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UNICUSANO Facoltà di Scienze Politiche Appunti di storia contemporanea Il Novecento Seconda parte 1

Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

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Page 1: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

UNICUSANO

Facoltà di Scienze Politiche

Appunti di storia contemporanea

Il Novecento

Seconda parte

La prima guerra mondiale (1)

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Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco, Gavrilo Princip, uccise con due colpi di

pistola l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria, e sua moglie,

mentre attraversavano in auto scoperta la città di Sarajevo. Si trattava di un attentato

terroristico molto simile a quelli di matrice anarchica, che avevano già mietuto

vittime tra sovrani e governanti. Nell’Europa del 1914 esistevano molte tensioni

latenti, ma probabilmente, proprio tale attentato fu l’elemento capace di far esplodere

il primo grande conflitto mondiale.

L’Austria compì la prima mossa inviando il 23 luglio 1914 un ultimatum alla Serbia;

il secondo passo lo fece la Russia, assicurando il suo appoggio a quest’ultima. Forte

di tale sostegno, la Serbia accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola

che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti

dell’attentato. L’Austria giudicò tutto ciò insufficiente e il 28 luglio dello stesso anno

dichiarò guerra alla Serbia. Immediatamente la Russia ordinò la mobilitazione delle

forze armate, il che voleva dire porre in essere le premesse necessarie per partecipare

ad un conflitto. Immediata fu la risposta della Germania, che interpretò l’agire russo

come un atto di ostilità nei suoi confronti. Così il 31 luglio mandò un ultimatum alla

Russia, intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. Il giorno

seguente la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le

proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum ed infine con la

dichiarazione di guerra alla Francia. Fu, dunque, il governo tedesco a far precipitare

totalmente la situazione, anche perché la Germania da tempo soffriva di un complesso

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di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni

territoriali.

Il piano di guerra, già elaborato, ai primi del secolo, dal capo di stato maggiore Alfred

von Schlieffen, dava per scontata l’eventualità di una guerra su due fronti, sussistendo

dal 1894 un’alleanza franco-russa. Per Schlieffen bisognava attaccare prima la

Francia, che sarebbe stata messa fuori combattimento nell’arco di poche settimane, e

successivamente la Russia, molto forte militarmente, ma lenta a mettersi in azione.

Per porre in atto il suo piano, però, la Germania doveva invadere il Belgio nonostante

la sua neutralità. La violazione del territorio belga scosse profondamente l’opinione

pubblica e convinse la Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania.

Tutti i governi sottovalutavano la gravità dello scontro che si andava preparando.

Inoltre, in quasi tutti i paesi belligeranti, le forze pacifiste trovarono scarso appoggio.

Il richiamo del patriottismo mostrò, in questa occasione, la sua grande forza e fece

breccia all’interno di tutti gli Stati. La Seconda Internazionale, nata come espressione

della solidarietà dei lavoratori di tutti i paesi, cessò praticamente di esistere: fu la

prima vittima della grande guerra.

La pratica ormai generalizzata della coscrizione obbligatoria e le accresciute

possibilità dei mezzi di trasporto, consentirono ai belligeranti di metter in campo

rapidamente eserciti di proporzioni mai conosciute. Solo la Gran Bretagna non aveva

un esercito di leva, ma riuscì comunque a mobilitare oltre due milioni di uomini.

Gli Stati in guerra possedevano, inoltre, nuove armi come le mitragliatrici

automatiche, capaci di sparare centinaia di colpi al minuto. Si passò così dalla guerra

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di movimento, tipica della concezione strategica ottocentesca e basata sullo

spostamento rapido di ingenti masse di uomini in vista di pochi e risolutivi scontri

campali, alla guerra di logoramento, che vedeva schieramenti praticamente

immobili affrontarsi in una serie di sterili, quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati

da lunghi periodi di stasi.

I tedeschi, ai primi di settembre, si attestarono lungo il coso della Marna, a pochi

chilometri da Parigi. Il governo francese dovette così lasciare la capitale. Nello stesso

tempo anche sul fronte orientale le armate germaniche vincevano i russi nelle

battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri. Successivamente, però, l’ offensiva

russa mise in serio pericolo gli austriaci e preoccupò gli stessi comandanti tedeschi,

inducendoli a trasferire molti uomini dal fronte occidentale a quello orientale, mentre

sotto il generale Joffre i francesi si stavano riorganizzando al di qua della Marna.

Infatti, poco tempo dopo, riuscirono a fare arretrare i nemici in corrispondenza dei

fiumi Aisne e Somme.

In quattro mesi di guerra, sul solo fronte occidentale, si erano avute oltre 400.000

mila vittime.

Molte potenze minori temevano di venire sacrificate da una nuova sistemazione

dell’assetto internazionale, mentre altre cercarono di profittare della guerra per

soddisfare le loro ambizioni territoriali. Di qui la tendenza del conflitto ad allargarsi.

Nell’agosto 1914 il Giappone, richiamandosi al trattato che lo legava alla Gran

Bretagna dal 1902, dichiarava guerra alla Germania. Nel novembre dello stesso anno

la Turchia, legata alla Germania da un trattato segreto, entrava in guerra al suo fianco.

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Nel maggio del 1915 anche l’Italia scendeva in campo contro l’Austria – Ungheria. A

favore degli imperi centrali entrava poi, nel settembre dello stesso anno, la Bulgaria,

mentre il Portogallo, la Romania e la Grecia, presero in seguito parte al conflitto,

schierandosi a favore delle democrazie europee. Decisivo sarebbe poi stato

l’intervento degli Stati Uniti a favore dell’Intesa; gli americani si trascinarono dietro

numerosi paesi come la Cina, il Brasile e altre repubbliche latino-americane. Il

conflitto diventava così veramente mondiale.

Come detto, l’Italia entrò in guerra nel maggio 1915, quando il conflitto era già

iniziato da dieci mesi.

Infatti, il 2 agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo italiano, presieduto da

Salandra, aveva dichiarato la propria neutralità. Questa decisione derivava dal

carattere difensivo della Triplice Alleanza: l’Austria non era stata attaccata, né aveva

consultato l’Italia prima di attaccare la Serbia.

Gradualmente, in Italia prese forza la linea interventista per un ingresso nel conflitto

a fianco dell’Intesa e contro l’Austria, che avrebbe consentito di portare a

compimento il processo risorgimentale, ma anche aiutato la causa delle nazionalità

oppresse. Fautori di questa visione erano i repubblicani, i radicali, i socialisti

riformisti di Bissolati, le associazioni irredentistiche, che avevano tra le file numerosi

fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico, come Cesare Battisti. Fautori attivi

dell’intervento erano i nazionalisti e anche i liberal-conservatori, sia pur in forma più

prudente e moderata. Del resto il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli

Esteri Sonnino temevano che una mancata partecipazione al conflitto compromettesse

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la posizione italiana all’interno dell’Europa. L’ala più consistente dello schieramento

liberale, quella che faceva capo a Giolitti, era, però, per la neutralità dello Stato

italiano. Decisamente ostile all’intervento risultava anche il mondo cattolico. Il

nuovo papa, Benedetto XV, assunse un atteggiamento pacifista. Molto netta fu poi la

posizione assunta dalla Cgl e dal partito socialista italiano: una ferma condanna della

guerra che contrastava apertamente con la scelta patriottica degli altri maggiori partiti

socialisti europei, ma rispecchiava l’istinto pacifista delle masse operaie e contadine.

Benito Mussolini, direttore dell’ “Avanti!”, dopo aver condotto una campagna per la

neutralità, si pose tra gli interventisti. Destituito dal suo incarico e poi espulso dal

partito, fondò nel novembre 1914 un nuovo quotidiano, “Il Popolo d’Italia”, che

divenne la principale tribuna dell’interventismo di sinistra.

Ma ciò che, in definitiva, decise l’esito dello scontro tra neutralisti ed interventisti fu

l’atteggiamento del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re. Salandra e

Sonnino, fin dall’autunno del 1914, allacciarono piani segretissimi con l’Intesa, pur

continuando a trattare con gli Imperi centrali, e decisero infine, con l’avallo del re e

senza informare né il Parlamento né altri membri del governo, di accettare le proposte

della stessa Intesa, firmando il 26 aprile 1915 il Patto di Londra con Francia,

Inghilterra e Russia. Le clausole principali prevedevano che l’Italia avrebbe ottenuto

in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine naturale del Brennero, la

Venezia Giulia e l’intera penisola istriana, oltre ad una parte della Dalmazia con

numerose isole adriatiche. Bisognava, però, superare la prevedibile opposizione della

maggioranza neutralista della Camera, cui spettava la ratifica del Trattato. Quando

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Giolitti ai primi di maggio, non essendo al corrente della firma del patto di Londra, si

pronunciò per la continuazione delle trattative con l’Austria, ben trecento deputati gli

manifestarono la solidarietà, inducendo Salandra alle dimissioni. Ma la volontà del

Parlamento fu superata dalla decisione del re, che respinse le dimissioni di Salandra,

mentre le manifestazioni di piazza si fecero sempre più minacciose. Il 20 maggio

1915, costretta a scegliere fra l’adesione alla guerra e un voto contrario che avrebbe

sconfessato con il governo lo stesso sovrano, la Camera approvò, col voto contrario

dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo, che la sera del 23

maggio dichiarava guerra all’Austria. Il 24 iniziavano le operazioni militari.

Disorientati ed isolati, i socialisti non riuscirono ad organizzare una vera opposizione.

La stessa formula “né aderire né sabotare” era poco più che una dichiarazione di

principio e una prova di impotenza.

L’Italia entrò in guerra e le sue truppe furono guidate dal generale Luigi Cadorna.

Durante tutto il 1915, l’esercito italiano non riuscì a riportare vittorie decisive. La

stessa cosa accadeva alla Francia. In quell’anno gli unici successi furono ottenuti sul

fronte orientale dagli austro-tedeschi, prima contro i russi, poi contro i serbi, questi

ultimi attaccati simultaneamente dall’Austria e dalla Bulgaria.

All’inizio del 1916, i tedeschi, sul fronte occidentale, attaccarono i francesi a Verdun.

Nel giugno dello stesso anno, mentre si andava esaurendo l’offensiva tedesca a

Verdun, l’esercito austriaco passò all’attacco sul fronte italiano, cercando di penetrare

dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due l’esercito nemico. Gli italiani

furono colti di sorpresa dall’offensiva, che fu chiamata Strafexpedition, ossia

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spedizione punitiva contro l’antico alleato colpevole di tradimento, riuscirono

faticosamente ad arrestarla sugli altipiani di Asiago e successivamente a

contrattaccare. Durante questa spedizione cadde prigioniero Cesare Battisti, che fu

condannato a morte per alto tradimento. L’Italia non perse alcun territorio, ma il

contraccolpo psicologico fu grande. Salandra si dimise e il suo posto fu preso da

Paolo Boselli. Il cambio al timone non comportò alcun mutamento: nel corso

dell’anno furono combattute cinque battaglie sull’Isonzo, tutte prive di risultati

tangibili, salvo quello, più morale, della presa di Gorizia.

Sul fronte orientale, i russi lanciarono in giugno una violenta offensiva recuperando i

territori persi l’anno prima. I successi zaristi spinsero la Romania ad intervenire a

fianco dell’Intesa. Ma il suo intervento si risolse in un totale disastro: gli imperi

centrali riuscirono a vincerla, impossessandosi delle sue risorse agricole e minerarie.

Tuttavia le forze austro-tedesche non riuscivano a riequilibrare il loro svantaggio,

soprattutto a causa del blocco navale attuato dagli inglesi nel Mare del Nord. Invano

la flotta tedesca aveva tentato un attacco contro quella inglese nella penisola dello

Jutland.

Due anni e mezzo di guerra non avevano risolto la situazione. La vera protagonista

divenne, così, la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni

difensive. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa, logorava i combattenti nel

morale e nel fisico. I soldati non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere

qualche pericolosa azione notturna o, quando scattava un’offensiva, per lanciarsi

all’attacco delle trincee nemiche.

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Gli assalti, che di regola iniziavano nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un

intenso tiro di artiglieria. Così, mentre gli ufficiali di complemento, ossia quelli non

di carriera, restarono fedeli alle motivazioni ideali originarie, i soldati semplici non

avevano idee precise sui motivi per cui si combatteva la grande guerra e la

consideravano come un flagello naturale. La visione eroica del conflitto restò, così,

prerogativa di alcune esigue minoranze, come le truppe d’assalto tedesche, o gli

arditi italiani.

Il primo conflitto mondiale si caratterizzò anche per i nuovi ritrovati della tecnologia,

come le armi chimiche, gas che venivano indirizzati verso le trincee nemiche,

provocando la morte per soffocamento di chi li respirava.

Ma, entrarono nel teatro di guerra anche il carro armato e il sottomarino. Furono i

tedeschi ad intuire le possibilità di questo secondo nuovo mezzo, utilizzato per

attaccare le navi da guerra nemiche e per affondare quelle mercantili. Nel maggio del

1915 proprio un sottomarino tedesco affondò il transatlantico inglese Lusitania, che

trasportava più di mille passeggeri, fra cui 140 cittadini americani. Le proteste degli

Stati Uniti furono così elevate da convincere i tedeschi a sospendere la guerra

sottomarina indiscriminata.

Durante il primo conflitto mondiale anche le popolazioni civili furono coinvolte nello

sforzo bellico. I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo

dell’economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la

gigantesca macchina bellica. In Germania si giunse, addirittura, a parlare di

socialismo di guerra. Strettamente legate ai mutamenti dell’economia furono le

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trasformazioni dell’apparato statale. Ovunque i governi vennero investiti da nuove

attribuzioni e dovettero farvi fronte con l’aumento della burocrazia. In realtà la

dittatura militare vigente in Germania, non differiva da quella instaurata in Francia

nell’ultimo anno di guerra dal governo di unione nazionale di Georges Clemenceau, o

da quella esercitata in Gran Bretagna da David Lloyd George.

Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini divenne la propaganda: questa

non si rivolgeva solo alle truppe, ma cercava di raggiungere anche la popolazione

civile.

Con il protrarsi del conflitto e con l’inasprirsi del regime repressivo all’interno dei

singoli Stati si rafforzarono i gruppi socialisti contrari alla guerra. Nel convegno di

Zimmerwald del 1915, Lenin, leader riconosciuto dei bolscevichi, aveva sostenuto la

tesi secondo cui il movimento operaio doveva profittare della guerra e delle

sofferenze che essa provocava nelle masse, per affrettare il crollo dei regimi

capitalistici. Le tesi di Lenin, riproposte all’inizio del 1917, nel saggio

L’imperialismo fase suprema del capitalismo, trovarono adesioni nelle minoranze di

estrema sinistra, che agivano all’interno dei partiti socialisti europei.

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La prima guerra mondiale (2)

Nei primi mesi del 1917 si verificarono due nuovi eventi, destinati a mutare il corso

della guerra.

Agli inizi del mese di marzo, uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado si

mutò in una imponente manifestazione contro il regime zarista. I soldati, chiamati a

ristabilire l’ordine, rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono con i

dimostranti: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo fu arrestato con la propria

famiglia.

Il 6 aprile gli Stati Uniti decisero di entrare in guerra contro la Germania che, ai primi

di febbraio, aveva ripreso un'offensiva sottomarina indiscriminata. L’intervento

americano, pur facendo sentire il suo peso solo in capo a parecchi mesi, fu decisivo

sia sul piano militare, che su quello economico, tanto da compensare il grave colpo

ricevuto dall’Intesa, dopo l’uscita di scena della Russia.

Il crollo del regime zarista era stato il preludio alla disgregazione dell’esercito russo.

Molti reparti rifiutarono di riconoscere l’autorità degli ufficiali e molti soldati-

contadini abbandonarono il fronte e tornarono ai loro villaggi. Il tentativo del governo

provvisorio di attuare un'offensiva contro gli austro-tedeschi in Galizia fu un

fallimento. Da allora la Russia cessò di fornire qualsiasi contributo alle forze

belligeranti.

Il malessere delle truppe degenerò in episodi di ammutinamento, come in Francia,

dove fu chiamato il generale Philippe Pétain, sostenitore di un uso più umano delle

stesse truppe, in battaglia.

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Anche all’interno dei governi degli imperi centrali si andavano moltiplicando gli

episodi di insubordinazione alle autorità militari. Particolarmente delicata era, del

resto, la posizione dell’Impero austro-ungarico, dove l’andamento non brillante della

guerra aveva ridato forza alle aspirazioni indipendentiste delle nazionalità oppresse.

Alla costituzione di un governo cecoslovacco in esilio seguì, nel 1917, un accordo fra

serbi, croati e sloveni per la costituzione di uno Stato unitario degli slavi del Sud, la

futura Jugoslavia. Consapevole del pericolo di disgregazione dell’Impero, il nuovo

imperatore, Carlo I, avviò dei negoziati per una pace segreta. Ma, le sue proposte

furono respinte dall’Intesa. Non ebbe miglior fortuna una iniziativa di papa Benedetto

XV, che invitò i governi a porre fine all’inutile strage.

Il 1917 fu un anno difficile per l’Italia. Fra maggio e settembre, Cadorna ordinò una

nuova serie di offensive sull’Isonzo con risultati però modesti. A Torino si verificò

tra il 22 e il 26 agosto una protesta che, originata per la mancanza del pane, divenne

una vera e propria sommossa.

Il 24 ottobre 1917, l'armata austriaca, rinforzata da sette divisioni tedesche, attaccò le

linee italiane sull’alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di Caporetto. Gli

attaccanti misero in atto la tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare

rapidamente nel territorio nemico sfruttando la sorpresa, per metter in crisi lo

schieramento avversario. La manovra fu così efficace che buona parte delle truppe

italiane dovettero abbandonare le loro posizioni. L’esercito venne dimezzato e si

ritirò sulla nuova linea difensiva del Piave. Prima di essere rimosso dal comando

supremo, dove fu sostituito da Armando Diaz, Cadorna gettò le colpe della disfatta

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sui suoi stessi soldati, accusando i reparti investiti dall’offensiva, di essersi arresi

senza combattere. In realtà, la disfatta fu determinata da molteplici errori degli stessi

comandi, che si erano lasciati trovare impreparati dall’attacco sull’alto Isonzo.

Successivamente, l’esercito italiano, impegnato sul Piave e sul Monte Grappa, si

difese valorosamente evitando una sconfitta, che avrebbe portato alla totale

catastrofe.

Il nuovo governo italiano di coalizione nazionale, presieduto da Vittorio Emanuele

Orlando trovò, a sua volta, un robusto consenso tra le forze politiche. Gli stessi leader

della sinistra riformista, con Turati, assicuravano la loro solidarietà allo sforzo di

resistenza del paese. Inoltre, a cominciare dal 1918, fu svolta un’opera sistematica di

propaganda tra le truppe, attraverso la diffusione di giornali di trincea e la creazione

di un Servizio P (propaganda), che si affidava all’opera degli ufficiali inferiori e si

valeva della collaborazione di numerosi intellettuali. Attraverso la propaganda si

cercava di prospettare ai soldati la possibilità di vantaggi materiali in caso di vittoria:

fu in questo clima che cominciò a serpeggiare la parola d’ordine della terra ai

contadini.

Nella notte fra il 6 e il 7 novembre 1917, una insurrezione guidata dai bolscevichi

rovesciava in Russia il governo provvisorio. Il potere fu assunto da un governo

rivoluzionario presieduto da Lenin, che decise di porre fine ad una guerra divenuta

ormai impossibile e dichiarò la sua disponibilità ad una pace “senza annessioni e

senza indennità”. La stessa pace fu conclusa il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk, ai

confini con la Polonia: la Russia dovette accettare condizioni molto dure, che

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comportavano anche la perdita di un quarto dei territori europei del suo Impero. Con

la pace, Lenin salvò tuttavia il nuovo Stato socialista e dimostrò al mondo che la

trasformazione della guerra imperialista in rivoluzione era realmente possibile, sia

pur ad un prezzo elevato. Per rispondere alla sfida di Lenin, l’Intesa dovette

accentuare il carattere ideologico della guerra, presentendola come una crociata della

democrazia contro l’autoritarismo. Questa concezione trovò il suo massimo interprete

in Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti. Nel 1917, entrando in guerra, egli

dichiarò che il suo paese avrebbe combattuto non in vista di particolari rivendicazioni

territoriali, ma col solo obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi,

di difendere i diritti delle nazioni e di instaurare un nuovo ordine basato sulla pace e

sull’accordo tra popoli liberi.

Nel gennaio del 1918, quasi in risposta all’armistizio russo-tedesco, Wilson precisò le

linee ispiratrici del suo pensiero in quattordici punti. In essi, egli rivendicava

l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione,

l’abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti. Egli, inoltre,

indicava alcune proposte concrete per l’assetto europeo dopo il conflitto: piena

reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei tedeschi dai

territori russi, restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena, possibilità di

sviluppo autonomo per i popoli soggetti all’Impero austro – ungarico e a quello turco,

rettifica dei confini italiani, secondo le linee indicate dalla nazionalità. Nell’ultimo

punto, Wilson si proponeva di istituire una Società delle Nazioni per assicurare il

mutuo rispetto delle norme di convivenza tra i popoli.

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Per la verità, i governanti dell’Intesa non condividevano il programma wilsoniano, o

lo condividevano in parte. Dovettero, però, far mostra di accettarlo sia perché

avevano troppo bisogno dell’aiuto americano, sia perché speravano che il suo

programma fosse un antidoto alla Russia bolscevica.

Nel marzo del 1918, i tedeschi riuscirono a sfondare fra Saint Quentin e Arras e

avanzarono in territorio francese. In giugno, l’esercito di Hindenburg era di nuovo

sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni tedeschi a lunga gittata. Sempre in

giugno gli austriaci tentarono di attaccare le forze italiane sul Piave, ma furono

respinti.

A metà luglio, un ultimo attacco sulla Marna fu fermato dagli anglo-francesi che

agivano sotto il comando unificato del generale francese Foch e cominciavano a

giovarsi dell’apporto degli Stati Uniti.

Alla fine di luglio, le forze dell’Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi, passarono

al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto la Germania subì una grave sconfitta ad Amiens.

Da quel momento, le sue truppe cominciarono ad arretrare, mentre i generali tedeschi

compresero di aver perso la guerra. La loro preoccupazione era quella di sbarazzarsi

del potere, che avevano tenuto fino a quel momento e di lasciare ai politici la

responsabilità di un armistizio che si annunciava duro, ma che avrebbe permesso alla

Germania di concludere la guerra con l’esercito integro e il territorio nazionale

intatto. Il compito di aprire le trattative toccò ad un governo di coalizione

democratica, formatosi ai primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici

e dei cattolici del Centro. Intanto, a poco a poco, gli alleati tedeschi venivano

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sconfitti. La prima fu la Bulgaria, poi l’Impero turco. Alla fine di ottobre, anche

l’Austria-Ungheria dovette cedere. Il tentativo di trasformare l’Impero austro-

ungarico in una federazione di Stati semiautonomi non riuscì ad arrestare la volontà

indipendentista dei vari movimenti nazionali. Cecoslovacchi e slavi del Sud diedero

vita a Stati indipendenti, mentre le truppe di nazionalità non tedesca abbandonavano

il fronte in numero sempre maggiore. Sconfitti sul campo, a Vittorio Veneto, gli

austriaci firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l’armistizio con l’Italia, che entrò

in vigore il 4 novembre.

Intanto la situazione peggiorava in Germania. I marinai di Kiel, dove era concentrato

il grosso della flotta, si ammutinarono e diedero vita a consigli rivoluzionari

sull’esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono

i socialdemocratici, pure presenti nel governo “legale” del Reich. Un

socialdemocratico, Friedrich Ebert fu proclamato capo del governo, mentre il Kaiser

dovette fuggire in Olanda, come pure l’Imperatore d’Austria. L’ 11 novembre, i

delegati del governo tedesco firmavano l’armistizio nel villaggio francese di

Rethondes, accettando le dure condizioni dei vincitori: consegna dell’armamento

pesante e della flotta, ritiro al di qua del Reno delle truppe, annullamento dei trattati

con la Russia e la Romania, restituzione unilaterale dei prigionieri. La Germania così

perdeva una guerra, che più degli altri contribuì a far scoppiare. Gli Stati dell’Intesa,

vincitori grazie all’aiuto di una potenza extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e

provati, per l’immane sforzo sostenuto.

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Un compito complesso era quello che attendeva gli statisti nella conferenza di pace, i

cui lavori iniziarono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles, presso Parigi. Vi

parteciparono solo gli Stati vincitori, mentre i vinti furono chiamati in un secondo

momento per sottoscrivere i relativi trattati.

Nel 1918, Wilson aveva sollecitato la formazione di una grande organizzazione degli

Stati per garantire il rispetto dei diritti dei popoli contro le aggressioni. In realtà,

l’attuazione del programma del presidente americano si rivelò difficile e, per certi

versi, impossibile.

Le potenze europee vincitrici volevano ricavare dalla loro vittoria il maggiore

guadagno possibile, facendo pagare ai vinti tutte le conseguenze e le spese della

guerra. La Francia riteneva lecito punire la Germania e impedirne la ripresa

economica e militare; l’Inghilterra voleva garantirsi la supremazia sui mari e in

campo coloniale, l’Italia chiedeva, oltre ai territori indicati nel Patto di Londra, anche

il possesso della città di Fiume. La conferenza fu, dunque, lunga e piena di contrasti.

Alla fine prevalsero gli interessi delle due maggiori potenze europee, la Francia e

l’Inghilterra, che trassero dalla vittoria i maggiori profitti. Il principio di

autodeterminazione dei popoli fu accantonato: i nuovi Stati vennero definiti senza

tener conto delle volontà e delle aspirazioni delle minoranze etniche.

I trattati di pace conclusi furono cinque, e vennero firmati in varie località nei

dintorni di Parigi: ad esempio a Versailles fu concluso quello con la Germania,

mentre a Saint-Germain, quello con l’Austria.

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Il trattato di Versailles fu un vero Diktat imposto ai tedeschi. Con tale trattato

l’Alsazia e la Lorena venivano restituite alla Francia, che ottenne anche per quindici

anni, il possesso del bacino della Saar, ricco di carbone. Alcuni distretti di frontiera

tedeschi vennero ceduti al Belgio, alla Danimarca e alla neonata Cecoslovacchia. Le

zone polacche e tedesco-polacche della bassa Vistola, eccetto Danzica, divenuta città

libera, passarono al nuovo Stato polacco. Tutte le colonie tedesche vennero divise tra

Inghilterra, Francia e Giappone.

L’esercito tedesco fu ridotto a 100.000 uomini con armamento leggero. La Germania

dovette rinunciare alla sua marina da guerra ed abolire il servizio di leva. Dovette,

inoltre, riconoscere la propria responsabilità di aver provocato la guerra e le furono

imposte “riparazioni” stabilite, in seguito, in 132 miliardi di marchi-oro, da pagare in

trent’anni.

Il Trattato di Saint-Germain venne sottoscritto con la neonata Repubblica d’Austria.

Sulle rovine dell’Impero asburgico nascevano tre nuovi Stati: l’Ungheria, la

Cecoslovacchia e la Jugoslavia. L’Austria, come detto, venne ridotta ad una piccola

repubblica senza alcun legame con l’Ungheria e le fu, inoltre, vietato di unirsi

politicamente con la Germania. Inoltre, dovette cedere la Galizia alla Polonia, la

Transilvania e la Bucovina alla Romania, il Trentino e l’Alto Adige fino al Brennero,

l’Istria, con l’esclusione di Fiume, e parte della Dalmazia, all’Italia. Rispetto alle

clausole del Patto di Londra, all’Italia non vennero date Valona, né il protettorato

sull’ Albania.

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L’Europa, uscita dalla conferenza di Parigi, contava dunque ben otto Stati nuovi, sorti

dalle rovine dei vecchi imperi. Ad essi si sarebbe aggiunto, nel 1921, lo Stato libero

d’Irlanda, con l’esclusione della zona settentrionale, l’Ulster, che rimaneva sotto il

controllo inglese.

Nella Conferenza di pace venne anche fondata la Società delle Nazioni, la cui sede fu

fissata a Ginevra. Essa incominciò ad essere operante il 28 aprile 1919.

La nuova organizzazione internazionale avrebbe dovuto regolare pacificamente le

controversie fra gli Stati. Il nuovo organismo sovranazionale prevedeva, nel suo

statuto, la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra, come strumento di

soluzione dei contrasti, il ricorso all’arbitrato, l’adozione di sanzioni economiche nei

confronti degli Stati aggressori. Tuttavia essa non riuscì a sottrarsi alla volontà degli

Stati più forti e, per questo, non sempre ricoprì fedelmente il ruolo per cui era stata

progettata. La sua azione in favore della pace fu inoltre resa meno efficace dalla

mancata adesione di importanti Stati, come gli Stati Uniti, che pur avevano proposto

la nascita dell’organizzazione e, almeno inizialmente, dalla esclusione degli Stati

sconfitti come la Germania, oltre che della Russia socialista.

E se da un lato, la vita della Società delle Nazioni risultava, sin dalla nascita, in salita,

dall’altro, gli Stati Uniti davano vita ad una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto

delle responsabilità mondiali, esprimendo la loro chiara volontà di non occuparsi

delle faccende europee.

19

Page 20: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

La Rivoluzione russa del 1905 e del 1917

Fra le grandi potenze europee, la Russia era la sola, che quasi alla soglia del XX

secolo, vivesse ancora in un sistema autocratico, nemmeno temperato da forme di

limitato costituzionalismo. I successori di Alessandro II, Alessandro III e Nicola II,

accantonarono ogni forma di occidentalizzazione. Ma se diveniva inattuabile

qualsiasi progresso nel settore politico, in campo economico, qualche piccolo

miglioramento si realizzò soprattutto nel settore industriale, già sul finire

dell’Ottocento. Tuttavia il tenore di vita della popolazione russa, che cresceva con un

ritmo vorticoso, restava molto basso. Tra i contadini aveva riscosso abbastanza

successo la nascita, nel 1900, del Partito socialista rivoluzionario, nato dall’unione di

gruppi anarchici e populisti.

Dappertutto, comunque, serpeggiava il malcontento e, la guerra col Giappone, nel

1904, aumentò tale situazione di crisi.

Così, in una domenica di gennaio del 1905, un corteo di più di 150.000 persone, a

Pietroburgo, si dirigeva verso il Palazzo d’Inverno, residenza dello zar, per chiedere

maggiori libertà politiche ed interventi di varia natura, atti ad alleviare il disagio nel

quale viveva la stragrande maggioranza della popolazione. Ma, la risposta dello zar

fu una brutale repressione, nella quale morirono più di cento persone. Da tale

repressione derivò un’ondata di agitazione per tutto il paese. Sorsero così, in molti

centri, dei nuovi organismi rivoluzionari, i soviet, ossia i consigli, rappresentanze

popolari elette sui luoghi di lavoro e costituite da membri revocabili, secondo un

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Page 21: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

principio di democrazia diretta, che si ispirava alla Comune. Il più importante tra

questi, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario della

capitale ed esercitò un grande potere in tutta la Russia. In ottobre, lo zar sembrò

disposto a cedere e promise libertà politiche e istituzioni rappresentative. Allo stesso

tempo però, le autorità favorivano la formazione di movimenti paramilitari di estrema

destra, le centurie nere, ed organizzavano spedizioni punitive contro i rivoluzionari, e

pogrom antiebraici. Così, tra novembre e dicembre dello stesso anno, terminata la

guerra in Giappone, lo zar decretava la fine della stagione dei soviet e schiacciava,

con durezza, le rivolte in tutta la Russia. Ristabilito l’ordine, promise l’elezione della

Duma, ossia di una assemblea rappresentativa, richiesta fortemente dai gruppi

liberal-democratici, che volevano avviare un processo di democratizzazione nella vita

politica russa. Diversa, al riguardo, la posizione dei bolscevichi, che non nutrivano

fiducia nei confronti delle istituzioni borghesi ed erano convinti che la classe operaia

dovesse guidare il processo rivoluzionario. La prima Duma, eletta nel 1906, a

suffragio universale ma con un complicato sistema che privilegiava i proprietari

terrieri, dotata di pochi poteri per condizionare l’esecutivo, fu sciolta dopo poco.

Stessa sorte subì la seconda Duma, eletta nel febbraio del 1907, la quale vedeva

rafforzate le ali estreme, destra reazionaria e socialisti rivoluzionari, ai danni del

centro, rappresentato dai costituzionali – democratici, i cadetti. A questo punto lo

zar modificò la legge elettorale, stabilendo che il voto di un proprietario valesse

cinquecento volte quello di un operaio: la Duma divenne, così, un’arma docile al

servizio dello zar, essendo formata solo da aristocratici. Artefice della politica

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Page 22: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

repressiva zarista fu il conte Pëtr Stolypin, primo ministro nel 1906, in sostituzione

del troppo liberale Vitte. Punto chiave della sua autoritaria riforma fu la dissoluzione

della struttura del mir: in base ad un decreto, i contadini ebbero la facoltà di uscire

dalle comunità di villaggio, diventando proprietari della terra, che coltivavano;

godendo di facilitazioni creditizie poterono acquistare altre terre, sottratte al demanio

statale o cedute, dietro indennizzo, dai latifondisti. Lo scopo era quello di creare una

piccola borghesia rurale, punto di riferimento per una modernizzazione economica e

garanzia di stabilità politica. Ma, il progetto riuscì solo in parte. Dei nuovi piccoli

proprietari nati con la riforma, una parte andò ad ingrandire il numero dei ricchi

contadini, i kulaki, mentre la maggioranza non ottenne che piccoli appezzamenti di

terra senza ottenere alcun significativo miglioramento del livello di vita. Tutto ciò

favorì l’esodo dalle campagne, e determinò ancor più forti squilibri sociali nel paese.

Quando, nel marzo del 1917, il regime zarista venne abbattuto dalla rivolta degli

operai e dei soldati di Pietrogrado fu creato un governo provvisorio di orientamento

liberale, costituito per iniziativa della Duma e presieduto da un aristocratico, il

principe Georgij L’vov. Obiettivo dichiarato dal governo era quello di continuare la

guerra a fianco dell’Intesa e di promuovere una sorta di “occidentalizzazione”, che

favorisse lo sviluppo economico. Condividevano questa tesi i liberal - moderati, i

menscevichi e i socialisti rivoluzionari. Questi ultimi erano divisi in correnti

eterogenee, ma quasi tutte consideravano inevitabile il passaggio attraverso una fase

democratico-borghese. Per questo accettarono, con i menscevichi, di far parte del

secondo governo provvisorio, costituito da L’vov nel maggio 1917. Gli unici a

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Page 23: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

rifiutare ogni partecipazione al potere furono i bolscevichi, convinti che solo la classe

operaia avrebbe potuto mutare le sorti del paese. Anch’essi, colti di sorpresa dallo

scoppio della rivoluzione, assunsero sulle prime una posizione di attesa. Come era già

accaduto nel 1905, al potere “legale” del governo si era subito affiancato e

sovrapposto il potere di fatto dei soviet: soprattutto di quello della capitale, che agiva

come una specie di parlamento proletario, emanando ordini spesso in contrasto con le

disposizioni governative. Quello che la rivoluzione aveva ormai messo in moto era,

secondo lo storico Edward H. Carr, “un movimento di massa animato da un

entusiasmo enorme e da visioni utopistiche di emancipazione dell’umanità dai ceppi

di un potere remoto e dispotico[…]L’idea di un’autorità centrale era tacitamente

respinta. Soviet locali di operai o di contadini spuntarono in tutta la Russia, e talune

città o distretti si dichiararono repubbliche sovietiche; comitati operai di fabbrica

rivendicavano un’autorità esclusiva sulla loro sfera, i contadini si impadronivano

della terra e se la dividevano. E su tutto incombeva il desiderio di pace, il desiderio

che avessero fine gli orrori di una guerra sanguinosa ed insensata”1.

Questa era la situazione nell’aprile del 1917, quando Lenin, leader dei bolscevichi,

rientrò in Russia dalla Svizzera. Giunto a Pietrogrado, diffuse un documento Le tesi

di aprile, in cui rifiutava la diagnosi corrente sul carattere borghese della fase

rivoluzionaria in atto e poneva in termini immediati il problema della presa del

potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria

sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati: era invece la Russia, in quanto

“anello più debole” della catena imperialista, a offrire le condizioni più favorevoli per 1 Cfr. E. H. Carr, Storia della Russia sovietica, Torino, Einaudi, nove tomi, 1964-1980.

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Page 24: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

la rivoluzione. Per l’immediato, l’obiettivo era quello di conquistare la maggioranza

nei soviet e di lanciare le parole d’ordine della pace, della terra ai contadini poveri,

del controllo sociale della produzione da parte dei consigli operai. Questo

programma poteva apparire utopico, ma faceva leva sullo stato d’animo delle masse

operaie e contadine e consentì al partito bolscevico di allargare i consensi.

Tuttavia si accentuava la frattura con gli altri gruppi socialisti, che avevano accettato

di partecipare al governo di coalizione e di collaborare alla prosecuzione dello sforzo

bellico. Il primo episodio di ribellione palese al governo provvisorio, si verificò a

Pietrogrado a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per

impedire la partenza al fronte di alcuni reparti. I bolscevichi, che inizialmente non

avevano approvato l’iniziativa, cercarono poi di assumerne il controllo. Ma,

l’insurrezione fallì per la presenza di truppe fedeli al governo. Alcuni leader dei

bolscevichi vennero arrestati o come Lenin costretti a fuggire.

In ogni caso, nell’agosto dello stesso anno, il principe L’vov si dimise e fu sostituito

da Kerenskij. Tuttavia la posizione del nuovo presidente del Consiglio era screditata

dal fallimento dell’offensiva contro gli austro-tedeschi da lui promossa in luglio: il

nuovo astro nascente era il generale Kornilov. Ai primi di settembre questi lanciò un

ultimatum al governo, chiedendo il passaggio dei poteri alle autorità militari.

Kerenskij reagì facendo appello alle forze socialiste, compresi i bolscevichi. Il

tentativo di colpo militare fu stroncato, ma ad uscire fortificati dalla vicenda furono

proprio i bolscevichi, protagonisti della mobilitazione popolare, che conquistarono la

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Page 25: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca. Per Lenin, rientrato in patria, i tempi

erano maturati per preparare l’insurrezione contro il governo provvisorio.

La decisione di rovesciare il governo Kerenskij fu presa dai bolscevichi il 23 ottobre

1917, in una drammatica riunione del Comitato centrale del partito, nella quale Lenin

dovette superare forti opposizioni. Favorevole all’insurrezione fu Lev Davidovic

Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij, che ne divenne il massimo

organizzatore. Kerenskij tentò di correre ai ripari, chiedendo aiuto alle truppe, che

però non obbedirono. La mattina del 7 novembre, soldati rivoluzionari e guardie

rosse, ossia milizie operaie armate, dopo essersi assicurati nella notte il controllo di

punti nevralgici della capitale, circondarono ed isolarono il Palazzo d’Inverno.

L’attacco fu incruento; pochissime le vittime nei rari e confusi scontri. Quando

cadeva l’ultima resistenza del governo provvisorio, si riuniva a Pietrogrado il

Congresso panrusso dei soviet, ossia l’assemblea dei delegati dei soviet di tutte le

province dell’ex Impero russo. Il congresso approvò due decreti proposti da Lenin. Il

primo faceva appello a tutti i popoli dei paesi belligeranti a firmare una pace giusta e

democratica, senza annessioni e senza indennità. Il secondo stabiliva che la grande

proprietà terriera era abolita immediatamente e senza alcun indennizzo. Il nuovo

potere tendeva così ad avere l’appoggio delle masse contadine, accontentate nelle

loro aspirazioni più immediate. Veniva costituito un governo rivoluzionario

composto solo da bolscevichi e di cui Lenin divenne presidente, che fu chiamato

Consiglio dei commissari del popolo. Tutte le altre forze politiche furono escluse:

solo la minoranza di sinistra dei socialrivoluzionari si schierò col nuovo governo ed

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Page 26: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

entrò a farne parte, successivamente, con tre esponenti. Le altre forze politiche

protestarono, ma non organizzarono manifestazioni: preferirono aspettare la

convocazione dell’Assemblea costituente, le cui elezioni erano state fissate per la fine

del mese di novembre. I bolscevichi riportarono solo nove milioni di voti, ottenuti per

lo più nei grandi centri. Quasi scomparsi i menscevichi ed i cadetti. I veri trionfatori

furono i socialrivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza assoluta con oltre

400 seggi, grazie all’elettorato rurale. Ma, i bolscevichi non volevano rinunciare al

potere. Riunitasi la prima volta in gennaio, la Costituente fu immediatamente sciolta,

grazie all’intervento di militari bolscevichi, che ubbidivano ad un ordine del

Congresso dei soviet.

Questo atto di forza era in linea con le idee di Lenin, che non credeva alle regole

della democrazia borghese e riconosceva al solo proletariato il diritto di guidare il

processo rivoluzionario, attraverso le sue espressioni dirette come il soviet e la sua

sedicente avanguardia organizzata, il partito. Con lo scioglimento della Costituente, il

potere bolscevico rompeva definitivamente con le altre componenti del movimento

socialista, ponendo le premesse per l’instaurazione di una dittatura di partito.

Se era stato facile per i bolscevichi impadronirsi del potere, molto difficile si

presentava il compito di gestirlo. Un compito certo reso ancor più difficile dal fatto

che i bolscevichi non potevano contare sull’appoggio di altre forze politiche. Inoltre,

molti ufficiali ed intellettuali abbandonarono il paese, assieme a numerosi esponenti

dell’aristocrazia, dando vita al più imponente fenomeno di emigrazione politica mai

verificatosi fino ad allora. In Stato e Rivoluzione, scritto alla vigilia della rivoluzione

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Page 27: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

d’ottobre, Lenin riprendeva la definizione di Marx sullo Stato, come strumento del

dominio di una classe sulle altre e prevedeva che, una volta scomparso questo

dominio, lo Stato si sarebbe avviato verso una rapida estinzione.

Per quanto riguardava la guerra, l’ipotesi su cui puntavano i bolscevichi era quella di

una sollevazione generale dei popoli europei, da cui sarebbe scaturita una pace equa.

Ma, ciò non accadde. La pace separata con la Germania, come visto, che fu conclusa

il 3 marzo 1918 con la firma del durissimo trattato di Brest-Litovsk, risultava, per i

comunisti, una scelta priva di alternative.

Gravissime furono anche le conseguenze del trattato a livello dei rapporti

internazionali. Le potenze dell’Intesa considerarono la pace come un tradimento ed in

risposta cominciarono ad appoggiare concretamente le forze antibolsceviche, che già

dal 1917 si erano andate organizzando in varie zone del paese. L’arrivo dei

contingenti stranieri servì a rafforzare l’opposizione al governo comunista,

soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i cosiddetti bianchi. Fra la primavera

e l’estate del 1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi, prima nel Nord della

Russia e poi sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi

penetravano nella Siberia orientale. Tutto ciò scatenò una guerra civile in molte zone

del paese. Nel 1918 frattanto, lo zar e tutta la sua famiglia furono giustiziati nel

timore che venissero liberati dai controrivoluzionari.

Il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, lasciando da parte le utopie

antimilitariste e i progetti di autogoverno popolare. Nel 1917 era intanto sorta la

Ceka, ossia una polizia politica. Nello stesso periodo venne istituito il Tribunale

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Page 28: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

rivoluzionario centrale, col compito di processare chiunque disubbidisse al governo

operaio e contadino. Nel 1918, tutti i partiti d’opposizione vennero messi fuori legge

e fu reintrodotta la pena di morte, che era stata abolita dopo la rivoluzione d’ottobre.

Si procedeva anche alla riorganizzazione dell’esercito, ricostituito ufficialmente nel

febbraio 1918, col nuovo nome di Armata rossa degli operai e contadini. Artefice

principale della stessa riorganizzazione militare fu Trotzkij, che rese la milizia

popolare una potente macchina da guerra, fondata su una ferrea disciplina. Nella

primavera del 1920 le armate bianche erano sconfitte, a parte qualche residua sacca

di resistenza, e la fase più acuta della guerra civile poteva dirsi esaurita.

Il regime bolscevico subì, però, un inatteso attacco esterno. A sferrarlo fu, nell’aprile

1920, la nuova Repubblica di Polonia. I governanti polacchi, infatti, insoddisfatti dei

confini definiti a Versailles, decisero di profittare della debolezza del nuovo regime

russo per recuperare i territori appartenenti alla “Grande Polonia” due o tre secoli

prima. L’Armata rossa riuscì però a respingere l’offensiva e a giungere sino alle porte

di Varsavia ma, alla fine di agosto, una controffensiva polacca costrinse i russi alla

ritirata. Si arrivò, infine, nel dicembre 1920 alla conclusione di un armistizio e quindi

alla pace nel marzo 1921. La Polonia vide in parte accontentate le sue aspirazioni

territoriali, incorporando ampie zone della Bielorussia e dell’Ucraina. La guerra

contro l’aggressione straniera aveva però accresciuto in Russia il senso di coesione

nazionale, riavvicinando molti oppositori al regime sovietico, ormai identificato come

una nuova “patria socialista”.

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Page 29: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Le forze bolsceviche avevano compiuto il miracolo di far nascere il primo Stato

socialista in un paese arretrato. Fra i dirigenti bolscevichi era diffusa, tuttavia, l’idea

che questa fosse una situazione transitoria e, alla lunga, il regime comunista avrebbe

potuto sopravvivere solo con l’aiuto del proletariato dell’Europa più progredita. In

questo clima, Lenin decise di realizzare un progetto concepito sin dall’inizio della

prima guerra mondiale, ossia sostituire alla vecchia Internazionale socialista una

nuova Internazionale comunista, che coordinasse gli sforzi dei partiti rivoluzionari di

tutto il mondo e rappresentasse una rottura definitiva con la socialdemocrazia

europea. Del resto, dal 1918, i bolscevichi avevano assunto la nuova denominazione

di Partito comunista di Russia. La riunione costitutiva dell’Internazionale comunista,

o Terza Internazionale, ebbe luogo a Mosca ai primi del marzo 1919. Vi

parteciparono una cinquantina di delegati, provenienti dalle ex province dell’Impero:

nasceva così il Comintern. Nel primo anno di vita, la nuova organizzazione non

svolse attività di rilievo. La sua struttura e i suoi compiti precisi vennero, infatti,

fissati nel II Congresso, che si tenne a Mosca nel luglio 1920. I partecipanti, questa

volta, furono numerosi e rappresentavano 69 partiti operai provenienti da ogni parte

del mondo. Lenin, in un documento di ventuno punti, fissò le condizioni di

partecipazione al Comintern. Nel documento si affermava, tra l’altro, che i partiti

aderenti avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome

in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia

sovietica, rompere con le correnti riformiste, espellendone i principali esponenti.

