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Le Tecnologie Alimentari Nel Parmense

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Storia epotenzialità

a cura di Giovanni BallariniMario Gelati

Le tecnologieagroalimentarinel parmense

RicercaScientifica

Progetto a cura di Giovanni Ballarini e Mario Gelati

Coordinamento editoriale, grafica e impaginazioneEdicta s.c.r.l. (Parma)

Erika Ferrari, Daniele Paterlini, Davide Pescini, Matteo Sartini

Referenze fotograficheLe immagini sono state fornite direttamente dagli enti, istituzioni

e società indicate nel volume

Stampa a cura di Artegrafica Silva

Finito di stampare nell’ottobre 2009

A.P.S.Centro di Studi Sociali e di Cultura Urbana

[email protected]

Tel. 0521.207644

A questo volume si annette il Repertorio Aziende “Le tecnologie

agroalimentari nel parmense”

5

Questa pubblicazione e l’annesso “Repertorio” sono il primo evento editoriale di Città e De-mocrazia, Centro di Studi Sociali e di Cultura Urbana, di recente istituzione.

Il Centro è sorto nel quadro delle Associazioni di Promozione Sociale “senza fini di lucro”, in quanto mira a conoscere, interpretare e far crescere il dinamismo nella convivenza urbana, alla luce del nesso, assunto come paradigma di ricerca, tra i valori educativi della democrazia e la loro traduzione nei comportamenti quotidiani della comunità locale.

Parma rappresenta il “laboratorio” privilegiato di Città e Democrazia: nel contesto del suo “territorio”, che è anche il suo “spazio sociale”, si intrecciano i fenomeni della intersoggettività come epiloghi storici e come progetti in atto, nei quali si scorgono i sintomi di una peculiarità non chiusa in sé stessa, ma inserita nell’ampio scenario della società contemporanea.

Far circolare, nel “sistema” delle città nazionali ed europee, l’“effetto Parma”, porta perciò a conoscere ciò che Parma dà e riceve nella perfettibile e inarrestabile convivenza democratica.

Seguire l’andamento culturale della città non significa esaltarne solo le “virtù” consolidate, ma anche individuare i nuclei di crisi intorno a cui è urgente condurre analisi e proposte di so-luzione. Il Centro vuol contribuire alla formazione rinnovantesi della “coscienza urbana”, anche attraverso le insorgenti problematiche che vanno rivelandosi, tra conflitti ed equilibri, nella città che è rapporto di uomini per il bene comune.

Nello spirito di Città e Democrazia, è chiaro il proposito di non alimentare uno sterile “mito di Parma”, ma di servirla, potenziandone le virtualità anche di fronte alle inevitabili involuzioni che ogni dinamica sociale, dinamica di uomini, porta con sé.

Mentre si aprono altri settori di studio e di azione, per qualificare i “fenomeni d’insieme” sul territorio, prende, dunque, forma e qui si presenta, il “comparto” delle tecnologie agroalimen-tari, liberandolo dalla involontaria frammentazione e introducendo elementi di integrazione tra le Aziende. Si auspica così che possa avviarsi l’unificazione, nella pluralità, di un fenomeno culturale e operativo, altamente significativo, dell’insieme parmense.

Angelo ScivolettoPresidente di Città e Democrazia

Città e Democrazia

7

Le tecnologie agroalimentari nel parmense - di Giovanni Ballarini 11

Prefazione - di Andrea Zanlari, presidente della Camera di Commercio 15

Prefazione - di Daniele Pezzoni, presidente dell’Unione Parmense degli Industriali 17

Prefazione - di Gino Ferretti, Magnifico Rettore dell’Università di Parma 19

1 - PARTE PRIMA – LA SToRIA DELLE TEcnoLoGIE AGRoALIMEnTARI 21

1.1 Dall’agricoltura allo sviluppo industriale - di Giovanni Ballarini 23

1.1.1 I cinque pilastri del sistema agroindustriale parmigiano 23

1.1.2 Le cinque radici dell’industrializzazione agroalimentare parmigiana 23

1.1.3 L’industria delle macchine agroalimentari. La centralità del caso parmense 26

1.1.4 Le origini dell’intreccio agro-industriale del pomodoro e delle sue fabbriche 28

1.1.5 Industrializzazione agroalimentare lattiero-casearia e salumiera parmigiana 32

1.1.6 Industrializzazione delle produzioni agricole, agricoltura e paesaggio parmense 32

1.1.7 secolo ventesimo: crollo di un sistema? 33

Bibliografia e note 36

Approfondimento 1.1.A1 - Parma nella prima metà del ‘900:la testimonianza di Marcello Mutti 38

Approfondimento 1.1.A2 - La nascita di un comparto: l’esperienza di Giuseppe Rodolfi 40

1.2 L’evoluzione tecnologica delle macchine - di Roberto Massini 43

1.2.1 Tecnica e tecnologia 43

1.2.2 Evoluzione delle tecniche tradizionali 44

1.2.3 Le prime industrie alimentari 46

1.2.4 Il formaggio Parmigiano Reggiano 47

1.2.5 I salumi 56

1.2.6 La pasta e i prodotti da forno 64

1.2.7 L’industria saccarifera 67

1.2.8 L’industria delle conserve alimentari 69

1.2.9 L’industria meccanica per l’industria alimentare 76

1.2.10 Evoluzione delle macchine per l’industria conserviera 81

Bibliografia e note 91

Indice

8

LA STORIA DELLE TECNOLOGIE AGROALIMENTARI

9

1990 - LA PARMATEC 141

1991 - La Alsim 142

1.4 I pionieri 145

a cura di Angelo Scivoletto

1915 - BRUNo DARECChIo 146

1919 - CAMILLo CATELLI 148

1920 - ANGELo RoSSI 150

1926 - ENzo BENEDINI 152

1927 - CARLo TESTA 154

1930 - LUCIANo DEL SANTE 156

1930 - ALDo MIGLIAvACCA 158

1930 - SERGIo PAGANI 160

1933 - GEREMIA GhIzzoNI 162

1934 - ANzIo SToRCI 164

1936 - GIANCARLo GhERRI 166

1936 - BRUNo MoNTANARI 168

1937 - GIoRGIo PIRoNDI 170

1938 - GIoRGIo SPoCCI 172

1938 - STEFANo vETToRI 174

1939 - LUCIANo BELLETTI 176

1939 - RoLANDo PATERLINI 178

1940 - GIANNI DoRDoNI 180

1941 - ADRIANo BoCChI 182

1943 - MASSIMILIANo PELLACINI 184

1946 - GIANNI MELLI 186

1945 - IvoR FUSChI 188

1946 - FRANCo PIAzzA 190

1948 - GIANCARLo NERoNI 192

1948 - GIACoMo MAGRI 194

1949 - FRANCESCo MAINI 196

1953 - EUGENIo DALL’oLIo 198

1963 - ANToNIo RoBUSChI 200

Indice

1.3 La genealogia delle aziende nel parmense - di Mario Gelati 95

1.3.1 L’evoluzione di un comparto 95

1.3.2 Storie delle aziende da fine 1800 a fine 1900 96

1850 - LA SIMoNAzzI 98

1907 - LA LIGURE EMILIANA 100

1909 - LA LUCIANI 102

1911 - LA CAPoLo 104

1918 - LA MANzINI 106

1924 - LA BARBIERI 108

1934 - LA BRoNzoNI 109

1936 - LA GhERRI 111

1940 - LA A & G RoSSI 112

1940 - LA SIRMA 113

1943 - LA vETToRI & MANGhI 114

1945 - LA RoSSI & CATELLI 116

1947 - LA SoAvI 118

1955 - LA FA.BA. 119

1958 - LA DALL’ARGINE & GhIRETTI 121

1960 - LA LEvATI 122

1960 - LA FMC 123

1962 - LA TECNINDUSTRIA 124

1963 - LA A.B.M. 125

1963 - LA BERChI 126

1963 - LA FBR 127

1965 - LA B.C. 128

1967 - LA CoMACo 129

1968 - LA SAvI 133

1973 - LA CANTADoRI & CoLLI 134

1977 - LA PARMASEI 135

1978 - LA SARCMI 136

1979 - LA ELPo 137

1979 - LA PRoCoMAC 138

1988 - LA SIMA 140

10

LA STORIA DELLE TECNOLOGIE AGROALIMENTARI

11

LE TEcnoLoGIE AGRoALIMEnTARI nEL PARMEnSE

di Giovanni Ballarini

Il gran progetto alla base di questi volumi nasce da una forte presa di coscienza, dovuta all’esperienza, alle potenzialità e ai problemi di un comparto portante e strategico per l’econo-mia non solo del territorio parmense, ma anche di tutto il sistema della trasformazione agro-alimentare italiana. La storia e la ricchezza del territorio parmense sono legate a doppio filo alla produzione alimentare, e da un secolo e mezzo all’industria agroalimentare che vi è nata e sviluppata. La capacità quasi unica dei cittadini di Parma di trasformare un settore prevalente-mente agricolo in un vanto dell’industria è stato il presupposto allo sviluppo di un comparto oggi considerato, non a torto, il migliore o quantomeno tra i migliori al mondo. Alla produ-zione di qualità, tipica della terra, degli allevamenti, della lavorazione artigiana e della cultura locale, si è affiancata in modo raffinato una ricerca tecnologica che permette di raggiunge-re sempre più elevati livelli di qualità e quantità. Su questa linea, l’industria delle tecnologie agroalimentari, con il tramite del marchio “Parma” che si è diffuso nel mondo, è divenuta uno strumento di benessere per tutto il territorio.

Queste le potenzialità, questo il valore. E, quasi per bilanciare, arrivano i problemi.Le industrie e, in generale, gli imprenditori e i professionisti del comparto non si conoscono,

non comunicano, non collaborano quanto sarebbe necessario, soprattutto in periodi difficili. Talvolta si trovano anche in una concorrenza spietata che non contribuisce a uno sviluppo comune, che determina anche quello di ogni singolo.

L’obiettivo di questo progetto è porre le basi perché le aziende e gli enti che operano nel settore possano conoscersi ed esprimere a pieno le proprie potenzialità.

