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LUCA SERIANNI Paradiso, XX 1 Diversi interpreti hanno sottolineato lo stretto rapporto di questo canto, terzo e ultimo del cielo di Giove, col canto precedente, parlando di «un solo grande discorso, affidato a una sola voce, quella dell’aquila, e sullo stesso tema» (Chiavacci Leonardi) o di un «blocco unico» (Paratore). D’altra parte, qualcuno ha additato precisi tratti individualizzanti: nel nostro canto, di intenso e compatto misticismo, sono pressoché assenti le risentite note polemiche che si traducevano nelle invettive che chiudono il XIX (contro i cattivi principi cristiani), come avveniva già nel XVIII (contro il papa Giovanni XXII) e come avverrà ancora nel XXI, con la requisitoria di San Pier Damiani contro i prelati (l’osservazione è di F. Croce). Potremmo notare anche come, dal punto di vista della struttura formale, l’impressione di autonomia si rafforzi ulteriormente. È noto che, quale ne sia il significato o il valore artistico, alcuni canti della Commedia spiccano quasi come componimenti a sé stanti. Ciò può dipendere, banalmente, dalla maggiore o minore fortuna del singolo canto presso i lettori (e per questo ricordiamo spesso i canti più familiari, invece che col numero d’ordine, col nome del personaggio: il canto di Farinata, il canto di Giustiniano ecc.); ma anche da precisi requisiti formali risalenti all’autore. Il fattore di più immediato collegamento tra un canto e l’altro è costituito da un esplicito elemento di raccordo ad apertura di canto con quel che precede. Così avviene, per restare nel Paradiso, col canto IX, che si apre con una didascalia in cui Dante sottolinea vari momenti del discorso rivoltogli da Carlo Martello («Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, / m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni / che ricever dovea la sua semenza») o col canto XII, che si apre riallacciandosi al discorso di San Tommaso, appena conclusosi: «Sì tosto come l’ultima parola / la benedetta fiamma per dir tolse, / a rotar cominciò la santa mola». Altre volte, i canti appaiono formalmente autosufficienti, e come tali sono contrassegnati da precise marche retoriche, nell’incipit, nell’explicit o in entrambi. Esempi del genere sono l’XI, il canto di San Francesco, che si apre con un’apostrofe («O insensata cura de’ mortali» ecc.) e si chiude con un apoftegma («“U’ ben s’impingua se non si vaneggia”») o il XXV, che si apre con la celebre affermazione della propria gloria poetica, venata dalla malinconia dell’ingiusto esilio («Se mai continga che ’l poema sacro») e si chiude con un’esclamazione sulla limitazione della vista che, abbagliata dallo splendore di San Giacomo, non permette al pellegrino di vedere Beatrice («Ahi quanto ne la mente mi commossi» ecc.). Ora, non c’è dubbio che il canto XX rientri per l’appunto in questa seconda tipologia. Non solo mancano riferimenti anaforici al canto precedente, ma muta decisamente il tono complessivo. Il XIX si era chiuso con la cruda notazione del malgoverno di Cipro, il quale fa sì che «Niccosïa e Famagosta / per la lor bestia si lamenti e garra»; col nuovo canto, delle scorie dell’aiuola terrena non c’è più traccia: il silenzio dell’aquila coincide con la restituzione al contesto paradisiaco della sua abituale e fervorosa letizia, sottolineata come di consueto dalla luminosità degli spiriti e dall’ineffabile dolcezza dei loro canti. Allo stesso intento di marcare uno stacco con quel che precede risponde l’invenzione figurale e retorica: all’apertura solennemente intonata su un paragone imperniato sulla luce come figurante fa da riscontro la chiusura su un’altra immagine, questa volta musicale (vv. 1-30): Quando colui che tutto ’l mondo alluma 1 Una versione più ampia della presente “lectura”, con l’esplicitazione dei rinvii bibliografici, si legge in «Filologia e critica», XXVIII (2003), pp. 3-22. Il testo è quello di G. Petrocchi, (La Commedia secondo l’antica vulgata, 4 voll., Milano, Mondadori, 1966-1968).

Lett. dantesche 2 - Indiresplendore (con significativa concentrazione negli ultimi canti del Paradiso: XXX 97-99, XXXI 28-30, XXXIII 67-75 e 124-26), la Sua natura trinitaria (Par.,

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Page 1: Lett. dantesche 2 - Indiresplendore (con significativa concentrazione negli ultimi canti del Paradiso: XXX 97-99, XXXI 28-30, XXXIII 67-75 e 124-26), la Sua natura trinitaria (Par.,

LUCA SERIANNI

Paradiso, XX1

Diversi interpreti hanno sottolineato lo stretto rapporto di questo canto, terzo e ultimo del cielo di Giove, col canto precedente, parlando di «un solo grande discorso, affidato a una sola voce, quella dell’aquila, e sullo stesso tema» (Chiavacci Leonardi) o di un «blocco unico» (Paratore). D’altra parte, qualcuno ha additato precisi tratti individualizzanti: nel nostro canto, di intenso e compatto misticismo, sono pressoché assenti le risentite note polemiche che si traducevano nelle invettive che chiudono il XIX (contro i cattivi principi cristiani), come avveniva già nel XVIII (contro il papa Giovanni XXII) e come avverrà ancora nel XXI, con la requisitoria di San Pier Damiani contro i prelati (l’osservazione è di F. Croce).

Potremmo notare anche come, dal punto di vista della struttura formale, l’impressione di autonomia si rafforzi ulteriormente. È noto che, quale ne sia il significato o il valore artistico, alcuni canti della Commedia spiccano quasi come componimenti a sé stanti. Ciò può dipendere, banalmente, dalla maggiore o minore fortuna del singolo canto presso i lettori (e per questo ricordiamo spesso i canti più familiari, invece che col numero d’ordine, col nome del personaggio: il canto di Farinata, il canto di Giustiniano ecc.); ma anche da precisi requisiti formali risalenti all’autore. Il fattore di più immediato collegamento tra un canto e l’altro è costituito da un esplicito elemento di raccordo ad apertura di canto con quel che precede. Così avviene, per restare nel Paradiso, col canto IX, che si apre con una didascalia in cui Dante sottolinea vari momenti del discorso rivoltogli da Carlo Martello («Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, / m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni / che ricever dovea la sua semenza») o col canto XII, che si apre riallacciandosi al discorso di San Tommaso, appena conclusosi: «Sì tosto come l’ultima parola / la benedetta fiamma per dir tolse, / a rotar cominciò la santa mola».

Altre volte, i canti appaiono formalmente autosufficienti, e come tali sono contrassegnati da precise marche retoriche, nell’incipit, nell’explicit o in entrambi. Esempi del genere sono l’XI, il canto di San Francesco, che si apre con un’apostrofe («O insensata cura de’ mortali» ecc.) e si chiude con un apoftegma («“U’ ben s’impingua se non si vaneggia”») o il XXV, che si apre con la celebre affermazione della propria gloria poetica, venata dalla malinconia dell’ingiusto esilio («Se mai continga che ’l poema sacro») e si chiude con un’esclamazione sulla limitazione della vista che, abbagliata dallo splendore di San Giacomo, non permette al pellegrino di vedere Beatrice («Ahi quanto ne la mente mi commossi» ecc.).

Ora, non c’è dubbio che il canto XX rientri per l’appunto in questa seconda tipologia. Non solo mancano riferimenti anaforici al canto precedente, ma muta decisamente il tono complessivo. Il XIX si era chiuso con la cruda notazione del malgoverno di Cipro, il quale fa sì che «Niccosïa e Famagosta / per la lor bestia si lamenti e garra»; col nuovo canto, delle scorie dell’aiuola terrena non c’è più traccia: il silenzio dell’aquila coincide con la restituzione al contesto paradisiaco della sua abituale e fervorosa letizia, sottolineata come di consueto dalla luminosità degli spiriti e dall’ineffabile dolcezza dei loro canti. Allo stesso intento di marcare uno stacco con quel che precede risponde l’invenzione figurale e retorica: all’apertura solennemente intonata su un paragone imperniato sulla luce come figurante fa da riscontro la chiusura su un’altra immagine, questa volta musicale (vv. 1-30):

Quando colui che tutto ’l mondo alluma 1 Una versione più ampia della presente “lectura”, con l’esplicitazione dei rinvii bibliografici, si legge in «Filologia e critica», XXVIII (2003), pp. 3-22. Il testo è quello di G. Petrocchi, (La Commedia secondo l’antica vulgata, 4 voll., Milano, Mondadori, 1966-1968).

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de l’emisperio nostro sì discende, 3 che ’l giorno d’ogne parte si consuma,

lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente

6 per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente, come ’l segno del mondo e de’ suoi duci

9 nel benedetto rostro fu tacente; però che tutte quelle vive luci, vie più lucendo, cominciaron canti

12 da mia memoria labili e caduci. O dolce amor che di riso t’ammanti, quanto parevi ardente in que’ flailli,

15 ch’avieno spirto sol di pensier santi! Poscia che i cari e lucidi lapilli ond’io vidi ingemmato il sesto lume

18 puoser silenzio a li angelici squilli, udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giù di pietra in pietra,

21 mostrando l’ubertà del suo cacume. E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e sì com’al pertugio

24 de la sampogna vento che penètra, così, rimosso d’aspettare indugio, quel mormorar de l’aguglia salissi

27 su per lo collo, come fosse bugio. Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole,

30 quali aspettava il core ov’io le scrissi.

L’immagine introduttiva contrappone la luce sfolgorante del sole-aquila a quella, che ne

deriva per riflesso, delle molteplici stelle-singoli spiriti. Col tramonto del Sole (o della Luna, come secoli dopo avrebbe immaginato Leopardi), l’impressione di oscurità è solo momentanea: altri astri interverranno presto a restituire la luce al mondo.

La suggestione poetica che nasce da questa vicenda astronomica è già nella poesia classica; in Dante l’invenzione si carica di significati aggiunti. Il sole, oltre che figurante dell’aquila, rinvia a Dio, cioè a quel «sol che v’allumò e arse», come Dante in veste di personaggio aveva detto a Cacciaguida (Par., XV 76); il verbo allumare – un gallicismo lirico, il primo di una serie ben rappresentata in questo canto – indica di norma in Dante un’illuminazione non solo fisica ma anche spirituale, superando la prospettiva strettamente amorosa caratteristica della poesia dugentesca.2

Questa immagine visiva suscita, con un trapasso immediato, un’immagine uditiva. L’«atto del ciel», cioè la distribuzione e la moltiplicazione delle fonti luminose dopo il tramonto del sole, evoca il passaggio da un’unica fonte sonora – l’aquila – alla molteplicità dei beati che intonano canti sublimi. Si noterà che, mentre nella prima immagine c’è perfetta corrispondenza tra l’uno e i molti (la luce dell’aquila è precisamente la stessa che irradia dai singoli spiriti, ciascuno dei quali la riflette), nella seconda immagine ciò non avviene: le parole dell’aquila, tramate su precisi snodi argomentativi, sono perfettamente presenti a Dante, che le riferisce così come le ha udite (fissandole nel cuore, «ov’io le scrissi»); i canti dei beati, invece, «labili e caduci», non riescono a essere trattenuti dalla sua mente.

