenev, riprendendo le teorie di Trotzkij, si
pronunciarono per un’interruzione dell’esperimento della Nep. Secondo questi
dirigenti comunisti era proprio la Nep a favorire la rinascita del capitalismo nelle
campagne. Bisogna, invece, rilanciare il processo di industrializzazione a spese degli
strati contadini privilegiati. La tesi opposta, favorevole alla continuazione della Nep
e al sostegno della piccola impresa agricola, fu sostenuta con decisione da Bucharin,
con l’appoggio di Stalin. Zinov’ev e Kamenev, messi in minoranza nel congresso del
partito tenutosi nel dicembre del 1925, si riaccostarono a Trotzkij e, assieme a lui,
cercarono di organizzare un fronte unico di opposizione. Ma, la lotta era perduta in
partenza. I leader dell’opposizione furono dapprima allontanati dall’Ufficio politico e
dal Comitato centrale e poi, nel 1927, addirittura espulsi dal partito. Trotzkij,
deportato in una località dell’Asia centrale, venne, infine, espulso dall’Urss.
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Con la sconfitta dell’opposizione di sinistra e con l’uscita di scena di buona parte del
gruppo dirigente storico si chiudeva la prima fase della rivoluzione comunista, la fase
eroica della costruzione del nuovo Stato.
Negli anni in cui trionfavano in Europa la grande depressione ed il fascismo,
lavoratori e intellettuali antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e
speranza all’Unione Sovietica, paese che tentava di costruire una nuova società
fondata sui principi del socialismo e si presentava come l’estrema riserva
dell’antifascismo mondiale. Tra il 1927 e il 1928, Stalin decise di porre fine alla Nep
e di tentare un forzato processo di industrializzazione. Ma, per far ciò, era necessario
che lo Stato acquistasse il controllo completo dei processi economici. Il primo
ostacolo alla costruzione di un’economia totalmente collettivizzata e industrializzata
fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di arricchirsi alle
spalle del popolo. Contro di loro, vennero adottate misure restrittive e operate ingenti
requisizioni. Stalin, nel 1929, proclamò la necessità di procedere immediatamente
alla collettivizzazione del settore agricolo e addirittura di eliminare i kulaki come
classe. Contro questa linea si pose Bucharin, ma la maggioranza del partito appoggiò
il segretario: lo stesso Bucharin e i suoi amici, condannati nel 1930 come
deviazionisti di destra, subirono una sorte analoga a quella dell’opposizione di
sinistra. Non solo i kulaki, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e
resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive furono considerati nemici del
popolo. Quella attuata nelle campagne dell’Urss fra il 1929 e il 1933 fu una
gigantesca rivoluzione dall’alto, come la definì lo stesso Stalin. I kulaki vennero
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eliminati e la maggioranza dei contadini fu inserita nelle fattorie collettive. L’eccesso
di popolazione nelle campagne fu drasticamente ridotto con le deportazioni ed anche
con l’emigrazione verso i centri industriali. Disorganizzazione ed inefficienza si
sommarono alla resistenza dei contadini, che preferirono macellare subito il bestiame
piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive, fino a provocare una vera e propria
carestia.
Solo nella seconda metà degli anni ’30, la situazione si andò normalizzando e la
produzione agricola superò i livelli dei tempi della Nep.
Il vero scopo della collettivizzazione era, tuttavia, quello di favorire
l’industrializzazione del paese, mediante lo spostamento di risorse economiche e di
energie umane. Da questo punto di vista i risultati furono notevoli, anche se inferiori
a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l’industria, varato nel 1928,
fissava, infatti, una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire, frutto
più di una decisione politica che di un calcolo economico. La crescita nel settore fu,
però, imponente: nel 1932 proprio la produzione industriale era aumentata, rispetto al
1928, di circa il 50%. Col secondo piano quinquennale, dal 1933 al 1937, la
produzione aumentò di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i 10
milioni. I lavoratori, che contribuivano in misura maggiore alla crescita della
produzione, venivano promossi e insigniti di onorificenze. Si diffuse, così, lo spirito
di emulazione, che spesso sconfinava in una sorte di competizione sportiva. Il caso
di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, divenuto famoso per aver
estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte a
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quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di massa, detto appunto
stachanovismo.
Sorretto da un enorme apparato burocratico e poliziesco, Stalin finì con l’assumere il
ruolo di capo carismatico, non diverso da quello posseduto, nello stesso periodo, dai
dittatori di diversa ideologia. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo,
l’autorità politica suprema, ma anche il depositario dell’autentica dottrina marxista e
il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica nei suoi riguardi assumeva,
così, i caratteri odiosi del tradimento. La letteratura, il cinema, la musica, le arti
figurative furono sottoposte ad una rigida censura e costrette a svolgere una funzione
propagandistico-pedagogica, entro i canoni del cosiddetto realismo socialista. La
storia russa fu riscritta per esaltare il ruolo di Stalin e sminuire quello di Trotzkij.
Come fu possibile che una tirannide così totale scaturisse da una rivoluzione, che
aveva suscitato tante speranze di libertà, oltre che di giustizia sociale? Alcuni hanno
spiegato lo stalinismo, collegandolo alla tradizione centralistica e autocratica del
regime zarista. Altri hanno visto, invece, nella dittatura staliniana, una forma inedita
di dispotismo industriale, una scorciatoia autoritaria funzionale all’esigenza di un
rapido sviluppo economico. Altri ancora, hanno cercato le radici del fenomeno Stalin
nella storia stessa del bolscevismo, nelle teorie di Lenin e nella prassi
antidemocratica, inaugurata dai comunisti subito dopo la presa del potere. Un
ulteriore filone interpretativo ha considerato lo stalinismo come una deviazione di
destra della rivoluzione, paragonandolo alla dittatura napoleonica o, come diceva
Trotzkij, alla reazione termidoriana, seguita alla rivoluzione giacobina. Ognuna di
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queste tesi contiene elementi validi. Lo stalinismo fu un fenomeno profondamente
inserito nella storia della Russia. Stalin sviluppò, portandole alle estreme
conseguenze, alcune premesse autoritarie, che esistevano già nel pensiero di Lenin e
nel sistema sovietico, ma introdusse, nella gestione di questo sistema, un sovrappiù di
spietatezza e di arbitrio. Già negli anni del primo piano quinquennale e della
collettivizzazione, la macchina del terrore aveva cominciato a funzionare. Vittime
principali erano stati i contadini, ma non vennero risparmiati i commercianti, i tecnici
e i dirigenti del partito, accusati di sabotare lo sforzo produttivo. Il periodo delle
grandi purghe cominciò, però, nel 1934. L’assassinio organizzato, forse dallo stesso
Stalin, di Sergej Kirov, esponente di punta del gruppo dirigente comunista, fornì il
pretesto per una imponente ondata di arresti, che colpirono in larga misura gli stessi
quadri del partito. Si trattò di un’enorme repressione poliziesca, condotta con
l’arbitrio più assoluto, che colpì milioni di persone, tra cui lo stesso Trotzkij.
Nasceva, così, un universo concentrazionario, formato dai campi di lavoro, detti con
termine tedesco lager, disseminati in tutte le zone più inospitali dell’Urss. La
repressione non risparmiò nessun settore. Si calcola che, fra il 1937 e il 1938, circa
700.000 persone morirono a causa delle purghe.
Le grandi purghe, le deportazioni in massa, i processi sommari, provocarono una
certa impressione in Occidente, ma nel complesso la denuncia dello stalinismo non
ebbe grande rilievo negli ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano il difetto
delle informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi
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ideologici e soprattutto le remore politiche: troppo prezioso era il contributo dell’Urss
e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo.
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Il dopoguerra in Italia e l’avvento del Fascismo
Nel gennaio 1919, in Italia, sorse una nuova formazione politica, che prese il nome di
Partito popolare italiano (Ppi). Tale partito, che ebbe il suo padre riconosciuto e il
suo primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di
impostazione democratica e, pur ispirandosi alla dottrina cattolica, si dichiarava laico
e aconfessionale. La sua nascita venne resa possibile dal diverso atteggiamento,
assunto dopo la guerra dal pontefice, dalle gerarchie ecclesiastiche, entrambi
preoccupati di porre un argine all’avanzata del socialismo. Nelle file del partito erano
confluiti, accanto agli eredi della democrazia cristiana e ai capi delle leghe bianche,
anche gli esponenti delle correnti clerico-moderate, che avevano guidato il
movimento cattolico nell’anteguerra. La nascita del partito rappresentò una svolta
positiva per la democrazia italiana, la fine di un’anomalia, che aveva accompagnato
lo Stato unitario sin dalla nascita.
L’altra novità fu la crescita del Partito socialista, i cui iscritti aumentavano
vertiginosamente. Tuttavia, all’interno del partito stesso, schiacciante era la
maggioranza dei massimalisti sui riformisti, che tuttavia mantenevano una posizione
di forza nel gruppo parlamentare. I massimalisti, il cui leader era Giacinto Menotti
Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica
socialista, fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori
entusiasti della rivoluzione bolscevica. I massimalisti italiani, tuttavia, avevano ben
poco in comune con i bolscevichi russi: più che preparare la rivoluzione, la
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aspettavano, ritenendola, tuttavia, inevitabile. In polemica con questa impostazione,
si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti soprattutto da giovani, che
si battevano per un coerente impegno rivoluzionario. Tra questi gruppi emergeva
quello napoletano, a cui faceva capo Amadeo Bordiga e quello torinese, attorno ad
Antonio Gramsci e alla Rivista “L’Ordine Nuovo”. Se Bordiga puntava sulla
formazione di un nuovo partito rivoluzionario sul modello bolscevico, Gramsci agiva
a contatto coi nuclei operativi più avanzati e combattivi d’Italia, ed era affascinato
dall’esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta, contro l’ordine borghese e al
tempo stesso come embrioni della società socialista.
Tra i vari movimenti, nati nel dopoguerra, spiccava quello fondato a Milano, il 23
marzo 1919, da Benito Mussolini, col nome di Fasci di combattimento. Politicamente
questo movimento si schierava a sinistra, chiedeva riforme sociali e si dichiarava
favorevole alla repubblica. Ostentava, però, anche un acceso nazionalismo ed una
avversione ai socialisti. All’inizio il fascismo raccolse pochi consensi, ma si fece
notare per il suo stile aggressivo e violento, insofferente di vincoli ideologici e teso
verso l’azione diretta. I fascisti diedero, così, vita al primo scontro di guerra civile
nell’Italia del dopoguerra. Tale scontro si verificò a Milano il 15 aprile 1919 e si
concluse con l’incendio della sede dell’ “Avanti!”.
Dal punto di vista degli equilibri internazionali, l’Italia era uscita dalla guerra
nettamente rafforzata. Aveva raggiunto i “confini naturali” e visto scomparire
l’Impero asburgico. La dissoluzione dell’Austria – Ungheria poneva, però, dei
problemi non previsti, nel momento in cui era stato stipulato il Patto di Londra: in
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esso si stabiliva, fra l’altro, che la Dalmazia, abitata prevalentemente da slavi, fosse
annessa all’Italia e che la città di Fiume, dove gli italiani erano in maggioranza,
restasse all’Impero austro-ungarico. La delegazione italiana, alla Conferenza di
Versailles, capeggiata dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro degli Esteri
Sonnino, chiese l’annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, ma in
aggiunta ai territori promessi nel 1915. Tali richieste incontrarono l’opposizione degli
alleati, in particolare di Wilson. Nell’aprile del 1919, per protestare contro
l’atteggiamento del presidente americano, che aveva cercato di scavalcarli
indirizzando un messaggio al popolo italiano, Orlando e Sonnino abbandonarono
Versailles e fecero ritorno in Italia. Ma, un mese dopo, dovettero ritornare a Parigi
senza aver ottenuto alcun risultato.
Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando: il suo posto venne preso da
Francesco Saverio Nitti, un economista e meridionalista di orientamento
democratico.
La situazione in Italia era molto critica e gran parte dell’opinione pubblica nutriva
ostilità verso gli ex alleati: D’Annunzio parlava di vittoria mutilata. Questa protesta
culminò nel settembre del 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi
di volontari, comandati dallo stesso D’Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta
allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l’annessione all’Italia.
L’avventura fiumana si prolungò per quindici mesi; D’Annunzio istituì una
provvisoria reggenza e nella città confluirono esuli di diverse nazionalità:
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intellettuali, giovani idealisti e avventurieri d’ogni tipo, tutti per protestare contro le
decisioni di Versailles.
In coincidenza con l’avventura di Fiume, l’Italia attraversò una fase di convulse
agitazioni sociali. Fra il giugno e il luglio del 1919 le principali città italiane furono
teatro di una serie di violenti tumulti contro l’aumento del costo della vita. Tale
aumento determinò una continua rincorsa tra salari e prezzi, che si tradusse, a sua
volta, in una grande ondata di agitazioni sindacali. Gli scioperi nell’industria
passarono dai 300 del 1918 ai 1660 del 1919, con un numero di lavoratori coinvolti
superiore al milione, e aumentarono ancora nel 1920. Non meno intense furono, in
questo periodo, le lotte dei lavoratori agricoli. Oltre alla bassa Padana, dove le leghe
rosse avevano in pratica il monopolio della rappresentanza sindacale, le agitazioni
interessarono anche altre aree del Centro-Nord: zone in cui dominavano la mezzadria
e la piccola proprietà e in cui erano attive le leghe bianche cattoliche. Mentre le
organizzazioni socialiste insistevano sul programma massimo della socializzazione
della terra, i cattolici difendevano la mezzadria e le altre forme di compartecipazione
e si battevano per lo sviluppo della piccola proprietà contadina. L’aspirazione alla
proprietà della terra fu all’origine di un altro movimento, che si sviluppò in forma
spontanea fra l’estate e l’autunno del 1919 nelle campagne del Centro-Sud:
l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex
combattenti.
Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che ebbero luogo nel novembre del 1919,
diedero la misura delle trasformazioni avvenute rispetto al periodo prebellico, ma
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mostrarono anche la gravità delle fratture, che attraversavano la società e il sistema
politico. Furono le prime elezioni col metodo della rappresentanza proporzionale,
con scrutinio di lista: metodo, che prevedeva il confronto fra liste di partito e,
contrariamente al vecchio collegio uninominale, assicurava, alle varie liste, un
numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti. L’esito delle elezioni fu disastroso per
la vecchia classe dirigente: i gruppi liberal – democratici, che si erano presentati
divisi, persero la maggioranza assoluta passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a
circa 200. I socialisti si affermarono come primo partito e 156 seggi, seguiti dai
popolari con 100 deputati.
Questi risultati mostravano che il sistema politico non era capace né di reggersi
secondo il vecchio equilibrio, né di esprimerne uno nuovo. Dal momento che il Psi
rifiutava ogni collaborazione coi gruppi borghesi, l’unica maggioranza possibile era
quella basata sull’accordo fra popolari e liberal – democratici. Su questa coalizione
precaria si fondarono gli ultimi governi dell’era liberale.
Nel giugno del 1920 fu chiamato a costituire il nuovo governo Giovanni Giolitti.
Rimasto ai margini della vita politica negli anni della guerra, Giolitti era rientrato in
scena alla vigilia delle elezioni, delineando in un discorso a Dronero, in Piemonte, un
programma molto avanzato, in cui si proponeva, fra l’altro, la nominatività dei titoli
azionari e un’imposta straordinaria sui “sovrapprofitti” realizzati dall’industria
bellica. Le preoccupazioni che questo programma suscitava negli ambienti
conservatori passarono in secondo piano rispetto alla speranza che l’anziano statista
riuscisse a domare l’opposizione socialista con le arti del compromesso parlamentare.
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In effetti, nei dodici mesi che seguirono, Giolitti tenne la guida dell’esecutivo, con
abilità ed energia e i risultati migliori li ottenne in politica estera, imboccando l’unica
strada praticabile per la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato
diretto con la Jugoslavia. Tale negoziato si concluse il 12 novembre 1920 con la
firma del trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. La
Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all’Italia. Fiume
venne dichiarata città libera: sarebbe diventata italiana, grazie ad un ulteriore accordo
con la Jugoslavia nel 1924. Il trattato fu accolto favorevolmente dall’opinione
pubblica e dalle forze politiche: a Fiume, D’Annunzio annunciò una resistenza ad
oltranza. Quando però, nel giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la
città dalla terra e dal mare egli preferì abbandonare la partita.
Molto serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna.
Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo
del pane e avviò, così, il risanamento del bilancio dello Stato. Tuttavia, non tutti i
progetti giolittiani riuscirono a realizzarsi. Soprattutto fallì il disegno politico
complessivo dello statista piemontese, disegno che prevedeva il ridimensionamento
delle spinte rivoluzionarie del movimento operaio. Giolitti non riuscì, del resto, a far
del Parlamento il centro della vita politica italiana. Ormai quest’ultima si era spostata
nei sindacati, nelle segreterie dei partiti, nelle piazze. Nell’estate-autunno del 1920 i
conflitti sociali conobbero il loro episodio più drammatico con le agitazioni dei
metalmeccanici, culminate nell’occupazione delle fabbriche. Dal canto loro gli
industriali del settore metalmeccanico cercarono la prova di forza, mentre la Fiom,
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ossia la Federazione italiana operai metallurgici, mantenne compattezza e
determinazione. Al di fuori dei canali sindacali, poi, si svilupparono i consigli di
fabbrica, organismi eletti direttamente dai lavoratori ed ispirati ai soviet.
Nei primi giorni di settembre del 1920 furono occupati quasi tutti gli stabilimenti
metallurgici e meccanici da circa 400.000 operai. La maggior parte dei lavoratori
visse questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario destinato ad allargarsi
ben oltre le officine occupate. Il movimento, però, non fu in grado di collegarsi alle
altre lotte sociali in corso e di porsi, in modo concreto, il problema del potere.
Prevalse così la linea della Cgl, che intendeva spostare lo scontro sul piano
economico e proponeva, come obiettivo, il controllo sindacale sulle aziende. Tale
tendenza fu favorita da Giolitti, sino ad allora rimasto su una linea di neutralità. Il 19
settembre, il capo del governo riuscì a far accettare ai riluttanti industriali un accordo,
che accoglieva, nella sostanza, le richieste economiche della Fiom e affidava ad una
commissione paritetica l’incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale.
Se proprio sul piano sindacale gli operai uscivano vincitori dallo scontro, su quello
politico la sensazione dominante era di delusione, rispetto alle attese maturate nei
giorni dell’occupazioni stessa.
Intanto, con il II congresso del Comintern, come visto, venivano fissate le condizioni
per l’ammissione dei partiti operai all’Internazionale comunista. Nel gennaio del
1921, a Livorno nasceva il Partito comunista, da un’esigua minoranza del Partito
socialista. Il nuovo partito sorgeva su una base piuttosto ristretta e con un programma
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leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria si andava
dileguando in Italia e in tutta l’Europa.
L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono la fine, in Italia,
del biennio rosso. Provata da due anni di lotte ed indebolita dalle divisioni interne, la
classe operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi recessiva, che stava investendo
l’economia italiana ed europea.
In questo quadro, si inserì il nuovo fenomeno del fascismo agrario. Fino all’autunno
del 1920, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica e non era
uscito dall’ambito dei gruppi di matrice interventista, a base urbana intellettuale e
piccolo-borghese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il movimento subì un
cambiamento che lo portò ad accantonare l’originale programma radical –
democratico, a fondarsi su strutture paramilitari e a puntare le sue carte su una lotta
spietata contro il movimento socialista. Questa trasformazione si spiega in parte con
una scelta di Mussolini, che decise di cavalcare l’ondata di riflusso antisocialista
seguita al biennio rosso, in parte va ricollegata alla particolare situazione delle
campagne padane, dove il fascismo agrario si sviluppò, zone in cui era, tuttavia, più
forte la presenza delle leghe rosse.
L’atto di nascita del fascismo agrario viene comunemente individuato nei fatti di
palazzo d’Accursio a Bologna, del 21 novembre 1920, quando i fascisti si
mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione
comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie; per un tragico errore i socialisti,
incaricati di difendere il palazzo comunale, spararono sulla folla, composta dai loro
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sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per
scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Il movimento
fascista vide così affluire, nelle sue file, nuove e numerose reclute: ufficiali
smobilitati, che faticavano ad inserirsi nella vita civile, figli della piccola borghesia,
giovani, che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e trovavano, così,
l’occasione per combattere una battaglia contro i presunti nemici della patria. Nel
giro di poco tempo lo squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi
anche alle zone mezzadrili della Toscana e dell’Umbria. Per il momento, solo il Sud,
eccetto la Puglia, rimase immune dal contagio fascista. Molte responsabilità del
successo dello squadrismo furono del governo. Giolitti, infatti, pur evitando di
favorirlo apertamente, lo guardò con malcelata compiacenza, pensando di servirsene
per contrastare i socialisti. Nel maggio 1921, vennero indette nuove elezioni. I
candidati fascisti furono inseriti nei blocchi nazionali, ovvero nelle liste di coalizione
con i gruppi conservatori. I socialisti subirono una flessione lieve. I popolari si
rafforzarono e i gruppi liberal – democratici uniti migliorarono le loro posizioni. In
definitiva la maggior novità fu costituita dall’ingresso alla Camera di 35 deputati
fascisti, capeggiati da Mussolini. L’esito delle elezioni di maggio mise praticamente
fine all’ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all’inizio del mese
di luglio. Il suo successore, l’ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di fare uscire il
paese dalla guerra civile, favorendo una tregua fra le due parti. Una tregua teorica,
che venne sancita, nell’agosto del 1921, con la firma di un patto di pacificazione tra
fascisti e socialisti. Questi ultimi accettavano di sconfessare le formazioni degli arditi
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del popolo e i fascisti si impegnavano a sciogliere le loro squadre d’azione. Questa
strategia non era condivisa, però, dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello
squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i ras, come Farinacci e Grandi. La
ricomposizione delle fratture si ebbe al Congresso dei Fasci, tenutosi a Roma nei
primi di novembre del 1921. Mussolini sconfessò la pacificazione: nasceva il Partito
nazionale fascista, che poteva contare su una base di oltre 200.000 iscritti.
Frattanto, nel febbraio del 1922, prendeva il potere Luigi Facta, un giolittiano dalla
personalità alquanto sbiadita. La scarsa autorità politica del governo finì col dare
spazio alla dilagante violenza squadrista. All’offensiva fascista, i socialisti non
seppero opporre risposte efficaci. Addirittura disastrosa nei suoi effetti fu la decisione
dei dirigenti sindacali, di proclamare per il 1° agosto uno sciopero generare
legalitario, in difesa delle libertà costituzionali. I fascisti colsero l’occasione per
atteggiarsi a custodi dell’ordine. Per un’intera settimana le camicie nere si
scatenarono contro circoli, sedi, giornali socialisti. Il movimento operaio usciva, da
tutto ciò, distrutto. Ai primi d’ottobre del 1922, in un congresso tenuto a Roma, i
riformisti guidati da Turati abbandonavano il Psi per fondare il nuovo Partito
socialista unitario.
Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo
voleva conquistare lo Stato. Cominciò così a prendere corpo il progetto di una marcia
su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo
la conquista del potere centrale. L’inizio della mobilitazione fu fissato per il 27
ottobre. Mussolini pensava di servirsi della stessa mobilitazione come mezzo di
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pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità
della corona e delle forze armate. In effetti, nel generale disfacimento dei poteri
statali, il ministero Facta si dimise proprio il 27 ottobre; così, fu l’atteggiamento del
re a risultare decisivo. Infatti, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre,
di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio, cioè per il passaggio
dei poteri alle autorità militari, che era stato preparato dal governo già dimissionario.
Tale rifiuto aprì alle camicie nere la strada di Roma e al loro capo la via del potere.
La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di squadristi entravano nella
capitale, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo gabinetto risultava già
pronto. Ne facevano parte, oltre a cinque fascisti, esponenti di tutti i gruppi dei
precedenti governi: liberali, democratici e popolari.
Una volta assunta la guida del governo, Mussolini cominciò ad alternare la linea dura
a quella morbida, le promesse di normalizzazione moderata alle minacce di una
seconda ondata rivoluzionaria. Tutto ciò gli fu possibile per la miopia delle altre forze
politiche, in particolare dei liberali e dei cattolici. Nel dicembre del 1922, fu istituito
il Gran Consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della
politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio 1923, le
squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale: un corpo armato di partito, che aveva come scopo dichiarato quello di
proteggere gli sviluppi della rivoluzione, ma, in realtà, doveva anche disciplinare lo
squadrismo e limitare il potere dei ras. L’istituzionalizzazione della Milizia non
servì, peraltro, a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si
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sommava la repressione legale, condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia,
mediante sequestri di giornali, scioglimenti di amministrazioni locali, arresti
preventivi di militanti. Il sindacato non fascista si ridusse a sopravvivere solo in
alcune categorie; il numero degli scioperi scese, nel 1923, a livelli insignificanti. I
salari reali subirono una costante riduzione. La compressione salariale era, del resto,
una componente importante della politica economica del governo, che mirò a
restituire libertà d’azione all’iniziativa privata. Furono alleggerite le tasse gravanti
sulle imprese ed eliminato il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. La
politica liberista, impersonata soprattutto dal ministro delle Finanze De Stefani, parve
ottenere successo: vi fu un aumento della produzione e il bilancio dello Stato tornò in
pareggio. Un altro sostegno decisivo, Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui,
dopo l’avvento del nuovo papa Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le
tendenze più conservatrici. Mussolini, abbandonando i toni anticlericali tipici del
primo fascismo, fu prodigo di riconoscenza per “la missione universale della Chiesa”.
Anche la riforma della scuola, varata da Gentile nel 1923, andava incontro alle attese
del mondo cattolico: essa prevedeva, infatti, oltre all’insegnamento della religione
nelle scuole elementari, l’introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di
studi. La prima vittima dell’avvicinamento del fascismo alla Chiesa fu il Partito
popolare, considerato dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via dei
miglioramenti dei rapporti con lo Stato italiano. Nell’aprile del 1923, Mussolini
impose le dimissioni dei ministri popolari e, poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni
del Vaticano, lasciò la segreteria del partito.
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Liberatosi del più forte fra i suoi alleati, Mussolini doveva, comunque, rafforzare la
sua maggioranza parlamentare. A tale scopo, fu varata nel luglio del 1923 una nuova
legge elettorale maggioritaria. La legge avvantaggiava la lista, che avesse ottenuto la
maggioranza relativa, assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando,
all’inizio del 1924 la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali accettarono di
candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate nei collegi col simbolo
del fascio. Del resto i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia
durante la campagna elettorale, sia nel corso delle votazioni, che ebbero luogo il 6
aprile 1924. Le liste nazionali ebbero il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. Il
successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole.
Tale successo rafforzò la posizione di Mussolini. Le opposizioni erano indebolite e
sfiduciate. Il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito
socialista unitario, fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi ed ucciso. Il suo
cadavere, abbandonato in una macchia vicino la capitale, fu trovato solo dopo due
mesi. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera
una durissima requisitoria contro il fascismo. Il paese capì che il delitto era il risultato
di una pratica di violenza ormai consolidata. Tuttavia, l’opposizione non poteva
mettere in minoranza il governo: l’unica iniziativa fu quella di astenersi dai lavori
parlamentari e di riunirsi separatamente, finché non fosse stata ripristinata la legalità
democratica. La secessione dell’Aventino, come venne definita con un termine preso
dalla storia romana, aveva però solo un significato ideale e non pratico. Il re non
intervenne e i fiancheggiatori del governo, pur accentuando le critiche all’illegalismo
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fascista, non tolsero l’appoggio a Mussolini. Per venire incontro alle loro esigenze, il
capo del governo accettò di dimettersi da ministro degli Interni e di sacrificare alcuni
suoi collaboratori più coinvolti nell’affare Matteotti. Ma, ben presto l’ondata
antifascista scomparve. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, Mussolini
ruppe ogni cautela legalitaria e minacciò di usare la forza, contro tutte le opposizioni.
Molti politici e uomini di cultura presero posizione nei confronti del fascismo. Ad un
Manifesto degli intellettuali fascisti, diffuso nell’aprile del 1925 per iniziativa di
Giovanni Gentile, rispose Benedetto Croce con un contro-manifesto, che rivendicava
i diritti di libertà, ereditati dalla tradizione risorgimentale. Tuttavia, molti esponenti
antifascisti furono costretti a prendere la via dell’esilio. Giovanni Amendola morì in
Francia, in seguito ai postumi di un’aggressione fascista. Simile sorte toccò a Piero
Gobetti. Intanto, nell’ottobre 1925, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale
dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la
rappresentanza dei lavoratori, iscritti ai soli sindacati fascisti. Una seria di falliti
attentati a Mussolini servì a creare il clima adatto per il varo di una nuova
legislazione, che ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia Alfredo
Rocco. La prima legge costituzionale del regime fu quella che rafforzava i poteri del
capo del governo; un’altra legge sindacale, del 1926, proibì il diritto di sciopero e
stabilì che solo i sindacati legalmente riconosciuti, ossia quelli fascisti, avevano
diritto di stipulare contratti collettivi. Infine, nel novembre dello stesso anno, furono
votate le così dette leggi fascistissime, con le quali si metteva fine alla parabola
discendente dello Stato liberale. Con esse, tra l’altro, si introduceva la pena di morte
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per i reati contro la sicurezza dello Stato e venivano sciolti tutti i partiti antifascisti.
Fu istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto da ufficiali delle
forze armate e della Milizia. Nel 1928 venne elaborata una nuova legge elettorale,
che introduceva il sistema della lista unica e lasciava agli elettori solo la possibilità di
approvarla o respingerla in blocco. Sempre nel 1928, il Gran Consiglio diventò
organo costituzionale dello Stato, dotato di molte prerogative. Sorgeva, così, un
nuovo regime, che non si accontentava di controllare le masse, ma pretendeva di
inquadrarle in proprie organizzazioni.
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Dalla Repubblica di Weimar al nazismo
In Germania, nell’agosto del 1919, venne varata la Costituzione di Weimar, così
chiamata dal nome della città dove si svolsero i lavori dell’assemblea. Era una
Costituzione indiscutibilmente democratica, che prevedeva il mantenimento della
struttura federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile, un
governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto
direttamente dal popolo.
Tuttavia molti erano i fattori, che contribuivano ad insidiare la vita democratica e ad
indebolire il sistema repubblicano. Il più evidente stava nella accentuata
frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi.
Inoltre, risultava assente una forza capace di dominare i nuovi fenomeni di
mobilitazione sociale, di superare le fratture presenti e di guidare il paese nella
difficile crisi che stava vivendo. L’unica forza era forse la socialdemocrazia,
riunificatasi in un unico partito nell’estate del 1922, con la confluenza dell’Uspd nella
Spd. Grazie al sostegno accordatole dalla maggioranza di una classe operaia
numerosa e ben organizzata, rimase per un intero decennio il partito più forte, capace
di far sentire il suo peso nella vita tedesca. Tuttavia, le classi medie si riconoscevano
in parte nel Centro cattolico, e in parte maggiore nelle formazioni della destra
conservatrice e moderata: il Partito popolare tedesco – nazionale e il Partito tedesco-
popolare. Un terzo partito di matrice borghese, il Partito democratico tedesco, che
raccoglieva l’adesione di numerosi intellettuali e voleva conciliare i ceti medi con le
istituzioni repubblicane, dopo un successo iniziale, si ridusse alle dimensioni di una
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forza marginale. Tutto ciò dimostrava che la diffidenza verso il sistema democratico
coinvolgeva gran parte dell’elettorato. Per molti, e soprattutto per i ceti medi, l’età
imperiale si identificava con un periodo di tranquillità e prosperità: la Repubblica, al
contrario, era associata alla sconfitta, all’umiliazione di Versailles e a quella autentica
tragedia nazionale, che fu costituita dal problema delle riparazioni.
Nella primavera nel 1921, una commissione interalleata stabilì l’ammontare delle
riparazioni nella spaventosa cifra di 132 miliardi di marchi-oro, da pagare in 42 rate
annuali. L’annuncio dell’entità delle riparazioni suscitò, in tutta la Germania,
un’ondata di proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalistica, fra i quali il piccolo
Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler, scatenarono un’offensiva
terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi
piegata alle imposizioni di Versailles. Esponenti del governo e della finanza vennero
uccisi perché colpevoli di aver trascinato il paese nel disonore. I governi che si
succedettero tra il 1921 e il 1923 si impegnarono a pagare le prime rate delle
riparazioni, ma evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica,
per non gravare su una popolazione esasperata: furono, così, costretti ad aumentare la
stampa di carta-moneta. Il risultato fu che, in pochi mesi, il valore del marco
precipitò, mettendo in moto un processo inflazionistico. Nelle intenzioni dei
governanti tedeschi, la caduta del marco avrebbe dovuto allarmare le stesse potenze
vincitrici e convincerle della materiale impossibilità, per la Germania, di sopportare
le riparazioni.
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Nel gennaio del 1923, la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata
corresponsione di alcune riparazioni in natura, inviarono truppe nel bacino della
Ruhr, la zona più ricca e industrializzata di tutta la Germania. L’azione aveva per
scopo ufficiale quello di controllare la consegna dei materiali dovuti, ma il vero
obiettivo era spegnere ogni velleità tedesca di sottrarsi al pagamento integrale delle
riparazioni. Lo stesso governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della
popolazione: imprenditori ed operai della Ruhr, abbandonarono le fabbriche,
rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. Intanto gruppi clandestini, formati
per lo più da membri dei disciolti corpi franchi, organizzarono attentati contro i
franco-belgi, che reagirono con fucilazioni e arresti di massa.
Per le già dissestate finanze tedesche, l’occupazione della Ruhr rappresentò il tracollo
definitivo, in quanto privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e
costringeva il governo a nuovi grandi sforzi per finanziare la resistenza passiva,
proprio nella Ruhr, con sussidi alle imprese e ai lavoratori disoccupati. Il marco
precipitò a livelli impensabili e il suo potere di acquisto fu praticamente annullato: un
chilo di pane giunse a costare 400 miliardi. Le conseguenze di questa polverizzazione
della moneta furono sconvolgenti. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di
Stato perse tutto. Chi viveva del proprio stipendio dovette affrontare grandi sacrifici.
Furono, invece, avvantaggiati i possessori di beni reali e tutti coloro che avevano
contratto debiti. Doppiamente avvantaggiati risultarono anche gli industriali, che
producevano per l’esportazione. Nel momento più drammatico della crisi, la classe
dirigente trovò però la forza di reagire. Nell’agosto 1923, si formò un governo di
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“grande coalizione”, comprendente tutti i gruppi “costituzionali” e presieduto da
Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco – popolare. Egli era convinto che la
rinascita della Germania sarebbe stata possibile solo per mezzo di accordi con le
potenze vincitrici. In settembre, il governo ordinò la fine della resistenza passiva
nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Subito dopo decretò lo stato di
emergenza e se ne servì per sciogliere i governi regionali della Sassonia e della
Turingia, dove erano al potere comunisti e socialdemocratici di sinistra, per reprimere
una azione comunista ad Amburgo, ma anche per fronteggiare la destra nazionalista,
che aveva il centro in Baviera. A Monaco, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1923,
alcune migliaia di aderenti al partito nazionalsocialista e ad altre formazioni
paramilitari cercarono di organizzare una insurrezione contro il governo centrale. Ma,
il complotto capeggiato da Hitler e dal generale Ludendorff, non ottenne lo sperato
appoggio dei militari e delle autorità locali e fu represso. Hitler venne condannato a
cinque anni di carcere, poi in parte condonati, e la sua carriera politica parve
conclusa.
Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di rimediare ai problemi economici.
Nell’ottobre del 1923, fu emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark il cui
valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania: lo Stato
tedesco si comportava cioè come un privato che impegnava tutti i suoi averi per
garantirsi un credito.
Una vera stabilizzazione, la Germania la poteva comunque raggiungere solo tramite
un accordo con i vincitori. Tale accordo fu trovato all’inizio del 1924, sulla base di un
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piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense Charles G. Dawes.
Questo piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi
impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la sua
macchina produttiva: prevedeva, quindi, che l’entità delle rate da pagare fosse
graduata nel tempo e che la finanza internazionale sovvenzionasse lo Stato tedesco
con una serie di prestiti a lunga scadenza. La Germania recuperava così la Ruhr e
vedeva alleviato l’onere dei suoi debiti: in poco tempo l’industria tedesca tornò ai
primi posti nel mondo per volume di produzione.
Tuttavia, nelle elezioni del maggio 1924, vi fu un calo dei partiti democratici e una
parallela avanzata delle due estreme, che avevano impostato la loro campagna sul
rifiuto del piano Dawes. Un anno dopo, nel marzo 1925, nelle elezioni presidenziali
convocate per eleggere il successore di Ebert, il cattolico Wilhem Marx, sostenuto da
tutti i partiti democratici ma non dai comunisti, fu battuto di stretta misura dal
vecchio maresciallo Hindenburg, già capo dell’esercito e simbolo del passato
imperiale.