Cosa bisogna intendere per “comparto delle tecnologie agroalimentari”? Un comparto che si compone di quattro settori:

• Macchine e apparecchi per il processo di lavorazione dei prodotti agroalimentari.• Macchine e apparecchi per il confezionamento e l’imballaggio impiegati nell’industria agroalimentare.• Imballaggi impiegati nell’industria agroalimentare.• Macchine, attrezzi complementari e servizi per l’industria agroalimentare.Qualcuno si potrà chiedere perché Città e Democrazia, che è un Centro di Studi Sociali e di

Introduzione

2 - PARTE SEconDA - LE PoTEnzIALITà DEL coMPARTo 203

di Massimo Capuccini

2.1 Analisi del comparto: il questionario sottoposto alle imprese 205

2.1.1 La morfologia delle imprese 206

2.1.2 Export 212

2.1.3 Innovazione tecnologica 214

2.1.4 Occupazione 216

2.1.5 Il rapporto con associazioni, enti e istituti di credito 217

2.1.6 Le opinioni delle imprese 219

2.1.7 Conclusioni 220

3 - PARTE TERzA - I cEnTRI DI SuPPoRTo E DI FoRMAzIonE 223

a cura di Erika Ferrari

3.1 Le Fiere di Parma e il cibus Tec 225

3.2 La SSIcA 231

3.3 Parma Tecninnova, il Parco Scientifico e Tecnologico 237

3.4 L’università di Parma: la facoltà di Ingegneria e la facoltà di Agraria 241

3.5 L’università di Parma: il corso Di Laurea in Tecnologia del Packaging 245

3.6 Il centro Risorse della Val d’Enza 247

3.7 L’Istituto Superiore Silvio d’Arzo 251

4 - PARTE QuARTA - ALTRE PEcuLIARITà DEL SISTEMA PARMA 261

a cura di Luciano Mazzoni

4.1 I distretti 262

4.2 I consorzi di Prodotto 264

4.3 Le strutture scientifiche 268

4.4 Gli enti di promozione 270

4.5 La cultura alimentare 272

4.6 I Musei del cibo 274

12

LA STORIA DELLE TECNOLOGIE AGROALIMENTARI

13

• Aumento dello spirito di collaborazione fra le imprese.• Messa in atto da parte delle aziende concorrenti di comportamenti coerenti, corretti ed eti-ci nella presenza sui mercati di sbocco; ma anche rispetto nel non sottrarsi reciprocamente i propri collaboratori.• Fissare regole che portino alla certificazione della qualità dei prodotti (macchine e impianti) anche quale giustificativo dei prezzi di vendita.• Azioni di promozione globale del comparto a livello mondiale con il coinvolgimento degli altri comparti che fanno di Parma un territorio di alta qualità dei prodotti agroalimentari (Prosciutto Parma e altri salumi, Parmigiano Reggiano, vini, conserve, ecc...), arte, cultura, ga-stronomia, centri termali, rivitalizzando e rilanciando il “Parma Qualità”, marchio ideato diver-si anni fa dalla Camera di Commercio di Parma. Su questa linea il comparto delle tecnologie agroalimentari può essere determinante per il rilancio, in quanto da oltre cent’anni uomini e donne del parmense, che operano nel settore girano il mondo per offrire i propri prodotti e servizi, e tutto il mondo viene a Parma per conoscerli e acquistarli.

Il volume “Ricerca Scientifica” è composto dalle seguenti quattro parti:• STORIA DEL COMPARTO DELLE TECNOLOIGIE AGROALIMENTARI, con un’analisi storica approfondita del settore, dei prodotti, dei metodi; seguita da un’altra analisi sull’evoluzione della tecnologia che è completata da una vera e propria genealogia delle aziende storiche e dai profili dei Pionieri delle tecnologie agroalimentari con interviste e testimonianze ine-dite.• POTENZIALITÀ DI UN COMPARTO, con un’analisi statistica e considerazioni ponderate sul-le direzioni di sviluppo futuro.• CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE che stanno alla base dell’evoluzione e dello svilup-po, costituendo il primo e fondamentale tassello per il Comparto.• PECULIARITÀ DEL SISTEMA PARMA nelle sue realtà consortili, dei distretti, degli enti, delle strutture scientifiche e delle realtà culturali che rendono Parma la capitale mondiale dell’ali-mentazione.Per i lavori di ricerca e di elaborazione dei risultati, e la loro pubblicazione è doveroso rin-graziare gli enti pubblici e privati per il supporto fornito, senza dei quali quest’opera non sarebbe stata possibile. Un ringraziamento va inoltre dato a Mario Gelati, Angelo Scivoletto, Roberto Massini, Luciano Mazzoni, Massimo Capuccini e a tutta la squadra di Edicta compo-sta da giovani promotori, giornalisti e grafici che hanno dato il meglio di sé per raggiungere il non facile obiettivo sopra indicato. Anche per questo ci si augura che la pubblicazione sia apprezzata nella sua totalità e, allo stesso modo, nei suoi limiti che in un prossimo fu-turo devono venire superati. È un preciso intendimento di Città e Democrazia proseguire nell’approfondimento del presente studio, dando vita ad una collana di pubblicazioni sulle tecnologie agroalimentari nel parmense.

Introduzione

Cultura Urbana, si è posto l’obiettivo di elaborare questo progetto. Una domanda che trova la sua risposta nel fatto che l’aspetto economico e produttivo è alla base di ogni sviluppo e movimento sociale e culturale. La vita di tutti si basa sul lavoro e la cultura che si è sviluppata in Italia; ma soprattutto a Parma, nel suo territorio e in quelli limitrofi, ha, come asse portante, la produzione dei prodotti agroalimentari di una qualità sempre più alta e continuamente ade-guata alle richieste dei consumatori e alle condizioni di distribuzione, con un lavoro raffinato e complesso sulle tecnologie del settore. Creazione e distribuzione di ricchezza: ecco il punto a cui l’economia deve arrivare. Ponendosi i grandi obiettivi del progetto sopra delineato, è stato necessario coinvolgere enti pubblici e privati, e associazioni di categoria, realtà che si trovano ad affrontare il non facile ruolo di coordinare, legare e controllare un comparto spesso molto frammentato, soprattutto a livello di piccole e medio imprese. In questo contesto, una parte-cipazione corale è un segnale da dare e al tempo stesso un punto di partenza per arrivare alla forza di un insieme, attraverso il quale ognuno mette in campo fede, rispetto, etica, spirito di sacrificio e umiltà per raggiungere un obiettivo comune. Un lavoro corale che, tuttavia, non vuole negare l’importanza di una sana e corretta concorrenza tra le aziende, basata sul rispetto e sulla conoscenza, e superare le difficoltà diventa un valore da cogliere.

Il lavoro svolto da Città e Democrazia, e presentato in questi volumi, è stato molto grande e con risultati che sono da ritenere la base per successivi approfondimenti. A questa che ri-teniamo essere una prima edizione, su 250 aziende presenti tra il parmense e la val d’Enza, hanno aderito e sostenuto economicamente il progetto solo 65, ma tra queste vi sono le più importanti. Le ragioni per la mancata adesione di circa i due terzi delle aziende sono numerose e varie, ma riconducibili principalmente alle seguenti:

• Forte crisi economica in atto, che rende cauti molti imprenditori, ma non i più avveduti, nell’affrontare l’innovazione che sarà assolutamente indispensabile per la ripresa al termine dell’attuale momento.• Tendenza a un risparmio con limitazione delle risorse economiche destinate allo sviluppo.• Diffusione, tipica dei periodi di crisi, di scetticismo e sfiducia, soprattutto per progetti che hanno una quota di novità.• Sfiducia, più o meno larvata e generalizzata, nelle istituzioni pubbliche e private; anche perché spesso queste non hanno sempre sufficientemente sostenuto il comparto in esame, che in periodi floridi si sviluppava in autonomia.I contenuti presenti in questi volumi saranno certamente apprezzati da chi li consul-terà, fa-

cendone strumento, oltre che di carattere economico e tecnologico, anche culturale. Per questo motivo si può essere fiduciosi in una seconda e molto più ampia edizione, prevista per Cibus 2010. Su questa linea, le basi che sono state poste e il progetto che è stato avviato potranno permettere di passare ad azioni concrete, anche con la costituzione di un Consorzio o una forma simile che veda presenti tutte le aziende del Comparto e che potrà curare i seguenti aspetti:

• Conoscenza fra le aziende a livelli maggiori degli attuali.

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Il comparto dell’impiantistica per l’agroalimentare rappresenta sicuramente uno dei pun-ti di forza dell’economia provinciale. In un decennio durante il quale abbiamo assistito all’avanzare del fenomeno della terziarizzazione delle economie, Parma mantiene la pro-pria vocazione industriale. Un fondamentale contributo in questo senso viene proprio dall’operare delle imprese di questo settore, portatrici di un’eccellenza per la quale Parma è famosa nel mondo almeno quanto lo è per i propri prodotti agroalimentari.In questo senso tutte le iniziative volte ad un rafforzamento del comparto vedono la Ca-mera di Commercio convinta sostenitrice. Questo è particolarmente vero per quelle azioni che mirano ad incrementare la competitività delle nostre imprese sui mercati internazio-nali, un ambito che rappresenta uno degli obiettivi primari dell’azione camerale. E’ dalla capacità di conquistare quote sempre più importanti di export che possiamo, infatti, valu-tare lo stato di salute dell’intera economia provinciale. Se le nostre imprese sapranno es-sere competitive su questo fronte le ricadute non potranno essere che positive per l’intero territorio.Proprio per questo motivo abbiamo un costante bisogno di dare valore e coesione ai di-versi settori produttivi che caratterizzano un’economia, la nostra, che rimane una delle più solide a livello nazionale e regionale.Il progetto proposto dal Centro Studi Città e Democrazia mi pare vada proprio in questa direzione ed è per questo motivo che lo guardiamo con grande interesse, sia per quanto riguarda la metodologia di lavoro proposta che per le finalità di accrescimento della co-noscenza della “morfologia” di questo comparto, di cui sono certo che tutte le realtà che operano sul territorio si avvantaggeranno.