2 Per esempio: «de la divina fiamma / onde sono allumati più di mille» (Purg., XXI 95-96; il riferimento è all’Eneide e al suo potenziale simbolico-escatologico); «Beati cui alluma / tanto di grazia» (Purg., XXIV 151-52).

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Importa sottolineare il modo in cui si presenta qui il topos dell’ineffabilità. Dante conosce due diverse declinazioni di questo motivo. La prima è quella, di tipica matrice retorica, del poeta che protesta, di fronte alla complessità o all’eccezionalità della situazione che intende descrivere, la povertà dei propri mezzi espressivi o dello stesso linguaggio umano.3 La seconda è quella – esclusiva di chi abbia intrapreso un viaggio ultraterreno che si conclude con la visione di Dio – che consiste nel constatare come le straordinarie immagini della letizia e della gloria del Paradiso non si siano fissate nella mente del pellegrino, ancora legato ai suoi limiti terreni, e quindi non siano deversabili a beneficio dei lettori. La «mente che non erra» poteva ben rappresentare «la guerra / sì del cammino e sì de la pietate» sperimentata nell’Inferno; ma la pace inesprimibile del Paradiso può essere solo affermata per analogia attingendo al serbatoio figurale, non già descritta puntualmente; tanto più quanto più ci si avvicina al coronamento del mistico percorso ultraterreno.4

L’invenzione figurale si interrompe per dar luogo a un’invocazione rivolta alla divinità. Come avviene quasi sempre nella Commedia, le allocuzioni (per bocca di Dante narratore o di un personaggio) non sono rivolte direttamente a Dio, ma a una sua qualità, manifestazione o attributo. Se qui è in primo piano Dio come amore (come in Par., I 73-81), altrove emergono la Sua infinita sapienza (Inf., XIX 10-12), il potere di punire il peccato (Inf., XIV 16-18 e XXIV 119-20, Par., XXVII 57), il Suo splendore (con significativa concentrazione negli ultimi canti del Paradiso: XXX 97-99, XXXI 28-30, XXXIII 67-75 e 124-26), la Sua natura trinitaria (Par., XV 47-48). Di tipo affine l’invocazione rivolta, in questo stesso canto (vv. 130-132), alla predestinazione, ossia ancora una volta a Dio in quanto supremo giudice della salvezza. L’allocuzione diretta è molto più rara: prescindendo dalla parafrasi evangelica del Padre nostro (Purg., XI 1-24) e dalla frase blasfema di Vanni Fucci (Inf., XXV 39) – entrambi casi speciali, pur così diversi eziologicamente – si possono menzionare un esempio di allocuzione con esplicita nominazione della Divinità (nell’esclamazione dell’anonimo pellegrino di Par., XXXI 107-108: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?»), un altro esempio con l’antonomastico Signore (nel discorso di Ugo Capeto in Purg., XX 94: «O Segnor mio ecc.» ) e due ricorrenze in cui si attinge al repertorio classico (Purg., VI 118ss.: «E se licito m’è, o sommo Giove») o insieme classico e vetero-testamentario (Par., XIV 96: «ch’io dissi: “O Elïòs che sì li addobbi!», con contaminazione del greco hélios e dell’ebraico ely).

Al v. 14 parevi ha il valore di ‘apparivi con evidenza’, come il pare del famoso sonetto (Tanto gentile e tanto onesta pare) e a differenza del parve del v. 19 che vuol dire, come oggi, ‘sembrò’. Ben altrimenti ostico è l’hapax flailli.

Diciamo sùbito che la tentazione di promuovere a testo favilli, recato marginalmente dalla tradizione manoscritta, deve essere respinta. Respinta per ragioni ecdotiche, trattandosi di un’evidente banalizzazione, non per il senso: che quegli spiriti beati possano essere stati definiti ‘fiaccole luminose’, ‘scintille di luce’ non farebbe davvero difficoltà. Flailli è stato spiegato in vario modo: come adattamento del francese antico flavel ‘flauto’ (Parodi) o flael nell’accezione ricostruita di ‘torcia’ (Pagliaro) o, infine, direttamente dal lat. flabellum ‘ventaglio’ (Carsaniga). Quest’ultima ipotesi – già affacciata in verità ai primi del Novecento – si richiama a un uso liturgico del flabello, che aveva lo scopo non solo di allontanare materialmente le mosche, ma soprattutto quello, ideale, di salvaguardare il sacerdote dalle tentazioni diaboliche che potevano distrarlo durante la celebrazione della messa; l’aquila, che alla fine della glorificazione della giustizia moverà con gioia le ali come un’allodola, le moverebbe all’inizio come flabelli.

Ove non si optasse per quest’ultima interpretazione, quel che è certo è che, per discriminare tra le prime due, il contesto, variamente invocato dai sostenitori dell’una o dell’altra ipotesi, non 3 È un tema dunque che può figurare in qualsiasi cantica, compreso l’Inferno. Per citare un famoso esempio di questo topos, si pensi all’incipit di Inferno, XXVIII, quando Dante ricorre a un esordio di ben 21 versi per sottolineare l’impossibilità di descrivere adeguatamente lo strazio dei seminatori di discordia («Chi poria mai pur con parole sciolte» ecc.). 4 In effetti, il topos dell’ineffabilità legata al carattere soprannaturale dell’esperienza vissuta si addensa nella seconda parte del Paradiso, pur essendo stato proclamato fin dall’inizio («perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire»: Par., I 7-9); oltre al luogo che stiamo commentando vd. Par., XVIII 10-12; XXIII 43-45; XXX 22-33; XXXIII 55-75.

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sarebbe decisivo. Proprio la stretta compenetrazione di sollecitazioni visive e auditive delle immagini iniziali fa sì che flailli sia altrettanto plausibile come ‘strumento musicale’ (Parodi) o come ‘fiaccola’ (Pagliaro).

I beati sono qui definiti cari e lucidi lapilli (v. 16): il sostantivo fa riferimento all’area semantica delle pietre preziose, largamente sfruttata per la designazione delle anime del Paradiso; il sintagma nel suo insieme riprende le sillabe ca e la di canti [...] labili e caduci, apparentando fonicamente cantori e canto. Quando gli «angelici squilli» tacciono, Dante avverte un nuovo suono, dolce e indistinto, che gli evoca l’immagine dell’acqua mormorante di un purissimo ruscello. A questa similitudine ne subentra un’altra (la quarta, in appena 27 versi), più audace e strettamente collegata al contesto. La voce dell’aquila, che riprende a parlare, è messa in parallelo con la genesi del suono all’interno di due strumenti musicali. La rappresentazione dell’aquila ora «assume contorni più definiti evocanti la fisicità con scelte lessicali più realistiche» (Battistini), come avviene con becco adoperato accanto a rostro e, appunto, con figuranti come la cetra e la zampogna.5 La doppia similitudine risponde certo ad esigenze stilistiche legate all’elaborata orchestrazione del canto; ma non solo a questo. Come accade in altri casi,6 l’accumulo figurale dipende dal carattere complesso o insolito della scena rappresentata: Dante individua qui il momento in cui la voce prende forma nel collo di un’aquila che è insieme simbolo e realtà, per poi tradursi in parole perfettamente chiare, anzi definitive nei loro calchi su modelli testuali biblici e scolastici (vv. 31-72):

«La parte in me che vede e pate il sole ne l’aguglie mortali», incominciommi,

33 «or fisamente riguardar si vole, perché d’i fuochi ond’io figura fommi, quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,

36 e’ di tutti lor gradi son li sommi. Colui che luce in mezzo per pujpilla, fu il cantor de lo Spirito Santo,

39 che l’arca traslatò di villa in villa: ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio,

42 per lo remunerar ch’è altrettanto. Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che più al becco mi s’accosta,

45 la vedovella consolò del figlio: ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l’esperïenza

48 di questa dolce vita e de l’opposta. E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l’arco superno,

51 morte indugiò per vera penitenza: ora conosce che ’l giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco

54 fa crastino là giù de l’odïerno. L’altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fé mal frutto,

57 per cedere al pastor si fece greco: ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li è nocivo,

5 Anche il bugio ‘bucato, cavo’ del v. 27 apparterrà al registro basso: «vive in Toscana» (annota il Tommaseo); «voce vivissima nel parlar toscano del contado» (ribadisce il Casini). La forma sembra un adattamento alla fonetica toscana del settentrionale buso, anch’esso peraltro circolante in Toscana almeno dal XV secolo. 6 Per esempio per le due similitudini in sequenza con cui Dante illustra la metamorfosi dei ladri (Inf., XXV 61-66) o per le tre in cui si rappresenta il rapido dissolversi nella memoria della suprema visione di Dio (Par., XXXIII 58-66).

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60 avvegna che sia ’l mondo indi distrutto. E quel che vedi ne l’arco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora

63 che piagne Carlo e Federigo vivo: ora conosce come s’innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante

66 del suo fulgore il fa vedere ancora. Chi crederebbe giù nel mondo errante che Rifëo Troiano in questo tondo

69 fosse la quinta de le luci sante? Ora conosce assai di quel che ’l mondo veder non può de la divina grazia,

72 ben che sua vista non discerna ’l fondo».

Comincia ora la parte centrale del canto, quella in cui il mistero dell’insondabile giustizia divina è prima di tutto raffigurato dai sei spiriti che compongono l’occhio dell’aquila, «rappresentata col capo di profilo, come s’usava nelle insegne araldiche» (Casini): uno ne costituisce la pupilla (Davide) e cinque ne disegnano il ciglio (Traiano, Ezechia – l’unico per la cui identificazione non vi sia certezza assoluta –, Costantino, Guglielmo il Buono, Rifeo).

Si è discusso, specie in passato, di due nomi che Dante avrebbe potuto inserire, in questa sua suprema celebrazione della giustizia, e che invece mancano: quelli di Virgilio, e di Enea, i «grandi assenti» del cielo di Giove (Toffanin). Fino al punto di argomentare che, se l’occhio visibile dell’aquila è soltanto uno, ciò si dovrebbe al fatto che, se fossero stati visibili entrambi gli occhi, Dante, dopo aver celebrato Davide, «non avrebbe potuto collocare nella pupilla dell’altro, se non un corrispondente personaggio imperiale: e chi altro corrispondente al cantor dello Spirito Santo se non il cantor dell’impero?» (sono ancora parole del Toffanin).