Condizioni così pesanti suscitarono, in seno al movimento operaio, accesi dibattiti e

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Page 30: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

facilitarono nuove scissioni. Fra la fine del 1920 e l’inizio del 1921 fu comunque

raggiunto quello che era stato lo scopo principale del congresso: creare in tutto il

mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del

partito guida. In tutta l’Europa occidentale, i partiti comunisti rimasero, però,

minoritari rispetto ai socialisti. Il legame col Partito bolscevico e con la Repubblica

dei soviet divenne un fattore di debolezza o, quanto meno, un limite alle possibilità di

espansione delle forze comuniste in Europa occidentale.

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Page 31: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Lenin, Stalin e la Russia comunista

Quando i comunisti presero il potere, l’economia russa si trovava in una situazione

estremamente grave. Ancor più grave era il dissesto finanziario. Le banche furono

nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati. Ma, tutto questo servì a poco, visto

che il governo non era in grado di riscuotere le tasse, ed in più costretto a stampare

carta moneta priva di qualsiasi valore. A partire dal 1918, il governo bolscevico cercò

di attuare in campo economico una politica più energica ed autoritaria, che fu definita

col termine di comunismo di guerra. Fu incoraggiata, senza per altro molto successo,

la formazione di comuni agricole volontarie, le fattorie collettive (kolchoz), e furono

anche istituite delle fattorie sovietiche (sovchoz), gestite dallo Stato o dai soviet

locali. In campo industriale, il comunismo di guerra fu inaugurato da un decreto del

giugno 1918, che nazionalizzava tutti i settori più importanti. Si cercò quindi di

utilizzare i vecchi quadri dirigenti delle imprese, spesso affiancandoli con funzionari

di partito, e di reintrodurre nelle fabbriche criteri di efficienza, compreso il sistema

del cottimo, ossia del salario legato al rendimento. Grazie al comunismo di guerra, il

regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento di alcune importanti funzioni

della vita organizzata, e soprattutto poté armare e nutrire il suo esercito.

Nonostante tanta buona volontà, però, alla fine del 1920 il volume della produzione

industriale era di ben sette volte inferiore a quello del 1913. Le grandi città si erano

spopolate e nelle campagne il raccolto dei cereali risultava dimezzato rispetto

all’anteguerra. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell’illegalità, con

gli inevitabili fenomeni di “borsa nera”. I contadini manifestarono sempre più

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Page 32: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

chiaramente la loro insofferenza, dando vita nell’inverno 1920-’21, a vere sommosse.

La crisi raggiunse il culmine nella primavera-estate del 1921, quando, per effetto

congiunto della guerra civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le

campagne della Russia e dell’Ucraina, provocando la morte di almeno tre milioni di

persone. Non meno imbarazzante, per il potere comunista, era il dissenso operaio, che

cominciava a serpeggiare in forme sempre più evidenti. Gli operai, infatti, erano

delusi sia per la scomparsa di una vera rappresentanza sindacale, sia per il regime di

militarizzazione imposto in molte fabbriche. Nel marzo del 1921, a ribellarsi al

governo furono i marinai della base di Kronstadt, presso Pietroburgo: i dirigenti

comunisti risposero con una dura repressione militare.

Sempre nel marzo 1921, si tenne a Mosca il X Congresso del Partito comunista. Sul

piano politico, tale Congresso segnò la fine di ogni aperta dialettica all’interno del

partito, vietando la formazione di correnti organizzate. In campo economico fu

abbandonato l’esperimento del comunismo di guerra e avviata una parziale

liberalizzazione nella produzione e negli scambi.

La nuova politica economica, Nep, aveva l’obiettivo principale di stimolare la

produzione agricola e di favorire l’afflusso dei generi alimentari verso le città. Ai

contadini si consentiva di vendere sul mercato le eventuali eccedenze, una volta

consegnata agli organi statali una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si

estese anche al commercio e alla piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo

Stato mantenne, però, il controllo delle banche e dei maggiori gruppi industriali.

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Page 33: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Nelle campagne, i nuovi spazi concessi all’iniziativa privata, stimolarono la ripresa

produttiva, ma favorirono il riemergere dei contadini ricchi, i kulaki, che giunsero a

controllare il mercato agricolo. La liberalizzazione del commercio aumentò la

disponibilità dei beni di consumo, ma provocò la nascita di un’altra classe di

trafficanti, i nepmen, la cui ricchezza contrastava col basso tenore di vita della

maggioranza della popolazione urbana. In queste condizioni, l’industria non poteva

dare lavoro a tutti quelli che lo richiedevano. Nelle città cresceva il numero dei

disoccupati. I salari erano, inoltre, piuttosto bassi, mentre la contrattazione rimaneva

difficile, a causa dall’assenza di una vera organizzazione sindacale.

La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria era stata varata nel luglio del 1918,

in piena guerra civile, e rispecchiava l’originaria impostazione operista e consiliare

del gruppo dirigente bolscevico. Essa si apriva con una “Dichiarazione dei diritti del

popolo lavoratore e sfruttato”, dove si proclamava che il potere doveva

“appartenere unicamente e interamente alle masse lavoratrici e ai loro autentici

organismi rappresentativi: i soviet degli operai, dei contadini e dei soldati”.

La Costituzione prevedeva che il nuovo Stato avesse carattere federale, rispettasse

l’autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all’unione, su basi di parità, con altre

future repubbliche sovietiche. La prospettiva a lungo termine era quella di un’unica

repubblica socialista mondiale.

In realtà, quella che si attuò, tra il 1920 e il 1922, fu semplicemente l’unione alla

Repubblica russa (che comprendeva anche l’intera Siberia), delle altre province

dell’ex Impero zarista, nelle quali i bolscevichi erano riusciti a prendere il potere,

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Page 34: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

dopo aver eliminato le altre forze politiche. Nel dicembre 1922, i congressi dei soviet

delle singole repubbliche decisero di dare vita all’Unione delle repubbliche socialiste

sovietiche (Urss).

La nuova Costituzione, approvata nel 1924, si basava su di una complessa struttura

istituzionale, il cui potere supremo era affidato al Congresso dei soviet dell’Unione.

Il potere reale era, però, concentrato nelle mani del Partito Comunista, l’unico la cui

esistenza fosse prevista dalla Costituzione. Era il partito, tra l’altro, a controllare la

polizia politica, come pure a fornire le direttive ideologiche e politiche, a cui si

conformava l’azione di governo. Il partito era organizzato secondo criteri di rigido

centralismo. Lo Stato, che si proclamava fondato sulla democrazia sovietica e sulla

libera federazione fra le diverse nazioni, finiva con l’essere governato, attraverso un

apparato fortemente centralizzato, dal ristretto gruppo dirigente del Partito

bolscevico.

Lo sforzo di trasformazione del paese, intrapreso dai bolscevichi, non riguardò solo le

strutture economiche e gli ordinamenti politici. Anche i comunisti, come tutti i

rivoluzionari, miravano a cambiare nel profondo la società, a cancellare valori e

comportamenti tradizionali. L’educazione della gioventù tendeva alla creazione

dell’uomo nuovo: tutto era finalizzato alla nascita di una cultura adatta alla realtà

socialista. Ma altrettanto importante diventava la lotta, che i bolscevichi conducevano

contro la Chiesa ortodossa, in quanto espressione di una visione del mondo che essi

volevano estirpare, poiché incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina

marxista. La lotta per la scristianizzazione del paese fu condotta con molta durezza:

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confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di chiese, arresti di capi religiosi. L’influenza

della Chiesa non fu del tutto eliminata, ma molto ridimensionata. La stessa Chiesa

ortodossa, che pure contava su di una presenza capillare nella società russa, era, già

prima della rivoluzione, indebolita e non poté opporre alcuna resistenza. Il governo

rivoluzionario stabilì, tra i suoi primi atti, il riconoscimento del solo matrimonio

civile e semplificò le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Fu

proclamata la parità tra i sessi e la condizione dei figli illegittimi venne equiparata a

quella dei figli legittimi.

Il settore in cui maggiormente operò il nuovo regime fu quello dell’istruzione, resa

obbligatoria fino all’età di quindici anni. Si cercò, inoltre, di collegare la scuola al

mondo della produzione, privilegiando l’istruzione tecnica su quella umanistica. Il

nuovo governo si preoccupò, come accennato, di formare ideologicamente le nuove

generazioni, incoraggiando l’iscrizione in massa nell’organizzazione giovanile del

partito, il Komsomol, ossia l’Unione comunista della gioventù e, facendo largo spazio

all’insegnamento della dottrina marxista.

Nell’aprile del 1922, l’ex commissario alle Nazionalità Josip Djugasvili, detto Stalin,

fu nominato segretario generale del Partito comunista dell’Urss. Poche settimane

dopo, Lenin venne colpito dal primo attacco di quella malattia che ne avrebbe

limitato le capacità di lavoro e lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924.

Finché era rimasto sulla breccia, Lenin aveva controllato il partito; con la sua malattia

e la contemporanea ascesa di Stalin, le cose cambiarono. I dissensi interni si fecero

aspri e si intrecciarono con una sempre più evidente lotta per la successione.

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Il primo grande scontro, all’interno del gruppo dirigente, ebbe per oggetto il

problema della centralizzazione, della burocratizzazione del partito e degli enormi

poteri, che si andavano accumulando nelle mani del nuovo segretario generale Stalin.

Protagonista sfortunato della battaglia, volta a limitare le prerogative dell’apparato e

a ridare spazio ai principi della democrazia sovietica nella conduzione del partito e

dello Stato, fu Lev Trotzkij. Per le sue doti personali e per il ruolo di primo piano

svolto nelle fasi della presa del potere e della guerra civile, Trotzkij era il più

autorevole e popolare, dopo Lenin, fra i capi bolscevichi. Tuttavia, risultava isolato

rispetto ad altri leader di primo piano, come Zinov’ev, Kamenev, Bucharin, i quali

fecero blocco col segretario generale, che poté così rafforzare la sua posizione.

Lo scontro fra Trotzkij e Stalin, cominciato nell’autunno del 1923, non riguardava

solo il problema della burocratizzazione. Trotzkij collegava, infatti, l’involuzione del

partito all’isolamento internazionale dello Stato sovietico, costretto a dedicare energie

preziose alle esigenze della difesa e a sopportare da solo il peso della sua arretratezza.

L’Unione Sovietica doveva da un lato accelerare i suoi ritmi di industrializzazione,

dall’altro concentrare i suoi sforzi nel tentativo di favorire l’estendersi del processo

rivoluzionario nell’Occidente capitalistico e soprattutto nei paesi più sviluppati.

Contro questa tesi, per cui fu coniata l’espressione rivoluzione permanente, scese in

campo lo stesso Satin. Egli sosteneva, infatti, che, nei tempi brevi, la vittoria del

“socialismo in un solo paese” era “possibile e probabile” e l’Unione Sovietica aveva

in sé le forze sufficienti per fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. La teoria del

socialismo in un solo paese rappresentava una rottura con quanto era stato affermato

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Page 37: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

sino ad allora dai bolscevichi, anche se aveva il vantaggio di adattarsi alla situazione

reale, che da tempo non consentiva illusioni circa la possibilità di una rivoluzione

mondiale e offriva, inoltre, al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico.

Le potenze europee, tra il 1924 e il 1925, si decisero a riconoscere lo Stato sovietico e

ad instaurare con questo, normale rapporto diplomatico. Tutto ciò, rafforzò la

posizione di Stalin. Il risultato fu l’ulteriore emarginazione di Trotzkij.

Ma, sconfitto Trotzkij, venne meno il legame principale, che teneva uniti i suoi

avversari e il gruppo dirigente comunista conobbe una nuova drammatica spaccatura.

L’occasione del nuovo scontro fu offerta dalla politica economica. A partire

dall’autunno del 1925, Zinov’ev e Kamenev, riprendendo le teorie di Trotzkij, si

pronunciarono per un’interruzione dell’esperimento della Nep. Secondo questi

dirigenti comunisti era proprio la Nep a favorire la rinascita del capitalismo nelle

campagne. Bisogna, invece, rilanciare il processo di industrializzazione a spese degli

strati contadini privilegiati. La tesi opposta, favorevole alla continuazione della Nep

e al sostegno della piccola impresa agricola, fu sostenuta con decisione da Bucharin,

con l’appoggio di Stalin. Zinov’ev e Kamenev, messi in minoranza nel congresso del

partito tenutosi nel dicembre del 1925, si riaccostarono a Trotzkij e, assieme a lui,

cercarono di organizzare un fronte unico di opposizione. Ma, la lotta era perduta in

partenza. I leader dell’opposizione furono dapprima allontanati dall’Ufficio politico e

dal Comitato centrale e poi, nel 1927, addirittura espulsi dal partito. Trotzkij,

deportato in una località dell’Asia centrale, venne, infine, espulso dall’Urss.

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Page 38: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Con la sconfitta dell’opposizione di sinistra e con l’uscita di scena di buona parte del

gruppo dirigente storico si chiudeva la prima fase della rivoluzione comunista, la fase

eroica della costruzione del nuovo Stato.

Negli anni in cui trionfavano in Europa la grande depressione ed il fascismo,

lavoratori e intellettuali antifascisti di tutto il mondo guardavano con interesse e

speranza all’Unione Sovietica, paese che tentava di costruire una nuova società

fondata sui principi del socialismo e si presentava come l’estrema riserva

dell’antifascismo mondiale. Tra il 1927 e il 1928, Stalin decise di porre fine alla Nep

e di tentare un forzato processo di industrializzazione. Ma, per far ciò, era necessario

che lo Stato acquistasse il controllo completo dei processi economici. Il primo

ostacolo alla costruzione di un’economia totalmente collettivizzata e industrializzata

fu individuato nel ceto dei contadini benestanti, i kulaki, accusati di arricchirsi alle

spalle del popolo. Contro di loro, vennero adottate misure restrittive e operate ingenti

requisizioni. Stalin, nel 1929, proclamò la necessità di procedere immediatamente

alla collettivizzazione del settore agricolo e addirittura di eliminare i kulaki come

classe. Contro questa linea si pose Bucharin, ma la maggioranza del partito appoggiò

il segretario: lo stesso Bucharin e i suoi amici, condannati nel 1930 come

deviazionisti di destra, subirono una sorte analoga a quella dell’opposizione di

sinistra. Non solo i kulaki, ma anche tutti coloro che si opponevano alle requisizioni e

resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive furono considerati nemici del

popolo. Quella attuata nelle campagne dell’Urss fra il 1929 e il 1933 fu una

gigantesca rivoluzione dall’alto, come la definì lo stesso Stalin. I kulaki vennero

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Page 39: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

eliminati e la maggioranza dei contadini fu inserita nelle fattorie collettive. L’eccesso

di popolazione nelle campagne fu drasticamente ridotto con le deportazioni ed anche

con l’emigrazione verso i centri industriali. Disorganizzazione ed inefficienza si

sommarono alla resistenza dei contadini, che preferirono macellare subito il bestiame

piuttosto che consegnarlo alle fattorie collettive, fino a provocare una vera e propria

carestia.

Solo nella seconda metà degli anni ’30, la situazione si andò normalizzando e la

produzione agricola superò i livelli dei tempi della Nep.

Il vero scopo della collettivizzazione era, tuttavia, quello di favorire

l’industrializzazione del paese, mediante lo spostamento di risorse economiche e di

energie umane. Da questo punto di vista i risultati furono notevoli, anche se inferiori

a quelli programmati: il primo piano quinquennale per l’industria, varato nel 1928,

fissava, infatti, una serie di obiettivi tecnicamente impossibili da conseguire, frutto

più di una decisione politica che di un calcolo economico. La crescita nel settore fu,

però, imponente: nel 1932 proprio la produzione industriale era aumentata, rispetto al

1928, di circa il 50%. Col secondo piano quinquennale, dal 1933 al 1937, la

produzione aumentò di un altro 120% e il numero degli operai giunse a toccare i 10

milioni. I lavoratori, che contribuivano in misura maggiore alla crescita della

produzione, venivano promossi e insigniti di onorificenze. Si diffuse, così, lo spirito

di emulazione, che spesso sconfinava in una sorte di competizione sportiva. Il caso

di un minatore del bacino del Don, Aleksej Stachanov, divenuto famoso per aver

estratto in una notte un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte a

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Page 40: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

quello normale, diede origine a un vero e proprio movimento di massa, detto appunto

stachanovismo.

Sorretto da un enorme apparato burocratico e poliziesco, Stalin finì con l’assumere il

ruolo di capo carismatico, non diverso da quello posseduto, nello stesso periodo, dai

dittatori di diversa ideologia. Era il padre e la guida infallibile del suo popolo,

l’autorità politica suprema, ma anche il depositario dell’autentica dottrina marxista e

il garante della sua corretta applicazione. Ogni critica nei suoi riguardi assumeva,

così, i caratteri odiosi del tradimento. La letteratura, il cinema, la musica, le arti

figurative furono sottoposte ad una rigida censura e costrette a svolgere una funzione

propagandistico-pedagogica, entro i canoni del cosiddetto realismo socialista. La

storia russa fu riscritta per esaltare il ruolo di Stalin e sminuire quello di Trotzkij.

Come fu possibile che una tirannide così totale scaturisse da una rivoluzione, che

aveva suscitato tante speranze di libertà, oltre che di giustizia sociale? Alcuni hanno

spiegato lo stalinismo, collegandolo alla tradizione centralistica e autocratica del

regime zarista. Altri hanno visto, invece, nella dittatura staliniana, una forma inedita

di dispotismo industriale, una scorciatoia autoritaria funzionale all’esigenza di un

rapido sviluppo economico. Altri ancora, hanno cercato le radici del fenomeno Stalin

nella storia stessa del bolscevismo, nelle teorie di Lenin e nella prassi

antidemocratica, inaugurata dai comunisti subito dopo la presa del potere. Un

ulteriore filone interpretativo ha considerato lo stalinismo come una deviazione di

destra della rivoluzione, paragonandolo alla dittatura napoleonica o, come diceva

Trotzkij, alla reazione termidoriana, seguita alla rivoluzione giacobina. Ognuna di

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Page 41: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

queste tesi contiene elementi validi. Lo stalinismo fu un fenomeno profondamente

inserito nella storia della Russia. Stalin sviluppò, portandole alle estreme

conseguenze, alcune premesse autoritarie, che esistevano già nel pensiero di Lenin e

nel sistema sovietico, ma introdusse, nella gestione di questo sistema, un sovrappiù di

spietatezza e di arbitrio. Già negli anni del primo piano quinquennale e della

collettivizzazione, la macchina del terrore aveva cominciato a funzionare. Vittime

principali erano stati i contadini, ma non vennero risparmiati i commercianti, i tecnici

e i dirigenti del partito, accusati di sabotare lo sforzo produttivo. Il periodo delle

grandi purghe cominciò, però, nel 1934. L’assassinio organizzato, forse dallo stesso

Stalin, di Sergej Kirov, esponente di punta del gruppo dirigente comunista, fornì il

pretesto per una imponente ondata di arresti, che colpirono in larga misura gli stessi

quadri del partito. Si trattò di un’enorme repressione poliziesca, condotta con

l’arbitrio più assoluto, che colpì milioni di persone, tra cui lo stesso Trotzkij.

Nasceva, così, un universo concentrazionario, formato dai campi di lavoro, detti con

termine tedesco lager, disseminati in tutte le zone più inospitali dell’Urss. La

repressione non risparmiò nessun settore. Si calcola che, fra il 1937 e il 1938, circa

700.000 persone morirono a causa delle purghe.

Le grandi purghe, le deportazioni in massa, i processi sommari, provocarono una

certa impressione in Occidente, ma nel complesso la denuncia dello stalinismo non

ebbe grande rilievo negli ambienti democratici e socialisti. Lo impedivano il difetto

delle informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno, ma anche i pregiudizi

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Page 42: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

ideologici e soprattutto le remore politiche: troppo prezioso era il contributo dell’Urss

e del comunismo internazionale alla lotta contro il fascismo.

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Page 43: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il dopoguerra in Italia e l’avvento del Fascismo

Nel gennaio 1919, in Italia, sorse una nuova formazione politica, che prese il nome di

Partito popolare italiano (Ppi). Tale partito, che ebbe il suo padre riconosciuto e il

suo primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di

impostazione democratica e, pur ispirandosi alla dottrina cattolica, si dichiarava laico

e aconfessionale. La sua nascita venne resa possibile dal diverso atteggiamento,

assunto dopo la guerra dal pontefice, dalle gerarchie ecclesiastiche, entrambi

preoccupati di porre un argine all’avanzata del socialismo. Nelle file del partito erano

confluiti, accanto agli eredi della democrazia cristiana e ai capi delle leghe bianche,

anche gli esponenti delle correnti clerico-moderate, che avevano guidato il

movimento cattolico nell’anteguerra. La nascita del partito rappresentò una svolta

positiva per la democrazia italiana, la fine di un’anomalia, che aveva accompagnato

lo Stato unitario sin dalla nascita.

L’altra novità fu la crescita del Partito socialista, i cui iscritti aumentavano

vertiginosamente. Tuttavia, all’interno del partito stesso, schiacciante era la

maggioranza dei massimalisti sui riformisti, che tuttavia mantenevano una posizione

di forza nel gruppo parlamentare. I massimalisti, il cui leader era Giacinto Menotti

Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica

socialista, fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori

entusiasti della rivoluzione bolscevica. I massimalisti italiani, tuttavia, avevano ben

poco in comune con i bolscevichi russi: più che preparare la rivoluzione, la

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Page 44: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

aspettavano, ritenendola, tuttavia, inevitabile. In polemica con questa impostazione,

si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti soprattutto da giovani, che

si battevano per un coerente impegno rivoluzionario. Tra questi gruppi emergeva

quello napoletano, a cui faceva capo Amadeo Bordiga e quello torinese, attorno ad

Antonio Gramsci e alla Rivista “L’Ordine Nuovo”. Se Bordiga puntava sulla

formazione di un nuovo partito rivoluzionario sul modello bolscevico, Gramsci agiva

a contatto coi nuclei operativi più avanzati e combattivi d’Italia, ed era affascinato

dall’esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta, contro l’ordine borghese e al

tempo stesso come embrioni della società socialista.

Tra i vari movimenti, nati nel dopoguerra, spiccava quello fondato a Milano, il 23

marzo 1919, da Benito Mussolini, col nome di Fasci di combattimento. Politicamente

questo movimento si schierava a sinistra, chiedeva riforme sociali e si dichiarava

favorevole alla repubblica. Ostentava, però, anche un acceso nazionalismo ed una

avversione ai socialisti. All’inizio il fascismo raccolse pochi consensi, ma si fece

notare per il suo stile aggressivo e violento, insofferente di vincoli ideologici e teso

verso l’azione diretta. I fascisti diedero, così, vita al primo scontro di guerra civile

nell’Italia del dopoguerra. Tale scontro si verificò a Milano il 15 aprile 1919 e si

concluse con l’incendio della sede dell’ “Avanti!”.

Dal punto di vista degli equilibri internazionali, l’Italia era uscita dalla guerra

nettamente rafforzata. Aveva raggiunto i “confini naturali” e visto scomparire

l’Impero asburgico. La dissoluzione dell’Austria – Ungheria poneva, però, dei

problemi non previsti, nel momento in cui era stato stipulato il Patto di Londra: in

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Page 45: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

esso si stabiliva, fra l’altro, che la Dalmazia, abitata prevalentemente da slavi, fosse

annessa all’Italia e che la città di Fiume, dove gli italiani erano in maggioranza,

restasse all’Impero austro-ungarico. La delegazione italiana, alla Conferenza di

Versailles, capeggiata dal presidente del Consiglio Orlando e dal ministro degli Esteri

Sonnino, chiese l’annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità, ma in

aggiunta ai territori promessi nel 1915. Tali richieste incontrarono l’opposizione degli

alleati, in particolare di Wilson. Nell’aprile del 1919, per protestare contro

l’atteggiamento del presidente americano, che aveva cercato di scavalcarli

indirizzando un messaggio al popolo italiano, Orlando e Sonnino abbandonarono

Versailles e fecero ritorno in Italia. Ma, un mese dopo, dovettero ritornare a Parigi

senza aver ottenuto alcun risultato.

Questo insuccesso segnò la fine del governo Orlando: il suo posto venne preso da

Francesco Saverio Nitti, un economista e meridionalista di orientamento

democratico.

La situazione in Italia era molto critica e gran parte dell’opinione pubblica nutriva

ostilità verso gli ex alleati: D’Annunzio parlava di vittoria mutilata. Questa protesta

culminò nel settembre del 1919, quando alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi

di volontari, comandati dallo stesso D’Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta

allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l’annessione all’Italia.

L’avventura fiumana si prolungò per quindici mesi; D’Annunzio istituì una

provvisoria reggenza e nella città confluirono esuli di diverse nazionalità:

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Page 46: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

intellettuali, giovani idealisti e avventurieri d’ogni tipo, tutti per protestare contro le

decisioni di Versailles.

In coincidenza con l’avventura di Fiume, l’Italia attraversò una fase di convulse

agitazioni sociali. Fra il giugno e il luglio del 1919 le principali città italiane furono

teatro di una serie di violenti tumulti contro l’aumento del costo della vita. Tale

aumento determinò una continua rincorsa tra salari e prezzi, che si tradusse, a sua

volta, in una grande ondata di agitazioni sindacali. Gli scioperi nell’industria

passarono dai 300 del 1918 ai 1660 del 1919, con un numero di lavoratori coinvolti

superiore al milione, e aumentarono ancora nel 1920. Non meno intense furono, in

questo periodo, le lotte dei lavoratori agricoli. Oltre alla bassa Padana, dove le leghe

rosse avevano in pratica il monopolio della rappresentanza sindacale, le agitazioni

interessarono anche altre aree del Centro-Nord: zone in cui dominavano la mezzadria

e la piccola proprietà e in cui erano attive le leghe bianche cattoliche. Mentre le

organizzazioni socialiste insistevano sul programma massimo della socializzazione

della terra, i cattolici difendevano la mezzadria e le altre forme di compartecipazione

e si battevano per lo sviluppo della piccola proprietà contadina. L’aspirazione alla

proprietà della terra fu all’origine di un altro movimento, che si sviluppò in forma

spontanea fra l’estate e l’autunno del 1919 nelle campagne del Centro-Sud:

l’occupazione di terre incolte e latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex

combattenti.

Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che ebbero luogo nel novembre del 1919,

diedero la misura delle trasformazioni avvenute rispetto al periodo prebellico, ma

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Page 47: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

mostrarono anche la gravità delle fratture, che attraversavano la società e il sistema

politico. Furono le prime elezioni col metodo della rappresentanza proporzionale,

con scrutinio di lista: metodo, che prevedeva il confronto fra liste di partito e,

contrariamente al vecchio collegio uninominale, assicurava, alle varie liste, un

numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti. L’esito delle elezioni fu disastroso per

la vecchia classe dirigente: i gruppi liberal – democratici, che si erano presentati

divisi, persero la maggioranza assoluta passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a

circa 200. I socialisti si affermarono come primo partito e 156 seggi, seguiti dai

popolari con 100 deputati.

Questi risultati mostravano che il sistema politico non era capace né di reggersi

secondo il vecchio equilibrio, né di esprimerne uno nuovo. Dal momento che il Psi

rifiutava ogni collaborazione coi gruppi borghesi, l’unica maggioranza possibile era

quella basata sull’accordo fra popolari e liberal – democratici. Su questa coalizione

precaria si fondarono gli ultimi governi dell’era liberale.

Nel giugno del 1920 fu chiamato a costituire il nuovo governo Giovanni Giolitti.

Rimasto ai margini della vita politica negli anni della guerra, Giolitti era rientrato in

scena alla vigilia delle elezioni, delineando in un discorso a Dronero, in Piemonte, un

programma molto avanzato, in cui si proponeva, fra l’altro, la nominatività dei titoli

azionari e un’imposta straordinaria sui “sovrapprofitti” realizzati dall’industria

bellica. Le preoccupazioni che questo programma suscitava negli ambienti

conservatori passarono in secondo piano rispetto alla speranza che l’anziano statista

riuscisse a domare l’opposizione socialista con le arti del compromesso parlamentare.

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Page 48: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

In effetti, nei dodici mesi che seguirono, Giolitti tenne la guida dell’esecutivo, con

abilità ed energia e i risultati migliori li ottenne in politica estera, imboccando l’unica

strada praticabile per la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato

diretto con la Jugoslavia. Tale negoziato si concluse il 12 novembre 1920 con la

firma del trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. La

Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all’Italia. Fiume

venne dichiarata città libera: sarebbe diventata italiana, grazie ad un ulteriore accordo

con la Jugoslavia nel 1924. Il trattato fu accolto favorevolmente dall’opinione

pubblica e dalle forze politiche: a Fiume, D’Annunzio annunciò una resistenza ad

oltranza. Quando però, nel giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la

città dalla terra e dal mare egli preferì abbandonare la partita.

Molto serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna.

Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo

del pane e avviò, così, il risanamento del bilancio dello Stato. Tuttavia, non tutti i

progetti giolittiani riuscirono a realizzarsi. Soprattutto fallì il disegno politico

complessivo dello statista piemontese, disegno che prevedeva il ridimensionamento

delle spinte rivoluzionarie del movimento operaio. Giolitti non riuscì, del resto, a far

del Parlamento il centro della vita politica italiana. Ormai quest’ultima si era spostata

nei sindacati, nelle segreterie dei partiti, nelle piazze. Nell’estate-autunno del 1920 i

conflitti sociali conobbero il loro episodio più drammatico con le agitazioni dei

metalmeccanici, culminate nell’occupazione delle fabbriche. Dal canto loro gli

industriali del settore metalmeccanico cercarono la prova di forza, mentre la Fiom,

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Page 49: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

ossia la Federazione italiana operai metallurgici, mantenne compattezza e

determinazione. Al di fuori dei canali sindacali, poi, si svilupparono i consigli di

fabbrica, organismi eletti direttamente dai lavoratori ed ispirati ai soviet.

Nei primi giorni di settembre del 1920 furono occupati quasi tutti gli stabilimenti

metallurgici e meccanici da circa 400.000 operai. La maggior parte dei lavoratori

visse questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario destinato ad allargarsi

ben oltre le officine occupate. Il movimento, però, non fu in grado di collegarsi alle

altre lotte sociali in corso e di porsi, in modo concreto, il problema del potere.

Prevalse così la linea della Cgl, che intendeva spostare lo scontro sul piano

economico e proponeva, come obiettivo, il controllo sindacale sulle aziende. Tale

tendenza fu favorita da Giolitti, sino ad allora rimasto su una linea di neutralità. Il 19

settembre, il capo del governo riuscì a far accettare ai riluttanti industriali un accordo,

che accoglieva, nella sostanza, le richieste economiche della Fiom e affidava ad una

commissione paritetica l’incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale.

Se proprio sul piano sindacale gli operai uscivano vincitori dallo scontro, su quello

politico la sensazione dominante era di delusione, rispetto alle attese maturate nei

giorni dell’occupazioni stessa.

Intanto, con il II congresso del Comintern, come visto, venivano fissate le condizioni

per l’ammissione dei partiti operai all’Internazionale comunista. Nel gennaio del

1921, a Livorno nasceva il Partito comunista, da un’esigua minoranza del Partito

socialista. Il nuovo partito sorgeva su una base piuttosto ristretta e con un programma

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Page 50: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria si andava

dileguando in Italia e in tutta l’Europa.

L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono la fine, in Italia,

del biennio rosso. Provata da due anni di lotte ed indebolita dalle divisioni interne, la

classe operaia cominciò ad accusare i colpi della crisi recessiva, che stava investendo

l’economia italiana ed europea.

In questo quadro, si inserì il nuovo fenomeno del fascismo agrario. Fino all’autunno

del 1920, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica e non era

uscito dall’ambito dei gruppi di matrice interventista, a base urbana intellettuale e

piccolo-borghese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il movimento subì un

cambiamento che lo portò ad accantonare l’originale programma radical –

democratico, a fondarsi su strutture paramilitari e a puntare le sue carte su una lotta

spietata contro il movimento socialista. Questa trasformazione si spiega in parte con

una scelta di Mussolini, che decise di cavalcare l’ondata di riflusso antisocialista

seguita al biennio rosso, in parte va ricollegata alla particolare situazione delle

campagne padane, dove il fascismo agrario si sviluppò, zone in cui era, tuttavia, più

forte la presenza delle leghe rosse.

L’atto di nascita del fascismo agrario viene comunemente individuato nei fatti di

palazzo d’Accursio a Bologna, del 21 novembre 1920, quando i fascisti si

mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova amministrazione

comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie; per un tragico errore i socialisti,

incaricati di difendere il palazzo comunale, spararono sulla folla, composta dai loro

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Page 51: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero pretesto per

scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Il movimento

fascista vide così affluire, nelle sue file, nuove e numerose reclute: ufficiali

smobilitati, che faticavano ad inserirsi nella vita civile, figli della piccola borghesia,

giovani, che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e trovavano, così,

l’occasione per combattere una battaglia contro i presunti nemici della patria. Nel

giro di poco tempo lo squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi

anche alle zone mezzadrili della Toscana e dell’Umbria. Per il momento, solo il Sud,

eccetto la Puglia, rimase immune dal contagio fascista. Molte responsabilità del

successo dello squadrismo furono del governo. Giolitti, infatti, pur evitando di

favorirlo apertamente, lo guardò con malcelata compiacenza, pensando di servirsene

per contrastare i socialisti. Nel maggio 1921, vennero indette nuove elezioni. I

candidati fascisti furono inseriti nei blocchi nazionali, ovvero nelle liste di coalizione

con i gruppi conservatori. I socialisti subirono una flessione lieve. I popolari si

rafforzarono e i gruppi liberal – democratici uniti migliorarono le loro posizioni. In

definitiva la maggior novità fu costituita dall’ingresso alla Camera di 35 deputati

fascisti, capeggiati da Mussolini. L’esito delle elezioni di maggio mise praticamente

fine all’ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all’inizio del mese

di luglio. Il suo successore, l’ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di fare uscire il

paese dalla guerra civile, favorendo una tregua fra le due parti. Una tregua teorica,

che venne sancita, nell’agosto del 1921, con la firma di un patto di pacificazione tra

fascisti e socialisti. Questi ultimi accettavano di sconfessare le formazioni degli arditi

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del popolo e i fascisti si impegnavano a sciogliere le loro squadre d’azione. Questa

strategia non era condivisa, però, dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello

squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i ras, come Farinacci e Grandi. La

ricomposizione delle fratture si ebbe al Congresso dei Fasci, tenutosi a Roma nei

primi di novembre del 1921. Mussolini sconfessò la pacificazione: nasceva il Partito

nazionale fascista, che poteva contare su una base di oltre 200.000 iscritti.

Frattanto, nel febbraio del 1922, prendeva il potere Luigi Facta, un giolittiano dalla

personalità alquanto sbiadita. La scarsa autorità politica del governo finì col dare

spazio alla dilagante violenza squadrista. All’offensiva fascista, i socialisti non

seppero opporre risposte efficaci. Addirittura disastrosa nei suoi effetti fu la decisione

dei dirigenti sindacali, di proclamare per il 1° agosto uno sciopero generare

legalitario, in difesa delle libertà costituzionali. I fascisti colsero l’occasione per

atteggiarsi a custodi dell’ordine. Per un’intera settimana le camicie nere si

scatenarono contro circoli, sedi, giornali socialisti. Il movimento operaio usciva, da

tutto ciò, distrutto. Ai primi d’ottobre del 1922, in un congresso tenuto a Roma, i

riformisti guidati da Turati abbandonavano il Psi per fondare il nuovo Partito

socialista unitario.

Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo

voleva conquistare lo Stato. Cominciò così a prendere corpo il progetto di una marcia

su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo

la conquista del potere centrale. L’inizio della mobilitazione fu fissato per il 27

ottobre. Mussolini pensava di servirsi della stessa mobilitazione come mezzo di

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pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità

della corona e delle forze armate. In effetti, nel generale disfacimento dei poteri

statali, il ministero Facta si dimise proprio il 27 ottobre; così, fu l’atteggiamento del

re a risultare decisivo. Infatti, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre,

di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio, cioè per il passaggio

dei poteri alle autorità militari, che era stato preparato dal governo già dimissionario.

Tale rifiuto aprì alle camicie nere la strada di Roma e al loro capo la via del potere.

La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di squadristi entravano nella

capitale, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo gabinetto risultava già

pronto. Ne facevano parte, oltre a cinque fascisti, esponenti di tutti i gruppi dei

precedenti governi: liberali, democratici e popolari.

Una volta assunta la guida del governo, Mussolini cominciò ad alternare la linea dura

a quella morbida, le promesse di normalizzazione moderata alle minacce di una

seconda ondata rivoluzionaria. Tutto ciò gli fu possibile per la miopia delle altre forze

politiche, in particolare dei liberali e dei cattolici. Nel dicembre del 1922, fu istituito

il Gran Consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della

politica fascista e di servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio 1923, le

squadre fasciste furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza

nazionale: un corpo armato di partito, che aveva come scopo dichiarato quello di

proteggere gli sviluppi della rivoluzione, ma, in realtà, doveva anche disciplinare lo

squadrismo e limitare il potere dei ras. L’istituzionalizzazione della Milizia non

servì, peraltro, a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, alle quali ora si

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Page 54: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

sommava la repressione legale, condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia,

mediante sequestri di giornali, scioglimenti di amministrazioni locali, arresti

preventivi di militanti. Il sindacato non fascista si ridusse a sopravvivere solo in

alcune categorie; il numero degli scioperi scese, nel 1923, a livelli insignificanti. I

salari reali subirono una costante riduzione. La compressione salariale era, del resto,

una componente importante della politica economica del governo, che mirò a

restituire libertà d’azione all’iniziativa privata. Furono alleggerite le tasse gravanti

sulle imprese ed eliminato il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. La

politica liberista, impersonata soprattutto dal ministro delle Finanze De Stefani, parve

ottenere successo: vi fu un aumento della produzione e il bilancio dello Stato tornò in

pareggio. Un altro sostegno decisivo, Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui,

dopo l’avvento del nuovo papa Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le

tendenze più conservatrici. Mussolini, abbandonando i toni anticlericali tipici del

primo fascismo, fu prodigo di riconoscenza per “la missione universale della Chiesa”.

Anche la riforma della scuola, varata da Gentile nel 1923, andava incontro alle attese

del mondo cattolico: essa prevedeva, infatti, oltre all’insegnamento della religione

nelle scuole elementari, l’introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di

studi. La prima vittima dell’avvicinamento del fascismo alla Chiesa fu il Partito

popolare, considerato dalle gerarchie ecclesiastiche un ostacolo sulla via dei

miglioramenti dei rapporti con lo Stato italiano. Nell’aprile del 1923, Mussolini

impose le dimissioni dei ministri popolari e, poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni

del Vaticano, lasciò la segreteria del partito.

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Page 55: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Liberatosi del più forte fra i suoi alleati, Mussolini doveva, comunque, rafforzare la

sua maggioranza parlamentare. A tale scopo, fu varata nel luglio del 1923 una nuova

legge elettorale maggioritaria. La legge avvantaggiava la lista, che avesse ottenuto la

maggioranza relativa, assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando,

all’inizio del 1924 la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali accettarono di

candidarsi assieme ai fascisti nelle liste nazionali presentate nei collegi col simbolo

del fascio. Del resto i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, sia

durante la campagna elettorale, sia nel corso delle votazioni, che ebbero luogo il 6

aprile 1924. Le liste nazionali ebbero il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. Il

successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole.

Tale successo rafforzò la posizione di Mussolini. Le opposizioni erano indebolite e

sfiduciate. Il 10 giugno 1924, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito

socialista unitario, fu rapito a Roma da un gruppo di squadristi ed ucciso. Il suo

cadavere, abbandonato in una macchia vicino la capitale, fu trovato solo dopo due

mesi. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti aveva pronunciato alla Camera

una durissima requisitoria contro il fascismo. Il paese capì che il delitto era il risultato

di una pratica di violenza ormai consolidata. Tuttavia, l’opposizione non poteva

mettere in minoranza il governo: l’unica iniziativa fu quella di astenersi dai lavori

parlamentari e di riunirsi separatamente, finché non fosse stata ripristinata la legalità

democratica. La secessione dell’Aventino, come venne definita con un termine preso

dalla storia romana, aveva però solo un significato ideale e non pratico. Il re non

intervenne e i fiancheggiatori del governo, pur accentuando le critiche all’illegalismo

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Page 56: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

fascista, non tolsero l’appoggio a Mussolini. Per venire incontro alle loro esigenze, il

capo del governo accettò di dimettersi da ministro degli Interni e di sacrificare alcuni

suoi collaboratori più coinvolti nell’affare Matteotti. Ma, ben presto l’ondata

antifascista scomparve. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, Mussolini

ruppe ogni cautela legalitaria e minacciò di usare la forza, contro tutte le opposizioni.

Molti politici e uomini di cultura presero posizione nei confronti del fascismo. Ad un

Manifesto degli intellettuali fascisti, diffuso nell’aprile del 1925 per iniziativa di

Giovanni Gentile, rispose Benedetto Croce con un contro-manifesto, che rivendicava

i diritti di libertà, ereditati dalla tradizione risorgimentale. Tuttavia, molti esponenti

antifascisti furono costretti a prendere la via dell’esilio. Giovanni Amendola morì in

Francia, in seguito ai postumi di un’aggressione fascista. Simile sorte toccò a Piero

Gobetti. Intanto, nell’ottobre 1925, il sindacalismo libero ricevette un colpo mortale

dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la

rappresentanza dei lavoratori, iscritti ai soli sindacati fascisti. Una seria di falliti

attentati a Mussolini servì a creare il clima adatto per il varo di una nuova

legislazione, che ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia Alfredo

Rocco. La prima legge costituzionale del regime fu quella che rafforzava i poteri del

capo del governo; un’altra legge sindacale, del 1926, proibì il diritto di sciopero e

stabilì che solo i sindacati legalmente riconosciuti, ossia quelli fascisti, avevano

diritto di stipulare contratti collettivi. Infine, nel novembre dello stesso anno, furono

votate le così dette leggi fascistissime, con le quali si metteva fine alla parabola

discendente dello Stato liberale. Con esse, tra l’altro, si introduceva la pena di morte

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Page 57: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

per i reati contro la sicurezza dello Stato e venivano sciolti tutti i partiti antifascisti.

Fu istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto da ufficiali delle

forze armate e della Milizia. Nel 1928 venne elaborata una nuova legge elettorale,

che introduceva il sistema della lista unica e lasciava agli elettori solo la possibilità di

approvarla o respingerla in blocco. Sempre nel 1928, il Gran Consiglio diventò

organo costituzionale dello Stato, dotato di molte prerogative. Sorgeva, così, un

nuovo regime, che non si accontentava di controllare le masse, ma pretendeva di

inquadrarle in proprie organizzazioni.

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Page 58: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Dalla Repubblica di Weimar al nazismo

In Germania, nell’agosto del 1919, venne varata la Costituzione di Weimar, così

chiamata dal nome della città dove si svolsero i lavori dell’assemblea. Era una

Costituzione indiscutibilmente democratica, che prevedeva il mantenimento della

struttura federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile, un

governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto

direttamente dal popolo.

Tuttavia molti erano i fattori, che contribuivano ad insidiare la vita democratica e ad

indebolire il sistema repubblicano. Il più evidente stava nella accentuata

frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi.

Inoltre, risultava assente una forza capace di dominare i nuovi fenomeni di

mobilitazione sociale, di superare le fratture presenti e di guidare il paese nella

difficile crisi che stava vivendo. L’unica forza era forse la socialdemocrazia,

riunificatasi in un unico partito nell’estate del 1922, con la confluenza dell’Uspd nella

Spd. Grazie al sostegno accordatole dalla maggioranza di una classe operaia

numerosa e ben organizzata, rimase per un intero decennio il partito più forte, capace

di far sentire il suo peso nella vita tedesca. Tuttavia, le classi medie si riconoscevano

in parte nel Centro cattolico, e in parte maggiore nelle formazioni della destra

conservatrice e moderata: il Partito popolare tedesco – nazionale e il Partito tedesco-

popolare. Un terzo partito di matrice borghese, il Partito democratico tedesco, che

raccoglieva l’adesione di numerosi intellettuali e voleva conciliare i ceti medi con le

istituzioni repubblicane, dopo un successo iniziale, si ridusse alle dimensioni di una

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Page 59: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

forza marginale. Tutto ciò dimostrava che la diffidenza verso il sistema democratico

coinvolgeva gran parte dell’elettorato. Per molti, e soprattutto per i ceti medi, l’età

imperiale si identificava con un periodo di tranquillità e prosperità: la Repubblica, al

contrario, era associata alla sconfitta, all’umiliazione di Versailles e a quella autentica

tragedia nazionale, che fu costituita dal problema delle riparazioni.

Nella primavera nel 1921, una commissione interalleata stabilì l’ammontare delle

riparazioni nella spaventosa cifra di 132 miliardi di marchi-oro, da pagare in 42 rate

annuali. L’annuncio dell’entità delle riparazioni suscitò, in tutta la Germania,

un’ondata di proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalistica, fra i quali il piccolo

Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler, scatenarono un’offensiva

terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi

piegata alle imposizioni di Versailles. Esponenti del governo e della finanza vennero

uccisi perché colpevoli di aver trascinato il paese nel disonore. I governi che si

succedettero tra il 1921 e il 1923 si impegnarono a pagare le prime rate delle

riparazioni, ma evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica,

per non gravare su una popolazione esasperata: furono, così, costretti ad aumentare la

stampa di carta-moneta. Il risultato fu che, in pochi mesi, il valore del marco

precipitò, mettendo in moto un processo inflazionistico. Nelle intenzioni dei

governanti tedeschi, la caduta del marco avrebbe dovuto allarmare le stesse potenze

vincitrici e convincerle della materiale impossibilità, per la Germania, di sopportare

le riparazioni.