Andrea ZanlariPresidente Camera di Commercio di Parma

Prefazione

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Parma è conosciuta come “capitale” alimentare per i suoi prodotti di alta qualità famosi in tutto il mondo e per la presenza di importanti aziende del settore. Ma Parma è meno nota come “capitale” dell’impiantistica per l’industria alimentare, titolo che le competereb-be, in quanto poca ricerca, pochi studi e quindi poche pubblicazioni sono state fatte sul settore del quale si ha oggi solo una conoscenza parcellizzata in funzione della storia di alcune imprese; manca infatti una conoscenza dell’insieme di queste “storie” che congiun-tamente all’attività di ricerca e di promozione svolta dagli enti ed istituti presenti nella nostra provincia, fa di Parma il centro principale d’Italia e forse d’Europa per le tecnologie alimentari.Per colmare questa lacuna e al fine di creare e rendere nota una visione complessiva di detto comparto che porterebbe uno specifico valore aggiunto d’insieme al settore dell’im-piantistica parmense, l’Unione ha dato la propria adesione ad un progetto proposto dal Centro studi di Parma “Città e democrazia” che si concretizza nella presente pubblicazio-ne.Nel ringraziare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa basilare ope-ra, ci auguriamo che essa possa essere la prima pietra di un percorso di conoscenza che rafforzi l’immagine del comparto dell’impiantistica alimentare parmense nel mondo.

Daniele PezzoniPresidente Unione Parmense degli Industriali

Prefazione

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L’impresa agroalimentare è, con evidenza, la colonna portante dell’economia e della vita di queste terre. Prima di tutto una cultura e una storia lunga secoli, poi capacità e profes-sionalità uniche al mondo nell’introdurre la tecnologia nelle stesse.Questi volumi rappresentano un quadro straordinariamente dettagliato del settore agro-alimentare e, allo stesso tempo, sono spunto di riflessione per comprendere quali strate-gie staranno alla base della nuova evoluzione del comparto.Proprio in queste strategie si colloca, quale protagonista principale, la formazione dei pro-fessionisti dell’agroalimentare. Il mercato è alla ricerca di professionalità sempre più quali-ficate e specifiche, e allo stesso tempo con una visione sempre più globale della continua evoluzione dei metodi e delle tecnologie.Questo volume può e deve essere la base per uno sforzo comune nel formare i profes-sionisti del settore. Professionisti che saranno certo necessari per lo sviluppo del futuro, futuro nel quale le tecnologie, il rapporto con la società e il rispetto dell’ambiente costitu-iranno i punti fondamentali, e allo stesso tempo per il grande obiettivo per il quale “Città e Democrazia” pone le basi: imprese, istituzioni, enti, Università e cittadini devono lavorare insieme per esportare conoscenze, formazione e tecnologie in quei Paesi in cui, a causa di secoli di colonialismo e decenni di politiche di sostegno errate, ancora oggi si muore di fame nonostante la quantità enorme di produzioni agricole.Parma è la Capitale Mondiale della tecnologia agroalimentare e in questo non potrà non essere allo stesso tempo avanguardia e protagonista.Il ruolo dell’Università e della formazione sarà ancora più strategico in questa visione, sarà un settore in cui tutti dovranno investire energie e risorse.Su questi obiettivi si basa l’appoggio mio e dell’Università a questa iniziativa, con l’auspi-cio che non sia un lavoro fine a sé stesso ma il primo di tanti sforzi e tanti studi in questa direzione.

Gino FerrettiMagnifico Rettore dell’Università di Parma

Prefazione

PART

E PRIM

A 1

LA SToRIA DELLE TEcnoLoGIE AGRoALIMEnTARI

23

DALL’AGRIcoLTuRA ALLo SVILuPPo InDuSTRIALE

di Giovanni Ballarini

1.1.1 - I cInQuE PILASTRI DEL SISTEMA AGRoInDuSTRIALE PARMIGIAnoCinque sono stati i pilastri dell’agroindustria parmigiana del secolo ventesimo. I primi

quattro sono le produzioni del formaggio, del pomodoro, della barbabietola e del pro-sciutto, che hanno indirizzato e sostenuto l’economia e modellato il paesaggio. Questi quattro pilastri, in grado diverso, si sono collegati allo sviluppo del quinto, rappresentato dall’industria delle macchine alimentari. I cinque pilastri nel loro insieme hanno de-terminato la crescita di un sistema commerciale e fieristico del tutto particolare, nuove strutture socio-economiche - come i distretti di prodotto - e dall’interagire delle attività agricole, industriali, commerciali e socioeconomiche si è sviluppato quello che è stato de-finito il fenomeno parmigiano dell’industria agroalimentare.

Il sistema agroalimentare parmigiano alla fine del ventesimo secolo, e soprattutto all’ini-zio del secolo successivo, ha dovuto affrontare grandi sfide, alle quali ha reagito con pro-fondi mutamenti, particolarmente evidenti nel primo decennio del secolo ventunesimo. A far da cornice a questa situazione vi era un quadro estremamente complesso ed articolato che, per essere meglio capito, avrebbe bisogno d’ampie indagini e ricerche che permetta-no una migliore comprensione del perché e come a Parma, in quel periodo, si è costituito il sopra accennato sistema agroalimentare.

Indubbiamente la nascita e lo sviluppo dell’industria agroalimentare nel parmense sono stati oggetto di ricerche e pubblicazioni; quello che si tenta di indagare in questo volume sono le condizioni che sembra abbiano dato avvio, guidato e sostenuto il sistema agroin-dustriale parmigiano, rendendolo in misura significativa diverso da quello d’altri territori, anche circostanti, fino a permettere a Parma di assumere il ruolo di capitale del cibo nella valle alimentare padana.

1.1.2 - LE cInQuE RADIcI DELL’InDuSTRIALIzzAzIonE AGRoALIMEnTARE PARMIGIAnA

Almeno cinque sono le radici culturali che possono giustificare la formazione e lo svi-luppo di un’agroindustria a Parma: una città che, seppur piccola, per lungo tempo si è affermata come capitale capace di accogliere il pensiero tecnico moderno, di porsi al cen-tro di commerci d’ampio respiro e, non da ultimo, di essere la sede multisecolare di uno

1.1Dall’agricoltura allo sviluppo industriale

24

LA STORIA DELLE TECNOLOGIE AGROALIMENTARI

25

1.1Dall’agricoltura allo sviluppo industriale

e questo favorì un impulso alla costruzione e sviluppo d’opifici variamente destinati.La terza radice dello sviluppo dell’agroindustria parmigiana è indubbiamente quella

di una Parma città di commerci - probabilmente fin dall’epoca etrusca e sicuramente da quella romana - come dimostrano gli invii di lane e alimenti conservati (caci e carni sala-te) alla capitale romana o ai suoi eserciti. Questa vocazione commerciale era legata alla sua posizione strategica, all’incrocio di due grandi assi. Il primo asse era sulla direttiva da oriente a occidente, costituto dall’antichissima e preistorica via pedemontana, dalla via Emilia denominata anche Claudia, e dal fiume Po con i suoi porti7. Il secondo asse che passava da Parma era sulla direttiva che andava dal settentrione al meridione con strade che a sud erano agevolate da un transito appenninico favorevolmente basso in una “incisura” che attribuirà poi nome al passo della cisa, utilizzato dai longobardi (come testimoniano molti toponimi, e che durante il medioevo divenne una strada Romea, con le diramazioni Francigena e Alemanna8). Su queste strade passavano i commerci con i loro animali cavalcati, che trainavano carrozze e carri da soma. Della vocazione commerciale di Parma testimoniano i mercati e le fiere nelle quali si contrattavano animali, ma che al tempo stesso vedevano affluire gli animali da trasporto dei commercianti. I mercati met-tevano a contatto le attività e soprattutto le produzioni del contado con la città9. Dalla campagna e dai boschi arrivavano alimenti e legna da ardere o da costruire, mentre la città offriva prodotti finiti.

Sempre nei mercati i contadini commerciavano animali e sementi. Presso la città, il mer-cato boario si svolgeva nell’area ghiaiosa che nel 1177 o 1180 era rimasta libera per lo spostamento della Parma, e denominata Ghiaia. Bisognerà attendere fino al 1838, quando la duchessa di Parma Maria Luisa fece realizzare in un luogo migliore il mercato bestiame, fuori dell’attuale barriera Saffi, e su consiglio di vincenzo Mistrali, chiese all’architetto di corte Nicola Bettoli di realizzare in piazza Ghiaia le nuove Beccherie (poi donate al Mu-nicipio di Parma): costituite da un edificio in stile neoclassico, avevano una facciata con cinquanta colonne ed erano dotate di ghiacciaia. Nella provincia di Parma si tenevano numerosi mercati di bestiame, importanti punti d’incontro degli allevatori e mediatori, e di chi loro fornivano fieno, alimenti e mangimi per il bestiame. oltre al mercato di Parma, erano importati quelli posti ai piedi dell’Appennino, quelli dove confluivano le diverse vallate, come Langhirano (lunedì) e Fornovo (martedì)10, e quelli di Albazzano di Tizzano, Palanzano e, nella bassa parmense, il mercato di Busseto. Questi mercati, in pratica, scom-parvero nella seconda metà del secolo ventesimo quando furono sostituiti da altri sistemi di commercializzazione e di scambio d’informazioni. Se i mercati avevano una funzione locale, le fiere invece avevano una visione più ampia. Nulla sappiamo di fiere parmigiane del periodo romano, come invece sappiamo che a Cremona vi era un’importante fiera del bestiame. Medievali sono le fiere parmigiane di San Siro e di Sant’Ercolano a cadenza annuale, la prima in primavera e la seconda in autunno, frequentate da mercanti francesi e

Studium poi divenuto Universitas Studiorum.La prima radice riguarda Parma che non solo è stata, ma si è soprattutto sentita, capi-

tale nel periodo longobardo dell’Aurea Parma o dell’autonomia comunale; e che si è sviluppata in un circuito europeo delle corti anche attraverso le dinastie dei Farnese, dei Borbone e viennese, acquisendo atteggiamenti e comportamenti culturali di grand’aper-tura verso le innovazioni provenienti dall’esterno1.

Per la seconda radice bisogna ricordare che, a iniziare dall’Illuminismo e dalla cultura dell’Enciclopedia, negli ultimi decenni del secolo XvIII e sotto il dominio dei Primi Borbone (1731 – 1802), la cultura francese - che dai settecenteschi “progressi della ragione” giunge poi in pieno ottocento a un malcelato, ma non per questo non meno decisivo “ritorno all’ordine” - fa di Parma un centro culturale di prim’ordine. È la Parma di Du Tillot, del Bodoni, del Paciaudi, del Turchi, del Mazza, del Moreau de Saint-Mery e dell’Affò. Un centro culturale aperto non soltanto all’importazione, ma produttore esso medesimo di cultura, e creatore di fonti e di proposte che il tempo non ha annullato2. Parma, che sarà poi de-finita l’Atene d’Italia, con Guillaume Du Tillot si francesizzò profondamente e in questo periodo fu fondata la Gazzetta, il primo giornale italiano, l’Accademia Reale di Belle Arti (1752) e la Reale Biblioteca (1762, con inaugurazione nel 1769) ora Biblioteca Palatina. Una Parma nella quale arrivavano, in abbonamento, più di trenta fascicoli dell’Encyclopédie, e tanti non ne giungevano né a Roma, né a Bologna, né a Napoli3.