Negli anni successivi, si concretizzò in Germania una ripresa economica. I partiti di
centro e di centrodestra mantennero il potere sino al 1928, quando i socialdemocratici
ottennero una buona affermazione elettorale e ripresero la guida del governo.
Stresemann conservò ininterrottamente sino alla morte (1929) la carica di ministro
degli Esteri, assicurando così una continuità di linea politica.
Il varo del piano Dawes e il superamento della crisi della Ruhr segnarono una svolta
importante, non solo per i rapporti franco – tedeschi, ma per l’intero assetto europeo,
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uscito dai trattati di pace. Di questo assetto, la Francia era stata, nella prima metà
degli anni ’20, la principale garante. Tuttavia, si era sentita, in qualche modo, tradita
dai suoi alleati ed aveva così cercato di costruirsi da sola una rete di alleanze, legando
a sé tutti quei paesi dell’Europa centro – orientale, che erano stati avvantaggiati dai
trattati di Versailles e, quindi, contrari ad ogni ipotesi di revisione del nuovo assetto
europeo. In primo luogo, vi era la Polonia, poi la Cecoslovacchia, in seguito la
Jugoslavia e la Romania le quali, nel 1921, si erano unite in una alleanza che fu detta
Piccola Intesa. L’accordo con tali Stati non sembrava, comunque, bastare alla
Francia per allontanare lo spettro di una rivincita tedesca. Di qui l’impegno dei
governanti francesi di pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles.
Questa linea di politica estera culminata, come si è visto, nell’occupazione della
Ruhr, subì un mutamento nel 1924 con l’accettazione del piano Dawes, da parte dei
governi francese e tedesco. Si inaugurò, così, una fase di distensione fra le due ex
potenze nemiche, che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Gustav Stresemann e nel
ministro degli Esteri francese Aristide Briand. I due statisti perseguivano obiettivi
diversi: Briand voleva fondare su basi più stabili l’equilibrio di Versailles,
Stresemann cercava di superare quell’equilibrio per riportare la Germania a una
condizione di grande potenza. Alla base della loro intesa c’era, però, la volontà
comune di superare le fratture create dalla guerra, di normalizzare i rapporti fra
vincitori e vinti, sulla base di impegni liberamente sottoscritti, nel quadro più vasto
della sicurezza collettiva.
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Il risultato più importante di tale intesa fu rappresentato dagli accordi di Locarno
dell’ottobre 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia
e Belgio della frontiere comuni tracciate a Versailles e nell’impegno di Gran
Bretagna ed Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. La Germania accettava
la perdita dell’Alsazia – Lorena, ma evitava di prendere impegni analoghi per quanto
riguardava le sue frontiere orientali e usciva nel complesso rafforzata.
Un anno dopo la firma del patto, venne ammessa alla Società delle Nazioni. Nel
giugno 1929 un nuovo piano, elaborato ancora una volta da un finanziere americano,
Owen D. Young, ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni e ne graduò il
pagamento in sessant’anni. Nel giugno 1930, gli ultimi reparti francesi si ritirarono
dalla Renania, mentre il governo tedesco rinnovava l’impegno a mantenere la regione
smilitarizzata.
Il nuovo clima di distensione internazionale trovò conferma nell’estate del 1928
quando i rappresentanti di quindici Stati, fra cui Germania ed Unione Sovietica,
riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato americano Kellogg,
firmavano un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per
risolvere le controversie. La firma del patto di Parigi o patto Briand – Kellogg, e il
varo del piano Young rappresentarono il punto più alto della fase di distensione
internazionale, che caratterizzò la seconda metà degli anni ’20. Ma tutto ciò si
interruppe bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con la crisi economica
mondiale. Già nel settembre 1930, la Francia decideva di dare il via alla costruzione
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di un imponente complesso di fortificazioni difensive, la linea Maginot, lungo il
confine con la Germania.
Fino al 1929, il partito nazionalsocialista o nazista, come veniva comunemente
chiamato, rimase un gruppo minoritario e marginale, che si collocava al di fuori della
legalità repubblicana, si serviva della violenza e fondava la sua forza su una robusta
organizzazione armata: le SA (Sturm – Abteilungen) ossia i reparti d’assalto,
comandati dal capitano dell’esercito Ernst Röhm. Dopo il fallimentare tentativo di
Monaco, Hitler aveva cercato di dare al partito “un volto più rispettabile”. Aveva
messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico, che figuravano nel suo
programma del 1920, riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno finanziario da
parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma, non aveva affatto rinunciato al
nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del trattato di
Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova grande Germania, l’adozione di
misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del parlamentarismo corruttore.
I suoi progetti li espose nel libro Mein Kampf, La mia battaglia. Al centro dei suoi
piani c’era l’utopia nazionalista e razzista. Egli credeva nell’esistenza di una razza
superiore e conquistatrice, quella ariana, progressivamente inquinatasi per la
commistione con le razze inferiori. I caratteri originali dell’arianesimo si erano per lui
conservati solo nei popoli nordici, in particolare in quello tedesco, che avrebbe
dovuto dominare sul mondo. Per realizzare tutto ciò era necessario schiacciare i
nemici interni, primi fra tutti gli ebrei, considerati portatori del virus della
dissoluzione morale, poiché popolo senza patria e perciò responsabile dei misfatti del
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capitale finanziario e di quelli del bolscevismo, causa e simbolo vivente della
decadenza della civiltà europea. Una volta ricostituita la propria unità, in un nuovo
Stato attorno ad un capo in grado di interpretare i bisogni profondi del popolo, i
tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i
territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati anch’essi
inferiori. La ricerca dello spazio vitale ad oriente avrebbe permesso di far coincidere
l’espansione territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo.
Nelle elezioni del 1924 i nazisti ottennero circa il 3% dei voti; in quelle del maggio
del 1928 solo il 2,5. Ma, con lo scoppio della crisi lo scenario cambiò. La
maggioranza dei tedeschi, immiseriti e ridotti alla fame, perse ogni fiducia nella
Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. A destra, le forze conservatrici
si sentirono definitivamente sciolte da ogni vincolo di lealtà verso le istituzioni
repubblicane e si proposero di cambiare le regole del sistema, appoggiando le forze
eversive a cominciare dai nazisti. A sinistra, settori consistenti della classe operaia si
staccarono dalla socialdemocrazia per avvicinarsi ai comunisti, che attaccavano la
classe dirigente democratica, con una forza non minore di quella usata dalla destra.
Così i nazisti uscirono dal loro isolamento e fecero leva sulla paura della grande
borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati.
L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il
cancelliere Brüning convocò nuove elezioni, sperando di fare uscire dalle urne una
maggioranza favorevole alla sua politica di austerità. Accadde, invece, che i nazisti
ebbero un grande incremento a spese della destra tradizionale, mentre i comunisti
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guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici. L’aspetto più grave stava nel
fatto che mentre le forze antisistema si ingrossavano, i partiti fedeli alla Repubblica,
non disponevano più della maggioranza. Il ministero Brüning continuò a governare
per altri due anni, grazie all’appoggio concessogli dalla Spd e soprattutto grazie al
sostegno del Presidente Hindenburg, che si valse dei poteri offerti dalla Costituzione
nei casi di emergenza.
Nel 1932, la crisi raggiunse il suo apice. La produzione calò del 50% rispetto al 1928
e i senza lavoro raggiunsero i sei milioni. I nazisti ingrossavano le loro file in modo
impressionante. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali tenute
a pochi mesi di distanza, l’una dall’altra, non fecero che confermare la crescita delle
forze eversive e l’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza costituzionale.
Si cominciò nel marzo 1932 con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per
sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici appoggiarono la rielezione
dell’ottantacinquenne Hindenburg, capace di attirare i consensi di almeno una parte
della destra. Ed, infatti, venne eletto con un margine abbastanza netto su Hitler ma,
ben presto, cedette alle pressioni militari e della grande industria e congedò Brüning,
cercando una via di uscita dalla crisi, prendendo atto dello spostamento a destra
dell’asse politico. A guidare il governo furono chiamati due uomini della destra
conservatrice: prima il cattolico Franz von Papen, poi il generale Kurt von Scleicher,
consigliere personale del presidente. Entrambi i tentativi furono un fallimento. Nelle
due successive elezioni politiche del luglio e del novembre 1932, i nazisti si
affermarono come primo partito tedesco. I gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso
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Hindenburg finirono per convincersi che senza di loro non era possibile governare. Il
30 gennaio 1933, Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di
capeggiare un governo dove i nazisti avevano solo tre ministeri su undici, e in cui
erano rappresentate tutte le più importanti componenti della destra. Gli esponenti
conservatori pensavano di aver ingabbiato Hitler e di utilizzare il nazismo per
un’operazione di semplice marca conservatrice. Avrebbero ben presto compreso di
sbagliare.
Per trasformare lo Stato liberale italiano in una dittatura, Mussolini aveva impiegato
quattro anni. A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un potere molto più
totalitario di quello che Mussolini aveva e avrebbe mai esercitato in Italia.
L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico ed
oscuro: l’incendio appiccato al Reichstag, il Parlamento nazionale, nella notte del 27
febbraio 1933, una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione
elettorale. L’arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato
come l’autore materiale del fatto, fornì al governo il pretesto per un’ imponente
operazione di polizia, contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali.
Nelle elezioni del 5 marzo, i nazisti mancarono l’obiettivo della maggioranza
assoluta. Ottennero, però, il 44% dei consensi, che uniti a quelli dei gruppi di destra
sarebbero bastati ad assicurare al governo un’ampia base parlamentare. Ma, Hitler
mirava all’abolizione del Parlamento. E il Reichstag, appena eletto, lo assecondò
approvando una legge, che conferiva al governo pieni poteri, compreso quello di
legiferare e di modificare la Costituzione. Assenti i deputati comunisti, votarono
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contro i socialdemocratici, i quali mantennero un atteggiamento di estrema prudenza,
nell’illusione di poter conservare il ruolo di opposizione legale. Fu inutile: nel giugno
del 1933 la Spd, accusata di alto tradimento, fu sciolta dopo che era stata soppressa,
con un provvedimento di polizia, la Confederazione dei sindacati liberi, di ispirazione
socialdemocratica. A poco a poco scomparvero tutti i partiti tedeschi. Nel mese di
novembre, una nuova consultazione elettorale di tipo plebiscitario, faceva registrare
un 92% di voti favorevoli a Hitler. Di fronte a lui restavano ancora due ostacoli: da
una parte l’ala estremista del nazismo, rappresentata dalle SA di Röhm, che volevano
una seconda ondata rivoluzionaria, dall’altra la vecchia destra, impersonata da
Hindenburg e dai capi dell’esercito, che chiedevano a Hitler di frenare gli estremismi
e di tutelare le prerogative delle forze armate. Hitler decise di risolvere i problemi in
modo drastico. Preparato, in quella che sarà ricordata come la notte dei lunghi
coltelli, il colpo di mano contro le SA fu guidato da Hitler, che provvide anche
all’arresto di Röhm, successivamente ucciso dalle SS.
La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler, in cambio della testa di Röhm, fu
l’assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg.
Quando, nel 1934, il vecchio maresciallo morì, Hitler si trovò, così, in virtù di una
legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo
dello Stato. Ciò significava l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di lealtà
allo stesso Hitler: veniva meno, così, quella autonomia dal potere politico di cui i
generali tedeschi si erano sempre mostrati gelosi. Le conseguenze sarebbero apparse
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chiare pochi anni dopo, nel febbraio 1938, quando Hitler decise di assumere
personalmente il comando supremo delle forze armate.
Con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime
tracce del sistema repubblicano. Nasceva il Terzo Reich, basato sul principio del
“capo”, che costituiva un punto cardine della dottrina nazista.
Hitler diede vita ad uno Stato totalitario, termine che fu inventato dagli antifascisti in
Italia, nella prima metà degli anni ’20, per definire l’aspirazione di Mussolini, mai
pienamente realizzata, ad una identificazione totale tra Stato e società. I regimi
totalitari aspirarono, così, non solo a controllare, ma a trasformare la società dal
profondo, in nome di un’ideologia onnicomprensiva.
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La crisi del 1929 e le sue conseguenze in Europa e in Italia
Il malessere politico ed economico, che serpeggiava in Europa verso la fine degli
anni ’20, fu aggravato dalla crisi americana del 1929, collegata al crollo di Wall
Street. Nel settembre nel ’29, infatti, il corso dei titoli raggiunse livelli elevati. Dopo
settimane di incertezza, emerse la propensione degli speculatori a liquidare i propri
pacchetti azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. Il 24 ottobre, il
“giovedì nero”, furono scambiati 13 milioni di titoli; il 29 le vendite ammontarono a
16 milioni. La corsa alle vendite determinò una caduta dei valori dei titoli,
distruggendo i sogni dei loro possessori. A metà novembre, le quote si stabilizzarono
su valori più o meno dimezzati. Ma, intanto molte fortune si erano volatilizzate. Gli
effetti planetari della crisi furono aggravati dal fatto che gli Usa, anziché assumersi le
responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico, cercarono
innanzitutto di difendere la loro produzione, inasprendo il protezionismo e,
contemporaneamente, riducendo l’erogazione dei crediti all’estero. Il protezionismo
statunitense indusse gli altri paesi ad adottare misure analoghe, a difesa della propria
economia. Fra il 1929 e il 1932 il valore del commercio mondiale si contrasse di oltre
il 60% rispetto al triennio precedente.
Attraverso la contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il
mondo, con la significativa eccezione dell’Urss, provocando il crollo di imprese,
portando alla rovina esercizi commerciali, aggravando la crisi dell’agricoltura. I
disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e 15 milioni in
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Europa. Nel complesso, un consistente impoverimento colpì la massa dei lavoratori
urbani e rurali, generando incertezza e sfiducia.
Il crollo verificatosi in Austria ed in Germania provocò un allarme incontrollato sulla
solidità delle stesse finanze inglesi: molti capitali britannici erano stati, infatti,
investiti in questi due paesi. Le banche inglesi dovettero far fronte ad un precipitoso
ritiro dei capitali stranieri e ad ingenti richieste di conversione delle sterline in oro.
Nel 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d’Inghilterra, dovette essere sospesa
la convertibilità della sterlina e la valuta inglese fu svalutata. Analoghi
provvedimenti, di sospensione della convertibilità e di svalutazione, vennero poi
adottati da molti altri paesi. Indubbiamente sulla profondità e sulla durata della
depressione influì negativamente anche l’impreparazione delle autorità politiche ad
affrontare un cataclisma economico di tale portata. Quando la crisi ebbe inizio, tutti i
governi dei paesi industrializzati ritennero di potersi affidare ai classici principi della
scuola economica liberale: primo tra tutti il pareggio del bilancio. Per ottenere ciò, la
spesa pubblica venne tagliata e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti
compressero ancora di più la domanda interna, aggravando perciò la recessione e la
disoccupazione. Solo nel 1933, l’economia europea cominciò a manifestare sintomi
di miglioramento.
In Germania, le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro paese
europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali
aveva creato fra l’economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall’onere
delle riparazioni. Nel 1930, la guida del governo tedesco passò al leader del Centro
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cattolico Brüning, che attuò una severissima politica di sacrifici, allo scopo di rivelare
al mondo l’intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tenere
fede all’obbligo delle riparazioni. Lo scopo fu raggiunto, in parte, nel 1932, quando
con una conferenza internazionale venne ridotta sensibilmente l’entità delle
riparazioni. Tuttavia, in Germania vi erano più di 6 milioni di lavoratori disoccupati.
In Francia la crisi giunse in ritardo, nella seconda metà del 1931, ma durò più a
lungo, anche perché i governi scelsero di legare il loro prestigio alla difesa del franco,
ritardando fino al 1937 la svalutazione della moneta. La crisi economica coincise con
un periodo di grande instabilità della situazione politica francese: fra l’ottobre del
1929 e il giugno del 1936, si succedettero ben diciassette governi, ora di centro -
destra, ora di centro- sinistra.
In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay Mac Donald cercò di
fronteggiare la crisi con un programma, che prevedeva un drastico taglio del sussidio
ai disoccupati. Questo programma trovò, però, l’opposizione delle Trade Unions,
nerbo del movimento laburista. A quel punto Mac Donald ruppe col suo partito e,
seguito da un piccolo numero di fedelissimi, si accordò con liberali e conservatori per
la formazione di un “governo nazionale”, di cui lui stesso prese la presidenza. Fu
sotto questo governo che la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la sua
linea liberoscambista, adottando un sistema di tariffe doganali, che privilegiava gli
scambi commerciali nell’ambito del Commonwealth. Nel ’33-’34 l’Inghilterra
cominciava ad uscire dalla crisi, con notevole anticipo rispetto agli altri paesi
industrializzati.
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Nel novembre 1932, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il presidente
uscente Herbert Hoover, aveva fatto ben poco contro la crisi e proiettato attorno a sé
un’atmosfera di scoraggiamento. Vinse, così, le elezioni il democratico Franklin
Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York. Egli seppe subito istaurare
con le masse un rapporto basato su notevoli doti di comunicativa e capì che per un
politico era importante infondere speranza e coraggio nella popolazione. Celebri
divennero le sue “chiacchiere al caminetto”, cioè le conversazioni radiofoniche che
teneva spesso con tono familiare per illustrare ai cittadini la sua attività presidenziale.
Nel discorso inaugurale della sua presidenza, nel marzo del 1933, Roosevelt annunciò
di volere iniziare un New Deal, ossia un nuovo corso, che si sarebbe caratterizzato
soprattutto per un energico intervento dello Stato nei processi economici e per la
stretta associazione fra l’obiettivo della ripresa economica e gli elementi di riforma
sociale. Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi della presidenza
Roosevelt, i cosiddetti “cento giorni”, con una serie di provvedimenti tesi a sminuire
la crisi, come la ristrutturazione del sistema creditizio, la svalutazione del dollaro per
rendere più competitive le esportazioni, la concessione di prestiti per consentire ai
cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case. Il governo poi affiancò a tutto
ciò, altri provvedimenti più organici e qualificanti. L’Agricultural Adjustment Act
(Aaa), che si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, o il
National Industrial Recovery Act (Nira), il quale imponeva alle imprese dei codici di
comportamento volti ad evitare le conseguenze di una concorrenza troppo accanita.
Particolare rilievo ebbe l’istituzione della Tennesse Valley Authority (Tva), un ente
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che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee,
producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori.
Se l’esperienza della Tva rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia
economico, sia politico, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e contradditori. I
codici di comportamento, ad esempio, suscitarono la perplessità dei piccoli e medi
operatori, mentre la riduzione della produzione agricola, prevista dall’Aaa, arrestò la
caduta dei prezzi, ma causò l’espulsione dalle campagne di vaste masse di contadini
senza lavoro. Per porre fine a tutto ciò, il governo potenziò ulteriormente l’iniziativa
statale, varando vasti programmi di lavori pubblici, destinati a creare nuovi posti di
lavoro e allargò il flusso della spesa pubblica. Parallelamente, sempre il governo, si
impegnò in importanti riforme sociali. Nel 1935 furono varate una riforma fiscale,
una legge sulle sicurezza sociale, che garantì la pensione di vecchiaia, ed infine una
nuova disciplina dei rapporti di lavoro, la quale favorì le attività sindacali e tutelò il
diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva.
Con questa politica progressista, Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento
sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione, grazie
anche a un’ondata di lotte operaie senza precedenti nella storia americana. Tuttavia, i
risultati non sempre brillanti del suo operato incoraggiarono la formazione di una
coalizione antirooseveltiana. Persino la Corte Suprema cercò di bloccare le riforme
di Roosevelt dichiarando, nel 1935-1936, l’incostituzionalità del Nira e dell’Aaa.
Ma, il presidente americano reagì con energia ripresentando, con piccole modifiche,
le leggi bocciate.
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In conclusione, l’azione di Roosevelt se da un lato smentì i dogmi liberisti,
dimostrando che l’intervento statale era indispensabile per arrestare il corso della
crisi, dall’altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo, che si era
proposto, quello cioè di ridare forza all’iniziativa dei privati. Per tutti gli anni ’30,
l’economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico: sarebbe
giunta ad una piena ripresa, solo durante la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo
della produzione bellica.
In Italia, frattanto, il fascismo tentava di superare i suoi problemi economici
imboccando la “terza via”, alternativa sia al capitalismo che al socialismo,
sintetizzata nella formula del corporativismo. L’idea corporativa affondava le sue
radici nel Medioevo ed aveva ispirato, nel ‘800, il pensiero sociale cattolico. Nel
periodo fascista essa si nutriva anche di suggestioni di stampo nazionalistico e
provenienti dallo stesso sindacalismo rivoluzionario. Nel 1934, furono così istituite le
corporazioni; tuttavia, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia, che si
sovrapponeva a quella esistente. Il fascismo riuscì a realizzare ugualmente interventi
importanti in economia, a creare enti ed istituzioni di nuova concezione, capaci di
sopravvivere alla sua caduta. Ma, non inventò un nuovo sistema economico. E non
mantenne neppure, per tutto il ventennio, una linea economica coerente.
Nei suoi primi anni di governo, il fascismo adottò una linea liberista, volta a
rilanciare la produzione, incoraggiando l’iniziativa privata e allentando i controlli
statali. Però, dal 1925, questa linea economica, subì una svolta: il ministro delle
Finanze De Stefani fu sostituito da Giuseppe Volpi, industriale e finanziere, che
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inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla deflazione, sulla
stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell’economia.
Primo provvedimento in tal senso fu l’inasprimento del dazio sui cereali: una misura
che si inseriva in una tendenza di lungo periodo, volta a favorire il settore cerealicolo,
ma che venne accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica detta
battaglia del grano, dove gli accenti ruralisti si mescolavano ai toni guerrieri. Scopo
della battaglia era il raggiungimento dell’autosufficienza nel settore dei cereali. Tale
scopo fu in parte raggiunto: alla fine degli anni ’30 la produzione di grano era
aumentata del 50% e le importazioni si erano ridotte ad un terzo, rispetto a quindici
anni prima. Ma, per fare ciò, altri settori, come ad esempio quello dell’allevamento,
furono sacrificati.
La seconda battaglia, del binomio Mussolini – Volpi, fu quella per la rivalutazione
della lira. Nell’agosto del 1926, il duce disse di voler riportare in alto il corso
internazionale della moneta e fissò l’obiettivo di quota novanta, ossia 90 lire per una
sterlina. Tale obiettivo fu raggiunto in poco più di un anno, in virtù di provvedimenti
che limitavano il credito, e con l’aiuto di un cospicuo prestito concesso allo Stato
italiano da grandi banche statunitensi. Ma a godere di tutto ciò non furono i lavoratori
dipendenti, che si videro tagliare stipendi e salari in misura più che proporzionale;
tale situazione avvantaggiò soprattutto le grandi imprese e favorì i processi di
concentrazione aziendale. Qualcosa di analogo si verificò in agricoltura, dove la
politica monetaria del regime finì col mettere in crisi molte piccole e medie aziende,
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che si erano formate da poco tempo e furono schiacciate per la restrizione del credito,
oltre che per il calo dei prezzi agricoli.
L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando
cominciò a sentire le conseguenze della crisi mondiale. Queste conseguenze furono
meno drammatiche che in altri paesi, anche perché la politica protezionistica,
accentuando l’orientamento della produzione verso il mercato interno, aveva
anticipato in qualche modo gli effetti negativi della depressione. Tuttavia, la
recessione fu pesante anche in Italia. Il commercio con l’estero si ridusse;
l’agricoltura subì duri colpi. La disoccupazione nell’industria e nel commercio
aumentò bruscamente. La risposta del regime alla crisi si attuò su due direttrici
fondamentali: lo sviluppo dei lavori pubblici, per rilanciare la produzione ed attutire
le tensioni sociali e l’intervento diretto o indiretto dello Stato a sostegno dei settori in
crisi. La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima metà
degli anni ’30. Furono realizzate nuove strade e tronchi ferroviari, costruiti edifici
pubblici, dove il fascismo poté appagare il suo gusto per il monumentale.
Fondamentale fu, però, l’avvio di un gigantesco programma di bonifica integrale, che
ebbe la sua massima espressione nella bonifica dell’Agro Pontino, un vasto territorio
paludoso a Sud della Capitale. Vennero costruiti, così, villaggi rurali e vere città,
come Sabaudia e Littoria, ( l’attuale Latina).
Anche nel settore dell’industria e del credito, lo Stato assunse le forme più originali
ed incisive. Colpite dalla crisi erano in particolare le banche miste che, create alla
fine dell’Ottocento, si erano trovate a controllare quote azionarie sempre più
78
consistenti di importanti gruppi industriali. La caduta della borsa, che si verificò
anche in Italia in coincidenza della grande crisi, mise in difficoltà queste strutture, le
quali, per sostenere il corso dei titoli, effettuarono nuovi massicci acquisti,
aggravando la loro esposizione. Per far fronte a questa situazione, il governo creò
prima l’Imi, l’Istituto mobiliare Italiano, col compito di sostituire le banche nel
sostegno alle industrie in crisi e, successivamente, nel 1933 l’Iri, l’Istituto per la
ricostruzione industriale, con ampie competenze. Valendosi di fondi forniti in gran
parte dallo Stato, l’Iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne
rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune tra le
maggiori imprese italiane. Tale ente doveva essere transitorio, limitandosi al
risanamento delle imprese, ma nel 1937 divenne, invece, un ente permanente.
In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota dell’apparato
industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato, ad eccezione
dell’Urss. Diventò così Stato – Imprenditore, oltre che Stato – Banchiere.
Intorno alla metà degli anni ’30, l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi,
prima e meglio rispetto alla maggior parte delle potenze industriali. A questo punto,
però, mancò al regime la capacità di profittare della ripresa per mettere in moto un
processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione.
Dal 1935, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari, che
sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l’isolamento
economico del paese. Cominciava per l’Italia una lunga stagione di economia di
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guerra, destinata a prolungarsi senza soluzione di continuità, sino al secondo conflitto
mondiale.
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Gli anni ’30 in Germania e in Italia
Il termine totalitarismo, come accennato, fu inventato dagli antifascisti italiani nella
prima metà degli anni ’20. In seguito, gli stessi fascisti e Mussolini lo usarono in
senso positivo per definire la loro ispirazione ad una identificazione tra Stato e
società. Dopo il secondo conflitto mondiale, il termine fu adottato dalla scienza
politica e dalla pubblicistica dei paesi occidentali per designare quella particolare
forma di potere assoluto, tipica della società di massa, che non si accontentava di
controllare la stessa società, ma pretendeva di mutarla, attraverso una ideologia
onnicomprensiva. Un potere che si basava sul terrore e sulla propaganda; un potere,
insomma, che non solo voleva reprimere, grazie ad un immenso apparato poliziesco,
ogni forma di dissenso, ma cercava anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie
organizzazioni, di imporre la sua ideologia attraverso il monopolio dell’educazione e
dei mezzi di comunicazione di massa.
In Germania, con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler, scomparivano
anche le ultime tracce del sistema repubblicano. Nasceva così il Terzo Reich, dopo il
Sacro Romano Impero medioevale e quello nato nel 1871, che realizzava pienamente
il “principio del capo”, un punto cardine della dottrina nazista. Il capo non era solo
colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del
diritto; non era esclusivamente la guida del popolo, ma anche colui che sapeva
esprimere le autentiche aspirazioni della massa. Deteneva, cioè, quel potere
carismatico di cui parlava Max Weber, nei primi anni del secolo XX, che lo portava
a compiere, in nome di tutto il popolo, la missione per la quale era stato predestinato.
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Il rapporto fra capo e popolo doveva essere diretto, al di là di ogni mediazione
istituzionale e di ogni forma di rappresentanza. L’unico tramite con le masse era
costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati: il Fronte del
lavoro, che sostituiva i sindacati disciolti, o le organizzazioni giovanili, che facevano
capo alla Gioventù hitleriana. Fine di queste organizzazioni era di trasformare
l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata: da tale
comunità erano esclusi, per definizione, gli elementi antinazionali, i cittadini di
origine straniera o di discendenza non ariana e soprattutto gli ebrei, investiti del ruolo
di polo negativo, di obiettivo predeterminato del malcontento popolare. In Germania
gli ebrei erano una ristretta minoranza, circa 500.000 su una popolazione di oltre 60
milioni di abitanti. Ma, erano concentrati nelle grandi città e, pur non facendo parte
della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della scala sociale.
Nei confronti di questa minoranza, attivamente inserita nella comunità nazionale, la
propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità, che erano diffusi
soprattutto fra le classi popolari in tutta l’Europa centro-orientale.
La discriminazione venne ufficializzata nel settembre del 1935. con le Leggi di
Norimberga, che tolsero agli ebrei la parità dei diritti conquistata nel 1848 e
proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei. A tutto ciò si aggiungeva una loro
crescente emarginazione dalla vita sociale: molti ebrei abbandonarono, così, la
Germania. Dal novembre del 1938 la persecuzione antisemita fu ulteriormente
accresciuta, traendo a pretesto l’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi, per
mano proprio di un ebreo. I nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la
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Germania. Quella fra l’8 e il 9 novembre 1938 fu chiamata la notte dei cristalli, per
via delle vetrine dei negozi appartenenti agli ebrei, che furono infrante dalla violenza
dei dimostranti. Da allora in poi, gli ebrei in Germania ebbero un’esistenza
difficilissima finché, a guerra mondiale iniziata, Hitler non concepì il mostruoso
progetto di una soluzione finale del problema, con la deportazione in massa e il
progressivo sterminio del popolo ebraico.
La persecuzione antisemita si inquadrava in un più vasto programma di difesa della
razza che prevedeva, fra l’altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie
ereditarie e la soppressione degli infermi di mente, classificati come incurabili. Il
mito della razza occupò un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo: la
stessa idea dello Stato aveva, rispetto a quella della razza, una funzione secondaria.
L’opposizione comunista, quasi del tutto annientata, riuscì a mantenere in piedi pochi
nuclei clandestini. La socialdemocrazia fece sentire la propria voce solo attraverso gli
esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del Centro, finirono con l’adattarsi al regime,
incoraggiati dall’atteggiamento della Chiesa che, nel luglio 1933, stipulò un
concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza
dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo del 1937, di fronte agli
eccessi della politica razzista dei nazisti, Pio XI intervenne con un’enciclica, in lingua
tedesca, per condannare le dottrine e le pratiche, che sempre più rivelavano il
carattere “pagano” di certi aspetti della politica di Hitler. Ma, non vi fu una denuncia
del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo.
83
Le chiese luterane, dal canto loro, per lo più orientate in senso conservatore e
tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, ed
accettarono il giuramento di fedeltà nei confronti del Führer. L’opposizione più
pericolosa, per Hitler, sarebbe venuta da esponenti di quei gruppi conservatori e
miliari, che avevano avuto non piccole responsabilità nell’avvento del nazismo. In
buona parte conservatori erano gli ufficiali ed i politici, che nel luglio del 1944
cercarono di attentare alla vita di Hitler.
Il nazismo aveva un eccezionale apparato repressivo: le molteplici polizie, da quella
ufficiale a quella segreta, la Gestapo, e l’onnipresente servizio di sicurezza delle SS,
capace di controllare con ogni mezzo la vita privata e pubblica dei cittadini. Altro
mezzo di repressione erano i campi di concentramento (lager), dove gli oppositori
venivano rinchiusi e sottoposti ad un lento annientamento. La repressione e i lager
possono spiegare la limitatezza del dissenso, ma non riescono a far comprendere il
consenso al regime, che fu superiore a quello di qualsiasi altro sistema totalitario. Un
primo fattore di tale consenso risiedeva nei successi di Hitler in politica estera. Il
Führer, infatti, riuscì a stimolare l’orgoglio patriottico dei tedeschi contro Versailles e
fece provare ai suoi concittadini la sensazione della rivincita. Altro fattore fu la
ripresa economica. Superato già nel 1933 il momento più difficile della crisi, la
produzione industriale tedesca tornò in pochi anni al livello del 1928, per superarlo
poi nel 1938-’39.
84
Il piano di preparazione alla guerra, approntato da Hitler subito dopo la presa del
potere, come pure il programma dei lavori pubblici, determinarono una rapida
crescita economica.
Usando la spesa pubblica per favorire la ripresa ed accrescere l’occupazione, il
regime nazista attuò una politica, in fondo, non diversa da quella messa in atto da
Roosevelt con il New Deal. Abbandonando i programmi anticapitalistici del primo
nazismo, il regime cercò di incoraggiare l’iniziativa privata e legarla al potere
politico. In campo agricolo, il nazismo si limitò di imporre una serie di norme, che
tutelavano la piccola e media proprietà senza intaccare i latifondi.
Nel settore delle relazioni industriali, la maggiore novità fu l’applicazione del
Führerprinzip, all’interno dei luoghi di lavoro, con l’imprenditore elevato a capo
assoluto dell’azienda.
I successi in economia e in politica estera, non basterebbero però a spiegare
l’ampiezza del consenso al regime, se non si tenesse conto di un altro fattore
essenziale: la capacità del nazismo di proporre e di imporre miti, capaci di toccare le
corde dell’anima popolare, la sua abilità nel servirsi, a tale scopo, di tutti gli strumenti
disponibili nell’età delle comunicazioni di massa. L’utopia proposta dal nazismo era
reazionaria e “ruralista”: un mondo popolato da uomini sani e belli, legati alla loro
terra. Una società di contadini-guerrieri, libera dagli orrori delle città moderne e dalle
malattie della civiltà industriale. Ma, questo ideale contrastava con la prassi concreta
del regime, sospinto dalla sua logica bellicista a favorire lo sviluppo della grande
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industria. Tale mito si innestava, però, su una solida tradizione culturale nazionale di
origine romantica, fondata sui valori della terra e del sangue.
La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che, per
diffondere un’utopia antimoderna, il regime si serviva di mezzi modernissimi.
Quello nazista fu il primo governo ad istituire, in tempo di pace, un ministero per la
Propaganda che, affidato all’abile Joseph Goebbels, divenne uno dei maggiori centri
di potere del regime. Gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione
nazionale, la Camera di cultura del Reich, e dovettero fare atto di adesione al regime.
Tutti i momenti più significativi della vita dello Stato nazista furono scanditi da feste
e cerimonie pubbliche: sfilate, esibizioni sportive e soprattutto adunate di massa,
culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti. In tali adunate, il cittadino
trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita nelle grandi città
non offriva, come pure recuperava quegli elementi sacrali, che aveva perso con la
scomparsa della società contadina. Lo storico George L. Mosse così sottolineava che
il fenomeno nazista “non può essere classificato con i tradizionali canoni della
teoria politica. […Era] una religione laica, la prosecuzione, dai tempi primordiali e
cristiani, di un modo di considerare il mondo attraverso il mito e il simbolo, di
manifestare le proprie speranze e timori in forme cerimoniali e liturgiche”2.
In Italia, il fascismo aveva come progetto quello di “occupare”, insieme allo Stato,
anche la società, per plasmarla al suo volere: alle intenzioni non corrisposero, però, i
fatti. L’ostacolo maggiore era senza dubbio la Chiesa: il 99% della popolazione del
paese si dichiarava, infatti, di religione cattolica. Consapevole di ciò, Mussolini non 2 Cfr. G.L.Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 2008.
86
solo aveva cercato un’intesa politica col Vaticano, trovandola a danno del Partito
popolare, ma aveva mirato più lontano, tentando di debellare, definitivamente, lo
storico contrasto fra Stato italiano e Santa Sede. Le trattative cominciarono
nell’estate del 1926, si protrassero per due anni e mezzo nel più assoluto segreto e si
conclusero l’11 febbraio 1929, con la stipula dei patti, che presero il nome dai palazzi
del Laterano, cioè del luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano,
cardinale Gasparri, si incontrarono per la firma. I Patti Lateranensi si articolavano
in tre parti distinte: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva fine alla
“questione romana”, riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e si vedeva
riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”; una convenzione
finanziaria, con cui l’Italia si impegnava a pagare al papa una forte indennità a titolo
di risarcimento per la perdita dello Stato pontificio; infine, un concordato, che
regolava i rapporti interni tra Chiesa e Regno d’Italia, intaccando sensibilmente il
carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva, fra l’altro, che i sacerdoti fossero
esentati dal servizio militare, che i preti spretati venissero esclusi dagli uffici
pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili e l’insegnamento della
religione cattolica fosse considerato “fondamento e coronamento” dell’istruzione
pubblica. Infine, si stabilì che le organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica
potevano continuare a svolgere la loro attività, purché sotto il controllo delle
gerarchie ecclesiastiche.
Per il regime fascista, i Patti Lateranensi rappresentarono un successo
propagandistico.
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Le prime elezioni plebiscitarie, tenute col sistema della lista unica e indette, non a
caso, nel marzo del 1929, a poche settimane dalla firma dei patti, registrarono un
grande afflusso alle urne, quasi il 90%, con un 98% di consensi.
Tuttavia, la Chiesa non rappresentava l’unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie
del regime. Un altro limite insuperabile era rappresentato dalla monarchia.