Ora, anche a non tener conto dei luoghi in cui Dante si sofferma sulla dolorosa, ma inevitabile, esclusione di Virgilio dal Paradiso,7 sembra opportuno commentare le presenze piuttosto che le assenze. Tanto più in un canto come questo, nel quale si insiste così fortemente sull’imperscrutabilità delle scelte divine e sull’impossibilità da parte dell’uomo di prevedere gli eletti e i dannati. A voler sottilizzare, potremmo osservare che proprio l’assenza di Virgilio e di Enea può servire a Dante per sovvertire le attese dei suoi lettori (e dei suoi commentatori) e per ribadire il mistero della predestinazione

La scelta dei sei personaggi chiamati a rappresentare i massimi esempi di giustizia può essere letta secondo diverse linee interpretative. Vi si può individuare una vera e propria «storia dell’imperium christianum, nei suoi archetipi biblico (David e Ezechia) e classico (Rifeo) e nelle sue tappe evolutive essenziali, romana (Traiano), romano-cristiana (Costantino) e feudale-cavalleresca (Guglielmo II)» (Picone); oppure si può sottolineare la studiata proporzione dei numeri (Casini, Battistini): i sei personaggi costituiscono tre coppie (due ebrei, due pagani, due cristiani) e hanno una dotazione di sei versi per ciascuno. Molto diversa la fama dei sei personaggi e anche la rispettiva presenza nell’opera dantesca: massima per Costantino e Davide (nessun’altra figura dell’Antico Testamento, come annota la Chiavacci Leonardi, è ricordata nella stessa misura da Dante), minima per Rifeo, un nome che ricorre solo nell’Eneide e che né Dante né le sue eventuali fonti mediolatine menzionano altrimenti. Ma vediamo, in particolare, qual è la strutturazione di queste terzine. Ciascun medaglione è costruito in modo simile, ma non uguale agli altri. La prima terzina contiene un elemento deittico, che individua la posizione del beato («colui che luce», «colui che più al becco mi s’accosta», «e quel che segue», «l’altro che segue», «e quel che vedi»). Solo per Rifeo il procedimento si interrompe e alla pura descrizione subentra un’interrogativa retorica («Chi crederebbe giù» ecc.), che vuole sottolineare l’imprevedibilità di una presenza siffatta nel Paradiso. All’individuazione del beato segue, per così dire, la motivazione del premio eterno che gli è stato concesso. Ancora una 7 Cfr. soprattutto Inf., IV 40 e Purg., VII 7-8, 25-37.

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volta Rifeo ha un trattamento a parte e parrebbe contare più come simbolo dell’imperscrutabilità della giustizia divina che non come individuo; dei suoi meriti terreni non si dice nulla qui e occorrerà aspettare il v. 121 per sapere che «tutto suo amor là giù pose a drittura».

La seconda terzina esordisce con un’anafora ribadita per sei volte («ora conosce»): ai passati remoti relativi alle vicende terrene, puntuali e senza più rapporto col presente («fu il cantor», «consolò», «morte indugiò» ecc.), subentra un presente acronico, riferito alla dimensione dell’eternità. Inoltre, l’ora conosce ribadisce, ancora una volta, il valore della grazia e l’impossibilità di prevedere la salvezza a partire dalla fama, buona o cattiva (o magari assente), che ha contrassegnato la vita terrena. Così Traiano è salvo per un singolo atto di giustizia reso a una «vedovella»: un fortunato episodio leggendario di origine altomedievale, che Dante aveva già celebrato diffusamente in Purg., X 73-96; Costantino è salvo nonostante le nefaste conseguenze della sua donazione, che ha segnato – nel giudizio di Dante – insieme l’inizio della corruzione della Chiesa e il fatale indebolimento dell’impero, con lo spostamento della capitale in oriente (ed è verosimile che, come pensava I. Del Lungo, anche il greco di «per cedere al pastor si fece greco» abbia una sfumatura negativa).

Ma è soprattutto Rifeo a costituire una sorpresa. Sia perché pagano, sia perché (a differenza di Traiano, la cui salvazione era stata ammessa e variamente argomentata da san Tommaso) la sua fama poggia esclusivamente sulla menzione fattane da Virgilio, che ne parla fuggevolmente tra i compagni di Enea in due luoghi del secondo canto, per poi menzionarne la morte ai vv. 426-428: «[...] cadit et Ripheus, iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi / (dis aliter visum)». Rifeo – lo ha osservato in particolare il Paratore – rappresenterà «l’ultimo e altissimo omaggio tributato da Dante al suo Virgilio», quasi un risarcimento della sua condanna al Limbo, che si aggiunge (sommessamente) all’esplicito e diffuso riconoscimento di Stazio nel Purgatorio (XXI 93-102 e XXII 64-99). E si potrà tener conto dell’inciso virgiliano dis aliter visum: Dante avrà forse voluto contrapporre all’insensibilità degli «dei falsi e bugiardi» la superiore giustizia del vero Dio dei cristiani, che ha premiato Rifeo (è ancora un’osservazione del Paratore).

Tuttavia, non si può prescindere dal fatto che nell’Eneide quello di Rifeo è poco più di un nome tra i tanti che nei poemi epici vengono addensati nelle scene di battaglia, a suggerire le dimensioni della strage. Proprio in questa sua condizione di quasi-anonimo sta, se non m’inganno, una delle ragioni della sua presenza in compagnia di personaggi di altissima fama, da Davide a Guglielmo II: Rifeo offre a Dante l’occasione per ribadire un concetto fondamentale del Cristianesimo, quasi una pre-condizione per accedere alla virtù, vale a dire il valore dell’umiltà.8

Non solo. Due dei sei personaggi qui rappresentati, Davide e Traiano, figurano – l’uno accanto all’altro, come qui – anche nel Purgatorio, nelle rappresentazioni esemplari scolpite nella parete della prima cornice. L’associazione delle due virtù, la giustizia e l’umiltà, è espressamente richiamata nel caso di Traiano: il valore dell’episodio della vedovella non sta tanto nell’atto di giustizia compiuto in quella circostanza, quanto nell’umiltà di cui l’imperatore dà prova, occupandosi personalmente delle ragioni di una donnetta e anteponendo quelle ai suoi impegni militari: «giustizia vuole e pietà mi ritene» è la divisa di Traiano in questa occasione (Purg., x 93).

La tensione lirica dell’esordio di questo canto si traduce anche nella preziosa selezione di gallicismi: allumare, parvente e flailli (se vale ‘flauti’). Nella presentazione dei sei beati esemplari – come, a maggior ragione, nella successiva argomentazione teologica dell’aquila – il provenzale e il francese della lirica moderna cedono il passo al latino filosofico e scientifico: circunferenza,9 crastino, dedutto. Ha invece un’ascendenza nella lirica della Vita nova la coppia piangere-plorare dei vv. 62-63: «Piangete amanti, poi che piange Amore, / udendo qual cagion lui fa plorare». Ma si noterà che, mentre nel sonetto giovanile plorare risponde a una semplice esigenza di variatio (semanticamente coincidendo puntualmente col precedente piangere), qui i verbi appaiono specializzati: il plorare di siciliani e continentali ha l’accezione di ‘rimpiangere’ (il verbo non 8 Un altro esempio in cui una «persona umile e peregrina» è esaltata nel Paradiso, al punto da chiudere uno dei canti più solenni e ideologicamente impegnati, quello di Giustiniano, è Romeo di Villanova (VI, 133-142). 9 Dante – annota il Tommaseo – «non teme le parole scientifiche per lunghe che siano».

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esisteva ancora all’epoca di Dante) nei confronti del buon re Guglielmo; il loro piangere gl’indegni successori ha l’accezione, oggi desueta, di ‘lamentare, deprecare’ (come glossa il Sapegno). Proseguiamo con i vv. 73-84:

Quale allodetta che ’n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta

75 de l’ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta de l’etterno piacere, al cui disio

78 ciascuna cosa qual ell’è diventa. E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio lì quasi vetro a lo color ch’el veste,

81 tempo aspettar tacendo non patio, ma de la bocca, «Che cose son queste?», mi pinse con la forza del suo peso:

84 per ch’io di coruscar vidi gran feste.

Dopo aver rivelato i nomi dei sei spiriti e in particolare quello di Rifeo, il meno prevedibile di tutti, l’aquila tace, effondendo la propria gioia sublime. Il celebre paragone dell’allodetta trae lo spunto di partenza dal provenzale di Bernardo di Ventadorn (Can vei la lauzeta mover); ma lo sviluppo dell’immagine non potrebbe essere più diverso. Nel trovatore il rapimento gioioso della lodoletta che oblia sé stessa abbandonandosi all’aria introduce un fiero contrasto con l’io poetante, travolto dalle pene amorose; in Dante l’immagine di letizia è perfettamente congruente con lo specifico figurato (l’aquila) e col contesto complessivo. A proposito di questa similitudine, converrà sottolineare un elemento che non è affatto usuale, né in Dante (né, prima di lui, nei poeti siciliani o stilnovisti) e che contribuisce alla particolare suggestione di questa immagine: ossia il fatto che il figurante uccellino sia evocato per la dolcezza del suo canto. Gli uccelli suscitano abitualmente altre associazioni nella fantasia dantesca; limitando l’esemplificazione al Paradiso: l’affetto tra compagni (Par., XXV 19-24), l’amore materno (XXIII 1-12), l’ipotetico scambio delle relative nature (XXVII 13-15), un particolare movimento (XVIII 73-78; XXI 34-42). Altri due paragoni uccellini sono dedicati allo stesso figurato di cui ci stiamo occupando, l’aquila, e in situazioni assai simili alla nostra: in XIX 34-36 l’aquila manifesta la propria gioia accingendosi a soddisfare i dubbi di Dante a proposito della giustificazione per fede: «Quasi falcone ch’esce dal cappello, / move la testa e con l’ali si plaude, / voglia mostrando e faccendosi bello»; in XIX 91-96, a conclusione del suo discorso, l’aquila rinnova la sua letizia caritatevole nei confronti di Dante: «quale sovresso il nido si rigira / poi c’ha pasciuti la cicogna i figli».

La struttura e la funzione del paragone dei vv. 73-78 sono chiare, anche se la puntuale interpretazione della seconda parte non è agevole. I punti critici sono almeno due: l’interpretazione di piacere, che può valere ‘bellezza’ o ‘volontà’ e la costruzione del periodo (imago può alludere senz’altro all’aquila – già definita la bella image a XIX 2 – e in questo caso il successivo complemento indiretto presuppone un sottinteso contenta; ma potrebbe anche reggere dell’imprenta dell’eterno piacere, costituendo dunque una più complessa perifrasi per ‘aquila’). Ritengo più probabili le prime alternative di ciascun dilemma; e più efficace di altre la parafrasi-commento del Chimenz: «l’aquila (l’imago) mi sembrò tacere contenta dell’impronta di Dio, eterno piacere, della quale impronta aveva parlato alla fine del suo discorso».