Di fronte ad un fiorire d’interessi culturali non va tuttavia dimenticato4 che il Du Tillot trovò a Parma disoccupazione, deficienze di cognizioni tecniche: mali endemici del duca-to, che tentò di curare, incoraggiando e sovvenzionando la produzione delle più svariate merci: i bozzoli e le sete prima di tutto, poi gli innumerevoli oggetti della moda. Per questo dalla Francia e dalla Svizzera furono chiamati abili operai e artigiani, e per l’agricoltura il Du Tillot diede impulso alla coltivazione del gelso per la bachicoltura5 e introdusse la patata.

L’apertura della cultura parmigiana alle nuove idee che provenivano dalla Francia, an-che nei confronti degli animali, quindi delle loro produzioni e trasformazioni, è ben dimo-strata dal Concorso Accademico bandito per il 1793 dall’Accademia Reale di Belle Arti di Parma6 e riguardante il Concorso d’Architettura per “Una Fabbrica ad uso di Scuola vete-rinaria”. Artigianato e protoindustria urbana indirizzata alla corte era quella del vetro, dei mobili e dell’ebanisteria, delle carrozze, della stampa, oltre ad attività artistiche. Atti-vità di trasformazione agricola erano quelle della seta e degli alimenti, in particolare la lavorazione del latte (parmigiano e burro) delle carni suine e prodotti conservati (salumi), delle granaglie (frumento, riso, ecc...). Scomparsa la corte, dopo il 1860 l’artigianato si ri-volse alla produzione agroalimentare su diverse linee, in relazione anche al nuovo modo di alimentarsi e alla recente centralità di Parma nel sistema ferroviario italiano che facilitò l’arrivo in città del carbone con la produzione nelle fabbriche del vapore e del gas di città,

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no le carni salate e i formaggi. Si tratta di prodotti già commercializzati su mercati lon-tani ai tempi degli Etruschi e dei Romani con produzioni familiari e artigianali, anche per quanto riguarda le attrezzature necessarie, in un quadro non dissimile da quello esistente in altre aree dell’Italia settentrionale. Molto più recente, in città, è la produzione dello zuc-chero da barbabietola, ma anche in questo caso con modalità non dissimili da quelle di altre aree italiane e straniere. Particolare è quanto avvenuto per la produzione del po-modoro, non tanto per la sua coltivazione orticola, quanto per quella in campo e per la sua trasformazione industriale, che sotto certi aspetti è da ritenere l’evento che ha dato avvio al fenomeno dell’agroindustria parmigiana, portando soprattutto nell’agricoltura le idee delle trasformazioni industriali e facendo lievitare la propensione verso l’innovazione tecnologica ed organizzativa.

Come è stato rilevato da Salvatore Adorno12, la centralità del caso parmense e delle con-nesse attitudini tecnico-produttive, trova riferimento in due istituzioni che soprattutto all’inizio del secolo ventesimo ebbero una grande importanza: l’Associazione Agraria e la cattedra Ambulante d’Agricoltura, con forti e peculiari dimensioni locali, legate an-che all’attività di personaggi d’alto spessore: in particolare per il Comizio Agrario Carlo Rognoni e per la Cattedra Ambulante Antonio Bizzozzero. La dimensione locale che ha portato alla centralità del caso parmense, secondo il citato Adorno, sarebbe stata origina-ta da quattro matrici.

La prima matrice è il forte indirizzo produttivistico dato all’agricoltura parmense dall’azione innovativa dal Bizzozzero attraverso i tecnici agrari, superando schemi ideolo-gici e di classe. La matrice tecnicistica del ruralismo padano appare come un dato conso-lidato dalla ricerca, soprattutto a Parma, dove i tecnici sono portatori di saperi e creatori d’istituzioni e associazioni: dalle cattedre ambulanti alle scuole pratiche d’agricoltura, ai consorzi agrari, alle banche cooperative, alle stazioni di monta per il miglioramento gene-tico del bestiame, ecc...

La seconda matrice è rappresentata dallo stretto intreccio tra agricoltura e industria di trasformazione che, a partire dall’ultimo decennio del secolo Diciannovesimo, ha ca-ratterizzato l’economia locale con la formazione di figure miste d’agricoltori-industriali che sviluppano le tradizionali produzioni e trasformazione del formaggio e dei salumi, e inseriscono le nuove produzioni della barbabietola da zucchero e del pomodoro da con-serva13.

La terza e la quarta matrice sono rispettivamente quelle riguardanti la storia del movi-mento contadino e la vita politica della provincia, con il tentativo dell’Associazione Agraria di costituirsi in un autonomo partito politico. In questo contesto, come fa rilevare Salvato-re Adorno14, va inserito il ceto padronale parmense che, investendo nelle sue componenti più avanzate i propri capitali nell’industria di trasformazione e nell’edilizia, e maturando nel suo insieme - anche in significativi settori dell’aristocrazia – notevoli attitudini impren-

fiamminghi, che arrivavano attraverso la via Romea nei suoi rami di Francigena e Aleman-na, e interessati soprattutto alla lana di cui Parma era celebre sin dal tempo dei romani. Intenso pare fosse anche il commercio d’animali da trasporto e soprattutto cavalli, muli ed anche bovini. Attraverso le fiere ed i mercati si commercializzavano anche le preziose spezie ed il sale, necessari per la cucina e la gastronomia, e per la conservazione delle car-ni. In particolare è da rilevare che lungo il Po vi erano attracchi allo sbocco degli affluenti, che permettevano di risalire alle città, e che per l’approdo alla riva chiedevano una tassa o ripatico. Mentre era consuetudine alle barche che provenivano dalla foce del Po di pagare il ripatico in sale proveniente dalle saline adriatiche, nel porto qui appellatur parmisiano il ripatico era pagato in pepe, dato che il sale era presente nella zona, ottenuto dalle ac-que salse di Salsomaggiore ed aree vicine11. Altra radice di una vocazione commerciale di Parma è legata allo Studium Parmense, al quale affluivano studenti che portavano merci preziose dai loro paesi usate per pagare i mercanti cittadini, i quali erano così indirizzati ai mercati di provenienza degli studenti.

Quarta radice è stata indubbiamente quella di essere stata, Parma, sede di uno Stu-dium, poi divenuto Universitas Studiorum. Quando ottone I nel 962 rilasciò al vescovo Uberto di Parma il Diploma che gli attribuiva il diritto d’eligere e ordinare i notai, gettando le basi dello Studium Parmense o Università degli Studi, non supponeva di modificare nel tempo tutto il sistema della città e del territorio. Anche se nel secolo Diciannovesimo, e prima metà del secolo ventesimo, l’Università di Parma non aveva specifici indirizzi di tecnologie meccaniche e agroalimentari - che saranno sviluppate soltanto alla fine del 1900 - non va sottovalutato il ruolo che l’Università ha svolto nel mantenere e soprattutto diffondere una mentalità scientifica e tecnica.

La quinta radice è da rintracciare nella mancanza di una ricerca sperimentale e tecnica agroalimentare universitaria che ha trovato una quanto ma valida supplenza nella costi-tuzione da parte delle istituzioni locali prima, e di quelle nazionali poi, della Stazione Sperimentale per l’Industria delle conserve Alimentari (SSIcA).

1.1.3 - L’InDuSTRIA DELLE MAcchInE AGRoALIMEnTARI. cEnTRALITà DEL cASo PARMEnSE E LE SuE QuATTRo MATRIcI

Diversi, ma tra loro intrecciati, sono stati i tempi e le linee di sviluppo dei cinque pilastri che hanno caratterizzato lo sviluppo del fenomeno agroindustriale parmigiano, in par-ticolare le già citate produzioni di formaggio parmigiano, pomodoro da industria, bar-babietola da zucchero, prosciutti e altri prodotti di salumeria e macchine per l’industria alimentare. Pur rifacendosi tutte alle citate radici culturali, ognuna di queste produzioni ha le proprie caratteristiche, alle quali è interessante accennare con particolare riferimento all’industria delle macchine agroalimentari.

Da un punto di vista strettamente cronologico, indubbiamente, a Parma, prima vengo-

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to della produzione, a una maggiore richiesta del mercato e, non da ultimo, a modifiche nell’utilizzo degli alimenti (materie prime di base, ingredienti e condimenti, ecc…). Per il caso parmigiano è interessante accennare alla barbabietola da zucchero, al pomodoro e, anche per un criterio cronologico di sviluppo, al settore lattiero-caseario e dei salumi. A questo riguardo va premesso che l’aumento delle produzioni del latte, della bietola e del pomodoro, fecero da traino alle rispettive industrie di trasformazione, che a loro volta favorirono un nuovo sviluppo dell’agricoltura e, come indicato da Salvatore Adorno17, i deboli nuclei cittadini dell’industria metalmeccanica e le fonderie (come quelle di Cu-gini e Callegari), si rafforzarono, specializzandosi nella produzione di macchine agricole, di impianti per caseifici e di fabbriche conserviere.

Lo zucchero era noto sin dal tempo dei Romani, quando era prodotto dalla canna da zucchero ed era importato dall’oriente e, nonostante la piccolissima produzione araba in Sicilia, rimase sempre un prodotto prezioso che si vendeva in farmacia, e di conseguenza gli unici dolcificanti erano il miele ed il mosto d’uva. Una progressiva abbondanza di zuc-chero si ebbe all’inizio del secolo diciannovesimo con la sua produzione dalla barbabie-tola che comparve nel territorio parmense nella prima metà dello stesso secolo, mentre del 1874 fu il primo tentativo, fallito, di uno zuccherificio parmigiano. In seguito, quando per opera d’Antonio Bizzozzero s’insegnarono agli agricoltori i vantaggi della coltivazione della barbabietola, alla fine del secolo, per opera della Società Ligure Lombarda, si arrivò alla costruzione e all’attivazione di uno zuccherificio, con macchinari e personale tecnico boemo diretti dal Krieg, poi sostituito da Antonio Anfossi. Un’attività che quindi non coin-volse l’industria parmigiana.