Diversamente da Hitler, Mussolini dovette fare i conti con un’autorità, quella del re,
che non gli era subordinata, e non derivava dal fascismo i suoi titoli di legittimità. Il
re restava sempre la più alta autorità dello Stato, a lui toccava il comando delle forze
armate, la scelta dei senatori e, addirittura, il diritto di nomina e revoca del capo del
governo. Poteri questi forse più teorici che pratici, ma, tuttavia, decisivi per impedire
al fascismo di divenire un totalitarismo perfetto.
Nel movimento fascista fu sempre presente, fin dall’origine, una forte componente
nazionalistica. Tuttavia, sino ai primi anni ’30, le aspirazioni imperiali di Mussolini
rimasero vaghe e contraddittorie e si tradussero in una generica contestazione
dell’assetto uscito dai trattati di Versailles. Ancora nel 1935, il regime fascista era
legato alle democrazie europee: l’accordo di Stresa ne fu una dimostrazione. Tuttavia,
questa fu l’ultima manifestazione di tale fase della politica estera fascista. Mentre si
accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini
stava già preparando l’aggressione all’Impero etiopico, unico grosso Stato
indipendente del continente africano.
Così, quando ai primi dell’ottobre 1935, l’Italia diede inizio all’invasione
dell’Etiopia, il governo francese e quello inglese non poterono fare a meno di
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condannare l’azione e proporre al Consiglio della Società delle Nazioni l’adozione di
sanzioni, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria di
guerra. Ma, Mussolini diede vita ad un’imponente campagna propagandistica, tesa a
presentare l’Italia come vittima di una congiura internazionale. Il paese fu scosso da
un’ondata di imperialismo popolaresco.
Gli etiopici si batterono, con accanimento, per più di sette mesi guidati dal negus
Hailé Selassié. Alla fine, però, le truppe italiane comandate dal generale Badoglio,
entrarono ad Addis Abeba il 5 maggio 1936. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva
annunciare alle folle il “ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma” e offrire al
sovrano la corona di imperatore d’Etiopia.
Nell’ottobre del 1936 vi fu un avvicinamento fra l’Italia e la Germania, con la firma
di un patto di amicizia, a cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino. Nell’autunno del
1937 si concretizzò, poi, l’adesione italiana al cosiddetto Patto anticomintern, un
accordo stipulato l’anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a
combattere il comunismo internazionale. Tuttavia, Mussolini considerava
l’avvicinamento alla Germania non tanto una scelta irreversibile, quanto un mezzo di
pressione sulle potenze occidentali, uno strumento che gli poteva permettere di
ottenere qualche vantaggio, soprattutto in campo coloniale.
Ma il dinamismo aggressivo della Germania era tale da non consentire a Mussolini i
tempi e gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Nel maggio
del 1939, il duce si decise alla scelta che sarebbe stata fatale per l’Italia: la firma di
89
un formale patto di alleanza con la Germania, il patto d’acciaio, che legava le sorti
del paese con la Germania nazista.
In Italia, negli anni 30, non si arrestava, tuttavia, il malcontento della popolazione. A
suscitarlo fu, non da ultimo, la politica economica del regime, sempre più ispirata a
motivi di prestigio nazionale e condizionata dalle spese militari. Mussolini era,
inoltre, deciso ad intensificare la politica dell’autarchia, già abbozzata negli anni ’20,
e consistente in una ricerca di maggior autosufficienza economica, soprattutto nel
campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in caso di guerra. I risultati
finali non furono brillanti: l’indice della produzione crebbe, ma molto lentamente.
Crebbero anche i prezzi, e ciò comportò un peggioramento dei livelli di vita delle
classi popolari. A questi motivi di disagio, si aggiungevano le preoccupazioni per il
nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini e dal suo più prezioso
collaboratore: suo genero Galeazzo Ciano, assurto alla carica di ministro degli Esteri.
L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era, comunque, l’amicizia con la
Germania, una amicizia che urtava le tradizioni risorgimentali. La nuova politica
mussoliniana si mostrava, inoltre, priva di risultati immediati: sembrava che l’Italia
dovesse passivamente subire i voleri di Hitler, come nel caso dell’annessione tedesca
dell’Austria nel 1938.
Il fascismo aveva l’obbligo, per realizzare i suoi obiettivi, di coinvolgere
maggiormente le masse.
Si concretizzarono, così, una serie di modifiche istituzionali, che andavano dalla
creazione del ministero per la Cultura popolare, all’accorpamento delle
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organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio, dall’ampliamento delle
funzioni del Pnf, alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova
Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si
entrava in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime.
Nell’autunno del 1938, Mussolini introdusse poi una serie di leggi discriminatorie nei
confronti degli ebrei, leggi che ricalcavano, in grandi linee, quelle naziste del 1935.
Anch’esse, infatti, escludevano gli ebrei da qualsiasi ufficio pubblico, ne limitavano
l’attività professionale e vietavano i matrimoni misti. Preannunciata da un manifesto
di sedicenti scienziati e preparata da una intensa campagna di stampa, la legislazione
razziale giunse, tuttavia, del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto
forme di antisemitismo diffuso. Le leggi razziali suscitarono, così, sconcerto e
perplessità nell’opinione pubblica ed aprirono un serio contrasto con la Chiesa,
contraria non tanto alla discriminazione in sé, quanto alle sue motivazioni biologico-
razziali.
Verso la seconda guerra mondiale
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L’avvento al potere di Hitler diede un duro colpo all’equilibrio internazionale, già
scosso dalle conseguenze della grande crisi. La prima decisione importante del
governo nazista in politica estera fu, nell’ottobre 1933, il ritiro della delegazione
tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze cercavano
di giungere ad un accordo sulla limitazione degli armamenti. Seguì, poco tempo
dopo, il ritiro della Germania dalla Società delle nazioni.
Queste decisioni, con le quali Hitler mostrava chiaramente di non sentirsi legato al
“sistema di Locarno” e agli impegni assunti dai suoi predecessori, destarono allarme
in Europa. Anche l’Italia fascista, nonostante le indubbie affinità ideologiche e
nonostante il comune atteggiamento revisionista, critico nei confronti di Versailles,
ebbe motivo di preoccuparsi delle mire aggressive tedesche.
Quando in Austria, nel luglio del 1934, gruppi di nazisti tentarono di impadronirsi del
potere e uccisero il cancelliere Dollfuss, al fine di preparare l’unificazione tra Austria
e Germania, Mussolini reagì immediatamente, facendo schierare quattro divisioni al
confine italo-austriaco. Hitler, non ancora pronto per una guerra, fu costretto a
sconfessare gli autori del complotto.
Meno di un anno dopo, nell’aprile 1935, di fronte ad una nuova iniziativa unilaterale
del governo tedesco, che reintroduceva la coscrizione obbligatoria, vietata a
Versailles, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per
condannare il riarmo tedesco, per ribadire la validità dei patti di Locarno e per
riaffermare il loro interesse all’indipendenza dell’Austria. Fu questa, l’ultima
manifestazione di solidarietà fra le potenze vincitrici. Pochi mesi più tardi, infatti,
92
come detto, l’aggressione italiana all’Etiopia avrebbe spezzato il “fronte di Stresa” e
dato avvio ad un processo di riavvicinamento italo-tedesco.
Intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo ed insperato
sostegno nel paese, che sino ad allora era rimasto estraneo a tutte le iniziative nate
nell’ambito della Società delle nazioni: l’Unione Sovietica. Fino al 1933, la politica
estera dell’Urss si era ispirata ad una linea dura: rifiuto del sistema di Versailles e
nessuna distinzione tra Stati fascisti e democrazie europee. I successi di Hitler
indussero Stalin a modificare le sue precedenti impostazioni. Nel settembre del 1934,
l’Urss entrò nella Società delle nazioni e nel maggio 1935 stipulò un’alleanza militare
con la Francia. Cambiò, così, anche la linea seguita dal Comintern e dai partiti
comunisti europei. Fu improvvisamente accantonata la tattica della contrapposizione
frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora verso le
socialdemocrazie. La nuova parola d’ordine, lanciata nel VII Congresso del
Comintern, svoltosi a Mosca nell’agosto del 1935, fu quella della lotta al fascismo,
indicato come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il compito
di riallacciare i rapporti sia con gli altri partiti operai, sia con le forze democratico-
borghesi, di favorire la nascita di larghe coalizioni, dette fronti popolari, e di
appoggiare i governi democratici, decisi a combattere il fascismo.
In Francia, l’instabilità governativa e il susseguirsi degli scandali politico-finanziari,
mettevano a dura prova le istituzioni repubblicane. Quando, il 6 febbraio 1934
l’estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento, (interrotta dall’intervento
della polizia), per impedire l’insediamento del governo presieduto dal radicale
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Daladier, socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie. Fu questo il
segno di un riavvicinamento, che preparava la svolta dell’Internazionale comunista e
che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in Francia e in altri paesi, di patti di
unità d’azione fra socialisti e comunisti.
Tuttavia, l’avvicinamento fra l’Urss e le democrazie europee, come pure il rilancio
della politica di sicurezza collettiva, non bastarono a fermare, nel 1935, l’aggressione
dell’Italia fascista all’Etiopia, né impedirono a Hitler, nella primavera del 1936, di
reintrodurre truppe tedesche nella Renania “smilitarizzata”.
Nel febbraio, sempre del 1936, una coalizione di Fronte popolare, comprendente
anche i comunisti, vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel mese di maggio, in
Francia, il netto successo delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo
composto da radicali e socialisti, sostenuto dall’esterno dai comunisti e presieduto dal
socialista Léon Blum.
L’insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu
accompagnato da grandi manifestazioni. Gli operai, con una imponente ondata di
scioperi e di occupazioni di fabbriche, strapparono ad un padronato riluttante la firma
degli “storici” accordi di Palazzo Matignon, nel giugno 1936. Tali accordi
prevedevano, oltre a consentire aumenti di salario, la riduzione della settimana
lavorativa a quaranta ore e la concessione di quindici giorni di ferie pagate.
Tuttavia questi accordi crearono notevoli difficoltà all’economia francese, non ancora
ripresasi dalla grande depressione. L’improvviso aumento del costo del lavoro
pregiudicò la competitività dei prodotti dell’industria e innescò un rapido processo
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inflazionistico, che vanificò i vantaggi salariali. L’inflazione e la fuga dei capitali
all’estero costrinsero i governi del Fronte popolare a due successive svalutazioni del
franco. La crisi era evidente: il governo Blum si dimise nel giugno del 1937 senza
esser riuscito a svolgere alcuna riforma organica. Nella primavera del 1938, mentre la
situazione internazionale si andava deteriorando, l’esperienza del Fronte popolare
poteva considerarsi chiusa.
Intanto, tra il 1936 e il 1939, la Spagna fu sconvolta da una drammatica guerra civile:
un conflitto che si caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno
scontro tra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice.
Dopo la dittatura di Primo de Rivera e la caduta della monarchia, la Spagna aveva
attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale, che aveva visto
succedersi un fallito colpo di Stato militare nell’estate del 1932 e un’ insurrezione
anarchica, sanguinosamente repressa, nell’autunno del 1934. La Spagna era un paese
arretrato e prevalentemente agricolo: qualsiasi tentativo di riforma si scontrava, così,
con l’ottusità di un ceto dominante reazionario, come pure con le tendenze sovversive
e antistatali di un proletariato fortemente influenzato dalle ideologie anarco-
sindacaliste. Era, infatti, la Spagna l’unico paese al mondo in cui la maggior centrale
sindacale, la Cnt, risultava ancora controllata dagli anarchici.
Quando, nel febbraio del 1936, le sinistre unite in una coalizione di Fronte popolare
si affermarono nelle elezioni politiche e si insediarono al governo, la tensione esplose
ovunque. Le masse popolari considerarono l’evento come una rivoluzione sociale.
La reazione della vecchia classe dominante si espresse, prima nella violenza
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squadrista, affidata a gruppi fascisti della Falange, un’organizzazione che non aveva
sino ad allora avuto grande importanza e, poi, con una ribellione messa in atto dai
militari. Iniziata nel luglio del 1936, tale ribellione ebbe il suo punto di forza nelle
truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo e fu organizzata da una giunta di
cinque generali: fra essi Francisco Franco, assurto al ruolo di capo degli insorti. I
ribelli assunsero il controllo della parte occidentale della Spagna. Inizialmente, però,
il governo repubblicano ebbe la meglio e poté mantenere il controllo della capitale e
delle regioni del Nord-Est, le più ricche. Ciò che favorì i nazionalisti fu il
comportamento delle potenze straniere. Italia e Germania aiutarono gli insorti
franchisti. Nessun aiuto, invece, venne alla Repubblica, da parte delle potenze
democratiche. Il governo inglese si attenne ad una rigida neutralità. Frenato dagli
inglesi e preoccupato dal rischio di uno scontro aperto con gli Stati fascisti, il governo
francese di Fronte popolare si astenne da ogni aiuto palese ai repubblicani e si illuse
di bloccare gli aiuti al campo opposto, promuovendo un accordo generale fra le
grandi potenze per il non intervento nella crisi spagnola. Sottoscritto nell’agosto del
1936 anche da Italia e Germania, l’accordo fu rispettato solo dalla Francia e dalla
Gran Bretagna.
L’unico Stato a portare un aiuto efficace alla repubblica spagnola fu l’Urss, che non
solo rifornì il governo repubblicano di materiale bellico, ma favorì, attraverso il
Comintern, la formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in
buona parte da comunisti di tutte le tendenze ed i paesi. Numerosi furono gli italiani, i
quali trovarono nella guerra l’occasione per combattere, in campo aperto, quella
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battaglia che non potevano affrontare in patria. “Oggi in Spagna, domani in Italia”,
fu lo slogan lanciato da Carlo Rosselli a nome dell’emigrazione antifascista italiana,
presente nelle Brigate internazionali con molti suoi dirigenti.
L’intervento dei volontari antifascisti ebbe un significato morale e politico
largamente superiore a quello militare, che pure non fu trascurabile, come nella
battaglia di Guadalajara del marzo del 1937, quando gli italiani della Brigata
Garibaldi inflissero una dura sconfitta ai loro connazionali, inquadrati nei reparti
fascisti. Tuttavia, i repubblicani erano anche indeboliti dalle loro divisioni interne.
Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo, si guadagnava l’appoggio delle
gerarchie ecclesiastiche, dell’aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia
moderata e realizzava l’unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange
nazionalista, il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia
progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora spaventati
dagli eccessi di violenza, cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici. Mentre i
nazionalisti mettevano in piedi, nei loro territori, uno Stato dai chiari connotati
autoritari, i repubblicani si scontravano sull’organizzazione presente e futura della
società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente grave era il
contrasto, che divideva gli anarchici dagli altri partiti della coalizione, a cominciare
dai comunisti, favorevoli a una linea relativamente moderata, tale da non rompere
l’intesa con le forze democratiche. Nella primavera nel 1937 il contrasto divenne
molto forte quando, a Barcellona, gli anarchici si scontrarono, armi in pugno, con i
comunisti e l’esercito regolare repubblicano. I comunisti adottarono nei confronti
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degli anarchici metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin: numerosi
anarchici, tra il 1937 e il 1938, scomparvero e un partito intero, il Poum, fu liquidato,
grazie anche all’intervento di agenti sovietici. La sorte della guerra fu segnata, nella
primavera del 1938, quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio
controllato dai repubblicani, separando Madrid dalla Catalogna. Abbandonata da
tutti, la repubblica spagnola resistette ancora per quasi un anno. All’inizio del 1939, i
nazionalisti sferrarono l’offensiva finale, che si concluse, in marzo, con la caduta di
Madrid.
Terminata pochi mesi prima del secondo conflitto mondiale, la guerra civile spagnola
ne rappresentò per molti aspetti un sinistro preludio anche perchè in Spagna furono
adottati, per la prima volta, metodi e tecniche di guerra che l’Europa ed il mondo
avrebbero presto sperimentato su ben più ampia scala.
In Germania, intanto, continuava ad imperversare la politica di Hitler, che non
necessariamente voleva una guerra contro le potenze occidentali, anche se non
scartava a priori questa evenienza. In realtà, il Führer sperò, sino in fondo, di poter
evitare uno scontro con l’Inghilterra, a patto che questa lasciasse campo libero alle
mire tedesche in Europa centro-orientale. In questa speranza fu incoraggiato dai
conservatori inglesi, soprattutto a partire dal maggio 1937, quando la guida del
governo fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che allora
fu chiamata politica dell’appeasement: una politica basata sul presupposto che fosse
possibile “ammansire” Hitler, accontentandolo nelle sue rivendicazioni “più
ragionevoli”. L’idea dell’appeasement riscosse molto successo perché rispondeva ad
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una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell’opinione pubblica inglese, incline al
pacifismo e poco convinta della equità di Versailles. L’unica voce contraria alla
politica di Chamberlain venne da un’esigua minoranza di conservatori, con a capo
Winston Churchill. Questi, infatti, sostenevano che l’unico modo per fermare Hitler
era quello di opporsi alle sue pretese, anche a costo di una guerra.
Dal canto suo, la Francia, che pur era stata la prima garante dei trattati di Versailles,
poneva ora in esser una politica oscillante, timorosa di un altro conflitto mondiale e
per questo in posizione sostanzialmente subalterna a quella della Gran Bretagna.
Tutto ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di grossi successi, senza
nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di
ricostituzione.
Il primo successo lo ottenne nel marzo del 1938 con l’annessione dell’Austria al
Reich tedesco. Già nel 1934, il Führer aveva tentato di raggiungere tale obiettivo, ma
era stato bloccato dalle potenze occidentali e soprattutto dall’Italia. Ma quando
all’inizio del 1938 rilanciò la questione dell’Anschluss, mobilitando i nazisti austriaci
e costringendo alle dimissioni il cancelliere Schuschnigg, Mussolini non si oppose.
Né alcuna reazione venne dal governo inglese. L’11 marzo 1938 il capo dei nazisti
austriaci, Seyss-Inquart, nuovo capo del governo, chiese ufficialmente l’intervento
dell’esercito tedesco per salvare “il paese dal caos”. Il giorno seguente, le truppe del
Reich procedettero all’occupazione del territorio austriaco. Un mese dopo, un
plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l’avvenuta unificazione.
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Ma, Hitler avanzò subito una nuova rivendicazione, anch’essa fondata su motivi
etnici: quella riguardante i sudeti, ossia gli oltre tre milioni di tedeschi che vivevano
nei confini della Cecoslovacchia. Anche in questo caso, il Führer agì mobilitando i
nazisti locali e spingendoli a formulare richieste pesanti al governo ceco.
Quest’ultimo, in un primo tempo, si mostrò disposto alla concessione di più larghe
autonomie alla comunità tedesca.
Ciò non bastava ovviamente a Hitler, che voleva l’annessione della regione dei sudeti
e la distruzione dello Stato cecoslovacco. Un concreto sostegno militare alla
Repubblica ceca da parte dei suoi alleati era però problematico, poiché la
Cecoslovacchia non confinava con la Francia né con la Russia. Inoltre il governo
inglese si mostrò ancora una volta incline ad accontentare Hitler, in quella che
sarebbe dovuta essere la sua “ultima richiesta”. Due volte Chamberlain andò, nel
settembre del 1938, in Germania per sottoporre a Hitler ipotesi di compromesso.
Alla fine di settembre, il Führer accettò la proposta di un incontro fra i capi di
governo delle grandi potenze. Nell’incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-
30 settembre 1938, Chamberlain e il primo ministro Daladier accettarono un progetto
presentato dall’Italia, che in realtà accoglieva quasi per intero le richieste del Führer e
prevedeva l’annessione al Reich della regione dei sudeti. I cecoslovacchi, che non
erano stati ammessi alla conferenza e neppure consultati, dovettero accettare un
accordo che li metteva alla mercè della Germania. I sovietici, anch’essi esclusi dal
tavolo delle trattative, compresero di non poter contare sulla solidarietà delle potenze
occidentali.
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Quella realizzata a Monaco era una pace falsa, anche se Chamberlain, Daladier e lo
stesso Mussolini, al loro rientro in patria, furono accolti trionfalmente. Accordandosi
con Hitler, le potenze occidentali avevano distrutto la loro credibilità e aperto la
strada a nuove aggressioni. Il commento più appropriato fu quello di Winston
Churchill: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e
avranno la guerra”.
La seconda guerra mondiale (1)
Ben presto si comprese come il negoziato di Monaco fosse un “falsa pace”, una
specie di rinvio di un conflitto, ormai inevitabile. Per la seconda guerra mondiale, la
questione della responsabilità risultò molto meno controversa, di quanto non lo fu per
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la prima. La politica di conquista e di aggressione della Germania fece precipitare il
mondo in un nuovo, terribile conflitto. Hitler non si era accontentato dei risultati di
Monaco. Già nell’ottobre del 1938 aveva pronti i piani per l’occupazione della
Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa ed industrializzata della
Cecoslovacchia. L’operazione scattò nel marzo del 1939 e fu facilitata dallo
sfaldamento della compagine statale cecoslovacca, indebolita dalla perdita dei Sudeti
e minata dalle lotte fra le diverse nazionalità. Mentre la Slovacchia si proclamava
indipendente con l’appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al “protettorato di Boemia
e Moravia”, facente parte integrante del grande Reich. La distruzione dello Stato
cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze occidentali.
Venne accantonata la politica dell’appeasement, Gran Bretagna e Francia diedero
vita a una vera e propria offensiva diplomatica, volta a contenere l’aggressività delle
potenze dell’Asse con una rete di alleanze. Patti di assistenza militare vennero
stipulati con Belgio, Olanda, Grecia, Romania, Turchia. Molto importante fu quello
con la Polonia, che costituiva il primo obiettivo delle mire espansionistiche tedesche.
Hitler, infatti, già nel mese di marzo 1939, aveva rivendicato il possesso di Danzica e
il diritto di passaggio attraverso “il corridoio”, che univa la città al territorio polacco.
L’alleanza fra Inghilterra, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile, costituiva
una risposta a queste minacce e significava che le potenze occidentali erano disposte
ad affrontare anche la guerra, pur di impedire lo smembramento della Polonia.
Dal canto suo, Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una
propria azione unilaterale: l’occupazione del piccolo Regno di Albania, considerato
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una base per una possibile ulteriore penetrazione nei Balcani. L’operazione ebbe solo
il risultato di accrescere la tensione tra l’Italia e le democrazie occidentali.
Un mese dopo, nel maggio 1939, Mussolini convinto che l’Italia non potesse
rimanere neutrale nello scontro che stava profilandosi, decise di accettare le pressanti
richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell’Asse Roma-Berlino, in una
alleanza militare: il Patto d’acciaio. Tale patto stabiliva, che se una delle due parti si
fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, l’altra sarebbe stata
obbligata a scendere in campo al suo fianco. Mussolini e il ministro Ciano
accettarono questo grave impegno, pur sapendo che l’Italia non era preparata
militarmente per un conflitto, fidandosi delle assicurazioni verbali di Hitler, secondo
le quali una eventuale guerra si sarebbe potuta scatenare non prima di due o tre anni.
In realtà, nel maggio 1939 lo stato maggiore tedesco stava già preparando i piani per
l’invasione della Polonia.
L’unica nazione, che poteva contrastare Hitler era la Russia, ma le trattative delle
potenze occidentali con l’Urss furono lente e complesse. I sovietici, inoltre, si
convinsero che i governi occidentali non avevano intenzione di offrire nulla in
cambio del loro aiuto e cominciarono a prestare attenzione ai richiami di intesa,
provenienti da Hitler.
Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov,
firmarono a Mosca un patto di non aggressione, fra i due paesi. L’annuncio
dell’accordo tra i regimi, ideologicamente così lontani, fu accolto nel mondo con
stupore ma anche con indignazione. In tal modo, l’Urss allontanava la minaccia
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tedesca dai suoi confini ed otteneva, mediante un protocollo segreto, un
riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della
Romania e della Polonia. Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua
strategia di fondo, rinviando lo scontro con la Russia: ma intanto poteva risolvere la
questione polacca senza pericoli.
Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccavano la Polonia. Il 3 settembre Gran
Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania, mentre l’Italia si era affrettata
a proclamare la sua “non belligeranza”. Rispetto al precedente conflitto, l’estensione
del teatro di guerra sarebbe stata ancora maggiore e ancor più rivoluzionarie le
conseguenze sugli equilibri internazionali. In poche settimane, la Germania sconfisse
la Polonia: con micidiali bombardamenti aerei ebbe facilmente ragione di un esercito
antiquato e mal guidato. Fu questa la prima applicazione della guerra–lampo, un
nuovo metodo di guerra, che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle forze
corazzate. All’inizio del mese di ottobre cessava ogni resistenza da parte dell’esercito
polacco e i tedeschi imponevano, nelle zone sotto il loro controllo, un duro regime di
occupazione. Frattanto i russi, in base agli accordi segreti Molotov – Ribbentrop, si
impadronivano delle regioni orientali del paese. La Repubblica polacca, dopo appena
venti anni di vita, cessava di esistere.
Per i successivi sette mesi, ad occidente, la guerra restò come congelata. L’Europa
visse una fase di trepida attesa che i francesi chiamarono “drôle de guerre”, ossia
strana guerra, e che certo non giovò al morale delle truppe alleate, mentre consentì ai
tedeschi di riorganizzare le forze in vista di nuovi attacchi.
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Così, il teatro di guerra si spostava nell’Europa del Nord. Questa volta fu l’Urss a
prendere l’iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia, colpevole di aver
rifiutato alcune rettifiche di confine. La campagna fu però difficile: i finlandesi
resistettero per più di tre mesi, infliggendo notevoli perdite agli aggressori. Nel 1940,
però, la Finlandia dovette cedere, conservando tuttavia la propria indipendenza.
Dopo le conquiste tedesche di Danimarca e Norvegia, l’offensiva hitleriana, sul
fronte occidentale, riprese il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane.
Il successo fu tanto più clamoroso, in quanto ottenuto a spese delle due maggiori
potenze occidentali coalizzate. Inoltre, l’esercito francese era il più numeroso ed
armato d’Europa. A provocare la sconfitta furono gli errori degli stessi comandanti
francesi, ancora legati ad una concezione statica della guerra e troppo fiduciosi delle
fortificazioni difensive, che costituivano la linea Maginot.
I tedeschi, cominciarono, come nel 1914, a violare la neutralità dei piccoli Stati
confinanti. Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi Olanda e Lussemburgo. Fra il
12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato la foresta delle Ardenne, i reparti tedeschi
sfondarono le linee nemiche nei pressi di Sedan. Lo schieramento alleato cedette e le
truppe tedesche dilagarono in pianura, puntando verso il mare, chiudendo in una
sacca molti reparti francesi e l’intero corpo di spedizione inglese. Solo un
momentaneo rallentamento dell’offensiva consentì al grosso delle forze britanniche,
insieme a belgi e francesi, un reimbarco nel porto di Dunkerque tra il maggio e il
giugno del 1940.
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Per gli inglesi la ritirata rappresentò la salvezza, mentre per la Francia la sconfitta era
ormai inevitabile. Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre interminabili
colonne di profughi si riversavano verso il Sud. Divenuto allora presidente del
Consiglio Philippe Pétain, da tempo schierato su posizioni di destra, aprì subito le
trattative per un armistizio. Invano il generale Charles de Gaulle, da Londra, lanciò,
il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a combattere a fianco degli alleati.
L’armistizio fu firmato il 22 giugno nella stessa località, il villaggio di Rethondes, e
nello stesso vagone ferroviario, che nel novembre del 1918 avevano visto la
delegazione tedesca piegarsi al Diktat dei vincitori di allora. In base all’armistizio il
governo, che stabilì la sua sede a Vichy, conservava la propria sovranità su una zona
corrispondente alla metà centro-meridionale del paese, oltre che sulle colonie. Il resto
della Francia passava sotto l’occupazione tedesca.
In tal modo, il paese vide morire la sua Terza Repubblica, nata settant’anni prima. Il
9 luglio l’Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri affidando
al Presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova Costituzione. Pétain,
come molti suoi concittadini, attribuiva la responsabilità della sconfitta, non agli
errori militari, ma alla classe dirigente repubblicana e al sistema democratico-
parlamentare. La “rivoluzione nazionale”, promossa proprio da Pétain, si risolse così
in un ritorno alle tradizioni dell’ancien régime: culto dell’autorità, difesa della
religione e della famiglia, esaltazione della piccola proprietà, organizzazione sociale
di stampo corporativo. Il regime di Vichy si ridusse al rango di Stato satellite della
Germania hitleriana. Ogni rapporto con la Gran Bretagna fu interrotto dopo che, il 3
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luglio, la flotta francese, ancorata a Mers el Kebir, in Algeria, fu attaccata e distrutta
da quella inglese per evitare che cadesse in mano dei tedeschi.
Nell’estate del 1939, l’Italia era stata colta di sorpresa dal precipitare della crisi e,
come detto, annunciò la propria non belligeranza. In effetti, l’equipaggiamento, già
scarso, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia; inoltre
insufficienti risultavano anche le scorte di materie prime.
Il crollo della Francia servì, però, a Mussolini a spazzar via le ultime esitazioni e a
vincere la resistenza di quei settori della classe dirigente, che sino ad allora erano stati
poco propensi alla guerra: il re, i gerarchi dell’ala moderata, gli industriali, gli stessi
vertici militari. Anche l’opinione pubblica, prima avversa alla guerra e all’alleanza
con la Germania, cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria. Il 10
giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia il duce annunciava ad una folla
plaudente l’entrata in guerra dell’Italia “contro le democrazie plutocratiche e
reazionarie dell’Occidente”.
L’offensiva sulle Alpi, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità
numerica contro un avversario praticamente sconfitto, si risolse in una grande prova
di inefficienza: la penetrazione in territorio francese fu limitatissima e le perdite
ingenti. L’armistizio, subito richiesto dalla Francia e firmato il 24 giugno, prevedeva
solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una fascia di
territorio francese, profonda 50 chilometri.
Le cose non andarono meglio contro gli inglesi. Nel Mediterraneo, la flotta italiana
subì due successive sconfitte, sulle coste della Calabria e nei pressi di Creta. In Africa
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settentrionale, l’attacco lanciato dal territorio libico contro l’Egitto, si dovette fermare
per mancanza di mezzi corazzati. Un’offerta di aiuto, da parte della Germania, fu
rifiutata da Mussolini, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente alleato e
convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra parallela a quella tedesca.
Dal giugno del 1940, la Gran Bretagna era rimasta a combattere da sola la Germania.
Hitler sarebbe stato disposto a trattare con gli inglesi a patto di vedersi riconosciute le
sue conquiste. Ma, la classe dirigente e il popolo britannico, fidando su una potenza
marittima ancora intatta, oltre che sul sostegno del Commonwealth, non vollero
accettare nessuna forma di compromesso con il Führer.
Interprete ed ispiratore di questa lotta fu soprattutto il primo ministro conservatore
Winston Churchill, da sempre fautore di una linea intransigente contro Hitler.
Chiamato, nel maggio del 1940, alla guida di un nuovo governo, Churchill manifestò
subito il suo programma in un celebre discorso: “…la guerra per mare, per terra e
nell’aria, con tutte le nostre energie”.
I sacrifici, annunciati dallo statista inglese, divennero ben presto una dura realtà.
All’inizio di luglio, Hitler dava il via al progetto per l’invasione dell’Inghilterra,
l’operazione Leone Marino. Premessa essenziale per la riuscita del piano era il
dominio dell’aria, che avrebbe consentito ai tedeschi di compensare la superiorità
navale della Gran Bretagna e di fiaccarne la resistenza, colpendola nella sua capacità
produttiva e nel morale. Quella ingaggiata dalla Germania contro la Gran Bretagna,
nell’estate 1940, fu la prima battaglia aerea della storia. Gli attacchi furono, però,
efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air
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Force. All’inizio dell’autunno si comprese che nonostante le perdite subite,
l’Inghilterra non era stata piegata: l’operazione Leone marino fu rinviata a tempo
indefinito. La tenace resistenza degli inglesi aveva ottenuto un successo
determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico. Tuttavia, la battaglia
d’Inghilterra aveva dato la tragica dimostrazione delle potenzialità distruttive del
mezzo aereo. I bombardamenti sulle città, le incursioni notturne precedute dal suono
delle sirene, gli orrori prodotti dalle bombe, sarebbero diventati un elemento
ricorrente e un fattore decisivo nelle successive fasi della guerra. Il 28 ottobre 1940,
l’esercito italiano attaccava la Grecia, un paese governato da un regime semifascista.
L’attacco fu determinato da ragioni di concorrenza con la Germania, che aveva
iniziato una penetrazione militare in Romania. L’offensiva italiana si scontrò con una
resistenza molto più dura del previsto. Alla fine di novembre, infatti, i greci
passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio
albanese e a schierarsi sulla difensiva. Dopo l’esito disastroso della campagna greca,
in Italia il malcontento si fece sempre più forte. Le notizie, che venivano dal fronte
albanese, davano un durissimo colpo all’immagine guerriera del regime
Nel dicembre del 1940, gli inglesi erano passati al contrattacco ed avevano
conquistato la Cirenaica, infliggendo agli italiani moltissime perdite. Mussolini fu,
così, costretto ad accettare l’aiuto della Germania. Nel mese di marzo, con l’arrivo
dei primi reparti tedeschi guidati dal generale Erwin Rommel, le truppe dell’Asse
cominciavano una lunga controffensiva, che ben presto portò alla riconquista della
Cirenaica. Ma, intanto l’Africa orientale italiana, difficilmente difendibile per la sua
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posizione geografica, stava cadendo nelle mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu
occupata Addis Abeba, dove pochi giorni dopo rientrava il negus. L’Italia ormai
giocava il ruolo dell’alleato subalterno. Anche nei Balcani, come in Nord Africa, il
fallimento delle iniziative italiane finì con l’aprire la strada all’intervento in forze
della Germania. Nell’aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate
simultaneamente da truppe tedesche e italiane, furono travolte, mentre gli inglesi, che
in marzo erano sbarcati nella penisola ellenica, erano costretti a ritirarsi.
A questo punto, restava aperto solo il fronte nordafricano. Tuttavia Hitler, in Europa,
non aveva più rivali, e poteva così concentrare il grosso delle sue forze verso
l’obiettivo più ambizioso: la conquista dello “spazio vitale” ad est ai danni dell’ Urss.
Con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, nell’estate del 1941, la guerra entrò in
una nuova fase. Un altro fronte si aprì in Europa orientale. La Gran Bretagna non fu
più la sola a combattere: il movimento comunista internazionale, schieratosi
inizialmente su posizioni ambigue, si convertì all’alleanza con la democrazia e alla
lotta contro il fascismo.
Stalin si illuse, tuttavia, che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia prima di aver
chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941, l’offensiva
tedesca, denominata operazione Barbarossa, scattò su un fronte lungo 1600
chilometri, dal Baltico al Mar Nero, i russi furono colti impreparati. Tale
impreparazione facilitò, almeno all’inizio, gli aggressori. L’offensiva contro i russi, a
cui partecipò anche l’esercito italiano, continuò per tutta l’estate, con successo, su
due direttrici principali: a nord, attraverso le regioni baltiche, e a sud, attraverso
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l’Ucraina, con l’obiettivo di raggiungere le zone petrolifere del Caucaso. Ma l’attacco
verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all’inizio di ottobre, e venne bloccato a poche
decine di chilometri dalla capitale, anche perché il freddo rese impraticabile gran
parte delle strade, favorendo la resistenza dei russi.
In dicembre, i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la
minaccia da Mosca. Tuttavia, i tedeschi erano diventati padroni di territori vastissimi,
come l’Ucraina e le regioni baltiche. Guidata personalmente da Stalin la resistenza
dei sovietici risultò efficace. Attingendo ad un serbatoio umano inesauribile, e
riorganizzando la produzione industriale nelle regioni ad est del Volga, l’Urss
riusciva a compensare le spaventose perdite subite. La guerra meccanizzata si
trasformava in guerra d’usura, in cui l’elemento determinante era costituito dalla
capacità di compensare il logorio degli uomini e dei materiali.
Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la linea di non intervento
negli affari europei, mantenuta negli anni tra le due guerre. Ma, una volta rieletto alla
presidenza per la terza volta, Roosevelt nel novembre 1940, si impegnò in una
politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere
contro la Germania. Nel marzo del 1941 venne approvata la legge degli affitti e
prestiti, che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni favorevoli, a
quegli Stati, la cui difesa fosse stata considerata vitale per gli interessi americani. In
maggio, gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania ed Italia. In
giugno, la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all’Islanda i convogli, che
trasportavano aiuti a nazioni alleate, e autorizzata a rispondere ad eventuali attacchi.
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Questa politica ebbe il suo suggello nell’incontro fra Roosevelt e Churchill il 14
agosto 1941 su una nave da guerra al largo dell’isola di Terranova. Frutto
dell’incontro fu la cosiddetta Carta Atlantica, un documento in otto punti in cui i due
statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo
ordine democratico da costruire a guerra finita: rispetto dei principi di sovranità
popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari,
cooperazione internazionale, rinuncia all’uso della forza nei rapporti fra gli Stati.