L’eccezionalità della salvezza di due pagani – sottolineata dalla struttura del precedente discorso dell’aquila e tradotta visivamente in un paragone che sottolinea la gioia di rivelare a Dante una verità così ardua e misteriosa – trova espressione anche nelle parole di Dante-personaggio: «Che cose son queste?»; parole che sembrano quasi sfuggire alla volontà del parlante, sospinte come sono dall’urgenza del suo stupore.10 È una frase con «un timbro di immediatezza popolare

10 Si noti che [il] dubbiar mio è il soggetto sia di patìo sia di pinse.

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unico nel parlare paradisiaco» (Chiavacci Leonardi), che conferma ciò che le anime beate già sanno, dal momento che il «dubbiare» di Dante è «quasi vetro a lo color ch’el veste». L’esplicita richiesta di Dante dà luogo a un lungo intervento del benedetto segno (51 versi) sulla dottrina della predestinazione (vv. 85-138):

Poi appresso, con l’occhio più acceso, lo benedetto segno mi rispuose

87 per non tenermi in ammirar sospeso: «Io veggio che tu credi queste cose perch’io le dico, ma non vedi come;

90 sì che, se son credute, sono ascose. Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate

93 veder non può se altri non la prome. Regnum celorum violenza pate da caldo amore e da viva speranza,

96 che vince la divina volontate: non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta,

99 e, vinta, vince con sua beninanza. La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perché ne vedi

102 la regïon de li angeli dipinta. D’i corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede

105 quel d’i passuri e quel d’i passi piedi. Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede già mai a buon voler, tornò a l’ossa;

108 e ciò di viva spene fu mercede: di viva spene, che mise la possa ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,

111 sì che potesse sua voglia esser mossa. L’anima glorïosa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco,

114 credette in lui che potëa aiutarla; e credendo s’accese in tanto foco di vero amor, ch’a la morte seconda

117 fu degna di venire a questo gioco. L’altra, per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura

120 non pinse l’occhio infino a la prima onda, tutto suo amor là giù pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse

123 l’occhio a la nostra redenzion futura; ond’ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo più del paganesmo;

126 e riprendiene le genti perverse. Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota,

129 dinanzi al battezzar più d’un millesmo. O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti

132 che la prima cagion non veggion tota! E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,

135 non conosciamo ancor tutti li eletti;

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ed ènne dolce così fatto scemo, perché il ben nostro in questo ben s’affina,

138 che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Anche se il discorso dell’aquila dà largo spazio a una componente narrativa (la vicenda della salvazione di Traiano e Rifeo, che si presta bene a illustrare il tema della predestinazione divina e della sua insondabilità da parte dell’uomo), questa parte del canto condivide le caratteristiche soluzioni espressive messe in atto nelle sezioni filosofico-dottrinali. Due soprattutto: il primo è il ricorso al latino scolastico, adattato al volgare (quiditate, prome, e, più notevoli perché di pertinenza morfologica, passi e passuri) o mantenuto nella veste originaria (Regnum celorum). Le quattro forme italianizzate devono a Dante la loro fortuna, più o meno esile, nella lingua italiana. Interessante, per mostrare peso della Commedia nella tradizione poetica successiva, il caso di prome ‘estrae, manifesta’: gli esempi ricavabili dai dizionari storici e dagli archivi elettronici si riducono pressoché interamente alla stessa forma usata da Dante (la 3a persona del presente indicativo), nella medesima posizione di rimante, denunciando così il riconosciuto modello. Nell’espressione «quel d’i passuri e quel d’i passi piedi», che riprende il v. 105 del canto XIX («né pria né poi ch’el si chiavasse al legno») modificandone le soluzioni espressive,11 passo (da PASSUS, participio di PATIOR) era stato già usato da Guittone; per passuro si può citare un esempio di poco successivo a quello dantesco, nella Nuova Cronica di G. Villani, là dove il cronista riporta un sermone di Roberto d’Angiò ai Fiorentini (Cristo passuro). Si possono ricordare anche il tota del v. 132 – già adoperato in Par., VII 85, sempre in rima – e il latinismo semantico aspetti ‘viste’ del v. 131, che peraltro era largamente usato. Non è invece un latinismo pate ‘patisce’, forma che presenta la consueta oscillazione, comune nei primi secoli, tra forme incoative e non incoative nei verbi in -ire (concepe/concepisce, pere/perisce ecc.).

Come si è visto, il latino può convivere col volgare come accade nel v. 94, il cui primo emistichio ripete un passo evangelico (Mt 11 12), commentato nel secondo emistichio e nei due versi successivi. Il Porena si è chiesto: «Perché Dante cita il passo evangelico metà letteralmente e metà traducendo? Probabilmente solo per poterne fare un endecasillabo». In realtà, credo che qui agisca lo stesso impulso che consigliava ai predicatori – da Giordano da Pisa fino almeno al Settecento – l’inserimento di brani in latino anche nelle prediche di più forte colorito popolare (basti pensare a san Bernardino da Siena) con intento veridittivo: se espressamente richiamata, la parola sacra è il punto di partenza, e può essere glossata, commentata e amplificata, ma non completamente sostituita. La stessa esigenza può valere quando Dante riprende tipiche argomentazioni scolastiche, pur senza rifarsi direttamente a una fonte precisa (per esempio in Par., XIII 100: «non, si est dare primum motum esse», nel discorso di san Tommaso sulla sapienza di Salomone). In altri casi, il latino risponde all’intento di innalzare il registro, adeguandolo a momenti di particolare solennità: l’esempio più tipico è certo nel saluto di Cacciaguida (Par., XV 28-30); ma si pensi anche alla formula di ringraziamento a Dio pronunciata da Giustiniano all’inizio del canto VII, in cui Dante mescola liberamente formule liturgiche con ebraismi rari (malacoth) e neoformazioni medievali (superillustrans).

L’altro elemento che può considerarsi tipico delle sezioni dottrinali è un istituto stilistico: il poliptoto, e in generale la ripresa della stessa parola o di parole corradicali nel medesimo verso o in versi contigui.

Non si tratta di giochi retorici fini a sé stessi e nemmeno delle consuete procedure nobilitanti che segnano momenti di particolare significato (come avveniva, per citare un esempio di questo stesso canto, per le anafore e i parallelismi con i quali l’aquila presenta i sei beati). La necessità di scandagliare questioni teologiche complesse o, come in questo caso, dai risvolti apparentemente paradossali, impone che le parole chiave del ragionamento siano ribadite e, per così dire, sviscerate 11 Da un lato si vira in direzione latineggiante (con l’ardito participio futuro passuri), dall’altro si fa emergere un particolare realistico, quello dei piedi inchiodati alla croce.

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nella loro funzione di snodi argomentativi. Ripercorrendo gli esempi appena citati, potremo facilmente cogliere la concentrazione delle figure etimologiche in corrispondenza dei capisaldi della dottrina della predestinazione, di cui Dante vuol dare qui una robusta sintesi. Così è per il diverso vedere – cioè per l’accesso alle verità soprannaturali per via di diretta e immediata esperienza, non sulla base di un ragionamento probabilistico – da parte dei beati e da parte di Dante (vv. 88-89: «Io veggio che tu credi queste cose / perch’io le dico, ma non vedi come»); per il credere fondato su un atto di fede, anche se l’oggetto rimane inconoscibile (vv. 88-90: «[...] che tu credi queste cose / [...] / sì che, se son credute, sono ascose»); per la distinzione tra volontà assoluta e volontà condizionata in Dio (vv. 98-99: «ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza»); per la fede di Traiano redivivo e la carità che lo rese degno del Paradiso (vv. 114-115: «credette in lui che potëa aiutarla; / e credendo s’accese in tanto foco»); per l’impossibilità, per l’occhio umano, di penetrare nel mistero della Grazia divina, che permise all’occhio di Rifeo di antivedere la futura Redenzione (vv. 120-123: «non pinse l’occhio infino a la prima onda / [...] / l’occhio a la nostra redenzion futura»); per il battesimo, il primo e fondamentale sacramento cristiano, che Rifeo, grazie alla virtù teologali da lui possedute, poté ricevere più di mille anni prima della sua istituzione (vv. 127-129: «li fur per battesmo / [...] / dinanzi al battezzar più d’un millesmo»); per il completo adeguamento del beato alla volontà di Dio e al bene da Lui emanante (vv. 137-138: «perché il ben nostro in questo ben s’affina, / che quel che vole Iddio, e noi volemo»). Questa correlazione tra densità argomentativa filosofico-teologica e rilievo espressivo attraverso il poliptoto è largamente praticata nel Paradiso. Ad esempio: V 7-9, 27, 50 (Beatrice illustra la dottrina del voto: «Io veggio ben sì come già resplende / ne l’intelletto tuo l’etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende»; «che Dio consenta quando tu consenti»; «pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta / si permutasse»); VII 20, 27, 50-51, 106-109 (Beatrice illustra la dottrina dell’Incarnazione e della Passione: «come giusta vendetta giustamente / punita fosse»; «dannando sé, dannò tutta sua prole»; «quando si dice che giusta vendetta / poscia vengiata fu da giusta corte»; «Ma perché l’ovra tanto è più gradita / da l’operante, quanto più appresenta / de la bontà del core ond’ell’è uscita, / la divina bontà, che ’l mondo imprenta»); VIII 133-134 (Carlo Martello illustra la diversità delle indoli umane: «Natura generata il suo cammino / simil farebbe sempre a’ generanti»).

Anche in questa parte del canto le terzine attribuite a Traiano e a Rifeo si equivalgono: quattro terzine per ciascuno. Il notevole spazio assegnato, equanimemente, ai due pagani assurti nel Paradiso è un modo per ribadirne la centralità nell’economia del canto; per chi sia consapevole dell’importanza che Dante assegna ai numeri e alle proporzioni delle parti rispetto al tutto, non sembrerà futile annotare che i versi complessivamente dedicati ai due personaggi nel canto XX sono 36, vale a dire quasi un quarto del totale.12

Un paio di notazioni puntuali. L’eccezionale giustizia di Rifeo è ricordata in una terzina che riecheggia – per ritmo e struttura, non per le parole adoperate – l’elogio di san Tommaso per la sapienza di Salomone: «entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver v’è messo, che se ’l vero è vero / a veder tanto non surse il secondo» (Par., X 112-114; anche in Par., XX 119-121 c’è l’aggettivo profondo, qui riferito alla misteriosa scaturigine della Grazia, e soprattutto c’è una consecutiva contenente un riferimento iperbolico).

Paganesmo figura un’altra volta nella Commedia, anche lì in rima, e precisamente in Purg., XXII 91 a proposito della condizione di un altro pagano che Dante immagina convertito, Stazio. Se Stazio era un «chiuso cristian» e aveva scontato la propria «tepidezza» passando quattrocento anni nel girone degli accidiosi, Dante fa di Rifeo un campione del Cristianesimo, intento addirittura a riprendere «le genti perverse» che professavano quelle dottrine fallaci.

12 Per avere un termine di confronto, si pensi al canto III del Purgatorio, che per ogni lettore di Dante è il «canto di Manfredi»: al re svevo sono dedicati 43 versi su 145, vale a dire meno del 30%.

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Notevole è l’uso di una parola di forte impatto realistico e “comico”13 come puzzo. Puzzo e, una volta, puzza ricorrono altre sei volte nella Commedia: quattro volte in senso proprio (Inf., IX 31; XI 5; XIX 33, Purg., XIX 33); una volta in un’accezione che convoglia il senso proprio e quello metaforico (Par., XVI 56; il villan d’Aguglion e gli altri inurbati a Firenze suscitano lo sdegno di Cacciaguida in primo luogo per la loro avidità, ma forse anche per il sentore rustico che emanano); un’ultima volta, infine, in un contesto fortemente metaforico (è il puzza brandito da San Pietro contro i papi corrotti in Par., XXVII 26). Nel nostro passo puzzo è riferito ai pagani, secondo un’accezione che non è solo genericamente spregiativa ma che era portatrice di un significato preciso, ben esplicitato dal Buti nel suo commento: imperò che ogni pagano pute, e questa è cosa che manifestamente si vede: imperò che, accostandosi uno cristiano ad uno infidele, sente da quello procedere uno grande puzzo di lezo che non si sente dal cristiano: imperò che la carne sua è mondata per la passione di Cristo, e quella del pagano è infetta: imperò che ’l cristiano si lava ne la fonte del battesimo che lava insieme la carne e l’anima.

L’aquila conclude il suo discorso con un’invocazione alla predestinazione e un’ammonizione agli uomini che pretendono di conoscere l’inconoscibile. Tornano qui temi e motivi frequenti nel Paradiso (e talvolta anche nel Purgatorio): la deplorazione dei mortali, insieme superficiali e superbi, e il fiducioso affidarsi a Dio, che rende le anime pienamente appagate del grado di beatitudine conseguito (vv. 139-148):14

Così da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista,

141 data mi fu soave medicina. E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda,

144 in che più di piacer lo canto acquista, sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda ch’io vidi le due luci benedette,

147 pur come batter d’occhi si concorda con le parole mover le fiammelle.