Se abbastanza intuitivo poteva essere il successo della produzione dello zucchero, non altrettanto era quella del pomodoro, pianta importata dall’America e che a Parma, sem-pre nella prima metà del secolo Diciannovesimo, era stato introdotto come coltivazione soprattutto nelle zone del pianocolle di Langhirano, Sala Baganza e Felino. Il pomodoro era usato come ortaggio da insalata e, a livello familiare, trasformato in salsa e conservato in bottiglie scaldate in acqua bollente, sfruttando così la sua acidità. Il successo della salsa di pomodoro è d’attribuire alla sua funzione sostitutiva del molto più costoso sugo di car-ne, che caratterizzava la nuova cucina borghese che si era formata in Francia e che stava invadendo anche l’Italia: da qui l’interesse di ampliare la produzione di pomodoro e di avere delle sue conserve.

L’ampliamento di questa produzione avvenne a Parma per opera del direttore del Co-mizio Agrario Carlo Rognoni, che aveva un suo podere a Panocchia con la coltivazione in campo e con l’inserimento del pomodoro nella rotazione agraria biennale, con il grano al posto del granturco. Di pari passo, e a livello familiare o artigianale, anche da parte di negozianti di prodotti alimentari, fu sviluppata una conserva di pomodoro concentrata, ottenuta con l’ebollizione in caldaia a cielo aperto scaldata con fuoco a legna e poi essic-

ditoriali nella gestione delle aziende agricole, assume una profonda consapevolezza del ruolo dinamico che svolge nello sviluppo dell’economia locale.

Nell’ambito del caso parmense, il ceto agrario si distingue dalle altre realtà padane per diverse caratteristiche e, tra queste, per la spiccata propensione all’innovazione15 e per la tendenza a investire non solo nel settore primario, ma anche in quello dell’industria di trasformazione dei prodotti agrari, assumendo progressivamente un profilo sempre più industriale. Questo atteggiamento ha, indubbiamente, favorito e tratto un chiaro vantag-gio dallo sviluppo di un artigianato prima, e di un’industria poi, di macchine specializzate nella trasformazione delle produzioni agricole e zootecniche locali. Su questa linea vi fu anche un importante spostamento di capitali agrari nel settore industriale e finanziario.

Il caso parmense, come ritratto dalle quattro matrici sopra menzionate, mostra una ca-pacità di risposta originale ai processi di trasformazione indotti dalla modernizzazione postunitaria della fine del secolo Diciannovesimo e secolo ventesimo, nei quali si inserisce la nascita e lo sviluppo dell’industria di trasformazione alimentare. Queste matrici, uni-tamente alle già citate cinque radici dell’industrializzazione agroalimentare parmigiana, contribuiscono a spiegare le origini dell’intreccio agroindustriale che ha caratterizzato la società e l’economia parmigiana e che prende origine nel grave periodo della crisi econo-mica postunitaria.

1.1.4 - LE oRIGInI DELL’InTREccIo AGRoInDuSTRIALE DEL PoMoDoRo E DELLE SuE FABBRIchE

La produzione dei formaggi e la conservazione delle carni suine - antichissime nel ter-ritorio parmigiano - seppure nella versione conservati erano già oggetto di commerci, non aveva dato avvio ad un’industrializzazione, come invece avvenne in seguito per la barbabietola da zucchero e, soprattutto, per il pomodoro. L’avvio dell’industrializzazione delle produzioni agricole parmigiane, con un nuovo intreccio agro-industriale, è stato un fenomeno complesso e non completamente chiarito e spiegato. Fra le diverse origini, quelle principali sono da ricercare nella concomitanza dei seguenti elementi:

crescita dei consumi1. alimentari di una popolazione sempre più urbana e con miglio-re reddito;parallela2. diminuzione dell’autoconsumo delle produzioni familiari;evoluzione della cucina3. con tendenze borghesi a sempre più larghi strati della po-polazione;crescenza dell’efficacia della distribuzione4. degli alimenti non solo di base, ma an-che di prima trasformazione16.

va inoltre aggiunto che tra la fine del Diciannovesimo e la prima metà del ventesimo se-colo si sviluppò una forte interrelazione tra il settore primario della produzione agricola e quello secondario della trasformazione dei prodotti alimentari legato a un aumen-

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La diffusione delle nuove fabbriche del pomodoro diede avvio all’espansione di un’in-dustria meccanica diversificata che inizialmente si concentrò sulla produzione delle boules, delle caldaie a vapore e delle scatole di latta, litografate o comunque etichettate, con i connessi macchinari di confezionamento e di sterilizzazione26. Una nuova industria che si sviluppò non senza inconvenienti e che indusse i produttori più avvertiti a dare avvio a una struttura di ricerca che poi sfociò, nel 1922, nella costituzione della Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari (SSICA). Questa nuova industria di tipo metalmeccanico ebbe la possibilità di trasferire le recenti conoscenze ad altri settori agroindustriali, tra i quali quello della lavorazione del formaggio dove le caldaie scalda-te a fuoco di legna furono progressivamente sostituite da quelle riscaldate in modo più preciso ed efficace dal vapore. In modo analogo la produzione delle scatole di latta poté essere trasferita all’industria salumiera per l’esportazione, soprattutto all’estero, di taluni prodotti cotti.

La rapida costruzione, in un tempo relativamente breve, di un rilevante numero di nuove fabbriche - quasi sessanta - ebbe un importante riflesso sull’industria edilizia, non solo come produzione di materiali da costruzione, ma anche sotto l’aspetto tecnico (è sufficiente ricordare la creazione delle sempre più alte ciminiere27). La diffusione di un’in-dustria conserviera diede un nuovo orizzonte all’agricoltura parmense, non più legata a produzioni agricole tradizionali più o meno simili a quelle d’altri territori della pianura padana, ma con una rappresentazione che coinvolgeva anche una nuova immagine del territorio.

Non da ultimo è da considerare il ruolo che ha avuto la vendita di scatole di latta etichet-tate, sulle quali era presente il marchio del produttore spesso individuato con un’immagi-ne leggibile anche dagli illetterati: le etichette erano evocative di un’idea di progresso che ben si attagliava al ventesimo secolo dello sviluppo, del quale era stata celebrata la nascita con il Ballo Excelsior.

Riprendendo sia pure per cenni il ruolo della nuova industria del pomodoro nell’intreccio agroindustriale parmense, va di nuovo ricordato che si trattava di un’industria stagionale estiva e che si era sviluppata anche per opera d’imprenditori che, a diverso titolo, opera-vano in altre attività stagionali, come quella invernale della salumeria e quella prevalen-temente autunnale della viticoltura e produzione di vini. La costituzione di trinomi terra – conserva – salumi o di terra – conserva – vini era inoltre agevolata da una distribuzione dei prodotti attraverso il sistema dei negozi di generi alimentari e, soprattutto, contribuì a trasferire una mentalità di lavorazione industriale dal pomodoro ad altri alimenti, non ultimi quelli del lattiero-caseario e del prosciutto. In quest’orientamento, la nascita e lo sviluppo dell’industria conserviera nata a Parma all’inizio del secolo ventesimo è alla base di uno stretto intreccio con altre attività locali fra cui, in modo particolare, le industrie alimentari e le industrie metalmeccaniche ed attività espositive28.

cata al sole. Il processo portava alla produzione di pani di “conserva nera” o “sestuplo”18, affiancando questa lavorazione, strettamente estiva, a quella altrettanto stagionale ma invernale, dei salumi di maiale, e alla nascita d’alcuni opifici o “fabbriche del pomodoro”19. Molto limitato fu il successo di un’esportazione della conserva nera e quasi nullo all’estero, sia per il sistema di confezionamento20, sia per la scarsa qualità del prodotto, spesso sofi-sticato anche con l’aggiunta di frutti di biancospino, della rosa canina o con patate, mele cotte, pere secche e perfino farina di mais.21

È dell’inizio del secolo Ventesimo l’importazione dalla Francia di macchine (boules) per la concentrazione della passata di pomodoro sotto vuoto e la produzione del doppio e triplo concentrato di colore rosso che, confezionato in scatole metalliche, decreta il successo della nuova produzione, facilmente esportabile. Un fenomeno che si svolge in un breve periodo che indicativamente inizia nel 1902, durante il quale si stabiliscono importanti intrecci agroindustriale che cambiano profondamente l’assetto parmigiano. I principali elementi dell’intreccio sono schematicamente i seguenti: nascita della “nuova industria” del pomodoro; correlato sviluppo di una nuova imprenditorialità, nascita e cre-scita di un’industria meccanica diversificata; indotto sull’industria edile; nuova mentalità agricola; nascita e diffusione dell’idea della marca e del suo valore. Un intreccio, inoltre, che ebbe importanti conseguenze su altri settori manifatturieri e tra questi, per l’alimen-tare, quello lattiero-caseario e salumiero. Un intreccio che merita qualche breve cenno.

La nuova industria del pomodoro nacque a Parma nel 1902 con il primo impianto industriale installato dal padovano Cesare Pezziol22 nel quale si produceva il “doppio con-centrato”, lavorato sotto vuoto in boules riscaldate con il vapore, e confezionato in scatole metalliche. L’innovazione fu accolta molto favorevolmente dai parmigiani. Accanto a quel-lo di Pezziol, tra il 1902 ed il 1907, sorsero altri 19 stabilimenti forniti di boules e caldaie va-pore, che nel 1908 arrivarono a 24, mentre tra il 1910 e il 1913 si arrivò al numero totale di ben 59 nuove fabbriche di concentrati e conserve di pomodoro23. La rapidissima crescita delle “fabbriche del pomodoro”24 costellò la periferia cittadina e la campagna, soprattut-to nella zona meridionale e in quella del pianocolle, di una selva di ciminiere simbolo di una nuova imprenditorialità. Alcuni produttori di conserva nera si erano, infatti, convertiti alla nuova tecnologia, ma la maggior parte delle nuove fabbriche era espressione di una altrettanto nuova imprenditoria locale che fino ad allora era rimasta estranea all’industria conserviera caratterizzata dai moderni assetti imprenditoriali delle società per azioni o d’accomandite per azioni con rilevante capitale sociale, oltre alla consistente quota di fabbriche gestite sotto diversa forma da aziende familiari. In questa nuova situazione si crearono importanti strutture commerciali per la vendita del nuovo e continuamente cre-scente prodotto sia in Italia, sia all’estero; si ebbe inoltre un confluire d’economie locali derivanti dall’agricoltura e da altre attività che, in un certo modo, costituirono una nuova alleanza di capitali25.