A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l’aggressione improvvisa, subita nel
Pacifico, da parte del Giappone: la maggiore potenza dell’emisfero orientale e il
principale alleato asiatico di Germania ed Italia, cui era legato, dal settembre 1940 da
un patto di alleanza, detto Patto tripartito. Già impegnato dal 1937 in una guerra di
conquista contro la Cina, il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per
allargare le sue tendenze espansionistiche a tutti i territori del Sud-est asiatico.
Quando, nel luglio 1941, i nipponici invasero l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran
Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone.
L’Impero asiatico allora dovette scegliere: piegarsi alle potenze occidentali o
scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi materie prime,
necessarie alla sua politica di conquista.
Il 7 dicembre 1941 l’aviazione giapponese attaccò la flotta degli Stati Uniti, ancorata
a Pearl Harbor, nelle Hawaii, e la distrusse in buona parte. Nei mesi successivi,
profittando della propria superiorità navale nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero, di
slancio, tutti gli obiettivi prefissati: nel maggio 1942 controllavano le Filippine, la
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Malesia e la Birmania britanniche, l’Indonesia olandese ed erano in grado di
minacciare l’Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere
forze preziose dal Medio Oriente. Pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor, anche
Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti. Il conflitto diventava mondiale.
La seconda guerra mondiale (2)
Nella primavera-estate del 1942, le potenze del Tripartito raggiunsero la loro
massima espansione territoriale. Il Giappone dominava su tutto il Sud-Est asiatico,
su vaste zone della Cina e su molte isole del Pacifico. In Europa, le forze dell’Asse,
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di nuovo all’offensiva in Russia, controllavano direttamente o indirettamente un
territorio di circa 6 milioni di chilometri quadrati con oltre 350 milioni di abitanti.
Attorno alla Germania e all’Italia vi erano alleati minori, come l’Ungheria, la
Romania, la Bulgaria, la Slovacchia e la Francia di Vichy. In Olanda, in Norvegia e
in Boemia, governavano “alti commissari” tedeschi. Ai due lati del blocco, e al suo
estremo settentrionale, c’erano Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali ma,
di fatto, incluse nella sfera politico - economica dell’Asse. L’Italia aveva un ruolo
marginale, poiché era la Germania la vera protagonista di questo sistema, Sia la
Germania che il Giappone cercarono di dar vita, nelle zone poste sotto il loro
controllo, ad un nuovo ordine, basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla
rigida subordinazione degli altri popoli alle esigenze dei dominatori. Ma mentre il
Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti locali e fece propria, anche se in
forma strumentale, la causa della lotta contro l’imperialismo europeo, la Germania
non concesse nulla alle esigenze di indipendenza e di autogoverno dei popoli ad essa
soggetti. Un trattamento inumano, ad esempio, fu riservato ai popoli slavi, considerati
razzialmente inferiori e destinati ad una condizione di semischiavitù. Tutta l’Europa
orientale doveva diventare una colonia agricola del Grande Reich. Le élites dirigenti
e gli intellettuali dovevano essere sterminati, a cominciare dai quadri del partito
comunista in Russia. Ma, la persecuzione più orribile fu quella consumata contro gli
ebrei, da sempre considerati da Hitler il nemico principale da abbattere. In tutti i paesi
occupati dai nazisti, gli ebrei vennero confinati nei ghetti: quello di Varsavia fu
teatro, nell’aprile del 1943, di una disperata insurrezione, terminata con un massacro.
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Discriminati anche visibilmente, con l’obbligo di portare al braccio una stella gialla,
furono deportati nei campi di concentramento, come Auschwitz, usati come cavie per
esperimenti medici, e, se non in grado di lavorare, eliminati in massa nelle camere a
gas. La politica portata avanti dalla Germania le procurò subito vantaggi immediati:
una riserva di forza-lavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme
prelievo di ricchezza e di beni consumo, che permise ai cittadini tedeschi di
mantenere un buon livello di vita almeno sino al 1943. Tale sistema di dominio,
ispirato al cieco fanatismo razziale, costrinse i tedeschi, a mantenere nei territori
occupati, forti contingenti di truppe. Tutto ciò, sollevò contro la Germania nazista,
un’ondata di odio che avrebbe finito, poi, per rivolgersi contro l’intero popolo
tedesco.
Episodi di resistenza al dominio nazista si manifestarono in quasi tutti i paesi
occupati. Protagonisti erano di solito i piccoli gruppi antifascisti, appoggiati dagli
inglesi e legati per lo più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione, come la
Francia libera di De Gaulle. Ma, fu soprattutto con la primavera del 1941 che la
resistenza al nazismo assunse forti dimensioni. In Jugoslavia ed in Grecia sorsero dei
veri movimenti popolari. Un salto decisivo fu poi rappresentato dall’attacco tedesco
all’Urss, che portò i comunisti di tutta Europa ad impegnarsi attivamente nella lotta
armata contro i nazisti. Tuttavia, non sempre le diverse forze che confluivano nella
Resistenza riuscirono a stabilire tra loro una precisa linea comune. Nonostante
avessero adottato una strategia, che subordinava ogni obiettivo rivoluzionario alla
lotta di liberazione nazionale, strategia voluta fortemente dallo stesso Stalin che nel
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frattempo aveva sciolto il Comintern, i comunisti erano sempre guardati con sospetto
dagli anglo-americani. La collaborazione si mostrò più complessa, quasi impossibile,
in quei paesi dell’Europa orientale e balcanica, dove più forte e diffuso era il timore
per i partiti comunisti. In Jugoslavia, il paese in cui la resistenza assunse più che
altrove le dimensioni di una guerra popolare, l’esercito guidato dal comunista Josip
Broz, più noto col nome di Tito, prevalse sui gruppi nazionalistici e monarchici.
La resistenza fu, però, solo una faccia della realtà dell’Europa occupata dai tedeschi.
In tutti i paesi invasi dalla Germania, una parte della popolazione per opportunismo o
convinzione accettò di collaborare con i dominatori.
I tedeschi trovarono, quindi, sempre degli alleati per la lotta antipartigiana. In alcuni
casi, si servirono di esponenti dei fascismi locali, in altri trovarono il sostegno di
movimenti separatisti, in altri ancora furono proprio frazioni della classe dirigente al
potere, prima della guerra, ad assumere la responsabilità di governare nel segno di un
esasperato anticomunismo. L’esempio più chiaro in tal senso fu la Francia di Vichy,
la cui sottomissione ai tedeschi si accentuò nel 1942, quando Pétain affidò il governo
a Laval, già ministro negli anni ’30. Ma la sua accondiscendenza verso la Germania
non impedì ai tedeschi di occupare anche la parte meridionale del paese, ponendo
fine ad ogni simulacro di indipendenza.
Fra il 1942 e il 1943, l’andamento della guerra subì una svolta decisiva su tutti i
fronti. Nel Pacifico, i giapponesi, nel maggio-giugno 1942, vennero fermati dagli
americani nelle due battaglie del Mar dei Coralli e delle Isole Midway.
Successivamente, nel febbraio 1943, quando le truppe da sbarco americane, i
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marines, conquistarono l’isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono ad
operazioni offensive di largo respiro.
Anche nell’Atlantico, fra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, dove i tedeschi avevano
sempre condotto un’efficace battaglia sottomarina, i convogli che trasportavano armi
ed approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna riuscirono a limitare
notevolmente le perdite, grazie a tutta una serie di innovazioni tecnologiche. Ma
l’episodio decisivo si verificò in Russia, a Stalingrado, dove, nel novembre 1942, i
sovietici erano riusciti a chiudere i tedeschi in una morsa. Hitler, anziché autorizzare
la ritirata, ordinò la resistenza ad oltranza, sacrificando una intera armata che,
all’inizio di febbraio, fu costretta ad arrendersi.
Negli stessi mesi, l’esercito britannico era impegnato nel deserto del Nord Africa
contro il contingente italo - tedesco sotto Rommel, che era giunto a El Alamein, a soli
80 chilometri da Alessandria. A fine ottobre, il generale Montgomery, comandante
della forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva, disponendo di una notevole
superiorità di uomini e mezzi. Ai primi di novembre, gli italo - tedeschi
cominciavano già una lunga ritirata, che li avrebbe portati a ripercorrere a ritroso
tutto il litorale libico, fino alla Tunisia. Frattanto un contingente alleato era sbarcato
in Algeria e in Marocco. Le truppe dell’Asse, prese fra due fuochi, dovettero
arrendersi, nel maggio 1943, alle forze alleate. Chiuso il fronte nordafricano con la
cacciata di tedeschi ed italiani, gli anglo - americani potevano prepararsi ad attaccare
la fortezza d’Europa.
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Tra il dicembre del 1941 e il gennaio 1942 si tenne a Washington una conferenza tra
tutte le 26 nazioni in guerra contro il Tripartito, che sottoscissero il patto detto delle
Nazioni Unite: i contraenti si impegnavano a tenere fede ai principi della Carta
atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate.
Naturalmente, le nazioni facenti parte del patto, avevano divergenze ideologiche e ciò
creò problemi in merito all’apertura di un secondo fronte. Stalin lo avrebbe voluto
subito nell’Europa del Nord, Churchill voleva prima chiudere definitivamente la
partita con l’Africa e pensava ad uno sbarco nell’Europa meridionale. Alla fine
l’inglese la spuntò. Nella Conferenza di Casablanca, in Marocco, nel gennaio 1943,
inglesi ed americani decisero che, chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe
avvenuto in Italia, considerata l’obiettivo più facile sia per motivi logistici, sia per
ragioni politico – militari. Nella stessa conferenza, gli anglo-americani si
accordavano sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari: la
guerra sarebbe continuata sino alla vittoria totale, senza patteggiamenti con la
Germania o con i suoi alleati.
La campagna d’Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista dell’isola di
Pantelleria. Un mese dopo, i primi contingenti anglo – americani sbarcavano in
Sicilia e, in poco tempo, si impadronivano dell’isola. Quest’ultimo evento screditò
ancor di più il regime fascista, agli occhi dell’opinione pubblica italiana. Un sintomo
allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai, che partendo da
Torino avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. In Italia, il
diffuso disagio popolare era legato al caro-vita, all’acuirsi dei disagi alimentari, agli
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effetti dirompenti dei bombardamenti aerei. Ma a determinare la caduta di Mussolini
non furono le proteste popolari, quanto una sorta di congiura, che faceva capo alla
corona e vedeva tutte le componenti moderate del regime, unite ad alcuni esponenti
del mondo politico prefascista, nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra
ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il pretesto fu offerto
da una riunione del Gran Consiglio del Fascismo, tenutasi nella notte tra il 24-25
luglio 1943, e conclusasi con l’approvazione a forte maggioranza di un ordine del
giorno presentato da Dino Grandi, che invitata il re ad assumere le sue funzioni di
comandante supremo delle forze armate e suonava come esplicita sfiducia nei
confronti del duce. Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini era convocato da Vittorio
Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai
carabinieri. Capo del governo era nominato il maresciallo Pietro Badoglio.
L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con esultanza. La
gente scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro le sedi e i simboli del
regime. Non vi fu però spargimento di sangue, anche perché il Partito fascista
scomparve nel nulla prima ancora che Badoglio provvedesse a scioglierlo d’autorità.
Quello del fascismo fu un crollo inglorioso e repentino, spiegabile, in parte, con le
debolezze interne di un apparato privo di autonomia e di iniziativa politica.
L’entusiasmo con cui il paese accolse la caduta del fascismo era dovuto soprattutto
alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra. L’uscita dal conflitto si rivelò,
però, tragica. I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare sul
territorio italiano per prevenire o punire, la ormai prevedibile defezione. Il governo
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Badoglio proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano. Ma
intanto allacciò trattative segrete con gli alleati, per giungere ad una pace separata.
Con gli anglo- americani, legati all’impegno di una resa incondizionata, era però
impossibile trattare. Ciò che i negoziatori italiani dovettero sottoscrivere fu un atto di
resa senza nessuna garanzia per il futuro. Firmato il 3 settembre, fu reso noto solo l’8,
in coincidenza dello sbarco di un contingente alleato a Salerno.
L’annuncio dell’armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio
radiofonico, gettò l’Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo
abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi sotto la protezione degli alleati,
appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano ad una sistematica occupazione di
tutta la parte centro-settentrionale dell’Italia. Abbandonate a se stesse, le truppe non
riuscirono ad opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Gli scontri a Porta San
Paolo, a Roma, furono il primo episodio della Resistenza italiana. Ben 600.000
furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Le conseguenze
dell’8 settembre si ripercossero anche sull’andamento della campagna d’Italia.
Attestatisi su una linea difensiva, la linea Gustav, che andava da Gaeta alla foce del
Sangro, ed aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a
bloccare l’offensiva alleata sino alla primavera dell’anno successivo. Diventata
campo di battaglia per gli eserciti stranieri, per la prima volta, dopo le guerre
napoleoniche, l’Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia
unitaria.
120
Dall’autunno 1943, l’Italia fu spezzata in due entità statali distinte, in guerra l’una
contro l’altra. Mentre nel Sud, il vecchio Stato monarchico sopravviveva col suo
governo e la sua burocrazia, esercitando la sua sovranità sotto il controllo alleato,
nell’Italia settentrionale il fascismo risorgeva dalle ceneri, sotto protezione degli
occupanti nazisti.
Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori tedeschi liberò Mussolini dalla
prigione di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo, il duce annunciò la
sua intenzione di dare vita, nell’Italia occupata dai tedeschi, ad un nuovo Stato
fascista, la Repubblica sociale italiana, (Rsi), a un nuovo Partito fascista
repubblicano, e a un nuovo esercito, che continuasse a combattere a fianco degli
alleati. La Rsi, che stabilì la sua capitale a Salò, si proponeva di combattere contro gli
artefici del “tradimento” del 25 luglio: monarchici, badogliani e fascisti moderati. Il
regime repubblicano o repubblichino, come veniva chiamato in senso dispregiativo,
cercò di guadagnare consensi, riesumando le parole d’ordine pseudorivoluzionarie
del primo fascismo, e lanciando un programma di socializzazione delle imprese
industriali, che non riuscì mai a decollare. In linea generale, la Repubblica di
Mussolini non ebbe mai una sua credibilità, a causa della dipendenza che
manifestava nei confronti dei tedeschi. L’unica funzione effettivamente svolta dal
governo di Salò fu quella di reprimere il movimento partigiano, che si stava
sviluppando nell’Italia occupata.
Intanto, la Resistenza italiana prendeva corpo. Le prime formazioni armate si
raccolsero sulle montagne dell’Italia centro-settentrionale subito dopo l’8 settembre,
121
formate dall’incontro di piccoli nuclei di militanti antifascisti con i gruppi di militari
sbandati, che non avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. I partigiani agivano lontano
dai centri abitati con attacchi improvvisi ai reparti tedeschi e con azioni di
sabotaggio. Nelle città erano presenti Gruppi di azione patriottica, piccole formazioni
di tre o quattro uomini, che compivano attentati contro militari o singole personalità
tedesche. Ad ogni attacco, spietate erano le repressioni dei nazisti. Particolarmente
feroce, quella messa in atto a Roma, nel marzo del 1944 quando, in risposta ad un
attentato che aveva ucciso 32 militari tedeschi, i nazisti fucilarono 335 detenuti, ebrei,
antifascisti, alle Fosse Ardeatine.
Le bande partigiane col tempo si andarono organizzando in base all’orientamento
politico dei loro membri: le Brigate Garibaldi, formate dai comunisti e le formazioni
di Giustizia e Libertà, che si ricollegavano all’omonimo movimento antifascista degli
anni ’30 e al nuovo Partito d’azione, che ne aveva raccolto l’eredità. Sin dall’inizio
le vicende della Resistenza si intrecciarono con quelle dei partiti antifascisti, riemersi
alla luce durante il breve tempo, che separava la caduta del fascismo dall’armistizio.
Già prima, tuttavia, della caduta del fascismo era sorto dalla confluenza di diversi
gruppi, che si collocavano in area intermedia fra il liberalismo progressista e il
socialismo, il Partito d’Azione. Nello stesso periodo esponenti cattolici, per lo più ex
popolari, avevano elaborato, col cauto appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, il
programma di una nuova formazione, destinata a raccogliere l’eredità del Partito
popolare: la Democrazia cristiana (Dc). Subito dopo il 25 luglio fu costituito il
Partito liberale (Pli), e rinacquero il Partito Repubblicano e quello socialista, col
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nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Quanto ai comunisti, da
sempre presenti nel paese con i loro nuclei clandestini, e già attivi negli scioperi di
marzo, riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente. Nei giorni
immediatamente successivi all’8 settembre, i rappresentanti di sei partiti, Pci, Psiup,
Dc, Pli, Pda, oltre alla Democrazia del lavoro, si riunirono a Roma e si costituirono in
Comitato di liberazione nazionale (Cln), incitando la popolazione alla lotta e alla
resistenza. I partiti del Cln non avevano, però, la forza per imporre il loro punto di
vista, sia perché nati dall’iniziativa privata di piccoli gruppi, sia perché privi di una
base di massa nell’Italia liberata. Nell’ottobre 1943, il governo dichiarò guerra alla
Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di cobelligerante. Un corpo italiano di
liberazione combatté, in effetti, a fianco degli anglo - americani, in rappresentanza
del ricostituito esercito italiano.
Il contrasto tra il Cln e il governo fu sbloccato solo nel marzo 1944, dopo il ritorno
dall’Urss del leader comunista Palmiro Togliatti. Egli propose di accantonare ogni
pregiudiziale contro il re e Badoglio e di formare un governo di unità nazionale,
capace di concentrare le sue energie sul problema prioritario della guerra e della lotta
al fascismo. La svolta di Salerno, così chiamata perché Salerno era allora la capitale
provvisoria del Regno del Sud, era in armonia con le scelte dell’Urss, ma serviva
anche a legittimare il Pci agli occhi degli alleati e dell’opinione pubblica moderata.
La scelta togliattiana, benché criticata, consentì di formare il 24 aprile, il primo
governo di unità nazionale, presieduto sempre da Badoglio e comprendente i partiti
del Cln. Vittorio Emanuele III si impegnò a trasmettere provvisoriamente i suoi poteri
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al figlio Umberto, una volta liberata Roma, in attesa che, a guerra finita, fosse il
popolo a decidere la sorte dell’istituzione monarchica. Nel giugno 1944, dopo che
Roma fu liberata dagli alleati, Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno.
Badoglio si dimise e lasciò il posto ad un nuovo governo di unità nazionale
presieduto da Ivanoe Bonomi, emanazione diretta del Cln. Proprio con Bonomi si
rafforzò l’intesa tra i poteri legali dell’Italia liberata e il movimento di resistenza, che
conobbe nell’estate del 1944, in coincidenza con l’avanzata alleata nelle regioni
centrali, il suo momento di maggior vitalità. Le formazioni partigiane, che avevano la
loro guida politica nel Cln Alta Italia, si diedero anche una direzione militare con la
costituzione, nel giugno del 1944, di un comando unificato. Le azioni dei partigiani
aumentarono sempre più, nonostante le rappresaglie dei tedeschi, come quella messa
in atto, nel 1944, a Marzabotto, nell’Appennino bolognese, dove venne sterminata
quasi l’intera popolazione del paese. Nell’autunno del ’44, l’offensiva anglo-
americana si arrestava. Il fronte italiano si bloccava lungo la linea gotica, fra Rimini
e La Spezia. La resistenza italiana visse il momento più difficile. Il proclama del
generale inglese Alexander, il quale invitava i partigiani a sospendere le operazioni su
vasta scala, provocò malintesi e polemiche tra i capi della Resistenza. I contrasti
vennero, tuttavia, superati e il ministero Bonomi riconobbe il Clnai come suo
rappresentante nell’Italia occupata. Proprio il movimento partigiano, nella primavera
del 1945, con la ripresa dell’offensiva alleata e il definitivo cedimento delle difese
tedesche, fu pronto a promuovere l’insurrezione generale contro gli occupanti in
ritirata e ad assicurare il potere in nome dell’Italia libera.
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Fra il 1943 ed il 1944, mentre gli anglo–americani erano impegnati nella lunga
campagna in Italia, i sovietici riprendevano l’iniziativa sul fronte orientale. Dopo aver
respinto, nel luglio 1943, l’ultimo attacco delle forze tedesche, l’Armata rossa iniziò
una lenta avanzata, conclusasi solo nell’aprile –maggio 1945, con la conquista di
Berlino.
Il nuovo ruolo dell’Urss emerse nella conferenza interalleata di Teheran del
novembre-dicembre 1943, la prima in cui i “tre grandi”, Roosevelt, Stalin e
Churchill, si incontrarono personalmente. Questa volta Stalin ottenne la promessa di
uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del 1944. Era una
operazione rischiosa, anche per la presenza di imponenti fortificazioni tedesche, il
cosiddetto Vallo Atlantico. Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste
della Normandia, furono necessari un lungo lavoro di preparazione e un eccezionale
spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati, che agivano sotto il comando del
generale americano Eisenhower, una schiacciante superiorità aeronavale.
L’operazione Overlord, scattò all’alba del 6 giugno 1944, preparata da una serie di
bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Gli attaccanti riuscirono a
sbarcare sul territorio francese. Alla fine di luglio, le difese tedesche non poterono più
reprimere la forza dilagante degli alleati. Il 25 agosto, gli anglo-americani e i reparti
di De Gaulle, entravano a Parigi, già liberata dai partigiani. In settembre, la Francia
era quasi completamente liberata. L’esercito tedesco risultava essere in piena crisi.
Ma a questo punto, per una serie di errori dei comandi alleati, l’offensiva si arrestò e i
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tedeschi poterono riorganizzare le loro forze su una linea molto vicina al confine del
’39. Il crollo del Terzo Reich era rinviato.
Nell’autunno 1944, la Germania poteva considerarsi sconfitta, almeno virtualmente.
Il fronte dei suoi alleati stava sfaldandosi ovunque. In agosto, la Romania aveva
cambiato fronte, seguita dalla Bulgaria. Tra agosto ed ottobre la Finlandia e
l’Ungheria avevano chiesto l’armistizio all’Urss. Sempre in ottobre, i russi e i
partigiani jugoslavi erano entrati in Belgrado liberata, mentre gli inglesi erano
sbarcati in Grecia. L’offensiva alleata si era arrestata in Francia, in Italia ed in
Polonia. Tuttavia, la sproporzione di forze fra i due schieramenti era tale, da non
lasciare alcun dubbio sull’esito dello scontro. Sulla Germania furono lanciate un
milione e mezzo di bombe e molte città tedesche vennero ridotte a cumuli di
macerie. Neppure i bombardamenti placarono la ferocia di Hitler. Egli, infatti, da un
lato era deciso a rifiutare ogni ipotesi di resa, dall’altro continuava ad illudersi di
poter rovesciare la situazione bellica, grazie all’impiego di armi segrete, i razzi
telecomandati V1 e V2, che furono lanciati contro le città inglesi, ma senza risultati
decisivi. Tra l’altro, Hitler sperava in una rottura dell’alleanza tra l’Urss e le
democrazie occidentali.
Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Nonostante l’accesa concorrenzialità,
che si manifestava all’interno della grande alleanza, anglo-americani e sovietici
continuavano, però, a tenere fede agli impegni già assunti, e a cercare accordi globali
per la ricostituzione dell’Europa dopo la guerra. Nella conferenza di Mosca
dell’ottobre 1944, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d’influenza
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dei paesi balcanici che, in contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non
teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati. I “tre grandi” si incontrarono
di nuovo a Yalta in Crimea, nel febbraio 1945. In questa occasione fu stabilito che la
Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di occupazione, una delle quali
riservata alla Francia, e sottoposta a misure di denazificazione; si stabilì, inoltre, che i
popoli dei paesi liberati avrebbero potuto esprimersi mediante libere elezioni e il
governo della Polonia sarebbe sorto da un accordo fra la componente comunista e
quella filo-occidentale. In cambio delle assicurazioni ottenute, l’Urss si impegnava ad
entrare in guerra contro il Giappone.
A gennaio, dopo un’ultima disperata controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati
riprendevano l’iniziativa su tutti i fronti. I sovietici, dopo Varsavia, attraversavano
tutto il restante territorio polacco e, in febbraio, erano a pochi chilometri da Berlino.
Più a sud, l’Armata rossa cacciava i tedeschi dall’Ungheria per poi puntare su
Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile e su Praga, liberata il 4 maggio. Frattanto, gli
anglo-americani attaccavano sul Reno, che fu attraversato il 22 marzo, e dilagavano
nel cuore della Germania, incontrando una scarsa resistenza. Il 25 aprile le
avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano con i sovietici, che
stavano accerchiando Berlino. In aprile crollava anche il fronte italiano. Il 25, mentre
il Cln lanciava l’ordine dell’insurrezione generale contro il nemico in ritirata, i
tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini, che tentava di fuggire in Svizzera,
travestito da soldato tedesco, fu catturato e fucilato dai partigiani il 28, assieme ad
altri gerarchi. Il suo cadavere, impiccato per i piedi, venne esposto per ore a piazza
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Loreto, a Milano. Il 30 aprile, mentre i russi entravano a Berlino, Hitler si suicidò,
lasciando la presidenza del Reich all’ammiraglio Karl Dönitz, che chiese la resa agli
alleati. Il 7 maggio 1945, a Reims, fu firmato l’atto di capitolazione delle forze armate
tedesche. Le ostilità cessarono la notte tra l’8 e il 9 maggio. La guerra d’Europa si
concludeva, così, a cinque anni e otto mesi dal suo inizio, con la morte dei due
dittatori, che avevano maggiormente contribuito a scatenarla. Ma, il conflitto
proseguiva in Estremo Oriente, dove il Giappone, ormai isolato, continuava a
combattere.
Dal 1943, gli Stati Uniti avevano riconquistato le posizioni perse nel Pacifico,
giovandosi di una superiorità legata al loro potenziale industriale. Dalla fine del 1944,
il territorio nipponico fu sottoposto ad un costante bombardamento. Dopo aver chiuso
il fronte europeo, gli alleati erano pronti ad un attacco definitivo in territorio
giapponese. Ma il nemico resisteva accanitamente, facendo ampio ricorso ai
kamikaze, aviatori suicidi, pronti a gettarsi sulle navi avversarie con i loro aerei
carichi di esplosivo.
Il nuovo presidente americano Henry Truman decise, così, di impiegare la nuova
arma totale, la bomba atomica, per accelerare la sconfitta del Giappone e dare
dimostrazione della potenza militare statunitense. Il 6 agosto 1945, la prima bomba
atomica venne sganciata sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo, la stessa
operazione fu ripetuta su Nagasaki.
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Il 15 agosto, dopo che anche l’Urss dichiarava guerra al Giappone, l’imperatore
Hirohito offrì la resa incondizionata agli alleati. Con la firma dell’armistizio, il 2
settembre 1945, si chiudeva la seconda guerra mondiale.
129
Il mondo diviso (1)
La seconda guerra mondiale non solo segnò la fine del nazifascismo e il trionfo delle
democrazie, non solo cambiò la carta territoriale del vecchio continente, ma portò al
suo epilogo quella crisi dell’Europa delle grandi potenze, già iniziata con il primo
conflitto mondiale. La Germania era stata sconfitta, ma anche la Francia, ammessa al
tavolo dei vincitori, e la stessa Gran Bretagna, uscivano dalla guerra molto indebolite
ed incapaci di mantenere i loro imperi coloniali.
Due soli Stati potevano aspirare ad assumere il ruolo di potenze mondiali: gli Stati
Uniti e l’Unione Sovietica. Le due superpotenze erano entrambe entità continentali e
multietniche, molto diverse dai vecchi Stati-nazione. Il messaggio americano era
quello dell’espansione della democrazia liberale, in regime di pluralismo politico, di
concorrenza economica e di ampia libertà individuale. Il messaggio sovietico era,
invece, quello della trasformazione dei vecchi assetti politico – sociali, in nome del
modello collettivistico, fondato sul partito unico e sulla pianificazione centralizzata,
nonché sull’anti – individualismo. Per effetto di questa contrapposizione globale fra
Usa e Urss, si giunse ad un sistema mondiale bipolare, con influenze determinanti
sulla vita dei singoli Stati: ciò era evidente soprattutto in Europa, dove la linea
divisoria fra area socialista e area capitalista rispecchiava le posizioni raggiunte, alla
fine delle ostilità, dai due maggiori eserciti occupanti.
La terribile lezione, che diede la guerra, produsse un diffuso bisogno di cambiamento
e un generale desiderio di rifondare, su basi più stabili, il sistema delle relazioni
130
internazionali e di mutarne le regole. Si intraprese, così, tra l’altro, un’opera di
codificazione e di aggiornamento del diritto internazionale, includendovi per la prima
volta, un settore penale, applicato nel processo di Norimberga tra il 1945 e il 1946
contro i capi nazisti e poi, in quello di Tokio, contro i dirigenti giapponesi.
A farsi promotori e garanti del progetto di un nuovo sistema mondiale furono, proprio
per la loro posizione egemonica, soprattutto gli Stati Uniti. Così, come già dopo il
primo conflitto mondiale, sorse il “mito americano”. Gli Stati Uniti divennero non
solo il principale punto di riferimento materiale, ma anche ideale e culturale dei paesi
dell’Europa occidentale.
Di matrice americana fu l’ispirazione di base dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite, (Onu), nata nella Conferenza di San Francisco del 1945, al posto della vecchia
Società delle nazioni, con l’obiettivo di “salvare le generazioni future dal flagello
della guerra”. Ispirato alla Carta atlantica, lo Statuto dell’Onu recava l’impronta di
due diverse concezioni: da un lato quella dell’utopia democratica wilsoniana,
dall’altro quella, più propriamente di Roosevelt, legata alla necessità di dar vita ad un
direttorio delle grandi potenze, come unico efficace strumento di governo degli affari
mondiali. I principi dell’universalità e dell’uguaglianza vengono rispecchiati
nell’Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce annualmente e che può
adottare, a maggioranza semplice, risoluzioni non vincolanti. Il meccanismo del
direttorio è riflesso invece nel Consiglio di Sicurezza, organo permanente, che in caso
di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli Stati. Si
compone di quindici membri: le cinque maggiori potenze vincitrici, Usa, Urss (dal
131
1992 la Russia), Gran Bretagna, Francia e Cina, come membri permanenti di diritto,
mentre gli altri dieci vengono eletti a turno fra tutti gli Stati. Ciascuno dei membri
permanenti gode, inoltre, di un diritto di veto, col quale può paralizzare l’azione del
Consiglio.
Altri organi sono il Consiglio economico e sociale e la Corte internazionale di
giustizia con la funzione di dirimere le controversie fra gli Stati, che espressamente lo
richiedono.
L’Onu fu, sin dall’inizio, lo specchio fedele del carattere conflittuale degli Stati.
Nel dar vita ai nuovi rapporti economici si scelse di ridimensionare i vincoli
protezionistici, seguendo l’impronta del liberismo americano.
Gli accordi di Bretton Woods, del luglio 1944, crearono il Fondo monetario
internazionale con lo scopo di costituire un ammontare di riserve valutarie mondiali.
Al Fondo fu affiancata la Banca mondiale, col compito di concedere prestiti a medio
e lungo termine ai singoli Stati per favorirne lo sviluppo.
Sul piano commerciale fu istituito un sistema liberoscambista dall’Accordo generale
sulle tariffe e sul commercio (Gatt), stipulato a Ginevra nell’ottobre 1947, che
prevedeva un abbassamento dei dazi doganali.
Nonostante l’esistenza di notevoli problemi e contrasti, Roosevelt si era convinto
nella pratica degli incontri diretti con Stalin, della possibilità di mantenere aperto il
dialogo con l’Urss. Si trattava, secondo il presidente americano, di creare un nuovo
ordine europeo in cui, ferma restando l’egemonia Usa, anche l’Urss avrebbe avuto un
ruolo importante, presentandosi come forza d’ordine in un’area tradizionalmente
132
turbolenta. Questo disegno di cooperazione tra l’Occidente e l’Unione Sovietica
morì con Roosevelt, proprio quando si apriva la sua fase decisiva di verifica.
L’avvento di Harry Truman alla presidenza degli Stati Uniti nell’aprile del 1945,
coincise con un brusco cambiamento del clima e con un generale irrigidimento
americano nei confronti dei sovietici.
Alla Conferenza di Potsdam, tra il luglio e l’agosto 1945, emersero chiaramente i
nodi fondamentali del contrasto: il futuro della Germania sconfitta e gli sviluppi in
Europa orientale, dove già stava prendendo piede il disegno staliniano di
assoggettamento. Per imporre la propria egemonia, l’Urss non trovò altro mezzo che
imporre al potere i partiti comunisti locali, con l’appoggio dell’esercito sovietico, e
con una serie di forzature sui meccanismi democratici. Tutto ciò non piacque alle
potenze occidentali. Nel marzo 1946, Churchill pronunciò a Fulton, negli Stati Uniti,
un discorso che ebbe una risonanza mondiale, in cui denunciava il comportamento
dei sovietici in Europa orientale, parlando di una cortina di ferro, calata nel
continente.
Alla Conferenza di Parigi, che si tenne tra il luglio e l’ottobre 1946, si giunse ad un
accordo tra i vincitori solo relativamente ai trattati con l’Italia, la Bulgaria, la
Romania, l’Ucraina e la Finlandia. Furono ratificati i nuovi confini tra l’Urss, la
Polonia e la Germania: l’Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche baltiche
(Estonia, Lettonia, Lituania), parte della Polonia dell’Est e della Prussia orientale. La
Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della Germania, portando il suo
133
confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse. Rimaneva irrisolto il problema del
futuro della Germania, elemento fondamentale dell’intero riassetto europeo.
La Conferenza di Parigi fu l’ultimo atto della cooperazione post bellica fra l’Urss e le
potenze occidentali
Nell’agosto del 1946, una grave crisi fu innescata dal contrasto tra l’Unione Sovietica
e la Turchia, appoggiata dagli Stati Uniti, a proposito dello stretto dei Dardanelli.
Truman, pensando che un cedimento sulla questione avrebbe consegnato
all’influenza russa non solo la Turchia ma anche la Grecia, inviò una flotta americana
nel Mare Egeo per appoggiare i turchi. Fu la prima applicazione della teoria del
containment, che sosteneva la necessità di contenere l’espansionismo dell’Urss,
attraverso la voce della forza.
Questa linea fu fatta propria dall’amministrazione americana in un discorso tenuto
dallo stesso Truman al Congresso, nel marzo 1947. In base alla dottrina Truman,
così, gli Stati Uniti si impegnavano ad intervenire “per sostenere i popoli liberi nella
resistenza all’asservimento da parte di minoranze armate o pressioni straniere”.
Nel giugno del 1947, gli americani lanciarono un vasto programma di aiuti economici
all’Europa, che prese il nome di European Recovery Program, (Erp), o più
comunemente, piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne
assunse l’iniziativa. I sovietici respinsero però il piano ed imposero ai loro “satelliti”
di fare altrettanto, mentre i partiti comunisti occidentali promossero agitazioni contro
gli aiuti americani.
134
Fra il 1948 e il 1952 il piano Marshall riversò sulle economie europee ben 13 miliardi
di dollari, fra prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate agricole. L’effetto fu non
solo di riprendere la ricostruzione, ma anche di avviare un forte rilancio delle
economie. Ciò avvenne entro un quadro economico liberista e comportò un
rafforzamento delle tendenze moderate in politica, un’attenuazione dei conflitti
sociali e lo stabilimento di sempre più stretti legami con gli Stati Uniti.
Un nuovo fattore di tensione fu costituito, nel 1947, dalla costituzione, nell’Urss, di
un Ufficio d’informazione dei partiti comunisti (Cominform): una specie di riedizione
della Terza Internazionale, che era stata sciolta nel 1943, in omaggio all’alleanza
antifascista.
Nacque, così, quella che il giornalista americano Walter Lippmann definì la guerra
fredda, ovvero la nascita di una irriducibile ostilità tra i due blocchi contrapposti di
Stati.
Il più importante terreno di scontro fu la questione della Germania, divisa dalla fine
della guerra in quattro zone di occupazione: americana, inglese, francese e sovietica.
La capitale Berlino, che si trovava all’interno dell’area sovietica, era a sua volta
divisa in quattro zone. Non essendoci intesa con l’Urss, all’inizio del 1947, Stati
Uniti e Gran Bretagna integrarono le loro zone attuandovi una riforma monetaria,
liberalizzando l’economia e rivitalizzandola con gli aiuti del piano Marshall. Stalin
reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948, l’Urss chiuse gli
accessi alla città, impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli
occidentali ad abbandonare la zona ovest da loro occupata. La crisi si risolse,
135
tuttavia, senza conflitto militare. Gli americani organizzarono un ponte aereo per
rifornire la città finché, nel maggio 1949, i sovietici si risolsero a togliere il blocco
rivelatosi inutile. Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali
della Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca, con capitale, Bonn.
La scontata risposta sovietica fu la creazione, nella parte orientale del paese, di una
Repubblica democratica tedesca, che aveva la sua capitale a Pankow, un sobborgo di
Berlino.