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Page 60: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Nel gennaio del 1923, la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata

corresponsione di alcune riparazioni in natura, inviarono truppe nel bacino della

Ruhr, la zona più ricca e industrializzata di tutta la Germania. L’azione aveva per

scopo ufficiale quello di controllare la consegna dei materiali dovuti, ma il vero

obiettivo era spegnere ogni velleità tedesca di sottrarsi al pagamento integrale delle

riparazioni. Lo stesso governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della

popolazione: imprenditori ed operai della Ruhr, abbandonarono le fabbriche,

rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti. Intanto gruppi clandestini, formati

per lo più da membri dei disciolti corpi franchi, organizzarono attentati contro i

franco-belgi, che reagirono con fucilazioni e arresti di massa.

Per le già dissestate finanze tedesche, l’occupazione della Ruhr rappresentò il tracollo

definitivo, in quanto privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e

costringeva il governo a nuovi grandi sforzi per finanziare la resistenza passiva,

proprio nella Ruhr, con sussidi alle imprese e ai lavoratori disoccupati. Il marco

precipitò a livelli impensabili e il suo potere di acquisto fu praticamente annullato: un

chilo di pane giunse a costare 400 miliardi. Le conseguenze di questa polverizzazione

della moneta furono sconvolgenti. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di

Stato perse tutto. Chi viveva del proprio stipendio dovette affrontare grandi sacrifici.

Furono, invece, avvantaggiati i possessori di beni reali e tutti coloro che avevano

contratto debiti. Doppiamente avvantaggiati risultarono anche gli industriali, che

producevano per l’esportazione. Nel momento più drammatico della crisi, la classe

dirigente trovò però la forza di reagire. Nell’agosto 1923, si formò un governo di

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Page 61: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

“grande coalizione”, comprendente tutti i gruppi “costituzionali” e presieduto da

Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco – popolare. Egli era convinto che la

rinascita della Germania sarebbe stata possibile solo per mezzo di accordi con le

potenze vincitrici. In settembre, il governo ordinò la fine della resistenza passiva

nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Subito dopo decretò lo stato di

emergenza e se ne servì per sciogliere i governi regionali della Sassonia e della

Turingia, dove erano al potere comunisti e socialdemocratici di sinistra, per reprimere

una azione comunista ad Amburgo, ma anche per fronteggiare la destra nazionalista,

che aveva il centro in Baviera. A Monaco, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1923,

alcune migliaia di aderenti al partito nazionalsocialista e ad altre formazioni

paramilitari cercarono di organizzare una insurrezione contro il governo centrale. Ma,

il complotto capeggiato da Hitler e dal generale Ludendorff, non ottenne lo sperato

appoggio dei militari e delle autorità locali e fu represso. Hitler venne condannato a

cinque anni di carcere, poi in parte condonati, e la sua carriera politica parve

conclusa.

Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di rimediare ai problemi economici.

Nell’ottobre del 1923, fu emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark il cui

valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania: lo Stato

tedesco si comportava cioè come un privato che impegnava tutti i suoi averi per

garantirsi un credito.

Una vera stabilizzazione, la Germania la poteva comunque raggiungere solo tramite

un accordo con i vincitori. Tale accordo fu trovato all’inizio del 1924, sulla base di un

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Page 62: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense Charles G. Dawes.

Questo piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi

impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la sua

macchina produttiva: prevedeva, quindi, che l’entità delle rate da pagare fosse

graduata nel tempo e che la finanza internazionale sovvenzionasse lo Stato tedesco

con una serie di prestiti a lunga scadenza. La Germania recuperava così la Ruhr e

vedeva alleviato l’onere dei suoi debiti: in poco tempo l’industria tedesca tornò ai

primi posti nel mondo per volume di produzione.

Tuttavia, nelle elezioni del maggio 1924, vi fu un calo dei partiti democratici e una

parallela avanzata delle due estreme, che avevano impostato la loro campagna sul

rifiuto del piano Dawes. Un anno dopo, nel marzo 1925, nelle elezioni presidenziali

convocate per eleggere il successore di Ebert, il cattolico Wilhem Marx, sostenuto da

tutti i partiti democratici ma non dai comunisti, fu battuto di stretta misura dal

vecchio maresciallo Hindenburg, già capo dell’esercito e simbolo del passato

imperiale.

Negli anni successivi, si concretizzò in Germania una ripresa economica. I partiti di

centro e di centrodestra mantennero il potere sino al 1928, quando i socialdemocratici

ottennero una buona affermazione elettorale e ripresero la guida del governo.

Stresemann conservò ininterrottamente sino alla morte (1929) la carica di ministro

degli Esteri, assicurando così una continuità di linea politica.

Il varo del piano Dawes e il superamento della crisi della Ruhr segnarono una svolta

importante, non solo per i rapporti franco – tedeschi, ma per l’intero assetto europeo,

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Page 63: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

uscito dai trattati di pace. Di questo assetto, la Francia era stata, nella prima metà

degli anni ’20, la principale garante. Tuttavia, si era sentita, in qualche modo, tradita

dai suoi alleati ed aveva così cercato di costruirsi da sola una rete di alleanze, legando

a sé tutti quei paesi dell’Europa centro – orientale, che erano stati avvantaggiati dai

trattati di Versailles e, quindi, contrari ad ogni ipotesi di revisione del nuovo assetto

europeo. In primo luogo, vi era la Polonia, poi la Cecoslovacchia, in seguito la

Jugoslavia e la Romania le quali, nel 1921, si erano unite in una alleanza che fu detta

Piccola Intesa. L’accordo con tali Stati non sembrava, comunque, bastare alla

Francia per allontanare lo spettro di una rivincita tedesca. Di qui l’impegno dei

governanti francesi di pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles.

Questa linea di politica estera culminata, come si è visto, nell’occupazione della

Ruhr, subì un mutamento nel 1924 con l’accettazione del piano Dawes, da parte dei

governi francese e tedesco. Si inaugurò, così, una fase di distensione fra le due ex

potenze nemiche, che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Gustav Stresemann e nel

ministro degli Esteri francese Aristide Briand. I due statisti perseguivano obiettivi

diversi: Briand voleva fondare su basi più stabili l’equilibrio di Versailles,

Stresemann cercava di superare quell’equilibrio per riportare la Germania a una

condizione di grande potenza. Alla base della loro intesa c’era, però, la volontà

comune di superare le fratture create dalla guerra, di normalizzare i rapporti fra

vincitori e vinti, sulla base di impegni liberamente sottoscritti, nel quadro più vasto

della sicurezza collettiva.

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Page 64: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il risultato più importante di tale intesa fu rappresentato dagli accordi di Locarno

dell’ottobre 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia

e Belgio della frontiere comuni tracciate a Versailles e nell’impegno di Gran

Bretagna ed Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. La Germania accettava

la perdita dell’Alsazia – Lorena, ma evitava di prendere impegni analoghi per quanto

riguardava le sue frontiere orientali e usciva nel complesso rafforzata.

Un anno dopo la firma del patto, venne ammessa alla Società delle Nazioni. Nel

giugno 1929 un nuovo piano, elaborato ancora una volta da un finanziere americano,

Owen D. Young, ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni e ne graduò il

pagamento in sessant’anni. Nel giugno 1930, gli ultimi reparti francesi si ritirarono

dalla Renania, mentre il governo tedesco rinnovava l’impegno a mantenere la regione

smilitarizzata.

Il nuovo clima di distensione internazionale trovò conferma nell’estate del 1928

quando i rappresentanti di quindici Stati, fra cui Germania ed Unione Sovietica,

riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato americano Kellogg,

firmavano un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per

risolvere le controversie. La firma del patto di Parigi o patto Briand – Kellogg, e il

varo del piano Young rappresentarono il punto più alto della fase di distensione

internazionale, che caratterizzò la seconda metà degli anni ’20. Ma tutto ciò si

interruppe bruscamente alla fine del decennio, in coincidenza con la crisi economica

mondiale. Già nel settembre 1930, la Francia decideva di dare il via alla costruzione

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Page 65: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

di un imponente complesso di fortificazioni difensive, la linea Maginot, lungo il

confine con la Germania.

Fino al 1929, il partito nazionalsocialista o nazista, come veniva comunemente

chiamato, rimase un gruppo minoritario e marginale, che si collocava al di fuori della

legalità repubblicana, si serviva della violenza e fondava la sua forza su una robusta

organizzazione armata: le SA (Sturm – Abteilungen) ossia i reparti d’assalto,

comandati dal capitano dell’esercito Ernst Röhm. Dopo il fallimentare tentativo di

Monaco, Hitler aveva cercato di dare al partito “un volto più rispettabile”. Aveva

messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico, che figuravano nel suo

programma del 1920, riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno finanziario da

parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma, non aveva affatto rinunciato al

nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del trattato di

Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova grande Germania, l’adozione di

misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del parlamentarismo corruttore.

I suoi progetti li espose nel libro Mein Kampf, La mia battaglia. Al centro dei suoi

piani c’era l’utopia nazionalista e razzista. Egli credeva nell’esistenza di una razza

superiore e conquistatrice, quella ariana, progressivamente inquinatasi per la

commistione con le razze inferiori. I caratteri originali dell’arianesimo si erano per lui

conservati solo nei popoli nordici, in particolare in quello tedesco, che avrebbe

dovuto dominare sul mondo. Per realizzare tutto ciò era necessario schiacciare i

nemici interni, primi fra tutti gli ebrei, considerati portatori del virus della

dissoluzione morale, poiché popolo senza patria e perciò responsabile dei misfatti del

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Page 66: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

capitale finanziario e di quelli del bolscevismo, causa e simbolo vivente della

decadenza della civiltà europea. Una volta ricostituita la propria unità, in un nuovo

Stato attorno ad un capo in grado di interpretare i bisogni profondi del popolo, i

tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i

territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati anch’essi

inferiori. La ricerca dello spazio vitale ad oriente avrebbe permesso di far coincidere

l’espansione territoriale con la crociata ideologica contro il comunismo.

Nelle elezioni del 1924 i nazisti ottennero circa il 3% dei voti; in quelle del maggio

del 1928 solo il 2,5. Ma, con lo scoppio della crisi lo scenario cambiò. La

maggioranza dei tedeschi, immiseriti e ridotti alla fame, perse ogni fiducia nella

Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. A destra, le forze conservatrici

si sentirono definitivamente sciolte da ogni vincolo di lealtà verso le istituzioni

repubblicane e si proposero di cambiare le regole del sistema, appoggiando le forze

eversive a cominciare dai nazisti. A sinistra, settori consistenti della classe operaia si

staccarono dalla socialdemocrazia per avvicinarsi ai comunisti, che attaccavano la

classe dirigente democratica, con una forza non minore di quella usata dalla destra.

Così i nazisti uscirono dal loro isolamento e fecero leva sulla paura della grande

borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati.

L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando il

cancelliere Brüning convocò nuove elezioni, sperando di fare uscire dalle urne una

maggioranza favorevole alla sua politica di austerità. Accadde, invece, che i nazisti

ebbero un grande incremento a spese della destra tradizionale, mentre i comunisti

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Page 67: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici. L’aspetto più grave stava nel

fatto che mentre le forze antisistema si ingrossavano, i partiti fedeli alla Repubblica,

non disponevano più della maggioranza. Il ministero Brüning continuò a governare

per altri due anni, grazie all’appoggio concessogli dalla Spd e soprattutto grazie al

sostegno del Presidente Hindenburg, che si valse dei poteri offerti dalla Costituzione

nei casi di emergenza.

Nel 1932, la crisi raggiunse il suo apice. La produzione calò del 50% rispetto al 1928

e i senza lavoro raggiunsero i sei milioni. I nazisti ingrossavano le loro file in modo

impressionante. Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali tenute

a pochi mesi di distanza, l’una dall’altra, non fecero che confermare la crescita delle

forze eversive e l’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza costituzionale.

Si cominciò nel marzo 1932 con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per

sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici appoggiarono la rielezione

dell’ottantacinquenne Hindenburg, capace di attirare i consensi di almeno una parte

della destra. Ed, infatti, venne eletto con un margine abbastanza netto su Hitler ma,

ben presto, cedette alle pressioni militari e della grande industria e congedò Brüning,

cercando una via di uscita dalla crisi, prendendo atto dello spostamento a destra

dell’asse politico. A guidare il governo furono chiamati due uomini della destra

conservatrice: prima il cattolico Franz von Papen, poi il generale Kurt von Scleicher,

consigliere personale del presidente. Entrambi i tentativi furono un fallimento. Nelle

due successive elezioni politiche del luglio e del novembre 1932, i nazisti si

affermarono come primo partito tedesco. I gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso

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Page 68: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Hindenburg finirono per convincersi che senza di loro non era possibile governare. Il

30 gennaio 1933, Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di

capeggiare un governo dove i nazisti avevano solo tre ministeri su undici, e in cui

erano rappresentate tutte le più importanti componenti della destra. Gli esponenti

conservatori pensavano di aver ingabbiato Hitler e di utilizzare il nazismo per

un’operazione di semplice marca conservatrice. Avrebbero ben presto compreso di

sbagliare.

Per trasformare lo Stato liberale italiano in una dittatura, Mussolini aveva impiegato

quattro anni. A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un potere molto più

totalitario di quello che Mussolini aveva e avrebbe mai esercitato in Italia.

L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico ed

oscuro: l’incendio appiccato al Reichstag, il Parlamento nazionale, nella notte del 27

febbraio 1933, una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione

elettorale. L’arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato

come l’autore materiale del fatto, fornì al governo il pretesto per un’ imponente

operazione di polizia, contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali.

Nelle elezioni del 5 marzo, i nazisti mancarono l’obiettivo della maggioranza

assoluta. Ottennero, però, il 44% dei consensi, che uniti a quelli dei gruppi di destra

sarebbero bastati ad assicurare al governo un’ampia base parlamentare. Ma, Hitler

mirava all’abolizione del Parlamento. E il Reichstag, appena eletto, lo assecondò

approvando una legge, che conferiva al governo pieni poteri, compreso quello di

legiferare e di modificare la Costituzione. Assenti i deputati comunisti, votarono

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contro i socialdemocratici, i quali mantennero un atteggiamento di estrema prudenza,

nell’illusione di poter conservare il ruolo di opposizione legale. Fu inutile: nel giugno

del 1933 la Spd, accusata di alto tradimento, fu sciolta dopo che era stata soppressa,

con un provvedimento di polizia, la Confederazione dei sindacati liberi, di ispirazione

socialdemocratica. A poco a poco scomparvero tutti i partiti tedeschi. Nel mese di

novembre, una nuova consultazione elettorale di tipo plebiscitario, faceva registrare

un 92% di voti favorevoli a Hitler. Di fronte a lui restavano ancora due ostacoli: da

una parte l’ala estremista del nazismo, rappresentata dalle SA di Röhm, che volevano

una seconda ondata rivoluzionaria, dall’altra la vecchia destra, impersonata da

Hindenburg e dai capi dell’esercito, che chiedevano a Hitler di frenare gli estremismi

e di tutelare le prerogative delle forze armate. Hitler decise di risolvere i problemi in

modo drastico. Preparato, in quella che sarà ricordata come la notte dei lunghi

coltelli, il colpo di mano contro le SA fu guidato da Hitler, che provvide anche

all’arresto di Röhm, successivamente ucciso dalle SS.

La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler, in cambio della testa di Röhm, fu

l’assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg.

Quando, nel 1934, il vecchio maresciallo morì, Hitler si trovò, così, in virtù di una

legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo

dello Stato. Ciò significava l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di lealtà

allo stesso Hitler: veniva meno, così, quella autonomia dal potere politico di cui i

generali tedeschi si erano sempre mostrati gelosi. Le conseguenze sarebbero apparse

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chiare pochi anni dopo, nel febbraio 1938, quando Hitler decise di assumere

personalmente il comando supremo delle forze armate.

Con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime

tracce del sistema repubblicano. Nasceva il Terzo Reich, basato sul principio del

“capo”, che costituiva un punto cardine della dottrina nazista.

Hitler diede vita ad uno Stato totalitario, termine che fu inventato dagli antifascisti in

Italia, nella prima metà degli anni ’20, per definire l’aspirazione di Mussolini, mai

pienamente realizzata, ad una identificazione totale tra Stato e società. I regimi

totalitari aspirarono, così, non solo a controllare, ma a trasformare la società dal

profondo, in nome di un’ideologia onnicomprensiva.

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La crisi del 1929 e le sue conseguenze in Europa e in Italia

Il malessere politico ed economico, che serpeggiava in Europa verso la fine degli

anni ’20, fu aggravato dalla crisi americana del 1929, collegata al crollo di Wall

Street. Nel settembre nel ’29, infatti, il corso dei titoli raggiunse livelli elevati. Dopo

settimane di incertezza, emerse la propensione degli speculatori a liquidare i propri

pacchetti azionari per realizzare i guadagni fin allora ottenuti. Il 24 ottobre, il

“giovedì nero”, furono scambiati 13 milioni di titoli; il 29 le vendite ammontarono a

16 milioni. La corsa alle vendite determinò una caduta dei valori dei titoli,

distruggendo i sogni dei loro possessori. A metà novembre, le quote si stabilizzarono

su valori più o meno dimezzati. Ma, intanto molte fortune si erano volatilizzate. Gli

effetti planetari della crisi furono aggravati dal fatto che gli Usa, anziché assumersi le

responsabilità connesse al ruolo di potenza egemone sul piano economico, cercarono

innanzitutto di difendere la loro produzione, inasprendo il protezionismo e,

contemporaneamente, riducendo l’erogazione dei crediti all’estero. Il protezionismo

statunitense indusse gli altri paesi ad adottare misure analoghe, a difesa della propria

economia. Fra il 1929 e il 1932 il valore del commercio mondiale si contrasse di oltre

il 60% rispetto al triennio precedente.

Attraverso la contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il

mondo, con la significativa eccezione dell’Urss, provocando il crollo di imprese,

portando alla rovina esercizi commerciali, aggravando la crisi dell’agricoltura. I

disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e 15 milioni in

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Page 72: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Europa. Nel complesso, un consistente impoverimento colpì la massa dei lavoratori

urbani e rurali, generando incertezza e sfiducia.

Il crollo verificatosi in Austria ed in Germania provocò un allarme incontrollato sulla

solidità delle stesse finanze inglesi: molti capitali britannici erano stati, infatti,

investiti in questi due paesi. Le banche inglesi dovettero far fronte ad un precipitoso

ritiro dei capitali stranieri e ad ingenti richieste di conversione delle sterline in oro.

Nel 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d’Inghilterra, dovette essere sospesa

la convertibilità della sterlina e la valuta inglese fu svalutata. Analoghi

provvedimenti, di sospensione della convertibilità e di svalutazione, vennero poi

adottati da molti altri paesi. Indubbiamente sulla profondità e sulla durata della

depressione influì negativamente anche l’impreparazione delle autorità politiche ad

affrontare un cataclisma economico di tale portata. Quando la crisi ebbe inizio, tutti i

governi dei paesi industrializzati ritennero di potersi affidare ai classici principi della

scuola economica liberale: primo tra tutti il pareggio del bilancio. Per ottenere ciò, la

spesa pubblica venne tagliata e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti

compressero ancora di più la domanda interna, aggravando perciò la recessione e la

disoccupazione. Solo nel 1933, l’economia europea cominciò a manifestare sintomi

di miglioramento.

In Germania, le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro paese

europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali

aveva creato fra l’economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall’onere

delle riparazioni. Nel 1930, la guida del governo tedesco passò al leader del Centro

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Page 73: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

cattolico Brüning, che attuò una severissima politica di sacrifici, allo scopo di rivelare

al mondo l’intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tenere

fede all’obbligo delle riparazioni. Lo scopo fu raggiunto, in parte, nel 1932, quando

con una conferenza internazionale venne ridotta sensibilmente l’entità delle

riparazioni. Tuttavia, in Germania vi erano più di 6 milioni di lavoratori disoccupati.

In Francia la crisi giunse in ritardo, nella seconda metà del 1931, ma durò più a

lungo, anche perché i governi scelsero di legare il loro prestigio alla difesa del franco,

ritardando fino al 1937 la svalutazione della moneta. La crisi economica coincise con

un periodo di grande instabilità della situazione politica francese: fra l’ottobre del

1929 e il giugno del 1936, si succedettero ben diciassette governi, ora di centro -

destra, ora di centro- sinistra.

In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay Mac Donald cercò di

fronteggiare la crisi con un programma, che prevedeva un drastico taglio del sussidio

ai disoccupati. Questo programma trovò, però, l’opposizione delle Trade Unions,

nerbo del movimento laburista. A quel punto Mac Donald ruppe col suo partito e,

seguito da un piccolo numero di fedelissimi, si accordò con liberali e conservatori per

la formazione di un “governo nazionale”, di cui lui stesso prese la presidenza. Fu

sotto questo governo che la Gran Bretagna svalutò la sterlina e abbandonò la sua

linea liberoscambista, adottando un sistema di tariffe doganali, che privilegiava gli

scambi commerciali nell’ambito del Commonwealth. Nel ’33-’34 l’Inghilterra

cominciava ad uscire dalla crisi, con notevole anticipo rispetto agli altri paesi

industrializzati.

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Page 74: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Nel novembre 1932, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali. Il presidente

uscente Herbert Hoover, aveva fatto ben poco contro la crisi e proiettato attorno a sé

un’atmosfera di scoraggiamento. Vinse, così, le elezioni il democratico Franklin

Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York. Egli seppe subito istaurare

con le masse un rapporto basato su notevoli doti di comunicativa e capì che per un

politico era importante infondere speranza e coraggio nella popolazione. Celebri

divennero le sue “chiacchiere al caminetto”, cioè le conversazioni radiofoniche che

teneva spesso con tono familiare per illustrare ai cittadini la sua attività presidenziale.

Nel discorso inaugurale della sua presidenza, nel marzo del 1933, Roosevelt annunciò

di volere iniziare un New Deal, ossia un nuovo corso, che si sarebbe caratterizzato

soprattutto per un energico intervento dello Stato nei processi economici e per la

stretta associazione fra l’obiettivo della ripresa economica e gli elementi di riforma

sociale. Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi della presidenza

Roosevelt, i cosiddetti “cento giorni”, con una serie di provvedimenti tesi a sminuire

la crisi, come la ristrutturazione del sistema creditizio, la svalutazione del dollaro per

rendere più competitive le esportazioni, la concessione di prestiti per consentire ai

cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case. Il governo poi affiancò a tutto

ciò, altri provvedimenti più organici e qualificanti. L’Agricultural Adjustment Act

(Aaa), che si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, o il

National Industrial Recovery Act (Nira), il quale imponeva alle imprese dei codici di

comportamento volti ad evitare le conseguenze di una concorrenza troppo accanita.

Particolare rilievo ebbe l’istituzione della Tennesse Valley Authority (Tva), un ente

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Page 75: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee,

producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori.

Se l’esperienza della Tva rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia

economico, sia politico, le altre iniziative ebbero effetti più lenti e contradditori. I

codici di comportamento, ad esempio, suscitarono la perplessità dei piccoli e medi

operatori, mentre la riduzione della produzione agricola, prevista dall’Aaa, arrestò la

caduta dei prezzi, ma causò l’espulsione dalle campagne di vaste masse di contadini

senza lavoro. Per porre fine a tutto ciò, il governo potenziò ulteriormente l’iniziativa

statale, varando vasti programmi di lavori pubblici, destinati a creare nuovi posti di

lavoro e allargò il flusso della spesa pubblica. Parallelamente, sempre il governo, si

impegnò in importanti riforme sociali. Nel 1935 furono varate una riforma fiscale,

una legge sulle sicurezza sociale, che garantì la pensione di vecchiaia, ed infine una

nuova disciplina dei rapporti di lavoro, la quale favorì le attività sindacali e tutelò il

diritto dei lavoratori alla contrattazione collettiva.

Con questa politica progressista, Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento

sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione, grazie

anche a un’ondata di lotte operaie senza precedenti nella storia americana. Tuttavia, i

risultati non sempre brillanti del suo operato incoraggiarono la formazione di una

coalizione antirooseveltiana. Persino la Corte Suprema cercò di bloccare le riforme

di Roosevelt dichiarando, nel 1935-1936, l’incostituzionalità del Nira e dell’Aaa.

Ma, il presidente americano reagì con energia ripresentando, con piccole modifiche,

le leggi bocciate.

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Page 76: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

In conclusione, l’azione di Roosevelt se da un lato smentì i dogmi liberisti,

dimostrando che l’intervento statale era indispensabile per arrestare il corso della

crisi, dall’altro non riuscì a conseguire completamente il fine ultimo, che si era

proposto, quello cioè di ridare forza all’iniziativa dei privati. Per tutti gli anni ’30,

l’economia americana ebbe bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico: sarebbe

giunta ad una piena ripresa, solo durante la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo

della produzione bellica.

In Italia, frattanto, il fascismo tentava di superare i suoi problemi economici

imboccando la “terza via”, alternativa sia al capitalismo che al socialismo,

sintetizzata nella formula del corporativismo. L’idea corporativa affondava le sue

radici nel Medioevo ed aveva ispirato, nel ‘800, il pensiero sociale cattolico. Nel

periodo fascista essa si nutriva anche di suggestioni di stampo nazionalistico e

provenienti dallo stesso sindacalismo rivoluzionario. Nel 1934, furono così istituite le

corporazioni; tuttavia, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia, che si

sovrapponeva a quella esistente. Il fascismo riuscì a realizzare ugualmente interventi

importanti in economia, a creare enti ed istituzioni di nuova concezione, capaci di

sopravvivere alla sua caduta. Ma, non inventò un nuovo sistema economico. E non

mantenne neppure, per tutto il ventennio, una linea economica coerente.

Nei suoi primi anni di governo, il fascismo adottò una linea liberista, volta a

rilanciare la produzione, incoraggiando l’iniziativa privata e allentando i controlli

statali. Però, dal 1925, questa linea economica, subì una svolta: il ministro delle

Finanze De Stefani fu sostituito da Giuseppe Volpi, industriale e finanziere, che

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Page 77: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

inaugurò una politica fondata sul protezionismo, sulla deflazione, sulla

stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell’economia.

Primo provvedimento in tal senso fu l’inasprimento del dazio sui cereali: una misura

che si inseriva in una tendenza di lungo periodo, volta a favorire il settore cerealicolo,

ma che venne accompagnata da una rumorosa campagna propagandistica detta

battaglia del grano, dove gli accenti ruralisti si mescolavano ai toni guerrieri. Scopo

della battaglia era il raggiungimento dell’autosufficienza nel settore dei cereali. Tale

scopo fu in parte raggiunto: alla fine degli anni ’30 la produzione di grano era

aumentata del 50% e le importazioni si erano ridotte ad un terzo, rispetto a quindici

anni prima. Ma, per fare ciò, altri settori, come ad esempio quello dell’allevamento,

furono sacrificati.

La seconda battaglia, del binomio Mussolini – Volpi, fu quella per la rivalutazione

della lira. Nell’agosto del 1926, il duce disse di voler riportare in alto il corso

internazionale della moneta e fissò l’obiettivo di quota novanta, ossia 90 lire per una

sterlina. Tale obiettivo fu raggiunto in poco più di un anno, in virtù di provvedimenti

che limitavano il credito, e con l’aiuto di un cospicuo prestito concesso allo Stato

italiano da grandi banche statunitensi. Ma a godere di tutto ciò non furono i lavoratori

dipendenti, che si videro tagliare stipendi e salari in misura più che proporzionale;

tale situazione avvantaggiò soprattutto le grandi imprese e favorì i processi di

concentrazione aziendale. Qualcosa di analogo si verificò in agricoltura, dove la

politica monetaria del regime finì col mettere in crisi molte piccole e medie aziende,

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Page 78: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

che si erano formate da poco tempo e furono schiacciate per la restrizione del credito,

oltre che per il calo dei prezzi agricoli.

L’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando

cominciò a sentire le conseguenze della crisi mondiale. Queste conseguenze furono

meno drammatiche che in altri paesi, anche perché la politica protezionistica,

accentuando l’orientamento della produzione verso il mercato interno, aveva

anticipato in qualche modo gli effetti negativi della depressione. Tuttavia, la

recessione fu pesante anche in Italia. Il commercio con l’estero si ridusse;

l’agricoltura subì duri colpi. La disoccupazione nell’industria e nel commercio

aumentò bruscamente. La risposta del regime alla crisi si attuò su due direttrici

fondamentali: lo sviluppo dei lavori pubblici, per rilanciare la produzione ed attutire

le tensioni sociali e l’intervento diretto o indiretto dello Stato a sostegno dei settori in

crisi. La politica dei lavori pubblici ebbe il suo maggiore sviluppo nella prima metà

degli anni ’30. Furono realizzate nuove strade e tronchi ferroviari, costruiti edifici

pubblici, dove il fascismo poté appagare il suo gusto per il monumentale.

Fondamentale fu, però, l’avvio di un gigantesco programma di bonifica integrale, che

ebbe la sua massima espressione nella bonifica dell’Agro Pontino, un vasto territorio

paludoso a Sud della Capitale. Vennero costruiti, così, villaggi rurali e vere città,

come Sabaudia e Littoria, ( l’attuale Latina).

Anche nel settore dell’industria e del credito, lo Stato assunse le forme più originali

ed incisive. Colpite dalla crisi erano in particolare le banche miste che, create alla

fine dell’Ottocento, si erano trovate a controllare quote azionarie sempre più

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Page 79: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

consistenti di importanti gruppi industriali. La caduta della borsa, che si verificò

anche in Italia in coincidenza della grande crisi, mise in difficoltà queste strutture, le

quali, per sostenere il corso dei titoli, effettuarono nuovi massicci acquisti,

aggravando la loro esposizione. Per far fronte a questa situazione, il governo creò

prima l’Imi, l’Istituto mobiliare Italiano, col compito di sostituire le banche nel

sostegno alle industrie in crisi e, successivamente, nel 1933 l’Iri, l’Istituto per la

ricostruzione industriale, con ampie competenze. Valendosi di fondi forniti in gran

parte dallo Stato, l’Iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne

rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune tra le

maggiori imprese italiane. Tale ente doveva essere transitorio, limitandosi al

risanamento delle imprese, ma nel 1937 divenne, invece, un ente permanente.

In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare una quota dell’apparato

industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato, ad eccezione

dell’Urss. Diventò così Stato – Imprenditore, oltre che Stato – Banchiere.

Intorno alla metà degli anni ’30, l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi,

prima e meglio rispetto alla maggior parte delle potenze industriali. A questo punto,

però, mancò al regime la capacità di profittare della ripresa per mettere in moto un

processo di sviluppo che si riflettesse sulle condizioni di vita della popolazione.

Dal 1935, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari, che

sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l’isolamento

economico del paese. Cominciava per l’Italia una lunga stagione di economia di

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Page 80: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

guerra, destinata a prolungarsi senza soluzione di continuità, sino al secondo conflitto

mondiale.

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Page 81: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Gli anni ’30 in Germania e in Italia

Il termine totalitarismo, come accennato, fu inventato dagli antifascisti italiani nella

prima metà degli anni ’20. In seguito, gli stessi fascisti e Mussolini lo usarono in

senso positivo per definire la loro ispirazione ad una identificazione tra Stato e

società. Dopo il secondo conflitto mondiale, il termine fu adottato dalla scienza

politica e dalla pubblicistica dei paesi occidentali per designare quella particolare

forma di potere assoluto, tipica della società di massa, che non si accontentava di

controllare la stessa società, ma pretendeva di mutarla, attraverso una ideologia

onnicomprensiva. Un potere che si basava sul terrore e sulla propaganda; un potere,

insomma, che non solo voleva reprimere, grazie ad un immenso apparato poliziesco,

ogni forma di dissenso, ma cercava anche di mobilitare i cittadini attraverso proprie

organizzazioni, di imporre la sua ideologia attraverso il monopolio dell’educazione e

dei mezzi di comunicazione di massa.

In Germania, con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler, scomparivano

anche le ultime tracce del sistema repubblicano. Nasceva così il Terzo Reich, dopo il

Sacro Romano Impero medioevale e quello nato nel 1871, che realizzava pienamente

il “principio del capo”, un punto cardine della dottrina nazista. Il capo non era solo

colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del

diritto; non era esclusivamente la guida del popolo, ma anche colui che sapeva

esprimere le autentiche aspirazioni della massa. Deteneva, cioè, quel potere

carismatico di cui parlava Max Weber, nei primi anni del secolo XX, che lo portava

a compiere, in nome di tutto il popolo, la missione per la quale era stato predestinato.

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Page 82: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il rapporto fra capo e popolo doveva essere diretto, al di là di ogni mediazione

istituzionale e di ogni forma di rappresentanza. L’unico tramite con le masse era

costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati: il Fronte del

lavoro, che sostituiva i sindacati disciolti, o le organizzazioni giovanili, che facevano

capo alla Gioventù hitleriana. Fine di queste organizzazioni era di trasformare

l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata: da tale

comunità erano esclusi, per definizione, gli elementi antinazionali, i cittadini di

origine straniera o di discendenza non ariana e soprattutto gli ebrei, investiti del ruolo

di polo negativo, di obiettivo predeterminato del malcontento popolare. In Germania

gli ebrei erano una ristretta minoranza, circa 500.000 su una popolazione di oltre 60

milioni di abitanti. Ma, erano concentrati nelle grandi città e, pur non facendo parte

della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della scala sociale.

Nei confronti di questa minoranza, attivamente inserita nella comunità nazionale, la

propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità, che erano diffusi

soprattutto fra le classi popolari in tutta l’Europa centro-orientale.

La discriminazione venne ufficializzata nel settembre del 1935. con le Leggi di

Norimberga, che tolsero agli ebrei la parità dei diritti conquistata nel 1848 e

proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei. A tutto ciò si aggiungeva una loro

crescente emarginazione dalla vita sociale: molti ebrei abbandonarono, così, la

Germania. Dal novembre del 1938 la persecuzione antisemita fu ulteriormente

accresciuta, traendo a pretesto l’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi, per

mano proprio di un ebreo. I nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la

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Page 83: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Germania. Quella fra l’8 e il 9 novembre 1938 fu chiamata la notte dei cristalli, per

via delle vetrine dei negozi appartenenti agli ebrei, che furono infrante dalla violenza

dei dimostranti. Da allora in poi, gli ebrei in Germania ebbero un’esistenza

difficilissima finché, a guerra mondiale iniziata, Hitler non concepì il mostruoso

progetto di una soluzione finale del problema, con la deportazione in massa e il

progressivo sterminio del popolo ebraico.

La persecuzione antisemita si inquadrava in un più vasto programma di difesa della

razza che prevedeva, fra l’altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie

ereditarie e la soppressione degli infermi di mente, classificati come incurabili. Il

mito della razza occupò un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo: la

stessa idea dello Stato aveva, rispetto a quella della razza, una funzione secondaria.

L’opposizione comunista, quasi del tutto annientata, riuscì a mantenere in piedi pochi

nuclei clandestini. La socialdemocrazia fece sentire la propria voce solo attraverso gli

esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del Centro, finirono con l’adattarsi al regime,

incoraggiati dall’atteggiamento della Chiesa che, nel luglio 1933, stipulò un

concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza

dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo del 1937, di fronte agli

eccessi della politica razzista dei nazisti, Pio XI intervenne con un’enciclica, in lingua

tedesca, per condannare le dottrine e le pratiche, che sempre più rivelavano il

carattere “pagano” di certi aspetti della politica di Hitler. Ma, non vi fu una denuncia

del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo.

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Page 84: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Le chiese luterane, dal canto loro, per lo più orientate in senso conservatore e

tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, ed

accettarono il giuramento di fedeltà nei confronti del Führer. L’opposizione più

pericolosa, per Hitler, sarebbe venuta da esponenti di quei gruppi conservatori e

miliari, che avevano avuto non piccole responsabilità nell’avvento del nazismo. In

buona parte conservatori erano gli ufficiali ed i politici, che nel luglio del 1944

cercarono di attentare alla vita di Hitler.

Il nazismo aveva un eccezionale apparato repressivo: le molteplici polizie, da quella

ufficiale a quella segreta, la Gestapo, e l’onnipresente servizio di sicurezza delle SS,

capace di controllare con ogni mezzo la vita privata e pubblica dei cittadini. Altro

mezzo di repressione erano i campi di concentramento (lager), dove gli oppositori

venivano rinchiusi e sottoposti ad un lento annientamento. La repressione e i lager

possono spiegare la limitatezza del dissenso, ma non riescono a far comprendere il

consenso al regime, che fu superiore a quello di qualsiasi altro sistema totalitario. Un

primo fattore di tale consenso risiedeva nei successi di Hitler in politica estera. Il

Führer, infatti, riuscì a stimolare l’orgoglio patriottico dei tedeschi contro Versailles e

fece provare ai suoi concittadini la sensazione della rivincita. Altro fattore fu la

ripresa economica. Superato già nel 1933 il momento più difficile della crisi, la

produzione industriale tedesca tornò in pochi anni al livello del 1928, per superarlo

poi nel 1938-’39.

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Page 85: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il piano di preparazione alla guerra, approntato da Hitler subito dopo la presa del

potere, come pure il programma dei lavori pubblici, determinarono una rapida

crescita economica.

Usando la spesa pubblica per favorire la ripresa ed accrescere l’occupazione, il

regime nazista attuò una politica, in fondo, non diversa da quella messa in atto da

Roosevelt con il New Deal. Abbandonando i programmi anticapitalistici del primo

nazismo, il regime cercò di incoraggiare l’iniziativa privata e legarla al potere

politico. In campo agricolo, il nazismo si limitò di imporre una serie di norme, che

tutelavano la piccola e media proprietà senza intaccare i latifondi.

Nel settore delle relazioni industriali, la maggiore novità fu l’applicazione del

Führerprinzip, all’interno dei luoghi di lavoro, con l’imprenditore elevato a capo

assoluto dell’azienda.

I successi in economia e in politica estera, non basterebbero però a spiegare

l’ampiezza del consenso al regime, se non si tenesse conto di un altro fattore

essenziale: la capacità del nazismo di proporre e di imporre miti, capaci di toccare le

corde dell’anima popolare, la sua abilità nel servirsi, a tale scopo, di tutti gli strumenti

disponibili nell’età delle comunicazioni di massa. L’utopia proposta dal nazismo era

reazionaria e “ruralista”: un mondo popolato da uomini sani e belli, legati alla loro

terra. Una società di contadini-guerrieri, libera dagli orrori delle città moderne e dalle

malattie della civiltà industriale. Ma, questo ideale contrastava con la prassi concreta

del regime, sospinto dalla sua logica bellicista a favorire lo sviluppo della grande

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Page 86: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

industria. Tale mito si innestava, però, su una solida tradizione culturale nazionale di

origine romantica, fondata sui valori della terra e del sangue.

La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che, per

diffondere un’utopia antimoderna, il regime si serviva di mezzi modernissimi.

Quello nazista fu il primo governo ad istituire, in tempo di pace, un ministero per la

Propaganda che, affidato all’abile Joseph Goebbels, divenne uno dei maggiori centri

di potere del regime. Gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione

nazionale, la Camera di cultura del Reich, e dovettero fare atto di adesione al regime.

Tutti i momenti più significativi della vita dello Stato nazista furono scanditi da feste

e cerimonie pubbliche: sfilate, esibizioni sportive e soprattutto adunate di massa,

culminanti nel discorso del Führer o di altri dirigenti. In tali adunate, il cittadino

trovava quei momenti di socializzazione, sia pure forzata, che la vita nelle grandi città

non offriva, come pure recuperava quegli elementi sacrali, che aveva perso con la

scomparsa della società contadina. Lo storico George L. Mosse così sottolineava che

il fenomeno nazista “non può essere classificato con i tradizionali canoni della

teoria politica. […Era] una religione laica, la prosecuzione, dai tempi primordiali e

cristiani, di un modo di considerare il mondo attraverso il mito e il simbolo, di

manifestare le proprie speranze e timori in forme cerimoniali e liturgiche”2.

In Italia, il fascismo aveva come progetto quello di “occupare”, insieme allo Stato,

anche la società, per plasmarla al suo volere: alle intenzioni non corrisposero, però, i

fatti. L’ostacolo maggiore era senza dubbio la Chiesa: il 99% della popolazione del

paese si dichiarava, infatti, di religione cattolica. Consapevole di ciò, Mussolini non 2 Cfr. G.L.Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 2008.

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solo aveva cercato un’intesa politica col Vaticano, trovandola a danno del Partito

popolare, ma aveva mirato più lontano, tentando di debellare, definitivamente, lo

storico contrasto fra Stato italiano e Santa Sede. Le trattative cominciarono

nell’estate del 1926, si protrassero per due anni e mezzo nel più assoluto segreto e si

conclusero l’11 febbraio 1929, con la stipula dei patti, che presero il nome dai palazzi

del Laterano, cioè del luogo in cui Mussolini e il segretario di Stato vaticano,

cardinale Gasparri, si incontrarono per la firma. I Patti Lateranensi si articolavano

in tre parti distinte: un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva fine alla

“questione romana”, riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e si vedeva

riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”; una convenzione

finanziaria, con cui l’Italia si impegnava a pagare al papa una forte indennità a titolo

di risarcimento per la perdita dello Stato pontificio; infine, un concordato, che

regolava i rapporti interni tra Chiesa e Regno d’Italia, intaccando sensibilmente il

carattere laico dello Stato. Il concordato stabiliva, fra l’altro, che i sacerdoti fossero

esentati dal servizio militare, che i preti spretati venissero esclusi dagli uffici

pubblici, che il matrimonio religioso avesse effetti civili e l’insegnamento della

religione cattolica fosse considerato “fondamento e coronamento” dell’istruzione

pubblica. Infine, si stabilì che le organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica

potevano continuare a svolgere la loro attività, purché sotto il controllo delle

gerarchie ecclesiastiche.

Per il regime fascista, i Patti Lateranensi rappresentarono un successo

propagandistico.

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Le prime elezioni plebiscitarie, tenute col sistema della lista unica e indette, non a

caso, nel marzo del 1929, a poche settimane dalla firma dei patti, registrarono un

grande afflusso alle urne, quasi il 90%, con un 98% di consensi.

Tuttavia, la Chiesa non rappresentava l’unico ostacolo per le aspirazioni totalitarie

del regime. Un altro limite insuperabile era rappresentato dalla monarchia.

Diversamente da Hitler, Mussolini dovette fare i conti con un’autorità, quella del re,

che non gli era subordinata, e non derivava dal fascismo i suoi titoli di legittimità. Il

re restava sempre la più alta autorità dello Stato, a lui toccava il comando delle forze

armate, la scelta dei senatori e, addirittura, il diritto di nomina e revoca del capo del

governo. Poteri questi forse più teorici che pratici, ma, tuttavia, decisivi per impedire

al fascismo di divenire un totalitarismo perfetto.

Nel movimento fascista fu sempre presente, fin dall’origine, una forte componente

nazionalistica. Tuttavia, sino ai primi anni ’30, le aspirazioni imperiali di Mussolini

rimasero vaghe e contraddittorie e si tradussero in una generica contestazione

dell’assetto uscito dai trattati di Versailles. Ancora nel 1935, il regime fascista era

legato alle democrazie europee: l’accordo di Stresa ne fu una dimostrazione. Tuttavia,

questa fu l’ultima manifestazione di tale fase della politica estera fascista. Mentre si

accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini

stava già preparando l’aggressione all’Impero etiopico, unico grosso Stato

indipendente del continente africano.

Così, quando ai primi dell’ottobre 1935, l’Italia diede inizio all’invasione

dell’Etiopia, il governo francese e quello inglese non poterono fare a meno di

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condannare l’azione e proporre al Consiglio della Società delle Nazioni l’adozione di

sanzioni, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria di

guerra. Ma, Mussolini diede vita ad un’imponente campagna propagandistica, tesa a

presentare l’Italia come vittima di una congiura internazionale. Il paese fu scosso da

un’ondata di imperialismo popolaresco.

Gli etiopici si batterono, con accanimento, per più di sette mesi guidati dal negus

Hailé Selassié. Alla fine, però, le truppe italiane comandate dal generale Badoglio,

entrarono ad Addis Abeba il 5 maggio 1936. Quattro giorni dopo, Mussolini poteva

annunciare alle folle il “ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma” e offrire al

sovrano la corona di imperatore d’Etiopia.

Nell’ottobre del 1936 vi fu un avvicinamento fra l’Italia e la Germania, con la firma

di un patto di amicizia, a cui fu dato il nome di Asse Roma-Berlino. Nell’autunno del

1937 si concretizzò, poi, l’adesione italiana al cosiddetto Patto anticomintern, un

accordo stipulato l’anno prima da Germania e Giappone, che impegnava i due paesi a

combattere il comunismo internazionale. Tuttavia, Mussolini considerava

l’avvicinamento alla Germania non tanto una scelta irreversibile, quanto un mezzo di

pressione sulle potenze occidentali, uno strumento che gli poteva permettere di

ottenere qualche vantaggio, soprattutto in campo coloniale.

Ma il dinamismo aggressivo della Germania era tale da non consentire a Mussolini i

tempi e gli spazi di manovra necessari per realizzare il suo programma. Nel maggio

del 1939, il duce si decise alla scelta che sarebbe stata fatale per l’Italia: la firma di

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Page 90: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

un formale patto di alleanza con la Germania, il patto d’acciaio, che legava le sorti

del paese con la Germania nazista.

In Italia, negli anni 30, non si arrestava, tuttavia, il malcontento della popolazione. A

suscitarlo fu, non da ultimo, la politica economica del regime, sempre più ispirata a

motivi di prestigio nazionale e condizionata dalle spese militari. Mussolini era,

inoltre, deciso ad intensificare la politica dell’autarchia, già abbozzata negli anni ’20,

e consistente in una ricerca di maggior autosufficienza economica, soprattutto nel

campo dei prodotti e delle materie prime indispensabili in caso di guerra. I risultati

finali non furono brillanti: l’indice della produzione crebbe, ma molto lentamente.