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origine anche da radici antiche - non si esaurisce negli ambiti che sono stati considerati o soltanto accennati. In proposito, è necessario soffermarsi sulle conseguenze che si sono avute sulla cultura e mentalità contadina parmigiana e sul paesaggio della campagna parmigiana. Se fin verso la metà del secolo Diciannovesimo i rapporti tra la città e la cam-pagna erano definiti sulla base di impostazioni tradizionali, e molto simili a quelle di altre province anche vicine, successivamente e in conseguenza dell’intreccio agroindustriale sopra schematizzato - sia pure attraverso complesse, difficili e tutt’altro che indolori pro-cessi di trasformazione -, si sono creati quadri e scenari che nella seconda metà del secolo ventesimo hanno portato Parma a presentarsi come una “capitale” del cibo, prodotto e interpretato con una visione di tradizione vissuta modernamente. In questo ambito, se nella montagna parmigiana la cultura contadina è rimasta sostanzialmente simile a quella d’altre province, nella parte della bassa collina, pedemontana e della pianura si è potu-to costatare una forte differenziazione, che non cessa di ampliarsi; lo dimostra, in questi ultimi anni, l’industrializzazione della produzione di vini, non soltanto come ricupero di tradizioni, ma soprattutto come innovazioni originali.

Nello stesso orientamento sarebbe da approfondire il ruolo che l’intreccio agroindu-striale del ventesimo secolo ha avuto sul paesaggio parmigiano. Il paesaggio parmigiano del Diciannovesimo secolo aveva visto la comparsa delle stalle che sostenevano la nuova realtà della produzione di latte destinato alla caseificazione. All’inizio del secolo ventesi-mo non solo nel territorio parmigiano si diffondono le fabbriche con le loro ciminiere, ma ai caseifici si affiancano sempre più grandi porcilaie, peraltro in diminuzione verso la fine del secolo, quando le strutture saranno costruite secondo criteri e stili standardizzati. In modo analogo la specializzazione produttiva e la meccanizzazione agricola porterà alla scomparsa della piantata nella quale la vita era sposata agli alberi, all’apparizione della pioppicoltura industriale e a tanti altri cambiamenti di omologazione del paesaggio par-migiano con quello di altri territori.

1.1.7 - SEcoLo VEnTESIMo: cRoLLo DI un SISTEMA?All’inizio del secolo ventunesimo a Parma è divenuto evidente l’appannarsi, se non lo

scomparire, delle cinque radici e delle quattro matrici che, più o meno lontane, avevano portato all’industrializzazione agroalimentare parmigiana e al costituirsi d’intrecci tecnici, socioculturali ed economici che sostenevano i cinque pilastri caratterizzanti del sistema parmigiano, sviluppati nel corso del secolo ventesimo.

In questi ultimi anni la produzione della barbabietola da zucchero è in una crisi gravissi-ma e rischia la scomparsa di fronte a una massiccia - e pare inarrestabile - globalizzazione dei mercati. Il formaggio Parmigiano Reggiano DoP e il Prosciutto Parma DoP sono in crisi non solo di sovrapproduzione, ma anche per i mutati consumi alimentari e preferen-ze verso altre produzioni di più facile commercializzazione e, soprattutto, d’uso più confa-

1.1.5 - InDuSTRIALIzzAzIonE AGRoALIMEnTARE LATTIERo-cASEARIA E SALu-MIERA PARMIGIAnA

L’intreccio agroindustriale innescato dalle fabbriche del pomodoro nelle sue diverse di-mensioni, e soprattutto attraverso lo sviluppo di una diversificata industria metalmecca-nica, ebbe una rilevante importanza anche sullo sviluppo d’altri prodotti agroalimentari come quelli lattiero-caseari e salumieri. Per quanto riguarda il settore lattiero-caseario se lo sviluppo delle industrie metalmeccaniche ha modificato, migliorando, i sistemi di pro-duzione del formaggio vaccino a lunga conservazione - “grana” nella sua qualificazione di Parmigiano Reggiano - non bisogna dimenticare quanto avvenuto a Parma nella lavora-zione del latte alimentare. È stato, infatti, a Parma che negli anni del secondo dopoguerra, per opera di Calisto Tanzi e dei suoi collaboratori, che si è per la prima volta rotto il mo-nopolio delle Centrali del Latte, una delle quali era esistente anche a Parma. Con l’utilizzo di confezioni e sistemi di sanitizzazione innovativi (contenitori in poliaccoppiato e steri-lizzazione UHT) anche in Italia si è sviluppata un’industria del latte e dei suoi derivati, tra questi ad esempio i latti fermentati. Anche in questo caso, come nel caso delle boules importate dalla Francia, si è vista l’importazione di una tecnologia straniera (confeziona-mento asettico in contenitori di poliaccoppiato) che dà avvio a un’industrializzazione di un settore, che prima era soltanto artigianale. Anche per il settore salumiero di Parma ha dimostrato una specificità particolare con lo sviluppo, se non la “creazione”, del prosciutto dolce e pesante e l’industrializzazione della sua produzione in una zona ben definita. Senza entrare in dettagli non concessi in questa sede, è sufficiente ricordare che alla fine dell’ottocento era noto il prosciutto di vianino e a metà del secolo successivo il prosciutto di Langhirano, dei quali si producevano rispettivamente qualche migliaio e poco più di quattrocentomila pezzi. Nella seconda metà del secolo ventesimo, con l’industrializzazio-ne della lavorazione, si è arrivati a produrre approssimativamente dieci milioni di Prosciut-ti Parma DoP e oltre dodici milioni d’altri prosciutti. Di pari passo le caratteristiche dei pro-sciutti sono state adeguate alle richieste dei consumatori con la produzione di prosciutti magri e dolci d’elevate dimensioni e a lunga stagionatura (DOP) o di più ridotta taglia e ridotta stagionatura. L’industrializzazione del prosciutto, oltre a portare a progettare un Distretto del Prosciutto, è stata di stimolo allo sviluppo d’altri prodotti salumieri tradizio-nali (Culatello, Spalla Cotta, Salame Felino) e innovativi (Culaccia). L’industrializzazione è stata anche stimolo per le industrie salumiere locali della produzione di una diversificata gamma di prodotti salumieri (Mortadella Bologna, Salamini Italiani alla Cacciatora ecc...).

1.1.6 InDuSTRIALIzzAzIonE DELLE PRoDuzIonI AGRIcoLE, AGRIcoLTuRA EPAESAGGIo PARMEnSE

I rapidi cenni che sono stati dedicati allo stretto e originale intreccio tra i processi tecno-logici, sociali, economici che a Parma hanno caratterizzato il secolo ventesimo - traendo

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cente ai moderni stili di consumo. Il pomodoro deve affrontare le sfide della globalizzazio-ne e, sotto certi aspetti, anche il mutare delle abitudini alimentari. Infine l’industria delle macchine alimentari, dopo essere stata in gran parte acquisita da imprese multinazionali, deve fare i conti con l’attuale globalizzazione delle produzioni.

Quelli indicati sono indubbiamente elementi obiettivi, ma non bisogna trascurare altre condizioni di fondo che, sotto taluni aspetti, sono più importanti e gravide di conseguen-ze. Partendo da quanto messo in evidenza, soprattutto a proposito delle matrici che ave-vano portato all’industrializzazione agroalimentare parmigiana, è agevole constatare la loro forte riduzione e per certi aspetti la loro scomparsa. In particolare si è rotto il rapporto, che persino dall’antichità, collegava città e campagna, e che attraverso un’originale inter-pretazione, aveva condotto al fenomeno parmigiano. Non è certamente un caso che quasi tutta l’attuale produzione di prosciutti lavorati a Parma non ha origini parmigiane e, per oltre la metà, neppure italiane; in modo analogo, è lo stesso per i prodotti lattieri lavorati a Parma. Anche l’industria metalmeccanica parmigiana, che era nata e si era sviluppata sul prodotto locale, ha ora prospettive e soprattutto matrici, non solo nazionali, ma sempre più mondiali.

Non solo sono scomparse radici e matrici, ma soprattutto è scomparso quell’intrec-cio che connettendo città e campagna, e le diverse produzioni agroindustriali, aveva dato origine ad un sistema estremamente vivace (non si comprenderebbe, ad esempio, la costruzione di quasi sessanta fabbriche di pomodoro in poco meno di quindici anni) ma al tempo stesso flessibile e capace d’affrontare con innovazione ogni nuova sfida e difficoltà.

Queste considerazioni, di sicuro negative, devono indurre a un pessimismo o, piuttosto, a riconsiderare sotto nuove prospettive l’attuale momento, confrontandolo con le condi-zioni molto più negative che dominavano a Parma alla fine del secolo Diciannovesimo? Mai come oggi, proprio a Parma, sviluppando il patrimonio sociale accumulato negli ulti-mi secoli e, soprattutto, le linee di ricerca che arrivano anche attraverso le strutture fieristi-che, è possibile auspicare nuovi sviluppi soprattutto agroalimentari; anche sfruttando un periodo di crisi che induce a trovare vie e soluzioni nuove, tenendo conto che in Italia i due principali settori di produzione della ricchezza sono quelli della metalmeccanica e dell’agroindustria i quali, proprio a Parma, hanno stretto legami di forte sinergia.