Nell’aprile del 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a
Washington il Patto atlantico, ossia un’alleanza difensiva fra i paesi dell’Europa
occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussenburgo, Norvegia,
Danimarca, Islanda, Portogallo ed Italia) con gli Stati Uniti ed il Canada. Il patto, che
si fondava su una comune fede nella “civiltà occidentale” e nella democrazia,
prevedeva un dispositivo militare integrato, composto da contingenti dei singoli paesi
membri: la Nato (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico). Nel 1951
aderirono al patto anche Grecia e Turchia, nel 1955 la Germania federale. Sempre
nel ’55, l’Urss rispose stringendo, con i paesi satelliti, un’alleanza militare, il Patto di
Varsavia, basata anch’essa su un’organizzazione militare integrata.
La guerra fredda, propriamente detta, si fa giungere sino alla morte di Stalin, ossia
fino al 1953. In realtà essa si proiettò ben oltre tale periodo: infatti, alla guerra fredda
risale il tipo di mobilitazione ideologica e di approntamento militare che ha
caratterizzato, nei decenni successivi, le relazioni fra le due superpotenze.
136
La vittoria in guerra, non portò in Urss alcun cambiamento del dispotismo interno; al
contrario, lo stalinismo, rispose alla necessità della ricostruzione e alle sfide
dell’Occidente, accentuando i suoi connotati autocratici e repressivi. Gli apporti di
capitale straniero vennero, tuttavia, ugualmente, sotto forma di riparazioni imposte ai
paesi ex nemici, controllati dall’Armata rossa. Il prelievo di risorse finanziarie, di
derrate agricole, di macchinari, fu ingente: non solo dalla Germania dell’Est, ma
anche dall’Ungheria, Romania e Cecoslovacchia. La ricostruzione sovietica fu,
comunque, rapida.
Sul terreno della politica estera, il maggior successo dell’Unione Sovietica fu la
trasformazione dei paesi dell’Europa orientale, occupati durante la guerra, in
altrettante democrazie popolari: una formula che mascherava l’imposizione, a quei
paesi, di un sistema politico e sociale nella sostanza simile a quello vigente in Urss e,
nel contempo, la loro riduzione al ruolo di satelliti della potenza egemone.
Importante al riguardo, la situazione della Polonia. Per Stalin essa rappresentava un
problema di sicurezza, poiché era stata per due volte in trent’anni, la via maestra
attraverso cui eserciti invasori erano entrati in Russia. Era importante che a Varsavia
vi fosse un governo amico dell’Urss. Su questo Stalin fu irremovibile ed ebbe partita
vinta. Nel giugno 1945, a seguito di accordi interalleati, si insediò a Varsavia un
governo presieduto dal socialista Morawski, ma in realtà, controllato dai comunisti.
Questi, infatti,si impadronirono gradualmente dei centri del potere e, nelle elezioni
del 1947, ruppero la coalizione con i partiti borghesi. Tali elezioni, svoltesi sotto il
controllo degli stessi comunisti, videro una loro schiacciante vittoria. Anche in
137
Romania e in Bulgaria, il corso degli eventi fu quasi del tutto simile. Molto
drammatica fu la situazione in Cecoslovacchia, che nel 1948 divenne anch’essa paese
a “democrazia popolare”. In Albania la presa del potere, da parte dei comunisti, si
compì, invece, senza eccessivi problemi. Ugualmente fu per la Jugoslavia. In
particolare, in quest’ultimo paese, i comunisti sotto la guida di Tito, si imposero da
soli al governo, con l’autorità ed il prestigio guadagnati durante la Resistenza, che
aveva permesso di liberare il territorio nazionale, a prescindere dall’aiuto dell’Armata
rossa.
L’imposizione, più o meno forzata del modello collettivistico sovietico, ebbe
conseguenze importanti sugli assetti socio-economici dell’Europa orientale. In molte
di quelle che erano tra le regioni più arretrate, si ebbe un inizio di modernizzazione e
di decollo economico. Questo sviluppo fu, però, condizionato dalla subordinazione
delle economie dei paesi “satelliti” a quella dello Stato “guida”. I tassi di cambio,
all’interno dell’area del rublo nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati, furono
rigidamente regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica
(Comecon), fondato a Varsavia nel gennaio 1949.
L’unico fra i regimi dell’Est europeo, che cercò con successo di sottrarsi
all’egemonia sovietica fu quello jugoslavo. La rottura avvenne nel 1948. Infatti, in
seguito alla resistenza di Tito ai piani staliniani di divisione del lavoro all’interno del
blocco orientale, l’Urss sospese, dapprima, ogni collaborazione economica, quindi,
condannò i comunisti jugoslavi, accusandoli di “deviazionismo” e di collusione con
l’imperialismo, ed escludendoli dal Cominform. La dirigenza jugoslava resistette alle
138
pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera,
basata sulla equidistanza tra i due blocchi ed un nuovo corso di politica interna, volto
alla ricerca di un equilibrio fra statalizzazione ed economia di mercato. Il modello
jugoslavo si basava sull’autogestione delle imprese da parte delle direzioni aziendali
e dei consigli di fabbrica e sulla loro reciproca concorrenza in un sistema di prezzi
liberi. Lo scisma jugoslavo provocò, per reazione, una stretta repressiva estesa a tutto
il mondo comunista. Vennero così attuate massicce “purghe”, nei confronti dei
dirigenti dell’Est europeo sospettati di velleità autonomistiche.
Dall’altra parte gli Stati Uniti si trovavano, alla fine della guerra, ad affrontare un
problema non di ricostruzione, ma di riconversione: il sistema economico doveva
essere riorientato a scopi di pace. A guidare il paese vi era, come detto, Truman, che
non aveva il carisma del suo predecessore. L’abolizione dei controlli sulle attività
industriali e il forte deficit del bilancio statale, provocarono un sensibile aumento del
costo della vita. Ne seguì un’ondata di rivendicazioni salariali e di agitazioni operaie,
a cui il Congresso rispose adottando il Taft-Hartley Act, una legge di impronta
conservatrice, che limitava la libertà di sciopero nelle industrie di interesse nazionale.
Le conquiste fondamentali del New Deal vennero, però, salvaguardate; si ebbe anzi,
dopo la rielezione di Truman, nel 1948, un certo incremento dei programmi di
assistenza sociale. A partire dal 1949, si scatenò negli Stati Uniti una campagna
anticomunista, che ebbe il suo massimo sostenitore nel senatore repubblicano Joseph
Mc Carthy, presidente di una commissione parlamentare, istituita per reprimere le
attività antiamericane. Nel 1950, il Congresso adottò l’Internal Security Act, legge
139
per la sicurezza interna, che costituì lo strumento giuridico per epurare quanti, nella
pubblica amministrazione o nel mondo della cultura fossero sospettati di
filocomunismo. Gli eccessi del maccartismo si protrassero sino al 1955, quando le
accuse indiscriminate del senatore si rivolsero, persino, all’esercito.
In Occidente, a parte i casi della Spagna e del Portogallo ancora retti da regimi
autoritari, la fine della guerra fu accompagnata da una forte spinta in senso
democratico.
Il caso più emblematico fu quello dell’Inghilterra, dove nelle elezioni del luglio 1945
Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo
governo nazionalizzò la Banca d’Inghilterra, le industrie elettriche e carbonifere;
introdusse il salario minimo e il servizio sanitario nazionale. Furono gettate, così, le
basi per uno Stato del benessere, Welfare State, che aveva l’ambizione di assistere
continuamente il cittadino.
In Francia, nazionalizzazioni e programmi di sicurezza sociale furono varati dal
governo provvisorio, presieduto da De Gaulle, fra il 1944 e il 1945, e dai successivi
ministeri di coalizione, basati sull’accordo fra i tre partiti di massa, il Partito
comunista, la Sfio e il Movimento repubblicano popolare di ispirazione democratico-
cristiana. Nel 1946, fu varato un piano quadriennale, che contemperava una
ispirazione liberista di fondo, con aspetti di carattere riformatore e dirigistico. Sempre
nel 1946, una Assembra costituente, eletta in giugno, elaborò una nuova Costituzione
di stampo democratico-parlamentare. De Gaulle avrebbe preferito un sistema
presidenziale con un forte esecutivo: per questo fondò, nel 1947, un proprio
140
movimento, il Raggruppamento del popolo francese, che aveva come obiettivo
proprio la riforma della Costituzione. In quello stesso anno, si ruppe l’alleanza tra i
tre partiti di massa. Da allora, estromessi i comunisti dall’esecutivo, si succedettero
numerosi governi, tutti fondati su accordi tra socialisti e partiti di centro. L’instabilità
fu la loro caratteristica ed il male della Quarta Repubblica, così come lo era stato per
la Terza.
Paradossalmente fu proprio la Germania sconfitta a dare le migliori prove di vitalità
economica e di stabilità politica. Tuttavia, solo nel 1949, recuperò una teorica
sovranità nazionale, ma perse contemporaneamente la sua unità, in quanto divisa in
due Stati, retti da regimi diversi: l’uno, la Repubblica federale, legata ad una
costituzione democratico-parlamenatre e federale, redatta sotto il controllo degli
occupanti e governata dai cristiano-democratici del cancelliere Konrad Adenauer;
l’altro, la Repubblica democratica, costruito sul modello delle democrazie popolari ed
in pratica sottoposto a un regime a partito unico, la Sed, Partito socialista unificato
tedesco, nato dalla forzata fusione tra comunisti e socialdemocratici.
Mentre nella zona orientale la ripresa economica fu frenata dal peso delle riparazioni
imposte dall’Urss e dalla forzata collettivizzazione dell’apparato produttivo, la
Germania dell’Ovest fu favorita dalla stretta integrazione nel blocco occidentale.
Stimolata dalla politica di rilancio degli investimenti, messa in atto dal governo, la
macchina produttiva tedesco-occidentale riprese a girare a pieno ritmo: il prodotto
nazionale era tornato già nel 1951, ai livelli del 1938.
141
Il mondo diviso (2)
Un punto di svolta nel confronto fra mondo socialista e mondo capitalistico, si ebbe
nel 1949, con l’avvento al potere dei comunisti in Cina. Se per un verso la
rivoluzione cinese si collocò all’interno della guerra fredda, dall’altro essa segnò il
punto di raccordo con l’altro grande processo messo in moto dalla seconda guerra
mondiale, la decolonizzazione.
La precaria alleanza che i comunisti di Mao Tse-tung e i nazionalisti di Chang Kai-
shek avevano stretto nel 1937 contro l’aggressione del Giappone, entrò in crisi con lo
scoppio della guerra nel Pacifico. A partire dal 1941, profittando dell’impegno
giapponese contro gli Stati Uniti, il governo di Chang cominciò a trascurare la lotta
contro gli occupanti stranieri, per prepararsi alla resa dei conti con i comunisti, che
dominavano e amministravano ampie zone dell’interno. Tutto ciò non faceva, però,
che aumentare il discredito di un regime, il quale aveva perso il contatto con gli strati
più dinamici della società e si era ridotto ad essere espressione dei proprietari terrieri.
Al contrario, nei territori occupati, non solo i comunisti combattevano contro i
giapponesi, ma seppero rafforzare i loro legami con le masse contadine.
A guerra terminata, gli Stati Uniti, conoscendo la debolezza dei nazionalisti,
cercarono di promuovere un accordo tra comunisti e Kuomintang. Ma Chang Kai-
shek rifiutò ogni compromesso e lanciò contro i comunisti una campagna militare in
grande stile. In un primo tempo i nazionalisti ebbero la meglio, ma i comunisti
riuscirono a riorganizzarsi e a contrattaccare. Nel corso del 1948 le sorti della guerra
142
si rovesciarono. Le forze di Chang, poco motivate, cominciarono a sbandare. Nel
febbraio del ’49 i comunisti entrarono a Pechino: Chang riparò, sotto la protezione
della flotta americana, nell’isola di Taiwan (Formosa) da dove sognò sempre la
rivincita. Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica
popolare cinese, subito riconosciuta dall’Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli
Stati Uniti. La nuova Repubblica, guidata dai comunisti, procedette subito a misure
di socializzazione, pur lasciando, in un primo tempo, spazio al settore privato. Nel
febbraio del 1950, la Cina di Mao stipulò con l’Urss un Trattato di amicizia e di
mutua assistenza.
La prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali del confronto fra i due
blocchi si verificò nel 1950 in Corea. In base agli accordi interalleati, quel paese era
stato diviso in due zone, delimitate dal 38° parallelo. Una delle zone, la Corea del
Nord, era governata da un regime comunista, guidato da Kim Il Sung, mentre
nell’altra, la Corea del Sud, si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli
americani. Dopo vari incidenti di frontiera, nel giugno 1950 le forze nordcoreane,
armate dai sovietici, invasero il Sud. Gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un
forte contingente di truppe. Gli americani, che agivano sotto la bandiera dell’Onu,
respinsero i nordcoreani e, in ottobre, oltrepassarono il 38° parallelo. La Cina di
Mao, allora, inviò un massiccio numero di “volontari”, che in poche settimane
capovolsero le sorti della guerra, penetrando nella Corea del Sud. Nell’aprile del
1951, Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I negoziati si
trascinarono per altri due anni, per concludersi nel 1953 con il ritorno alla situazione
143
precedente, col confine cioè sul 38° parallelo. Le conseguenze della crisi coreana
furono di ampia portata: un vasto riarmo americano di cui beneficiò soprattutto la
marina, come pure un rafforzamento dei legami militari tra gli Usa e gli alleati
asiatici ed europei.
Con la fine della presidenza Truman e la morte di Stalin, la guerra fredda perse i suoi
maggiori protagonisti. Inizialmente, tuttavia, il cambio della guardia ai vertici delle
due superpotenze non provocò alcun mutamento. La direzione collegiale, succeduta a
Stalin, non fece alcun gesto di apertura verso l’Occidente, mentre negli Stati Uniti, la
nuova amministrazione repubblicana, guidata dal generale Eisenhower, pareva
accentuare l’atteggiamento di sfida contro l’Urss.
Eppure, proprio in questi anni di tensione, venne maturando all’interno delle due
superpotenze, un nuovo atteggiamento di accettazione reciproca, che costituiva una
specie di premessa ad una coesistenza pacifica fra i due blocchi. Se i sovietici
avevano di fronte lo spettacolo di complessiva stabilità e di crescente prosperità,
offerto dal blocco occidentale, gli Usa erano costretti a prendere atto del
consolidamento dell’Urss, del continuo rafforzamento del suo apparato militare.
Nell’agosto del 1953 l’esplosione della bomba all’idrogeno, o bomba H sovietica,
mostrava che tra le due superpotenze non vi era molto divario tecnologico.
Nel 1955, in coincidenza col declino del maccartismo e con l’ascesa di Kruscev
all’interno del gruppo dirigente sovietico, si ebbero, da entrambe le parti, gesti di
distensione. In marzo, i sovietici ritirarono le loro truppe di occupazione dall’
Austria, in cambio dell’impegno occidentale a garantire la neutralità del paese,
144
impegno sancito poi col trattato di Vienna. Nella Conferenza di Ginevra, che fu
convocata in luglio, non furono raggiunti ulteriori accordi, ma Eisenhower affermò di
non voler rimettere in discussione lo status quo europeo. Anche la crisi di Suez, come
si dirà, vide Usa e Urss unite nel contrastare la sortita dell’imperialismo franco-
inglese.
In Unione Sovietica, intanto, dopo lunghi scontri, il segretario del Pcus, Nikita
Kruscev, si impose come leader del paese, giungendo, nel 1957, a cumulare le
cariche di segretario del partito e primo ministro. Personaggio vivace, molto
estroverso, dotato di grande carica comunicativa, si fece promotore di significative
aperture. Innanzitutto, in politica estera, il trattato di Vienna e l’incontro con i capi
occidentali a Ginevra, come pure la clamorosa riconciliazione con i comunisti
jugoslavi, nel maggio del 1955, e lo scioglimento del Cominform nell’anno seguente.
In politica interna, il suo avvento segnò la fine delle grandi purghe e un rilancio
dell’agricoltura, come pure una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei
cittadini.
Kruscev demolì la figura di Stalin, attraverso una sistematica denuncia degli orrori e
dei crimini commessi dall’ex leader sovietico. In un rapporto al XX congresso del
Pcus, nel 1956, Kruscev pronunciò una dura requisitoria contro il capo scomparso. Il
rapporto Kruscev non metteva in discussione il modello sovietico e la dottrina
leniniana, ma gli errori e le deviazioni, compiute da Stalin.
145
I maggiori effetti della destalinizzazione si ebbero nell’Europa dell’Est, in Polonia ed
in Ungheria, paesi nei quali Kruscev fece nascere l’illusione che l’egemonia
dell’Urss, sui suoi satelliti, potesse assumere forme più blande.
In Polonia furono gli operai, con l’appoggio della Chiesa cattolica, a rendersi
interpreti delle aspirazioni al cambiamento, dando vita ad una serie di agitazioni,
culminate nel 1956, nello sciopero di Poznan. Lo sciopero fu stroncato con
l’intervento di truppe sovietiche.
In Ungheria gli avvenimenti del 1956 seguirono, all’inizio, un corso analogo. In
ottobre le proteste sfociarono in un’insurrezione e in tutte le fabbriche si formarono
consigli operai: già alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall’Ungheria.
A questo punto, la piena libertà instauratasi nel paese, aprì larghi spazi alle forze
antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando, il 1°
novembre del ’56, il capo del governo Nagy, già espulso dal partito comunista,
annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia, il segretario del partito
comunista, Kadar, invocò l’intervento sovietico. I reparti dell’Armata rossa
occuparono, così, Budapest. Pochi mesi dopo, Kadar assumeva la guida del paese e
Nagy veniva fucilato. L’intervento sovietico provocò sdegno, ma sul piano dei
rapporti di forza, l’occupazione dell’Ungheria rappresentò una conferma del controllo
sovietico sui paesi satelliti.
Negli anni ’50, i maggiori Stati dell’Europa occidentale vivevano il difficile
passaggio dalla condizione di grandi potenze a quella di paesi di secondo rango,
dipendenti dall’alleato d’oltreoceano.
146
L’ideale di un’Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della
cooperazione economica fu fatto proprio da autorevoli uomini politici di diversi paesi
e di diverse ideologie, come Churchill, De Gasperi, Blum, Spaak. Il primo passo
verso la realizzazione concreta dell’unità continentale si ebbe nel 1951 con la
creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), che aveva il
compito di coordinare produzione e prezzi di questi settori fondamentali
dell’industria europea. Nel marzo 1957, si giunse poi alla firma del Trattato di
Roma, tra i rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda,
Lussemburgo. Con tale trattato sorgeva la Comunità economica europea (Cee).
Scopo primario di tale organizzazione era quello di creare il Mercato comune
europeo (Mec), con l’abbassamento graduale delle tariffe doganali e la libera
circolazione della forza –lavoro e dei capitali.
Organi fondamentali della Cee erano: la Commissione, con il compito di proporre i
piani di intervento e di disporne l’attuazione; il Consiglio dei Ministri, avente
funzioni decisionali; la Corte di giustizia, incaricata di dirimere le controversie tra
Stato e Stato; il Parlamento europeo, con funzioni consultive. Sul piano economico
il Mercato comune ottenne all’inizio buoni risultati, sul piano politico, però, la spinta
all’integrazione rallentò nel giro di pochi anni, frenata dal peso delle tradizioni e
degli egoismi nazionali.
Fra le democrazie dell’Europa occidentale, la Francia fu l’unica a sperimentare nel
dopoguerra una grave crisi istituzionale. I governi instabili, che si avvicendarono
dopo la rottura nel 1947 della coalizione tra i partiti di massa, si trovarono ad
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affrontare il problema della smobilitazione di un impero, la cui conservazione si
rivelava insostenibile, ma il cui abbandono era osteggiato fortemente dall’opinione
pubblica. Nel maggio del 1958, la crisi toccò il suo apice con il colpo di Stato dei
militari di stanza in Algeria. Venne, allora, chiamato alla guida del governo ed
incaricato di redigere una nuova Costituzione il generale De Gaulle, che si era ritirato
in un orgoglioso isolamento. La nuova Costituzione, con la quale nasceva la Quinta
Repubblica, lasciava intatte le strutture democratico-rappresentative, pur
introducendo elementi di rafforzamento dell’esecutivo. Il capo dello Stato, che dal
1962 veniva direttamente eletto dai cittadini, aveva il potere di nominare il capo del
governo (il quale doveva però avere l’appoggio della maggioranza parlamentare), di
sciogliere le Camere e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più
importanti. La stessa Costituzione fu sottoposta a referendum ed approvata, nel
settembre 1958, dall’80% dei francesi.
Eletto De Gaulle alla presidenza della Repubblica, nel dicembre dello stesso anno,
deluse le aspettative della destra colonialista, in quanto avviò alla sua logica
soluzione l’affare algerino e stroncò duramente i tentativi di sedizione. Tuttavia,
obbedendo alla vocazione nazionalista, si fece promotore di una politica estera
svincolata da legami troppo stretti con gli Stati Uniti. Egli volle che la Francia si
dotasse di una propria forza d’urto nucleare; nel 1966, ritirò le truppe francesi
dall’organizzazione militare della Nato, pur rimanendo fedele all’alleanza atlantica.
Contestò, inoltre, la supremazia del dollaro nell’economia occidentale, proponendo il
ritorno al sistema della convertibilità in oro; mise il veto all’ingresso della Gran
148
Bretagna nel Mec. Era una politica forse velleitaria, ma suscitò vaste adesioni a destra
come a sinistra e contribuì a rendere più solida la base di consenso della Quinta
Repubblica.
All’inizio degli anni ’50, il nazionalismo arabo trovò il suo centro nell’Egitto, certo il
più importante fra gli Stati del Medio Oriente per popolazione, posizione geografica e
tradizione storica. Nel 1952, un Comitato di ufficiali liberi guidato da Mohammed
Neguib e da Gamal Abdel Nasser, assunse il potere, rovesciando la monarchia. Nel
1954, Nasser rimase arbitro della situazione. Il nuovo regime avviò riforme in senso
socialista e tentò di promuovere un processo d’industrializzazione.
In politica estera Nasser ottenne lo sgombero delle truppe inglesi dal canale di Suez e
stipulò accordi con l’Urss per aiuti economici e militari. Reagendo a quello che
appariva come uno scivolamento verso posizioni filosovietiche, gli Stati Uniti, nel
1956, bloccarono il finanziamento da parte della Banca mondiale della grande diga di
Assuan, necessaria per l’elettrificazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la
Compagnia del canale di Suez, ove inglesi e francesi conservavano forti interessi.
Nell’ottobre del 1956, d’intesa con la Francia e l’Inghilterra, Israele attaccò l’Egitto,
e lo sconfisse, mentre truppe francesi ed inglesi occupavano il Canale. Tuttavia, gli
Stati Uniti non intervennero e l’Urss inviò un ultimatum a Francia, Gran Bretagna e
Israele. Così, le due potenze occidentali dovettero cedere. Mentre Israele si ritirava
dal Sinai, le truppe franco-inglesi abbandonavano la zona del Canale. L’effetto più
immediato della crisi di Suez fu quello di rafforzare la posizione dell’Egitto.
149
Nell’Africa a sud del Sahara, il processo di decolonizzazione fu più tardivo rispetto a
quello della regione mediterranea. Si compì fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli
anni ’60. Fu un processo pacifico tranne in alcuni casi, come quelli della Rhodesia
del Sud e del Congo.
I paesi di nuova indipendenza si affacciarono sulla scena internazionale con la
convinzione di condividere un’eredità comune, quella della lotta di liberazione dal
colonialismo e di essere portatori degli stessi interessi. In un mondo sempre più
pervaso dalla competizione tra Est ed Ovest, questi paesi avvertirono la necessità di
garantirsi dalle tendenze egemoniche delle superpotenze: la parola d’ordine diventò
allora il “non allineamento”, rispetto ai grandi blocchi militari ed ideologici. Per
impulso soprattutto dell’India di Nehru, dell’Egitto di Nasser e della Jugoslavia di
Tito, questa parola divenne la base di una piattaforma politica comune, di quel che
veniva emergendo come un Terzo Mondo, distinto sia dall’Occidente capitalistico,
sia dall’Est comunista. La consacrazione ufficiale di questo indirizzo si ebbe
nell’aprile del 1955 con la Conferenza afroasiatica di Bandung, in Indonesia, a cui
parteciparono 29 Stati, inclusa la Cina. La conferenza segnò non solo l’atto di nascita
dei non allineati, ma anche l’affermazione de Terzo mondo sulla scena mondiale.
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L’Italia dopo il fascismo
Dopo il secondo conflitto mondiale, l’Italia si trovò ad affrontare i problemi e le
incognite di un difficilissimo dopoguerra. Nel 1945, l’economia del paese era in gravi
condizioni. L’inflazione, provocata dalla guerra, aveva assunto ritmi paurosi. Nelle
regioni del Centro-Sud, fin dalla primavera del 1944, i contadini e i braccianti
avevano cominciato ad occupare terre incolte e latifondi: tale fenomeno si protrasse
nel tempo, nonostante i tentativi delle autorità di disciplinarlo e legalizzarlo. Ma, la
minaccia più grave all’ordine pubblico nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla
malavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera. In Sicilia,
in particolare, si assisteva ad una ripresa del fenomeno mafioso, come pure, sempre
nell’isola, si era sviluppato un movimento indipendentista strettamente legato agli
agrari e alla vecchia classe dirigente prefascista. Le forze politiche, alla guida del
paese erano, con poche varianti, le stesse che furono protagoniste tra la fine della
prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo. Rispetto ad allora, però, risultava
mutata la situazione interna ed internazionale, in cui quei partiti si trovavano ad
operare.
In particolare il Partito socialista, che portava il nome di Psiup, assunto nel 1943,
pareva destinato ad assumere un ruolo da protagonista, grazie anche alla popolarità
del suo leader Pietro Nenni. Il gruppo dirigente non era però compatto, diviso fra le
spinte rivoluzionarie, che lo portavano a mantenere uno stretto legame coi comunisti,
151
e il richiamo alla tradizione riformista, il quale lo spingeva ad assumere una
posizione intermedia, quasi di cerniera fra il Pci e i partiti borghesi.
Al contrario, il Partito comunista traeva nuova forza e credibilità, proprio dal
contributo offerto alla lotta antifascista, e su questo fondava i suoi titoli di legittimità,
per presentarsi come forza nazionale e di governo. Il partito nuovo, che Togliatti
aveva costruito, era diverso dall’intransigente partito leninista nato nel 1921. Era
ormai un partito di massa, che cercava di allargare l’area dei suoi consensi al di là
della tradizionale base operaia, verso i contadini, i ceti medi e gli intellettuali.
Inoltre, suo obiettivo era inserirsi nelle istituzioni, senza rinnegare il suo legame con
l’Urss e senza cessare di incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe operaia.
Fra gli altri partiti, l’unico che appariva in grado di competere con comunisti e
socialisti sul piano dell’organizzazione di massa, era la Democrazia cristiana. Si
richiamava al Partito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma e ne ereditava la
base contadina e piccolo-borghese. Il gruppo dirigente, a cominciare dal segretario,
Alcide De Gasperi, veniva da quel partito; la Democrazia cristiana contava
sull’esplicito appoggio della Chiesa.
Vi era poi il Partito liberale, che raccoglieva fra le sue file gran parte della classe
dirigente prefascista, e poteva contare su una serie di adesioni illustri, come quella di
Croce e di Einaudi. Tuttavia, il rapporto tra i leader e la base elettorale, un rapporto
di tipo personale e clientelare, già in crisi nel primo dopoguerra, era ormai
compromesso.
152
Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla
questione istituzionale: aveva, infatti, respinto ogni compromesso con la monarchia,
rifiutando di partecipare ai Cln. In una posizione particolare, al confine fra l’area
liberal-democratica e quella socialista, si collocava il Partito d’azione. Forte del
prestigio che gli veniva dall’adesione di molti leader antifascisti, come Parri, Valiani
e Lussu, il Pda si presentava come forza nuova e moderna, e si faceva promotore di
ampie riforme sociali e istituzionali.
Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima
del dopo-liberazione, ma era ancora forte nel Mezzogiorno e tendeva a diventarlo
sempre di più, con l’accentuarsi delle insofferenze nei confronti di epurazioni,
annunciate a carico degli aderenti al regime. Assente ancora il movimento neofascista
organizzato: solo nel 1946 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano.
Fondato nel novembre 1945 dal commediografo Gugliemo Giannini, vi era poi il
movimento de L’Uomo qualunque, che rifiutava qualsiasi caratterizzazione
ideologica e si limitava ad assumere le difese del cittadino medio.
Se i partiti si erano affermati fin dal periodo della Resistenza, un ruolo importante,
non solo sul piano economico, fu svolto dalla Confederazione generale italiana del
Lavoro, Cgil, ricostituita su basi unitarie nel giugno del 1944, nella Roma ancora
occupata dai tedeschi. Le tre componenti, socialista, comunista e cattolica, erano
rappresentate pariteticamente negli organi dirigenti, ma risultavano squilibrate tra
loro come peso numerico: i comunisti erano i più forti, i cattolici nettamente i più
deboli, soprattutto nelle categorie operaie. La Cgil riuscì tuttavia, con una linea
153
complessivamente moderata, a realizzare alcune importanti conquiste quali: il
riconoscimento delle commissioni interne, che rappresentavano il sindacato nelle
aziende; l’introduzione di un meccanismo di scala mobile per l’adeguamento
automatico dei salari al costo della vita; una nuova disciplina sui licenziamenti.
La prima occasione di confronto fra i partiti, si ebbe al momento di scegliere il
successore di Bonomi. Dopo lunghe discussioni, soprattutto tra socialisti e
democratici, i partiti trovarono l’accordo sul nome di Ferruccio Parri, leader di una
formazione minore, come il Partito d’azione, ma investito di un grande prestigio
personale, in quanto era stato tra i capi della Resistenza. Formato un ministero con la
partecipazione di tutti i partiti del Cln, Parri cercò di promuovere un processo di
normalizzazione nel paese, ancora sconvolto dalla guerra, e mise all’ordine del giorno
il problema dell’epurazione dell’ex classe dirigente fascista. Annunciò, inoltre, una
serie di provvedimenti volti a colpire, con forti tasse, le grandi imprese e a favorire la
ripresa delle piccole e medie aziende. Ma suscitò l’opposizione della forze moderate,
in particolare del Pli che, nel novembre 1945, ritirò la fiducia al governo,
determinandone la caduta.
La Dc riuscì, così, ad imporre la candidatura di Alcide De Gasperi: il nuovo governo
si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln. I progetti di riforme
economiche furono, però, accantonati e quasi tutti i prefetti, nominati dal Cln
nell’Italia settentrionale, sostituiti da funzionari di carriera. L’epurazione fu
rallentata, finché nel giugno del 1946, Togliatti, come ministro della Giustizia, varò
una larga amnistia, che in pratica metteva fine a un’operazione molto difficile da
154
condurre con equità, anche per l’ampiezza delle adesioni di cui il fascismo aveva
goduto. Tutto ciò provocò, negli ex partigiani, un forte senso di delusione che spesso
si tradusse in manifestazioni di protesta.
Il 2 giugno era, tuttavia, la data fissata dal governo per le elezioni dell’Assemblea
costituente: le prime consultazioni politiche libere dopo venticinque anni e, le prime,
in cui avevano diritto a votare anche le donne. I cittadini, in quello stesso giorno,
dovevano decidere, mediante referendum, se mantenere in vita l’istituto monarchico
o fare dell’Italia una repubblica. Il 9 maggio, Vittorio Emanuele III, con una
decisione a sorpresa, abdicò in favore del figlio Umberto II. Ma, la mossa non ottenne
gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate da un’affluenza senza
precedenti nella storia d’Italia, circa il 90% degli aventi diritto, la repubblica si
affermò con un margine netto, 12.700.000 voti contro 10.700.000 per la monarchia. Il
13 giugno, dopo la proclamazione ufficiale dei risultati, Umberto II partì per l’esilio
in Portogallo. Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito
col 35,2% dei voti, seguita dal Psiup e dal Pci. L’Unione democratica nazionale, che
raccoglieva assieme ai liberali e ai demolaburisti di Bonomi i maggiori esponenti
della classe dirigente prefascista, non andò al di là del 6,8%. Rispetto alle ultime
elezioni dell’epoca fascista, era evidente l’avanzata dei partiti di massa e la crisi dei
vecchi gruppi liberal-democratici, sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell’Italia
moderata. Nel complesso i risultati del 2 giugno mostravano che gli italiani avevano
esigenze di cambiamento. Tuttavia, la vittoria repubblicana, analizzando i risultati
regione per regione, si concretizzò soprattutto nel Centro-Nord, mentre il Sud diede
155
una forte maggioranza alla monarchia. Le spaccature ereditate dalla guerra e da tutta
la storia del paese si riproponevano nella nuova Italia democratica e ne rendevano
complesso il cammino.
I due anni che vanno dalle elezioni per la Costituente, 2 giugno 1946, alle
consultazioni politiche del 18 aprile 1948, furono decisivi per la storia della giovane
repubblica italiana. Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e
comunisti continuavano a governare insieme; si accordarono sull’elezione del primo
e provvisorio presidente della Repubblica, il giurista liberale Enrico De Nicola e
diedero vita a un secondo governo De Gasperi, basato sull’accordo dei tre partiti di
massa. Vi erano tuttavia molti contrasti tra la Dc e le sinistre. Mentre la Democrazia
cristiana tendeva ad assumere il ruolo di garante dell’ordine sociale e della
collaborazione del paese nel campo occidentale, i comunisti si ponevano più
risolutamente alla testa delle lotte operaie e accentuavano il loro allineamento
all’Urss.
Il Partito socialista fece le spese di questa radicalizzazione. Alla fine del 1946, si
erano delineati all’interno del Psiup due schieramenti contrapposti. Il primo, che
faceva capo a Nenni, voleva mantenere i suoi caratteri classisti e rivoluzionari, era
favorevole all’unità d’azione col Pci e puntava, a livello internazionale, su di una
alleanza tra l’Urss e le sinistre occidentali. Il secondo schieramento, guidato da
Giuseppe Saragat, si batteva per un allentamento dei legami col Pci e non nascondeva
la sua ostilità per il comunismo sovietico. Nel gennaio 1947, in occasione del XXV
congresso del partito, che si tenne a Roma, i seguaci di Saragat decisero di
156
abbandonare il Psiup, il quale tra l’altro, riprese il suo antico nome di Psi, e si
riunirono a Palazzo Barberini per fondare un nuovo partito, che si chiamò Partito
socialista dei lavoratori italiani, Psli, che, dopo qualche anno, assunse il nome di
Partito socialdemocratico italiano, Psdi.
La scissione del partito, se provocò immediatamente una crisi di governo, in realtà,
finì col dare maggiore libertà d’azione ad una Democrazia cristiana sempre più
insofferente della “coabitazione forzata” con le sinistre. Nel mese di maggio, De
Gasperi diede le dimissioni e, ottenuto il reincarico dopo una lunga crisi, formò un
governo di soli democristiani, rafforzato dall’apporto di tecnici di area liberale, come
Einaudi e Sforza.
I contrasti politici, culminati nell’esclusione delle sinistre dal governo, non
impedirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di solidarietà, necessaria
alla Repubblica per superare le due prime fondamentali prove, che le si ponevano di
fronte: la conclusione del trattato di pace e soprattutto il varo della Costituzione.
L’Assemblea costituente, incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale,
dopo lo Statuto Albertino, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li concluse il 22
dicembre 1947, con l’approvazione a larghissima maggioranza del testo
costituzionale, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La Costituzione repubblicana
si ispirava a modelli ottocenteschi per la parte riguardante le istituzioni e i diritti
politici: dava vita, infatti, ad un sistema parlamentare col governo responsabile di
fronte alle due Camere, titolari del potere legislativo, entrambe elette a suffragio
universale e incaricate anche di scegliere, in seduta comune, il capo dello Stato con
157
mandato settennale. Era previsto anche un Consiglio superiore della magistratura,
atto a garantire l’ordine giudiziario ed una Corte costituzionale per vigilare sulla
conformità delle leggi alla Costituzione. Inoltre, veniva introdotto l’istituto del
referendum abrogativo, dietro richiesta di almeno 500.000 cittadini, al fine di
sottoporre alla Corte costituzionale leggi ritenute difformi allo stesso dettato
costituzionale. Infine, la vecchia struttura centralistica dello Stato veniva eliminata
con l’istituto delle regioni, dotate di ampi poteri.
Le norme relativeal Consiglio superiore della magistratura, alla Corte costituzionale,
al referendum e alle regioni, rimasero inattuate per molti anni.
La Costituente, tuttavia, non fu investita dei poteri legislativi ordinari, che, in via
provvisoria, rimasero al governo e non ebbe quindi la possibilità di tradurre
immediatamente in leggi applicative le norme del dettato costituzionale.
La scelta in favore di un modello parlamentare, unita ad una legge elettorale
proporzionale, faceva dei partiti i veri destinatari del consenso popolare e, dunque, gli
arbitri incontrastati della politica italiana. La Costituzione rappresentò, tuttavia, un
compromesso equilibrato fra le istanze delle diverse forze politiche, che avevano
contribuito a realizzarla.