Crebbero anche i prezzi, e ciò comportò un peggioramento dei livelli di vita delle

classi popolari. A questi motivi di disagio, si aggiungevano le preoccupazioni per il

nuovo indirizzo di politica estera attuato da Mussolini e dal suo più prezioso

collaboratore: suo genero Galeazzo Ciano, assurto alla carica di ministro degli Esteri.

L’aspetto che più inquietava l’opinione pubblica era, comunque, l’amicizia con la

Germania, una amicizia che urtava le tradizioni risorgimentali. La nuova politica

mussoliniana si mostrava, inoltre, priva di risultati immediati: sembrava che l’Italia

dovesse passivamente subire i voleri di Hitler, come nel caso dell’annessione tedesca

dell’Austria nel 1938.

Il fascismo aveva l’obbligo, per realizzare i suoi obiettivi, di coinvolgere

maggiormente le masse.

Si concretizzarono, così, una serie di modifiche istituzionali, che andavano dalla

creazione del ministero per la Cultura popolare, all’accorpamento delle

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Page 91: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio, dall’ampliamento delle

funzioni del Pnf, alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova

Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si

entrava in virtù delle cariche ricoperte negli organi di regime.

Nell’autunno del 1938, Mussolini introdusse poi una serie di leggi discriminatorie nei

confronti degli ebrei, leggi che ricalcavano, in grandi linee, quelle naziste del 1935.

Anch’esse, infatti, escludevano gli ebrei da qualsiasi ufficio pubblico, ne limitavano

l’attività professionale e vietavano i matrimoni misti. Preannunciata da un manifesto

di sedicenti scienziati e preparata da una intensa campagna di stampa, la legislazione

razziale giunse, tuttavia, del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto

forme di antisemitismo diffuso. Le leggi razziali suscitarono, così, sconcerto e

perplessità nell’opinione pubblica ed aprirono un serio contrasto con la Chiesa,

contraria non tanto alla discriminazione in sé, quanto alle sue motivazioni biologico-

razziali.

Verso la seconda guerra mondiale

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Page 92: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

L’avvento al potere di Hitler diede un duro colpo all’equilibrio internazionale, già

scosso dalle conseguenze della grande crisi. La prima decisione importante del

governo nazista in politica estera fu, nell’ottobre 1933, il ritiro della delegazione

tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze cercavano

di giungere ad un accordo sulla limitazione degli armamenti. Seguì, poco tempo

dopo, il ritiro della Germania dalla Società delle nazioni.

Queste decisioni, con le quali Hitler mostrava chiaramente di non sentirsi legato al

“sistema di Locarno” e agli impegni assunti dai suoi predecessori, destarono allarme

in Europa. Anche l’Italia fascista, nonostante le indubbie affinità ideologiche e

nonostante il comune atteggiamento revisionista, critico nei confronti di Versailles,

ebbe motivo di preoccuparsi delle mire aggressive tedesche.

Quando in Austria, nel luglio del 1934, gruppi di nazisti tentarono di impadronirsi del

potere e uccisero il cancelliere Dollfuss, al fine di preparare l’unificazione tra Austria

e Germania, Mussolini reagì immediatamente, facendo schierare quattro divisioni al

confine italo-austriaco. Hitler, non ancora pronto per una guerra, fu costretto a

sconfessare gli autori del complotto.

Meno di un anno dopo, nell’aprile 1935, di fronte ad una nuova iniziativa unilaterale

del governo tedesco, che reintroduceva la coscrizione obbligatoria, vietata a

Versailles, i rappresentanti di Italia, Francia e Gran Bretagna si riunirono a Stresa per

condannare il riarmo tedesco, per ribadire la validità dei patti di Locarno e per

riaffermare il loro interesse all’indipendenza dell’Austria. Fu questa, l’ultima

manifestazione di solidarietà fra le potenze vincitrici. Pochi mesi più tardi, infatti,

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Page 93: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

come detto, l’aggressione italiana all’Etiopia avrebbe spezzato il “fronte di Stresa” e

dato avvio ad un processo di riavvicinamento italo-tedesco.

Intanto la causa della sicurezza collettiva aveva trovato un nuovo ed insperato

sostegno nel paese, che sino ad allora era rimasto estraneo a tutte le iniziative nate

nell’ambito della Società delle nazioni: l’Unione Sovietica. Fino al 1933, la politica

estera dell’Urss si era ispirata ad una linea dura: rifiuto del sistema di Versailles e

nessuna distinzione tra Stati fascisti e democrazie europee. I successi di Hitler

indussero Stalin a modificare le sue precedenti impostazioni. Nel settembre del 1934,

l’Urss entrò nella Società delle nazioni e nel maggio 1935 stipulò un’alleanza militare

con la Francia. Cambiò, così, anche la linea seguita dal Comintern e dai partiti

comunisti europei. Fu improvvisamente accantonata la tattica della contrapposizione

frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora verso le

socialdemocrazie. La nuova parola d’ordine, lanciata nel VII Congresso del

Comintern, svoltosi a Mosca nell’agosto del 1935, fu quella della lotta al fascismo,

indicato come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il compito

di riallacciare i rapporti sia con gli altri partiti operai, sia con le forze democratico-

borghesi, di favorire la nascita di larghe coalizioni, dette fronti popolari, e di

appoggiare i governi democratici, decisi a combattere il fascismo.

In Francia, l’instabilità governativa e il susseguirsi degli scandali politico-finanziari,

mettevano a dura prova le istituzioni repubblicane. Quando, il 6 febbraio 1934

l’estrema destra organizzò una marcia sul Parlamento, (interrotta dall’intervento

della polizia), per impedire l’insediamento del governo presieduto dal radicale

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Page 94: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Daladier, socialisti e comunisti risposero con manifestazioni unitarie. Fu questo il

segno di un riavvicinamento, che preparava la svolta dell’Internazionale comunista e

che sarebbe poi stato sanzionato dalla firma, in Francia e in altri paesi, di patti di

unità d’azione fra socialisti e comunisti.

Tuttavia, l’avvicinamento fra l’Urss e le democrazie europee, come pure il rilancio

della politica di sicurezza collettiva, non bastarono a fermare, nel 1935, l’aggressione

dell’Italia fascista all’Etiopia, né impedirono a Hitler, nella primavera del 1936, di

reintrodurre truppe tedesche nella Renania “smilitarizzata”.

Nel febbraio, sempre del 1936, una coalizione di Fronte popolare, comprendente

anche i comunisti, vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel mese di maggio, in

Francia, il netto successo delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo

composto da radicali e socialisti, sostenuto dall’esterno dai comunisti e presieduto dal

socialista Léon Blum.

L’insediamento del primo governo a guida socialista nella storia francese fu

accompagnato da grandi manifestazioni. Gli operai, con una imponente ondata di

scioperi e di occupazioni di fabbriche, strapparono ad un padronato riluttante la firma

degli “storici” accordi di Palazzo Matignon, nel giugno 1936. Tali accordi

prevedevano, oltre a consentire aumenti di salario, la riduzione della settimana

lavorativa a quaranta ore e la concessione di quindici giorni di ferie pagate.

Tuttavia questi accordi crearono notevoli difficoltà all’economia francese, non ancora

ripresasi dalla grande depressione. L’improvviso aumento del costo del lavoro

pregiudicò la competitività dei prodotti dell’industria e innescò un rapido processo

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Page 95: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

inflazionistico, che vanificò i vantaggi salariali. L’inflazione e la fuga dei capitali

all’estero costrinsero i governi del Fronte popolare a due successive svalutazioni del

franco. La crisi era evidente: il governo Blum si dimise nel giugno del 1937 senza

esser riuscito a svolgere alcuna riforma organica. Nella primavera del 1938, mentre la

situazione internazionale si andava deteriorando, l’esperienza del Fronte popolare

poteva considerarsi chiusa.

Intanto, tra il 1936 e il 1939, la Spagna fu sconvolta da una drammatica guerra civile:

un conflitto che si caricò di accesi antagonismi ideologici, trasformandosi in uno

scontro tra democrazia e fascismo, fra rivoluzione sociale e reazione conservatrice.

Dopo la dittatura di Primo de Rivera e la caduta della monarchia, la Spagna aveva

attraversato un periodo di grave instabilità economica e sociale, che aveva visto

succedersi un fallito colpo di Stato militare nell’estate del 1932 e un’ insurrezione

anarchica, sanguinosamente repressa, nell’autunno del 1934. La Spagna era un paese

arretrato e prevalentemente agricolo: qualsiasi tentativo di riforma si scontrava, così,

con l’ottusità di un ceto dominante reazionario, come pure con le tendenze sovversive

e antistatali di un proletariato fortemente influenzato dalle ideologie anarco-

sindacaliste. Era, infatti, la Spagna l’unico paese al mondo in cui la maggior centrale

sindacale, la Cnt, risultava ancora controllata dagli anarchici.

Quando, nel febbraio del 1936, le sinistre unite in una coalizione di Fronte popolare

si affermarono nelle elezioni politiche e si insediarono al governo, la tensione esplose

ovunque. Le masse popolari considerarono l’evento come una rivoluzione sociale.

La reazione della vecchia classe dominante si espresse, prima nella violenza

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Page 96: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

squadrista, affidata a gruppi fascisti della Falange, un’organizzazione che non aveva

sino ad allora avuto grande importanza e, poi, con una ribellione messa in atto dai

militari. Iniziata nel luglio del 1936, tale ribellione ebbe il suo punto di forza nelle

truppe coloniali di stanza nel Marocco spagnolo e fu organizzata da una giunta di

cinque generali: fra essi Francisco Franco, assurto al ruolo di capo degli insorti. I

ribelli assunsero il controllo della parte occidentale della Spagna. Inizialmente, però,

il governo repubblicano ebbe la meglio e poté mantenere il controllo della capitale e

delle regioni del Nord-Est, le più ricche. Ciò che favorì i nazionalisti fu il

comportamento delle potenze straniere. Italia e Germania aiutarono gli insorti

franchisti. Nessun aiuto, invece, venne alla Repubblica, da parte delle potenze

democratiche. Il governo inglese si attenne ad una rigida neutralità. Frenato dagli

inglesi e preoccupato dal rischio di uno scontro aperto con gli Stati fascisti, il governo

francese di Fronte popolare si astenne da ogni aiuto palese ai repubblicani e si illuse

di bloccare gli aiuti al campo opposto, promuovendo un accordo generale fra le

grandi potenze per il non intervento nella crisi spagnola. Sottoscritto nell’agosto del

1936 anche da Italia e Germania, l’accordo fu rispettato solo dalla Francia e dalla

Gran Bretagna.

L’unico Stato a portare un aiuto efficace alla repubblica spagnola fu l’Urss, che non

solo rifornì il governo repubblicano di materiale bellico, ma favorì, attraverso il

Comintern, la formazione di Brigate internazionali: reparti volontari composti in

buona parte da comunisti di tutte le tendenze ed i paesi. Numerosi furono gli italiani, i

quali trovarono nella guerra l’occasione per combattere, in campo aperto, quella

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Page 97: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

battaglia che non potevano affrontare in patria. “Oggi in Spagna, domani in Italia”,

fu lo slogan lanciato da Carlo Rosselli a nome dell’emigrazione antifascista italiana,

presente nelle Brigate internazionali con molti suoi dirigenti.

L’intervento dei volontari antifascisti ebbe un significato morale e politico

largamente superiore a quello militare, che pure non fu trascurabile, come nella

battaglia di Guadalajara del marzo del 1937, quando gli italiani della Brigata

Garibaldi inflissero una dura sconfitta ai loro connazionali, inquadrati nei reparti

fascisti. Tuttavia, i repubblicani erano anche indeboliti dalle loro divisioni interne.

Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo, si guadagnava l’appoggio delle

gerarchie ecclesiastiche, dell’aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia

moderata e realizzava l’unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange

nazionalista, il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia

progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora spaventati

dagli eccessi di violenza, cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici. Mentre i

nazionalisti mettevano in piedi, nei loro territori, uno Stato dai chiari connotati

autoritari, i repubblicani si scontravano sull’organizzazione presente e futura della

società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente grave era il

contrasto, che divideva gli anarchici dagli altri partiti della coalizione, a cominciare

dai comunisti, favorevoli a una linea relativamente moderata, tale da non rompere

l’intesa con le forze democratiche. Nella primavera nel 1937 il contrasto divenne

molto forte quando, a Barcellona, gli anarchici si scontrarono, armi in pugno, con i

comunisti e l’esercito regolare repubblicano. I comunisti adottarono nei confronti

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Page 98: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

degli anarchici metodi simili a quelli in uso nella Russia di Stalin: numerosi

anarchici, tra il 1937 e il 1938, scomparvero e un partito intero, il Poum, fu liquidato,

grazie anche all’intervento di agenti sovietici. La sorte della guerra fu segnata, nella

primavera del 1938, quando i franchisti riuscirono a spezzare in due il territorio

controllato dai repubblicani, separando Madrid dalla Catalogna. Abbandonata da

tutti, la repubblica spagnola resistette ancora per quasi un anno. All’inizio del 1939, i

nazionalisti sferrarono l’offensiva finale, che si concluse, in marzo, con la caduta di

Madrid.

Terminata pochi mesi prima del secondo conflitto mondiale, la guerra civile spagnola

ne rappresentò per molti aspetti un sinistro preludio anche perchè in Spagna furono

adottati, per la prima volta, metodi e tecniche di guerra che l’Europa ed il mondo

avrebbero presto sperimentato su ben più ampia scala.

In Germania, intanto, continuava ad imperversare la politica di Hitler, che non

necessariamente voleva una guerra contro le potenze occidentali, anche se non

scartava a priori questa evenienza. In realtà, il Führer sperò, sino in fondo, di poter

evitare uno scontro con l’Inghilterra, a patto che questa lasciasse campo libero alle

mire tedesche in Europa centro-orientale. In questa speranza fu incoraggiato dai

conservatori inglesi, soprattutto a partire dal maggio 1937, quando la guida del

governo fu affidata a Neville Chamberlain, sostenitore convinto di quella che allora

fu chiamata politica dell’appeasement: una politica basata sul presupposto che fosse

possibile “ammansire” Hitler, accontentandolo nelle sue rivendicazioni “più

ragionevoli”. L’idea dell’appeasement riscosse molto successo perché rispondeva ad

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Page 99: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell’opinione pubblica inglese, incline al

pacifismo e poco convinta della equità di Versailles. L’unica voce contraria alla

politica di Chamberlain venne da un’esigua minoranza di conservatori, con a capo

Winston Churchill. Questi, infatti, sostenevano che l’unico modo per fermare Hitler

era quello di opporsi alle sue pretese, anche a costo di una guerra.

Dal canto suo, la Francia, che pur era stata la prima garante dei trattati di Versailles,

poneva ora in esser una politica oscillante, timorosa di un altro conflitto mondiale e

per questo in posizione sostanzialmente subalterna a quella della Gran Bretagna.

Tutto ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di grossi successi, senza

nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di

ricostituzione.

Il primo successo lo ottenne nel marzo del 1938 con l’annessione dell’Austria al

Reich tedesco. Già nel 1934, il Führer aveva tentato di raggiungere tale obiettivo, ma

era stato bloccato dalle potenze occidentali e soprattutto dall’Italia. Ma quando

all’inizio del 1938 rilanciò la questione dell’Anschluss, mobilitando i nazisti austriaci

e costringendo alle dimissioni il cancelliere Schuschnigg, Mussolini non si oppose.

Né alcuna reazione venne dal governo inglese. L’11 marzo 1938 il capo dei nazisti

austriaci, Seyss-Inquart, nuovo capo del governo, chiese ufficialmente l’intervento

dell’esercito tedesco per salvare “il paese dal caos”. Il giorno seguente, le truppe del

Reich procedettero all’occupazione del territorio austriaco. Un mese dopo, un

plebiscito sanzionò a schiacciante maggioranza l’avvenuta unificazione.

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Page 100: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Ma, Hitler avanzò subito una nuova rivendicazione, anch’essa fondata su motivi

etnici: quella riguardante i sudeti, ossia gli oltre tre milioni di tedeschi che vivevano

nei confini della Cecoslovacchia. Anche in questo caso, il Führer agì mobilitando i

nazisti locali e spingendoli a formulare richieste pesanti al governo ceco.

Quest’ultimo, in un primo tempo, si mostrò disposto alla concessione di più larghe

autonomie alla comunità tedesca.

Ciò non bastava ovviamente a Hitler, che voleva l’annessione della regione dei sudeti

e la distruzione dello Stato cecoslovacco. Un concreto sostegno militare alla

Repubblica ceca da parte dei suoi alleati era però problematico, poiché la

Cecoslovacchia non confinava con la Francia né con la Russia. Inoltre il governo

inglese si mostrò ancora una volta incline ad accontentare Hitler, in quella che

sarebbe dovuta essere la sua “ultima richiesta”. Due volte Chamberlain andò, nel

settembre del 1938, in Germania per sottoporre a Hitler ipotesi di compromesso.

Alla fine di settembre, il Führer accettò la proposta di un incontro fra i capi di

governo delle grandi potenze. Nell’incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-

30 settembre 1938, Chamberlain e il primo ministro Daladier accettarono un progetto

presentato dall’Italia, che in realtà accoglieva quasi per intero le richieste del Führer e

prevedeva l’annessione al Reich della regione dei sudeti. I cecoslovacchi, che non

erano stati ammessi alla conferenza e neppure consultati, dovettero accettare un

accordo che li metteva alla mercè della Germania. I sovietici, anch’essi esclusi dal

tavolo delle trattative, compresero di non poter contare sulla solidarietà delle potenze

occidentali.

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Page 101: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Quella realizzata a Monaco era una pace falsa, anche se Chamberlain, Daladier e lo

stesso Mussolini, al loro rientro in patria, furono accolti trionfalmente. Accordandosi

con Hitler, le potenze occidentali avevano distrutto la loro credibilità e aperto la

strada a nuove aggressioni. Il commento più appropriato fu quello di Winston

Churchill: “Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e

avranno la guerra”.

La seconda guerra mondiale (1)

Ben presto si comprese come il negoziato di Monaco fosse un “falsa pace”, una

specie di rinvio di un conflitto, ormai inevitabile. Per la seconda guerra mondiale, la

questione della responsabilità risultò molto meno controversa, di quanto non lo fu per

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Page 102: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

la prima. La politica di conquista e di aggressione della Germania fece precipitare il

mondo in un nuovo, terribile conflitto. Hitler non si era accontentato dei risultati di

Monaco. Già nell’ottobre del 1938 aveva pronti i piani per l’occupazione della

Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa ed industrializzata della

Cecoslovacchia. L’operazione scattò nel marzo del 1939 e fu facilitata dallo

sfaldamento della compagine statale cecoslovacca, indebolita dalla perdita dei Sudeti

e minata dalle lotte fra le diverse nazionalità. Mentre la Slovacchia si proclamava

indipendente con l’appoggio dei tedeschi, Hitler dava vita al “protettorato di Boemia

e Moravia”, facente parte integrante del grande Reich. La distruzione dello Stato

cecoslovacco determinò una svolta nell’atteggiamento delle potenze occidentali.

Venne accantonata la politica dell’appeasement, Gran Bretagna e Francia diedero

vita a una vera e propria offensiva diplomatica, volta a contenere l’aggressività delle

potenze dell’Asse con una rete di alleanze. Patti di assistenza militare vennero

stipulati con Belgio, Olanda, Grecia, Romania, Turchia. Molto importante fu quello

con la Polonia, che costituiva il primo obiettivo delle mire espansionistiche tedesche.

Hitler, infatti, già nel mese di marzo 1939, aveva rivendicato il possesso di Danzica e

il diritto di passaggio attraverso “il corridoio”, che univa la città al territorio polacco.

L’alleanza fra Inghilterra, Francia e Polonia, conclusa fra marzo e aprile, costituiva

una risposta a queste minacce e significava che le potenze occidentali erano disposte

ad affrontare anche la guerra, pur di impedire lo smembramento della Polonia.

Dal canto suo, Mussolini cercò dapprima di contrapporre alle iniziative di Hitler una

propria azione unilaterale: l’occupazione del piccolo Regno di Albania, considerato

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Page 103: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

una base per una possibile ulteriore penetrazione nei Balcani. L’operazione ebbe solo

il risultato di accrescere la tensione tra l’Italia e le democrazie occidentali.

Un mese dopo, nel maggio 1939, Mussolini convinto che l’Italia non potesse

rimanere neutrale nello scontro che stava profilandosi, decise di accettare le pressanti

richieste tedesche di trasformare il generico vincolo dell’Asse Roma-Berlino, in una

alleanza militare: il Patto d’acciaio. Tale patto stabiliva, che se una delle due parti si

fosse trovata impegnata in un conflitto per una causa qualsiasi, l’altra sarebbe stata

obbligata a scendere in campo al suo fianco. Mussolini e il ministro Ciano

accettarono questo grave impegno, pur sapendo che l’Italia non era preparata

militarmente per un conflitto, fidandosi delle assicurazioni verbali di Hitler, secondo

le quali una eventuale guerra si sarebbe potuta scatenare non prima di due o tre anni.

In realtà, nel maggio 1939 lo stato maggiore tedesco stava già preparando i piani per

l’invasione della Polonia.

L’unica nazione, che poteva contrastare Hitler era la Russia, ma le trattative delle

potenze occidentali con l’Urss furono lente e complesse. I sovietici, inoltre, si

convinsero che i governi occidentali non avevano intenzione di offrire nulla in

cambio del loro aiuto e cominciarono a prestare attenzione ai richiami di intesa,

provenienti da Hitler.

Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov,

firmarono a Mosca un patto di non aggressione, fra i due paesi. L’annuncio

dell’accordo tra i regimi, ideologicamente così lontani, fu accolto nel mondo con

stupore ma anche con indignazione. In tal modo, l’Urss allontanava la minaccia

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Page 104: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

tedesca dai suoi confini ed otteneva, mediante un protocollo segreto, un

riconoscimento delle sue aspirazioni territoriali nei confronti degli Stati baltici, della

Romania e della Polonia. Dal canto suo Hitler era costretto a modificare la sua

strategia di fondo, rinviando lo scontro con la Russia: ma intanto poteva risolvere la

questione polacca senza pericoli.

Il 1° settembre 1939, le truppe tedesche attaccavano la Polonia. Il 3 settembre Gran

Bretagna e Francia dichiaravano guerra alla Germania, mentre l’Italia si era affrettata

a proclamare la sua “non belligeranza”. Rispetto al precedente conflitto, l’estensione

del teatro di guerra sarebbe stata ancora maggiore e ancor più rivoluzionarie le

conseguenze sugli equilibri internazionali. In poche settimane, la Germania sconfisse

la Polonia: con micidiali bombardamenti aerei ebbe facilmente ragione di un esercito

antiquato e mal guidato. Fu questa la prima applicazione della guerra–lampo, un

nuovo metodo di guerra, che si basava sull’uso congiunto dell’aviazione e delle forze

corazzate. All’inizio del mese di ottobre cessava ogni resistenza da parte dell’esercito

polacco e i tedeschi imponevano, nelle zone sotto il loro controllo, un duro regime di

occupazione. Frattanto i russi, in base agli accordi segreti Molotov – Ribbentrop, si

impadronivano delle regioni orientali del paese. La Repubblica polacca, dopo appena

venti anni di vita, cessava di esistere.

Per i successivi sette mesi, ad occidente, la guerra restò come congelata. L’Europa

visse una fase di trepida attesa che i francesi chiamarono “drôle de guerre”, ossia

strana guerra, e che certo non giovò al morale delle truppe alleate, mentre consentì ai

tedeschi di riorganizzare le forze in vista di nuovi attacchi.

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Così, il teatro di guerra si spostava nell’Europa del Nord. Questa volta fu l’Urss a

prendere l’iniziativa, attaccando il 30 novembre la Finlandia, colpevole di aver

rifiutato alcune rettifiche di confine. La campagna fu però difficile: i finlandesi

resistettero per più di tre mesi, infliggendo notevoli perdite agli aggressori. Nel 1940,

però, la Finlandia dovette cedere, conservando tuttavia la propria indipendenza.

Dopo le conquiste tedesche di Danimarca e Norvegia, l’offensiva hitleriana, sul

fronte occidentale, riprese il 10 maggio 1940 e si risolse nel giro di poche settimane.

Il successo fu tanto più clamoroso, in quanto ottenuto a spese delle due maggiori

potenze occidentali coalizzate. Inoltre, l’esercito francese era il più numeroso ed

armato d’Europa. A provocare la sconfitta furono gli errori degli stessi comandanti

francesi, ancora legati ad una concezione statica della guerra e troppo fiduciosi delle

fortificazioni difensive, che costituivano la linea Maginot.

I tedeschi, cominciarono, come nel 1914, a violare la neutralità dei piccoli Stati

confinanti. Questa volta, oltre al Belgio, furono invasi Olanda e Lussemburgo. Fra il

12 e il 15 maggio, dopo aver attraversato la foresta delle Ardenne, i reparti tedeschi

sfondarono le linee nemiche nei pressi di Sedan. Lo schieramento alleato cedette e le

truppe tedesche dilagarono in pianura, puntando verso il mare, chiudendo in una

sacca molti reparti francesi e l’intero corpo di spedizione inglese. Solo un

momentaneo rallentamento dell’offensiva consentì al grosso delle forze britanniche,

insieme a belgi e francesi, un reimbarco nel porto di Dunkerque tra il maggio e il

giugno del 1940.

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Per gli inglesi la ritirata rappresentò la salvezza, mentre per la Francia la sconfitta era

ormai inevitabile. Il 14 giugno i tedeschi entravano a Parigi, mentre interminabili

colonne di profughi si riversavano verso il Sud. Divenuto allora presidente del

Consiglio Philippe Pétain, da tempo schierato su posizioni di destra, aprì subito le

trattative per un armistizio. Invano il generale Charles de Gaulle, da Londra, lanciò,

il 18 giugno, un appello ai francesi per incitarli a combattere a fianco degli alleati.

L’armistizio fu firmato il 22 giugno nella stessa località, il villaggio di Rethondes, e

nello stesso vagone ferroviario, che nel novembre del 1918 avevano visto la

delegazione tedesca piegarsi al Diktat dei vincitori di allora. In base all’armistizio il

governo, che stabilì la sua sede a Vichy, conservava la propria sovranità su una zona

corrispondente alla metà centro-meridionale del paese, oltre che sulle colonie. Il resto

della Francia passava sotto l’occupazione tedesca.

In tal modo, il paese vide morire la sua Terza Repubblica, nata settant’anni prima. Il

9 luglio l’Assemblea nazionale, riunita a Vichy, si spogliava dei suoi poteri affidando

al Presidente del Consiglio il compito di promulgare una nuova Costituzione. Pétain,

come molti suoi concittadini, attribuiva la responsabilità della sconfitta, non agli

errori militari, ma alla classe dirigente repubblicana e al sistema democratico-

parlamentare. La “rivoluzione nazionale”, promossa proprio da Pétain, si risolse così

in un ritorno alle tradizioni dell’ancien régime: culto dell’autorità, difesa della

religione e della famiglia, esaltazione della piccola proprietà, organizzazione sociale

di stampo corporativo. Il regime di Vichy si ridusse al rango di Stato satellite della

Germania hitleriana. Ogni rapporto con la Gran Bretagna fu interrotto dopo che, il 3

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Page 107: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

luglio, la flotta francese, ancorata a Mers el Kebir, in Algeria, fu attaccata e distrutta

da quella inglese per evitare che cadesse in mano dei tedeschi.

Nell’estate del 1939, l’Italia era stata colta di sorpresa dal precipitare della crisi e,

come detto, annunciò la propria non belligeranza. In effetti, l’equipaggiamento, già

scarso, era stato ulteriormente impoverito dalle imprese in Etiopia; inoltre

insufficienti risultavano anche le scorte di materie prime.

Il crollo della Francia servì, però, a Mussolini a spazzar via le ultime esitazioni e a

vincere la resistenza di quei settori della classe dirigente, che sino ad allora erano stati

poco propensi alla guerra: il re, i gerarchi dell’ala moderata, gli industriali, gli stessi

vertici militari. Anche l’opinione pubblica, prima avversa alla guerra e all’alleanza

con la Germania, cambiò orientamento di fronte alla prospettiva di una vittoria. Il 10

giugno 1940, dal balcone di Palazzo Venezia il duce annunciava ad una folla

plaudente l’entrata in guerra dell’Italia “contro le democrazie plutocratiche e

reazionarie dell’Occidente”.

L’offensiva sulle Alpi, sferrata il 21 giugno in condizioni di netta superiorità

numerica contro un avversario praticamente sconfitto, si risolse in una grande prova

di inefficienza: la penetrazione in territorio francese fu limitatissima e le perdite

ingenti. L’armistizio, subito richiesto dalla Francia e firmato il 24 giugno, prevedeva

solo qualche minima rettifica di confine, oltre alla smilitarizzazione di una fascia di

territorio francese, profonda 50 chilometri.

Le cose non andarono meglio contro gli inglesi. Nel Mediterraneo, la flotta italiana

subì due successive sconfitte, sulle coste della Calabria e nei pressi di Creta. In Africa

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Page 108: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

settentrionale, l’attacco lanciato dal territorio libico contro l’Egitto, si dovette fermare

per mancanza di mezzi corazzati. Un’offerta di aiuto, da parte della Germania, fu

rifiutata da Mussolini, preoccupato di sottrarsi alla tutela del più potente alleato e

convinto che l’Italia dovesse combattere una sua guerra parallela a quella tedesca.

Dal giugno del 1940, la Gran Bretagna era rimasta a combattere da sola la Germania.

Hitler sarebbe stato disposto a trattare con gli inglesi a patto di vedersi riconosciute le

sue conquiste. Ma, la classe dirigente e il popolo britannico, fidando su una potenza

marittima ancora intatta, oltre che sul sostegno del Commonwealth, non vollero

accettare nessuna forma di compromesso con il Führer.

Interprete ed ispiratore di questa lotta fu soprattutto il primo ministro conservatore

Winston Churchill, da sempre fautore di una linea intransigente contro Hitler.

Chiamato, nel maggio del 1940, alla guida di un nuovo governo, Churchill manifestò

subito il suo programma in un celebre discorso: “…la guerra per mare, per terra e

nell’aria, con tutte le nostre energie”.

I sacrifici, annunciati dallo statista inglese, divennero ben presto una dura realtà.

All’inizio di luglio, Hitler dava il via al progetto per l’invasione dell’Inghilterra,

l’operazione Leone Marino. Premessa essenziale per la riuscita del piano era il

dominio dell’aria, che avrebbe consentito ai tedeschi di compensare la superiorità

navale della Gran Bretagna e di fiaccarne la resistenza, colpendola nella sua capacità

produttiva e nel morale. Quella ingaggiata dalla Germania contro la Gran Bretagna,

nell’estate 1940, fu la prima battaglia aerea della storia. Gli attacchi furono, però,

efficacemente contrastati dalla contraerea e dagli aerei da caccia della Royal Air

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Page 109: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Force. All’inizio dell’autunno si comprese che nonostante le perdite subite,

l’Inghilterra non era stata piegata: l’operazione Leone marino fu rinviata a tempo

indefinito. La tenace resistenza degli inglesi aveva ottenuto un successo

determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico. Tuttavia, la battaglia

d’Inghilterra aveva dato la tragica dimostrazione delle potenzialità distruttive del

mezzo aereo. I bombardamenti sulle città, le incursioni notturne precedute dal suono

delle sirene, gli orrori prodotti dalle bombe, sarebbero diventati un elemento

ricorrente e un fattore decisivo nelle successive fasi della guerra. Il 28 ottobre 1940,

l’esercito italiano attaccava la Grecia, un paese governato da un regime semifascista.

L’attacco fu determinato da ragioni di concorrenza con la Germania, che aveva

iniziato una penetrazione militare in Romania. L’offensiva italiana si scontrò con una

resistenza molto più dura del previsto. Alla fine di novembre, infatti, i greci

passarono al contrattacco e gli italiani furono costretti a ripiegare in territorio

albanese e a schierarsi sulla difensiva. Dopo l’esito disastroso della campagna greca,

in Italia il malcontento si fece sempre più forte. Le notizie, che venivano dal fronte

albanese, davano un durissimo colpo all’immagine guerriera del regime

Nel dicembre del 1940, gli inglesi erano passati al contrattacco ed avevano

conquistato la Cirenaica, infliggendo agli italiani moltissime perdite. Mussolini fu,

così, costretto ad accettare l’aiuto della Germania. Nel mese di marzo, con l’arrivo

dei primi reparti tedeschi guidati dal generale Erwin Rommel, le truppe dell’Asse

cominciavano una lunga controffensiva, che ben presto portò alla riconquista della

Cirenaica. Ma, intanto l’Africa orientale italiana, difficilmente difendibile per la sua

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Page 110: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

posizione geografica, stava cadendo nelle mani degli inglesi: il 6 aprile 1941 fu

occupata Addis Abeba, dove pochi giorni dopo rientrava il negus. L’Italia ormai

giocava il ruolo dell’alleato subalterno. Anche nei Balcani, come in Nord Africa, il

fallimento delle iniziative italiane finì con l’aprire la strada all’intervento in forze

della Germania. Nell’aprile 1941, la Jugoslavia e la Grecia, attaccate

simultaneamente da truppe tedesche e italiane, furono travolte, mentre gli inglesi, che

in marzo erano sbarcati nella penisola ellenica, erano costretti a ritirarsi.

A questo punto, restava aperto solo il fronte nordafricano. Tuttavia Hitler, in Europa,

non aveva più rivali, e poteva così concentrare il grosso delle sue forze verso

l’obiettivo più ambizioso: la conquista dello “spazio vitale” ad est ai danni dell’ Urss.

Con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, nell’estate del 1941, la guerra entrò in

una nuova fase. Un altro fronte si aprì in Europa orientale. La Gran Bretagna non fu

più la sola a combattere: il movimento comunista internazionale, schieratosi

inizialmente su posizioni ambigue, si convertì all’alleanza con la democrazia e alla

lotta contro il fascismo.

Stalin si illuse, tuttavia, che Hitler non avrebbe mai aggredito la Russia prima di aver

chiuso la partita con la Gran Bretagna. Così, quando il 22 giugno 1941, l’offensiva

tedesca, denominata operazione Barbarossa, scattò su un fronte lungo 1600

chilometri, dal Baltico al Mar Nero, i russi furono colti impreparati. Tale

impreparazione facilitò, almeno all’inizio, gli aggressori. L’offensiva contro i russi, a

cui partecipò anche l’esercito italiano, continuò per tutta l’estate, con successo, su

due direttrici principali: a nord, attraverso le regioni baltiche, e a sud, attraverso

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Page 111: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

l’Ucraina, con l’obiettivo di raggiungere le zone petrolifere del Caucaso. Ma l’attacco

verso Mosca fu sferrato troppo tardi, all’inizio di ottobre, e venne bloccato a poche

decine di chilometri dalla capitale, anche perché il freddo rese impraticabile gran

parte delle strade, favorendo la resistenza dei russi.

In dicembre, i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la

minaccia da Mosca. Tuttavia, i tedeschi erano diventati padroni di territori vastissimi,

come l’Ucraina e le regioni baltiche. Guidata personalmente da Stalin la resistenza

dei sovietici risultò efficace. Attingendo ad un serbatoio umano inesauribile, e

riorganizzando la produzione industriale nelle regioni ad est del Volga, l’Urss

riusciva a compensare le spaventose perdite subite. La guerra meccanizzata si

trasformava in guerra d’usura, in cui l’elemento determinante era costituito dalla

capacità di compensare il logorio degli uomini e dei materiali.

Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la linea di non intervento

negli affari europei, mantenuta negli anni tra le due guerre. Ma, una volta rieletto alla

presidenza per la terza volta, Roosevelt nel novembre 1940, si impegnò in una

politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna, rimasta sola a combattere

contro la Germania. Nel marzo del 1941 venne approvata la legge degli affitti e

prestiti, che consentiva la fornitura di materiale bellico a condizioni favorevoli, a

quegli Stati, la cui difesa fosse stata considerata vitale per gli interessi americani. In

maggio, gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con Germania ed Italia. In

giugno, la marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all’Islanda i convogli, che

trasportavano aiuti a nazioni alleate, e autorizzata a rispondere ad eventuali attacchi.

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Page 112: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Questa politica ebbe il suo suggello nell’incontro fra Roosevelt e Churchill il 14

agosto 1941 su una nave da guerra al largo dell’isola di Terranova. Frutto

dell’incontro fu la cosiddetta Carta Atlantica, un documento in otto punti in cui i due

statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo

ordine democratico da costruire a guerra finita: rispetto dei principi di sovranità

popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari,

cooperazione internazionale, rinuncia all’uso della forza nei rapporti fra gli Stati.

A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l’aggressione improvvisa, subita nel

Pacifico, da parte del Giappone: la maggiore potenza dell’emisfero orientale e il

principale alleato asiatico di Germania ed Italia, cui era legato, dal settembre 1940 da

un patto di alleanza, detto Patto tripartito. Già impegnato dal 1937 in una guerra di

conquista contro la Cina, il Giappone aveva profittato del conflitto europeo per

allargare le sue tendenze espansionistiche a tutti i territori del Sud-est asiatico.

Quando, nel luglio 1941, i nipponici invasero l’Indocina francese, Stati Uniti e Gran

Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone.

L’Impero asiatico allora dovette scegliere: piegarsi alle potenze occidentali o

scatenare la guerra per conquistare nuovi territori e procurarsi materie prime,

necessarie alla sua politica di conquista.

Il 7 dicembre 1941 l’aviazione giapponese attaccò la flotta degli Stati Uniti, ancorata

a Pearl Harbor, nelle Hawaii, e la distrusse in buona parte. Nei mesi successivi,

profittando della propria superiorità navale nel Pacifico, i giapponesi raggiunsero, di

slancio, tutti gli obiettivi prefissati: nel maggio 1942 controllavano le Filippine, la

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Page 113: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Malesia e la Birmania britanniche, l’Indonesia olandese ed erano in grado di

minacciare l’Australia e la stessa India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere

forze preziose dal Medio Oriente. Pochi giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor, anche

Germania e Italia dichiaravano guerra agli Stati Uniti. Il conflitto diventava mondiale.

La seconda guerra mondiale (2)

Nella primavera-estate del 1942, le potenze del Tripartito raggiunsero la loro

massima espansione territoriale. Il Giappone dominava su tutto il Sud-Est asiatico,

su vaste zone della Cina e su molte isole del Pacifico. In Europa, le forze dell’Asse,

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Page 114: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

di nuovo all’offensiva in Russia, controllavano direttamente o indirettamente un

territorio di circa 6 milioni di chilometri quadrati con oltre 350 milioni di abitanti.

Attorno alla Germania e all’Italia vi erano alleati minori, come l’Ungheria, la

Romania, la Bulgaria, la Slovacchia e la Francia di Vichy. In Olanda, in Norvegia e

in Boemia, governavano “alti commissari” tedeschi. Ai due lati del blocco, e al suo

estremo settentrionale, c’erano Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali ma,

di fatto, incluse nella sfera politico - economica dell’Asse. L’Italia aveva un ruolo

marginale, poiché era la Germania la vera protagonista di questo sistema, Sia la

Germania che il Giappone cercarono di dar vita, nelle zone poste sotto il loro

controllo, ad un nuovo ordine, basato sulla supremazia della nazione eletta e sulla

rigida subordinazione degli altri popoli alle esigenze dei dominatori. Ma mentre il

Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti locali e fece propria, anche se in

forma strumentale, la causa della lotta contro l’imperialismo europeo, la Germania

non concesse nulla alle esigenze di indipendenza e di autogoverno dei popoli ad essa

soggetti. Un trattamento inumano, ad esempio, fu riservato ai popoli slavi, considerati

razzialmente inferiori e destinati ad una condizione di semischiavitù. Tutta l’Europa

orientale doveva diventare una colonia agricola del Grande Reich. Le élites dirigenti

e gli intellettuali dovevano essere sterminati, a cominciare dai quadri del partito

comunista in Russia. Ma, la persecuzione più orribile fu quella consumata contro gli

ebrei, da sempre considerati da Hitler il nemico principale da abbattere. In tutti i paesi

occupati dai nazisti, gli ebrei vennero confinati nei ghetti: quello di Varsavia fu

teatro, nell’aprile del 1943, di una disperata insurrezione, terminata con un massacro.

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Page 115: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Discriminati anche visibilmente, con l’obbligo di portare al braccio una stella gialla,

furono deportati nei campi di concentramento, come Auschwitz, usati come cavie per

esperimenti medici, e, se non in grado di lavorare, eliminati in massa nelle camere a

gas. La politica portata avanti dalla Germania le procurò subito vantaggi immediati:

una riserva di forza-lavoro gratuita, un flusso continuo di materie prime, un enorme

prelievo di ricchezza e di beni consumo, che permise ai cittadini tedeschi di

mantenere un buon livello di vita almeno sino al 1943. Tale sistema di dominio,

ispirato al cieco fanatismo razziale, costrinse i tedeschi, a mantenere nei territori

occupati, forti contingenti di truppe. Tutto ciò, sollevò contro la Germania nazista,

un’ondata di odio che avrebbe finito, poi, per rivolgersi contro l’intero popolo

tedesco.

Episodi di resistenza al dominio nazista si manifestarono in quasi tutti i paesi

occupati. Protagonisti erano di solito i piccoli gruppi antifascisti, appoggiati dagli

inglesi e legati per lo più ai governi in esilio o ai movimenti di liberazione, come la

Francia libera di De Gaulle. Ma, fu soprattutto con la primavera del 1941 che la

resistenza al nazismo assunse forti dimensioni. In Jugoslavia ed in Grecia sorsero dei

veri movimenti popolari. Un salto decisivo fu poi rappresentato dall’attacco tedesco

all’Urss, che portò i comunisti di tutta Europa ad impegnarsi attivamente nella lotta

armata contro i nazisti. Tuttavia, non sempre le diverse forze che confluivano nella

Resistenza riuscirono a stabilire tra loro una precisa linea comune. Nonostante

avessero adottato una strategia, che subordinava ogni obiettivo rivoluzionario alla

lotta di liberazione nazionale, strategia voluta fortemente dallo stesso Stalin che nel

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Page 116: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

frattempo aveva sciolto il Comintern, i comunisti erano sempre guardati con sospetto

dagli anglo-americani. La collaborazione si mostrò più complessa, quasi impossibile,

in quei paesi dell’Europa orientale e balcanica, dove più forte e diffuso era il timore

per i partiti comunisti. In Jugoslavia, il paese in cui la resistenza assunse più che

altrove le dimensioni di una guerra popolare, l’esercito guidato dal comunista Josip

Broz, più noto col nome di Tito, prevalse sui gruppi nazionalistici e monarchici.

La resistenza fu, però, solo una faccia della realtà dell’Europa occupata dai tedeschi.

In tutti i paesi invasi dalla Germania, una parte della popolazione per opportunismo o

convinzione accettò di collaborare con i dominatori.

I tedeschi trovarono, quindi, sempre degli alleati per la lotta antipartigiana. In alcuni

casi, si servirono di esponenti dei fascismi locali, in altri trovarono il sostegno di

movimenti separatisti, in altri ancora furono proprio frazioni della classe dirigente al

potere, prima della guerra, ad assumere la responsabilità di governare nel segno di un

esasperato anticomunismo. L’esempio più chiaro in tal senso fu la Francia di Vichy,

la cui sottomissione ai tedeschi si accentuò nel 1942, quando Pétain affidò il governo

a Laval, già ministro negli anni ’30. Ma la sua accondiscendenza verso la Germania

non impedì ai tedeschi di occupare anche la parte meridionale del paese, ponendo

fine ad ogni simulacro di indipendenza.

Fra il 1942 e il 1943, l’andamento della guerra subì una svolta decisiva su tutti i

fronti. Nel Pacifico, i giapponesi, nel maggio-giugno 1942, vennero fermati dagli

americani nelle due battaglie del Mar dei Coralli e delle Isole Midway.

Successivamente, nel febbraio 1943, quando le truppe da sbarco americane, i

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Page 117: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

marines, conquistarono l’isola di Guadalcanal, i giapponesi rinunciarono ad

operazioni offensive di largo respiro.

Anche nell’Atlantico, fra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, dove i tedeschi avevano

sempre condotto un’efficace battaglia sottomarina, i convogli che trasportavano armi

ed approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna riuscirono a limitare

notevolmente le perdite, grazie a tutta una serie di innovazioni tecnologiche. Ma

l’episodio decisivo si verificò in Russia, a Stalingrado, dove, nel novembre 1942, i

sovietici erano riusciti a chiudere i tedeschi in una morsa. Hitler, anziché autorizzare

la ritirata, ordinò la resistenza ad oltranza, sacrificando una intera armata che,

all’inizio di febbraio, fu costretta ad arrendersi.

Negli stessi mesi, l’esercito britannico era impegnato nel deserto del Nord Africa

contro il contingente italo - tedesco sotto Rommel, che era giunto a El Alamein, a soli

80 chilometri da Alessandria. A fine ottobre, il generale Montgomery, comandante

della forze britanniche, poteva lanciare la controffensiva, disponendo di una notevole

superiorità di uomini e mezzi. Ai primi di novembre, gli italo - tedeschi

cominciavano già una lunga ritirata, che li avrebbe portati a ripercorrere a ritroso

tutto il litorale libico, fino alla Tunisia. Frattanto un contingente alleato era sbarcato

in Algeria e in Marocco. Le truppe dell’Asse, prese fra due fuochi, dovettero

arrendersi, nel maggio 1943, alle forze alleate. Chiuso il fronte nordafricano con la

cacciata di tedeschi ed italiani, gli anglo - americani potevano prepararsi ad attaccare

la fortezza d’Europa.

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Tra il dicembre del 1941 e il gennaio 1942 si tenne a Washington una conferenza tra

tutte le 26 nazioni in guerra contro il Tripartito, che sottoscissero il patto detto delle

Nazioni Unite: i contraenti si impegnavano a tenere fede ai principi della Carta

atlantica, a combattere le potenze fasciste, a non concludere armistizi o paci separate.