Le terzine conclusive del canto rinnovano l’intensa creatività figurale che lo aveva aperto. Si

parte da due immagini già sperimentate: la corta vista umana richiama «la veduta corta d’una spanna» che la stessa aquila aveva rimproverato a Dante nel canto precedente (XIX 81); e medicina in accezione figurata rimanda addirittura all’Inferno, là dove Virgilio rimbrotta aspramente Dante che ha indugiato a osservare la rissa tra maestro Adamo e Sinone (Inf., XXXI 3: «e poi la medicina mi riporse»). Il tema dell’armonia celeste – in particolare la perfetta rispondenza tra i vari beati – aveva aperto il canto, con la grande figurazione astronomica del sole la cui luce si traduce e si riflette in quella delle stelle; alla suggestione luminosa seguiva sùbito dopo il tema musicale, affidato anche al realismo di singoli strumenti musicali: flailli (se vale ‘flauti’), cetra, sampogna. Anche questi versi finali esaltano l’armonia del Paradiso, ribadendo il concetto con due paragoni in sequenza in appena in sei versi: le fiammelle di Traiano e di Rifeo si muovono con simultaneità rispetto alle parole appena pronunciate dall’aquila, così come un esperto citarista sa adeguare il proprio strumento alla voce di un cantore; e ciò avviene simultaneamente e spontaneamente, proprio «come batter d’occhi» (l’immagine dantesca è l’antenato, nemmeno troppo distante come assetto linguistico, del nostro familiare in un batter d’occhi). E se l’immagine che aveva aperto il canto sembra nascere – lo abbiamo già notato – da una libera impressione del poeta piuttosto che da una

13 Anche prescindendo dal significato, la compagine fonica di puzzo/-a contraddice con quelle due zeta alle restrizione che Dante assegna ai vocabula grandiosa in De vulg. eloq., II VIII 2 14 Il tema era stato affrontato da Piccarda Donati, per rispondere a una richiesta di Dante (Par., III 70-87).

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similitudine architettonicamente strutturata (mi venne a mente), anche la conclusione è segnata da un verbo che fa riferimento alla rielaborazione della memoria individuale (sì mi ricorda).

Ciò stringe in un quadro di grande coerenza formale e strutturale inizio e conclusione del canto, accentuandone dunque i tratti di autonomia. Né è certo un caso che le fiammette dell’ultimo verso siano proprio quelle dei due pagani miracolosamente rinati a vita cristiana: in essi Dante ha voluto condensare esemplarmente il mistero della giustizia divina, il tema portante del ventesimo canto.

Diversi interpreti hanno sottolineato lo stretto rapporto di questo canto, terzo e ultimo del cielo di Giove, col canto precedente, parlando di «un solo grande discorso, affidato a una sola voce, quella dell’aquila, e sullo stesso tema» (Chiavacci Leonardi) o di un «blocco unico» (Paratore). D’altra parte, qualcuno ha additato precisi tratti individualizzanti: nel nostro canto, di intenso e compatto misticismo, sono pressoché assenti le risentite note polemiche che si traducevano nelle invettive che chiudono il XIX (contro i cattivi principi cristiani), come avveniva già nel XVIII (contro il papa Giovanni XXII) e come avverrà ancora nel XXI, con la requisitoria di San Pier Damiani contro i prelati (l’osservazione è di F. Croce).

Potremmo notare anche come, dal punto di vista della struttura formale, l’impressione di autonomia si rafforzi ulteriormente. È noto che, quale ne sia il significato o il valore artistico, alcuni canti della Commedia spiccano quasi come componimenti a sé stanti. Ciò può dipendere, banalmente, dalla maggiore o minore fortuna del singolo canto presso i lettori (e per questo ricordiamo spesso i canti più familiari, invece che col numero d’ordine, col nome del personaggio: il canto di Farinata, il canto di Giustiniano ecc.); ma anche da precisi requisiti formali risalenti all’autore. Il fattore di più immediato collegamento tra un canto e l’altro è costituito da un esplicito elemento di raccordo ad apertura di canto con quel che precede. Così avviene, per restare nel Paradiso, col canto IX, che si apre con una didascalia in cui Dante sottolinea vari momenti del discorso rivoltogli da Carlo Martello («Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, / m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni / che ricever dovea la sua semenza») o col canto XII, che si apre riallacciandosi al discorso di San Tommaso, appena conclusosi: «Sì tosto come l’ultima parola / la benedetta fiamma per dir tolse, / a rotar cominciò la santa mola».

Altre volte, i canti appaiono formalmente autosufficienti, e come tali sono contrassegnati da precise marche retoriche, nell’incipit, nell’explicit o in entrambi. Esempi del genere sono l’XI, il canto di San Francesco, che si apre con un’apostrofe («O insensata cura de’ mortali» ecc.) e si chiude con un apoftegma («“U’ ben s’impingua se non si vaneggia”») o il XXV, che si apre con la celebre affermazione della propria gloria poetica, venata dalla malinconia dell’ingiusto esilio («Se mai continga che ’l poema sacro») e si chiude con un’esclamazione sulla limitazione della vista che, abbagliata dallo splendore di San Giacomo, non permette al pellegrino di vedere Beatrice («Ahi quanto ne la mente mi commossi» ecc.).

Ora, non c’è dubbio che il canto XX rientri per l’appunto in questa seconda tipologia. Non solo mancano riferimenti anaforici al canto precedente, ma muta decisamente il tono complessivo. Il XIX si era chiuso con la cruda notazione del malgoverno di Cipro, il quale fa sì che «Niccosïa e Famagosta / per la lor bestia si lamenti e garra»; col nuovo canto, delle scorie dell’aiuola terrena non c’è più traccia: il silenzio dell’aquila coincide con la restituzione al contesto paradisiaco della sua abituale e fervorosa letizia, sottolineata come di consueto dalla luminosità degli spiriti e dall’ineffabile dolcezza dei loro canti. Allo stesso intento di marcare uno stacco con quel che precede risponde l’invenzione figurale e retorica: all’apertura solennemente intonata su un paragone

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imperniato sulla luce come figurante fa da riscontro la chiusura su un’altra immagine, questa volta musicale (vv. 1-30):

Quando colui che tutto ’l mondo alluma de l’emisperio nostro sì discende,

3 che ’l giorno d’ogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente

6 per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente, come ’l segno del mondo e de’ suoi duci

9 nel benedetto rostro fu tacente; però che tutte quelle vive luci, vie più lucendo, cominciaron canti

12 da mia memoria labili e caduci. O dolce amor che di riso t’ammanti, quanto parevi ardente in que’ flailli,

15 ch’avieno spirto sol di pensier santi! Poscia che i cari e lucidi lapilli ond’io vidi ingemmato il sesto lume

18 puoser silenzio a li angelici squilli, udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giù di pietra in pietra,

21 mostrando l’ubertà del suo cacume. E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e sì com’al pertugio

24 de la sampogna vento che penètra, così, rimosso d’aspettare indugio, quel mormorar de l’aguglia salissi

27 su per lo collo, come fosse bugio. Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole,

30 quali aspettava il core ov’io le scrissi.

L’immagine introduttiva contrappone la luce sfolgorante del sole-aquila a quella, che ne

deriva per riflesso, delle molteplici stelle-singoli spiriti. Col tramonto del Sole (o della Luna, come secoli dopo avrebbe immaginato Leopardi), l’impressione di oscurità è solo momentanea: altri astri interverranno presto a restituire la luce al mondo.

La suggestione poetica che nasce da questa vicenda astronomica è già nella poesia classica; in Dante l’invenzione si carica di significati aggiunti. Il sole, oltre che figurante dell’aquila, rinvia a Dio, cioè a quel «sol che v’allumò e arse», come Dante in veste di personaggio aveva detto a Cacciaguida (Par., XV 76); il verbo allumare – un gallicismo lirico, il primo di una serie ben rappresentata in questo canto – indica di norma in Dante un’illuminazione non solo fisica ma anche spirituale, superando la prospettiva strettamente amorosa caratteristica della poesia dugentesca.

Questa immagine visiva suscita, con un trapasso immediato, un’immagine uditiva. L’«atto del ciel», cioè la distribuzione e la moltiplicazione delle fonti luminose dopo il tramonto del sole, evoca il passaggio da un’unica fonte sonora – l’aquila – alla molteplicità dei beati che intonano canti sublimi. Si noterà che, mentre nella prima immagine c’è perfetta corrispondenza tra l’uno e i molti (la luce dell’aquila è precisamente la stessa che irradia dai singoli spiriti, ciascuno dei quali la riflette), nella seconda immagine ciò non avviene: le parole dell’aquila, tramate su precisi snodi argomentativi, sono perfettamente presenti a Dante, che le riferisce così come le ha udite (fissandole nel cuore, «ov’io le scrissi»); i canti dei beati, invece, «labili e caduci», non riescono a essere trattenuti dalla sua mente.

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Importa sottolineare il modo in cui si presenta qui il topos dell’ineffabilità. Dante conosce due diverse declinazioni di questo motivo. La prima è quella, di tipica matrice retorica, del poeta che protesta, di fronte alla complessità o all’eccezionalità della situazione che intende descrivere, la povertà dei propri mezzi espressivi o dello stesso linguaggio umano. La seconda è quella – esclusiva di chi abbia intrapreso un viaggio ultraterreno che si conclude con la visione di Dio – che consiste nel constatare come le straordinarie immagini della letizia e della gloria del Paradiso non si siano fissate nella mente del pellegrino, ancora legato ai suoi limiti terreni, e quindi non siano deversabili a beneficio dei lettori. La «mente che non erra» poteva ben rappresentare «la guerra / sì del cammino e sì de la pietate» sperimentata nell’Inferno; ma la pace inesprimibile del Paradiso può essere solo affermata per analogia attingendo al serbatoio figurale, non già descritta puntualmente; tanto più quanto più ci si avvicina al coronamento del mistico percorso ultraterreno.15

L’invenzione figurale si interrompe per dar luogo a un’invocazione rivolta alla divinità. Come avviene quasi sempre nella Commedia, le allocuzioni (per bocca di Dante narratore o di un personaggio) non sono rivolte direttamente a Dio, ma a una sua qualità, manifestazione o attributo. Se qui è in primo piano Dio come amore (come in Par., I 73-81), altrove emergono la Sua infinita sapienza (Inf., XIX 10-12), il potere di punire il peccato (Inf., XIV 16-18 e XXIV 119-20, Par., XXVII 57), il Suo splendore (con significativa concentrazione negli ultimi canti del Paradiso: XXX 97-99, XXXI 28-30, XXXIII 67-75 e 124-26), la Sua natura trinitaria (Par., XV 47-48). Di tipo affine l’invocazione rivolta, in questo stesso canto (vv. 130-132), alla predestinazione, ossia ancora una volta a Dio in quanto supremo giudice della salvezza. L’allocuzione diretta è molto più rara: prescindendo dalla parafrasi evangelica del Padre nostro (Purg., XI 1-24) e dalla frase blasfema di Vanni Fucci (Inf., XXV 39) – entrambi casi speciali, pur così diversi eziologicamente – si possono menzionare un esempio di allocuzione con esplicita nominazione della Divinità (nell’esclamazione dell’anonimo pellegrino di Par., XXXI 107-108: «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?»), un altro esempio con l’antonomastico Signore (nel discorso di Ugo Capeto in Purg., XX 94: «O Segnor mio ecc.» ) e due ricorrenze in cui si attinge al repertorio classico (Purg., VI 118ss.: «E se licito m’è, o sommo Giove») o insieme classico e vetero-testamentario (Par., XIV 96: «ch’io dissi: “O Elïòs che sì li addobbi!», con contaminazione del greco hélios e dell’ebraico ely).