Molto complessa fu la formazione dell’art. 7, in cui si stabiliva che i rapporti tra Stato
e Chiesa erano regolati dal concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime
fascista. Sembrava un disegno destinato ad essere respinto. Ma, con una decisione
che destò scalpore, Togliatti annunciò il voto favorevole del Pci, motivando la sua
158
scelta, con la volontà di rispettare il sentimento religioso della popolazione italiana, e
di non creare fratture in seno alle masse.
Dall’inizio del 1948, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita in vista
delle elezioni politiche, convocate per il 18 aprile di quell’anno, che avrebbero dato
alla Repubblica il suo primo Parlamento. Caratteristica di questa campagna elettorale
fu la polarizzazione fra i due schieramenti contrapposti. Quello di opposizione,
egemonizzato dal Pci, e quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche i
partiti minori.
Il partito socialista decise di presentare liste comuni col Pci sotto l’insegna del
Fronte popolare. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII, si impegnò in una
crociata anticomunista e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda a
sostegno della Dc.
Le elezioni del 18 aprile si risolsero in un travolgente successo del partito cattolico,
che ottenne il 48.5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera.
Bruciante fu la sconfitta dei due partiti operai. Con queste elezioni cadevano le
speranze dei partiti di sinistra di guidare le trasformazioni della società e si rafforzava
l’egemonia del partito cattolico, già delineatasi con l’avvento al governo di De
Gasperi.
Il 14 luglio 1948 uno studente di destra sparò al segretario comunista Togliatti,
mentre usciva da Montecitorio e lo ferì gravemente. Alla notizia dell’attentato, in
tutte le principali città, operai e militanti comunisti scesero in piazza, scontrandosi
159
con le forze dell’ordine. In pochi giorni la situazione si placò, ma permanevano,
comunque, forti tensioni nel paese.
Si giunse, così, alla rottura della pacifica convivenza fra le maggiori forze politiche
all’interno del sindacato. La decisione della maggioranza della Cgil di proclamare
uno sciopero generale fornì alla componente cattolica l’occasione per staccarsi, e dare
vita ad una nuova realtà, la Cisl, la Confederazione italiana sindacati lavoratori.
Poco dopo, i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici abbandonarono la Cgil,
fondando la Uil, Unione italiana del lavoro.
Sul terreno della politica economica, le forze moderate, soprattutto liberali,
riuscirono a prendere il sopravvento, dando vita ad un liberismo ispirato dagli
economisti di formazione prefascista. I dirigenti di sinistra non seppero contrapporre
alternative. Dal maggio del 1947, con l’estromissione di questi ultimi dal governo e
la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, ministro del Bilancio fu il liberista
Luigi Einaudi. Mentre le sinistre, costrette all’opposizione, si impegnavano in una
impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuava una manovra
economica, che aveva come scopi principali la fine dell’inflazione, il ritorno alla
stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. Nel complesso, l’economista
ottenne i risultati che si era prefissato: la lira recuperò potere d’acquisto, i capitali
esportati rientrarono in Italia, i ceti medi risparmiatori riacquistarono fiducia, gli
stessi salariati si giovarono del calo dei prezzi. Tuttavia, l’operazione ebbe forti costi
sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione, che, abolito il blocco dei
licenziamenti, superò i due milioni di unità nel 1948.
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Gli strumenti di controllo dell’economia furono sottoutilizzati, ma non cancellati: l’Iri
fu potenziato e l’Agip rilanciato, dalla scoperta di giacimenti di idrocarburi in Val
Padana.
In politica estera, nel 1947 venne firmato il trattato di pace a Parigi fra l’Italia e gli
alleati e ratificato dalla Costituente nel luglio dello stesso anno. L’Italia era
considerata come una nazione sconfitta e doveva, quindi, impegnarsi a pagare
riparazioni agli Stati, che aveva attaccato e a ridurre la consistenza delle sue forze
armate. Rinunciava alle sue colonie, già perdute durante la guerra. Per quanto
riguardava i confini nazionali ad ovest non subì mutilazioni di rilievo, a nord poté
avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell’Austria per mantenere l’Alto Adige,
impegnandosi, però, con gli accordi De Gasperi-Gruber, a concedere ampie
autonomie amministrative e linguistiche alla provincia di Bolzano. I problemi si
presentavano sul confine orientale, dove gli jugoslavi avevano occupato gran parte
della Venezia Giulia e rivendicavano Trieste.
Alla fine del 1946, fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla
Jugoslavia la penisola istriana, eccettuata una striscia comprendente Trieste e
Capodistria, che avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste. Tale
territorio fu poi diviso in una zona A, ossia Trieste e dintorni, occupata dagli alleati, e
in una zona B, tenuta dagli jugoslavi. Solo nel 1954, si giunse ad una spartizione di
fatto, che sanciva il controllo jugoslavo sulla zona B ed il passaggio
dall’amministrazione alleata a quella italiana della zona A, ossia Trieste. Ma
sarebbero passati ancora più di venti anni perché si giungesse ad un accordo, il
161
Trattato di Osimo, del novembre del 1975, con cui le due parti si riconoscevano
reciprocamente la sovranità sui territori in questione.
Il contrasto tra i due paesi era riesploso alla fine della guerra nelle zone occupate
dagli jugoslavi, in seguito ad una serie di sanguinose vendette contro gli italiani,
culminate nell’esecuzione di alcune migliaia di persone gettate nelle foibe. Un gran
numero di giuliani e dalmati erano stati costretti a riparare in Italia, contribuendo a
tener desta la polemica contro il trattato di pace.
Ma, a differenza di quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale, il problema
del confine orientale non giunse a rappresentare il nodo centrale della politica estera
italiana. Per un paese sconfitto, debole economicamente, il problema capitale era
quello della scelta di campo fra i due blocchi, che si fronteggiavano in Europa. La
scelta dell’Italia diventò netta dopo l’estromissione delle sinistre dal governo e
l’accettazione del piano Marshall, per essere poi sancita dall’elettorato il 18 aprile
1948.
Quando, alla fine di quell’anno, furono gettate le basi del Patto atlantico, l’ipotesi di
una adesione dell’Italia suscitò la dura opposizione delle sinistre, ma anche la
perplessità del mondo cattolico e dei partiti laici del centro-sinistra. Prevalse alla fine
la volontà di De Gasperi e del ministro degli Esteri Sforza, che vedevano
nell’alleanza uno strumento per garantire all’Italia una stretta organizzazione con
l’occidente. E l’adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento nel marzo
1949.
162
I cinque anni della prima legislatura repubblicana, 1948-1953, segnarono la massima
egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Essa, tuttavia,
continuò a puntare sull’alleanza con i partiti minori ed appoggiò la candidatura alla
presidenza della Repubblica del liberale Einaudi, nel maggio 1948.
Furono gli anni del centrismo, che videro una Dc molto forte, dominare lo
schieramento politico.
L’iniziativa più importante di questo periodo fu la riforma agraria, che fissava norme
per l’esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi proprietà terriere.
Lo scopo a lungo termine della riforma stava nell’incrementare la piccola impresa
agricola, nel rafforzare quindi il ceto dei contadini indipendenti, tradizionalmente
considerato una garanzia d’ordine e largamente egemonizzato dalla Dc attraverso la
Confederazione dei coltivatori diretti.
Nell’agosto del 1950 fu varata una nuova legge, quella che istituiva la Cassa per il
Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico, che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo
economico e civile del Sud. I risultati non corrisposero, però, alle attese.
Tra gli interventi realizzati dalla Dc, deve essere ricordata la legge Fanfani sul
finanziamento alle case popolari e la riforma Vanoni, che introduceva l’obbligo della
dichiarazione annuale dei redditi, entrambe avversate dalle forze di destra. Anche le
sinistre continuavano a condurre contro il governo De Gasperi un’opposizione dura.
Nonostante la ripresa produttiva, la disoccupazione, nei primi anni ’50, era elevata.
Vi furono scioperi e manifestazioni di piazza, contro i quali il governo usò metodi
repressivi. Comunisti e socialisti furono schedati e a volte discriminati negli impieghi
163
pubblici. Il ministro degli Interni, Mario Scelba, divenne il simbolo di una politica
illiberale e repressiva, agli occhi dei militanti di sinistra. De Gasperi e i suoi alleati
tentarono, nell’imminenza delle elezioni del 1953, di rendere inattaccabile la
coalizione centrista, attraverso una modifica dei meccanismi elettorali in senso
maggioritario. Il sistema scelto fu di assegnare il 65% dei seggi alla Camera, a quel
gruppo di partiti apparentati, che avesse ottenuto almeno la metà più uno dei voti.
Era un sistema costruito per la maggioranza: di qui le polemiche, che
accompagnarono la discussione in Parlamento della nuova legge
elettoraleribattezzata, dalle sinistre, legge truffa. Tale legge venne approvata nel
marzo 1953, anche se nelle elezioni che si tennero in giugno, sia la Dc, sia i suoi
alleati, persero voti rispetto al 1948, mancando per poche decine di migliaia di voti
l’obiettivo del 50%. Il premio di maggioranza non scattò e De Gasperi dovette
registrare la prima sconfitta.
Il paese, frattanto, si stava avviando verso una lenta modernizzazione, e tentava di
rafforzare i suoi legami con l’Europa, grazie alla completa liberalizzazione degli
scambi, attuata dal ministro repubblicano Ugo La Malfa. Nell’estate del 1955 fu
presentato in Parlamento il piano Vanoni, che rappresentava un timido tentativo di
programmazione economica. Nel 1956 fu creato il Ministero delle partecipazioni
statali, col compito di coordinare le attività delle aziende dello Stato.
Nell’aprile del ’56 vi fu, poi, l’insediamento della Corte costituzionale e due anni
dopo del Consiglio superiore della magistratura.
164
Gli anni della seconda legislatura repubblicana, 1953-1958, portarono notevoli
cambiamenti. Nella Dc, le elezioni del ’53, segnarono la sconfitta politica di De
Gasperi, come pure la progressiva emarginazione del suo gruppo dirigente. La nuova
generazione dei politici, aderenti alla Dc, fu più attenta alle problematiche di un
cattolicesimo sociale, favorevole all’intervento statale in economia e critica nei
confronti del liberismo. Esponenti principali furono Aldo Moro, Mariano Rumor,
Amintore Fanfani, il quale divenne segretario della Dc nel 1954 e cercò di rafforzarne
la struttura organizzativa, collegando il partito, più strettamente, all’emergente
industria di Stato: in particolare all’Eni di Enrico Mattei. Questa scelta svecchiò la Dc
e tutta la politica italiana. Dopo le elezioni presidenziali del 1955, che videro la
vittoria di Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra, appoggiato da socialisti e
comunisti, si manifestò nel partito una maggiore consapevolezza della fragilità della
coalizione quadripartita e una nuova attenzione a quanto stava cambiando nella
sinistra: in particolare nel partito socialista, interlocutore obbligato per ogni ipotesi di
allargamento a sinistra della maggioranza.
Il Psi attuava in quegli anni una svolta, distaccandosi, in modo definitivo, dalle
direttive dell’Urss. Fu lo stesso Nenni, leader del partito negli anni del “frontismo”, a
guidare la svolta autonomista. Il Psi non rinunciava alla prospettiva di una radicale
trasformazione della società, ma si dichiarava disposto a collaborare per una politica
di riforme. Nelle elezioni del 1958, il Psi registrò un netto progresso, pur restando a
notevole distanza dalla Dc. A questo punto le premesse politiche per l’apertura a
sinistra, c’erano tutte.
165
Gli sviluppi della guerra fredda negli anni ’60
Nei paesi occidentali, gli anni ‘60 sono spesso ricordati positivamente, come un
periodo di grande sviluppo economico e civile e di ancor più grandi speranze.
Questa immagine è tuttavia un po’ convenzionale, poiché sia sul piano degli equilibri
internazionali sia su quello degli equilibri interni, il periodo che va dalla fine degli
anni ’50 ai primi anni ’70 offre un quadro abbastanza agitato e per molti versi
contraddittorio. La diffusione di più elevati livelli di benessere si accompagnò, infatti,
al rilancio di ideologie rivoluzionarie. La coesistenza fra i due blocchi politico-
militari in cui era diviso il mondo si confermò e si consolidò, anche attraverso
momenti di duro scontro diplomatico e di confronto anche drammatico. Dunque, un
equilibrio del terrore, che se evitò lo scoppio di un nuovo conflitto, non impedì il
manifestarsi di tensioni all’interno dei due blocchi, come pure lo scatenarsi di
conflitti locali soprattutto in Medio Oriente e nel Sud – Est asiatico.
Nel novembre 1960, il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy salì alla
presidenza degli Stati Uniti. Proveniente da una famiglia di origine irlandese, fu il
primo cattolico ad entrare alla Casa Bianca. Egli riscosse subito ampi consensi,
riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e di Roosevelt e aggiornandola
col riferimento ad una nuova frontiera, una frontiera non più materiale, ma culturale,
spirituale, scientifica.
In politica interna, lo slancio riformatore determinò un incremento della spesa
pubblica, assorbita in parte dai programmi sociali, in parte dalle esplorazioni spaziali.
166
Il primo incontro fra Kennedy e Kruscev, avvenuto a Vienna nel giugno del 1961 e
dedicato al problema di Berlino Ovest, si risolse in un fallimento. Gli Stati Uniti
riaffermarono il loro impegno in difesa della stessa Berlino Ovest ed i sovietici
risposero, alzando un muro, che separava le due parti della città e rendeva impossibili
le fughe. Il muro di Berlino diveniva, così, il simbolo più visibile della divisione
della Germania, come pure dell’Europa e del mondo, secondo le linee segnate dalla
guerra fredda.
In questo momento, però, teatro di scontri diventava l’America latina. Kennedy aveva
tentato di soffocare il regime comunista a Cuba, sia boicottandolo economicamente,
sia appoggiando gli esuli anticastristi, che tentarono una spedizione armata sull’isola.
Lo sbarco, che ebbe luogo, nel 1961, in una località chiamata Baia dei porci, si
risolse in un fallimento. L’Unione Sovietica, allora, offrì ai cubani assistenza ed
iniziò ad installare nell’isola alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando,
nell’ottobre 1962, le basi furono scoperte dagli americani, Kennedy ordinò un blocco
navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. Per sei
drammatici giorni, dal 16 al 21 ottobre, il mondo fu vicino ad un nuovo conflitto. Ma
alla fine, Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche, in cambio
dell’impegno americano ad astenersi da azioni militari contro Cuba. Questo
compromesso aprì la strada ad una nuova fase di distensione. Nel 1963, Stati Uniti ed
Unione Sovietica firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti
nucleari nell’atmosfera, al quale però non aderirono Cina e Francia. Nello stesso
167
periodo, Usa e Urss si accordarono per una linea diretta di telescriventi (la linea
rossa), fra Casa Bianca e Cremlino.
Kruscev accentuò, in questi anni, il tono moderato dei suoi interventi ed interpretò il
confronto, fra i blocchi, in chiave di competizione economica: la vittoria sarebbe
spettata al paese, capace di garantire al popolo un maggiore livello di benessere ed
una migliore qualità di vita. Vi era in lui un eccessivo ottimismo: nell’ottobre del
1964, Kruscev fu estromesso da tutte le cariche.
Kennedy, un anno prima, il 22 novembre 1963, venne ucciso tragicamente da un
attentato a Dallas, nel Texas. Fu il primo di una serie di misteriosi omicidi politici:
nel ’68 furono uccisi Robert Kennedy, fratello di John, e il pastore negro Martin
Luther King, leader del movimento antisegregazionista.
A Kennedy subentrò Lyndon Johnson, un esperto uomo politico di formazione
rooseveltiana, che tradusse in atto molti progetti di legislazione sociale, avviati da
Kennedy. Johnson finì, però, col legare il suo nome all’impopolare e sfortunato
impegno americano nel Vietnam.
Dopo l’allontanamento di Kruscev, l’Urss fu retta da una direzione collegiale formata
da collaboratori del leader rimosso. Tra questi Leonid Brežnev, che divenne segretario
del Pcus e, ben presto, si affermò come leader indiscusso del paese. La politica
sovietica, in questo periodo, mutò stile rispetto al passato: meno dichiarazioni,
minore enfasi sulla destalinizzazione, ma per quanto concerneva i contenuti, questi
rimasero più o meno invariati. Si accentuò, tuttavia, pur senza raggiungere i livelli di
brutalità dell’era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso. In economia fu
168
varata una riforma, che accordava alle imprese più ampi margini d’autonomia,
compensati, però, da un più stretto controllo del potere centrale sui singoli settori
produttivi. I risultati non furono brillanti e l’Urss vide, in questo periodo, accentuarsi
il distacco dai paesi occidentali.
Non si verificarono mutamenti neppure nei paesi dell’Europa orientale. Solo la
Romania, sotto la guida di Nicolae Ceausescu, riuscì ad ottenere una certa autonomia
sul piano economico, come pure in politica internazionale. I dirigenti sovietici
tollerarono la dissidenza rumena, che non metteva, tuttavia, in discussione le strutture
interne del regime, ma si mostrarono intransigenti nei confronti dell’esperimento di
liberalizzazione mai tentato sino ad allora in un paese del blocco sovietico: quello
avviato in Cecoslovacchia, all’inizio del 1968, e culminato nella cosiddetta
Primavera di Praga. Tutto cominciò nel gennaio 1968, quando il segretario del
partito Antonin Novotný, fu rimosso dalla sua carica e sostituito da Aleksander
Dubček, leader dell’ala innovatrice. Pressato dall’opinione pubblica, appoggiato da
intellettuali e studenti, egli accentuò il processo di rinnovamento fino a limiti
impensabili prima di allora. Il “programma d’azione” del Partito comunista, varato
nella primavera di quell’anno, cercava, infatti, di conciliare il mantenimento del
sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico
e politico, compresa la presenza di più partiti. Così, la Cecoslovacchia visse una
stagione di radicale rinnovamento, dando vita ad un socialismo dal volto umano.
Anche se non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di
alleanza sovietico, essa costituì una minaccia intollerabile per l’Urss. I sovietici
169
tentarono invano di indurre i dirigenti di Praga a bloccare il processo di
liberalizzazione. Poi, il 21 agosto 1968, truppe dell’Urss e di altri quattro paesi del
patto di Varsavia occuparono Praga e il resto del paese. Dubček fu arrestato e venne
formato un governo filosovietico. I dirigenti cechi promossero un’efficace resistenza
passiva. Intanto, in una fabbrica di Praga, si tenne un congresso clandestino del
Partito comunista, che riaffermò la fiducia a Dubček. Trovatisi in una situazione
imbarazzante, i sovietici costrinsero lo stesso Dubček e gli altri dirigenti della
“primavera di Praga” a riprendere il loro posto, ma sotto il controllo degli occupanti,
che nel giro di pochi mesi riuscirono ad imporre un rovesciamento dei rapporti di
forza nel partito. I dirigenti “liberali” furono progressivamente eliminati. Con Gustav
Husák cominciò la fase della normalizzazione. Tuttavia, l’Unione Sovietica uscì da
questa vicenda indebolita. Questa volta, a condannare l’intervento dell’Urss, furono i
partiti comunisti occidentali; critiche severe vennero anche dai partiti al potere, come
quelli cinese e jugoslavo.
In Italia, in Germania occidentale e in Gran Bretagna, gli anni ‘60 segnarono
l’avvento al governo dei socialisti, da soli o in coalizione con altre forze. In Francia,
invece, i gruppi d’obbedienza gaullista mantennero la guida del governo. Anche
dopo l’uscita di scena di De Gaulle, la sua linea venne mantenuta con Georges
Pompidou e Valéry Giscard d’Estaing.
In Germania federale il quasi-monopolio governativo dei cristiano-democratici si
interruppe nel 1966, quando il partito di maggioranza presentò qualche segno di
ristagno e, non trovando un accordo con i liberali, formò una grande coalizione con i
170
socialdemocratici, guidati da Willy Brandt. Il nuovo governo dovette fronteggiare, da
un lato, una reviviscenza della destra neonazista, dall’altro l’ondata di contestazione
giovanile del 1968. L’anno seguente, placatasi la contestazione, i socialdemocratici
ruppero la “grande coalizione” e si allearono con i liberali, in alternativa ai cristiano-
democratici. Si dava vita, così, ad una politica che tendeva ad una normalizzazione
nei rapporti fra la Germania federale e i paesi del blocco comunista e che, pur
restando all’interno dell’ortodossia atlantica, riproponeva il problema di una futura
riunificazione fra le due Germanie, attraverso un graduale superamento dei blocchi.
Questa politica orientale, Ostpolitik, si concretò nell’instaurazione di rapporti
diplomatici coi paesi comunisti e nel riconoscimento sancito dai trattati con la
Polonia e con l’Urss, dei confini fissati dopo la seconda guerra mondiale.
Più sfortunata fu l’esperienza di governo dei laburisti inglesi, tornati al potere con
Harold Wilson. Dovendo fronteggiare una difficile congiuntura economica e, nel
contempo, il riacutizzarsi della mai risolta questione irlandese, il governo assunse
impopolari misure di austerità. Nell’Irlanda del Nord, la minoranza cattolica, che
costituiva la parte più povera della popolazione, diede vita a molte agitazioni, spesso
degeneranti in episodi di terrorismo. Le difficoltà economiche e politiche che si
accompagnarono all’abbandono degli ultimi resti dell’Impero, (Malta, Singapore,
Aden), ebbero l’effetto di attenuare la riluttanza della classe dirigente e dell’opinione
pubblica, soprattutto da parte laburista, nei confronti dell’adesione britannica alla
Comunità europea. Nel 1967, il governo Wilson si convertì alla causa europea e aprì
un negoziato, che si concluse nel 1972 con l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee.
171
Tutto ciò non servì, però, per risolvere i gravi problemi dell’economia britannica, né
a rilanciare il processo di integrazione politica fra gli Stati del vecchio continente.
I cattolici, negli anni ’60, costituivano ancora la più numerosa fra le comunità
religiose, con oltre 500 milioni di fedeli sparsi per il mondo.
La Chiesa, in questo periodo, non attuò un arroccamento dottrinario, ma tentò un
rinnovamento interno, accompagnato da una maggiore attenzione alla mutata realtà
sociale ed internazionale. Il nuovo corso ebbe inizio col pontificato di Giovanni
XXIII, salito al soglio pontificio nel 1958. Diversamente da Pio XII, il nuovo papa,
che non era affatto un innovatore in materia dottrinaria, cercò di rilanciare il ruolo
ecumenico della Chiesa e di instaurare un dialogo con le realtà esterne al mondo
cattolico. Fu un papa dal grande carisma, che impresse una significativa svolta alla
politica vaticana, sancita da due encicliche. Nella prima, la Mater et magistra, il papa
si richiamava alla Rerum novarum di Leone XIII per rilanciare il filone sociale del
pensiero cattolico, per condannare l’egoismo dei ceti privilegiati, per incoraggiare il
riformismo politico ed economico, sia pur condannando ideologie e regimi socialisti.
La seconda enciclica, la Pacem in terris, era legata ai rapporti internazionali e
conteneva, oltre ad un appello al negoziato fra le potenze e alla cooperazione fra i
popoli, una significativa apertura verso i paesi di nuova indipendenza, e anche una
proposta al dialogo con le religioni non cattoliche e con gli stessi non credenti. Ma,
l’atto più importante di Giovanni XXIII fu la convocazione di un Concilio
ecumenico, il Vaticano II. Apertosi a Roma nell’ottobre 1962, pochi mesi prima della
morte dello stesso pontefice, il Concilio si prolungò sino al dicembre 1965 sotto il
172
pontificato di Paolo VI. Dal Concilio la Chiesa uscì rafforzata, anche se non
radicalmente trasformata. L’innovazione più importante fu l’introduzione della messa
in volgare, per consentire una maggiore partecipazione dei fedeli al rito. Ma fu
ribadita l’importanza delle Sacre Scritture, come fonti primarie della rivelazione ed
affermata la necessità del dialogo con le altre religioni e con le altre chiese cristiane.
I fermenti introdotti dal Concilio suscitarono, in molti paesi, nuove correnti e
movimenti, spesso legati a posizioni rivoluzionarie. Gruppi di cattolici del dissenso si
formarono in Italia ed in Francia e spesso confluirono nei partiti di sinistra o nei
movimenti nati dalle lotte studentesche del ’68. In America latina la partecipazione di
sacerdoti e di gruppi cattolici alla lotta contro la dittatura fu addirittura all’origine di
una nuova teologia, la teologia della liberazione, che reinterpretava il messaggio
cristiano e le stesse Scritture, nel quadro di una concezione marxista della storia.
173
Il mondo asiatico e la guerra del Vietnam
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, si venne delineando un contrasto
sempre più grave tra l’Unione Sovietica e la Cina. All’origine della tensione vi era
un intreccio di rivalità statuali e di divergenze politico-ideologiche, che investivano
sia la politica estera che quella interna. Mentre l’Urss si proponeva come garante di
un ordine “bipolare”, la Cina tendeva a contestare lo status quo internazionale, ad
appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, a porsi come guida
dei paesi in via di sviluppo. Nel corso degli anni ’50, la Cina comunista aveva
progressivamente nazionalizzato il settore industriale e quello commerciale e
compiuto uno sforzo notevole, per dotarsi di una propria industria pesante,
giovandosi di tecnici sovietici. Aveva inoltre proceduto alla collettivizzazione
dell’agricoltura. Con la riforma agraria del 1950, poté ridistribuire la terra fra i
contadini, creando una miriade di piccole aziende agricole. Incoraggiò e alla fine
obbligò le stesse famiglie contadine a riunirsi in cooperative, controllate, di fatto,
dalle autorità statali.
La dirigenza comunista varò poi, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu detta
del grande balzo in avanti, che avrebbe dovuto realizzarsi grazie ad una generale
razionalizzazione produttiva, ma soprattutto in virtù di un gigantesco sforzo di
volontà collettiva. Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le comuni
popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all’autosufficienza economica,
producendo in proprio quanto le era necessario. L’intera popolazione fu sottoposta ad
un controllo sempre più stretto, anche nella sfera della vita privata, e martellata con
174
una vigorosa campagna propagandistica in una atmosfera simile a quella dei piani
quinquennali sovietici. L’esperimento, tuttavia, fu un grande fallimento: la
produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia e costringendo la
Cina a massicce importazioni di cereali. I sovietici criticarono il “grande balzo” e
richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo alla già provata economia
cinese. Contemporaneamente, l’Urss rifiutò di fornire qualsiasi assistenza in campo
nucleare, il che non impedì però alla Cina di fare esplodere, nel 1964, la sua prima
bomba atomica. I cinesi accusarono i sovietici di revisionismo, di acquiescenza
all’imperialismo, definito da Mao, una “tigre di carta”, ossia uno spauracchio da cui
non bisognava farsi intimorire. Così, in un crescendo di ingiurie, i cinesi definirono i
sovietici “nuovi zar”, e rimisero in discussione i confini tra Cina e Russia, definiti
nell’'800.
Il fallimento del “grande balzo in avanti” ebbe contraccolpi anche all’interno della
Cina. Non disponendo di un controllo dell’apparato, tale da consentire una rapida
epurazione dei “moderati”, che avevano criticato il piano economico, Mao ricorse ad
una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno
dell’esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, mobilitò contro i suoi
avversari le generazioni più giovani, esortandole a ribellarsi contro i dirigenti
sospettati di percorrere la “via capitalistica”.
La mobilitazione culminò tra il 1966 e il 1968 nella cosiddetta rivoluzione culturale,
una rivolta giovanile apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall’alto,
che si richiamava al vero pensiero di Mao e contestava ogni potere burocratico ed
175
ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro,
gruppi di giovani guardie rosse mettevano, sotto accusa, insegnanti e dirigenti
politici: molti di questi furono internati in campi di rieducazione e sottoposti a torture
fisiche e psicologiche, alle quali spesso non sopravvivevano.
La rivoluzione culturale si esaurì in pochi anni: quanti furono necessari per eliminare
dai posti di responsabilità i dirigenti contrari alla linea maoista, a cominciare da Liu
Shao-chi, ex presidente della Repubblica, che morì per maltrattamenti. Ma a partire
dal 1968, Mao cominciò a mettere un freno al movimento da lui stesso provocato, il
quale stava determinando spaccature nella base comunista. Un ruolo importante, in
questa fase, fu svolto da Chou En–lai, il più autorevole dopo Mao tra i capi comunisti
cinesi, che ricoprì per molti anni la carica di primo ministro. Fu lui ad avviare,
all’inizio degli anni '70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale,
resa necessaria dall’isolamento economico e diplomatico in cui si trovava il paese.
Dal momento che i rapporti con l’Urss erano pessimi, la nuova linea si tradusse in un
avvicinamento agli Stati Uniti, sancito, nell’estate del 1972, da un viaggio del
presidente americano Nixon a Pechino, e dall’ammissione all’Onu della Cina
comunista. Intanto, nel 1971, Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale,
scomparve in un incidente aereo e fu poi accusato di aver tentato di fuggire in Urss
dopo un fallito complotto antimaoista.
La guerra, che si combatté nel Vietnam per oltre dieci anni, dal 1964 al 1975,
rappresentò uno degli strascichi più drammatici del processo di decolonizzazione, ma
anche uno dei momenti di scontro più acuti tra gli Stati Uniti e il mondo comunista.
176
Gli accordi di Ginevra del 1954 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella
del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh e, quella del Sud, governata dal regime
semidittatoriale del cattolico Ngo Dinh Diem ed appoggiata dagli americani. Contro
il governo del Sud, inviso alla maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò
un movimento di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato
nordvietnamita. Gli Stati Uniti inviarono così nel Vietnam del Sud un contingente di
consiglieri militari, che durante la presidenza Kennedy, si ingrandì fino a raggiungere
30.000 uomini.
Con Johnson, la presenza Usa in Vietnam si trasformò in un vero intervento bellico.
Nel febbraio del 1965, senza alcuna dichiarazione di guerra, ebbe inizio una serie di
violenti bombardamenti contro il territorio del Vietnam del Nord. L’escalation, ossia
l'intensificazione progressiva dell'impegno militare statunitense, non fu sufficiente a
domare la lotta dei vietcong, che godevano di appoggi fra le masse contadine. Di
fronte ad un nemico inafferrabile, che si muoveva come “un pesce nell’acqua”,
secondo una celebre espressione di Mao, l’esercito americano entrò in crisi. Inoltre,
negli Stati Uniti, il conflitto vietnamita appariva a larghi settori dell’opinione
pubblica, come una guerra fondamentalmente ingiusta, contraria alla democrazia. Vi
furono imponenti manifestazioni di protesta e molti giovani in età di leva rifiutarono
di indossare la divisa. Ai movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, i successi del
Vietcong apparvero come la prova del fatto che la più potente macchina militare
esistente poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo. La svolta del
conflitto si ebbe nel 1968, quando i vietcong lanciarono contro le principali città del
177
Sud una grande offensiva, l’offensiva del Tet, ossia il capodanno buddista, che pur
non avendo risultati sul piano militare, mostrò tutta la vitalità della guerriglia. Nel
marzo dello stesso anno, Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord
e annunciò anche la sua intenzione a non ripresentarsi alle elezioni. Il suo
successore, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati col Vietnam del Nord e
con il governo rivoluzionario provvisorio, espressione politica del Vietcong, e ridusse
gradualmente l’impegno militare americano. Ma, nel contempo, cercò di potenziare
l’esercito sudvietnamita e allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos
e la Cambogia, nel tentativo di tagliare ai vietcong le vie di rifornimento. Solo nel
gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio, che
prevedeva un graduale ritiro delle forze statunitensi.
Dopo il ritiro americano, la guerra continuò per altri due anni: fino a che, il 30 aprile
1975, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud,
mentre i membri del governo, abbandonavano la città. Pochi giorni prima, i
guerriglieri comunisti, i khmer rossi, avevano conquistato Phnom Penh, capitale della
Cambogia, cacciando il governo filoamericano del generale Lon Nol. Tre mesi dopo
era il Laos a cadere nelle mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l’Indocina era così
comunista. Gli Stati Uniti dovettero registrare la prima grande sconfitta della loro
storia.
Negli anni successivi alla vittoria dei comunisti in Vietnam e alla morte di Mao in
Cina, l’Asia comunista attraversò una fase di grandi trasformazioni. Dopo la
conquista di Saigon, ribattezzata “città Ho Chi–minh”, i nordvietnemiti ignorarono
178
tutte le promesse di autodeterminazione e di riconciliazione fra le due metà del paese
e attuarono una politica di assorbimento del Sud nel Nord e di sistematica
emarginazione, non solo dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della
lotta di liberazione nel Sud. Nella primavera del 1978 la numerosa comunità di
origine cinese fu espropriata dai suoi averi. Centinaia di migliaia di persone
abbandonarono il paese e molti persero la vita nella fuga.
Ancora più tragica la situazione della Cambogia, dove i khmer rossi, guidati da Pol
Pot, misero in atto tra il 1976 e il 1978, una sanguinaria rivoluzione sociale. Essi,
infatti, eliminarono fisicamente non solo coloro che avevano servito sotto il regime di
Lon Nol, ma provocarono anche la morte per fame e per stenti di circa un milione e
mezzo di comuni cittadini, costretti da un giorno all’altro ad evacuare le città e a
trasferirsi nelle campagne.
Il denaro fu abolito. Vennero distrutti templi buddisti, biblioteche e istituzioni d’ogni
genere. Il regime di Pol Pot, appoggiato per motivi tattici dalla Cina, era tuttavia un
ostacolo per il Vietnam, che intendeva ridurre tutta l’Indocina sotto il proprio
protettorato. Nel dicembre del 1978, soldati vietnamiti invasero il paese e vi posero
un governo “amico”, rovesciando quello dei khmer rossi, che continuarono tuttavia la
loro guerriglia. Nel febbraio 1979, i cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel
Vietnam del Nord, ma non riuscirono a far ritirare le truppe vietnamite dalla
Cambogia. La penisola indocinese era, quindi, divenuta teatro di conflitti interni al
mondo comunista. Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell’Onu, i vietnamiti si
ritirarono dalla Cambogia. E solo nel 1991 si giunse ad un accordo, sia pur precario,
179
di pacificazione fra tutte le fazioni in lotta, e alla formazione di un “Consiglio
nazionale supremo”, col compito di convocare libere elezioni.
Le elezioni, segnarono il successo dei sostenitori dell’ex sovrano Norodom
Sihanouk, ponendo così le basi per la restaurazione della monarchia. Ma la pace non
fu raggiunta, poiché il paese rimase legato al conflitto “triangolare” tra i monarchici, i
comunisti filovietnamiti e gli eredi dei khmer rossi.
In Cina, dopo Mao, Deng Xiaoping diede vita alla demaoizazzione, promuovendo
una serie di modifiche economiche all’interno del paese. Furono reintrodotte le
differenze salariali ed aumentati gli incentivi ai lavoratori; la direzione delle aziende
fu ricondotta a criteri di efficienza; i contadini poterono coltivare i propri fondi e
venderne i prodotti sul mercato libero: in generale vennero introdotti, nel sistema,
elementi di economia di mercato.
Tale trasformazione provocò notevoli mutamenti nella stratificazione sociale, ma
anche nella mentalità e nei costumi. Proprio il contrasto fra la modernizzazione
economica e il mantenimento della struttura burocratica autoritaria del potere fu
all’origine, alla fine degli anni ’80, di un nuovo fenomeno di protesta. Protagonisti
furono gli studenti dell’Università di Pechino, che diedero vita ad imponenti e
pacifiche manifestazioni di piazza per chiedere più libertà e più democrazia. Ma il
governo, preoccupato dalla vicenda, rispose con una brutale repressione militare e
con una serie di pesanti condanne. L’intervento dell’esercito nella piazza Tienanmen
si risolse in un vero e proprio massacro, che si riflesse negativamente sui rapporti
commerciali con l’Occidente. Le relazioni economiche furono poi ristabilite, anche
180
per l’interesse dei paesi industrializzati, nei confronti di un mercato potenzialmente
enorme e di un’economia che, nel decennio ’80-’90, seppe dar vita ad una grande
ripresa, raddoppiando il volume della sua produzione. Il regime cinese, così,
sopravvisse al grande ciclone, che investì l’intero mondo comunista alla fine degli
anni ’80.
Fra i “numerosi miracoli” del secondo dopo guerra, quello del Giappone fu
certamente il più straordinario. Paese sempre povero di materie prime e con una
densità di abitanti fra le maggiori al mondo, il Giappone, negli anni ’60, era diventato
la terza potenza economica del mondo, dopo Usa ed Urss.
Le cause di tale miracolo erano numerose. In parte affondavano le loro radici nelle
tradizioni e nella mentalità del popolo giapponese, in parte si collegavano ad un
preesistente elevato livello di industrializzazione, di scolarizzazione e di istruzione
tecnica. La crisi del petrolio del 1973 colpì il Giappone più di altri paesi industriali e
provocò la prima caduta della produzione: la crisi fu rapidamente superata già negli
anni ’80. Sul piano politico, la tradizionale stabilità del paese fu messa a dura prova,
a partire dalla fine degli anni ’80, da una serie di scandali finanziari, che investirono
il Partito liberal-democratico. Persa, nelle elezioni del 1992, la maggioranza assoluta
dei seggi, il partito fu costretto a dividere la responsabilità di governo con altre
formazioni, tra cui gli avversari socialdemocratici.