Naturalmente, le nazioni facenti parte del patto, avevano divergenze ideologiche e ciò

creò problemi in merito all’apertura di un secondo fronte. Stalin lo avrebbe voluto

subito nell’Europa del Nord, Churchill voleva prima chiudere definitivamente la

partita con l’Africa e pensava ad uno sbarco nell’Europa meridionale. Alla fine

l’inglese la spuntò. Nella Conferenza di Casablanca, in Marocco, nel gennaio 1943,

inglesi ed americani decisero che, chiuso il fronte africano, lo sbarco sarebbe

avvenuto in Italia, considerata l’obiettivo più facile sia per motivi logistici, sia per

ragioni politico – militari. Nella stessa conferenza, gli anglo-americani si

accordavano sul principio della resa incondizionata da imporre agli avversari: la

guerra sarebbe continuata sino alla vittoria totale, senza patteggiamenti con la

Germania o con i suoi alleati.

La campagna d’Italia ebbe inizio il 12 giugno 1943 con la conquista dell’isola di

Pantelleria. Un mese dopo, i primi contingenti anglo – americani sbarcavano in

Sicilia e, in poco tempo, si impadronivano dell’isola. Quest’ultimo evento screditò

ancor di più il regime fascista, agli occhi dell’opinione pubblica italiana. Un sintomo

allarmante era venuto, nel marzo 1943, dai grandi scioperi operai, che partendo da

Torino avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. In Italia, il

diffuso disagio popolare era legato al caro-vita, all’acuirsi dei disagi alimentari, agli

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effetti dirompenti dei bombardamenti aerei. Ma a determinare la caduta di Mussolini

non furono le proteste popolari, quanto una sorta di congiura, che faceva capo alla

corona e vedeva tutte le componenti moderate del regime, unite ad alcuni esponenti

del mondo politico prefascista, nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra

ormai perduta e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il pretesto fu offerto

da una riunione del Gran Consiglio del Fascismo, tenutasi nella notte tra il 24-25

luglio 1943, e conclusasi con l’approvazione a forte maggioranza di un ordine del

giorno presentato da Dino Grandi, che invitata il re ad assumere le sue funzioni di

comandante supremo delle forze armate e suonava come esplicita sfiducia nei

confronti del duce. Il pomeriggio del 25 luglio, Mussolini era convocato da Vittorio

Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e immediatamente arrestato dai

carabinieri. Capo del governo era nominato il maresciallo Pietro Badoglio.

L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto dalla popolazione con esultanza. La

gente scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro le sedi e i simboli del

regime. Non vi fu però spargimento di sangue, anche perché il Partito fascista

scomparve nel nulla prima ancora che Badoglio provvedesse a scioglierlo d’autorità.

Quello del fascismo fu un crollo inglorioso e repentino, spiegabile, in parte, con le

debolezze interne di un apparato privo di autonomia e di iniziativa politica.

L’entusiasmo con cui il paese accolse la caduta del fascismo era dovuto soprattutto

alla diffusa speranza di una prossima fine della guerra. L’uscita dal conflitto si rivelò,

però, tragica. I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare sul

territorio italiano per prevenire o punire, la ormai prevedibile defezione. Il governo

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Page 120: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Badoglio proclamò che nulla sarebbe cambiato nell’impegno bellico italiano. Ma

intanto allacciò trattative segrete con gli alleati, per giungere ad una pace separata.

Con gli anglo- americani, legati all’impegno di una resa incondizionata, era però

impossibile trattare. Ciò che i negoziatori italiani dovettero sottoscrivere fu un atto di

resa senza nessuna garanzia per il futuro. Firmato il 3 settembre, fu reso noto solo l’8,

in coincidenza dello sbarco di un contingente alleato a Salerno.

L’annuncio dell’armistizio, comunicato da Badoglio al paese con un messaggio

radiofonico, gettò l’Italia nel caos più completo. Mentre il re e il governo

abbandonavano la capitale per riparare a Brindisi sotto la protezione degli alleati,

appena sbarcati in Puglia, i tedeschi procedevano ad una sistematica occupazione di

tutta la parte centro-settentrionale dell’Italia. Abbandonate a se stesse, le truppe non

riuscirono ad opporre ai tedeschi una resistenza organizzata. Gli scontri a Porta San

Paolo, a Roma, furono il primo episodio della Resistenza italiana. Ben 600.000

furono i militari fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Germania. Le conseguenze

dell’8 settembre si ripercossero anche sull’andamento della campagna d’Italia.

Attestatisi su una linea difensiva, la linea Gustav, che andava da Gaeta alla foce del

Sangro, ed aveva il suo punto nodale nella zona di Cassino, i tedeschi riuscirono a

bloccare l’offensiva alleata sino alla primavera dell’anno successivo. Diventata

campo di battaglia per gli eserciti stranieri, per la prima volta, dopo le guerre

napoleoniche, l’Italia doveva affrontare i momenti più duri di tutta la sua storia

unitaria.

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Dall’autunno 1943, l’Italia fu spezzata in due entità statali distinte, in guerra l’una

contro l’altra. Mentre nel Sud, il vecchio Stato monarchico sopravviveva col suo

governo e la sua burocrazia, esercitando la sua sovranità sotto il controllo alleato,

nell’Italia settentrionale il fascismo risorgeva dalle ceneri, sotto protezione degli

occupanti nazisti.

Il 12 settembre 1943, un commando di aviatori tedeschi liberò Mussolini dalla

prigione di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo, il duce annunciò la

sua intenzione di dare vita, nell’Italia occupata dai tedeschi, ad un nuovo Stato

fascista, la Repubblica sociale italiana, (Rsi), a un nuovo Partito fascista

repubblicano, e a un nuovo esercito, che continuasse a combattere a fianco degli

alleati. La Rsi, che stabilì la sua capitale a Salò, si proponeva di combattere contro gli

artefici del “tradimento” del 25 luglio: monarchici, badogliani e fascisti moderati. Il

regime repubblicano o repubblichino, come veniva chiamato in senso dispregiativo,

cercò di guadagnare consensi, riesumando le parole d’ordine pseudorivoluzionarie

del primo fascismo, e lanciando un programma di socializzazione delle imprese

industriali, che non riuscì mai a decollare. In linea generale, la Repubblica di

Mussolini non ebbe mai una sua credibilità, a causa della dipendenza che

manifestava nei confronti dei tedeschi. L’unica funzione effettivamente svolta dal

governo di Salò fu quella di reprimere il movimento partigiano, che si stava

sviluppando nell’Italia occupata.

Intanto, la Resistenza italiana prendeva corpo. Le prime formazioni armate si

raccolsero sulle montagne dell’Italia centro-settentrionale subito dopo l’8 settembre,

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formate dall’incontro di piccoli nuclei di militanti antifascisti con i gruppi di militari

sbandati, che non avevano voluto consegnarsi ai tedeschi. I partigiani agivano lontano

dai centri abitati con attacchi improvvisi ai reparti tedeschi e con azioni di

sabotaggio. Nelle città erano presenti Gruppi di azione patriottica, piccole formazioni

di tre o quattro uomini, che compivano attentati contro militari o singole personalità

tedesche. Ad ogni attacco, spietate erano le repressioni dei nazisti. Particolarmente

feroce, quella messa in atto a Roma, nel marzo del 1944 quando, in risposta ad un

attentato che aveva ucciso 32 militari tedeschi, i nazisti fucilarono 335 detenuti, ebrei,

antifascisti, alle Fosse Ardeatine.

Le bande partigiane col tempo si andarono organizzando in base all’orientamento

politico dei loro membri: le Brigate Garibaldi, formate dai comunisti e le formazioni

di Giustizia e Libertà, che si ricollegavano all’omonimo movimento antifascista degli

anni ’30 e al nuovo Partito d’azione, che ne aveva raccolto l’eredità. Sin dall’inizio

le vicende della Resistenza si intrecciarono con quelle dei partiti antifascisti, riemersi

alla luce durante il breve tempo, che separava la caduta del fascismo dall’armistizio.

Già prima, tuttavia, della caduta del fascismo era sorto dalla confluenza di diversi

gruppi, che si collocavano in area intermedia fra il liberalismo progressista e il

socialismo, il Partito d’Azione. Nello stesso periodo esponenti cattolici, per lo più ex

popolari, avevano elaborato, col cauto appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, il

programma di una nuova formazione, destinata a raccogliere l’eredità del Partito

popolare: la Democrazia cristiana (Dc). Subito dopo il 25 luglio fu costituito il

Partito liberale (Pli), e rinacquero il Partito Repubblicano e quello socialista, col

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nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup). Quanto ai comunisti, da

sempre presenti nel paese con i loro nuclei clandestini, e già attivi negli scioperi di

marzo, riuscirono a ricostituire buona parte del loro gruppo dirigente. Nei giorni

immediatamente successivi all’8 settembre, i rappresentanti di sei partiti, Pci, Psiup,

Dc, Pli, Pda, oltre alla Democrazia del lavoro, si riunirono a Roma e si costituirono in

Comitato di liberazione nazionale (Cln), incitando la popolazione alla lotta e alla

resistenza. I partiti del Cln non avevano, però, la forza per imporre il loro punto di

vista, sia perché nati dall’iniziativa privata di piccoli gruppi, sia perché privi di una

base di massa nell’Italia liberata. Nell’ottobre 1943, il governo dichiarò guerra alla

Germania e ottenne per l’Italia la qualifica di cobelligerante. Un corpo italiano di

liberazione combatté, in effetti, a fianco degli anglo - americani, in rappresentanza

del ricostituito esercito italiano.

Il contrasto tra il Cln e il governo fu sbloccato solo nel marzo 1944, dopo il ritorno

dall’Urss del leader comunista Palmiro Togliatti. Egli propose di accantonare ogni

pregiudiziale contro il re e Badoglio e di formare un governo di unità nazionale,

capace di concentrare le sue energie sul problema prioritario della guerra e della lotta

al fascismo. La svolta di Salerno, così chiamata perché Salerno era allora la capitale

provvisoria del Regno del Sud, era in armonia con le scelte dell’Urss, ma serviva

anche a legittimare il Pci agli occhi degli alleati e dell’opinione pubblica moderata.

La scelta togliattiana, benché criticata, consentì di formare il 24 aprile, il primo

governo di unità nazionale, presieduto sempre da Badoglio e comprendente i partiti

del Cln. Vittorio Emanuele III si impegnò a trasmettere provvisoriamente i suoi poteri

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al figlio Umberto, una volta liberata Roma, in attesa che, a guerra finita, fosse il

popolo a decidere la sorte dell’istituzione monarchica. Nel giugno 1944, dopo che

Roma fu liberata dagli alleati, Umberto assunse la luogotenenza generale del Regno.

Badoglio si dimise e lasciò il posto ad un nuovo governo di unità nazionale

presieduto da Ivanoe Bonomi, emanazione diretta del Cln. Proprio con Bonomi si

rafforzò l’intesa tra i poteri legali dell’Italia liberata e il movimento di resistenza, che

conobbe nell’estate del 1944, in coincidenza con l’avanzata alleata nelle regioni

centrali, il suo momento di maggior vitalità. Le formazioni partigiane, che avevano la

loro guida politica nel Cln Alta Italia, si diedero anche una direzione militare con la

costituzione, nel giugno del 1944, di un comando unificato. Le azioni dei partigiani

aumentarono sempre più, nonostante le rappresaglie dei tedeschi, come quella messa

in atto, nel 1944, a Marzabotto, nell’Appennino bolognese, dove venne sterminata

quasi l’intera popolazione del paese. Nell’autunno del ’44, l’offensiva anglo-

americana si arrestava. Il fronte italiano si bloccava lungo la linea gotica, fra Rimini

e La Spezia. La resistenza italiana visse il momento più difficile. Il proclama del

generale inglese Alexander, il quale invitava i partigiani a sospendere le operazioni su

vasta scala, provocò malintesi e polemiche tra i capi della Resistenza. I contrasti

vennero, tuttavia, superati e il ministero Bonomi riconobbe il Clnai come suo

rappresentante nell’Italia occupata. Proprio il movimento partigiano, nella primavera

del 1945, con la ripresa dell’offensiva alleata e il definitivo cedimento delle difese

tedesche, fu pronto a promuovere l’insurrezione generale contro gli occupanti in

ritirata e ad assicurare il potere in nome dell’Italia libera.

124

Page 125: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Fra il 1943 ed il 1944, mentre gli anglo–americani erano impegnati nella lunga

campagna in Italia, i sovietici riprendevano l’iniziativa sul fronte orientale. Dopo aver

respinto, nel luglio 1943, l’ultimo attacco delle forze tedesche, l’Armata rossa iniziò

una lenta avanzata, conclusasi solo nell’aprile –maggio 1945, con la conquista di

Berlino.

Il nuovo ruolo dell’Urss emerse nella conferenza interalleata di Teheran del

novembre-dicembre 1943, la prima in cui i “tre grandi”, Roosevelt, Stalin e

Churchill, si incontrarono personalmente. Questa volta Stalin ottenne la promessa di

uno sbarco in forze sulle coste francesi, da attuarsi nella primavera del 1944. Era una

operazione rischiosa, anche per la presenza di imponenti fortificazioni tedesche, il

cosiddetto Vallo Atlantico. Per attuare il piano, che prevedeva lo sbarco sulle coste

della Normandia, furono necessari un lungo lavoro di preparazione e un eccezionale

spiegamento di mezzi, tale da assicurare agli alleati, che agivano sotto il comando del

generale americano Eisenhower, una schiacciante superiorità aeronavale.

L’operazione Overlord, scattò all’alba del 6 giugno 1944, preparata da una serie di

bombardamenti e da un nutrito lancio di paracadutisti. Gli attaccanti riuscirono a

sbarcare sul territorio francese. Alla fine di luglio, le difese tedesche non poterono più

reprimere la forza dilagante degli alleati. Il 25 agosto, gli anglo-americani e i reparti

di De Gaulle, entravano a Parigi, già liberata dai partigiani. In settembre, la Francia

era quasi completamente liberata. L’esercito tedesco risultava essere in piena crisi.

Ma a questo punto, per una serie di errori dei comandi alleati, l’offensiva si arrestò e i

125

Page 126: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

tedeschi poterono riorganizzare le loro forze su una linea molto vicina al confine del

’39. Il crollo del Terzo Reich era rinviato.

Nell’autunno 1944, la Germania poteva considerarsi sconfitta, almeno virtualmente.

Il fronte dei suoi alleati stava sfaldandosi ovunque. In agosto, la Romania aveva

cambiato fronte, seguita dalla Bulgaria. Tra agosto ed ottobre la Finlandia e

l’Ungheria avevano chiesto l’armistizio all’Urss. Sempre in ottobre, i russi e i

partigiani jugoslavi erano entrati in Belgrado liberata, mentre gli inglesi erano

sbarcati in Grecia. L’offensiva alleata si era arrestata in Francia, in Italia ed in

Polonia. Tuttavia, la sproporzione di forze fra i due schieramenti era tale, da non

lasciare alcun dubbio sull’esito dello scontro. Sulla Germania furono lanciate un

milione e mezzo di bombe e molte città tedesche vennero ridotte a cumuli di

macerie. Neppure i bombardamenti placarono la ferocia di Hitler. Egli, infatti, da un

lato era deciso a rifiutare ogni ipotesi di resa, dall’altro continuava ad illudersi di

poter rovesciare la situazione bellica, grazie all’impiego di armi segrete, i razzi

telecomandati V1 e V2, che furono lanciati contro le città inglesi, ma senza risultati

decisivi. Tra l’altro, Hitler sperava in una rottura dell’alleanza tra l’Urss e le

democrazie occidentali.

Questa ipotesi era in realtà del tutto infondata. Nonostante l’accesa concorrenzialità,

che si manifestava all’interno della grande alleanza, anglo-americani e sovietici

continuavano, però, a tenere fede agli impegni già assunti, e a cercare accordi globali

per la ricostituzione dell’Europa dopo la guerra. Nella conferenza di Mosca

dell’ottobre 1944, Churchill e Stalin abbozzarono una divisione in sfere d’influenza

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Page 127: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

dei paesi balcanici che, in contrasto con le proclamazioni della Carta atlantica, non

teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati. I “tre grandi” si incontrarono

di nuovo a Yalta in Crimea, nel febbraio 1945. In questa occasione fu stabilito che la

Germania sarebbe stata divisa in quattro zone di occupazione, una delle quali

riservata alla Francia, e sottoposta a misure di denazificazione; si stabilì, inoltre, che i

popoli dei paesi liberati avrebbero potuto esprimersi mediante libere elezioni e il

governo della Polonia sarebbe sorto da un accordo fra la componente comunista e

quella filo-occidentale. In cambio delle assicurazioni ottenute, l’Urss si impegnava ad

entrare in guerra contro il Giappone.

A gennaio, dopo un’ultima disperata controffensiva tedesca nelle Ardenne, gli alleati

riprendevano l’iniziativa su tutti i fronti. I sovietici, dopo Varsavia, attraversavano

tutto il restante territorio polacco e, in febbraio, erano a pochi chilometri da Berlino.

Più a sud, l’Armata rossa cacciava i tedeschi dall’Ungheria per poi puntare su

Vienna, che fu raggiunta il 23 aprile e su Praga, liberata il 4 maggio. Frattanto, gli

anglo-americani attaccavano sul Reno, che fu attraversato il 22 marzo, e dilagavano

nel cuore della Germania, incontrando una scarsa resistenza. Il 25 aprile le

avanguardie alleate raggiungevano l’Elba e si congiungevano con i sovietici, che

stavano accerchiando Berlino. In aprile crollava anche il fronte italiano. Il 25, mentre

il Cln lanciava l’ordine dell’insurrezione generale contro il nemico in ritirata, i

tedeschi abbandonavano Milano. Mussolini, che tentava di fuggire in Svizzera,

travestito da soldato tedesco, fu catturato e fucilato dai partigiani il 28, assieme ad

altri gerarchi. Il suo cadavere, impiccato per i piedi, venne esposto per ore a piazza

127

Page 128: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Loreto, a Milano. Il 30 aprile, mentre i russi entravano a Berlino, Hitler si suicidò,

lasciando la presidenza del Reich all’ammiraglio Karl Dönitz, che chiese la resa agli

alleati. Il 7 maggio 1945, a Reims, fu firmato l’atto di capitolazione delle forze armate

tedesche. Le ostilità cessarono la notte tra l’8 e il 9 maggio. La guerra d’Europa si

concludeva, così, a cinque anni e otto mesi dal suo inizio, con la morte dei due

dittatori, che avevano maggiormente contribuito a scatenarla. Ma, il conflitto

proseguiva in Estremo Oriente, dove il Giappone, ormai isolato, continuava a

combattere.

Dal 1943, gli Stati Uniti avevano riconquistato le posizioni perse nel Pacifico,

giovandosi di una superiorità legata al loro potenziale industriale. Dalla fine del 1944,

il territorio nipponico fu sottoposto ad un costante bombardamento. Dopo aver chiuso

il fronte europeo, gli alleati erano pronti ad un attacco definitivo in territorio

giapponese. Ma il nemico resisteva accanitamente, facendo ampio ricorso ai

kamikaze, aviatori suicidi, pronti a gettarsi sulle navi avversarie con i loro aerei

carichi di esplosivo.

Il nuovo presidente americano Henry Truman decise, così, di impiegare la nuova

arma totale, la bomba atomica, per accelerare la sconfitta del Giappone e dare

dimostrazione della potenza militare statunitense. Il 6 agosto 1945, la prima bomba

atomica venne sganciata sulla città di Hiroshima. Tre giorni dopo, la stessa

operazione fu ripetuta su Nagasaki.

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Page 129: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il 15 agosto, dopo che anche l’Urss dichiarava guerra al Giappone, l’imperatore

Hirohito offrì la resa incondizionata agli alleati. Con la firma dell’armistizio, il 2

settembre 1945, si chiudeva la seconda guerra mondiale.

129

Page 130: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il mondo diviso (1)

La seconda guerra mondiale non solo segnò la fine del nazifascismo e il trionfo delle

democrazie, non solo cambiò la carta territoriale del vecchio continente, ma portò al

suo epilogo quella crisi dell’Europa delle grandi potenze, già iniziata con il primo

conflitto mondiale. La Germania era stata sconfitta, ma anche la Francia, ammessa al

tavolo dei vincitori, e la stessa Gran Bretagna, uscivano dalla guerra molto indebolite

ed incapaci di mantenere i loro imperi coloniali.

Due soli Stati potevano aspirare ad assumere il ruolo di potenze mondiali: gli Stati

Uniti e l’Unione Sovietica. Le due superpotenze erano entrambe entità continentali e

multietniche, molto diverse dai vecchi Stati-nazione. Il messaggio americano era

quello dell’espansione della democrazia liberale, in regime di pluralismo politico, di

concorrenza economica e di ampia libertà individuale. Il messaggio sovietico era,

invece, quello della trasformazione dei vecchi assetti politico – sociali, in nome del

modello collettivistico, fondato sul partito unico e sulla pianificazione centralizzata,

nonché sull’anti – individualismo. Per effetto di questa contrapposizione globale fra

Usa e Urss, si giunse ad un sistema mondiale bipolare, con influenze determinanti

sulla vita dei singoli Stati: ciò era evidente soprattutto in Europa, dove la linea

divisoria fra area socialista e area capitalista rispecchiava le posizioni raggiunte, alla

fine delle ostilità, dai due maggiori eserciti occupanti.

La terribile lezione, che diede la guerra, produsse un diffuso bisogno di cambiamento

e un generale desiderio di rifondare, su basi più stabili, il sistema delle relazioni

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Page 131: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

internazionali e di mutarne le regole. Si intraprese, così, tra l’altro, un’opera di

codificazione e di aggiornamento del diritto internazionale, includendovi per la prima

volta, un settore penale, applicato nel processo di Norimberga tra il 1945 e il 1946

contro i capi nazisti e poi, in quello di Tokio, contro i dirigenti giapponesi.

A farsi promotori e garanti del progetto di un nuovo sistema mondiale furono, proprio

per la loro posizione egemonica, soprattutto gli Stati Uniti. Così, come già dopo il

primo conflitto mondiale, sorse il “mito americano”. Gli Stati Uniti divennero non

solo il principale punto di riferimento materiale, ma anche ideale e culturale dei paesi

dell’Europa occidentale.

Di matrice americana fu l’ispirazione di base dell’Organizzazione delle Nazioni

Unite, (Onu), nata nella Conferenza di San Francisco del 1945, al posto della vecchia

Società delle nazioni, con l’obiettivo di “salvare le generazioni future dal flagello

della guerra”. Ispirato alla Carta atlantica, lo Statuto dell’Onu recava l’impronta di

due diverse concezioni: da un lato quella dell’utopia democratica wilsoniana,

dall’altro quella, più propriamente di Roosevelt, legata alla necessità di dar vita ad un

direttorio delle grandi potenze, come unico efficace strumento di governo degli affari

mondiali. I principi dell’universalità e dell’uguaglianza vengono rispecchiati

nell’Assemblea generale degli Stati membri, che si riunisce annualmente e che può

adottare, a maggioranza semplice, risoluzioni non vincolanti. Il meccanismo del

direttorio è riflesso invece nel Consiglio di Sicurezza, organo permanente, che in caso

di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli Stati. Si

compone di quindici membri: le cinque maggiori potenze vincitrici, Usa, Urss (dal

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Page 132: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

1992 la Russia), Gran Bretagna, Francia e Cina, come membri permanenti di diritto,

mentre gli altri dieci vengono eletti a turno fra tutti gli Stati. Ciascuno dei membri

permanenti gode, inoltre, di un diritto di veto, col quale può paralizzare l’azione del

Consiglio.

Altri organi sono il Consiglio economico e sociale e la Corte internazionale di

giustizia con la funzione di dirimere le controversie fra gli Stati, che espressamente lo

richiedono.

L’Onu fu, sin dall’inizio, lo specchio fedele del carattere conflittuale degli Stati.

Nel dar vita ai nuovi rapporti economici si scelse di ridimensionare i vincoli

protezionistici, seguendo l’impronta del liberismo americano.

Gli accordi di Bretton Woods, del luglio 1944, crearono il Fondo monetario

internazionale con lo scopo di costituire un ammontare di riserve valutarie mondiali.

Al Fondo fu affiancata la Banca mondiale, col compito di concedere prestiti a medio

e lungo termine ai singoli Stati per favorirne lo sviluppo.

Sul piano commerciale fu istituito un sistema liberoscambista dall’Accordo generale

sulle tariffe e sul commercio (Gatt), stipulato a Ginevra nell’ottobre 1947, che

prevedeva un abbassamento dei dazi doganali.

Nonostante l’esistenza di notevoli problemi e contrasti, Roosevelt si era convinto

nella pratica degli incontri diretti con Stalin, della possibilità di mantenere aperto il

dialogo con l’Urss. Si trattava, secondo il presidente americano, di creare un nuovo

ordine europeo in cui, ferma restando l’egemonia Usa, anche l’Urss avrebbe avuto un

ruolo importante, presentandosi come forza d’ordine in un’area tradizionalmente

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Page 133: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

turbolenta. Questo disegno di cooperazione tra l’Occidente e l’Unione Sovietica

morì con Roosevelt, proprio quando si apriva la sua fase decisiva di verifica.

L’avvento di Harry Truman alla presidenza degli Stati Uniti nell’aprile del 1945,

coincise con un brusco cambiamento del clima e con un generale irrigidimento

americano nei confronti dei sovietici.

Alla Conferenza di Potsdam, tra il luglio e l’agosto 1945, emersero chiaramente i

nodi fondamentali del contrasto: il futuro della Germania sconfitta e gli sviluppi in

Europa orientale, dove già stava prendendo piede il disegno staliniano di

assoggettamento. Per imporre la propria egemonia, l’Urss non trovò altro mezzo che

imporre al potere i partiti comunisti locali, con l’appoggio dell’esercito sovietico, e

con una serie di forzature sui meccanismi democratici. Tutto ciò non piacque alle

potenze occidentali. Nel marzo 1946, Churchill pronunciò a Fulton, negli Stati Uniti,

un discorso che ebbe una risonanza mondiale, in cui denunciava il comportamento

dei sovietici in Europa orientale, parlando di una cortina di ferro, calata nel

continente.

Alla Conferenza di Parigi, che si tenne tra il luglio e l’ottobre 1946, si giunse ad un

accordo tra i vincitori solo relativamente ai trattati con l’Italia, la Bulgaria, la

Romania, l’Ucraina e la Finlandia. Furono ratificati i nuovi confini tra l’Urss, la

Polonia e la Germania: l’Unione Sovietica incamerava le ex repubbliche baltiche

(Estonia, Lettonia, Lituania), parte della Polonia dell’Est e della Prussia orientale. La

Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della Germania, portando il suo

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Page 134: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

confine alla linea segnata dai fiumi Oder e Neisse. Rimaneva irrisolto il problema del

futuro della Germania, elemento fondamentale dell’intero riassetto europeo.

La Conferenza di Parigi fu l’ultimo atto della cooperazione post bellica fra l’Urss e le

potenze occidentali

Nell’agosto del 1946, una grave crisi fu innescata dal contrasto tra l’Unione Sovietica

e la Turchia, appoggiata dagli Stati Uniti, a proposito dello stretto dei Dardanelli.

Truman, pensando che un cedimento sulla questione avrebbe consegnato

all’influenza russa non solo la Turchia ma anche la Grecia, inviò una flotta americana

nel Mare Egeo per appoggiare i turchi. Fu la prima applicazione della teoria del

containment, che sosteneva la necessità di contenere l’espansionismo dell’Urss,

attraverso la voce della forza.

Questa linea fu fatta propria dall’amministrazione americana in un discorso tenuto

dallo stesso Truman al Congresso, nel marzo 1947. In base alla dottrina Truman,

così, gli Stati Uniti si impegnavano ad intervenire “per sostenere i popoli liberi nella

resistenza all’asservimento da parte di minoranze armate o pressioni straniere”.

Nel giugno del 1947, gli americani lanciarono un vasto programma di aiuti economici

all’Europa, che prese il nome di European Recovery Program, (Erp), o più

comunemente, piano Marshall, dal nome del segretario di Stato americano che ne

assunse l’iniziativa. I sovietici respinsero però il piano ed imposero ai loro “satelliti”

di fare altrettanto, mentre i partiti comunisti occidentali promossero agitazioni contro

gli aiuti americani.

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Page 135: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Fra il 1948 e il 1952 il piano Marshall riversò sulle economie europee ben 13 miliardi

di dollari, fra prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate agricole. L’effetto fu non

solo di riprendere la ricostruzione, ma anche di avviare un forte rilancio delle

economie. Ciò avvenne entro un quadro economico liberista e comportò un

rafforzamento delle tendenze moderate in politica, un’attenuazione dei conflitti

sociali e lo stabilimento di sempre più stretti legami con gli Stati Uniti.

Un nuovo fattore di tensione fu costituito, nel 1947, dalla costituzione, nell’Urss, di

un Ufficio d’informazione dei partiti comunisti (Cominform): una specie di riedizione

della Terza Internazionale, che era stata sciolta nel 1943, in omaggio all’alleanza

antifascista.

Nacque, così, quella che il giornalista americano Walter Lippmann definì la guerra

fredda, ovvero la nascita di una irriducibile ostilità tra i due blocchi contrapposti di

Stati.

Il più importante terreno di scontro fu la questione della Germania, divisa dalla fine

della guerra in quattro zone di occupazione: americana, inglese, francese e sovietica.

La capitale Berlino, che si trovava all’interno dell’area sovietica, era a sua volta

divisa in quattro zone. Non essendoci intesa con l’Urss, all’inizio del 1947, Stati

Uniti e Gran Bretagna integrarono le loro zone attuandovi una riforma monetaria,

liberalizzando l’economia e rivitalizzandola con gli aiuti del piano Marshall. Stalin

reagì con la prova di forza del blocco di Berlino. Nel giugno 1948, l’Urss chiuse gli

accessi alla città, impedendone il rifornimento, nella speranza di indurre gli

occidentali ad abbandonare la zona ovest da loro occupata. La crisi si risolse,

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Page 136: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

tuttavia, senza conflitto militare. Gli americani organizzarono un ponte aereo per

rifornire la città finché, nel maggio 1949, i sovietici si risolsero a togliere il blocco

rivelatosi inutile. Nello stesso mese furono unificate tutte e tre le zone occidentali

della Germania e fu proclamata la Repubblica federale tedesca, con capitale, Bonn.

La scontata risposta sovietica fu la creazione, nella parte orientale del paese, di una

Repubblica democratica tedesca, che aveva la sua capitale a Pankow, un sobborgo di

Berlino.

Nell’aprile del 1949, mentre era ancora aperta la crisi di Berlino, fu firmato a

Washington il Patto atlantico, ossia un’alleanza difensiva fra i paesi dell’Europa

occidentale (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussenburgo, Norvegia,

Danimarca, Islanda, Portogallo ed Italia) con gli Stati Uniti ed il Canada. Il patto, che

si fondava su una comune fede nella “civiltà occidentale” e nella democrazia,

prevedeva un dispositivo militare integrato, composto da contingenti dei singoli paesi

membri: la Nato (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico). Nel 1951

aderirono al patto anche Grecia e Turchia, nel 1955 la Germania federale. Sempre

nel ’55, l’Urss rispose stringendo, con i paesi satelliti, un’alleanza militare, il Patto di

Varsavia, basata anch’essa su un’organizzazione militare integrata.

La guerra fredda, propriamente detta, si fa giungere sino alla morte di Stalin, ossia

fino al 1953. In realtà essa si proiettò ben oltre tale periodo: infatti, alla guerra fredda

risale il tipo di mobilitazione ideologica e di approntamento militare che ha

caratterizzato, nei decenni successivi, le relazioni fra le due superpotenze.

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Page 137: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

La vittoria in guerra, non portò in Urss alcun cambiamento del dispotismo interno; al

contrario, lo stalinismo, rispose alla necessità della ricostruzione e alle sfide

dell’Occidente, accentuando i suoi connotati autocratici e repressivi. Gli apporti di

capitale straniero vennero, tuttavia, ugualmente, sotto forma di riparazioni imposte ai

paesi ex nemici, controllati dall’Armata rossa. Il prelievo di risorse finanziarie, di

derrate agricole, di macchinari, fu ingente: non solo dalla Germania dell’Est, ma

anche dall’Ungheria, Romania e Cecoslovacchia. La ricostruzione sovietica fu,

comunque, rapida.

Sul terreno della politica estera, il maggior successo dell’Unione Sovietica fu la

trasformazione dei paesi dell’Europa orientale, occupati durante la guerra, in

altrettante democrazie popolari: una formula che mascherava l’imposizione, a quei

paesi, di un sistema politico e sociale nella sostanza simile a quello vigente in Urss e,

nel contempo, la loro riduzione al ruolo di satelliti della potenza egemone.

Importante al riguardo, la situazione della Polonia. Per Stalin essa rappresentava un

problema di sicurezza, poiché era stata per due volte in trent’anni, la via maestra

attraverso cui eserciti invasori erano entrati in Russia. Era importante che a Varsavia

vi fosse un governo amico dell’Urss. Su questo Stalin fu irremovibile ed ebbe partita

vinta. Nel giugno 1945, a seguito di accordi interalleati, si insediò a Varsavia un

governo presieduto dal socialista Morawski, ma in realtà, controllato dai comunisti.

Questi, infatti,si impadronirono gradualmente dei centri del potere e, nelle elezioni

del 1947, ruppero la coalizione con i partiti borghesi. Tali elezioni, svoltesi sotto il

controllo degli stessi comunisti, videro una loro schiacciante vittoria. Anche in

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Page 138: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Romania e in Bulgaria, il corso degli eventi fu quasi del tutto simile. Molto

drammatica fu la situazione in Cecoslovacchia, che nel 1948 divenne anch’essa paese

a “democrazia popolare”. In Albania la presa del potere, da parte dei comunisti, si

compì, invece, senza eccessivi problemi. Ugualmente fu per la Jugoslavia. In

particolare, in quest’ultimo paese, i comunisti sotto la guida di Tito, si imposero da

soli al governo, con l’autorità ed il prestigio guadagnati durante la Resistenza, che

aveva permesso di liberare il territorio nazionale, a prescindere dall’aiuto dell’Armata

rossa.

L’imposizione, più o meno forzata del modello collettivistico sovietico, ebbe

conseguenze importanti sugli assetti socio-economici dell’Europa orientale. In molte

di quelle che erano tra le regioni più arretrate, si ebbe un inizio di modernizzazione e

di decollo economico. Questo sviluppo fu, però, condizionato dalla subordinazione

delle economie dei paesi “satelliti” a quella dello Stato “guida”. I tassi di cambio,

all’interno dell’area del rublo nonché la quantità e i prezzi dei beni scambiati, furono

rigidamente regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica

(Comecon), fondato a Varsavia nel gennaio 1949.

L’unico fra i regimi dell’Est europeo, che cercò con successo di sottrarsi

all’egemonia sovietica fu quello jugoslavo. La rottura avvenne nel 1948. Infatti, in

seguito alla resistenza di Tito ai piani staliniani di divisione del lavoro all’interno del

blocco orientale, l’Urss sospese, dapprima, ogni collaborazione economica, quindi,

condannò i comunisti jugoslavi, accusandoli di “deviazionismo” e di collusione con

l’imperialismo, ed escludendoli dal Cominform. La dirigenza jugoslava resistette alle

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Page 139: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

pressioni sovietiche e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera,

basata sulla equidistanza tra i due blocchi ed un nuovo corso di politica interna, volto

alla ricerca di un equilibrio fra statalizzazione ed economia di mercato. Il modello

jugoslavo si basava sull’autogestione delle imprese da parte delle direzioni aziendali

e dei consigli di fabbrica e sulla loro reciproca concorrenza in un sistema di prezzi

liberi. Lo scisma jugoslavo provocò, per reazione, una stretta repressiva estesa a tutto

il mondo comunista. Vennero così attuate massicce “purghe”, nei confronti dei

dirigenti dell’Est europeo sospettati di velleità autonomistiche.

Dall’altra parte gli Stati Uniti si trovavano, alla fine della guerra, ad affrontare un

problema non di ricostruzione, ma di riconversione: il sistema economico doveva

essere riorientato a scopi di pace. A guidare il paese vi era, come detto, Truman, che

non aveva il carisma del suo predecessore. L’abolizione dei controlli sulle attività

industriali e il forte deficit del bilancio statale, provocarono un sensibile aumento del

costo della vita. Ne seguì un’ondata di rivendicazioni salariali e di agitazioni operaie,

a cui il Congresso rispose adottando il Taft-Hartley Act, una legge di impronta

conservatrice, che limitava la libertà di sciopero nelle industrie di interesse nazionale.

Le conquiste fondamentali del New Deal vennero, però, salvaguardate; si ebbe anzi,

dopo la rielezione di Truman, nel 1948, un certo incremento dei programmi di

assistenza sociale. A partire dal 1949, si scatenò negli Stati Uniti una campagna

anticomunista, che ebbe il suo massimo sostenitore nel senatore repubblicano Joseph

Mc Carthy, presidente di una commissione parlamentare, istituita per reprimere le

attività antiamericane. Nel 1950, il Congresso adottò l’Internal Security Act, legge

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Page 140: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

per la sicurezza interna, che costituì lo strumento giuridico per epurare quanti, nella

pubblica amministrazione o nel mondo della cultura fossero sospettati di

filocomunismo. Gli eccessi del maccartismo si protrassero sino al 1955, quando le

accuse indiscriminate del senatore si rivolsero, persino, all’esercito.

In Occidente, a parte i casi della Spagna e del Portogallo ancora retti da regimi

autoritari, la fine della guerra fu accompagnata da una forte spinta in senso

democratico.

Il caso più emblematico fu quello dell’Inghilterra, dove nelle elezioni del luglio 1945

Churchill fu inaspettatamente battuto dai laburisti di Clement Attlee. Il nuovo

governo nazionalizzò la Banca d’Inghilterra, le industrie elettriche e carbonifere;

introdusse il salario minimo e il servizio sanitario nazionale. Furono gettate, così, le

basi per uno Stato del benessere, Welfare State, che aveva l’ambizione di assistere

continuamente il cittadino.

In Francia, nazionalizzazioni e programmi di sicurezza sociale furono varati dal

governo provvisorio, presieduto da De Gaulle, fra il 1944 e il 1945, e dai successivi

ministeri di coalizione, basati sull’accordo fra i tre partiti di massa, il Partito

comunista, la Sfio e il Movimento repubblicano popolare di ispirazione democratico-

cristiana. Nel 1946, fu varato un piano quadriennale, che contemperava una

ispirazione liberista di fondo, con aspetti di carattere riformatore e dirigistico. Sempre

nel 1946, una Assembra costituente, eletta in giugno, elaborò una nuova Costituzione

di stampo democratico-parlamentare. De Gaulle avrebbe preferito un sistema

presidenziale con un forte esecutivo: per questo fondò, nel 1947, un proprio

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Page 141: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

movimento, il Raggruppamento del popolo francese, che aveva come obiettivo

proprio la riforma della Costituzione. In quello stesso anno, si ruppe l’alleanza tra i

tre partiti di massa. Da allora, estromessi i comunisti dall’esecutivo, si succedettero

numerosi governi, tutti fondati su accordi tra socialisti e partiti di centro. L’instabilità

fu la loro caratteristica ed il male della Quarta Repubblica, così come lo era stato per

la Terza.

Paradossalmente fu proprio la Germania sconfitta a dare le migliori prove di vitalità

economica e di stabilità politica. Tuttavia, solo nel 1949, recuperò una teorica

sovranità nazionale, ma perse contemporaneamente la sua unità, in quanto divisa in

due Stati, retti da regimi diversi: l’uno, la Repubblica federale, legata ad una

costituzione democratico-parlamenatre e federale, redatta sotto il controllo degli

occupanti e governata dai cristiano-democratici del cancelliere Konrad Adenauer;

l’altro, la Repubblica democratica, costruito sul modello delle democrazie popolari ed

in pratica sottoposto a un regime a partito unico, la Sed, Partito socialista unificato

tedesco, nato dalla forzata fusione tra comunisti e socialdemocratici.

Mentre nella zona orientale la ripresa economica fu frenata dal peso delle riparazioni

imposte dall’Urss e dalla forzata collettivizzazione dell’apparato produttivo, la

Germania dell’Ovest fu favorita dalla stretta integrazione nel blocco occidentale.

Stimolata dalla politica di rilancio degli investimenti, messa in atto dal governo, la

macchina produttiva tedesco-occidentale riprese a girare a pieno ritmo: il prodotto

nazionale era tornato già nel 1951, ai livelli del 1938.

141

Page 142: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il mondo diviso (2)

Un punto di svolta nel confronto fra mondo socialista e mondo capitalistico, si ebbe

nel 1949, con l’avvento al potere dei comunisti in Cina. Se per un verso la

rivoluzione cinese si collocò all’interno della guerra fredda, dall’altro essa segnò il

punto di raccordo con l’altro grande processo messo in moto dalla seconda guerra

mondiale, la decolonizzazione.

La precaria alleanza che i comunisti di Mao Tse-tung e i nazionalisti di Chang Kai-

shek avevano stretto nel 1937 contro l’aggressione del Giappone, entrò in crisi con lo

scoppio della guerra nel Pacifico. A partire dal 1941, profittando dell’impegno

giapponese contro gli Stati Uniti, il governo di Chang cominciò a trascurare la lotta

contro gli occupanti stranieri, per prepararsi alla resa dei conti con i comunisti, che

dominavano e amministravano ampie zone dell’interno. Tutto ciò non faceva, però,

che aumentare il discredito di un regime, il quale aveva perso il contatto con gli strati

più dinamici della società e si era ridotto ad essere espressione dei proprietari terrieri.

Al contrario, nei territori occupati, non solo i comunisti combattevano contro i

giapponesi, ma seppero rafforzare i loro legami con le masse contadine.

A guerra terminata, gli Stati Uniti, conoscendo la debolezza dei nazionalisti,

cercarono di promuovere un accordo tra comunisti e Kuomintang. Ma Chang Kai-

shek rifiutò ogni compromesso e lanciò contro i comunisti una campagna militare in

grande stile. In un primo tempo i nazionalisti ebbero la meglio, ma i comunisti

riuscirono a riorganizzarsi e a contrattaccare. Nel corso del 1948 le sorti della guerra

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Page 143: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

si rovesciarono. Le forze di Chang, poco motivate, cominciarono a sbandare. Nel

febbraio del ’49 i comunisti entrarono a Pechino: Chang riparò, sotto la protezione

della flotta americana, nell’isola di Taiwan (Formosa) da dove sognò sempre la

rivincita. Il 1° ottobre 1949 fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica

popolare cinese, subito riconosciuta dall’Urss e dalla Gran Bretagna, ma non dagli

Stati Uniti. La nuova Repubblica, guidata dai comunisti, procedette subito a misure

di socializzazione, pur lasciando, in un primo tempo, spazio al settore privato. Nel

febbraio del 1950, la Cina di Mao stipulò con l’Urss un Trattato di amicizia e di

mutua assistenza.

La prova più drammatica delle nuove dimensioni mondiali del confronto fra i due

blocchi si verificò nel 1950 in Corea. In base agli accordi interalleati, quel paese era

stato diviso in due zone, delimitate dal 38° parallelo. Una delle zone, la Corea del

Nord, era governata da un regime comunista, guidato da Kim Il Sung, mentre

nell’altra, la Corea del Sud, si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli

americani. Dopo vari incidenti di frontiera, nel giugno 1950 le forze nordcoreane,

armate dai sovietici, invasero il Sud. Gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un

forte contingente di truppe. Gli americani, che agivano sotto la bandiera dell’Onu,

respinsero i nordcoreani e, in ottobre, oltrepassarono il 38° parallelo. La Cina di

Mao, allora, inviò un massiccio numero di “volontari”, che in poche settimane

capovolsero le sorti della guerra, penetrando nella Corea del Sud. Nell’aprile del

1951, Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord. I negoziati si

trascinarono per altri due anni, per concludersi nel 1953 con il ritorno alla situazione

143

Page 144: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

precedente, col confine cioè sul 38° parallelo. Le conseguenze della crisi coreana

furono di ampia portata: un vasto riarmo americano di cui beneficiò soprattutto la

marina, come pure un rafforzamento dei legami militari tra gli Usa e gli alleati

asiatici ed europei.

Con la fine della presidenza Truman e la morte di Stalin, la guerra fredda perse i suoi

maggiori protagonisti. Inizialmente, tuttavia, il cambio della guardia ai vertici delle

due superpotenze non provocò alcun mutamento. La direzione collegiale, succeduta a

Stalin, non fece alcun gesto di apertura verso l’Occidente, mentre negli Stati Uniti, la

nuova amministrazione repubblicana, guidata dal generale Eisenhower, pareva

accentuare l’atteggiamento di sfida contro l’Urss.

Eppure, proprio in questi anni di tensione, venne maturando all’interno delle due

superpotenze, un nuovo atteggiamento di accettazione reciproca, che costituiva una

specie di premessa ad una coesistenza pacifica fra i due blocchi. Se i sovietici

avevano di fronte lo spettacolo di complessiva stabilità e di crescente prosperità,

offerto dal blocco occidentale, gli Usa erano costretti a prendere atto del

consolidamento dell’Urss, del continuo rafforzamento del suo apparato militare.

Nell’agosto del 1953 l’esplosione della bomba all’idrogeno, o bomba H sovietica,

mostrava che tra le due superpotenze non vi era molto divario tecnologico.

Nel 1955, in coincidenza col declino del maccartismo e con l’ascesa di Kruscev

all’interno del gruppo dirigente sovietico, si ebbero, da entrambe le parti, gesti di

distensione. In marzo, i sovietici ritirarono le loro truppe di occupazione dall’

Austria, in cambio dell’impegno occidentale a garantire la neutralità del paese,

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Page 145: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

impegno sancito poi col trattato di Vienna. Nella Conferenza di Ginevra, che fu

convocata in luglio, non furono raggiunti ulteriori accordi, ma Eisenhower affermò di

non voler rimettere in discussione lo status quo europeo. Anche la crisi di Suez, come

si dirà, vide Usa e Urss unite nel contrastare la sortita dell’imperialismo franco-

inglese.