Al v. 14 parevi ha il valore di ‘apparivi con evidenza’, come il pare del famoso sonetto (Tanto gentile e tanto onesta pare) e a differenza del parve del v. 19 che vuol dire, come oggi, ‘sembrò’. Ben altrimenti ostico è l’hapax flailli.

Diciamo sùbito che la tentazione di promuovere a testo favilli, recato marginalmente dalla tradizione manoscritta, deve essere respinta. Respinta per ragioni ecdotiche, trattandosi di un’evidente banalizzazione, non per il senso: che quegli spiriti beati possano essere stati definiti ‘fiaccole luminose’, ‘scintille di luce’ non farebbe davvero difficoltà. Flailli è stato spiegato in vario modo: come adattamento del francese antico flavel ‘flauto’ (Parodi) o flael nell’accezione ricostruita di ‘torcia’ (Pagliaro) o, infine, direttamente dal lat. flabellum ‘ventaglio’ (Carsaniga). Quest’ultima ipotesi – già affacciata in verità ai primi del Novecento – si richiama a un uso liturgico del flabello, che aveva lo scopo non solo di allontanare materialmente le mosche, ma soprattutto quello, ideale, di salvaguardare il sacerdote dalle tentazioni diaboliche che potevano distrarlo durante la celebrazione della messa; l’aquila, che alla fine della glorificazione della giustizia moverà con gioia le ali come un’allodola, le moverebbe all’inizio come flabelli.

Ove non si optasse per quest’ultima interpretazione, quel che è certo è che, per discriminare tra le prime due, il contesto, variamente invocato dai sostenitori dell’una o dell’altra ipotesi, non sarebbe decisivo. Proprio la stretta compenetrazione di sollecitazioni visive e auditive delle immagini iniziali fa sì che flailli sia altrettanto plausibile come ‘strumento musicale’ (Parodi) o come ‘fiaccola’ (Pagliaro).

4 In effetti, il topos dell’ineffabilità legata al carattere soprannaturale dell’esperienza vissuta si addensa nella seconda parte del Paradiso, pur essendo stato proclamato fin dall’inizio («perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire»: Par., I 7-9); oltre al luogo che stiamo commentando vd. Par., XVIII 10-12; XXIII 43-45; XXX 22-33; XXXIII 55-75.

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I beati sono qui definiti cari e lucidi lapilli (v. 16): il sostantivo fa riferimento all’area semantica delle pietre preziose, largamente sfruttata per la designazione delle anime del Paradiso; il sintagma nel suo insieme riprende le sillabe ca e la di canti [...] labili e caduci, apparentando fonicamente cantori e canto. Quando gli «angelici squilli» tacciono, Dante avverte un nuovo suono, dolce e indistinto, che gli evoca l’immagine dell’acqua mormorante di un purissimo ruscello. A questa similitudine ne subentra un’altra (la quarta, in appena 27 versi), più audace e strettamente collegata al contesto. La voce dell’aquila, che riprende a parlare, è messa in parallelo con la genesi del suono all’interno di due strumenti musicali. La rappresentazione dell’aquila ora «assume contorni più definiti evocanti la fisicità con scelte lessicali più realistiche» (Battistini), come avviene con becco adoperato accanto a rostro e, appunto, con figuranti come la cetra e la zampogna.16 La doppia similitudine risponde certo ad esigenze stilistiche legate all’elaborata orchestrazione del canto; ma non solo a questo. Come accade in altri casi,17 l’accumulo figurale dipende dal carattere complesso o insolito della scena rappresentata: Dante individua qui il momento in cui la voce prende forma nel collo di un’aquila che è insieme simbolo e realtà, per poi tradursi in parole perfettamente chiare, anzi definitive nei loro calchi su modelli testuali biblici e scolastici (vv. 31-72):

«La parte in me che vede e pate il sole ne l’aguglie mortali», incominciommi,

33 «or fisamente riguardar si vole, perché d’i fuochi ond’io figura fommi, quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,

36 e’ di tutti lor gradi son li sommi. Colui che luce in mezzo per pujpilla, fu il cantor de lo Spirito Santo,

39 che l’arca traslatò di villa in villa: ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio,

42 per lo remunerar ch’è altrettanto. Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che più al becco mi s’accosta,

45 la vedovella consolò del figlio: ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l’esperïenza

48 di questa dolce vita e de l’opposta. E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l’arco superno,

51 morte indugiò per vera penitenza: ora conosce che ’l giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco

54 fa crastino là giù de l’odïerno. L’altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fé mal frutto,

57 per cedere al pastor si fece greco: ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li è nocivo,

60 avvegna che sia ’l mondo indi distrutto. E quel che vedi ne l’arco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora

5 Anche il bugio ‘bucato, cavo’ del v. 27 apparterrà al registro basso: «vive in Toscana» (annota il Tommaseo); «voce vivissima nel parlar toscano del contado» (ribadisce il Casini). La forma sembra un adattamento alla fonetica toscana del settentrionale buso, anch’esso peraltro circolante in Toscana almeno dal XV secolo. 6 Per esempio per le due similitudini in sequenza con cui Dante illustra la metamorfosi dei ladri (Inf., XXV 61-66) o per le tre in cui si rappresenta il rapido dissolversi nella memoria della suprema visione di Dio (Par., XXXIII 58-66).

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63 che piagne Carlo e Federigo vivo: ora conosce come s’innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante

66 del suo fulgore il fa vedere ancora. Chi crederebbe giù nel mondo errante che Rifëo Troiano in questo tondo

69 fosse la quinta de le luci sante? Ora conosce assai di quel che ’l mondo veder non può de la divina grazia,

72 ben che sua vista non discerna ’l fondo».

Comincia ora la parte centrale del canto, quella in cui il mistero dell’insondabile giustizia divina è prima di tutto raffigurato dai sei spiriti che compongono l’occhio dell’aquila, «rappresentata col capo di profilo, come s’usava nelle insegne araldiche» (Casini): uno ne costituisce la pupilla (Davide) e cinque ne disegnano il ciglio (Traiano, Ezechia – l’unico per la cui identificazione non vi sia certezza assoluta –, Costantino, Guglielmo il Buono, Rifeo).

Si è discusso, specie in passato, di due nomi che Dante avrebbe potuto inserire, in questa sua suprema celebrazione della giustizia, e che invece mancano: quelli di Virgilio, e di Enea, i «grandi assenti» del cielo di Giove (Toffanin). Fino al punto di argomentare che, se l’occhio visibile dell’aquila è soltanto uno, ciò si dovrebbe al fatto che, se fossero stati visibili entrambi gli occhi, Dante, dopo aver celebrato Davide, «non avrebbe potuto collocare nella pupilla dell’altro, se non un corrispondente personaggio imperiale: e chi altro corrispondente al cantor dello Spirito Santo se non il cantor dell’impero?» (sono ancora parole del Toffanin).

Ora, anche a non tener conto dei luoghi in cui Dante si sofferma sulla dolorosa, ma inevitabile, esclusione di Virgilio dal Paradiso,18 sembra opportuno commentare le presenze piuttosto che le assenze. Tanto più in un canto come questo, nel quale si insiste così fortemente sull’imperscrutabilità delle scelte divine e sull’impossibilità da parte dell’uomo di prevedere gli eletti e i dannati. A voler sottilizzare, potremmo osservare che proprio l’assenza di Virgilio e di Enea può servire a Dante per sovvertire le attese dei suoi lettori (e dei suoi commentatori) e per ribadire il mistero della predestinazione

La scelta dei sei personaggi chiamati a rappresentare i massimi esempi di giustizia può essere letta secondo diverse linee interpretative. Vi si può individuare una vera e propria «storia dell’imperium christianum, nei suoi archetipi biblico (David e Ezechia) e classico (Rifeo) e nelle sue tappe evolutive essenziali, romana (Traiano), romano-cristiana (Costantino) e feudale-cavalleresca (Guglielmo II)» (Picone); oppure si può sottolineare la studiata proporzione dei numeri (Casini, Battistini): i sei personaggi costituiscono tre coppie (due ebrei, due pagani, due cristiani) e hanno una dotazione di sei versi per ciascuno. Molto diversa la fama dei sei personaggi e anche la rispettiva presenza nell’opera dantesca: massima per Costantino e Davide (nessun’altra figura dell’Antico Testamento, come annota la Chiavacci Leonardi, è ricordata nella stessa misura da Dante), minima per Rifeo, un nome che ricorre solo nell’Eneide e che né Dante né le sue eventuali fonti mediolatine menzionano altrimenti. Ma vediamo, in particolare, qual è la strutturazione di queste terzine. Ciascun medaglione è costruito in modo simile, ma non uguale agli altri. La prima terzina contiene un elemento deittico, che individua la posizione del beato («colui che luce», «colui che più al becco mi s’accosta», «e quel che segue», «l’altro che segue», «e quel che vedi»). Solo per Rifeo il procedimento si interrompe e alla pura descrizione subentra un’interrogativa retorica («Chi crederebbe giù» ecc.), che vuole sottolineare l’imprevedibilità di una presenza siffatta nel Paradiso. All’individuazione del beato segue, per così dire, la motivazione del premio eterno che gli è stato concesso. Ancora una volta Rifeo ha un trattamento a parte e parrebbe contare più come simbolo dell’imperscrutabilità

7 Cfr. soprattutto Inf., IV 40 e soprattutto Purg., VII 7-8, 25-37.

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della giustizia divina che non come individuo; dei suoi meriti terreni non si dice nulla qui e occorrerà aspettare il v. 121 per sapere che «tutto suo amor là giù pose a drittura».

La seconda terzina esordisce con un’anafora ribadita per sei volte («ora conosce»): ai passati remoti relativi alle vicende terrene, puntuali e senza più rapporto col presente («fu il cantor», «consolò», «morte indugiò» ecc.), subentra un presente acronico, riferito alla dimensione dell’eternità. Inoltre, l’ora conosce ribadisce, ancora una volta, il valore della grazia e l’impossibilità di prevedere la salvezza a partire dalla fama, buona o cattiva (o magari assente), che ha contrassegnato la vita terrena. Così Traiano è salvo per un singolo atto di giustizia reso a una «vedovella»: un fortunato episodio leggendario di origine altomedievale, che Dante aveva già celebrato diffusamente in Purg., X 73-96; Costantino è salvo nonostante le nefaste conseguenze della sua donazione, che ha segnato – nel giudizio di Dante – insieme l’inizio della corruzione della Chiesa e il fatale indebolimento dell’impero, con lo spostamento della capitale in oriente (ed è verosimile che, come pensava I. Del Lungo, anche il greco di «per cedere al pastor si fece greco» abbia una sfumatura negativa).