A tali problematiche si aggiungeva anche quella derivante dalla posizione nipponica
sul piano internazionale. Saldamente inserito nella sfera di influenza degli Usa e
protetto dal loro “ombrello” nucleare, essendo privo di una adeguata forza militare
181
propria, il Giappone da sempre aveva concentrato le sue risorse sulla ricerca
scientifica. Vedeva, invece, col trascorrere del tempo, crescere le pressioni, da parte
dei suoi alleati, per un maggior contributo alle spese per la propria difesa e per le
attività della Nazioni Unite: premessa per l’assunzione di nuove responsabilità in una
comunità internazionale non più bloccata dalla competizione bipolare.
182
Il Medio Oriente e le guerre arabo-israeliane
Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare un
pericoloso focolaio di tensione locale, come pure un terreno di scontro fra l’Unione
Sovietica, divenuta protettrice dell’Egitto, e gli Stati Uniti.
Nel 1967, il presidente egiziano Nasser chiese il ritiro delle forze–cuscinetto
dell’Onu, che presidiavano il confine del Sinai, proclamò la chiusura del golfo di
Aqaba, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando,
il 5 giugno, un attacco contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò sei giorni
appena e, il suo esito, fu la distruzione al suolo dell’intera aviazione egiziana.
L’Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania, invece, tutti i territori della riva
occidentale del Giordano, inclusa la parte oriente di Gerusalemme, la Siria, infine, le
alture del Golan.
La disfatta della guerra dei “sei giorni” ebbe per gli arabi gravi conseguenze. Segnò
il declino di Nasser, indusse ad un atteggiamento più prudente la Giordania,
determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Olp
(Organizzazione per la liberazione della Palestina) dalla tutela dei regimi arabi.
Guidata, a partire dal 1969, da Yasir Arafat, l’Olp pose le sue basi in Giordania,
creandovi una specie di Stato nello Stato. Il re di Giordania, Hussein, esposto alle
rappresaglie israeliane a causa degli attentati dei feddayn palestinesi, reagì con una
sanguinosa prova di forza. Nel settembre del 1970, il cosiddetto “settembre nero”,
mobilitò le sue truppe contro i feddayn e i profughi palestinesi, che furono costretti a
183
riparare nel vicino Libano. Da allora l’Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul
piano internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi. Nel
1970, Nasser morì. Il suo successore Anwar Sadat, procedette ad una revisione della
politica egiziana. Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con
Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe
egiziane attaccarono di sorpresa le linee israeliane, dilagando nel Sinai. Tuttavia,
Israele riuscì a capovolgere le sorti del conflitto, grazie anche a massicci aiuti
americani. La guerra del Kippur ebbe scarsi risultati sul piano territoriale: li ebbe,
invece, su quello psicologico e morale. Da un lato, fu scosso il mito dell’invincibilità
israeliana, dall’altro, la chiusura del canale di Suez e il blocco petrolifero decretato
dagli Stati arabi contro i paesi occidentali amici di Israele, diedero alla crisi una
dimensione globale.
Già nell’agosto del 1971, gli Stati Uniti decisero di sospendere la convertibilità del
dollaro in oro, convertibilità che rappresentava il pilastro del sistema monetario
internazionale costruito con gli accordi di Bretton Woods del 1944. Era il segno di un
grave disagio dell’economia americana esaurita dalla guerra in Vietnam e afflitta dal
deficit della bilancia commerciale. Ancora più sorprendente fu la decisione presa dai
paesi produttori di petrolio, nel novembre 1973, di quadruplicare il prezzo della
materia prima. Lo “shok petrolifero” colpì, in varia misura, tutti i paesi
industrializzati e fu fattore scatenante di una grave crisi economica. Ovunque la
produzione industriale fece registrare un brusco calo e, contrariamente a quanto era
accaduto nelle crisi del passato, la recessione produttiva si accompagnò ad una
184
generale tensione inflazionistica con tassi di aumento dei prezzi, nei paesi
industrializzati, superiori anche al 20% annuo. Questo fenomeno, definito
stagflazione, determinò la crescita della disoccupazione, che si mantenne molto
elevata per tutto il decennio successivo. Un problema che, tuttavia, venne reso meno
drammatico dalla presenza, nei paesi europei, di “ammortizzatori sociali”, quali i
sussidi di disoccupazione e le sovvenzioni statali alle industrie in crisi.
A poco a poco, il presidente Sadat si convinse della necessità di trovare una soluzione
politica al conflitto con Israele e dunque di avvicinarsi agli Stati Uniti. Nel 1974-
1975, espulse i tecnici sovietici dall’Egitto, congelò i rapporti con l’Urss e iniziò una
politica filo-occidentale. Nel 1977, compì un viaggio a Gerusalemme e formulò
personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Si
giunse così, con la mediazione del presidente americano Carter, agli accordi di Camp
David, del settembre 1978, fra Sadat e il primo ministro israeliano Begin. L’Egitto
ottenne la restituzione del Sinai e stipulò con Israele un trattati di pace, che
rappresentò un grande evento storico capace di sopravvivere alla morte di Sadat,
ucciso nel 1981 in un attentato di integralisti islamici. Tuttavia, non fu sufficiente a
mettere in moto un generale processo di pacificazione nell’area mediorientale.
Gli accordi di Camp David prevedevano successivi negoziati per un regolamento
totale nella regione: negoziati mai avviati. L’ostacolo principale venne dagli Stati
arabi e dall’Olp, che denunciavano il tradimento dell’Egitto e rifiutavano ogni
trattativa. Successivamente, a partire dalla metà degli anni ’80, gli Stati arabi
“moderati” e la stessa dirigenza dell’Olp, assunsero una posizione più morbida e,
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sfidando la condanna del cosiddetto “fronte del rifiuto”, si dissero disposti a trattare
con Israele e a riconoscere la sua esistenza, in cambio del suo ritiro dai territori
occupati, ossia Cisgiordania e striscia di Gaza, dove sarebbe dovuto sorgere uno
Stato palestinese. Ma i dirigenti dello Stato ebraico rifiutarono le trattative con l’Olp
di Arafat. La tensione si accrebbe ulteriormente quando, a partire dalla fine del 1987,
i palestinesi dei territori occupati diedero vita ad una rivolta, detta intifada, ossia
risveglio, contro gli occupanti, che reagirono con una dura repressione.
I riflessi dell’irrisolto nodo palestinese si erano fatti sentire anche in Libano: un
piccolo Stato pluriconfessionale, rimasto sempre ai margini del conflitto arabo-
israeliano, dove l’Olp aveva trasferito le sue basi dopo il “settembre nero”. Ben
presto il fragile equilibrio del piccolo Stato si dissolse ed iniziò una sanguinosa
guerra civile. La situazione si aggravò nel 1982, quando l’esercito israeliano invase il
paese, spingendosi sino a Beirut per cacciare le basi dell’Olp. Il successivo invio a
Beirut di una forza multinazionale di pace da parte di Stati Uniti, Francia, Italia e
Gran Bretagna, consentì l’evacuazione dei combattenti dell’Olp, ma non portò la
calma nel paese. Da allora il Libano rimase lacerato da lotte intestine, che avrebbero
poi fornito alla vicina Siria il pretesto per intervenire nel paese e imporvi una sorta di
protettorato.
Quello fra Israele e il mondo arabo non fu certo l’unico conflitto, che interessò nel
secondo dopoguerra l’inquieta area mediorientale. Un altro scontro fu quello, che
oppose e tuttora oppone, le forze laiche rivoluzionarie e conservatrici, ma comunque
aperte all’influenza dell’Occidente, ai movimenti integralisti.
186
Le correnti laiche avevano, sin dal primo dopoguerra, la loro roccaforte nella
Turchia: paese rivolto più verso l’Europa che l’Asia, membro della Nato dal 1952,
retto da istituzioni rappresentative di tipo occidentale.
Le correnti integraliste trovarono, alla fine degli anni ’70, un punto di riferimento in
Iran. Paese vasto e popoloso, l’Iran era stato sino ad allora accanto alla Turchia, il
principale pilastro della presenza occidentale e in particolare americana in Medio
Oriente, dopo la seconda guerra mondiale. Il paese era stato governato con metodi
autoritari dallo scià (imperatore) Rheza Palhavi. A partire dagli anni ’60, lo scià
aveva iniziato una politica di modernizzazione, che mirava a trasformare il paese in
una grande potenza militare, ma che non si tradusse in significativi progressi nella
condizione di vita delle masse. Questa politica creò opposizioni da parte dei gruppi di
sinistra, ma anche del clero islamico tradizionalista che, dal 1978, assunse la guida di
un vasto movimento di protesta popolare. Lo scià tentò di frenare la rivolta con
repressioni, poi chiamando al governo politici moderati dell’opposizione. Tuttavia,
nel 1979, abbandonato dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. In Iran, si instaurò
così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata ad un vago riformismo
sociale, basato sui dettami del Corano e guidata dall’ayatollah Khomeini, massima
autorità dei musulmani sciiti, che aveva capeggiato dall’esilio di Parigi
l’opposizione religiosa al regime dello scià. Il nuovo governo, antioccidentale e
antiamericano, entrò in contrasto con gli Stati Uniti. Per oltre un anno, il personale
dell’ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti
islamici, che agivano con l’appoggio delle autorità locali. L’Iran, isolato
187
internazionalmente e dissestato a livello economico, nel settembre del 1980 fu
attaccato dal vicino Iraq, che cercava di profittare della situazione per impadronirsi di
alcuni territori, da tempo contesi tra i due paesi. La guerra si protrasse, con fasi
alterne, per ben otto anni e si risolse in un’inutile carneficina.
La fine delle ostilità e la morte di Khomeini aprirono qualche spazio alle componenti
meno estremiste del regime iraniano, che negli anni precedenti aveva contribuito non
poco all’instabilità dell’intera area mediorientale.
Nell’agosto del 1990, il dittatore dell’Iraq, Saddam Hussein, già protagonista della
guerra d’aggressione contro l’Iran, invase il piccolo Emirato del Kuwait, affacciato
sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori di petrolio. Tale invasione venne
condannata dalle Nazioni Unite che, con voto pressoché unanime, decretarono
l’embargo nei confronti dell’aggressore. Contemporaneamente, gli Stati Uniti
inviavano in Arabia Saudita un corpo di spedizione, sia per difendere gli Stai arabi
minacciati, sia per esercitare pressione su Saddam e costringerlo al ritiro. Alla
spedizione si univano anche alcuni Stati europei, tra cui l’Italia. Decisivo fu
l’atteggiamento dell’Unione Sovietica, che in analoghe situazioni si era schierata a
fianco del nazionalismo arabo. Gorbačëv non si oppose all’intervento armato e
consentì, così, alle forze multinazionali di agire sotto la copertura della Nazioni
Unite.
Il dittatore iracheno reagì cercando di stabilire un collegamento fra l’occupazione del
Kuwait e il problema dei territori palestinesi sopraffatti da Israele. Egli voleva
presentarsi come il vendicatore delle masse arabe oppresse e come il banditore di una
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guerra santa. Alla fine di novembre, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvava a
stragrande maggioranza una risoluzione, che imponeva all’Iraq di ritirarsi dal Kuwait,
autorizzando, in caso contrario, l’impiego della forza. Nella notte tra il 16 e il 17
gennaio 1991, la forza multinazionale scatenava un violento attacco aereo contro
obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispose lanciando missili
sull’Arabia Saudita e su Israele. Alla fine di febbraio, scattava l’offensiva di terra
contro le forze irachene in Kuwait. Inferiore per tecnologia e privo di copertura aerea,
l’esercito iracheno cedeva di schianto, abbandonando il Kuwait. Ottenuto lo scopo
principale e ufficiale dell’intervento, il presidente Bush decideva di arrestare
l’offensiva della forza multinazionale per evitare il rischio di complicazioni
diplomatiche. Saddam, politicamente, sopravviveva alla sconfitta, nonostante i
tentativi di ribellione delle minoranze sciite. Ma gli Stati Uniti risultavano
trionfatori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio militare, dopo la vicenda
del Vietnam.
Nell’ottobre del 1991, a Madrid, fu convocata la prima sessione di una conferenza di
pace sul Medio Oriente, in cui i rappresentanti del governo israeliano incontrarono
delegazioni dei paesi confinanti ed esponenti palestinesi dei territori occupati.
Nel giugno dell’anno successivo, un’ulteriore spinta al processo di pace venne dalla
vittoria del Partito laburista nelle elezioni politiche israeliane, dopo quasi un
ventennio di egemonia del Fronte nazionalista. Il nuovo primo ministro, Rabin,
bloccò i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati e si mostrò propenso a
concessioni territoriali, in cambio di pace con i paesi confinanti. Ma la svolta storica
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si concretizzò nel 1993, quando Rabin e il ministro degli Esteri Peres presero la
sofferta decisione di eliminare l’ostacolo principale, che si opponeva allo sviluppo
dei negoziati e di trattare, quindi, direttamente con l’Olp, profittando della
disponibilità di Arafat, ormai indebolito ed isolato dal resto del mondo arabo.
Un lungo negoziato segreto portò ad un primo accordo fondato sul reciproco
riconoscimento e su un avvio graduale dell’autogoverno palestinese nei territori
occupati, a partire dalla città di Gerico e dalla striscia di Gaza. Il 13 settembre 1993,
l’accordo fu sottoscritto a Washington da Rabin e Arafat sotto gli auspici del
presedente americano Clinton. Sul negoziato gravava il peso di numerose questioni
aperte, come l’opposizione dell’ala intransigente dell’Olp e la minaccia dei
movimenti integralisti islamici.
L’attività terroristica si intensificò col frequente ricorso ad attentati suicidi. Questa
nuova violenza ebbe il suo culmine nell’uccisione di Rabin, il 4 novembre 1995.
Privato della sua guida, il Partito laburista fu sconfitto anche nelle elezioni politiche
del maggio 1996, da una coalizione di destra, guidata da Netanyahu.
La vittoria della destra segnò una battuta di arresto nel processo di pace, ma non ne
interruppe il cammino. Il dialogo fra le parti fu rilanciato nel 1999 dalla vittoria,
nelle elezioni politiche israeliane, di una coalizione di centro-sinistra guidata da
Barak.
Nell’estate del 2000, il presidente Clinton convocò le parti per una nuova tornata di
colloqui di pace, a Camp David. Questa volta gli israeliani si mostrarono disposti a
trattare anche su problemi delicati, come quello di Gerusalemme e del ritorno dei
190
profughi nel futuro Stato palestinese. L’accordo per una pace definitiva fu, però,
ancora mancato.
Ad innescare un nuovo scontro, alla fine di settembre, fu la visita di Sharon, leader
della destra israeliana alla spianata delle Moschee di Gerusalemme: una provocazione
agli occhi palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. Si sviluppò, così,
una seconda intifada, più cruenta della prima. L’inasprirsi dello scontro e il
conseguente diffondersi di un senso di paura, portarono alla crisi del governo di
Barak e, nel febbraio 2001, ad elezioni anticipate, che videro la vittoria del centro-
destra, guidato da Sharon. Il nuovo governo di grande coalizione alzò il livello della
risposta militare e giunse a contestare l’autorità di Arafat, considerato un
interlocutore non più credibile. Tuttavia né la repressione, né i tentativi di
mediazione condotti soprattutto dagli Stati Uniti riuscirono a riavviare il dialogo tra
le due parti.
191
L’Italia dagli anni ’60 alla crisi della prima repubblica
Tra il 1958 e il 1963 giunse al culmine il processo di crescita economica, iniziato in
Italia dopo il 1950. Furono gli anni del miracolo economico, in cui l’Italia ridusse
sensibilmente il divario, che la separava dalla maggior parte dei paesi più
industrializzati. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manifatturiera, che nel
1961 giunse a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico. L’aspetto più
evidente della crescita economica fu rappresentato dallo sviluppo delle esportazioni
dei prodotti industriali. Molti erano stati i fattori che avevano permesso il miracolo:
la congiuntura internazionale favorevole, la politica di libero scambio avviata negli
anni ’50 e sancita dall’adesione alla Cee, la modesta entità del prelievo fiscale e
soprattutto lo scarto che si venne a creare fra l’aumento della produttività e il basso
livello dei salari, il che consentì alti profitti e tassi di investimento elevati. Molto
limitata fu, invece, la modernizzazione delle attività agricole, che mantennero un
tasso di sviluppo modesto e una scarsa produttività.
Un fenomeno caratterizzante gli anni ’60, in Italia, fu il vistoso e massiccio esodo dal
Sud al Nord e dalle campagne verso le città. Nelle zone appenniniche del Centro-Sud
si registrò un vero spopolamento. La crescita delle città, anche di quelle non
industriali, si accompagnò ad un forte incremento dell’occupazione, nei settori del
commercio e dell’edilizia.
La televisione e l’automobile furono i simboli principali di questo cambiamento.
In campo politico, negli anni ’60, si ebbe un allargamento delle basi del sistema
partitico, attraverso l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. La svolta maturò in
192
seguito ad una serie di avvenimenti. Nella primavera del 1960, il democristiano
Fernando Tambroni, non trovando un accordo con socialdemocratici e repubblicani,
formò un governo monocolore, con l’appoggio determinante dei voti del Movimento
sociale. Ciò suscitò le proteste dei partiti laici e della stessa sinistra Dc, i cui
rappresentanti si dimisero dal governo. La tensione esplose alla fine di giugno,
quando il governo autorizzò il Msi a tenere il suo congresso nazionale a Genova,
nonostante l’opposizione della forze democratiche cittadine. La decisione, che fu
interpretata come un prezzo pagato da Tambroni per l’appoggio parlamentare dei
neofascisti, suscitò una rivolta popolare: per 3 giorni operai e militanti antifascisti si
scontrarono con la polizia, che cercava di garantire lo svolgimento del congresso.
Alla fine il governo cedette e il congresso fu rinviato. Tuttavia, altre manifestazioni
antigovernative, dilagarono in molte città, sino a che lo stesso Tambroni, sconfessato
dalla Dc, fu costretto a dimettersi. Si formò, così, un nuovo governo, presieduto da
Amintore Fanfani, che ottenne l’astensione dei socialisti in Parlamento, aprendo così
la stagione politica del “centro-sinistra”. La nuova alleanza fu sancita dal congresso
della Dc, che si tenne nel gennaio del 1962, grazie al sapiente operato del segretario
Aldo Moro, il quale riuscì a fare accettare la svolta al grosso del suo partito. Un
nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo 1962, e composto da Dc, Pri, Psdi, si
presentò con un programma concordato col Psi, che si impegnava a dare il suo
appoggio ai singoli progetti legislativi. Fu proprio in questa fase che il centro –
sinistra conseguì i risultati più avanzati. Il programma di governo prevedeva la
realizzazione della scuola media unificata, l’attuazione dell’ordinamento regionale
193
previsto dalla Costituzione, l’imposizione fiscale nominativa per i titoli azionari e la
nazionalizzazione dell’industria elettrica. Quest’ultimo progetto fu portato a termine
nel dicembre 1962, con la creazione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica
(Enel). Nel gennaio del 1963, fu approvata la legge che istituiva la scuola media
unica, mentre la nominatività dei titoli azionari, già nel 1964, venne radicalmente
modificata. L’attuazione delle regioni poi, temuta dalla Dc perché avrebbe rafforzato
i poteri locali, fu rinviata.
I contrasti nella maggioranza furono esasperati dall’esito delle elezioni dell’aprile
1963. La perdita dei voti della DC e del Psi, il successo dei liberali e il rafforzamento
dei comunisti, accentuarono le resistenze moderate in seno alla Dc e inasprirono le
divisioni interne al Psi. Si formò un nuovo governo “organico” di centro-sinistra,
sotto la presidenza di Aldo Moro, che nacque su basi più moderate rispetto al
precedente. A partire dal 1963, il processo riformatore fu praticamente bloccato,
anche per il manifestarsi dei primi segni di crisi economica, che sembravano
suggerire una politica più cauta. Inoltre, si facevano sempre più sentire voci ostili al
centro-sinistra, che annoveravano, tra le loro file, lo stesso Presidente della
Repubblica, Antonio Segni.
Ma gli ostacoli più seri ad una politica innovatrice, venivano dall’interno della
coalizione governativa, in particolare dall’esigenza della Dc di mantenere unito il
composito fronte di forze economiche e sociali, che costituiva la sua base di
consenso: un fronte in cui le istanze di rinnovamento erano nettamente minoritarie
rispetto al peso dei gruppi moderati, che avevano accettato a malincuore la politica
194
del centro – sinistra. Anche il Psi era, tuttavia, in difficoltà. Nel 1964, la minoranza di
sinistra, diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), che si opponeva alle
scelte governative e non voleva rinunciare ad una alleanza col Pci.
Frattanto, nell’agosto dello stesso anno, Togliatti moriva lasciando al partito una
pesante eredità, ma indicando nel cosiddetto memoriale di Yalta, una linea che
riaffermava il principio dell’indipendenza da Mosca e l’originalità della via italiana al
socialismo. Il Pci restava, tuttavia, in una posizione di isolamento, che non fu
attenuata neppure dal contributo determinante dei voti comunisti per l’elezione, alla
presidenza della Repubblica, del leader socialdemocratico Giuseppe Saragat.
Nonostante le difficoltà incontrate, la formula del centro – sinistra durò per oltre un
decennio, con i governi presieduti sino al ’68 da Moro, poi da Mariano Rumor e da
Emilio Colombo. Ma, si sarebbe esaurita rivelandosi inadeguata a fronteggiare i
problemi di una società articolata e complessa.
Intanto, tra il 1967 e il 1968, la mobilitazione degli studenti portò all’occupazione di
numerose università e a grandi manifestazioni di piazza. La critica alla società
borghese divenne rifiuto della prassi politica tradizionale, esaltazione della
democrazia di base e del momento assembleare, dell’egualitarismo e della
spontaneità. Il movimento studentesco del ’68 individuò il suo interlocutore
privilegiato nella classe operaia. L’operaismo fu anche il tratto distintivo di alcuni tra
i nuovi gruppi politici che, proprio perché distaccati dai tradizionali rappresentanti
del parlamento, furono definiti “extraparlamentari”. Avviatesi in modo spontaneo in
alcune grandi fabbriche nel Nord, le lotte ebbero come protagonista l’operaio massa,
195
ossia il lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato, sul quale maggiormente
gravavano i disagi nel contesto urbano.
Le tre maggiori organizzazioni sindacali riuscirono a prendere in mano la direzione
delle lotte e a pilotarle verso la conclusione di contratti nazionali, che assicurarono ai
lavoratori dell’industria, cospicui vantaggi. Il nuovo peso delle organizzazioni
sindacali fu favorito dall’approvazione, da parte del Parlamento, nella primavera del
1970, dello Statuto dei lavoratori, una serie di norme che garantivano libertà
sindacale e i diritti dei lavoratori all’interno delle aziende.
Fra il ’68 e il ’70 vennero approvati i provvedimenti relativi all’istituzione delle
regioni e, nel giugno del 1970, si tennero le prime elezioni regionali. Nel dicembre
dello stesso anno, con l’appoggio delle sinistre e dei partiti laici e con l’opposizione
della Dc, fu approvata la legge che introduceva il divorzio in Italia.
Nei primi anni ’70, la debolezza dell’esecutivo apparve, in tutta la sua evidenza, di
fronte al manifestarsi del terrorismo politico. Il 12 dicembre 1969, in pieno “autunno
caldo”, una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca
nazionale dell’agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. L’incapacità da parte
dello Stato di risolvere il caso fu messa sotto accusa dalla stampa di sinistra e
dall’opinione pubblica. La conferma dei pericoli corsi dalle istituzioni venne,
nell’estate del 1970, dalla rivolta di Reggio Calabria, che vide un’intera città
esasperata per non essere stata designata come capoluogo dell’appena istituita
regione, unita in una vera e propria rivolta guidata da esponenti del Msi.
196
Né il governo centrista, composto da democratici, socialdemocratici e liberali e
guidato da Giulio Andreotti nel ’72-’73, né i successivi governi di centro-sinistra
guidati da Rumor, furono in grado di compiere scelte politiche di ampio respiro e di
affrontare i veri problemi del paese.
A tutto ciò si aggiunse un crescente disagio morale, provocato da una serie di
scandali in cui furono coinvolti esponenti della maggioranza, messi sotto accusa per
aver favorito gruppi di pressione italiani e stranieri, in cambio di tangenti destinate a
finanziare i rispettivi partiti. La rapida adozione, nell’aprile del 1974, della legge sul
finanziamento pubblico dei partiti, rappresentati in Parlamento, non servì a sanare la
frattura tra società politica e società civile. Sempre nel 1974, venne sottoposta a
referendum abrogativo la nuova legge sul divorzio. Si assistette così ad una grande
mobilitazione, che vedeva opposte alle forze laiche, in particolare al piccolo Partito
radicale nato nel 1958, i gruppi cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi.
Il netto successo dei divorzisti fece comprendere che la società italiana era cambiata.
Nel 1975, vennero approvate, inoltre, altre due leggi: la riforma del diritto di
famiglia, che sanciva la parità giuridica tra i coniugi e l’abbassamento della
maggiore età, cui era legato il diritto di voto, da ventuno a diciotto anni. Tre anni più
tardi, dopo un lungo ed acceso dibattito, il Parlamento approvò la legge, che
legalizzava e disciplinava l’interruzione volontaria della gravidanza.
Intanto, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, sostenne la necessità di giungere ad
un compromesso storico, ossia ad un accordo di lungo periodo fra le forze comuniste,
socialiste e cattoliche, come unica via per scongiurare i rischi di soluzioni autoritarie,
197
indispensabile per allargare la base dell’azione riformatrice. In seguito, il Pci stabilì
contatti con i comunisti francesi e spagnoli per avviare una politica comune in Europa
occidentale, con connotati diversi dal comunismo sovietico (si parlò così di
eurocomunismo).
Nelle elezioni del 1976, il Pci avanzò ulteriormente e raggiunse il suo massimo
storico (34,4%).
Nell’agosto dello stesso anno, si giunse alla costituzione di un governo monocolore
democristiano guidato da Andreotti, che ottenne l’astensione in Parlamento di tutti gli
altri partiti, esclusi il Msi e i radicali. Era una risposta unitaria della classe politica ad
una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal
dilatarsi del fenomeno del terrorismo. Dopo la strage di Piazza Fontana, vi furono le
bombe in piazza della Loggia a Brescia e quelle su treno Italicus, come pure
l’attentato alla stazione di Bologna, nell’agosto del 1980. Il tratto distintivo del
terrorismo di destra era il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, capaci
quindi di provocare atroci stragi.
Dall’altra parte si sviluppò il terrorismo di sinistra, sorto soprattutto dinnanzi
all’immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica. Ai primi isolati
attentati incendiari, seguirono i sequestri di dirigenti e magistrati: il più clamoroso fu
quello del giudice Sossi, nell’aprile 1974. Nel 1976, con l’uccisione del procuratore
generale di Genova, Coco, si giunse all’assassinio programmato. Gli autori di queste
stragi appartenevano alle Brigate Rosse, il primo e più pericoloso gruppo terroristico
di Sinistra.
198
Nel 1978, le Brigare rosse misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo,
il giorno stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo Andreotti, un
commando brigatista rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. A quella giornata, vissuta
dal paese con rabbia e sgomento, seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche. Il 9
maggio, Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato in una strada al centro di
Roma. Questo delitto evidenziò la gravità del fenomeno terroristico, ma avviò anche
una progressiva presa di distanze dall’area eversiva, da parte di quanti avevano
coltivato fino ad allora ambigue solidarietà.
Nel non facile clima politico creatosi dopo l’assassinio di Moro, il governo di
solidarietà nazionale cercò di riavviare il risanamento dell’economia, aiutato
dall’atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di austerità, e
da una relativa moderazione delle richieste sindacali. Nel ’78 l’inflazione scese di
qualche punto, mentre la legge sull’equo canone, che aveva lo scopo di regolare il
livello degli affitti, produsse effetti disastrosi, perlomeno nelle grandi città. In questi
anni si mantenne la pratica della lottizzazione, ossia la spartizione delle cariche
pubbliche in base all’appartenenza partitica. Gli scandali giunsero sino alla
presidenza, costringendo alle dimissioni il capo della Stato, il democristiano
Giovanni Leone, accusato di connivenze con gruppi affaristici. Al suo posto venne
eletto, col voto di tutti i partiti dell’arco costituzionale, Sandro Pertini, figura di
indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi una vastissima popolarità.
Il nuovo corso dato da Bettino Craxi alla politica socialista, centrato sul recupero
della tradizione riformista, in aperta polemica col Pci, rendeva sempre più difficile la
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collaborazione all’interno della maggioranza e ricreava le condizioni per una ripresa
dell’alleanza tra Psi e i partiti di centro. I comunisti chiedevano, intanto, l’ingresso a
pieno titolo nell’esecutivo. Ma, nel gennaio 1979 il Pci, in contrasto con gli altri
partiti sui problemi di politica estera ed economica, abbandonò la maggioranza. La
crisi che seguì, portò a nuove elezioni. I risultati delle stesse elezioni del 1979 e di
quelle anticipate del giugno 1983, segnarono significativi mutamenti nel panorama
politico. Nel 1979, il Pci registrò una secca sconfitta. La Dc invece, stabile nel ’79,
subì una chiara perdita di consensi nel 1983. Il Psi raccolse in entrambe le elezioni
risultati deludenti. Nel 1981, per la prima volta, la Dc cedette la guida del governo al
segretario del Partito repubblicano, Giovanni Spadolini, appoggiato da un governo
pentapartitico. Nel 1983, prese le redini del paese Bettino Craxi, che cercò di
potenziare il ruolo dell’esecutivo e di affermare una presenza più evidente dell’Italia
nella politica internazionale. Nel febbraio del 1984, venne stipulato un nuovo
concordato con la Santa Sede, che ritoccava gli accordi nel 1929, lasciandone cadere
le clausole più anacronistiche.
All’interno della Dc, Ciriaco De Mita cercò di restituire al partito credibilità ed
efficienza. L’immagine del partito dalle mani pulite e il carisma di Berlinguer
conservarono ai comunisti una larga base elettorale. L’emozione seguita
dall’improvvisa morte del segretario comunista, nel 1984, fu tra i fattori che
portarono il Pci, nelle elezioni europee tenutesi dopo pochi giorni, a raggiungere per
la prima volta, l’obiettivo del sorpasso sulla Dc. Ma, nelle successive elezioni
amministrative, i comunisti tornarono sotto il 30%.
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Nel 1985, divenne presidente della Repubblica, con una larga maggioranza, Franceso
Cossiga, che tuttavia non riuscì ad evitare la crisi del pentapartito. Tra il 1987 e il
1988 si alternarono due governi: l’uno presieduto da Giovanni Goria, l’altro da
Ciriaco De Mita. Entrambi non raggiunsero i risultati sperati; in particolare De Mita
si trovò in difficoltà, sia per la conflittualità dei partner della coalizione, sia per i
contrasti interni alla stessa Dc.
Anche il ritorno al governo di Andreotti, non riuscì però a riportare nella
maggioranza la compattezza necessaria. Nella primavera del 1991, egli dovette
affrontare una nuova crisi, perdendo uno dei suoi alleati migliori: il Partito
repubblicano.
L’intero sistema politico finiva così sotto accusa. La Prima repubblica crollava sotto
il peso degli scandali finanziari, della corruzione e del sistema dei privilegi. Le
sollecitazioni indotte da nuove forze politiche e dai cambiamenti dell’assetto
internazionale accelerarono la crisi: si andava, così, verso la Seconda Repubblica.
201
Verso la crisi del sistema bipolare
Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973 furono, per l’Europa occidentale,
anni di serie difficoltà economiche e di importanti mutamenti politici.
Tutti i paesi della Cee furono colpiti dal rincaro dei prezzi del petrolio. L’istituzione,
nel 1979, del Sistema monetario europeo non fu sufficiente a coordinare, in modo
efficace, le politiche economiche dei paesi membri della Comunità.
Nel complesso, pur restando una delle aree più sviluppate del pianeta, l’Europa
occidentale perse terreno rispetto agli Stati Uniti ed al Giappone. La sua dipendenza
militare dall’alleato di oltre Atlantico si accentuò man mano che saliva il livello
tecnologico del confronto fra i due blocchi: un confronto che toccò punte di forte
tensione alla fine degli anni ’70, quando i membri europei della Nato decisero
l’istallazione di nuovi missili a media gittata, gli euromissili, per rispondere allo
spiegamento di armi analoghe da parte dell’Urss.
Sul piano delle politiche interne, nella metà degli anni ’70, vennero messe in crisi
soprattutto le socialdemocrazie dell’Europa settentrionale.
I laburisti inglesi, dopo aver ripreso il potere nel 1974, lo persero nel 1979, a favore
dei conservatori. Il governo di Margaret Thatcher, presentatosi su una piattaforma di
intransigente liberalismo, lanciò un attacco contro il potere delle Trade Unions, mise
in discussione i fondamenti del Welfare State, privatizzò settori importanti
dell’industria pubblica. Nel 1990, tuttavia, la Thatcher dovette lasciare la guida
dell’esecutivo ad un altro conservatore, John Major, in seguito alla ribellione del suo
202
stesso partito, che non approvava alcune impopolari misure fiscali e non condivideva
la sua ostinata opposizione ai progetti di integrazione europea.
In Germania federale, l’era dei socialdemocratici si concluse nel 1983, con l’ascesa al
governo del cristiano-democratico Helmuth Kohl. La sconfitta della Spd fu
determinata soprattutto dai contrasti di politica estera: in particolare dalle perplessità
dei socialdemocratici, circa l’installazione degli euromissili in Germania.
In Francia, al contrario, l’Unione delle Sinistre s’impose nelle elezioni dell’’81,
portando alla presidenza il socialista François Mitterand. Ma l’Unione delle Sinistre
finì ben presto col deludere le aspettative. Le difficoltà dell’economia indussero i
socialisti ad accantonare i progetti di riforma più ambiziosi e ad adottare una serie di
misure restrittive: ciò provocò la rottura col Partito comunista, schierato su posizioni
di intransigenza. Tale rottura non impedì però a Mitterand di ottenere, nel 1988, un
secondo mandato, né al partito socialista di continuare a governare, sino alla sconfitta
nel 1993.
In Portogallo, dopo la morte di Salazar, nel 1970, iniziò un processo di
democratizzazione, portato avanti con l’aiuto della stessa opinione pubblica locale.
Dal 1975, vi fu così un’alternanza al governo del paese tra i socialisti di Mario
Soares e le forze dei moderati di centro-destra.
In Grecia, a porre fine alla dittatura dei colonnelli fu, nel 1974, l’esito disastroso di
un colpo di mano, mirante ad ottenere l’annessione alla Grecia dell’isola di Cipro, da
sempre divisa tra una comunità turca ed una greca. Travolti dall’insuccesso, i militari
dovettero lasciare il potere ai partiti democratici. Sempre nel 1974, un referendum
203
popolare aveva sancito la fine della monarchia, per altro già estromessa dalla dittatura
dei colonnelli.
In Spagna un ruolo importante e positivo fu svolto dalla monarchia. Il re Juan Carlos
di Borbone, insediato nel 1975, dopo la morte di Franco, seppe ben pilotare il paese
verso la democrazia. Il sovrano chiamò alla guida del governo Suarez, giovane uomo
politico cresciuto nelle file del franchismo, ma convinto dell’opportunità di un
radicale rinnovamento politico. Il re legalizzò i partiti e i sindacati liberi e fece
approvare, per referendum, una costituzione democratica. Nonostante il terrorismo
dei separatisti baschi, la democrazia spagnola si consolidò e sopportò senza scosse il
cambio di potere verificatosi nel 1982, con la vittoria dei socialisti.
Il ritorno alla democrazia in Spagna, Portogallo e Grecia, rappresentò una tra le più
rilevanti novità della storia recente dell’Europa e, tra l’altro, consentì un allargamento
della Cee, cui aderirono, appunto, tutti e tre i paesi.
Negli anni ’70, anche gli Stati Uniti dovettero affrontare una serie di difficoltà. Prima
la crisi del dollaro, nel 1971, poi la sconfitta in Vietnam. Quindi, una grave crisi
interna, il cosiddetto caso Watergate, che nel 1974 costrinse alle dimissioni il
presidente Nixon, accusato da una efficace campagna giornalistica di aver coperto i
comportamenti illegali di alcuni suoi collaboratori, responsabili di un’operazione di
spionaggio ai danni del Partito democratico.