In Unione Sovietica, intanto, dopo lunghi scontri, il segretario del Pcus, Nikita

Kruscev, si impose come leader del paese, giungendo, nel 1957, a cumulare le

cariche di segretario del partito e primo ministro. Personaggio vivace, molto

estroverso, dotato di grande carica comunicativa, si fece promotore di significative

aperture. Innanzitutto, in politica estera, il trattato di Vienna e l’incontro con i capi

occidentali a Ginevra, come pure la clamorosa riconciliazione con i comunisti

jugoslavi, nel maggio del 1955, e lo scioglimento del Cominform nell’anno seguente.

In politica interna, il suo avvento segnò la fine delle grandi purghe e un rilancio

dell’agricoltura, come pure una maggiore attenzione alle condizioni di vita dei

cittadini.

Kruscev demolì la figura di Stalin, attraverso una sistematica denuncia degli orrori e

dei crimini commessi dall’ex leader sovietico. In un rapporto al XX congresso del

Pcus, nel 1956, Kruscev pronunciò una dura requisitoria contro il capo scomparso. Il

rapporto Kruscev non metteva in discussione il modello sovietico e la dottrina

leniniana, ma gli errori e le deviazioni, compiute da Stalin.

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Page 146: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

I maggiori effetti della destalinizzazione si ebbero nell’Europa dell’Est, in Polonia ed

in Ungheria, paesi nei quali Kruscev fece nascere l’illusione che l’egemonia

dell’Urss, sui suoi satelliti, potesse assumere forme più blande.

In Polonia furono gli operai, con l’appoggio della Chiesa cattolica, a rendersi

interpreti delle aspirazioni al cambiamento, dando vita ad una serie di agitazioni,

culminate nel 1956, nello sciopero di Poznan. Lo sciopero fu stroncato con

l’intervento di truppe sovietiche.

In Ungheria gli avvenimenti del 1956 seguirono, all’inizio, un corso analogo. In

ottobre le proteste sfociarono in un’insurrezione e in tutte le fabbriche si formarono

consigli operai: già alla fine del mese le truppe sovietiche si ritirarono dall’Ungheria.

A questo punto, la piena libertà instauratasi nel paese, aprì larghi spazi alle forze

antisovietiche e i comunisti persero il controllo della situazione. Quando, il 1°

novembre del ’56, il capo del governo Nagy, già espulso dal partito comunista,

annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia, il segretario del partito

comunista, Kadar, invocò l’intervento sovietico. I reparti dell’Armata rossa

occuparono, così, Budapest. Pochi mesi dopo, Kadar assumeva la guida del paese e

Nagy veniva fucilato. L’intervento sovietico provocò sdegno, ma sul piano dei

rapporti di forza, l’occupazione dell’Ungheria rappresentò una conferma del controllo

sovietico sui paesi satelliti.

Negli anni ’50, i maggiori Stati dell’Europa occidentale vivevano il difficile

passaggio dalla condizione di grandi potenze a quella di paesi di secondo rango,

dipendenti dall’alleato d’oltreoceano.

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Page 147: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

L’ideale di un’Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della

cooperazione economica fu fatto proprio da autorevoli uomini politici di diversi paesi

e di diverse ideologie, come Churchill, De Gasperi, Blum, Spaak. Il primo passo

verso la realizzazione concreta dell’unità continentale si ebbe nel 1951 con la

creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), che aveva il

compito di coordinare produzione e prezzi di questi settori fondamentali

dell’industria europea. Nel marzo 1957, si giunse poi alla firma del Trattato di

Roma, tra i rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda,

Lussemburgo. Con tale trattato sorgeva la Comunità economica europea (Cee).

Scopo primario di tale organizzazione era quello di creare il Mercato comune

europeo (Mec), con l’abbassamento graduale delle tariffe doganali e la libera

circolazione della forza –lavoro e dei capitali.

Organi fondamentali della Cee erano: la Commissione, con il compito di proporre i

piani di intervento e di disporne l’attuazione; il Consiglio dei Ministri, avente

funzioni decisionali; la Corte di giustizia, incaricata di dirimere le controversie tra

Stato e Stato; il Parlamento europeo, con funzioni consultive. Sul piano economico

il Mercato comune ottenne all’inizio buoni risultati, sul piano politico, però, la spinta

all’integrazione rallentò nel giro di pochi anni, frenata dal peso delle tradizioni e

degli egoismi nazionali.

Fra le democrazie dell’Europa occidentale, la Francia fu l’unica a sperimentare nel

dopoguerra una grave crisi istituzionale. I governi instabili, che si avvicendarono

dopo la rottura nel 1947 della coalizione tra i partiti di massa, si trovarono ad

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Page 148: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

affrontare il problema della smobilitazione di un impero, la cui conservazione si

rivelava insostenibile, ma il cui abbandono era osteggiato fortemente dall’opinione

pubblica. Nel maggio del 1958, la crisi toccò il suo apice con il colpo di Stato dei

militari di stanza in Algeria. Venne, allora, chiamato alla guida del governo ed

incaricato di redigere una nuova Costituzione il generale De Gaulle, che si era ritirato

in un orgoglioso isolamento. La nuova Costituzione, con la quale nasceva la Quinta

Repubblica, lasciava intatte le strutture democratico-rappresentative, pur

introducendo elementi di rafforzamento dell’esecutivo. Il capo dello Stato, che dal

1962 veniva direttamente eletto dai cittadini, aveva il potere di nominare il capo del

governo (il quale doveva però avere l’appoggio della maggioranza parlamentare), di

sciogliere le Camere e di sottoporre a referendum le questioni da lui considerate più

importanti. La stessa Costituzione fu sottoposta a referendum ed approvata, nel

settembre 1958, dall’80% dei francesi.

Eletto De Gaulle alla presidenza della Repubblica, nel dicembre dello stesso anno,

deluse le aspettative della destra colonialista, in quanto avviò alla sua logica

soluzione l’affare algerino e stroncò duramente i tentativi di sedizione. Tuttavia,

obbedendo alla vocazione nazionalista, si fece promotore di una politica estera

svincolata da legami troppo stretti con gli Stati Uniti. Egli volle che la Francia si

dotasse di una propria forza d’urto nucleare; nel 1966, ritirò le truppe francesi

dall’organizzazione militare della Nato, pur rimanendo fedele all’alleanza atlantica.

Contestò, inoltre, la supremazia del dollaro nell’economia occidentale, proponendo il

ritorno al sistema della convertibilità in oro; mise il veto all’ingresso della Gran

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Page 149: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Bretagna nel Mec. Era una politica forse velleitaria, ma suscitò vaste adesioni a destra

come a sinistra e contribuì a rendere più solida la base di consenso della Quinta

Repubblica.

All’inizio degli anni ’50, il nazionalismo arabo trovò il suo centro nell’Egitto, certo il

più importante fra gli Stati del Medio Oriente per popolazione, posizione geografica e

tradizione storica. Nel 1952, un Comitato di ufficiali liberi guidato da Mohammed

Neguib e da Gamal Abdel Nasser, assunse il potere, rovesciando la monarchia. Nel

1954, Nasser rimase arbitro della situazione. Il nuovo regime avviò riforme in senso

socialista e tentò di promuovere un processo d’industrializzazione.

In politica estera Nasser ottenne lo sgombero delle truppe inglesi dal canale di Suez e

stipulò accordi con l’Urss per aiuti economici e militari. Reagendo a quello che

appariva come uno scivolamento verso posizioni filosovietiche, gli Stati Uniti, nel

1956, bloccarono il finanziamento da parte della Banca mondiale della grande diga di

Assuan, necessaria per l’elettrificazione del paese. Nasser rispose nazionalizzando la

Compagnia del canale di Suez, ove inglesi e francesi conservavano forti interessi.

Nell’ottobre del 1956, d’intesa con la Francia e l’Inghilterra, Israele attaccò l’Egitto,

e lo sconfisse, mentre truppe francesi ed inglesi occupavano il Canale. Tuttavia, gli

Stati Uniti non intervennero e l’Urss inviò un ultimatum a Francia, Gran Bretagna e

Israele. Così, le due potenze occidentali dovettero cedere. Mentre Israele si ritirava

dal Sinai, le truppe franco-inglesi abbandonavano la zona del Canale. L’effetto più

immediato della crisi di Suez fu quello di rafforzare la posizione dell’Egitto.

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Page 150: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Nell’Africa a sud del Sahara, il processo di decolonizzazione fu più tardivo rispetto a

quello della regione mediterranea. Si compì fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli

anni ’60. Fu un processo pacifico tranne in alcuni casi, come quelli della Rhodesia

del Sud e del Congo.

I paesi di nuova indipendenza si affacciarono sulla scena internazionale con la

convinzione di condividere un’eredità comune, quella della lotta di liberazione dal

colonialismo e di essere portatori degli stessi interessi. In un mondo sempre più

pervaso dalla competizione tra Est ed Ovest, questi paesi avvertirono la necessità di

garantirsi dalle tendenze egemoniche delle superpotenze: la parola d’ordine diventò

allora il “non allineamento”, rispetto ai grandi blocchi militari ed ideologici. Per

impulso soprattutto dell’India di Nehru, dell’Egitto di Nasser e della Jugoslavia di

Tito, questa parola divenne la base di una piattaforma politica comune, di quel che

veniva emergendo come un Terzo Mondo, distinto sia dall’Occidente capitalistico,

sia dall’Est comunista. La consacrazione ufficiale di questo indirizzo si ebbe

nell’aprile del 1955 con la Conferenza afroasiatica di Bandung, in Indonesia, a cui

parteciparono 29 Stati, inclusa la Cina. La conferenza segnò non solo l’atto di nascita

dei non allineati, ma anche l’affermazione de Terzo mondo sulla scena mondiale.

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Page 151: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

L’Italia dopo il fascismo

Dopo il secondo conflitto mondiale, l’Italia si trovò ad affrontare i problemi e le

incognite di un difficilissimo dopoguerra. Nel 1945, l’economia del paese era in gravi

condizioni. L’inflazione, provocata dalla guerra, aveva assunto ritmi paurosi. Nelle

regioni del Centro-Sud, fin dalla primavera del 1944, i contadini e i braccianti

avevano cominciato ad occupare terre incolte e latifondi: tale fenomeno si protrasse

nel tempo, nonostante i tentativi delle autorità di disciplinarlo e legalizzarlo. Ma, la

minaccia più grave all’ordine pubblico nel Mezzogiorno e nelle isole, veniva dalla

malavita comune, in buona parte legata al contrabbando e alla borsa nera. In Sicilia,

in particolare, si assisteva ad una ripresa del fenomeno mafioso, come pure, sempre

nell’isola, si era sviluppato un movimento indipendentista strettamente legato agli

agrari e alla vecchia classe dirigente prefascista. Le forze politiche, alla guida del

paese erano, con poche varianti, le stesse che furono protagoniste tra la fine della

prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo. Rispetto ad allora, però, risultava

mutata la situazione interna ed internazionale, in cui quei partiti si trovavano ad

operare.

In particolare il Partito socialista, che portava il nome di Psiup, assunto nel 1943,

pareva destinato ad assumere un ruolo da protagonista, grazie anche alla popolarità

del suo leader Pietro Nenni. Il gruppo dirigente non era però compatto, diviso fra le

spinte rivoluzionarie, che lo portavano a mantenere uno stretto legame coi comunisti,

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Page 152: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

e il richiamo alla tradizione riformista, il quale lo spingeva ad assumere una

posizione intermedia, quasi di cerniera fra il Pci e i partiti borghesi.

Al contrario, il Partito comunista traeva nuova forza e credibilità, proprio dal

contributo offerto alla lotta antifascista, e su questo fondava i suoi titoli di legittimità,

per presentarsi come forza nazionale e di governo. Il partito nuovo, che Togliatti

aveva costruito, era diverso dall’intransigente partito leninista nato nel 1921. Era

ormai un partito di massa, che cercava di allargare l’area dei suoi consensi al di là

della tradizionale base operaia, verso i contadini, i ceti medi e gli intellettuali.

Inoltre, suo obiettivo era inserirsi nelle istituzioni, senza rinnegare il suo legame con

l’Urss e senza cessare di incarnare le aspettative rivoluzionarie della classe operaia.

Fra gli altri partiti, l’unico che appariva in grado di competere con comunisti e

socialisti sul piano dell’organizzazione di massa, era la Democrazia cristiana. Si

richiamava al Partito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma e ne ereditava la

base contadina e piccolo-borghese. Il gruppo dirigente, a cominciare dal segretario,

Alcide De Gasperi, veniva da quel partito; la Democrazia cristiana contava

sull’esplicito appoggio della Chiesa.

Vi era poi il Partito liberale, che raccoglieva fra le sue file gran parte della classe

dirigente prefascista, e poteva contare su una serie di adesioni illustri, come quella di

Croce e di Einaudi. Tuttavia, il rapporto tra i leader e la base elettorale, un rapporto

di tipo personale e clientelare, già in crisi nel primo dopoguerra, era ormai

compromesso.

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Page 153: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla

questione istituzionale: aveva, infatti, respinto ogni compromesso con la monarchia,

rifiutando di partecipare ai Cln. In una posizione particolare, al confine fra l’area

liberal-democratica e quella socialista, si collocava il Partito d’azione. Forte del

prestigio che gli veniva dall’adesione di molti leader antifascisti, come Parri, Valiani

e Lussu, il Pda si presentava come forza nuova e moderna, e si faceva promotore di

ampie riforme sociali e istituzionali.

Quanto alla destra vera e propria, essa appariva politicamente fuori gioco nel clima

del dopo-liberazione, ma era ancora forte nel Mezzogiorno e tendeva a diventarlo

sempre di più, con l’accentuarsi delle insofferenze nei confronti di epurazioni,

annunciate a carico degli aderenti al regime. Assente ancora il movimento neofascista

organizzato: solo nel 1946 si sarebbe costituito il Msi, Movimento sociale italiano.

Fondato nel novembre 1945 dal commediografo Gugliemo Giannini, vi era poi il

movimento de L’Uomo qualunque, che rifiutava qualsiasi caratterizzazione

ideologica e si limitava ad assumere le difese del cittadino medio.

Se i partiti si erano affermati fin dal periodo della Resistenza, un ruolo importante,

non solo sul piano economico, fu svolto dalla Confederazione generale italiana del

Lavoro, Cgil, ricostituita su basi unitarie nel giugno del 1944, nella Roma ancora

occupata dai tedeschi. Le tre componenti, socialista, comunista e cattolica, erano

rappresentate pariteticamente negli organi dirigenti, ma risultavano squilibrate tra

loro come peso numerico: i comunisti erano i più forti, i cattolici nettamente i più

deboli, soprattutto nelle categorie operaie. La Cgil riuscì tuttavia, con una linea

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Page 154: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

complessivamente moderata, a realizzare alcune importanti conquiste quali: il

riconoscimento delle commissioni interne, che rappresentavano il sindacato nelle

aziende; l’introduzione di un meccanismo di scala mobile per l’adeguamento

automatico dei salari al costo della vita; una nuova disciplina sui licenziamenti.

La prima occasione di confronto fra i partiti, si ebbe al momento di scegliere il

successore di Bonomi. Dopo lunghe discussioni, soprattutto tra socialisti e

democratici, i partiti trovarono l’accordo sul nome di Ferruccio Parri, leader di una

formazione minore, come il Partito d’azione, ma investito di un grande prestigio

personale, in quanto era stato tra i capi della Resistenza. Formato un ministero con la

partecipazione di tutti i partiti del Cln, Parri cercò di promuovere un processo di

normalizzazione nel paese, ancora sconvolto dalla guerra, e mise all’ordine del giorno

il problema dell’epurazione dell’ex classe dirigente fascista. Annunciò, inoltre, una

serie di provvedimenti volti a colpire, con forti tasse, le grandi imprese e a favorire la

ripresa delle piccole e medie aziende. Ma suscitò l’opposizione della forze moderate,

in particolare del Pli che, nel novembre 1945, ritirò la fiducia al governo,

determinandone la caduta.

La Dc riuscì, così, ad imporre la candidatura di Alcide De Gasperi: il nuovo governo

si reggeva sempre sulla partecipazione di tutti i partiti del Cln. I progetti di riforme

economiche furono, però, accantonati e quasi tutti i prefetti, nominati dal Cln

nell’Italia settentrionale, sostituiti da funzionari di carriera. L’epurazione fu

rallentata, finché nel giugno del 1946, Togliatti, come ministro della Giustizia, varò

una larga amnistia, che in pratica metteva fine a un’operazione molto difficile da

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Page 155: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

condurre con equità, anche per l’ampiezza delle adesioni di cui il fascismo aveva

goduto. Tutto ciò provocò, negli ex partigiani, un forte senso di delusione che spesso

si tradusse in manifestazioni di protesta.

Il 2 giugno era, tuttavia, la data fissata dal governo per le elezioni dell’Assemblea

costituente: le prime consultazioni politiche libere dopo venticinque anni e, le prime,

in cui avevano diritto a votare anche le donne. I cittadini, in quello stesso giorno,

dovevano decidere, mediante referendum, se mantenere in vita l’istituto monarchico

o fare dell’Italia una repubblica. Il 9 maggio, Vittorio Emanuele III, con una

decisione a sorpresa, abdicò in favore del figlio Umberto II. Ma, la mossa non ottenne

gli effetti sperati. Nelle votazioni del 2 giugno, caratterizzate da un’affluenza senza

precedenti nella storia d’Italia, circa il 90% degli aventi diritto, la repubblica si

affermò con un margine netto, 12.700.000 voti contro 10.700.000 per la monarchia. Il

13 giugno, dopo la proclamazione ufficiale dei risultati, Umberto II partì per l’esilio

in Portogallo. Nelle elezioni per la Costituente, la Dc si affermò come il primo partito

col 35,2% dei voti, seguita dal Psiup e dal Pci. L’Unione democratica nazionale, che

raccoglieva assieme ai liberali e ai demolaburisti di Bonomi i maggiori esponenti

della classe dirigente prefascista, non andò al di là del 6,8%. Rispetto alle ultime

elezioni dell’epoca fascista, era evidente l’avanzata dei partiti di massa e la crisi dei

vecchi gruppi liberal-democratici, sostituiti dalla Dc nella rappresentanza dell’Italia

moderata. Nel complesso i risultati del 2 giugno mostravano che gli italiani avevano

esigenze di cambiamento. Tuttavia, la vittoria repubblicana, analizzando i risultati

regione per regione, si concretizzò soprattutto nel Centro-Nord, mentre il Sud diede

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Page 156: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

una forte maggioranza alla monarchia. Le spaccature ereditate dalla guerra e da tutta

la storia del paese si riproponevano nella nuova Italia democratica e ne rendevano

complesso il cammino.

I due anni che vanno dalle elezioni per la Costituente, 2 giugno 1946, alle

consultazioni politiche del 18 aprile 1948, furono decisivi per la storia della giovane

repubblica italiana. Dopo le elezioni per la Costituente, democristiani, socialisti e

comunisti continuavano a governare insieme; si accordarono sull’elezione del primo

e provvisorio presidente della Repubblica, il giurista liberale Enrico De Nicola e

diedero vita a un secondo governo De Gasperi, basato sull’accordo dei tre partiti di

massa. Vi erano tuttavia molti contrasti tra la Dc e le sinistre. Mentre la Democrazia

cristiana tendeva ad assumere il ruolo di garante dell’ordine sociale e della

collaborazione del paese nel campo occidentale, i comunisti si ponevano più

risolutamente alla testa delle lotte operaie e accentuavano il loro allineamento

all’Urss.

Il Partito socialista fece le spese di questa radicalizzazione. Alla fine del 1946, si

erano delineati all’interno del Psiup due schieramenti contrapposti. Il primo, che

faceva capo a Nenni, voleva mantenere i suoi caratteri classisti e rivoluzionari, era

favorevole all’unità d’azione col Pci e puntava, a livello internazionale, su di una

alleanza tra l’Urss e le sinistre occidentali. Il secondo schieramento, guidato da

Giuseppe Saragat, si batteva per un allentamento dei legami col Pci e non nascondeva

la sua ostilità per il comunismo sovietico. Nel gennaio 1947, in occasione del XXV

congresso del partito, che si tenne a Roma, i seguaci di Saragat decisero di

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abbandonare il Psiup, il quale tra l’altro, riprese il suo antico nome di Psi, e si

riunirono a Palazzo Barberini per fondare un nuovo partito, che si chiamò Partito

socialista dei lavoratori italiani, Psli, che, dopo qualche anno, assunse il nome di

Partito socialdemocratico italiano, Psdi.

La scissione del partito, se provocò immediatamente una crisi di governo, in realtà,

finì col dare maggiore libertà d’azione ad una Democrazia cristiana sempre più

insofferente della “coabitazione forzata” con le sinistre. Nel mese di maggio, De

Gasperi diede le dimissioni e, ottenuto il reincarico dopo una lunga crisi, formò un

governo di soli democristiani, rafforzato dall’apporto di tecnici di area liberale, come

Einaudi e Sforza.

I contrasti politici, culminati nell’esclusione delle sinistre dal governo, non

impedirono ai partiti antifascisti di mantenere quel minimo di solidarietà, necessaria

alla Repubblica per superare le due prime fondamentali prove, che le si ponevano di

fronte: la conclusione del trattato di pace e soprattutto il varo della Costituzione.

L’Assemblea costituente, incaricata di dare al paese una nuova legge fondamentale,

dopo lo Statuto Albertino, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li concluse il 22

dicembre 1947, con l’approvazione a larghissima maggioranza del testo

costituzionale, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948. La Costituzione repubblicana

si ispirava a modelli ottocenteschi per la parte riguardante le istituzioni e i diritti

politici: dava vita, infatti, ad un sistema parlamentare col governo responsabile di

fronte alle due Camere, titolari del potere legislativo, entrambe elette a suffragio

universale e incaricate anche di scegliere, in seduta comune, il capo dello Stato con

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mandato settennale. Era previsto anche un Consiglio superiore della magistratura,

atto a garantire l’ordine giudiziario ed una Corte costituzionale per vigilare sulla

conformità delle leggi alla Costituzione. Inoltre, veniva introdotto l’istituto del

referendum abrogativo, dietro richiesta di almeno 500.000 cittadini, al fine di

sottoporre alla Corte costituzionale leggi ritenute difformi allo stesso dettato

costituzionale. Infine, la vecchia struttura centralistica dello Stato veniva eliminata

con l’istituto delle regioni, dotate di ampi poteri.

Le norme relativeal Consiglio superiore della magistratura, alla Corte costituzionale,

al referendum e alle regioni, rimasero inattuate per molti anni.

La Costituente, tuttavia, non fu investita dei poteri legislativi ordinari, che, in via

provvisoria, rimasero al governo e non ebbe quindi la possibilità di tradurre

immediatamente in leggi applicative le norme del dettato costituzionale.

La scelta in favore di un modello parlamentare, unita ad una legge elettorale

proporzionale, faceva dei partiti i veri destinatari del consenso popolare e, dunque, gli

arbitri incontrastati della politica italiana. La Costituzione rappresentò, tuttavia, un

compromesso equilibrato fra le istanze delle diverse forze politiche, che avevano

contribuito a realizzarla.

Molto complessa fu la formazione dell’art. 7, in cui si stabiliva che i rapporti tra Stato

e Chiesa erano regolati dal concordato stipulato nel 1929 fra Santa Sede e regime

fascista. Sembrava un disegno destinato ad essere respinto. Ma, con una decisione

che destò scalpore, Togliatti annunciò il voto favorevole del Pci, motivando la sua

158

Page 159: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

scelta, con la volontà di rispettare il sentimento religioso della popolazione italiana, e

di non creare fratture in seno alle masse.

Dall’inizio del 1948, i partiti si impegnarono in una gara sempre più accanita in vista

delle elezioni politiche, convocate per il 18 aprile di quell’anno, che avrebbero dato

alla Repubblica il suo primo Parlamento. Caratteristica di questa campagna elettorale

fu la polarizzazione fra i due schieramenti contrapposti. Quello di opposizione,

egemonizzato dal Pci, e quello governativo, guidato dalla Dc e comprendente anche i

partiti minori.

Il partito socialista decise di presentare liste comuni col Pci sotto l’insegna del

Fronte popolare. La Chiesa, a cominciare dal pontefice Pio XII, si impegnò in una

crociata anticomunista e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda a

sostegno della Dc.

Le elezioni del 18 aprile si risolsero in un travolgente successo del partito cattolico,

che ottenne il 48.5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera.

Bruciante fu la sconfitta dei due partiti operai. Con queste elezioni cadevano le

speranze dei partiti di sinistra di guidare le trasformazioni della società e si rafforzava

l’egemonia del partito cattolico, già delineatasi con l’avvento al governo di De

Gasperi.

Il 14 luglio 1948 uno studente di destra sparò al segretario comunista Togliatti,

mentre usciva da Montecitorio e lo ferì gravemente. Alla notizia dell’attentato, in

tutte le principali città, operai e militanti comunisti scesero in piazza, scontrandosi

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Page 160: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

con le forze dell’ordine. In pochi giorni la situazione si placò, ma permanevano,

comunque, forti tensioni nel paese.

Si giunse, così, alla rottura della pacifica convivenza fra le maggiori forze politiche

all’interno del sindacato. La decisione della maggioranza della Cgil di proclamare

uno sciopero generale fornì alla componente cattolica l’occasione per staccarsi, e dare

vita ad una nuova realtà, la Cisl, la Confederazione italiana sindacati lavoratori.

Poco dopo, i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici abbandonarono la Cgil,

fondando la Uil, Unione italiana del lavoro.

Sul terreno della politica economica, le forze moderate, soprattutto liberali,

riuscirono a prendere il sopravvento, dando vita ad un liberismo ispirato dagli

economisti di formazione prefascista. I dirigenti di sinistra non seppero contrapporre

alternative. Dal maggio del 1947, con l’estromissione di questi ultimi dal governo e

la formazione del nuovo gabinetto De Gasperi, ministro del Bilancio fu il liberista

Luigi Einaudi. Mentre le sinistre, costrette all’opposizione, si impegnavano in una

impopolare battaglia contro il piano Marshall, Einaudi attuava una manovra

economica, che aveva come scopi principali la fine dell’inflazione, il ritorno alla

stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. Nel complesso, l’economista

ottenne i risultati che si era prefissato: la lira recuperò potere d’acquisto, i capitali

esportati rientrarono in Italia, i ceti medi risparmiatori riacquistarono fiducia, gli

stessi salariati si giovarono del calo dei prezzi. Tuttavia, l’operazione ebbe forti costi

sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione, che, abolito il blocco dei

licenziamenti, superò i due milioni di unità nel 1948.

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Page 161: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Gli strumenti di controllo dell’economia furono sottoutilizzati, ma non cancellati: l’Iri

fu potenziato e l’Agip rilanciato, dalla scoperta di giacimenti di idrocarburi in Val

Padana.

In politica estera, nel 1947 venne firmato il trattato di pace a Parigi fra l’Italia e gli

alleati e ratificato dalla Costituente nel luglio dello stesso anno. L’Italia era

considerata come una nazione sconfitta e doveva, quindi, impegnarsi a pagare

riparazioni agli Stati, che aveva attaccato e a ridurre la consistenza delle sue forze

armate. Rinunciava alle sue colonie, già perdute durante la guerra. Per quanto

riguardava i confini nazionali ad ovest non subì mutilazioni di rilievo, a nord poté

avvantaggiarsi della posizione di inferiorità dell’Austria per mantenere l’Alto Adige,

impegnandosi, però, con gli accordi De Gasperi-Gruber, a concedere ampie

autonomie amministrative e linguistiche alla provincia di Bolzano. I problemi si

presentavano sul confine orientale, dove gli jugoslavi avevano occupato gran parte

della Venezia Giulia e rivendicavano Trieste.

Alla fine del 1946, fu attuata una sistemazione provvisoria, che lasciava alla

Jugoslavia la penisola istriana, eccettuata una striscia comprendente Trieste e

Capodistria, che avrebbe dovuto costituire il Territorio libero di Trieste. Tale

territorio fu poi diviso in una zona A, ossia Trieste e dintorni, occupata dagli alleati, e

in una zona B, tenuta dagli jugoslavi. Solo nel 1954, si giunse ad una spartizione di

fatto, che sanciva il controllo jugoslavo sulla zona B ed il passaggio

dall’amministrazione alleata a quella italiana della zona A, ossia Trieste. Ma

sarebbero passati ancora più di venti anni perché si giungesse ad un accordo, il

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Page 162: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Trattato di Osimo, del novembre del 1975, con cui le due parti si riconoscevano

reciprocamente la sovranità sui territori in questione.

Il contrasto tra i due paesi era riesploso alla fine della guerra nelle zone occupate

dagli jugoslavi, in seguito ad una serie di sanguinose vendette contro gli italiani,

culminate nell’esecuzione di alcune migliaia di persone gettate nelle foibe. Un gran

numero di giuliani e dalmati erano stati costretti a riparare in Italia, contribuendo a

tener desta la polemica contro il trattato di pace.

Ma, a differenza di quanto era accaduto dopo la prima guerra mondiale, il problema

del confine orientale non giunse a rappresentare il nodo centrale della politica estera

italiana. Per un paese sconfitto, debole economicamente, il problema capitale era

quello della scelta di campo fra i due blocchi, che si fronteggiavano in Europa. La

scelta dell’Italia diventò netta dopo l’estromissione delle sinistre dal governo e

l’accettazione del piano Marshall, per essere poi sancita dall’elettorato il 18 aprile

1948.

Quando, alla fine di quell’anno, furono gettate le basi del Patto atlantico, l’ipotesi di

una adesione dell’Italia suscitò la dura opposizione delle sinistre, ma anche la

perplessità del mondo cattolico e dei partiti laici del centro-sinistra. Prevalse alla fine

la volontà di De Gasperi e del ministro degli Esteri Sforza, che vedevano

nell’alleanza uno strumento per garantire all’Italia una stretta organizzazione con

l’occidente. E l’adesione al Patto atlantico fu approvata dal Parlamento nel marzo

1949.

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Page 163: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

I cinque anni della prima legislatura repubblicana, 1948-1953, segnarono la massima

egemonia della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Essa, tuttavia,

continuò a puntare sull’alleanza con i partiti minori ed appoggiò la candidatura alla

presidenza della Repubblica del liberale Einaudi, nel maggio 1948.

Furono gli anni del centrismo, che videro una Dc molto forte, dominare lo

schieramento politico.

L’iniziativa più importante di questo periodo fu la riforma agraria, che fissava norme

per l’esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi proprietà terriere.

Lo scopo a lungo termine della riforma stava nell’incrementare la piccola impresa

agricola, nel rafforzare quindi il ceto dei contadini indipendenti, tradizionalmente

considerato una garanzia d’ordine e largamente egemonizzato dalla Dc attraverso la

Confederazione dei coltivatori diretti.

Nell’agosto del 1950 fu varata una nuova legge, quella che istituiva la Cassa per il

Mezzogiorno, un nuovo ente pubblico, che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo

economico e civile del Sud. I risultati non corrisposero, però, alle attese.

Tra gli interventi realizzati dalla Dc, deve essere ricordata la legge Fanfani sul

finanziamento alle case popolari e la riforma Vanoni, che introduceva l’obbligo della

dichiarazione annuale dei redditi, entrambe avversate dalle forze di destra. Anche le

sinistre continuavano a condurre contro il governo De Gasperi un’opposizione dura.

Nonostante la ripresa produttiva, la disoccupazione, nei primi anni ’50, era elevata.

Vi furono scioperi e manifestazioni di piazza, contro i quali il governo usò metodi

repressivi. Comunisti e socialisti furono schedati e a volte discriminati negli impieghi

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Page 164: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

pubblici. Il ministro degli Interni, Mario Scelba, divenne il simbolo di una politica

illiberale e repressiva, agli occhi dei militanti di sinistra. De Gasperi e i suoi alleati

tentarono, nell’imminenza delle elezioni del 1953, di rendere inattaccabile la

coalizione centrista, attraverso una modifica dei meccanismi elettorali in senso

maggioritario. Il sistema scelto fu di assegnare il 65% dei seggi alla Camera, a quel

gruppo di partiti apparentati, che avesse ottenuto almeno la metà più uno dei voti.

Era un sistema costruito per la maggioranza: di qui le polemiche, che

accompagnarono la discussione in Parlamento della nuova legge

elettoraleribattezzata, dalle sinistre, legge truffa. Tale legge venne approvata nel

marzo 1953, anche se nelle elezioni che si tennero in giugno, sia la Dc, sia i suoi

alleati, persero voti rispetto al 1948, mancando per poche decine di migliaia di voti

l’obiettivo del 50%. Il premio di maggioranza non scattò e De Gasperi dovette

registrare la prima sconfitta.

Il paese, frattanto, si stava avviando verso una lenta modernizzazione, e tentava di

rafforzare i suoi legami con l’Europa, grazie alla completa liberalizzazione degli

scambi, attuata dal ministro repubblicano Ugo La Malfa. Nell’estate del 1955 fu

presentato in Parlamento il piano Vanoni, che rappresentava un timido tentativo di

programmazione economica. Nel 1956 fu creato il Ministero delle partecipazioni

statali, col compito di coordinare le attività delle aziende dello Stato.

Nell’aprile del ’56 vi fu, poi, l’insediamento della Corte costituzionale e due anni

dopo del Consiglio superiore della magistratura.

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Page 165: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Gli anni della seconda legislatura repubblicana, 1953-1958, portarono notevoli

cambiamenti. Nella Dc, le elezioni del ’53, segnarono la sconfitta politica di De

Gasperi, come pure la progressiva emarginazione del suo gruppo dirigente. La nuova

generazione dei politici, aderenti alla Dc, fu più attenta alle problematiche di un

cattolicesimo sociale, favorevole all’intervento statale in economia e critica nei

confronti del liberismo. Esponenti principali furono Aldo Moro, Mariano Rumor,

Amintore Fanfani, il quale divenne segretario della Dc nel 1954 e cercò di rafforzarne

la struttura organizzativa, collegando il partito, più strettamente, all’emergente

industria di Stato: in particolare all’Eni di Enrico Mattei. Questa scelta svecchiò la Dc

e tutta la politica italiana. Dopo le elezioni presidenziali del 1955, che videro la

vittoria di Giovanni Gronchi, democristiano di sinistra, appoggiato da socialisti e

comunisti, si manifestò nel partito una maggiore consapevolezza della fragilità della

coalizione quadripartita e una nuova attenzione a quanto stava cambiando nella

sinistra: in particolare nel partito socialista, interlocutore obbligato per ogni ipotesi di

allargamento a sinistra della maggioranza.

Il Psi attuava in quegli anni una svolta, distaccandosi, in modo definitivo, dalle

direttive dell’Urss. Fu lo stesso Nenni, leader del partito negli anni del “frontismo”, a

guidare la svolta autonomista. Il Psi non rinunciava alla prospettiva di una radicale

trasformazione della società, ma si dichiarava disposto a collaborare per una politica

di riforme. Nelle elezioni del 1958, il Psi registrò un netto progresso, pur restando a

notevole distanza dalla Dc. A questo punto le premesse politiche per l’apertura a

sinistra, c’erano tutte.

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Page 166: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Gli sviluppi della guerra fredda negli anni ’60

Nei paesi occidentali, gli anni ‘60 sono spesso ricordati positivamente, come un

periodo di grande sviluppo economico e civile e di ancor più grandi speranze.

Questa immagine è tuttavia un po’ convenzionale, poiché sia sul piano degli equilibri

internazionali sia su quello degli equilibri interni, il periodo che va dalla fine degli

anni ’50 ai primi anni ’70 offre un quadro abbastanza agitato e per molti versi

contraddittorio. La diffusione di più elevati livelli di benessere si accompagnò, infatti,

al rilancio di ideologie rivoluzionarie. La coesistenza fra i due blocchi politico-

militari in cui era diviso il mondo si confermò e si consolidò, anche attraverso

momenti di duro scontro diplomatico e di confronto anche drammatico. Dunque, un

equilibrio del terrore, che se evitò lo scoppio di un nuovo conflitto, non impedì il

manifestarsi di tensioni all’interno dei due blocchi, come pure lo scatenarsi di

conflitti locali soprattutto in Medio Oriente e nel Sud – Est asiatico.

Nel novembre 1960, il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy salì alla

presidenza degli Stati Uniti. Proveniente da una famiglia di origine irlandese, fu il

primo cattolico ad entrare alla Casa Bianca. Egli riscosse subito ampi consensi,

riallacciandosi alla tradizione progressista di Wilson e di Roosevelt e aggiornandola

col riferimento ad una nuova frontiera, una frontiera non più materiale, ma culturale,

spirituale, scientifica.

In politica interna, lo slancio riformatore determinò un incremento della spesa

pubblica, assorbita in parte dai programmi sociali, in parte dalle esplorazioni spaziali.

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Page 167: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il primo incontro fra Kennedy e Kruscev, avvenuto a Vienna nel giugno del 1961 e

dedicato al problema di Berlino Ovest, si risolse in un fallimento. Gli Stati Uniti

riaffermarono il loro impegno in difesa della stessa Berlino Ovest ed i sovietici

risposero, alzando un muro, che separava le due parti della città e rendeva impossibili

le fughe. Il muro di Berlino diveniva, così, il simbolo più visibile della divisione

della Germania, come pure dell’Europa e del mondo, secondo le linee segnate dalla

guerra fredda.

In questo momento, però, teatro di scontri diventava l’America latina. Kennedy aveva

tentato di soffocare il regime comunista a Cuba, sia boicottandolo economicamente,

sia appoggiando gli esuli anticastristi, che tentarono una spedizione armata sull’isola.

Lo sbarco, che ebbe luogo, nel 1961, in una località chiamata Baia dei porci, si

risolse in un fallimento. L’Unione Sovietica, allora, offrì ai cubani assistenza ed

iniziò ad installare nell’isola alcune basi di lancio per missili nucleari. Quando,

nell’ottobre 1962, le basi furono scoperte dagli americani, Kennedy ordinò un blocco

navale attorno a Cuba per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. Per sei

drammatici giorni, dal 16 al 21 ottobre, il mondo fu vicino ad un nuovo conflitto. Ma

alla fine, Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche, in cambio

dell’impegno americano ad astenersi da azioni militari contro Cuba. Questo

compromesso aprì la strada ad una nuova fase di distensione. Nel 1963, Stati Uniti ed

Unione Sovietica firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti

nucleari nell’atmosfera, al quale però non aderirono Cina e Francia. Nello stesso

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Page 168: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

periodo, Usa e Urss si accordarono per una linea diretta di telescriventi (la linea

rossa), fra Casa Bianca e Cremlino.

Kruscev accentuò, in questi anni, il tono moderato dei suoi interventi ed interpretò il

confronto, fra i blocchi, in chiave di competizione economica: la vittoria sarebbe

spettata al paese, capace di garantire al popolo un maggiore livello di benessere ed

una migliore qualità di vita. Vi era in lui un eccessivo ottimismo: nell’ottobre del

1964, Kruscev fu estromesso da tutte le cariche.

Kennedy, un anno prima, il 22 novembre 1963, venne ucciso tragicamente da un

attentato a Dallas, nel Texas. Fu il primo di una serie di misteriosi omicidi politici:

nel ’68 furono uccisi Robert Kennedy, fratello di John, e il pastore negro Martin

Luther King, leader del movimento antisegregazionista.

A Kennedy subentrò Lyndon Johnson, un esperto uomo politico di formazione

rooseveltiana, che tradusse in atto molti progetti di legislazione sociale, avviati da

Kennedy. Johnson finì, però, col legare il suo nome all’impopolare e sfortunato

impegno americano nel Vietnam.

Dopo l’allontanamento di Kruscev, l’Urss fu retta da una direzione collegiale formata

da collaboratori del leader rimosso. Tra questi Leonid Brežnev, che divenne segretario

del Pcus e, ben presto, si affermò come leader indiscusso del paese. La politica

sovietica, in questo periodo, mutò stile rispetto al passato: meno dichiarazioni,

minore enfasi sulla destalinizzazione, ma per quanto concerneva i contenuti, questi

rimasero più o meno invariati. Si accentuò, tuttavia, pur senza raggiungere i livelli di

brutalità dell’era staliniana, la repressione di ogni forma di dissenso. In economia fu

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Page 169: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

varata una riforma, che accordava alle imprese più ampi margini d’autonomia,

compensati, però, da un più stretto controllo del potere centrale sui singoli settori

produttivi. I risultati non furono brillanti e l’Urss vide, in questo periodo, accentuarsi

il distacco dai paesi occidentali.

Non si verificarono mutamenti neppure nei paesi dell’Europa orientale. Solo la

Romania, sotto la guida di Nicolae Ceausescu, riuscì ad ottenere una certa autonomia

sul piano economico, come pure in politica internazionale. I dirigenti sovietici

tollerarono la dissidenza rumena, che non metteva, tuttavia, in discussione le strutture

interne del regime, ma si mostrarono intransigenti nei confronti dell’esperimento di

liberalizzazione mai tentato sino ad allora in un paese del blocco sovietico: quello

avviato in Cecoslovacchia, all’inizio del 1968, e culminato nella cosiddetta

Primavera di Praga. Tutto cominciò nel gennaio 1968, quando il segretario del

partito Antonin Novotný, fu rimosso dalla sua carica e sostituito da Aleksander

Dubček, leader dell’ala innovatrice. Pressato dall’opinione pubblica, appoggiato da

intellettuali e studenti, egli accentuò il processo di rinnovamento fino a limiti

impensabili prima di allora. Il “programma d’azione” del Partito comunista, varato

nella primavera di quell’anno, cercava, infatti, di conciliare il mantenimento del

sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico

e politico, compresa la presenza di più partiti. Così, la Cecoslovacchia visse una

stagione di radicale rinnovamento, dando vita ad un socialismo dal volto umano.

Anche se non mise mai in discussione la collocazione del paese nel sistema di

alleanza sovietico, essa costituì una minaccia intollerabile per l’Urss. I sovietici

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Page 170: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

tentarono invano di indurre i dirigenti di Praga a bloccare il processo di

liberalizzazione. Poi, il 21 agosto 1968, truppe dell’Urss e di altri quattro paesi del

patto di Varsavia occuparono Praga e il resto del paese. Dubček fu arrestato e venne

formato un governo filosovietico. I dirigenti cechi promossero un’efficace resistenza

passiva. Intanto, in una fabbrica di Praga, si tenne un congresso clandestino del

Partito comunista, che riaffermò la fiducia a Dubček. Trovatisi in una situazione

imbarazzante, i sovietici costrinsero lo stesso Dubček e gli altri dirigenti della

“primavera di Praga” a riprendere il loro posto, ma sotto il controllo degli occupanti,

che nel giro di pochi mesi riuscirono ad imporre un rovesciamento dei rapporti di

forza nel partito. I dirigenti “liberali” furono progressivamente eliminati. Con Gustav

Husák cominciò la fase della normalizzazione. Tuttavia, l’Unione Sovietica uscì da

questa vicenda indebolita. Questa volta, a condannare l’intervento dell’Urss, furono i

partiti comunisti occidentali; critiche severe vennero anche dai partiti al potere, come

quelli cinese e jugoslavo.

In Italia, in Germania occidentale e in Gran Bretagna, gli anni ‘60 segnarono

l’avvento al governo dei socialisti, da soli o in coalizione con altre forze. In Francia,

invece, i gruppi d’obbedienza gaullista mantennero la guida del governo. Anche

dopo l’uscita di scena di De Gaulle, la sua linea venne mantenuta con Georges

Pompidou e Valéry Giscard d’Estaing.

In Germania federale il quasi-monopolio governativo dei cristiano-democratici si

interruppe nel 1966, quando il partito di maggioranza presentò qualche segno di

ristagno e, non trovando un accordo con i liberali, formò una grande coalizione con i

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Page 171: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

socialdemocratici, guidati da Willy Brandt. Il nuovo governo dovette fronteggiare, da

un lato, una reviviscenza della destra neonazista, dall’altro l’ondata di contestazione

giovanile del 1968. L’anno seguente, placatasi la contestazione, i socialdemocratici

ruppero la “grande coalizione” e si allearono con i liberali, in alternativa ai cristiano-

democratici. Si dava vita, così, ad una politica che tendeva ad una normalizzazione

nei rapporti fra la Germania federale e i paesi del blocco comunista e che, pur

restando all’interno dell’ortodossia atlantica, riproponeva il problema di una futura

riunificazione fra le due Germanie, attraverso un graduale superamento dei blocchi.

Questa politica orientale, Ostpolitik, si concretò nell’instaurazione di rapporti

diplomatici coi paesi comunisti e nel riconoscimento sancito dai trattati con la

Polonia e con l’Urss, dei confini fissati dopo la seconda guerra mondiale.

Più sfortunata fu l’esperienza di governo dei laburisti inglesi, tornati al potere con

Harold Wilson. Dovendo fronteggiare una difficile congiuntura economica e, nel

contempo, il riacutizzarsi della mai risolta questione irlandese, il governo assunse

impopolari misure di austerità. Nell’Irlanda del Nord, la minoranza cattolica, che

costituiva la parte più povera della popolazione, diede vita a molte agitazioni, spesso

degeneranti in episodi di terrorismo. Le difficoltà economiche e politiche che si

accompagnarono all’abbandono degli ultimi resti dell’Impero, (Malta, Singapore,

Aden), ebbero l’effetto di attenuare la riluttanza della classe dirigente e dell’opinione

pubblica, soprattutto da parte laburista, nei confronti dell’adesione britannica alla

Comunità europea. Nel 1967, il governo Wilson si convertì alla causa europea e aprì

un negoziato, che si concluse nel 1972 con l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee.

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Tutto ciò non servì, però, per risolvere i gravi problemi dell’economia britannica, né

a rilanciare il processo di integrazione politica fra gli Stati del vecchio continente.

I cattolici, negli anni ’60, costituivano ancora la più numerosa fra le comunità

religiose, con oltre 500 milioni di fedeli sparsi per il mondo.