Ma è soprattutto Rifeo a costituire una sorpresa. Sia perché pagano, sia perché (a differenza di Traiano, la cui salvazione era stata ammessa e variamente argomentata da san Tommaso) la sua fama poggia esclusivamente sulla menzione fattane da Virgilio, che ne parla fuggevolmente tra i compagni di Enea in due luoghi del secondo canto, per poi menzionarne la morte ai vv. 426-428: «[...] cadit et Ripheus, iustissimus unus / qui fuit in Teucris et servantissimus aequi / (dis aliter visum)». Rifeo – lo ha osservato in particolare il Paratore – rappresenterà «l’ultimo e altissimo omaggio tributato da Dante al suo Virgilio», quasi un risarcimento della sua condanna al Limbo, che si aggiunge (sommessamente) all’esplicito e diffuso riconoscimento di Stazio nel Purgatorio (XXI 93-102 e XXII 64-99). E si potrà tener conto dell’inciso virgiliano dis aliter visum: Dante avrà forse voluto contrapporre all’insensibilità degli «dei falsi e bugiardi» la superiore giustizia del vero Dio dei cristiani, che ha premiato Rifeo (è ancora un’osservazione del Paratore).

Tuttavia, non si può prescindere dal fatto che nell’Eneide quello di Rifeo è poco più di un nome tra i tanti che nei poemi epici vengono addensati nelle scene di battaglia, a suggerire le dimensioni della strage. Proprio in questa sua condizione di quasi-anonimo sta, se non m’inganno, una delle ragioni della sua presenza in compagnia di personaggi di altissima fama, da Davide a Guglielmo II: Rifeo offre a Dante l’occasione per ribadire un concetto fondamentale del Cristianesimo, quasi una pre-condizione per accedere alla virtù, vale a dire il valore dell’umiltà.19

Non solo. Due dei sei personaggi qui rappresentati, Davide e Traiano, figurano – l’uno accanto all’altro, come qui – anche nel Purgatorio, nelle rappresentazioni esemplari scolpite nella parete della prima cornice. L’associazione delle due virtù, la giustizia e l’umiltà, è espressamente richiamata nel caso di Traiano: il valore dell’episodio della vedovella non sta tanto nell’atto di giustizia compiuto in quella circostanza, quanto nell’umiltà di cui l’imperatore dà prova, occupandosi personalmente delle ragioni di una donnetta e anteponendo quelle ai suoi impegni militari: «giustizia vuole e pietà mi ritene» è la divisa di Traiano in questa occasione (Purg., x 93).

La tensione lirica dell’esordio di questo canto si traduce anche nella preziosa selezione di gallicismi: allumare, parvente e flailli (se vale ‘flauti’). Nella presentazione dei sei beati esemplari – come, a maggior ragione, nella successiva argomentazione teologica dell’aquila – il provenzale e il francese della lirica moderna cedono il passo al latino filosofico e scientifico: circunferenza,20 crastino, dedutto. Ha invece un’ascendenza nella lirica della Vita nova la coppia piangere-plorare dei vv. 62-63: «Piangete amanti, poi che piange Amore, / udendo qual cagion lui fa plorare». Ma si noterà che, mentre nel sonetto giovanile plorare risponde a una semplice esigenza di variatio (semanticamente coincidendo puntualmente col precedente piangere), qui i verbi appaiono specializzati: il plorare di siciliani e continentali ha l’accezione di ‘rimpiangere’ (il verbo non esisteva ancora all’epoca di Dante) nei confronti del buon re Guglielmo; il loro piangere gl’indegni 8 Un altro esempio in cui una «persona umile e peregrina» è esaltata nel Paradiso, al punto da chiudere uno dei canti più solenni e ideologicamente impegnati, quello di Giustiniano, è Romeo di Villanova (VI, 133-142). 9 Dante – annota il Tommaseo – «non teme le parole scientifiche per lunghe che siano».

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successori ha l’accezione, oggi desueta, di ‘lamentare, deprecare’ (come glossa il Sapegno). Proseguiamo con i vv. 73-84:

Quale allodetta che ’n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta

75 de l’ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta de l’etterno piacere, al cui disio

78 ciascuna cosa qual ell’è diventa. E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio lì quasi vetro a lo color ch’el veste,

81 tempo aspettar tacendo non patio, ma de la bocca, «Che cose son queste?», mi pinse con la forza del suo peso:

84 per ch’io di coruscar vidi gran feste.

Dopo aver rivelato i nomi dei sei spiriti e in particolare quello di Rifeo, il meno prevedibile di tutti, l’aquila tace, effondendo la propria gioia sublime. Il celebre paragone dell’allodetta trae lo spunto di partenza dal provenzale di Bernardo di Ventadorn (Can vei la lauzeta mover); ma lo sviluppo dell’immagine non potrebbe essere più diverso. Nel trovatore il rapimento gioioso della lodoletta che oblia sé stessa abbandonandosi all’aria introduce un fiero contrasto con l’io poetante, travolto dalle pene amorose; in Dante l’immagine di letizia è perfettamente congruente con lo specifico figurato (l’aquila) e col contesto complessivo. A proposito di questa similitudine, converrà sottolineare un elemento che non è affatto usuale, né in Dante (né, prima di lui, nei poeti siciliani o stilnovisti) e che contribuisce alla particolare suggestione di questa immagine: ossia il fatto che il figurante uccellino sia evocato per la dolcezza del suo canto. Gli uccelli suscitano abitualmente altre associazioni nella fantasia dantesca; limitando l’esemplificazione al Paradiso: l’affetto tra compagni (Par., XXV 19-24), l’amore materno (XXIII 1-12), l’ipotetico scambio delle relative nature (XXVII 13-15), un particolare movimento (XVIII 73-78; XXI 34-42). Altri due paragoni uccellini sono dedicati allo stesso figurato di cui ci stiamo occupando, l’aquila, e in situazioni assai simili alla nostra: in XIX 34-36 l’aquila manifesta la propria gioia accingendosi a soddisfare i dubbi di Dante a proposito della giustificazione per fede: «Quasi falcone ch’esce dal cappello, / move la testa e con l’ali si plaude, / voglia mostrando e faccendosi bello»; in XIX 91-96, a conclusione del suo discorso, l’aquila rinnova la sua letizia caritatevole nei confronti di Dante: «quale sovresso il nido si rigira / poi c’ha pasciuti la cicogna i figli».

La struttura e la funzione del paragone dei vv. 73-78 sono chiare, anche se la puntuale interpretazione della seconda parte non è agevole. I punti critici sono almeno due: l’interpretazione di piacere, che può valere ‘bellezza’ o ‘volontà’ e la costruzione del periodo (imago può alludere senz’altro all’aquila – già definita la bella image a XIX 2 – e in questo caso il successivo complemento indiretto presuppone un sottinteso contenta; ma potrebbe anche reggere dell’imprenta dell’eterno piacere, costituendo dunque una più complessa perifrasi per ‘aquila’). Ritengo più probabili le prime alternative di ciascun dilemma; e più efficace di altre la parafrasi-commento del Chimenz: «l’aquila (l’imago) mi sembrò tacere contenta dell’impronta di Dio, eterno piacere, della quale impronta aveva parlato alla fine del suo discorso».

L’eccezionalità della salvezza di due pagani – sottolineata dalla struttura del precedente discorso dell’aquila e tradotta visivamente in un paragone che sottolinea la gioia di rivelare a Dante una verità così ardua e misteriosa – trova espressione anche nelle parole di Dante-personaggio: «Che cose son queste?»; parole che sembrano quasi sfuggire alla volontà del parlante, sospinte come sono dall’urgenza del suo stupore.21 È una frase con «un timbro di immediatezza popolare unico nel parlare paradisiaco» (Chiavacci Leonardi), che conferma ciò che le anime beate già sanno,

10 Si noti che [il] dubbiar mio è il soggetto sia di patìo sia di pinse.

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dal momento che il «dubbiare» di Dante è «quasi vetro a lo color ch’el veste». L’esplicita richiesta di Dante dà luogo a un lungo intervento del benedetto segno (51 versi) sulla dottrina della predestinazione (vv. 85-138):

Poi appresso, con l’occhio più acceso, lo benedetto segno mi rispuose

87 per non tenermi in ammirar sospeso: «Io veggio che tu credi queste cose perch’io le dico, ma non vedi come;

90 sì che, se son credute, sono ascose. Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate

93 veder non può se altri non la prome. Regnum celorum violenza pate da caldo amore e da viva speranza,

96 che vince la divina volontate: non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta,

99 e, vinta, vince con sua beninanza. La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perché ne vedi

102 la regïon de li angeli dipinta. D’i corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede

105 quel d’i passuri e quel d’i passi piedi. Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede già mai a buon voler, tornò a l’ossa;

108 e ciò di viva spene fu mercede: di viva spene, che mise la possa ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,

111 sì che potesse sua voglia esser mossa. L’anima glorïosa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco,

114 credette in lui che potëa aiutarla; e credendo s’accese in tanto foco di vero amor, ch’a la morte seconda

117 fu degna di venire a questo gioco. L’altra, per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura

120 non pinse l’occhio infino a la prima onda, tutto suo amor là giù pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse

123 l’occhio a la nostra redenzion futura; ond’ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo più del paganesmo;

126 e riprendiene le genti perverse. Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota,

129 dinanzi al battezzar più d’un millesmo. O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti

132 che la prima cagion non veggion tota! E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,

135 non conosciamo ancor tutti li eletti; ed ènne dolce così fatto scemo,

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perché il ben nostro in questo ben s’affina, 138 che quel che vole Iddio, e noi volemo».

Anche se il discorso dell’aquila dà largo spazio a una componente narrativa (la vicenda della

salvazione di Traiano e Rifeo, che si presta bene a illustrare il tema della predestinazione divina e della sua insondabilità da parte dell’uomo), questa parte del canto condivide le caratteristiche soluzioni espressive messe in atto nelle sezioni filosofico-dottrinali. Due soprattutto: il primo è il ricorso al latino scolastico, adattato al volgare (quiditate, prome, e, più notevoli perché di pertinenza morfologica, passi e passuri) o mantenuto nella veste originaria (Regnum celorum). Le quattro forme italianizzate devono a Dante la loro fortuna, più o meno esile, nella lingua italiana. Interessante, per mostrare peso della Commedia nella tradizione poetica successiva, il caso di prome ‘estrae, manifesta’: gli esempi ricavabili dai dizionari storici e dagli archivi elettronici si riducono pressoché interamente alla stessa forma usata da Dante (la 3a persona del presente indicativo), nella medesima posizione di rimante, denunciando così il riconosciuto modello. Nell’espressione «quel d’i passuri e quel d’i passi piedi», che riprende il v. 105 del canto XIX («né pria né poi ch’el si chiavasse al legno») modificandone le soluzioni espressive,22 passo (da PASSUS, participio di PATIOR) era stato già usato da Guittone; per passuro si può citare un esempio di poco successivo a quello dantesco, nella Nuova Cronica di G. Villani, là dove il cronista riporta un sermone di Roberto d’Angiò ai Fiorentini (Cristo passuro). Si possono ricordare anche il tota del v. 132 – già adoperato in Par., VII 85, sempre in rima – e il latinismo semantico aspetti ‘viste’ del v. 131, che peraltro era largamente usato. Non è invece un latinismo pate ‘patisce’, forma che presenta la consueta oscillazione, comune nei primi secoli, tra forme incoative e non incoative nei verbi in -ire (concepe/concepisce, pere/perisce ecc.).