Nel 1976, salì al potere Jimmy Carter, dopo due anni di presidenza alquanto incolore
di Gerald Ford. Carter cercò di risollevare il prestigio del paese, sostituendo alla
Realpolitik di Nixon, una linea di tipo wilsoniano, fondata sul riconoscimento del
204
diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani. Una linea, però, portata
avanti in modo incerto che, se da un lato contribuì a rendere tesi i rapporti con l’Urss,
dall’altro fu criticata perché lasciava spazio all’affermazione di regimi ostili agli Stati
Uniti in Africa, in Medio Oriente ed in America Latina. Nel 1980, salì alla
presidenza Ronald Reagan, anziano ex attore, esponente dell’ala destra del Partito
repubblicano. Egli si presentò con un programma liberista in economia e promise di
adottare una politica dura, nei confronti dell’Urss e di tutti i nemici dell’America. Il
successo della presidenza Reagan, confermato nelle elezioni dell’’84, si dovette
anche al buon andamento economico, grazie soprattutto allo sviluppo dei settori di
punta, in particolare quelli legati all’elettronica e alle produzioni militari. Il
mantenimento di un alto livello di armamenti costituì, inoltre, un elemento essenziale
della strategia internazionale di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Usa.
Va ricordato l’appoggio del presidente all’iniziativa di difesa strategica (Sdi), un
progetto mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale, capace di
neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica. Per quanto
riguardava la presenza americana nel mondo, essa si concretizzò nel sostegno in armi
e materiali ai guerriglieri afgani, in lotta contro i sovietici, come pure nei massicci
aiuti militari forniti ai contras del Nicaragua e nella sfida lanciata ai regimi
integralisti del Medio Oriente, la Libia di Gheddafi e l’Iran di Khomeini. Nel 1988,
grazie anche ai suoi incontri col leader sovietico Gorbačëv, e l’avvio di una nuova
fase di distensione con l’Urss, Reagan poté concludere il suo mandato presidenziale
nel migliore dei modi. Nelle elezioni del 1988, salì al potere il repubblicano George
205
Bush, politico esperto, che riprese l’eredità di Reagan, ma con uno stile più prudente
ed equilibrato (ad esempio, ridimensionò il progetto dello “scudo spaziale”).
Nei rapporti con l’Urss fu confermata una linea aperta alle trattative.
Del resto, l’Unione Sovietica riuscì, già negli anni ‘70, a mascherare i suoi gravi
problemi interni con un accentuato dinamismo in politica internazionale. Leonid
Brežnev, profittando della relativa debolezza e delle incertezze degli Stati Uniti, si
avvantaggiò nella corsa agli armamenti ed allargò la sua sfera di influenza in tutti i
continenti. Un successo effimero, e pagato a caro prezzo, fu quello ottenuto dall’Urss
nel vicino Afghanistan, uno Stato cuscinetto, situato nel cuore dell’Asia musulmana.
Per imporre nel paese un governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono
truppe, che si scontrarono per quasi 10 anni con la resistenza dei guerriglieri islamici.
Fu un’esperienza amara che, per il suo altissimo costo di vite umane, è stata spesso
paragonata all’intervento americano in Vietnam.
Nel 1975, l’Urss partecipò assieme ad altri 35 paesi alla Conferenza di Helsinki, sulla
sicurezza e la cooperazione in Europa, e ne sottoscrisse gli accordi finali, che
garantivano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà politiche fondamentali. La
mancata osservanza di tali accordi avrebbe costituito negli anni successivi un
ulteriore motivo di protesta da parte dei dissidenti e un serio ostacolo al dialogo con
l’Occidente. Una radicale svolta, si ebbe con l’ascesa al potere di Michail Gorbačëv,
rappresentante di una generazione non coinvolta direttamente dal pensiero di Stalin.
In politica economica, egli legò il suo nome alla perestrojka, ossia riforma,
proponendo una serie di interventi nel segno della liberalizzazione, volti ad inserire
206
nel sistema socialista elementi di economia di mercato. Si fece promotore, inoltre, di
una nuova Costituzione, che senza intaccare il sistema del partito unico, lasciava
spazio ad un limitato pluralismo, distinguendo la struttura dello Stato da quella del
Partito. Nel maggio 1990, venne eletto presidente dell’Urss.
Riforme economiche e liberalizzazione interna, se giovarono all’immagine dell’Urss,
evidenziarono alcune contraddizioni. Infatti, i tentativi di riforma dell’economia,
innestandosi su una realtà poco preparata ad accoglierli, finirono per suscitare
malumori. Particolarmente allarmanti furono i movimenti autonomisti, o addirittura
indipendentisti: le prime a muoversi, in tal senso, furono le tre repubbliche baltiche,
annesse all’Unione Sovietica nel 1939. Movimenti analoghi si verificarono nelle
repubbliche caucasiche e nelle regioni musulmane dell’Asia centrale. Nel 1990, la
stessa Repubblica russa, rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse
alla propria presidenza Boris Eltsin, la cui leadership fu confermata nel giugno
dell’anno seguente. Ancora più importante delle riforme risultò l’avvio di un
processo di liberalizzazione interna, condotto all’insegna della glasnost, ossia
pubblicità, trasparenza, un processo che consentì lo svilupparsi di un dibattito
politico-culturale, impensabile fino a pochi anni prima. Conseguenza delle aperture
riformiste fu l’intensificarsi del dialogo con l’Occidente. La disponibilità al
negoziato di Gorbačëv trovò un interlocutore interessato in un Reagan, desideroso di
concludere bene il suo mandato. Due successivi incontri tra i leader, uno a Ginevra
nel 1985, l’altro a Reykjavik nell’ottobre 1986, pur non raggiungendo risultati
conclusivi, chiusero una lunga stagione di incomunicabilità. Un terzo vertice, a
207
Washington, nel 1987, portò ad uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti
missilistici in Europa, un accordo che aveva anche un valore simbolico, perché per la
prima volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari. Pochi mesi dopo,
l’Urss s’impegnò a ritirare le sue truppe dall’Afganistan, ritiro che effettivamente si
ultimò nel gennaio 1989. Vi furono altri incontri tra Bush e Gorbačëv a Malta, e
ancora a Washington, che consentirono di porre le basi per successivi accordi. Sorse,
così, la speranza di un nuovo ordine internazionale basato non sull’equilibrio del
terrore. Tale nuovo ordine ebbe un inizio d’attuazione in Europa, quando a Parigi,
nel novembre 1990, nell’ambito di una riunione della Conferenza per la sicurezza e
la cooperazione in Europa, i paesi della Nato e del Patto di Varsavia, con la
significativa presenza della Germania riunificata, firmarono un trattato di non
aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. A questo punto era però
la stessa idea di ordine internazionale, basata sul condominio fra Urss e Usa ad
entrare in crisi, per l’improvviso collasso di uno dei due partner.
Prima di provocare la dissoluzione dell’Urss, la crisi del comunismo si concretizzò
all’interno dei paesi satelliti nell’Europa dell’Est.
La Polonia aveva già conosciuto una inattesa stagione di cambiamenti tra l’’80 e
l’’81, quando si era affermato un sindacato indipendente chiamato Solidarnosc, ossia
solidarietà, appoggiato dal clero cattolico e guidato dall’operaio Walesa. All’inizio,
tale sindacato venne tollerato, ma successivamente il generale Jaruzelski attuò un
vero colpo di Stato militare, assumendo i pieni poteri e mettendo fuori legge
Solidarnosc. In seguito, tuttavia, lo stesso generale riallacciò il dialogo con la Chiesa
208
e con lo stesso sindacato indipendente. Dialogo, questo, culminato negli accordi di
Danzica del 1988, con i quali il capo dello Stato si impegnava ad una riforma
costituzionale, che consentì lo svolgimento delle prime elezioni libere nel giugno
1989. Sorse così un governo di coalizione, presieduto da un esponente del sindacato
indipendente. Gli avvenimenti polacchi erano in parte il prodotto di fattori specifici,
in primo luogo la grande influenza di un clero cattolico, reso più forte ed autorevole
dall’ascesa di Karol Wojtyla al soglio pontificio.
Ma dopo la Polonia, anche l’Ungheria iniziò il suo processo di democratizzazione: i
nuovi dirigenti comunisti, nell’’89, decisi a spingere il processo riformatore fino alle
sue ultime conseguenze, riabilitarono i protagonisti della rivolta del 1956,
legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni.
La decisione più importante fu, tuttavia, la rimozione dei controlli polizieschi e delle
barriere di filo spinato al confine con l’Austria. Decisione, che aprì la prima vera
breccia nella cortina di ferro e innescò una serie di reazioni in tutto il mondo
comunista. Dal 1989, migliaia di cittadini della Germania orientale abbandonarono il
loro paese per raggiungere la Repubblica federale tedesca, attraverso l’Austria e
l’Ungheria. La fuga in massa mise in crisi il regime comunista, costringendo alle
dimissioni il segretario del partito Honecker. I nuovi dirigenti, con l’avallo di
Gorbačëv, avviarono un processo di riforme interne. Il 9 novembre 1989 furono
aperti i confini tra le due Germanie, compresi i passaggi attraverso il muro di Berlino,
simbolo della guerra fredda. Grandi masse di cittadini tedesco-orientali si recarono in
visita all’Ovest, in una atmosfera di festa. Al di là delle sue ripercussioni sull’assetto
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della Germania, la caduta del muro rappresentò un evento epocale e venne assunto
come simbolo della fine delle divisioni, che avevano per anni separato in due
l’Europa.
210
La crisi politica in Unione sovietica e nell’Europa orientale
Gli avvenimenti tedeschi accelerarono ulteriormente il ritmo delle trasformazioni
nell’Europa dell’Est. In Cecoslovacchia una serie di manifestazioni popolari
determinò la caduta del gruppo dirigente comunista, legato alla normalizzazione del
dopo ’68, e l’apertura di un processo di democratizzazione. In dicembre, il
Parlamento, presieduto da Dubček, elesse alla presidenza della Repubblica lo
scrittore Vaclav Havel, già perseguitato dal regime comunista.
In Romania, il mutamento di regime si svolse in un clima drammatico, per la
resistenza opposta dalla dittatura personale di Nicolae Ceausescu, abbattuta nel
dicembre ‘89 da un’insurrezione popolare, dopo un sanguinoso tentativo di
repressione. Ceausescu fu messo a morte insieme alla moglie Elena. Alla fine del
1989, anche in Bulgaria, fu avviato un lento processo di liberalizzazione.
Se in Romania i leader “neocomunisti” riuscirono a mantenere il controllo del
processo riformatore, negli altri paesi dell’ex blocco dell’Est, la democratizzazione
finì col travolgere quegli stessi gruppi dirigenti, che l’avevano avviata ed avevano
cercato di adeguarsi fino al punto da cambiare la denominazione dei loro partiti.
In Ungheria le prime elezioni libere, nel 1990, segnarono l’affermazione di un partito
di centro-destra e la sconfitta degli ex comunisti. In Cecoslovacchia, nelle elezioni di
giugno, la vittoria andò ad una formazione di centro-sinistra. In Polonia, le elezioni
presidenziali, sempre nel 1990, videro la divisione del movimento di Solidarnosc, che
portò in ogni caso alla guida dello Stato il suo leader storico, Walesa.
211
In Bulgaria e in Albania gli eredi dei partiti comunisti mantennero il potere nella fase
di transizione, ma furono sconfitti nelle successive consultazioni politiche. Un
discorso a parte deve essere fatto per la Jugoslavia, dove già dopo la morte di Tito,
nel 1980, era in atto una grave crisi economica ed istituzionale. Qui l’esito delle
prime elezioni libere accentuò le spinte centrifughe, già operanti all’interno dello
Stato federativo: mentre le Repubbliche di Slovenia e Croazia davano la vittoria ai
partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neocomunismo nazionalista di Milošević,
deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita.
Le conseguenze più clamorose si verificarono, però, nella Germania dell’Est, dove le
elezioni, nel marzo 1990, punirono non solo gli ex comunisti, ma anche i
socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra. La vittoria andò ai cristiano-
democratici, che accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statuale, la
Repubblica democratica tedesca, ormai priva di ogni legittimità e svuotata di
qualsiasi funzione storica. In questa situazione s’inserì efficacemente il governo
Kohl, che riuscì, in pochi mesi, a preparare l’assorbimento della Germania orientale
nelle strutture istituzionali ed economiche della Repubblica federale tedesca e a fare
accettare, anche all’Urss e ai paesi dell’est europeo, la nuova realtà di una Germania
unita. In maggio, i due governi firmarono un trattato per l’unificazione economica e
monetaria. Il 3 ottobre 1990, dopo che il leader Gorbačëv aveva dato il suo assenso
alla riunificazione e dopo che la Polonia era stata tranquillizzata da una solenne
dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi, entrò in vigore il vero e proprio trattato
d’unificazione: la Germania tornò a essere, dopo oltre un quarantennio di divisione,
212
uno Stato unitario, potenzialmente il più forte e il più dinamico dell’intero continente
europeo.
Se la caduta del muro di Berlino nel 1989 aveva simboleggiato la fine della divisione
del mondo in due blocchi, il collasso dell’Unione Sovietica avrebbe determinato un
mutamento sostanziale negli equilibri internazionali. La crisi si acutizzava sempre di
più a causa dell’aggravarsi anche della situazione economica. Gorbačëv cercò di
reagire, mediando fra le spinte liberalizzatici e le pressioni dell’ala dura del partito.
Questo fragile equilibrio si ruppe nell’agosto 1991, quando un gruppo di esponenti
del Partito comunista, del governo e delle forze armate tentò un colpo di Stato,
esautorando lo stesso presidente, sequestrato nella sua casa in Crimea. Il golpe, però,
fallì clamorosamente di fronte ad un’inattesa protesta popolare e al mancato sostegno
dell’esercito. Decisivo fu il ruolo del presidente della Russia, Eltsin, che dopo aver
capeggiato la resistenza popolare ed aver imposto la liberazione di Gorbačëv, si
propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso
presidente sovietico. Il fallimento del golpe di agosto, se da un lato valse a spazzare
via quanto restava del potere comunista, dall’altro accelerò la crisi dell’autorità
centrale. Il pluralismo politico non si tradusse in una vera democratizzazione e lasciò
spazio anche all’emergere di tendenze autoritarie e tradizionaliste. Le spinte
separatiste si accentuarono. Dopo le tre Repubbliche baltiche, anche la Georgia,
l’Armenia e la Moldavia proclamarono unilateralmente la loro secessione dall’Unione
Sovietica; e lo stesso fece l‘Ucraina, legata alla Russia da antichi vincoli storici e
culturali. Gorcačëv tentò di bloccare questo processo, proponendo un nuovo trattato
213
di unione meno rigido. La sua posizione fu, però, scavalcata dai presidenti delle tre
Repubbliche slave, che si accordarono sull’ipotesi di una comunità di Stati sovrani e
su tale ipotesi ottennero il consenso delle altre Repubbliche ex sovietiche.
Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di undici
repubbliche diedero vita alla nuova Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e
sancirono la morte dell’Unione Sovietica, decretando implicitamente anche la fine
politica del suo presidente. Il 25 dicembre, Gorbačëv trasse le logiche conseguenze di
quanto era accaduto e annunciò in un discorso, in televisione, le sue dimissioni. Il
giorno stesso la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino e sostituita da quella
russa.
Salutata in buona parte del mondo come un evento liberatorio, la dissoluzione del
grande “impero” sovietico suscitò non pochi interrogativi e motivi di inquietudine.
La Russia di Eltsin cercò di accreditarsi, come l’ erede del ruolo di grande potenza
già svolto dall’Urss. In questo suo sforzo fu appoggiata dagli Stati Uniti, e dalla
comunità internazionale, che le riconobbe il diritto di occupare il seggio dell’Unione
Sovietica, in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nel gennaio 1993, il presidente
Bush firmava a Mosca, con Eltsin, un nuovo importante trattato per la riduzione degli
armamenti nucleari strategici. Minacciata dal proliferare dei separatismi, la Russia
dovette affrontare una drammatica crisi economica, sociale e politica che la portò
sull’orlo della guerra civile. All’origine della crisi, c’era il tentativo di Eltsin di
accelerare il processo di transizione verso il capitalismo e l’economia di mercato. Il
risultato fu l’emergere di tensioni contrarie al presidente. Il composito fronte degli
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avversari delle riforme trovò il suo luogo d’unione nel Congresso del popolo, ossia il
Parlamento russo eletto nel marzo del 1990. Il conflitto esplose nel settembre del
1993, quando Eltsin, non riuscendo a superare l’ostruzionismo dello stesso
Parlamento, lo sciolse, indicendo nuove elezioni. Il Parlamento rispose destituendo
Eltsin e sostituendolo col vicepresidente Aleksandr Rutskoj. Eltsin, tuttavia, riuscì a
reagire e a ripristinare l’ordine; con una nuova Costituzione, dai tratti fortemente
presidenziali, egli rafforzò, così, il suo potere. Probabilmente fu per non lasciare
spazi ai nazionalisti che il Presidente, contro il parere dei gruppi democratici, decise,
nel dicembre 1994, un interevento militare in Cecenia, una repubblica autonoma
situata nella regione del Caucaso, che aveva proclamato la propria indipendenza.
L’operazione si tradusse, però, in un grande fallimento che fece comprendere come
la macchina militare russa avesse perso la sua efficienza e, altresì, la profonda crisi
di tutto l’apparato statale russo. Tuttavia, nelle elezioni presidenziali del 1996, Eltsin
riuscì ancora una volta a prevalere su i suoi avversari; subito dopo, fu concluso con la
Cecenia un accordo basato sulla concessione di ampie autonomie e sul rinvio della
decisione circa l’eventuale indipendenza. La fine della guerra non bastò, tuttavia, a
stabilizzare la situazione politica: i problemi più grandi venivano dall’economia, che
non riusciva a decollare. La crisi giunse al suo culmine nell’estate del 1998,
travolgendo il rublo e costringendo il presidente a ceder parte dei suoi poteri ad un
nuovo governo, appoggiato dai comunisti e presieduto dall’ex ministro degli Esteri
Primakov.
215
Nell’autunno del 1999, riprendeva la guerra in Cecenia nuovamente invasa dalle
truppe russe perché accusata di dare ospitalità a gruppi terroristici islamici. Eltsin
decise, così, un cambio di governo, designando come primo ministro e indicando
come suo possibile successore alla presidenza, uno sconosciuto dirigente dei servizi
segreti, Vladimir Putin. Grazie alla sua energia, con cui affrontò la ribellione cecena,
senza tuttavia riuscire a domarla del tutto, il nuovo premier guadagnò popolarità e,
nel 2000, si impose come presidente, subito dopo le dimissioni di Eltsin. Sul fronte
della politica estera si assisteva, frattanto, ad una certa ripersa d’iniziativa della
diplomazia russa, nel tentativo di riacquistare una posizione di forza nel confronto
con i paesi occidentali. Putin cercò di accreditarsi come partner affidabile, sia sul
piano strategico, che su quello degli scambi commerciali.
In tutti gli Stati dell’Europa orientale, comunque, il passaggio all’economia di
mercato si rivelò un processo lungo e pieno di disagi. Quasi ovunque, tali delusioni
finirono col riportare al potere i partiti ex comunisti, peraltro rinnovati nelle sigle e
nei programmi.
In Cecoslovacchia si svilupparono, nella minoranza slovacca, tendenze separatiste
che, mescolandosi con i contrasti politici ed economici portarono, nel 1992, ad una
sorta di separazione consensuale e alla creazione di due repubbliche: una ceca,
comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale, e una
slovacca, egemonizzata dai gruppi comunisti.
Assai più drammatica fu la vicenda della Jugosalvia, dove la crisi del regime unico
fece saltare i precari equilibri fra le nazioni, su cui il paese si reggeva dalla fine della
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seconda guerra mondiale e portò addirittura allo scontro armato e alla disgregazione
dello Stato federale. La crisi precipitò in seguito al contrasto fra le risorgenti
aspirazioni egemoniche della Serbia di Milošević, già esercitatesi contro le minoranze
albanesi del Kosovo, e la volontà autonomistica delle Repubbliche di Slovenia e
Croazia. Fra il 1990 e il 1991, la Slovenia e la Croazia proclamarono la propria
indipendenza, facendola sanzionare da plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica di
Macedonia, che occupava la parte meridionale della Jugoslavia. Gli organi federali e i
vertici militari accettarono il fatto compiuto dell’indipendenza slovena e macedone,
ma reagirono duramente all’analoga iniziativa della Repubblica croata, mobilitando
le forze armate. Dalla primavera del 1992, il centro del conflitto si spostò in Bosnia,
una delle ex Repubbliche jugoslave, che aveva proclamato, anch’essa la propria
indipendenza. La Bosnia, quindi, divenne teatro di una guerra violentissima,
provocata soprattutto dalla reazione della componente serba. Una guerra difficile da
fermare, anche perché combattuta senza un fronte definito e condotta, soprattutto dai
serbi, all’insegna della “cosiddetta pulizia etnica”. Né gli sforzi della comunità
europea, né le iniziative dell’Onu, che impose l’embargo alla Serbia, ottennero esito
positivo. Per giungere ad una tregua d’armi fu necessario l’impegno diretto,
diplomatico e militare della maggiore potenza mondiale, gli Stati Uniti, che agirono
sotto la copertura dell’Alleanza Atlantica. La Nato, tra maggio e settembre 1995,
attuò una serie di raid aerei contro le posizioni dei serbo-bosniaci e in agosto i
successi militari croati imposero una soluzione negoziata. In ottobre, iniziarono le
trattative fra i governanti della Serbia, della Croazia e della Bosnia musulmana. Il 21
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novembre, un accordo di pace fu siglato a Dayton, negli Stati Uniti. L’ accordo, che
prevedeva la nascita di uno Stato bosniaco, diviso in una repubblica serba e in una
federazione croato-musulmana, ebbe l’effetto non trascurabile di porre fine ai
combattimenti. La situazione restò quanto mai problematica.
Nel 1998, si ripresentò in termini drammatici il problema del Kosovo, che era stato
uno dei fattori scatenanti della crisi jugoslava. In risposta alla protesta autonomista
della popolazione di origine albanese e alla nascita di un movimento di guerriglia
indipendentista, i serbi scatenarono una durissima repressione che colpì, soprattutto, i
civili. Ancora una volta, furono i paesi della Nato ad intervenire, facendo pressioni
sul presidente Milošević perché ponesse fine alla repressione e restituisse al Kosovo
le autonomie di cui godeva prima del 1989. Per oltre due mesi, il territorio della
Jugoslavia, compreso il Kosovo, fu sottoposto a bombardamenti, che distrussero
impianti industriali, infrastrutture civili e gli stessi palazzi del potere. I serbi risposero
intensificando la “pulizia etnica”. L’intervento militare, giustificato con l’esigenza di
proteggere i diritti della popolazione del Kosovo, fu apertamente criticato dalla
Russia, tradizionale alleata dei serbi. Alla fine, grazie anche alla mediazione della
stessa Russia, lo scopo fu raggiunto: ai primi di giugno del 1999, Milošević cedette e
ritirò le truppe dal Kosovo, rimasto così sotto il controllo delle forze Nato. Nel
settembre 2000, le elezioni presidenziali videro la sconfitta del dittatore serbo e la
vittoria di una coalizione democratica, guidata da Kostunica. Milošević cercò di
contestare il verdetto delle urne, ma fu costretto ad abbandonare il potere; venne in
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seguito arrestato, consegnato al Tribunale internazionale dell’Aja, e processato per
crimini contro l’umanità.
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La nascita della seconda Repubblica in Italia e la nuova Europa
Nella pubblicistica, nei mass media e nel linguaggio corrente è ormai consuetudine
indicare con l’espressione seconda repubblica il nuovo assetto politico, determinatosi
in Italia a partire dal 1992-1994. Il crollo del sistema dei partiti, la nuova legge
elettorale maggioritaria, il cambiamento della classe politica, la nascita di un
bipolarismo furono tutti fattori, che caratterizzarono l’ampiezza del mutamento
attraversato dal nostro paese.
Problemi nuovi, come quello dell’immigrazione clandestina dal Terzo Mondo e
dall’Europa dell’Est, si univano a quelli antichi, sottoponendo il sistema politico ad
una serie di sollecitazioni, a cui la classe dirigente non sapeva reagire efficacemente.
La crescita produttiva si interruppe dal 1990. Molte imprese italiane, come la Fiat,
perdevano competitività sui mercati internazionali. L’inflazione, alimentata dalla
crescita della spesa pubblica, restava ben sopra la media europea, e il deficit del
bilancio statale non si riduceva.
Una problematica ancor più grave di quella economica e finanziaria era rappresentata
dall’ accresciuta offensiva della criminalità organizzata in Sicilia, in Calabria e in
Campania. In queste regioni, le organizzazioni criminali esercitavano un controllo
sul territorio, inquinando il mondo politico locale.
Anche all’interno del sistema partitico, le novità dei primi anni ’90 furono numerose
e rilevanti. Prima tra tutte, la trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico
della sinistra (Pds). La decisione, annunciata alla fine del 1989 dal segretario Achille
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Occhetto, e tradotta in atto nel febbraio nel 1991 nel Congresso di Rimini, avrebbe
dovuto sbloccare la principale forza di opposizione e porre le premesse per una
ricomposizione della sinistra italiana, nel segno del riformismo democratico. Tale
progetto si scontrò, però, con la diversa realtà. Il nuovo Pds faticava ad imporsi come
unico punto di riferimento e di raccolta per un’opinione pubblica di sinistra,
attraversata da una forte crisi di identità. Tra l’altro, l’ala più legata all’eredità del
vecchio Pci, si separò dal Pds per dare vita al partito di Rifondazione comunista. Sul
versante opposto, nel Settentrione, i movimenti regionalistici si andavano
consolidando: in particolare la Lega lombarda, affermatasi nelle consultazioni
amministrative del maggio 1990, sull’onda di una violenta polemica “nordista”,
contro lo Stato centralizzato, il fisco e l’intero sistema dei partiti.
Le forze politiche pensarono di prendere in considerazione l’ipotesi di una nuova
legge elettorale, capace di dare maggiore stabilità all’esecutivo, o addirittura di una
revisione della Carta costituzionale, senza però trovare alcun accordo, né sui
contenuti, né sul metodo delle eventuali riforme. A tenere aperto il problema,
contribuì, nel giugno 1991, il successo di un referendum abrogativo di alcune parti
della legge elettorale, promosso da un comitato composto da diversi partiti e
presieduto dal democristiano Mario Segni.
Un’altra sollecitazione, in direzione delle riforme, veniva data dallo stesso capo dello
Stato. Infatti, il presidente della Repubblica Cossiga, mutando bruscamente lo stile di
comportamento seguito nei primi cinque anni del suo mandato, si rendeva
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protagonista di una serie di accese polemiche, e dichiarava apertamente la sua volontà
di mutare il sistema, di cui egli stesso era il rappresentante più autorevole.
Nel febbraio 1992, Cossiga sciolse le Camere con lieve anticipo sulla scadenza della
legislatura. Le elezioni successive si tennero il 5 e il 6 aprile, e fecero registrare delle
novità. La Dc ed il Pds vennero seccamente sconfitti, mentre la Lega Nord, guidata
da Umberto Bossi, e nata dalla fusione della Lega lombarda con analoghe formazioni
regionali, si affermava come quarta forza politica italiana.
I Verdi si rafforzavano, mentre un esiguo ma indicativo successo ottenne la Rete, una
nuova formazione, polemicamente schierata contro il sistema dei partiti, capeggiata
dall’ex sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando.
All’indomani delle elezioni, nasceva un Parlamento molto diviso e subito impegnato
a trovare un accordo sul nome del nuovo capo dello Stato.
Cadute le candidature della coalizione quadripartita, un’ampia maggioranza elesse, il
25 maggio, Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, parlamentare dagli anni della
Costituente, figura di alto rigore morale, presidente della Repubblica.
Da alcuni mesi, inoltre, un nuovo grandissimo scandalo stava coinvolgendo un
numero crescente di uomini politici, accusati di aver preteso ed ottenuto tangenti per
la concessione degli appalti pubblici. L’inchiesta, avviata dalla magistratura
milanese, svelava un diffusissimo sistema di finanziamento illegale dei partiti, e di
autofinanziamento dei politici, denominato “Tangentopoli”, sostenuto dalla
complicità di società ed imprenditori privati.
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In una situazione già carica di difficoltà, s’inseriva l’improvvisa recrudescenza
dell’offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio, mentre erano in
corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato
dinamitardo uccideva il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie e i tre agenti della
scorta. Dopo meno di due mesi, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e i cinque
agenti della scorta furono uccisi da un’autobomba in piena Palermo.
Eccezionali erano i compiti, che aspettavano, dunque, il nuovo governo. Caduta la
candidatura di Craxi, dopo le indagini che avevano investito, per lo scandalo delle
tangenti molti uomini vicini al leader socialista, il presidente Scalfaro affidava
l’incarico ad un altro socialista, Giuliano Amato.
Il nuovo governo quadripartito affrontò subito il problema finanziario, prima con
interventi di tipo fiscale sui beni mobiliari ed immobiliari dei cittadini, poi con una
più incisiva manovra per contenere le spese. Questi interventi furono anche necessari
poiché, in settembre, una violenta speculazione aveva costretto la lira ad uscire dal
Sistema monetario europeo e il libero mercato aveva deprezzato la nostra moneta di
oltre il 20%.
Il tema più discusso e il nodo più difficile da sciogliere dal Parlamento era, in quel
periodo, la legge elettorale. L’introduzione di un sistema maggioritario uninominale
sembrava a molti la via più rapida per la moralizzazione della vita politica. I difensori
del sistema proporzionale vigente con il voto di lista, che tutelava al massimo il
potere organizzativo dei partiti, si limitavano, invece, a suggerire una serie di
correttivi in senso maggioritario. Il 18 aprile 1993, i cittadini approvarono a
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larghissima maggioranza, un referendum, che introduceva il sistema maggioritario
uninominale al Senato. Contemporaneamente, per mezzo di altri due referendum,
venne abolito il finanziamento pubblico dei partiti e furono mitigate le sanzioni
penali contro i consumatori di droga.
Frattanto, però, numerosi uomini politici come Bettino Craxi, Giorgio La Malfa,
Renato Altissimo, vedevano scossa la loro credibilità, in quanto raggiunti da avvisi di
garanzia e costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Indagato per tangenti
fu anche l’ex segretario della Dc Forlani, mentre Andreotti era accusato, da alcuni
pentiti, di collusione con la mafia, accuse da cui sarebbe stato assolto nel 1999.
All’indomani del referendum, Amato convinto della fine di un’epoca, annunciò in
Parlamento le sue dimissioni. Il presidente allora designò, come figura indiscussa al
di sopra delle parti, Carlo Azeglio Ciampi, per formare il nuovo governo. Ciampi
costituì il ministero muovendosi sopra le logiche partitiche e delle maggioranze
precostituite, richiamando ministri del precedente gabinetto ed inserendo tecnici ed
esponenti di altre aree. Il 29 aprile, tuttavia, quattro ministri del governo insediato
quel giorno stesso, si dimisero per protesta contro la Camera, che non aveva concesso
alcuna autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi.
Nonostante ciò, Ciampi riuscì a varare il suo governo, ottenendo l’appoggio della
vecchia maggioranza quadripartita. Un’importante verifica per le forze politiche
furono le elezioni comunali di giugno, le prime in cui si votò per l’elezione diretta del
sindaco. I risultati confermarono l’ascesa della Lega del Nord e decretarono la
sconfitta della Dc e il crollo del Psi.
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Intanto, le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, dopo un accidentato
percorso, venivano approvate definitivamente per i primi di agosto: introducevano il
sistema maggioritario uninominale ma prevedevano, entrambe, una quota di seggi,
pari al 25%, da assegnare con sistema proporzionale, in omaggio alla vecchia
struttura organizzativa dei partiti. Tuttavia una serie di ulteriori difficoltà derivavano,
per il governo, dalla improvvisa ripresa di gravissimi atti di terrorismo: forse come
risposta ai successi investigativi che avevano portato, fra l’altro, ad importanti arresti
e a svelare alcuni intrecci tra politica e criminalità organizzata.
Così, dall’estate del 1993, alcune forze politiche fra cui la Lega e il Pds,
cominciarono a reclamare nuove elezioni, mentre i partiti della maggioranza
tradizionale, puntavano a ritardarle. Tuttavia, anche i partiti della vecchia
maggioranza pentapartita avevano avviato una trasformazione, che coinvolgeva gli
uomini, e in qualche caso il simbolo e il nome del partito. Il Psi aveva affidato prima
a Giorgio Benvenuto, poi a Ottaviano Del Turco, la segreteria del partito, ma senza
riuscire a dare credibilità alla sua immagine. La Dc, guidata da Mino Martinazzoli,
aveva ripreso il nome di Partito popolare italiano. Ma, un gruppo di dirigenti
democristiani ostili al predominio delle sinistre all’interno del nuovo partito, si
raccolse in una nuova formazione, il Centro cristiano democratico. L’anno
successivo una nuova scissione nel Partito popolare diede vita ai Cristiani
democratici uniti.
Nello stesso periodo, anche a destra, si registrarono rilevanti mutamenti. Il segretario
del Msi, Gianfranco Fini, avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza
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Nazionale: un processo che si sarebbe concluso nel congresso di fondazione di Fiuggi
del gennaio 1995. Fini dichiarò che il fascismo era finito nel 1945, rivendicando,
tuttavia, la positività di alcuni aspetti del ventennio e la statura politica di Mussolini
come uomo di Stato, fino agli errori della politica antisemita e della guerra.
L’elemento di maggior novità nello scenario politico italiano fu l’ingresso in politica
dell’imprenditore Silvio Berlusconi. Nel giro di qualche mese, riuscì non solo a
fondare un proprio movimento, Forza Italia, ma anche a costituire un cartello
elettorale con la Lega Nord nell’Italia settentrionale (Polo della Libertà) e con
Alleanza Nazionale nel Centro-Sud (Polo del buon governo). Confluirono in questo
schieramento i radicali di Pannella, il Ccd ed altri politici di centro. Sul fronte
opposto, il Pds coagulò intorno a sé, nel cartello dei progressisti, tutte le forze della
sinistra. Più isolati e deboli erano il Ppi e il gruppo Segni, collocati al centro fra i due
schieramenti.
Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 decretarono il successo delle forze
raccolte intorno a Berlusconi. Lo schieramento del centro-destra conquistava, con
largo margine, la maggioranza assoluta alla Camera, ma la mancava di poco al
Senato. Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anche
accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno
delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi come l’unico in grado di
sostituire il ceto di governo, spazzato via dagli scandali di tangentopoli. A poco a
poco si andava strutturando il bipolarismo, quindi la possibilità concreta
dell’instaurarsi di un meccanismo di alternanza fra maggioranza ed opposizione. Nel
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maggio del 1994, Berlusconi formava il nuovo governo con la Lega, Alleanza
nazionale, il Ccd ed altri esponenti di centro. Di fronte a lui vi erano i problemi
ereditati dai governi precedenti: in primo luogo quello di conciliare ripresa
economica, benessere sociale e riduzione della spesa pubblica.
Intanto, nel 1995, altri paesi entravano a far parte della Comunità Europea: Austria,
Svezia, Finlandia. Nel febbraio del 1992, venne firmato nella città olandese di
Maastricht un trattato, che faceva compiere un notevole salto di qualità alle strutture
e agli obiettivi della Cee, trasformandola in Unione europea.
Il trattato di Unione prevedeva, a partire dal gennaio ’93, in coincidenza con
l’attuazione del mercato unico, una serie di interventi volti ad armonizzare le
legislazioni dei paesi membri in molte importanti materie, non solo economiche. I
firmatari s’impegnarono, inoltre, a realizzare entro il ’99 il progetto di una moneta
comune, l’Euro, e di una Banca centrale europea.
La cura di austerità finanziaria, imposta dal trattato di Maastricht, non fece che
mettere a nudo alcuni caratteri distorsivi, che da tempo affiggevano le economie del
vecchio continente, come l’eccesso di spesa pubblica, l’insostenibilità finanziaria, la
rigidità del mercato del lavoro. Nel maggio 1998, l’Unione monetaria europea, Ume,
venne inaugurata ufficialmente con la partecipazione di undici Stati: restarono fuori
la Grecia (che venne poi ammessa nel 2001), la Gran Bretagna, la Danimarca e la
Svezia, che rinviarono l’adesione per loro scelta. Contemporaneamente, fu istituita la
Banca centrale europea (Bce), e si fissò al 1° gennaio 1999 l’entrata in vigore, negli
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scambi finanziari, della moneta unica, destinata, tre anni dopo, a sostituire
interamente le monete nazionali.
Gli Stati, che ad oggi, fanno parte dell’Europa unita sono 27. I problemi non
mancano: difficoltà nell’approvare un testo costituzionale comune, urgenza di
regolare la questione dell’immigrazione, necessità di instaurare un rapporto di
cooperazione con gli Stati Uniti.
Tuttavia, come a suo tempo sosteneva Carlo Cattaneo, anche se il sentiero si
presentava in salita, valeva la pena percorrerlo per raggiungere una metà così grande
quale, appunto, la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa.
Al termine di questo nostro viaggio, mi piace ricordare una frase di Cesare Beccaria,
che racchiude l’essenza del divenire storico, tratta dall’opera Dei delitti e delle pene:
“La storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, tra i quali poche
e confuse e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano”.
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