La Chiesa, in questo periodo, non attuò un arroccamento dottrinario, ma tentò un

rinnovamento interno, accompagnato da una maggiore attenzione alla mutata realtà

sociale ed internazionale. Il nuovo corso ebbe inizio col pontificato di Giovanni

XXIII, salito al soglio pontificio nel 1958. Diversamente da Pio XII, il nuovo papa,

che non era affatto un innovatore in materia dottrinaria, cercò di rilanciare il ruolo

ecumenico della Chiesa e di instaurare un dialogo con le realtà esterne al mondo

cattolico. Fu un papa dal grande carisma, che impresse una significativa svolta alla

politica vaticana, sancita da due encicliche. Nella prima, la Mater et magistra, il papa

si richiamava alla Rerum novarum di Leone XIII per rilanciare il filone sociale del

pensiero cattolico, per condannare l’egoismo dei ceti privilegiati, per incoraggiare il

riformismo politico ed economico, sia pur condannando ideologie e regimi socialisti.

La seconda enciclica, la Pacem in terris, era legata ai rapporti internazionali e

conteneva, oltre ad un appello al negoziato fra le potenze e alla cooperazione fra i

popoli, una significativa apertura verso i paesi di nuova indipendenza, e anche una

proposta al dialogo con le religioni non cattoliche e con gli stessi non credenti. Ma,

l’atto più importante di Giovanni XXIII fu la convocazione di un Concilio

ecumenico, il Vaticano II. Apertosi a Roma nell’ottobre 1962, pochi mesi prima della

morte dello stesso pontefice, il Concilio si prolungò sino al dicembre 1965 sotto il

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pontificato di Paolo VI. Dal Concilio la Chiesa uscì rafforzata, anche se non

radicalmente trasformata. L’innovazione più importante fu l’introduzione della messa

in volgare, per consentire una maggiore partecipazione dei fedeli al rito. Ma fu

ribadita l’importanza delle Sacre Scritture, come fonti primarie della rivelazione ed

affermata la necessità del dialogo con le altre religioni e con le altre chiese cristiane.

I fermenti introdotti dal Concilio suscitarono, in molti paesi, nuove correnti e

movimenti, spesso legati a posizioni rivoluzionarie. Gruppi di cattolici del dissenso si

formarono in Italia ed in Francia e spesso confluirono nei partiti di sinistra o nei

movimenti nati dalle lotte studentesche del ’68. In America latina la partecipazione di

sacerdoti e di gruppi cattolici alla lotta contro la dittatura fu addirittura all’origine di

una nuova teologia, la teologia della liberazione, che reinterpretava il messaggio

cristiano e le stesse Scritture, nel quadro di una concezione marxista della storia.

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Il mondo asiatico e la guerra del Vietnam

Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, si venne delineando un contrasto

sempre più grave tra l’Unione Sovietica e la Cina. All’origine della tensione vi era

un intreccio di rivalità statuali e di divergenze politico-ideologiche, che investivano

sia la politica estera che quella interna. Mentre l’Urss si proponeva come garante di

un ordine “bipolare”, la Cina tendeva a contestare lo status quo internazionale, ad

appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, a porsi come guida

dei paesi in via di sviluppo. Nel corso degli anni ’50, la Cina comunista aveva

progressivamente nazionalizzato il settore industriale e quello commerciale e

compiuto uno sforzo notevole, per dotarsi di una propria industria pesante,

giovandosi di tecnici sovietici. Aveva inoltre proceduto alla collettivizzazione

dell’agricoltura. Con la riforma agraria del 1950, poté ridistribuire la terra fra i

contadini, creando una miriade di piccole aziende agricole. Incoraggiò e alla fine

obbligò le stesse famiglie contadine a riunirsi in cooperative, controllate, di fatto,

dalle autorità statali.

La dirigenza comunista varò poi, nel maggio 1958, una nuova strategia che fu detta

del grande balzo in avanti, che avrebbe dovuto realizzarsi grazie ad una generale

razionalizzazione produttiva, ma soprattutto in virtù di un gigantesco sforzo di

volontà collettiva. Le cooperative furono riunite in unità più grandi, le comuni

popolari, ciascuna delle quali doveva tendere all’autosufficienza economica,

producendo in proprio quanto le era necessario. L’intera popolazione fu sottoposta ad

un controllo sempre più stretto, anche nella sfera della vita privata, e martellata con

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una vigorosa campagna propagandistica in una atmosfera simile a quella dei piani

quinquennali sovietici. L’esperimento, tuttavia, fu un grande fallimento: la

produzione agricola crollò, provocando una spaventosa carestia e costringendo la

Cina a massicce importazioni di cereali. I sovietici criticarono il “grande balzo” e

richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo alla già provata economia

cinese. Contemporaneamente, l’Urss rifiutò di fornire qualsiasi assistenza in campo

nucleare, il che non impedì però alla Cina di fare esplodere, nel 1964, la sua prima

bomba atomica. I cinesi accusarono i sovietici di revisionismo, di acquiescenza

all’imperialismo, definito da Mao, una “tigre di carta”, ossia uno spauracchio da cui

non bisognava farsi intimorire. Così, in un crescendo di ingiurie, i cinesi definirono i

sovietici “nuovi zar”, e rimisero in discussione i confini tra Cina e Russia, definiti

nell’'800.

Il fallimento del “grande balzo in avanti” ebbe contraccolpi anche all’interno della

Cina. Non disponendo di un controllo dell’apparato, tale da consentire una rapida

epurazione dei “moderati”, che avevano criticato il piano economico, Mao ricorse ad

una forma di lotta inedita in un regime comunista: avvalendosi del sostegno

dell’esercito, controllato dal ministro della Difesa Lin Piao, mobilitò contro i suoi

avversari le generazioni più giovani, esortandole a ribellarsi contro i dirigenti

sospettati di percorrere la “via capitalistica”.

La mobilitazione culminò tra il 1966 e il 1968 nella cosiddetta rivoluzione culturale,

una rivolta giovanile apparentemente spontanea, ma in realtà orchestrata dall’alto,

che si richiamava al vero pensiero di Mao e contestava ogni potere burocratico ed

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ogni autorità basata sulla competenza tecnica. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro,

gruppi di giovani guardie rosse mettevano, sotto accusa, insegnanti e dirigenti

politici: molti di questi furono internati in campi di rieducazione e sottoposti a torture

fisiche e psicologiche, alle quali spesso non sopravvivevano.

La rivoluzione culturale si esaurì in pochi anni: quanti furono necessari per eliminare

dai posti di responsabilità i dirigenti contrari alla linea maoista, a cominciare da Liu

Shao-chi, ex presidente della Repubblica, che morì per maltrattamenti. Ma a partire

dal 1968, Mao cominciò a mettere un freno al movimento da lui stesso provocato, il

quale stava determinando spaccature nella base comunista. Un ruolo importante, in

questa fase, fu svolto da Chou En–lai, il più autorevole dopo Mao tra i capi comunisti

cinesi, che ricoprì per molti anni la carica di primo ministro. Fu lui ad avviare,

all’inizio degli anni '70, una linea di normalizzazione anche in campo internazionale,

resa necessaria dall’isolamento economico e diplomatico in cui si trovava il paese.

Dal momento che i rapporti con l’Urss erano pessimi, la nuova linea si tradusse in un

avvicinamento agli Stati Uniti, sancito, nell’estate del 1972, da un viaggio del

presidente americano Nixon a Pechino, e dall’ammissione all’Onu della Cina

comunista. Intanto, nel 1971, Lin Piao, protagonista della rivoluzione culturale,

scomparve in un incidente aereo e fu poi accusato di aver tentato di fuggire in Urss

dopo un fallito complotto antimaoista.

La guerra, che si combatté nel Vietnam per oltre dieci anni, dal 1964 al 1975,

rappresentò uno degli strascichi più drammatici del processo di decolonizzazione, ma

anche uno dei momenti di scontro più acuti tra gli Stati Uniti e il mondo comunista.

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Page 177: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Gli accordi di Ginevra del 1954 avevano diviso il Vietnam in due repubbliche: quella

del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh e, quella del Sud, governata dal regime

semidittatoriale del cattolico Ngo Dinh Diem ed appoggiata dagli americani. Contro

il governo del Sud, inviso alla maggioranza buddista della popolazione, si sviluppò

un movimento di guerriglia, il Vietcong, guidato dai comunisti e sostenuto dallo Stato

nordvietnamita. Gli Stati Uniti inviarono così nel Vietnam del Sud un contingente di

consiglieri militari, che durante la presidenza Kennedy, si ingrandì fino a raggiungere

30.000 uomini.

Con Johnson, la presenza Usa in Vietnam si trasformò in un vero intervento bellico.

Nel febbraio del 1965, senza alcuna dichiarazione di guerra, ebbe inizio una serie di

violenti bombardamenti contro il territorio del Vietnam del Nord. L’escalation, ossia

l'intensificazione progressiva dell'impegno militare statunitense, non fu sufficiente a

domare la lotta dei vietcong, che godevano di appoggi fra le masse contadine. Di

fronte ad un nemico inafferrabile, che si muoveva come “un pesce nell’acqua”,

secondo una celebre espressione di Mao, l’esercito americano entrò in crisi. Inoltre,

negli Stati Uniti, il conflitto vietnamita appariva a larghi settori dell’opinione

pubblica, come una guerra fondamentalmente ingiusta, contraria alla democrazia. Vi

furono imponenti manifestazioni di protesta e molti giovani in età di leva rifiutarono

di indossare la divisa. Ai movimenti rivoluzionari di tutto il mondo, i successi del

Vietcong apparvero come la prova del fatto che la più potente macchina militare

esistente poteva essere tenuta in scacco da una guerra di popolo. La svolta del

conflitto si ebbe nel 1968, quando i vietcong lanciarono contro le principali città del

177

Page 178: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Sud una grande offensiva, l’offensiva del Tet, ossia il capodanno buddista, che pur

non avendo risultati sul piano militare, mostrò tutta la vitalità della guerriglia. Nel

marzo dello stesso anno, Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord

e annunciò anche la sua intenzione a non ripresentarsi alle elezioni. Il suo

successore, il repubblicano Richard Nixon, avviò negoziati col Vietnam del Nord e

con il governo rivoluzionario provvisorio, espressione politica del Vietcong, e ridusse

gradualmente l’impegno militare americano. Ma, nel contempo, cercò di potenziare

l’esercito sudvietnamita e allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos

e la Cambogia, nel tentativo di tagliare ai vietcong le vie di rifornimento. Solo nel

gennaio 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio, che

prevedeva un graduale ritiro delle forze statunitensi.

Dopo il ritiro americano, la guerra continuò per altri due anni: fino a che, il 30 aprile

1975, i vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud,

mentre i membri del governo, abbandonavano la città. Pochi giorni prima, i

guerriglieri comunisti, i khmer rossi, avevano conquistato Phnom Penh, capitale della

Cambogia, cacciando il governo filoamericano del generale Lon Nol. Tre mesi dopo

era il Laos a cadere nelle mani dei partigiani del Pathet Lao. Tutta l’Indocina era così

comunista. Gli Stati Uniti dovettero registrare la prima grande sconfitta della loro

storia.

Negli anni successivi alla vittoria dei comunisti in Vietnam e alla morte di Mao in

Cina, l’Asia comunista attraversò una fase di grandi trasformazioni. Dopo la

conquista di Saigon, ribattezzata “città Ho Chi–minh”, i nordvietnemiti ignorarono

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Page 179: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

tutte le promesse di autodeterminazione e di riconciliazione fra le due metà del paese

e attuarono una politica di assorbimento del Sud nel Nord e di sistematica

emarginazione, non solo dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della

lotta di liberazione nel Sud. Nella primavera del 1978 la numerosa comunità di

origine cinese fu espropriata dai suoi averi. Centinaia di migliaia di persone

abbandonarono il paese e molti persero la vita nella fuga.

Ancora più tragica la situazione della Cambogia, dove i khmer rossi, guidati da Pol

Pot, misero in atto tra il 1976 e il 1978, una sanguinaria rivoluzione sociale. Essi,

infatti, eliminarono fisicamente non solo coloro che avevano servito sotto il regime di

Lon Nol, ma provocarono anche la morte per fame e per stenti di circa un milione e

mezzo di comuni cittadini, costretti da un giorno all’altro ad evacuare le città e a

trasferirsi nelle campagne.

Il denaro fu abolito. Vennero distrutti templi buddisti, biblioteche e istituzioni d’ogni

genere. Il regime di Pol Pot, appoggiato per motivi tattici dalla Cina, era tuttavia un

ostacolo per il Vietnam, che intendeva ridurre tutta l’Indocina sotto il proprio

protettorato. Nel dicembre del 1978, soldati vietnamiti invasero il paese e vi posero

un governo “amico”, rovesciando quello dei khmer rossi, che continuarono tuttavia la

loro guerriglia. Nel febbraio 1979, i cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel

Vietnam del Nord, ma non riuscirono a far ritirare le truppe vietnamite dalla

Cambogia. La penisola indocinese era, quindi, divenuta teatro di conflitti interni al

mondo comunista. Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell’Onu, i vietnamiti si

ritirarono dalla Cambogia. E solo nel 1991 si giunse ad un accordo, sia pur precario,

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Page 180: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

di pacificazione fra tutte le fazioni in lotta, e alla formazione di un “Consiglio

nazionale supremo”, col compito di convocare libere elezioni.

Le elezioni, segnarono il successo dei sostenitori dell’ex sovrano Norodom

Sihanouk, ponendo così le basi per la restaurazione della monarchia. Ma la pace non

fu raggiunta, poiché il paese rimase legato al conflitto “triangolare” tra i monarchici, i

comunisti filovietnamiti e gli eredi dei khmer rossi.

In Cina, dopo Mao, Deng Xiaoping diede vita alla demaoizazzione, promuovendo

una serie di modifiche economiche all’interno del paese. Furono reintrodotte le

differenze salariali ed aumentati gli incentivi ai lavoratori; la direzione delle aziende

fu ricondotta a criteri di efficienza; i contadini poterono coltivare i propri fondi e

venderne i prodotti sul mercato libero: in generale vennero introdotti, nel sistema,

elementi di economia di mercato.

Tale trasformazione provocò notevoli mutamenti nella stratificazione sociale, ma

anche nella mentalità e nei costumi. Proprio il contrasto fra la modernizzazione

economica e il mantenimento della struttura burocratica autoritaria del potere fu

all’origine, alla fine degli anni ’80, di un nuovo fenomeno di protesta. Protagonisti

furono gli studenti dell’Università di Pechino, che diedero vita ad imponenti e

pacifiche manifestazioni di piazza per chiedere più libertà e più democrazia. Ma il

governo, preoccupato dalla vicenda, rispose con una brutale repressione militare e

con una serie di pesanti condanne. L’intervento dell’esercito nella piazza Tienanmen

si risolse in un vero e proprio massacro, che si riflesse negativamente sui rapporti

commerciali con l’Occidente. Le relazioni economiche furono poi ristabilite, anche

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Page 181: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

per l’interesse dei paesi industrializzati, nei confronti di un mercato potenzialmente

enorme e di un’economia che, nel decennio ’80-’90, seppe dar vita ad una grande

ripresa, raddoppiando il volume della sua produzione. Il regime cinese, così,

sopravvisse al grande ciclone, che investì l’intero mondo comunista alla fine degli

anni ’80.

Fra i “numerosi miracoli” del secondo dopo guerra, quello del Giappone fu

certamente il più straordinario. Paese sempre povero di materie prime e con una

densità di abitanti fra le maggiori al mondo, il Giappone, negli anni ’60, era diventato

la terza potenza economica del mondo, dopo Usa ed Urss.

Le cause di tale miracolo erano numerose. In parte affondavano le loro radici nelle

tradizioni e nella mentalità del popolo giapponese, in parte si collegavano ad un

preesistente elevato livello di industrializzazione, di scolarizzazione e di istruzione

tecnica. La crisi del petrolio del 1973 colpì il Giappone più di altri paesi industriali e

provocò la prima caduta della produzione: la crisi fu rapidamente superata già negli

anni ’80. Sul piano politico, la tradizionale stabilità del paese fu messa a dura prova,

a partire dalla fine degli anni ’80, da una serie di scandali finanziari, che investirono

il Partito liberal-democratico. Persa, nelle elezioni del 1992, la maggioranza assoluta

dei seggi, il partito fu costretto a dividere la responsabilità di governo con altre

formazioni, tra cui gli avversari socialdemocratici.

A tali problematiche si aggiungeva anche quella derivante dalla posizione nipponica

sul piano internazionale. Saldamente inserito nella sfera di influenza degli Usa e

protetto dal loro “ombrello” nucleare, essendo privo di una adeguata forza militare

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Page 182: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

propria, il Giappone da sempre aveva concentrato le sue risorse sulla ricerca

scientifica. Vedeva, invece, col trascorrere del tempo, crescere le pressioni, da parte

dei suoi alleati, per un maggior contributo alle spese per la propria difesa e per le

attività della Nazioni Unite: premessa per l’assunzione di nuove responsabilità in una

comunità internazionale non più bloccata dalla competizione bipolare.

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Page 183: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Il Medio Oriente e le guerre arabo-israeliane

Dopo la crisi di Suez del 1956, il Medio Oriente continuò a rappresentare un

pericoloso focolaio di tensione locale, come pure un terreno di scontro fra l’Unione

Sovietica, divenuta protettrice dell’Egitto, e gli Stati Uniti.

Nel 1967, il presidente egiziano Nasser chiese il ritiro delle forze–cuscinetto

dell’Onu, che presidiavano il confine del Sinai, proclamò la chiusura del golfo di

Aqaba, e strinse un patto militare con la Giordania. Gli israeliani risposero sferrando,

il 5 giugno, un attacco contro Egitto, Giordania e Siria. La guerra durò sei giorni

appena e, il suo esito, fu la distruzione al suolo dell’intera aviazione egiziana.

L’Egitto perse la penisola del Sinai, la Giordania, invece, tutti i territori della riva

occidentale del Giordano, inclusa la parte oriente di Gerusalemme, la Siria, infine, le

alture del Golan.

La disfatta della guerra dei “sei giorni” ebbe per gli arabi gravi conseguenze. Segnò

il declino di Nasser, indusse ad un atteggiamento più prudente la Giordania,

determinò il distacco dei movimenti di resistenza palestinese, riuniti nell’Olp

(Organizzazione per la liberazione della Palestina) dalla tutela dei regimi arabi.

Guidata, a partire dal 1969, da Yasir Arafat, l’Olp pose le sue basi in Giordania,

creandovi una specie di Stato nello Stato. Il re di Giordania, Hussein, esposto alle

rappresaglie israeliane a causa degli attentati dei feddayn palestinesi, reagì con una

sanguinosa prova di forza. Nel settembre del 1970, il cosiddetto “settembre nero”,

mobilitò le sue truppe contro i feddayn e i profughi palestinesi, che furono costretti a

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Page 184: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

riparare nel vicino Libano. Da allora l’Olp avrebbe esteso la lotta terroristica sul

piano internazionale, con una serie di dirottamenti aerei e di attentati clamorosi. Nel

1970, Nasser morì. Il suo successore Anwar Sadat, procedette ad una revisione della

politica egiziana. Deciso a recuperare il Sinai, preparò accuratamente il confronto con

Israele. Il 6 ottobre 1973, giorno della festa ebraica dello Yom Kippur, le truppe

egiziane attaccarono di sorpresa le linee israeliane, dilagando nel Sinai. Tuttavia,

Israele riuscì a capovolgere le sorti del conflitto, grazie anche a massicci aiuti

americani. La guerra del Kippur ebbe scarsi risultati sul piano territoriale: li ebbe,

invece, su quello psicologico e morale. Da un lato, fu scosso il mito dell’invincibilità

israeliana, dall’altro, la chiusura del canale di Suez e il blocco petrolifero decretato

dagli Stati arabi contro i paesi occidentali amici di Israele, diedero alla crisi una

dimensione globale.

Già nell’agosto del 1971, gli Stati Uniti decisero di sospendere la convertibilità del

dollaro in oro, convertibilità che rappresentava il pilastro del sistema monetario

internazionale costruito con gli accordi di Bretton Woods del 1944. Era il segno di un

grave disagio dell’economia americana esaurita dalla guerra in Vietnam e afflitta dal

deficit della bilancia commerciale. Ancora più sorprendente fu la decisione presa dai

paesi produttori di petrolio, nel novembre 1973, di quadruplicare il prezzo della

materia prima. Lo “shok petrolifero” colpì, in varia misura, tutti i paesi

industrializzati e fu fattore scatenante di una grave crisi economica. Ovunque la

produzione industriale fece registrare un brusco calo e, contrariamente a quanto era

accaduto nelle crisi del passato, la recessione produttiva si accompagnò ad una

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Page 185: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

generale tensione inflazionistica con tassi di aumento dei prezzi, nei paesi

industrializzati, superiori anche al 20% annuo. Questo fenomeno, definito

stagflazione, determinò la crescita della disoccupazione, che si mantenne molto

elevata per tutto il decennio successivo. Un problema che, tuttavia, venne reso meno

drammatico dalla presenza, nei paesi europei, di “ammortizzatori sociali”, quali i

sussidi di disoccupazione e le sovvenzioni statali alle industrie in crisi.

A poco a poco, il presidente Sadat si convinse della necessità di trovare una soluzione

politica al conflitto con Israele e dunque di avvicinarsi agli Stati Uniti. Nel 1974-

1975, espulse i tecnici sovietici dall’Egitto, congelò i rapporti con l’Urss e iniziò una

politica filo-occidentale. Nel 1977, compì un viaggio a Gerusalemme e formulò

personalmente, in un discorso al Parlamento israeliano, la sua offerta di pace. Si

giunse così, con la mediazione del presidente americano Carter, agli accordi di Camp

David, del settembre 1978, fra Sadat e il primo ministro israeliano Begin. L’Egitto

ottenne la restituzione del Sinai e stipulò con Israele un trattati di pace, che

rappresentò un grande evento storico capace di sopravvivere alla morte di Sadat,

ucciso nel 1981 in un attentato di integralisti islamici. Tuttavia, non fu sufficiente a

mettere in moto un generale processo di pacificazione nell’area mediorientale.

Gli accordi di Camp David prevedevano successivi negoziati per un regolamento

totale nella regione: negoziati mai avviati. L’ostacolo principale venne dagli Stati

arabi e dall’Olp, che denunciavano il tradimento dell’Egitto e rifiutavano ogni

trattativa. Successivamente, a partire dalla metà degli anni ’80, gli Stati arabi

“moderati” e la stessa dirigenza dell’Olp, assunsero una posizione più morbida e,

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Page 186: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

sfidando la condanna del cosiddetto “fronte del rifiuto”, si dissero disposti a trattare

con Israele e a riconoscere la sua esistenza, in cambio del suo ritiro dai territori

occupati, ossia Cisgiordania e striscia di Gaza, dove sarebbe dovuto sorgere uno

Stato palestinese. Ma i dirigenti dello Stato ebraico rifiutarono le trattative con l’Olp

di Arafat. La tensione si accrebbe ulteriormente quando, a partire dalla fine del 1987,

i palestinesi dei territori occupati diedero vita ad una rivolta, detta intifada, ossia

risveglio, contro gli occupanti, che reagirono con una dura repressione.

I riflessi dell’irrisolto nodo palestinese si erano fatti sentire anche in Libano: un

piccolo Stato pluriconfessionale, rimasto sempre ai margini del conflitto arabo-

israeliano, dove l’Olp aveva trasferito le sue basi dopo il “settembre nero”. Ben

presto il fragile equilibrio del piccolo Stato si dissolse ed iniziò una sanguinosa

guerra civile. La situazione si aggravò nel 1982, quando l’esercito israeliano invase il

paese, spingendosi sino a Beirut per cacciare le basi dell’Olp. Il successivo invio a

Beirut di una forza multinazionale di pace da parte di Stati Uniti, Francia, Italia e

Gran Bretagna, consentì l’evacuazione dei combattenti dell’Olp, ma non portò la

calma nel paese. Da allora il Libano rimase lacerato da lotte intestine, che avrebbero

poi fornito alla vicina Siria il pretesto per intervenire nel paese e imporvi una sorta di

protettorato.

Quello fra Israele e il mondo arabo non fu certo l’unico conflitto, che interessò nel

secondo dopoguerra l’inquieta area mediorientale. Un altro scontro fu quello, che

oppose e tuttora oppone, le forze laiche rivoluzionarie e conservatrici, ma comunque

aperte all’influenza dell’Occidente, ai movimenti integralisti.

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Page 187: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Le correnti laiche avevano, sin dal primo dopoguerra, la loro roccaforte nella

Turchia: paese rivolto più verso l’Europa che l’Asia, membro della Nato dal 1952,

retto da istituzioni rappresentative di tipo occidentale.

Le correnti integraliste trovarono, alla fine degli anni ’70, un punto di riferimento in

Iran. Paese vasto e popoloso, l’Iran era stato sino ad allora accanto alla Turchia, il

principale pilastro della presenza occidentale e in particolare americana in Medio

Oriente, dopo la seconda guerra mondiale. Il paese era stato governato con metodi

autoritari dallo scià (imperatore) Rheza Palhavi. A partire dagli anni ’60, lo scià

aveva iniziato una politica di modernizzazione, che mirava a trasformare il paese in

una grande potenza militare, ma che non si tradusse in significativi progressi nella

condizione di vita delle masse. Questa politica creò opposizioni da parte dei gruppi di

sinistra, ma anche del clero islamico tradizionalista che, dal 1978, assunse la guida di

un vasto movimento di protesta popolare. Lo scià tentò di frenare la rivolta con

repressioni, poi chiamando al governo politici moderati dell’opposizione. Tuttavia,

nel 1979, abbandonato dagli Stati Uniti, dovette lasciare il paese. In Iran, si instaurò

così una Repubblica islamica di stampo teocratico, ispirata ad un vago riformismo

sociale, basato sui dettami del Corano e guidata dall’ayatollah Khomeini, massima

autorità dei musulmani sciiti, che aveva capeggiato dall’esilio di Parigi

l’opposizione religiosa al regime dello scià. Il nuovo governo, antioccidentale e

antiamericano, entrò in contrasto con gli Stati Uniti. Per oltre un anno, il personale

dell’ambasciata Usa a Teheran fu tenuto prigioniero da un gruppo di militanti

islamici, che agivano con l’appoggio delle autorità locali. L’Iran, isolato

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Page 188: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

internazionalmente e dissestato a livello economico, nel settembre del 1980 fu

attaccato dal vicino Iraq, che cercava di profittare della situazione per impadronirsi di

alcuni territori, da tempo contesi tra i due paesi. La guerra si protrasse, con fasi

alterne, per ben otto anni e si risolse in un’inutile carneficina.

La fine delle ostilità e la morte di Khomeini aprirono qualche spazio alle componenti

meno estremiste del regime iraniano, che negli anni precedenti aveva contribuito non

poco all’instabilità dell’intera area mediorientale.

Nell’agosto del 1990, il dittatore dell’Iraq, Saddam Hussein, già protagonista della

guerra d’aggressione contro l’Iran, invase il piccolo Emirato del Kuwait, affacciato

sul Golfo Persico, uno dei maggiori produttori di petrolio. Tale invasione venne

condannata dalle Nazioni Unite che, con voto pressoché unanime, decretarono

l’embargo nei confronti dell’aggressore. Contemporaneamente, gli Stati Uniti

inviavano in Arabia Saudita un corpo di spedizione, sia per difendere gli Stai arabi

minacciati, sia per esercitare pressione su Saddam e costringerlo al ritiro. Alla

spedizione si univano anche alcuni Stati europei, tra cui l’Italia. Decisivo fu

l’atteggiamento dell’Unione Sovietica, che in analoghe situazioni si era schierata a

fianco del nazionalismo arabo. Gorbačëv non si oppose all’intervento armato e

consentì, così, alle forze multinazionali di agire sotto la copertura della Nazioni

Unite.

Il dittatore iracheno reagì cercando di stabilire un collegamento fra l’occupazione del

Kuwait e il problema dei territori palestinesi sopraffatti da Israele. Egli voleva

presentarsi come il vendicatore delle masse arabe oppresse e come il banditore di una

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guerra santa. Alla fine di novembre, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvava a

stragrande maggioranza una risoluzione, che imponeva all’Iraq di ritirarsi dal Kuwait,

autorizzando, in caso contrario, l’impiego della forza. Nella notte tra il 16 e il 17

gennaio 1991, la forza multinazionale scatenava un violento attacco aereo contro

obiettivi militari in Iraq e nel Kuwait occupato. Saddam rispose lanciando missili

sull’Arabia Saudita e su Israele. Alla fine di febbraio, scattava l’offensiva di terra

contro le forze irachene in Kuwait. Inferiore per tecnologia e privo di copertura aerea,

l’esercito iracheno cedeva di schianto, abbandonando il Kuwait. Ottenuto lo scopo

principale e ufficiale dell’intervento, il presidente Bush decideva di arrestare

l’offensiva della forza multinazionale per evitare il rischio di complicazioni

diplomatiche. Saddam, politicamente, sopravviveva alla sconfitta, nonostante i

tentativi di ribellione delle minoranze sciite. Ma gli Stati Uniti risultavano

trionfatori, essendo riusciti a riscattare il proprio prestigio militare, dopo la vicenda

del Vietnam.

Nell’ottobre del 1991, a Madrid, fu convocata la prima sessione di una conferenza di

pace sul Medio Oriente, in cui i rappresentanti del governo israeliano incontrarono

delegazioni dei paesi confinanti ed esponenti palestinesi dei territori occupati.

Nel giugno dell’anno successivo, un’ulteriore spinta al processo di pace venne dalla

vittoria del Partito laburista nelle elezioni politiche israeliane, dopo quasi un

ventennio di egemonia del Fronte nazionalista. Il nuovo primo ministro, Rabin,

bloccò i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati e si mostrò propenso a

concessioni territoriali, in cambio di pace con i paesi confinanti. Ma la svolta storica

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si concretizzò nel 1993, quando Rabin e il ministro degli Esteri Peres presero la

sofferta decisione di eliminare l’ostacolo principale, che si opponeva allo sviluppo

dei negoziati e di trattare, quindi, direttamente con l’Olp, profittando della

disponibilità di Arafat, ormai indebolito ed isolato dal resto del mondo arabo.

Un lungo negoziato segreto portò ad un primo accordo fondato sul reciproco

riconoscimento e su un avvio graduale dell’autogoverno palestinese nei territori

occupati, a partire dalla città di Gerico e dalla striscia di Gaza. Il 13 settembre 1993,

l’accordo fu sottoscritto a Washington da Rabin e Arafat sotto gli auspici del

presedente americano Clinton. Sul negoziato gravava il peso di numerose questioni

aperte, come l’opposizione dell’ala intransigente dell’Olp e la minaccia dei

movimenti integralisti islamici.

L’attività terroristica si intensificò col frequente ricorso ad attentati suicidi. Questa

nuova violenza ebbe il suo culmine nell’uccisione di Rabin, il 4 novembre 1995.

Privato della sua guida, il Partito laburista fu sconfitto anche nelle elezioni politiche

del maggio 1996, da una coalizione di destra, guidata da Netanyahu.

La vittoria della destra segnò una battuta di arresto nel processo di pace, ma non ne

interruppe il cammino. Il dialogo fra le parti fu rilanciato nel 1999 dalla vittoria,

nelle elezioni politiche israeliane, di una coalizione di centro-sinistra guidata da

Barak.

Nell’estate del 2000, il presidente Clinton convocò le parti per una nuova tornata di

colloqui di pace, a Camp David. Questa volta gli israeliani si mostrarono disposti a

trattare anche su problemi delicati, come quello di Gerusalemme e del ritorno dei

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Page 191: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

profughi nel futuro Stato palestinese. L’accordo per una pace definitiva fu, però,

ancora mancato.

Ad innescare un nuovo scontro, alla fine di settembre, fu la visita di Sharon, leader

della destra israeliana alla spianata delle Moschee di Gerusalemme: una provocazione

agli occhi palestinesi, che reagirono scatenando una nuova rivolta. Si sviluppò, così,

una seconda intifada, più cruenta della prima. L’inasprirsi dello scontro e il

conseguente diffondersi di un senso di paura, portarono alla crisi del governo di

Barak e, nel febbraio 2001, ad elezioni anticipate, che videro la vittoria del centro-

destra, guidato da Sharon. Il nuovo governo di grande coalizione alzò il livello della

risposta militare e giunse a contestare l’autorità di Arafat, considerato un

interlocutore non più credibile. Tuttavia né la repressione, né i tentativi di

mediazione condotti soprattutto dagli Stati Uniti riuscirono a riavviare il dialogo tra

le due parti.

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L’Italia dagli anni ’60 alla crisi della prima repubblica

Tra il 1958 e il 1963 giunse al culmine il processo di crescita economica, iniziato in

Italia dopo il 1950. Furono gli anni del miracolo economico, in cui l’Italia ridusse

sensibilmente il divario, che la separava dalla maggior parte dei paesi più

industrializzati. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manifatturiera, che nel

1961 giunse a triplicare la sua produzione rispetto al periodo prebellico. L’aspetto più

evidente della crescita economica fu rappresentato dallo sviluppo delle esportazioni

dei prodotti industriali. Molti erano stati i fattori che avevano permesso il miracolo:

la congiuntura internazionale favorevole, la politica di libero scambio avviata negli

anni ’50 e sancita dall’adesione alla Cee, la modesta entità del prelievo fiscale e

soprattutto lo scarto che si venne a creare fra l’aumento della produttività e il basso

livello dei salari, il che consentì alti profitti e tassi di investimento elevati. Molto

limitata fu, invece, la modernizzazione delle attività agricole, che mantennero un

tasso di sviluppo modesto e una scarsa produttività.

Un fenomeno caratterizzante gli anni ’60, in Italia, fu il vistoso e massiccio esodo dal

Sud al Nord e dalle campagne verso le città. Nelle zone appenniniche del Centro-Sud

si registrò un vero spopolamento. La crescita delle città, anche di quelle non

industriali, si accompagnò ad un forte incremento dell’occupazione, nei settori del

commercio e dell’edilizia.

La televisione e l’automobile furono i simboli principali di questo cambiamento.

In campo politico, negli anni ’60, si ebbe un allargamento delle basi del sistema

partitico, attraverso l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. La svolta maturò in

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seguito ad una serie di avvenimenti. Nella primavera del 1960, il democristiano

Fernando Tambroni, non trovando un accordo con socialdemocratici e repubblicani,

formò un governo monocolore, con l’appoggio determinante dei voti del Movimento

sociale. Ciò suscitò le proteste dei partiti laici e della stessa sinistra Dc, i cui

rappresentanti si dimisero dal governo. La tensione esplose alla fine di giugno,

quando il governo autorizzò il Msi a tenere il suo congresso nazionale a Genova,

nonostante l’opposizione della forze democratiche cittadine. La decisione, che fu

interpretata come un prezzo pagato da Tambroni per l’appoggio parlamentare dei

neofascisti, suscitò una rivolta popolare: per 3 giorni operai e militanti antifascisti si

scontrarono con la polizia, che cercava di garantire lo svolgimento del congresso.

Alla fine il governo cedette e il congresso fu rinviato. Tuttavia, altre manifestazioni

antigovernative, dilagarono in molte città, sino a che lo stesso Tambroni, sconfessato

dalla Dc, fu costretto a dimettersi. Si formò, così, un nuovo governo, presieduto da

Amintore Fanfani, che ottenne l’astensione dei socialisti in Parlamento, aprendo così

la stagione politica del “centro-sinistra”. La nuova alleanza fu sancita dal congresso

della Dc, che si tenne nel gennaio del 1962, grazie al sapiente operato del segretario

Aldo Moro, il quale riuscì a fare accettare la svolta al grosso del suo partito. Un

nuovo governo Fanfani, formatosi nel marzo 1962, e composto da Dc, Pri, Psdi, si

presentò con un programma concordato col Psi, che si impegnava a dare il suo

appoggio ai singoli progetti legislativi. Fu proprio in questa fase che il centro –

sinistra conseguì i risultati più avanzati. Il programma di governo prevedeva la

realizzazione della scuola media unificata, l’attuazione dell’ordinamento regionale

193

Page 194: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

previsto dalla Costituzione, l’imposizione fiscale nominativa per i titoli azionari e la

nazionalizzazione dell’industria elettrica. Quest’ultimo progetto fu portato a termine

nel dicembre 1962, con la creazione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica

(Enel). Nel gennaio del 1963, fu approvata la legge che istituiva la scuola media

unica, mentre la nominatività dei titoli azionari, già nel 1964, venne radicalmente

modificata. L’attuazione delle regioni poi, temuta dalla Dc perché avrebbe rafforzato

i poteri locali, fu rinviata.

I contrasti nella maggioranza furono esasperati dall’esito delle elezioni dell’aprile

1963. La perdita dei voti della DC e del Psi, il successo dei liberali e il rafforzamento

dei comunisti, accentuarono le resistenze moderate in seno alla Dc e inasprirono le

divisioni interne al Psi. Si formò un nuovo governo “organico” di centro-sinistra,

sotto la presidenza di Aldo Moro, che nacque su basi più moderate rispetto al

precedente. A partire dal 1963, il processo riformatore fu praticamente bloccato,

anche per il manifestarsi dei primi segni di crisi economica, che sembravano

suggerire una politica più cauta. Inoltre, si facevano sempre più sentire voci ostili al

centro-sinistra, che annoveravano, tra le loro file, lo stesso Presidente della

Repubblica, Antonio Segni.

Ma gli ostacoli più seri ad una politica innovatrice, venivano dall’interno della

coalizione governativa, in particolare dall’esigenza della Dc di mantenere unito il

composito fronte di forze economiche e sociali, che costituiva la sua base di

consenso: un fronte in cui le istanze di rinnovamento erano nettamente minoritarie

rispetto al peso dei gruppi moderati, che avevano accettato a malincuore la politica

194

Page 195: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

del centro – sinistra. Anche il Psi era, tuttavia, in difficoltà. Nel 1964, la minoranza di

sinistra, diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), che si opponeva alle

scelte governative e non voleva rinunciare ad una alleanza col Pci.

Frattanto, nell’agosto dello stesso anno, Togliatti moriva lasciando al partito una

pesante eredità, ma indicando nel cosiddetto memoriale di Yalta, una linea che

riaffermava il principio dell’indipendenza da Mosca e l’originalità della via italiana al

socialismo. Il Pci restava, tuttavia, in una posizione di isolamento, che non fu

attenuata neppure dal contributo determinante dei voti comunisti per l’elezione, alla

presidenza della Repubblica, del leader socialdemocratico Giuseppe Saragat.

Nonostante le difficoltà incontrate, la formula del centro – sinistra durò per oltre un

decennio, con i governi presieduti sino al ’68 da Moro, poi da Mariano Rumor e da

Emilio Colombo. Ma, si sarebbe esaurita rivelandosi inadeguata a fronteggiare i

problemi di una società articolata e complessa.

Intanto, tra il 1967 e il 1968, la mobilitazione degli studenti portò all’occupazione di

numerose università e a grandi manifestazioni di piazza. La critica alla società

borghese divenne rifiuto della prassi politica tradizionale, esaltazione della

democrazia di base e del momento assembleare, dell’egualitarismo e della

spontaneità. Il movimento studentesco del ’68 individuò il suo interlocutore

privilegiato nella classe operaia. L’operaismo fu anche il tratto distintivo di alcuni tra

i nuovi gruppi politici che, proprio perché distaccati dai tradizionali rappresentanti

del parlamento, furono definiti “extraparlamentari”. Avviatesi in modo spontaneo in

alcune grandi fabbriche nel Nord, le lotte ebbero come protagonista l’operaio massa,

195

Page 196: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

ossia il lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato, sul quale maggiormente

gravavano i disagi nel contesto urbano.

Le tre maggiori organizzazioni sindacali riuscirono a prendere in mano la direzione

delle lotte e a pilotarle verso la conclusione di contratti nazionali, che assicurarono ai

lavoratori dell’industria, cospicui vantaggi. Il nuovo peso delle organizzazioni

sindacali fu favorito dall’approvazione, da parte del Parlamento, nella primavera del

1970, dello Statuto dei lavoratori, una serie di norme che garantivano libertà

sindacale e i diritti dei lavoratori all’interno delle aziende.

Fra il ’68 e il ’70 vennero approvati i provvedimenti relativi all’istituzione delle

regioni e, nel giugno del 1970, si tennero le prime elezioni regionali. Nel dicembre

dello stesso anno, con l’appoggio delle sinistre e dei partiti laici e con l’opposizione

della Dc, fu approvata la legge che introduceva il divorzio in Italia.

Nei primi anni ’70, la debolezza dell’esecutivo apparve, in tutta la sua evidenza, di

fronte al manifestarsi del terrorismo politico. Il 12 dicembre 1969, in pieno “autunno

caldo”, una bomba esplosa a Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca

nazionale dell’agricoltura, provocò 17 morti e oltre 100 feriti. L’incapacità da parte

dello Stato di risolvere il caso fu messa sotto accusa dalla stampa di sinistra e

dall’opinione pubblica. La conferma dei pericoli corsi dalle istituzioni venne,

nell’estate del 1970, dalla rivolta di Reggio Calabria, che vide un’intera città

esasperata per non essere stata designata come capoluogo dell’appena istituita

regione, unita in una vera e propria rivolta guidata da esponenti del Msi.

196

Page 197: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Né il governo centrista, composto da democratici, socialdemocratici e liberali e

guidato da Giulio Andreotti nel ’72-’73, né i successivi governi di centro-sinistra

guidati da Rumor, furono in grado di compiere scelte politiche di ampio respiro e di

affrontare i veri problemi del paese.

A tutto ciò si aggiunse un crescente disagio morale, provocato da una serie di

scandali in cui furono coinvolti esponenti della maggioranza, messi sotto accusa per

aver favorito gruppi di pressione italiani e stranieri, in cambio di tangenti destinate a

finanziare i rispettivi partiti. La rapida adozione, nell’aprile del 1974, della legge sul

finanziamento pubblico dei partiti, rappresentati in Parlamento, non servì a sanare la

frattura tra società politica e società civile. Sempre nel 1974, venne sottoposta a

referendum abrogativo la nuova legge sul divorzio. Si assistette così ad una grande

mobilitazione, che vedeva opposte alle forze laiche, in particolare al piccolo Partito

radicale nato nel 1958, i gruppi cattolici appoggiati dalla Dc e dal Msi.

Il netto successo dei divorzisti fece comprendere che la società italiana era cambiata.

Nel 1975, vennero approvate, inoltre, altre due leggi: la riforma del diritto di

famiglia, che sanciva la parità giuridica tra i coniugi e l’abbassamento della

maggiore età, cui era legato il diritto di voto, da ventuno a diciotto anni. Tre anni più

tardi, dopo un lungo ed acceso dibattito, il Parlamento approvò la legge, che

legalizzava e disciplinava l’interruzione volontaria della gravidanza.

Intanto, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, sostenne la necessità di giungere ad

un compromesso storico, ossia ad un accordo di lungo periodo fra le forze comuniste,

socialiste e cattoliche, come unica via per scongiurare i rischi di soluzioni autoritarie,

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Page 198: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

indispensabile per allargare la base dell’azione riformatrice. In seguito, il Pci stabilì

contatti con i comunisti francesi e spagnoli per avviare una politica comune in Europa

occidentale, con connotati diversi dal comunismo sovietico (si parlò così di

eurocomunismo).

Nelle elezioni del 1976, il Pci avanzò ulteriormente e raggiunse il suo massimo

storico (34,4%).

Nell’agosto dello stesso anno, si giunse alla costituzione di un governo monocolore

democristiano guidato da Andreotti, che ottenne l’astensione in Parlamento di tutti gli

altri partiti, esclusi il Msi e i radicali. Era una risposta unitaria della classe politica ad

una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal

dilatarsi del fenomeno del terrorismo. Dopo la strage di Piazza Fontana, vi furono le

bombe in piazza della Loggia a Brescia e quelle su treno Italicus, come pure

l’attentato alla stazione di Bologna, nell’agosto del 1980. Il tratto distintivo del

terrorismo di destra era il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, capaci

quindi di provocare atroci stragi.

Dall’altra parte si sviluppò il terrorismo di sinistra, sorto soprattutto dinnanzi

all’immagine di uno Stato debole e minato dalla corruzione politica. Ai primi isolati

attentati incendiari, seguirono i sequestri di dirigenti e magistrati: il più clamoroso fu

quello del giudice Sossi, nell’aprile 1974. Nel 1976, con l’uccisione del procuratore

generale di Genova, Coco, si giunse all’assassinio programmato. Gli autori di queste

stragi appartenevano alle Brigate Rosse, il primo e più pericoloso gruppo terroristico

di Sinistra.

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Page 199: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Nel 1978, le Brigare rosse misero in atto il loro progetto più ambizioso. Il 16 marzo,

il giorno stesso della presentazione in Parlamento di un nuovo governo Andreotti, un

commando brigatista rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. A quella giornata, vissuta

dal paese con rabbia e sgomento, seguirono 55 giorni di attesa e di polemiche. Il 9

maggio, Moro fu ucciso e il suo cadavere abbandonato in una strada al centro di

Roma. Questo delitto evidenziò la gravità del fenomeno terroristico, ma avviò anche

una progressiva presa di distanze dall’area eversiva, da parte di quanti avevano

coltivato fino ad allora ambigue solidarietà.

Nel non facile clima politico creatosi dopo l’assassinio di Moro, il governo di

solidarietà nazionale cercò di riavviare il risanamento dell’economia, aiutato

dall’atteggiamento dei comunisti, che si fecero sostenitori di una linea di austerità, e

da una relativa moderazione delle richieste sindacali. Nel ’78 l’inflazione scese di

qualche punto, mentre la legge sull’equo canone, che aveva lo scopo di regolare il

livello degli affitti, produsse effetti disastrosi, perlomeno nelle grandi città. In questi

anni si mantenne la pratica della lottizzazione, ossia la spartizione delle cariche

pubbliche in base all’appartenenza partitica. Gli scandali giunsero sino alla

presidenza, costringendo alle dimissioni il capo della Stato, il democristiano

Giovanni Leone, accusato di connivenze con gruppi affaristici. Al suo posto venne

eletto, col voto di tutti i partiti dell’arco costituzionale, Sandro Pertini, figura di

indiscusso prestigio morale, che seppe conquistarsi una vastissima popolarità.