Come si è visto, il latino può convivere col volgare come accade nel v. 94, il cui primo emistichio ripete un passo evangelico (Mt 11 12), commentato nel secondo emistichio e nei due versi successivi. Il Porena si è chiesto: «Perché Dante cita il passo evangelico metà letteralmente e metà traducendo? Probabilmente solo per poterne fare un endecasillabo». In realtà, credo che qui agisca lo stesso impulso che consigliava ai predicatori – da Giordano da Pisa fino almeno al Settecento – l’inserimento di brani in latino anche nelle prediche di più forte colorito popolare (basti pensare a san Bernardino da Siena) con intento veridittivo: se espressamente richiamata, la parola sacra è il punto di partenza, e può essere glossata, commentata e amplificata, ma non completamente sostituita. La stessa esigenza può valere quando Dante riprende tipiche argomentazioni scolastiche, pur senza rifarsi direttamente a una fonte precisa (per esempio in Par., XIII 100: «non, si est dare primum motum esse», nel discorso di san Tommaso sulla sapienza di Salomone). In altri casi, il latino risponde all’intento di innalzare il registro, adeguandolo a momenti di particolare solennità: l’esempio più tipico è certo nel saluto di Cacciaguida (Par., XV 28-30); ma si pensi anche alla formula di ringraziamento a Dio pronunciata da Giustiniano all’inizio del canto VII, in cui Dante mescola liberamente formule liturgiche con ebraismi rari (malacoth) e neoformazioni medievali (superillustrans).

L’altro elemento che può considerarsi tipico delle sezioni dottrinali è un istituto stilistico: il poliptoto, e in generale la ripresa della stessa parola o di parole corradicali nel medesimo verso o in versi contigui.

Non si tratta di giochi retorici fini a sé stessi e nemmeno delle consuete procedure nobilitanti che segnano momenti di particolare significato (come avveniva, per citare un esempio di questo stesso canto, per le anafore e i parallelismi con i quali l’aquila presenta i sei beati). La necessità di scandagliare questioni teologiche complesse o, come in questo caso, dai risvolti apparentemente paradossali, impone che le parole chiave del ragionamento siano ribadite e, per così dire, sviscerate

11 Da un lato si vira in direzione latineggiante (con l’ardito participio futuro passuri), dall’altro si fa emergere un particolare realistico, quello dei piedi inchiodati alla croce.

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nella loro funzione di snodi argomentativi. Ripercorrendo gli esempi appena citati, potremo facilmente cogliere la concentrazione delle figure etimologiche in corrispondenza dei capisaldi della dottrina della predestinazione, di cui Dante vuol dare qui una robusta sintesi. Così è per il diverso vedere – cioè per l’accesso alle verità soprannaturali per via di diretta e immediata esperienza, non sulla base di un ragionamento probabilistico – da parte dei beati e da parte di Dante (vv. 88-89: «Io veggio che tu credi queste cose / perch’io le dico, ma non vedi come»); per il credere fondato su un atto di fede, anche se l’oggetto rimane inconoscibile (vv. 88-90: «[...] che tu credi queste cose / [...] / sì che, se son credute, sono ascose»); per la distinzione tra volontà assoluta e volontà condizionata in Dio (vv. 98-99: «ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza»); per la fede di Traiano redivivo e la carità che lo rese degno del Paradiso (vv. 114-115: «credette in lui che potëa aiutarla; / e credendo s’accese in tanto foco»); per l’impossibilità, per l’occhio umano, di penetrare nel mistero della Grazia divina, che permise all’occhio di Rifeo di antivedere la futura Redenzione (vv. 120-123: «non pinse l’occhio infino a la prima onda / [...] / l’occhio a la nostra redenzion futura»); per il battesimo, il primo e fondamentale sacramento cristiano, che Rifeo, grazie alla virtù teologali da lui possedute, poté ricevere più di mille anni prima della sua istituzione (vv. 127-129: «li fur per battesmo / [...] / dinanzi al battezzar più d’un millesmo»); per il completo adeguamento del beato alla volontà di Dio e al bene da Lui emanante (vv. 137-138: «perché il ben nostro in questo ben s’affina, / che quel che vole Iddio, e noi volemo»). Questa correlazione tra densità argomentativa filosofico-teologica e rilievo espressivo attraverso il poliptoto è largamente praticata nel Paradiso. Ad esempio: V 7-9, 27, 50 (Beatrice illustra la dottrina del voto: «Io veggio ben sì come già resplende / ne l’intelletto tuo l’etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende»; «che Dio consenta quando tu consenti»; «pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta / si permutasse»); VII 20, 27, 50-51, 106-109 (Beatrice illustra la dottrina dell’Incarnazione e della Passione: «come giusta vendetta giustamente / punita fosse»; «dannando sé, dannò tutta sua prole»; «quando si dice che giusta vendetta / poscia vengiata fu da giusta corte»; «Ma perché l’ovra tanto è più gradita / da l’operante, quanto più appresenta / de la bontà del core ond’ell’è uscita, / la divina bontà, che ’l mondo imprenta»); VIII 133-134 (Carlo Martello illustra la diversità delle indoli umane: «Natura generata il suo cammino / simil farebbe sempre a’ generanti»).

Anche in questa parte del canto le terzine attribuite a Traiano e a Rifeo si equivalgono: quattro terzine per ciascuno. Il notevole spazio assegnato, equanimemente, ai due pagani assurti nel Paradiso è un modo per ribadirne la centralità nell’economia del canto; per chi sia consapevole dell’importanza che Dante assegna ai numeri e alle proporzioni delle parti rispetto al tutto, non sembrerà futile annotare che i versi complessivamente dedicati ai due personaggi nel canto XX sono 36, vale a dire quasi un quarto del totale.23

Un paio di notazioni puntuali. L’eccezionale giustizia di Rifeo è ricordata in una terzina che riecheggia – per ritmo e struttura, non per le parole adoperate – l’elogio di san Tommaso per la sapienza di Salomone: «entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver v’è messo, che se ’l vero è vero / a veder tanto non surse il secondo» (Par., X 112-114; anche in Par., XX 119-121 c’è l’aggettivo profondo, qui riferito alla misteriosa scaturigine della Grazia, e soprattutto c’è una consecutiva contenente un riferimento iperbolico).

Paganesmo figura un’altra volta nella Commedia, anche lì in rima, e precisamente in Purg., XXII 91 a proposito della condizione di un altro pagano che Dante immagina convertito, Stazio. Se Stazio era un «chiuso cristian» e aveva scontato la propria «tepidezza» passando quattrocento anni nel girone degli accidiosi, Dante fa di Rifeo un campione del Cristianesimo, intento addirittura a riprendere «le genti perverse» che professavano quelle dottrine fallaci.

12 Per avere un termine di confronto, si pensi al canto III del Purgatorio, che per ogni lettore di Dante è il «canto di Manfredi»: al re svevo sono dedicati 43 versi su 145, vale a dire meno del 30%.

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Notevole è l’uso di una parola di forte impatto realistico e “comico”24 come puzzo. Puzzo e, una volta, puzza ricorrono altre sei volte nella Commedia: quattro volte in senso proprio (Inf., IX 31; XI 5; XIX 33, Purg., XIX 33); una volta in un’accezione che convoglia il senso proprio e quello metaforico (Par., XVI 56; il villan d’Aguglion e gli altri inurbati a Firenze suscitano lo sdegno di Cacciaguida in primo luogo per la loro avidità, ma forse anche per il sentore rustico che emanano); un’ultima volta, infine, in un contesto fortemente metaforico (è il puzza brandito da San Pietro contro i papi corrotti in Par., XXVII 26). Nel nostro passo puzzo è riferito ai pagani, secondo un’accezione che non è solo genericamente spregiativa ma che era portatrice di un significato preciso, ben esplicitato dal Buti nel suo commento: imperò che ogni pagano pute, e questa è cosa che manifestamente si vede: imperò che, accostandosi uno cristiano ad uno infidele, sente da quello procedere uno grande puzzo di lezo che non si sente dal cristiano: imperò che la carne sua è mondata per la passione di Cristo, e quella del pagano è infetta: imperò che ’l cristiano si lava ne la fonte del battesimo che lava insieme la carne e l’anima.

L’aquila conclude il suo discorso con un’invocazione alla predestinazione e un’ammonizione agli uomini che pretendono di conoscere l’inconoscibile. Tornano qui temi e motivi frequenti nel Paradiso (e talvolta anche nel Purgatorio): la deplorazione dei mortali, insieme superficiali e superbi, e il fiducioso affidarsi a Dio, che rende le anime pienamente appagate del grado di beatitudine conseguito (vv. 139-148):25

Così da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista,

141 data mi fu soave medicina. E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda,

144 in che più di piacer lo canto acquista, sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda ch’io vidi le due luci benedette,

147 pur come batter d’occhi si concorda con le parole mover le fiammelle.

Le terzine conclusive del canto rinnovano l’intensa creatività figurale che lo aveva aperto. Si

parte da due immagini già sperimentate: la corta vista umana richiama «la veduta corta d’una spanna» che la stessa aquila aveva rimproverato a Dante nel canto precedente (XIX 81); e medicina in accezione figurata rimanda addirittura all’Inferno, là dove Virgilio rimbrotta aspramente Dante che ha indugiato a osservare la rissa tra maestro Adamo e Sinone (Inf., XXXI 3: «e poi la medicina mi riporse»). Il tema dell’armonia celeste – in particolare la perfetta rispondenza tra i vari beati – aveva aperto il canto, con la grande figurazione astronomica del sole la cui luce si traduce e si riflette in quella delle stelle; alla suggestione luminosa seguiva sùbito dopo il tema musicale, affidato anche al realismo di singoli strumenti musicali: flailli (se vale ‘flauti’), cetra, sampogna. Anche questi versi finali esaltano l’armonia del Paradiso, ribadendo il concetto con due paragoni in sequenza in appena in sei versi: le fiammelle di Traiano e di Rifeo si muovono con simultaneità rispetto alle parole appena pronunciate dall’aquila, così come un esperto citarista sa adeguare il proprio strumento alla voce di un cantore; e ciò avviene simultaneamente e spontaneamente, proprio «come batter d’occhi» (l’immagine dantesca è l’antenato, nemmeno troppo distante come assetto linguistico, del nostro familiare in un batter d’occhi). E se l’immagine che aveva aperto il canto sembra nascere – lo abbiamo già notato – da una libera impressione del poeta piuttosto che da una

13 Anche prescindendo dal significato, la compagine fonica di puzzo/-a contraddice con quelle due zeta alle restrizione che Dante assegna ai vocabula grandiosa in De vulg. eloq., II VIII 2 14 Il tema era stato affrontato da Piccarda Donati, per rispondere a una richiesta di Dante (Par., III 70-87).

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similitudine architettonicamente strutturata (mi venne a mente), anche la conclusione è segnata da un verbo che fa riferimento alla rielaborazione della memoria individuale (sì mi ricorda).

Ciò stringe in un quadro di grande coerenza formale e strutturale inizio e conclusione del canto, accentuandone dunque i tratti di autonomia. Né è certo un caso che le fiammette dell’ultimo verso siano proprio quelle dei due pagani miracolosamente rinati a vita cristiana: in essi Dante ha voluto condensare esemplarmente il mistero della giustizia divina, il tema portante del ventesimo canto.