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1.1Bibliografia e note

mazioni alimentari a Parma.16 L’alimentazione d’autoconsumo si basava sul grano trasformato in farina, sul maiale convertito in salumi e grassi, sull’uva ridotto a vino ed aceto, sui prodotti dell’orto e dell’aia o “bassa corte”, in parte utilizzati anche nelle città dai proprietari di poderi condotti a mezzadria o terzieria.17 Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 (pag. 45 - 46).18 Sulle prime tecniche di produzione del sugo o salsa di pomodoro e sulla produzione dei pani di conserva nera, vedi: Rovesti G. L’industria della conserva di pomodoro, Casale, 1913. E Anonimo. Ludovico Pagani e l’in-dustria del pomodoro, La Giovane Montagna, 15 novembre 1939.19 Nel 1890 il Ministero di Agricoltura Industria e Commercio censiva 16 opifici – 12 a felino, 2 a Parma e 1 rispettivamente a Langhirano e Cortile San Martino – che lavoravano circa 44 giorni l’anno, occupavano 76 operai e producevano annualmente una media di 535 quintali di conserva nera, lavorando quindi circa 3.300 quintali di pomodoro.20 La conserva nera, avvolta in carta oleata, era venduta al dettaglio nei negozi di salsamenteria o di generi mista. Per l’esportazione, i pani avvolti in carta oleata, in generale erano confezionati in barili di legno.21 Anonimo. Sulle adulterazioni delle conserve di pomodoro, Bollettino del Comizio Agrario Parmense, dicem-bre 1873, n. 12, pp. 182 – 183 (in: Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 - pag. 53).22 va di nuovo rimarcato che anche in questo caso Parma è stata resa celebre per l’opera di un non parmi-giano, che tuttavia in questa città ha trovato il terreno fertile per la sua iniziativa, che comportava anche l’importazione di un’innovazione estera, quella delle boules di concentrazione del pomodoro sottovuoto.23 Dati della Camera di Commercio ed Arti della Provincia di Parma (Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, inte-ressi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 – nota 99, pag. 71).24 Fino alla seconda metà del secolo, a Parma per “fabbrica” s’intendeva quasi per antonomasia quella di produzione delle conserve di pomodoro.25 Per altri dettagli ed esemplificazioni, vedi: Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana. Diabasis, Reggio Emilia, 2007(pag. 54 e relative note).26 Ben poco si conosce su questa fase di trasformazione, tuttavia risulta che Giuseppe vitali di Enrico, uno stagnino, si trasformò in fabbricante di scatole di latta che si presume fossero utilizzate per l’inscatolamento della conserva di pomodoro (Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 – nota 104, pag. 72).27 L’altezza della ciminiera non era soltanto un elemento tecnologico collegato al suo “tiraggio” e ad una migliore dispersione dei fumi, ma anche un simbolo della “potenza” della fabbrica stessa e dell’immagine del suo proprietario o della società d’amministrazione.28 Tra le attività espositive sono da porre la Mostra delle Conserve, in un certo periodo anche dell’Autarchia, nei locali del Giardino Ducale e poi le Fiere di Parma con Cibus nelle sue diverse declinazioni e specializza-zioni nel quartiere fieristico di Baganzola.

BIBLIoGRAFIA E noTE1 Solo come riferimento d’aneddoto è stato rilevato che la maggior parte dei parmigiani che hanno reso celebre questa città… non sono parmigiani.2 Marchetti G. Parma, Guida, Napoli, 2007 (pag. 43).3 Marchetti G. Parma, Guida, Napoli, 2007.4 Bernini F. Storia di Parma, Battei, Parma, 1979 (pag. 137).5 vedi il paragrafo successivo.6 Nel 1752 fu fondata l’Accademia detta più tardi di Belle Arti, oltre che scuola d’arte, consorzio d’artisti, che esponevano le loro opere e concorrevano a premi, e della quale fu segretario Carlo Innocenzo Frugoni.7 Parma nel medioevo si serviva di tre porti. Il primo e più importante era definito parmisiano, non ancora identificato e forse corrispondente a Coparmuli, quello d’Albareto anche questo in posizione non definita, ed infine quello di Brescello alla foce dell’Enza. Coparmuli è un toponimo incerto come etimologia e come posizione geografica. Tuttavia si può ritenere che sia la contrazione di tre etimi: co, Parma, mulo. Co sta per caput ed identifica lo sbocco di un corso d’acqua in un altro, per questo Colorno è caput Lorni, dove il torren-te Lorno si getta nella Parma. Parma è da riferire al torrente Parma e quindi il toponimo indica dove la Parma si gettava nel Po, corrispondente al porto medievale qui appellatur parmisiano. Infine si può supporre che mulo si riferisse al fatto che nel porto vi era disponibilità d’animali (muli) da soma o da traino delle barche verso la città, con il sistema dell’attiraglio.8 Prete Pedrini M. R., Bonora P. Le vie di comunicazione in: Storia dell’Emilia Romagna, University Press, Bolo-gna, 1977 (vol. II, p. 101).9 vedi anche: Cristoferi M. v. Fiere e mercati in: Storia dell’Emilia Romagna, University Press, Bologna, 1977 (vol. II, pag. 153). Romani M. A. Nella spirale di una crisi. Popolazione, mercato e prezzi a Parma tra Cinque e Seicento, Giuffré, Milano, 1975.10 Non si dimentichi che Forum Novum fu fondato dai Romani con la funzione di mercato posto alle con-fluenza delle valli del Taro e del Ceno, sulle vie che portavano al porto di Luni.11 Il sale era ottenuto per ebollizione delle acque salse, e durante il dominio dei Pallavicino furono distrutti boschi e foreste, con gravi danni ambientali.12 Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 (pag. 12 – 16). Sull’agroindustria oparmense vedi anche: Serena Lenzotti con prefazione di Antonio Barisella. La ricerca di Zaira. Protoindustria e strutture urbane a Parma tra primo e secondo Ottocen-to, Franco Angeli, Milano, 2007.13 Molte sono gli studi sulla trasformazione del latte in formaggio grana, sull’industria saccarifera e su quelle delle conserve di pomodoro, in relazione anche ai mercati, al tipo ed alla dimensione dei consumi, alle com-ponenti tecnologici ed imprenditoriali, nonché alla dimensione territoriale degli insediamenti produttivi, che permettono di meglio leggere il quadro parmense. (Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e con-flitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 - pag. 14).14 Adorno S. Gli agrari a Parma. Politica, interessi e conflitti di una borghesia padana in età giolittiana, Diabasis, Reggio Emilia, 2007 (pag. 16).15 Da non sottovalutare, a questo proposito, quanto indicato sulle radici dell’industrializzazione delle trasfor-

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piccole imprese la cui sopravvivenza era garantita dalla bassa tecnologia impiegata negli stabilimenti alimentari. Lo stesso Mutti spiega come «appena finita la guerra si utilizzava-no ancora i generatori a vapori denominati comunemente “caldaie”, che funzionavano a carbone. Ricordo bene le enormi ciminiere della nostra ditta e gli uomini che spalavano il carbone ammassato in cumuli, delle sorte di montagne, all’esterno dell’azienda. vi erano nuvole di fumo nero che coprivano il cielo, ma date le ridotte dimensioni delle ditte, l’in-quinamento era ridotto».

Anche la meccanizzazione del processo produttivo era solo agli inizi: la componente umana svolgeva operazioni fondamentali per la catena di lavorazione. All’interno della fabbrica Mutti, fino agli anni ’40, il coperchio delle scatole da 100 grammi di concentrato di pomodoro era apposto manualmente dal personale femminile: una macchina riempiva le scatole con il prodotto, circa dieci donne posizionavano il coperchio e un trasportatore avviava i contenitori all’aggraffatrice per la loro chiusura. Un altro episodio che testimonia l’incidenza del lavoro umano sul processo produttivo è quello inerente alla sigillatura del tubetto. «Quando nel ’51 lanciammo il tubetto, la chiusura del tappo (che era un ditale) era ancora manuale: vi erano lunghe file di donne che non facevano altro che avvitare la capsula in plastica, la cui chiusura era stata dilatata dal calore del pomodoro, e mettere il tubetto nei cartoni. Era un mondo molto arretrato rispetto a quello che si presenterà solo dieci anni dopo, quando si assisterà a un salto di concezione industriale altamente significativo». Si tratta degli anni in cui, ad esempio, la ditta A&G Rossi di Parma installerà la prima intubettatrice veloce, introducendo notevoli migliorie e velocizzando il processo produttivo.

Fino alla prima metà del ‘900 non vi furono degli sviluppi tecnologici rilevanti, ma solo affinamenti delle tecniche a disposizione della produzione: le boules, le caldaie, le ag-graffatrici rimasero per cinquant’anni pressoché invariate. Il grande salto dell’innovazio-ne tecnologica, e di conseguenza della produzione agroindustriale, si avrà nel ventennio compreso fra gli anni ’50 e ’70, un periodo fondamentale per lo sviluppo non solo dei macchinari, ma anche dei contenitori e dello stesso prodotto alimentare.

Approfondimento A1 1.1

PARMA nELLA PRIMA METà DEL ‘900: LA TESTIMonIAnzA DI MARcELLo MuTTI

Il Secondo Dopoguerra segna un passaggio fondamentale per lo sviluppo industriale del settore agroalimentare, determinato dalla disponibilità di macchinari innovativi pen-sati e realizzati da costruttori dotati di particolare ingegno e di elevata capacità progettua-le. A questi pionieri del settore meccanico si sono affiancati gli imprenditori dell’alimen-tare, le cui fabbriche si trasformarono in laboratori di sperimentazione delle innovazioni tecnologiche.

Per spiegare al meglio il passaggio concettuale e di capacità innovativa che caratterizzò la seconda metà del secolo scorso, è possibile fare ricorso alla testimonianza di Marcello Mutti, presidenti della Mutti SpA, azienda leader del mercato conserviero internazionale, che raffigura l’ambiente produttivo in cui operavano le ditte fino alla prima metà del ‘900. «Negli anni ’50 i macchinari iniziavano a subire una prima evoluzione. La guerra era finita da poco e una buona parte degli impianti, utilizzati nei nostri stabilimenti, erano di derivazio-ne degli anni Trenta e Quaranta. Si trattava di una tecnologia abbastanza semplice. Le indu-strie meccaniche sul mercato erano poche, dislocate principalmente a Parma; la tecnologia non era molto avanzata». Marcello Mutti descrive in questi termini un mondo industriale per certi aspetti ancora “arcaico” rispetto a quello che si presenterà solo alcune decine di anni dopo, con la nascita vera e propria dell’industria delle tecnologie alimentari.

Nei primi anni del ‘900 gli impianti per la trasformazione del pomodoro erano molto semplici e potrebbero essere identificati nelle boules, grandi pentole in ferro e rame (l’ac-ciaio inossidabile sarebbe arrivato molti anni dopo) utilizzate per ottenere il concentrato di pomodoro. Come spiega Mutti, le boules «erano quasi delle opere d’arte. Le ditte che le producevano erano dei piccoli artigiani, come oreste Luciani, Ghizzoni, Ettore vettori e Manghi, Manzini, nomi che esistevano già, ma si trattava di realtà ancora di modeste dimensioni. Solo successivamente queste realtà fecero un salto dimensionale che permise loro, prima di acquisire importanza sul mercato, poi attraverso vari episodi, di fondersi in un unico gruppo».