Il nuovo corso dato da Bettino Craxi alla politica socialista, centrato sul recupero

della tradizione riformista, in aperta polemica col Pci, rendeva sempre più difficile la

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Page 200: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

collaborazione all’interno della maggioranza e ricreava le condizioni per una ripresa

dell’alleanza tra Psi e i partiti di centro. I comunisti chiedevano, intanto, l’ingresso a

pieno titolo nell’esecutivo. Ma, nel gennaio 1979 il Pci, in contrasto con gli altri

partiti sui problemi di politica estera ed economica, abbandonò la maggioranza. La

crisi che seguì, portò a nuove elezioni. I risultati delle stesse elezioni del 1979 e di

quelle anticipate del giugno 1983, segnarono significativi mutamenti nel panorama

politico. Nel 1979, il Pci registrò una secca sconfitta. La Dc invece, stabile nel ’79,

subì una chiara perdita di consensi nel 1983. Il Psi raccolse in entrambe le elezioni

risultati deludenti. Nel 1981, per la prima volta, la Dc cedette la guida del governo al

segretario del Partito repubblicano, Giovanni Spadolini, appoggiato da un governo

pentapartitico. Nel 1983, prese le redini del paese Bettino Craxi, che cercò di

potenziare il ruolo dell’esecutivo e di affermare una presenza più evidente dell’Italia

nella politica internazionale. Nel febbraio del 1984, venne stipulato un nuovo

concordato con la Santa Sede, che ritoccava gli accordi nel 1929, lasciandone cadere

le clausole più anacronistiche.

All’interno della Dc, Ciriaco De Mita cercò di restituire al partito credibilità ed

efficienza. L’immagine del partito dalle mani pulite e il carisma di Berlinguer

conservarono ai comunisti una larga base elettorale. L’emozione seguita

dall’improvvisa morte del segretario comunista, nel 1984, fu tra i fattori che

portarono il Pci, nelle elezioni europee tenutesi dopo pochi giorni, a raggiungere per

la prima volta, l’obiettivo del sorpasso sulla Dc. Ma, nelle successive elezioni

amministrative, i comunisti tornarono sotto il 30%.

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Nel 1985, divenne presidente della Repubblica, con una larga maggioranza, Franceso

Cossiga, che tuttavia non riuscì ad evitare la crisi del pentapartito. Tra il 1987 e il

1988 si alternarono due governi: l’uno presieduto da Giovanni Goria, l’altro da

Ciriaco De Mita. Entrambi non raggiunsero i risultati sperati; in particolare De Mita

si trovò in difficoltà, sia per la conflittualità dei partner della coalizione, sia per i

contrasti interni alla stessa Dc.

Anche il ritorno al governo di Andreotti, non riuscì però a riportare nella

maggioranza la compattezza necessaria. Nella primavera del 1991, egli dovette

affrontare una nuova crisi, perdendo uno dei suoi alleati migliori: il Partito

repubblicano.

L’intero sistema politico finiva così sotto accusa. La Prima repubblica crollava sotto

il peso degli scandali finanziari, della corruzione e del sistema dei privilegi. Le

sollecitazioni indotte da nuove forze politiche e dai cambiamenti dell’assetto

internazionale accelerarono la crisi: si andava, così, verso la Seconda Repubblica.

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Page 202: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

Verso la crisi del sistema bipolare

Gli anni che seguirono la crisi petrolifera del 1973 furono, per l’Europa occidentale,

anni di serie difficoltà economiche e di importanti mutamenti politici.

Tutti i paesi della Cee furono colpiti dal rincaro dei prezzi del petrolio. L’istituzione,

nel 1979, del Sistema monetario europeo non fu sufficiente a coordinare, in modo

efficace, le politiche economiche dei paesi membri della Comunità.

Nel complesso, pur restando una delle aree più sviluppate del pianeta, l’Europa

occidentale perse terreno rispetto agli Stati Uniti ed al Giappone. La sua dipendenza

militare dall’alleato di oltre Atlantico si accentuò man mano che saliva il livello

tecnologico del confronto fra i due blocchi: un confronto che toccò punte di forte

tensione alla fine degli anni ’70, quando i membri europei della Nato decisero

l’istallazione di nuovi missili a media gittata, gli euromissili, per rispondere allo

spiegamento di armi analoghe da parte dell’Urss.

Sul piano delle politiche interne, nella metà degli anni ’70, vennero messe in crisi

soprattutto le socialdemocrazie dell’Europa settentrionale.

I laburisti inglesi, dopo aver ripreso il potere nel 1974, lo persero nel 1979, a favore

dei conservatori. Il governo di Margaret Thatcher, presentatosi su una piattaforma di

intransigente liberalismo, lanciò un attacco contro il potere delle Trade Unions, mise

in discussione i fondamenti del Welfare State, privatizzò settori importanti

dell’industria pubblica. Nel 1990, tuttavia, la Thatcher dovette lasciare la guida

dell’esecutivo ad un altro conservatore, John Major, in seguito alla ribellione del suo

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stesso partito, che non approvava alcune impopolari misure fiscali e non condivideva

la sua ostinata opposizione ai progetti di integrazione europea.

In Germania federale, l’era dei socialdemocratici si concluse nel 1983, con l’ascesa al

governo del cristiano-democratico Helmuth Kohl. La sconfitta della Spd fu

determinata soprattutto dai contrasti di politica estera: in particolare dalle perplessità

dei socialdemocratici, circa l’installazione degli euromissili in Germania.

In Francia, al contrario, l’Unione delle Sinistre s’impose nelle elezioni dell’’81,

portando alla presidenza il socialista François Mitterand. Ma l’Unione delle Sinistre

finì ben presto col deludere le aspettative. Le difficoltà dell’economia indussero i

socialisti ad accantonare i progetti di riforma più ambiziosi e ad adottare una serie di

misure restrittive: ciò provocò la rottura col Partito comunista, schierato su posizioni

di intransigenza. Tale rottura non impedì però a Mitterand di ottenere, nel 1988, un

secondo mandato, né al partito socialista di continuare a governare, sino alla sconfitta

nel 1993.

In Portogallo, dopo la morte di Salazar, nel 1970, iniziò un processo di

democratizzazione, portato avanti con l’aiuto della stessa opinione pubblica locale.

Dal 1975, vi fu così un’alternanza al governo del paese tra i socialisti di Mario

Soares e le forze dei moderati di centro-destra.

In Grecia, a porre fine alla dittatura dei colonnelli fu, nel 1974, l’esito disastroso di

un colpo di mano, mirante ad ottenere l’annessione alla Grecia dell’isola di Cipro, da

sempre divisa tra una comunità turca ed una greca. Travolti dall’insuccesso, i militari

dovettero lasciare il potere ai partiti democratici. Sempre nel 1974, un referendum

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popolare aveva sancito la fine della monarchia, per altro già estromessa dalla dittatura

dei colonnelli.

In Spagna un ruolo importante e positivo fu svolto dalla monarchia. Il re Juan Carlos

di Borbone, insediato nel 1975, dopo la morte di Franco, seppe ben pilotare il paese

verso la democrazia. Il sovrano chiamò alla guida del governo Suarez, giovane uomo

politico cresciuto nelle file del franchismo, ma convinto dell’opportunità di un

radicale rinnovamento politico. Il re legalizzò i partiti e i sindacati liberi e fece

approvare, per referendum, una costituzione democratica. Nonostante il terrorismo

dei separatisti baschi, la democrazia spagnola si consolidò e sopportò senza scosse il

cambio di potere verificatosi nel 1982, con la vittoria dei socialisti.

Il ritorno alla democrazia in Spagna, Portogallo e Grecia, rappresentò una tra le più

rilevanti novità della storia recente dell’Europa e, tra l’altro, consentì un allargamento

della Cee, cui aderirono, appunto, tutti e tre i paesi.

Negli anni ’70, anche gli Stati Uniti dovettero affrontare una serie di difficoltà. Prima

la crisi del dollaro, nel 1971, poi la sconfitta in Vietnam. Quindi, una grave crisi

interna, il cosiddetto caso Watergate, che nel 1974 costrinse alle dimissioni il

presidente Nixon, accusato da una efficace campagna giornalistica di aver coperto i

comportamenti illegali di alcuni suoi collaboratori, responsabili di un’operazione di

spionaggio ai danni del Partito democratico.

Nel 1976, salì al potere Jimmy Carter, dopo due anni di presidenza alquanto incolore

di Gerald Ford. Carter cercò di risollevare il prestigio del paese, sostituendo alla

Realpolitik di Nixon, una linea di tipo wilsoniano, fondata sul riconoscimento del

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diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani. Una linea, però, portata

avanti in modo incerto che, se da un lato contribuì a rendere tesi i rapporti con l’Urss,

dall’altro fu criticata perché lasciava spazio all’affermazione di regimi ostili agli Stati

Uniti in Africa, in Medio Oriente ed in America Latina. Nel 1980, salì alla

presidenza Ronald Reagan, anziano ex attore, esponente dell’ala destra del Partito

repubblicano. Egli si presentò con un programma liberista in economia e promise di

adottare una politica dura, nei confronti dell’Urss e di tutti i nemici dell’America. Il

successo della presidenza Reagan, confermato nelle elezioni dell’’84, si dovette

anche al buon andamento economico, grazie soprattutto allo sviluppo dei settori di

punta, in particolare quelli legati all’elettronica e alle produzioni militari. Il

mantenimento di un alto livello di armamenti costituì, inoltre, un elemento essenziale

della strategia internazionale di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Usa.

Va ricordato l’appoggio del presidente all’iniziativa di difesa strategica (Sdi), un

progetto mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale, capace di

neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica. Per quanto

riguardava la presenza americana nel mondo, essa si concretizzò nel sostegno in armi

e materiali ai guerriglieri afgani, in lotta contro i sovietici, come pure nei massicci

aiuti militari forniti ai contras del Nicaragua e nella sfida lanciata ai regimi

integralisti del Medio Oriente, la Libia di Gheddafi e l’Iran di Khomeini. Nel 1988,

grazie anche ai suoi incontri col leader sovietico Gorbačëv, e l’avvio di una nuova

fase di distensione con l’Urss, Reagan poté concludere il suo mandato presidenziale

nel migliore dei modi. Nelle elezioni del 1988, salì al potere il repubblicano George

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Bush, politico esperto, che riprese l’eredità di Reagan, ma con uno stile più prudente

ed equilibrato (ad esempio, ridimensionò il progetto dello “scudo spaziale”).

Nei rapporti con l’Urss fu confermata una linea aperta alle trattative.

Del resto, l’Unione Sovietica riuscì, già negli anni ‘70, a mascherare i suoi gravi

problemi interni con un accentuato dinamismo in politica internazionale. Leonid

Brežnev, profittando della relativa debolezza e delle incertezze degli Stati Uniti, si

avvantaggiò nella corsa agli armamenti ed allargò la sua sfera di influenza in tutti i

continenti. Un successo effimero, e pagato a caro prezzo, fu quello ottenuto dall’Urss

nel vicino Afghanistan, uno Stato cuscinetto, situato nel cuore dell’Asia musulmana.

Per imporre nel paese un governo fedele alle loro direttive, i sovietici inviarono

truppe, che si scontrarono per quasi 10 anni con la resistenza dei guerriglieri islamici.

Fu un’esperienza amara che, per il suo altissimo costo di vite umane, è stata spesso

paragonata all’intervento americano in Vietnam.

Nel 1975, l’Urss partecipò assieme ad altri 35 paesi alla Conferenza di Helsinki, sulla

sicurezza e la cooperazione in Europa, e ne sottoscrisse gli accordi finali, che

garantivano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà politiche fondamentali. La

mancata osservanza di tali accordi avrebbe costituito negli anni successivi un

ulteriore motivo di protesta da parte dei dissidenti e un serio ostacolo al dialogo con

l’Occidente. Una radicale svolta, si ebbe con l’ascesa al potere di Michail Gorbačëv,

rappresentante di una generazione non coinvolta direttamente dal pensiero di Stalin.

In politica economica, egli legò il suo nome alla perestrojka, ossia riforma,

proponendo una serie di interventi nel segno della liberalizzazione, volti ad inserire

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nel sistema socialista elementi di economia di mercato. Si fece promotore, inoltre, di

una nuova Costituzione, che senza intaccare il sistema del partito unico, lasciava

spazio ad un limitato pluralismo, distinguendo la struttura dello Stato da quella del

Partito. Nel maggio 1990, venne eletto presidente dell’Urss.

Riforme economiche e liberalizzazione interna, se giovarono all’immagine dell’Urss,

evidenziarono alcune contraddizioni. Infatti, i tentativi di riforma dell’economia,

innestandosi su una realtà poco preparata ad accoglierli, finirono per suscitare

malumori. Particolarmente allarmanti furono i movimenti autonomisti, o addirittura

indipendentisti: le prime a muoversi, in tal senso, furono le tre repubbliche baltiche,

annesse all’Unione Sovietica nel 1939. Movimenti analoghi si verificarono nelle

repubbliche caucasiche e nelle regioni musulmane dell’Asia centrale. Nel 1990, la

stessa Repubblica russa, rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse

alla propria presidenza Boris Eltsin, la cui leadership fu confermata nel giugno

dell’anno seguente. Ancora più importante delle riforme risultò l’avvio di un

processo di liberalizzazione interna, condotto all’insegna della glasnost, ossia

pubblicità, trasparenza, un processo che consentì lo svilupparsi di un dibattito

politico-culturale, impensabile fino a pochi anni prima. Conseguenza delle aperture

riformiste fu l’intensificarsi del dialogo con l’Occidente. La disponibilità al

negoziato di Gorbačëv trovò un interlocutore interessato in un Reagan, desideroso di

concludere bene il suo mandato. Due successivi incontri tra i leader, uno a Ginevra

nel 1985, l’altro a Reykjavik nell’ottobre 1986, pur non raggiungendo risultati

conclusivi, chiusero una lunga stagione di incomunicabilità. Un terzo vertice, a

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Washington, nel 1987, portò ad uno storico accordo sulla riduzione degli armamenti

missilistici in Europa, un accordo che aveva anche un valore simbolico, perché per la

prima volta prevedeva la distruzione concordata di armi nucleari. Pochi mesi dopo,

l’Urss s’impegnò a ritirare le sue truppe dall’Afganistan, ritiro che effettivamente si

ultimò nel gennaio 1989. Vi furono altri incontri tra Bush e Gorbačëv a Malta, e

ancora a Washington, che consentirono di porre le basi per successivi accordi. Sorse,

così, la speranza di un nuovo ordine internazionale basato non sull’equilibrio del

terrore. Tale nuovo ordine ebbe un inizio d’attuazione in Europa, quando a Parigi,

nel novembre 1990, nell’ambito di una riunione della Conferenza per la sicurezza e

la cooperazione in Europa, i paesi della Nato e del Patto di Varsavia, con la

significativa presenza della Germania riunificata, firmarono un trattato di non

aggressione e di riduzione degli armamenti convenzionali. A questo punto era però

la stessa idea di ordine internazionale, basata sul condominio fra Urss e Usa ad

entrare in crisi, per l’improvviso collasso di uno dei due partner.

Prima di provocare la dissoluzione dell’Urss, la crisi del comunismo si concretizzò

all’interno dei paesi satelliti nell’Europa dell’Est.

La Polonia aveva già conosciuto una inattesa stagione di cambiamenti tra l’’80 e

l’’81, quando si era affermato un sindacato indipendente chiamato Solidarnosc, ossia

solidarietà, appoggiato dal clero cattolico e guidato dall’operaio Walesa. All’inizio,

tale sindacato venne tollerato, ma successivamente il generale Jaruzelski attuò un

vero colpo di Stato militare, assumendo i pieni poteri e mettendo fuori legge

Solidarnosc. In seguito, tuttavia, lo stesso generale riallacciò il dialogo con la Chiesa

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e con lo stesso sindacato indipendente. Dialogo, questo, culminato negli accordi di

Danzica del 1988, con i quali il capo dello Stato si impegnava ad una riforma

costituzionale, che consentì lo svolgimento delle prime elezioni libere nel giugno

1989. Sorse così un governo di coalizione, presieduto da un esponente del sindacato

indipendente. Gli avvenimenti polacchi erano in parte il prodotto di fattori specifici,

in primo luogo la grande influenza di un clero cattolico, reso più forte ed autorevole

dall’ascesa di Karol Wojtyla al soglio pontificio.

Ma dopo la Polonia, anche l’Ungheria iniziò il suo processo di democratizzazione: i

nuovi dirigenti comunisti, nell’’89, decisi a spingere il processo riformatore fino alle

sue ultime conseguenze, riabilitarono i protagonisti della rivolta del 1956,

legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni.

La decisione più importante fu, tuttavia, la rimozione dei controlli polizieschi e delle

barriere di filo spinato al confine con l’Austria. Decisione, che aprì la prima vera

breccia nella cortina di ferro e innescò una serie di reazioni in tutto il mondo

comunista. Dal 1989, migliaia di cittadini della Germania orientale abbandonarono il

loro paese per raggiungere la Repubblica federale tedesca, attraverso l’Austria e

l’Ungheria. La fuga in massa mise in crisi il regime comunista, costringendo alle

dimissioni il segretario del partito Honecker. I nuovi dirigenti, con l’avallo di

Gorbačëv, avviarono un processo di riforme interne. Il 9 novembre 1989 furono

aperti i confini tra le due Germanie, compresi i passaggi attraverso il muro di Berlino,

simbolo della guerra fredda. Grandi masse di cittadini tedesco-orientali si recarono in

visita all’Ovest, in una atmosfera di festa. Al di là delle sue ripercussioni sull’assetto

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della Germania, la caduta del muro rappresentò un evento epocale e venne assunto

come simbolo della fine delle divisioni, che avevano per anni separato in due

l’Europa.

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La crisi politica in Unione sovietica e nell’Europa orientale

Gli avvenimenti tedeschi accelerarono ulteriormente il ritmo delle trasformazioni

nell’Europa dell’Est. In Cecoslovacchia una serie di manifestazioni popolari

determinò la caduta del gruppo dirigente comunista, legato alla normalizzazione del

dopo ’68, e l’apertura di un processo di democratizzazione. In dicembre, il

Parlamento, presieduto da Dubček, elesse alla presidenza della Repubblica lo

scrittore Vaclav Havel, già perseguitato dal regime comunista.

In Romania, il mutamento di regime si svolse in un clima drammatico, per la

resistenza opposta dalla dittatura personale di Nicolae Ceausescu, abbattuta nel

dicembre ‘89 da un’insurrezione popolare, dopo un sanguinoso tentativo di

repressione. Ceausescu fu messo a morte insieme alla moglie Elena. Alla fine del

1989, anche in Bulgaria, fu avviato un lento processo di liberalizzazione.

Se in Romania i leader “neocomunisti” riuscirono a mantenere il controllo del

processo riformatore, negli altri paesi dell’ex blocco dell’Est, la democratizzazione

finì col travolgere quegli stessi gruppi dirigenti, che l’avevano avviata ed avevano

cercato di adeguarsi fino al punto da cambiare la denominazione dei loro partiti.

In Ungheria le prime elezioni libere, nel 1990, segnarono l’affermazione di un partito

di centro-destra e la sconfitta degli ex comunisti. In Cecoslovacchia, nelle elezioni di

giugno, la vittoria andò ad una formazione di centro-sinistra. In Polonia, le elezioni

presidenziali, sempre nel 1990, videro la divisione del movimento di Solidarnosc, che

portò in ogni caso alla guida dello Stato il suo leader storico, Walesa.

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In Bulgaria e in Albania gli eredi dei partiti comunisti mantennero il potere nella fase

di transizione, ma furono sconfitti nelle successive consultazioni politiche. Un

discorso a parte deve essere fatto per la Jugoslavia, dove già dopo la morte di Tito,

nel 1980, era in atto una grave crisi economica ed istituzionale. Qui l’esito delle

prime elezioni libere accentuò le spinte centrifughe, già operanti all’interno dello

Stato federativo: mentre le Repubbliche di Slovenia e Croazia davano la vittoria ai

partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neocomunismo nazionalista di Milošević,

deciso a riaffermare il ruolo egemone dei serbi in una Jugoslavia unita.

Le conseguenze più clamorose si verificarono, però, nella Germania dell’Est, dove le

elezioni, nel marzo 1990, punirono non solo gli ex comunisti, ma anche i

socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra. La vittoria andò ai cristiano-

democratici, che accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statuale, la

Repubblica democratica tedesca, ormai priva di ogni legittimità e svuotata di

qualsiasi funzione storica. In questa situazione s’inserì efficacemente il governo

Kohl, che riuscì, in pochi mesi, a preparare l’assorbimento della Germania orientale

nelle strutture istituzionali ed economiche della Repubblica federale tedesca e a fare

accettare, anche all’Urss e ai paesi dell’est europeo, la nuova realtà di una Germania

unita. In maggio, i due governi firmarono un trattato per l’unificazione economica e

monetaria. Il 3 ottobre 1990, dopo che il leader Gorbačëv aveva dato il suo assenso

alla riunificazione e dopo che la Polonia era stata tranquillizzata da una solenne

dichiarazione dei due Parlamenti tedeschi, entrò in vigore il vero e proprio trattato

d’unificazione: la Germania tornò a essere, dopo oltre un quarantennio di divisione,

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uno Stato unitario, potenzialmente il più forte e il più dinamico dell’intero continente

europeo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989 aveva simboleggiato la fine della divisione

del mondo in due blocchi, il collasso dell’Unione Sovietica avrebbe determinato un

mutamento sostanziale negli equilibri internazionali. La crisi si acutizzava sempre di

più a causa dell’aggravarsi anche della situazione economica. Gorbačëv cercò di

reagire, mediando fra le spinte liberalizzatici e le pressioni dell’ala dura del partito.

Questo fragile equilibrio si ruppe nell’agosto 1991, quando un gruppo di esponenti

del Partito comunista, del governo e delle forze armate tentò un colpo di Stato,

esautorando lo stesso presidente, sequestrato nella sua casa in Crimea. Il golpe, però,

fallì clamorosamente di fronte ad un’inattesa protesta popolare e al mancato sostegno

dell’esercito. Decisivo fu il ruolo del presidente della Russia, Eltsin, che dopo aver

capeggiato la resistenza popolare ed aver imposto la liberazione di Gorbačëv, si

propose come il vero detentore del potere, relegando in secondo piano lo stesso

presidente sovietico. Il fallimento del golpe di agosto, se da un lato valse a spazzare

via quanto restava del potere comunista, dall’altro accelerò la crisi dell’autorità

centrale. Il pluralismo politico non si tradusse in una vera democratizzazione e lasciò

spazio anche all’emergere di tendenze autoritarie e tradizionaliste. Le spinte

separatiste si accentuarono. Dopo le tre Repubbliche baltiche, anche la Georgia,

l’Armenia e la Moldavia proclamarono unilateralmente la loro secessione dall’Unione

Sovietica; e lo stesso fece l‘Ucraina, legata alla Russia da antichi vincoli storici e

culturali. Gorcačëv tentò di bloccare questo processo, proponendo un nuovo trattato

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Page 214: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

di unione meno rigido. La sua posizione fu, però, scavalcata dai presidenti delle tre

Repubbliche slave, che si accordarono sull’ipotesi di una comunità di Stati sovrani e

su tale ipotesi ottennero il consenso delle altre Repubbliche ex sovietiche.

Il 21 dicembre 1991, ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, i rappresentanti di undici

repubbliche diedero vita alla nuova Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e

sancirono la morte dell’Unione Sovietica, decretando implicitamente anche la fine

politica del suo presidente. Il 25 dicembre, Gorbačëv trasse le logiche conseguenze di

quanto era accaduto e annunciò in un discorso, in televisione, le sue dimissioni. Il

giorno stesso la bandiera sovietica fu ammainata dal Cremlino e sostituita da quella

russa.

Salutata in buona parte del mondo come un evento liberatorio, la dissoluzione del

grande “impero” sovietico suscitò non pochi interrogativi e motivi di inquietudine.

La Russia di Eltsin cercò di accreditarsi, come l’ erede del ruolo di grande potenza

già svolto dall’Urss. In questo suo sforzo fu appoggiata dagli Stati Uniti, e dalla

comunità internazionale, che le riconobbe il diritto di occupare il seggio dell’Unione

Sovietica, in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nel gennaio 1993, il presidente

Bush firmava a Mosca, con Eltsin, un nuovo importante trattato per la riduzione degli

armamenti nucleari strategici. Minacciata dal proliferare dei separatismi, la Russia

dovette affrontare una drammatica crisi economica, sociale e politica che la portò

sull’orlo della guerra civile. All’origine della crisi, c’era il tentativo di Eltsin di

accelerare il processo di transizione verso il capitalismo e l’economia di mercato. Il

risultato fu l’emergere di tensioni contrarie al presidente. Il composito fronte degli

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avversari delle riforme trovò il suo luogo d’unione nel Congresso del popolo, ossia il

Parlamento russo eletto nel marzo del 1990. Il conflitto esplose nel settembre del

1993, quando Eltsin, non riuscendo a superare l’ostruzionismo dello stesso

Parlamento, lo sciolse, indicendo nuove elezioni. Il Parlamento rispose destituendo

Eltsin e sostituendolo col vicepresidente Aleksandr Rutskoj. Eltsin, tuttavia, riuscì a

reagire e a ripristinare l’ordine; con una nuova Costituzione, dai tratti fortemente

presidenziali, egli rafforzò, così, il suo potere. Probabilmente fu per non lasciare

spazi ai nazionalisti che il Presidente, contro il parere dei gruppi democratici, decise,

nel dicembre 1994, un interevento militare in Cecenia, una repubblica autonoma

situata nella regione del Caucaso, che aveva proclamato la propria indipendenza.

L’operazione si tradusse, però, in un grande fallimento che fece comprendere come

la macchina militare russa avesse perso la sua efficienza e, altresì, la profonda crisi

di tutto l’apparato statale russo. Tuttavia, nelle elezioni presidenziali del 1996, Eltsin

riuscì ancora una volta a prevalere su i suoi avversari; subito dopo, fu concluso con la

Cecenia un accordo basato sulla concessione di ampie autonomie e sul rinvio della

decisione circa l’eventuale indipendenza. La fine della guerra non bastò, tuttavia, a

stabilizzare la situazione politica: i problemi più grandi venivano dall’economia, che

non riusciva a decollare. La crisi giunse al suo culmine nell’estate del 1998,

travolgendo il rublo e costringendo il presidente a ceder parte dei suoi poteri ad un

nuovo governo, appoggiato dai comunisti e presieduto dall’ex ministro degli Esteri

Primakov.

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Nell’autunno del 1999, riprendeva la guerra in Cecenia nuovamente invasa dalle

truppe russe perché accusata di dare ospitalità a gruppi terroristici islamici. Eltsin

decise, così, un cambio di governo, designando come primo ministro e indicando

come suo possibile successore alla presidenza, uno sconosciuto dirigente dei servizi

segreti, Vladimir Putin. Grazie alla sua energia, con cui affrontò la ribellione cecena,

senza tuttavia riuscire a domarla del tutto, il nuovo premier guadagnò popolarità e,

nel 2000, si impose come presidente, subito dopo le dimissioni di Eltsin. Sul fronte

della politica estera si assisteva, frattanto, ad una certa ripersa d’iniziativa della

diplomazia russa, nel tentativo di riacquistare una posizione di forza nel confronto

con i paesi occidentali. Putin cercò di accreditarsi come partner affidabile, sia sul

piano strategico, che su quello degli scambi commerciali.

In tutti gli Stati dell’Europa orientale, comunque, il passaggio all’economia di

mercato si rivelò un processo lungo e pieno di disagi. Quasi ovunque, tali delusioni

finirono col riportare al potere i partiti ex comunisti, peraltro rinnovati nelle sigle e

nei programmi.

In Cecoslovacchia si svilupparono, nella minoranza slovacca, tendenze separatiste

che, mescolandosi con i contrasti politici ed economici portarono, nel 1992, ad una

sorta di separazione consensuale e alla creazione di due repubbliche: una ceca,

comprendente Boemia e Moravia e governata dai partiti di ispirazione liberale, e una

slovacca, egemonizzata dai gruppi comunisti.

Assai più drammatica fu la vicenda della Jugosalvia, dove la crisi del regime unico

fece saltare i precari equilibri fra le nazioni, su cui il paese si reggeva dalla fine della

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seconda guerra mondiale e portò addirittura allo scontro armato e alla disgregazione

dello Stato federale. La crisi precipitò in seguito al contrasto fra le risorgenti

aspirazioni egemoniche della Serbia di Milošević, già esercitatesi contro le minoranze

albanesi del Kosovo, e la volontà autonomistica delle Repubbliche di Slovenia e

Croazia. Fra il 1990 e il 1991, la Slovenia e la Croazia proclamarono la propria

indipendenza, facendola sanzionare da plebisciti. Lo stesso fece la Repubblica di

Macedonia, che occupava la parte meridionale della Jugoslavia. Gli organi federali e i

vertici militari accettarono il fatto compiuto dell’indipendenza slovena e macedone,

ma reagirono duramente all’analoga iniziativa della Repubblica croata, mobilitando

le forze armate. Dalla primavera del 1992, il centro del conflitto si spostò in Bosnia,

una delle ex Repubbliche jugoslave, che aveva proclamato, anch’essa la propria

indipendenza. La Bosnia, quindi, divenne teatro di una guerra violentissima,

provocata soprattutto dalla reazione della componente serba. Una guerra difficile da

fermare, anche perché combattuta senza un fronte definito e condotta, soprattutto dai

serbi, all’insegna della “cosiddetta pulizia etnica”. Né gli sforzi della comunità

europea, né le iniziative dell’Onu, che impose l’embargo alla Serbia, ottennero esito

positivo. Per giungere ad una tregua d’armi fu necessario l’impegno diretto,

diplomatico e militare della maggiore potenza mondiale, gli Stati Uniti, che agirono

sotto la copertura dell’Alleanza Atlantica. La Nato, tra maggio e settembre 1995,

attuò una serie di raid aerei contro le posizioni dei serbo-bosniaci e in agosto i

successi militari croati imposero una soluzione negoziata. In ottobre, iniziarono le

trattative fra i governanti della Serbia, della Croazia e della Bosnia musulmana. Il 21

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novembre, un accordo di pace fu siglato a Dayton, negli Stati Uniti. L’ accordo, che

prevedeva la nascita di uno Stato bosniaco, diviso in una repubblica serba e in una

federazione croato-musulmana, ebbe l’effetto non trascurabile di porre fine ai

combattimenti. La situazione restò quanto mai problematica.

Nel 1998, si ripresentò in termini drammatici il problema del Kosovo, che era stato

uno dei fattori scatenanti della crisi jugoslava. In risposta alla protesta autonomista

della popolazione di origine albanese e alla nascita di un movimento di guerriglia

indipendentista, i serbi scatenarono una durissima repressione che colpì, soprattutto, i

civili. Ancora una volta, furono i paesi della Nato ad intervenire, facendo pressioni

sul presidente Milošević perché ponesse fine alla repressione e restituisse al Kosovo

le autonomie di cui godeva prima del 1989. Per oltre due mesi, il territorio della

Jugoslavia, compreso il Kosovo, fu sottoposto a bombardamenti, che distrussero

impianti industriali, infrastrutture civili e gli stessi palazzi del potere. I serbi risposero

intensificando la “pulizia etnica”. L’intervento militare, giustificato con l’esigenza di

proteggere i diritti della popolazione del Kosovo, fu apertamente criticato dalla

Russia, tradizionale alleata dei serbi. Alla fine, grazie anche alla mediazione della

stessa Russia, lo scopo fu raggiunto: ai primi di giugno del 1999, Milošević cedette e

ritirò le truppe dal Kosovo, rimasto così sotto il controllo delle forze Nato. Nel

settembre 2000, le elezioni presidenziali videro la sconfitta del dittatore serbo e la

vittoria di una coalizione democratica, guidata da Kostunica. Milošević cercò di

contestare il verdetto delle urne, ma fu costretto ad abbandonare il potere; venne in

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seguito arrestato, consegnato al Tribunale internazionale dell’Aja, e processato per

crimini contro l’umanità.

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La nascita della seconda Repubblica in Italia e la nuova Europa

Nella pubblicistica, nei mass media e nel linguaggio corrente è ormai consuetudine

indicare con l’espressione seconda repubblica il nuovo assetto politico, determinatosi

in Italia a partire dal 1992-1994. Il crollo del sistema dei partiti, la nuova legge

elettorale maggioritaria, il cambiamento della classe politica, la nascita di un

bipolarismo furono tutti fattori, che caratterizzarono l’ampiezza del mutamento

attraversato dal nostro paese.

Problemi nuovi, come quello dell’immigrazione clandestina dal Terzo Mondo e

dall’Europa dell’Est, si univano a quelli antichi, sottoponendo il sistema politico ad

una serie di sollecitazioni, a cui la classe dirigente non sapeva reagire efficacemente.

La crescita produttiva si interruppe dal 1990. Molte imprese italiane, come la Fiat,

perdevano competitività sui mercati internazionali. L’inflazione, alimentata dalla

crescita della spesa pubblica, restava ben sopra la media europea, e il deficit del

bilancio statale non si riduceva.

Una problematica ancor più grave di quella economica e finanziaria era rappresentata

dall’ accresciuta offensiva della criminalità organizzata in Sicilia, in Calabria e in

Campania. In queste regioni, le organizzazioni criminali esercitavano un controllo

sul territorio, inquinando il mondo politico locale.

Anche all’interno del sistema partitico, le novità dei primi anni ’90 furono numerose

e rilevanti. Prima tra tutte, la trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico

della sinistra (Pds). La decisione, annunciata alla fine del 1989 dal segretario Achille

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Occhetto, e tradotta in atto nel febbraio nel 1991 nel Congresso di Rimini, avrebbe

dovuto sbloccare la principale forza di opposizione e porre le premesse per una

ricomposizione della sinistra italiana, nel segno del riformismo democratico. Tale

progetto si scontrò, però, con la diversa realtà. Il nuovo Pds faticava ad imporsi come

unico punto di riferimento e di raccolta per un’opinione pubblica di sinistra,

attraversata da una forte crisi di identità. Tra l’altro, l’ala più legata all’eredità del

vecchio Pci, si separò dal Pds per dare vita al partito di Rifondazione comunista. Sul

versante opposto, nel Settentrione, i movimenti regionalistici si andavano

consolidando: in particolare la Lega lombarda, affermatasi nelle consultazioni

amministrative del maggio 1990, sull’onda di una violenta polemica “nordista”,

contro lo Stato centralizzato, il fisco e l’intero sistema dei partiti.

Le forze politiche pensarono di prendere in considerazione l’ipotesi di una nuova

legge elettorale, capace di dare maggiore stabilità all’esecutivo, o addirittura di una

revisione della Carta costituzionale, senza però trovare alcun accordo, né sui

contenuti, né sul metodo delle eventuali riforme. A tenere aperto il problema,

contribuì, nel giugno 1991, il successo di un referendum abrogativo di alcune parti

della legge elettorale, promosso da un comitato composto da diversi partiti e

presieduto dal democristiano Mario Segni.

Un’altra sollecitazione, in direzione delle riforme, veniva data dallo stesso capo dello

Stato. Infatti, il presidente della Repubblica Cossiga, mutando bruscamente lo stile di

comportamento seguito nei primi cinque anni del suo mandato, si rendeva

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Page 222: Lezioni Di Storia Contemporanea Novecento (1)

protagonista di una serie di accese polemiche, e dichiarava apertamente la sua volontà

di mutare il sistema, di cui egli stesso era il rappresentante più autorevole.

Nel febbraio 1992, Cossiga sciolse le Camere con lieve anticipo sulla scadenza della

legislatura. Le elezioni successive si tennero il 5 e il 6 aprile, e fecero registrare delle

novità. La Dc ed il Pds vennero seccamente sconfitti, mentre la Lega Nord, guidata

da Umberto Bossi, e nata dalla fusione della Lega lombarda con analoghe formazioni

regionali, si affermava come quarta forza politica italiana.

I Verdi si rafforzavano, mentre un esiguo ma indicativo successo ottenne la Rete, una

nuova formazione, polemicamente schierata contro il sistema dei partiti, capeggiata

dall’ex sindaco democristiano di Palermo Leoluca Orlando.

All’indomani delle elezioni, nasceva un Parlamento molto diviso e subito impegnato

a trovare un accordo sul nome del nuovo capo dello Stato.

Cadute le candidature della coalizione quadripartita, un’ampia maggioranza elesse, il

25 maggio, Oscar Luigi Scalfaro, democristiano, parlamentare dagli anni della

Costituente, figura di alto rigore morale, presidente della Repubblica.

Da alcuni mesi, inoltre, un nuovo grandissimo scandalo stava coinvolgendo un

numero crescente di uomini politici, accusati di aver preteso ed ottenuto tangenti per

la concessione degli appalti pubblici. L’inchiesta, avviata dalla magistratura

milanese, svelava un diffusissimo sistema di finanziamento illegale dei partiti, e di

autofinanziamento dei politici, denominato “Tangentopoli”, sostenuto dalla

complicità di società ed imprenditori privati.

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In una situazione già carica di difficoltà, s’inseriva l’improvvisa recrudescenza

dell’offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato. Il 23 maggio, mentre erano in

corso alla Camera le votazioni per la presidenza della Repubblica, un attentato

dinamitardo uccideva il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie e i tre agenti della

scorta. Dopo meno di due mesi, il 19 luglio, il magistrato Paolo Borsellino e i cinque

agenti della scorta furono uccisi da un’autobomba in piena Palermo.

Eccezionali erano i compiti, che aspettavano, dunque, il nuovo governo. Caduta la

candidatura di Craxi, dopo le indagini che avevano investito, per lo scandalo delle

tangenti molti uomini vicini al leader socialista, il presidente Scalfaro affidava

l’incarico ad un altro socialista, Giuliano Amato.

Il nuovo governo quadripartito affrontò subito il problema finanziario, prima con

interventi di tipo fiscale sui beni mobiliari ed immobiliari dei cittadini, poi con una

più incisiva manovra per contenere le spese. Questi interventi furono anche necessari

poiché, in settembre, una violenta speculazione aveva costretto la lira ad uscire dal

Sistema monetario europeo e il libero mercato aveva deprezzato la nostra moneta di

oltre il 20%.

Il tema più discusso e il nodo più difficile da sciogliere dal Parlamento era, in quel

periodo, la legge elettorale. L’introduzione di un sistema maggioritario uninominale

sembrava a molti la via più rapida per la moralizzazione della vita politica. I difensori

del sistema proporzionale vigente con il voto di lista, che tutelava al massimo il

potere organizzativo dei partiti, si limitavano, invece, a suggerire una serie di

correttivi in senso maggioritario. Il 18 aprile 1993, i cittadini approvarono a

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larghissima maggioranza, un referendum, che introduceva il sistema maggioritario

uninominale al Senato. Contemporaneamente, per mezzo di altri due referendum,

venne abolito il finanziamento pubblico dei partiti e furono mitigate le sanzioni

penali contro i consumatori di droga.

Frattanto, però, numerosi uomini politici come Bettino Craxi, Giorgio La Malfa,

Renato Altissimo, vedevano scossa la loro credibilità, in quanto raggiunti da avvisi di

garanzia e costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Indagato per tangenti

fu anche l’ex segretario della Dc Forlani, mentre Andreotti era accusato, da alcuni

pentiti, di collusione con la mafia, accuse da cui sarebbe stato assolto nel 1999.

All’indomani del referendum, Amato convinto della fine di un’epoca, annunciò in

Parlamento le sue dimissioni. Il presidente allora designò, come figura indiscussa al

di sopra delle parti, Carlo Azeglio Ciampi, per formare il nuovo governo. Ciampi

costituì il ministero muovendosi sopra le logiche partitiche e delle maggioranze

precostituite, richiamando ministri del precedente gabinetto ed inserendo tecnici ed

esponenti di altre aree. Il 29 aprile, tuttavia, quattro ministri del governo insediato

quel giorno stesso, si dimisero per protesta contro la Camera, che non aveva concesso

alcuna autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi.

Nonostante ciò, Ciampi riuscì a varare il suo governo, ottenendo l’appoggio della

vecchia maggioranza quadripartita. Un’importante verifica per le forze politiche

furono le elezioni comunali di giugno, le prime in cui si votò per l’elezione diretta del

sindaco. I risultati confermarono l’ascesa della Lega del Nord e decretarono la

sconfitta della Dc e il crollo del Psi.

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Intanto, le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, dopo un accidentato

percorso, venivano approvate definitivamente per i primi di agosto: introducevano il

sistema maggioritario uninominale ma prevedevano, entrambe, una quota di seggi,

pari al 25%, da assegnare con sistema proporzionale, in omaggio alla vecchia

struttura organizzativa dei partiti. Tuttavia una serie di ulteriori difficoltà derivavano,

per il governo, dalla improvvisa ripresa di gravissimi atti di terrorismo: forse come

risposta ai successi investigativi che avevano portato, fra l’altro, ad importanti arresti

e a svelare alcuni intrecci tra politica e criminalità organizzata.

Così, dall’estate del 1993, alcune forze politiche fra cui la Lega e il Pds,

cominciarono a reclamare nuove elezioni, mentre i partiti della maggioranza

tradizionale, puntavano a ritardarle. Tuttavia, anche i partiti della vecchia

maggioranza pentapartita avevano avviato una trasformazione, che coinvolgeva gli

uomini, e in qualche caso il simbolo e il nome del partito. Il Psi aveva affidato prima

a Giorgio Benvenuto, poi a Ottaviano Del Turco, la segreteria del partito, ma senza

riuscire a dare credibilità alla sua immagine. La Dc, guidata da Mino Martinazzoli,

aveva ripreso il nome di Partito popolare italiano. Ma, un gruppo di dirigenti

democristiani ostili al predominio delle sinistre all’interno del nuovo partito, si

raccolse in una nuova formazione, il Centro cristiano democratico. L’anno

successivo una nuova scissione nel Partito popolare diede vita ai Cristiani

democratici uniti.

Nello stesso periodo, anche a destra, si registrarono rilevanti mutamenti. Il segretario

del Msi, Gianfranco Fini, avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza

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Nazionale: un processo che si sarebbe concluso nel congresso di fondazione di Fiuggi

del gennaio 1995. Fini dichiarò che il fascismo era finito nel 1945, rivendicando,

tuttavia, la positività di alcuni aspetti del ventennio e la statura politica di Mussolini

come uomo di Stato, fino agli errori della politica antisemita e della guerra.

L’elemento di maggior novità nello scenario politico italiano fu l’ingresso in politica

dell’imprenditore Silvio Berlusconi. Nel giro di qualche mese, riuscì non solo a

fondare un proprio movimento, Forza Italia, ma anche a costituire un cartello

elettorale con la Lega Nord nell’Italia settentrionale (Polo della Libertà) e con

Alleanza Nazionale nel Centro-Sud (Polo del buon governo). Confluirono in questo

schieramento i radicali di Pannella, il Ccd ed altri politici di centro. Sul fronte

opposto, il Pds coagulò intorno a sé, nel cartello dei progressisti, tutte le forze della

sinistra. Più isolati e deboli erano il Ppi e il gruppo Segni, collocati al centro fra i due

schieramenti.

Le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 decretarono il successo delle forze

raccolte intorno a Berlusconi. Lo schieramento del centro-destra conquistava, con

largo margine, la maggioranza assoluta alla Camera, ma la mancava di poco al

Senato. Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anche

accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno

delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi come l’unico in grado di

sostituire il ceto di governo, spazzato via dagli scandali di tangentopoli. A poco a

poco si andava strutturando il bipolarismo, quindi la possibilità concreta

dell’instaurarsi di un meccanismo di alternanza fra maggioranza ed opposizione. Nel

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maggio del 1994, Berlusconi formava il nuovo governo con la Lega, Alleanza

nazionale, il Ccd ed altri esponenti di centro. Di fronte a lui vi erano i problemi

ereditati dai governi precedenti: in primo luogo quello di conciliare ripresa

economica, benessere sociale e riduzione della spesa pubblica.

Intanto, nel 1995, altri paesi entravano a far parte della Comunità Europea: Austria,

Svezia, Finlandia. Nel febbraio del 1992, venne firmato nella città olandese di

Maastricht un trattato, che faceva compiere un notevole salto di qualità alle strutture

e agli obiettivi della Cee, trasformandola in Unione europea.

Il trattato di Unione prevedeva, a partire dal gennaio ’93, in coincidenza con

l’attuazione del mercato unico, una serie di interventi volti ad armonizzare le

legislazioni dei paesi membri in molte importanti materie, non solo economiche. I

firmatari s’impegnarono, inoltre, a realizzare entro il ’99 il progetto di una moneta

comune, l’Euro, e di una Banca centrale europea.

La cura di austerità finanziaria, imposta dal trattato di Maastricht, non fece che

mettere a nudo alcuni caratteri distorsivi, che da tempo affiggevano le economie del

vecchio continente, come l’eccesso di spesa pubblica, l’insostenibilità finanziaria, la

rigidità del mercato del lavoro. Nel maggio 1998, l’Unione monetaria europea, Ume,

venne inaugurata ufficialmente con la partecipazione di undici Stati: restarono fuori

la Grecia (che venne poi ammessa nel 2001), la Gran Bretagna, la Danimarca e la

Svezia, che rinviarono l’adesione per loro scelta. Contemporaneamente, fu istituita la

Banca centrale europea (Bce), e si fissò al 1° gennaio 1999 l’entrata in vigore, negli

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scambi finanziari, della moneta unica, destinata, tre anni dopo, a sostituire

interamente le monete nazionali.

Gli Stati, che ad oggi, fanno parte dell’Europa unita sono 27. I problemi non

mancano: difficoltà nell’approvare un testo costituzionale comune, urgenza di

regolare la questione dell’immigrazione, necessità di instaurare un rapporto di

cooperazione con gli Stati Uniti.

Tuttavia, come a suo tempo sosteneva Carlo Cattaneo, anche se il sentiero si

presentava in salita, valeva la pena percorrerlo per raggiungere una metà così grande

quale, appunto, la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa.

Al termine di questo nostro viaggio, mi piace ricordare una frase di Cesare Beccaria,

che racchiude l’essenza del divenire storico, tratta dall’opera Dei delitti e delle pene:

“La storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, tra i quali poche

e confuse e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano”.

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