A differenza della situazione attuale, fino alla prima metà del ‘900, il settore delle tecno-logie agroalimentari presentava una situazione di frammentazione, in cui operavano tante

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Approfondimento A2 1.1

timi vent’anni al tetrapak e al vetro. E questo grazie alla sterilizzazione in asettico, agli impianti Rossi & Catelli e Ing. Rossi che hanno rivoluzionato i metodi di conservazione. Ancora oggi si assiste allo sviluppo di nuove tecnologie, a nuovi metodi di conservazione e di imballo».

A fianco dello sviluppo del prodotto si è assistito, quindi, a una progressiva evoluzione dell’impiantistica a opera dei tecnici, che operavano in stretta collaborazione con le ditte che avrebbero poi acquistato e utilizzato questi macchinari. «Sono stati i pionieri dell’agroalimen-tare a indicare ai tecnici quali fossero le necessità della loro produzione. Gli esperimenti sono stati fatti direttamente nelle aziende di Parma che avrebbero poi utilizzato quei macchinari. Dalle fabbriche i tecnici hanno avuto i suggerimenti per modificare e migliorare gli impianti. La messa a punto finale dei macchinari avveniva direttamente negli stabilimenti delle ditte di lavorazione del prodotto agroalimentare. Gli stessi tecnici si sono formati presso le ditte alimentari: Catelli, Cavazzini e Simonazzi hanno lavorato nel nostro stabilimento per poi de-dicarsi, tramite proprie officine, alla realizzazione dei macchinari e impianti per la trasforma-zione del pomodoro».

L’esperienza di Rodolfi non si esaurisce nel settore del pomodoro. Il capostipite, Mansue-to, che operava anche nella trasformazione del latte in Parmigiano, negli ultimi anni di vita aveva costruita un nuovo caseificio sempre a ozzano Taro, Parma. Allora si trattava di una grande struttura innovativa per la produzione e stagionatura del Parmigiano, e dalle grandi potenzialità produttive per quei tempi. Alla morte di Mansueto l’attività del caseificio è stata proseguita dai figli Lucio e Giuseppe, esaurendosi alla successiva morte di Lucio. Giuseppe ha poi proseguito l’attività, ma in un altro caseificio di proprietà a Madregolo.

Del settore lattiero-caseario, Rodolfi spiega che nella produzione del Parmigiano Reggiano oggi si stanno affrontando molte difficoltà: «Il Parmigiano Reggiano è un prodotto di qualità eccezionale, ma la sua produzione richiede costi elevatissimi, e per il futuro non si intrave-dono scenari migliori». Alle difficoltà che implicano elevati costi produttivi e lunghi tempi di stagionatura, si affiancano i cambiamenti dei gusti alimentari dei consumatori, soprattutto quelli delle nuove generazioni, e la concorrenza nei mercati esteri, dove le tutele sono anco-ra pochissime. «In questo settore non si è voluto fare innovazione dei macchinari impiegati, perché si è proseguiti con il metodo tradizionale di produzione. Ma arrivati a questo punto, ci si pone la domanda se la scelta che è stata fatta sia giusta oppure no. La produzione del Par-migiano Reggiano è ancora prettamente artigianale con l’impiego di un’elevata percentuale di manodopera: il casaro sostituisce l’intervento della tecnologia. La lavorazione del Padano ha invece innovato i macchinari utilizzati, scegliendo una produzione in serie basate su quan-tità elevate e certe, a costi contenuti. Il metodo artigianale, seppure premiando la qualità, presenta ancora elevati rischi. occorre quindi cambiare la tecnica produttiva, perché ormai la situazione è insostenibile. Purtroppo mancano le tutele dei marchi e questo anche a livello comunitario, nonostante i primi tentativi che sono stati fatti in funzione di una maggiore pro-tezione» sottolinea, infine, con preoccupazione lo stesso Rodolfi.

LA nAScITA DI un coMPARTo: L’ESPERIEnzADI GIuSEPPE RoDoLFI

Lo sviluppo concettuale, tecnologico e produttivo che seguì alla Seconda Guerra Mondiale è ben raffigurato dalle parole di Giuseppe Rodolfi, Presidente della Rodolfi Mansueto SpA. Rodolfi spiega come l’innovazione non abbia coinvolto solo gli impianti produttivi, ma anche il prodotto agricolo e l’intera filiera legata al pomodoro. Le varietà del pomodoro, presenti fino alla metà dello scorso secolo, si rivelarono, infatti, poco adatte per lo sviluppo della pro-duzione conserviera. «Il sapore dei pomodori di una volta era sicuramente diverso e forse migliore, ma si trattava di un prodotto fragile che sgocciolava facilmente e non permetteva la sua conservazione e la raccolta meccanica » racconta Rodolfi. «Si è quindi intervenuto modi-ficando le varietà conosciute in base alle future necessità».

L’evoluzione che ha subito il pomodoro è riassumibile in alcuni passaggi fondamentali: agli inizi Parma si dedicò alla produzione del concentrato doppio e triplo, poi subentrarono i pe-lati, fino ad arrivare alla polpa, ai sughi, ai prodotti composti e infine alla polvere di pomodoro liofilizzata.

«Contemporaneamente allo sviluppo del pomodoro, nel Secondo Dopoguerra si è assistito allo sviluppo degli impianti progettati dalle nuove figure di tecnici e di costruttori. La ditta Rossi & Catelli, leader mondiale per gli impianti di concentrazione e altro, è stata la prima a produrre i concentratori continui, quelli, sempre aggiornati e migliorati, tuttora utilizzati. Pro-prio nella nostra fabbrica abbiamo fatto con la Rossi & Catelli - con lo stesso Camillo Catelli - i primi esperimenti con i concentratori continui. Si trattava di un modello piccolo che trasfor-mava 3.000 quintali di pomodoro fresco al giorno; oggi questi impianti ne lavorano 30.000», prosegue Rodolfi.

Se i concentratori continui erano stati sviluppati da Rossi & Catelli e dall’ Ing. Rossi, le altre aziende metalmeccaniche di Parma si specializzarono nella produzione di diverse tipologie di macchine, come le aggraffatrici, le riempitrici o i generatori di vapore.

«In quegli anni è avvenuto un grande sviluppo - approfondisce Rodolfi - che si è continua-mente modificato e migliorato con l’introduzione di nuove tecnologie e di nuovi sistemi di conservazione e confezionamento dei prodotti. Dalla scatola si è passati al tubetto, e negli ul-

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1.2.1 - TEcnIcA E TEcnoLoGIATecnologia, dal greco, significa “studio della tecnica”. Secondo il Devoto oli1, la “tecnica” è il complesso di norme che regolano l’esecuzione

pratica e strumentale di un’arte, di una scienza, di un’attività professionale; la “tecnologia” invece è lo studio sistematico delle scienze applicate relativamente alla trasformazione della materia prima in prodotti di impiego o di consumo.

A partire dalla Rivoluzione scientifica si è affermata l’esigenza di fondare la conoscenza tecnica sul sapere scientifico che ha trovato compimento alla fine dell’ottocento. Il passag-gio dal sapere empirico al sapere teorico rivolto alle attività, alla pratica, è il passaggio dalla tecnica alla tecnologia2.

In ambito commerciale, il termine “tecnologia” è utilizzato per indicare, anziché la branca di conoscenze relative alle scienze applicate, le macchine e gli impianti che si basano su tali conoscenze nella loro applicazione alla produzione industriale.

In una prospettiva di evoluzione storica, la tecnica, ovvero le procedure che permettono di ottenere un determinato risultato per lo più connesso ad abilità manuali, è generalmen-te basata su conoscenze empiriche tramandate da maestro ad apprendista, con un lento meccanismo di miglioramento evolutivo generato per tentativi ed errori (by trial and error) e valutazioni approssimative (rule of thumb). Una stratificazione conoscitiva, quindi, adatta per un contesto di riferimento sostanzialmente statico. Mentre la tecnologia, applicando alla tecnica le conoscenze scientifiche via via disponibili, permette di razionalizzarla, di evolverla ed anche di innovarla in maniera programmata e rapida, secondo parametri misurabili. Que-sto tipo di conoscenza è diventata indispensabile anche nel settore alimentare da quando i mutamenti legislativi e di mercato hanno assunto una dinamica crescente.

La tecnica praticata dagli animali è basata sull’istinto ed è sostanzialmente generalizzata e ripetitiva in quanto finalizzata alla sopravvivenza della specie3. Mentre la tecnica praticata dall’uomo, pur avendo alla radice l’adattamento all’ambiente per la sopravvivenza, è evo-lutiva in quanto si basa sul ragionamento, sulla intuizione e sulla creatività, potendo così raggiungere nel singolo individuo l’eccellenza artigianale e la sublimazione artistica. La tec-nologia, d’altra parte, necessita dell’apporto di competenze e di professionalità plurime e complementari non solo nella applicazione alla produzione che distingue l’organizzazione

L’EVoLuzIonE TEcnoLoGIcA DELLE MAcchInE

di Roberto Massini

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L’evoluzione tecnologica delle macchine 1.2

proprie abitudini alimentari. In effetti, in tutte le civiltà evolute, diverse modalità di trattamento degli alimenti si sono

progressivamente differenziate rispetto alle pratiche individuali o familiari quali attività spe-cifiche (arti) di un’organizzazione sociale sempre più strutturata. L’empirismo tradizionale, basato sull’esperienza pratica tramandata dal maestro all’apprendista, ha consentito di ade-guare le pratiche alimentari alla lenta evoluzione delle modalità produttive e di consumo.

Nel secolo dei lumi la forte accelerazione delle dinamiche socio-economiche ha coin-volto nel processo di industrializzazione anche le “arti” alimentari, che poterono usufruire sia delle innovazioni tecniche più generali, sia di una nuova attitudine sperimentale degli addetti al settore, aperti ai nuovi afflati del razionalismo pragmatico. Nel Settecento, infatti, anche gli uomini di scienza mostrarono un interesse indiretto ai fenomeni di trasformazione e di alterazione dei prodotti alimentari, per giustificare o combattere la teoria della “gene-razione spontanea” e le sue implicazioni, non solo naturalistiche, chimiche e mediche, ma anche filosofiche, morali e religiose5. Tuttavia le sperimentazioni di laboratorio non ebbero un reale effetto di guida razionale nello sviluppo delle pratiche alimentari neanche quando nel XIX secolo Pasteur e i successivi batteriologi diedero giustificazione teorica a fenomeni di trasformazione rimasti oscuri all’approccio puramente chimico. Solo nella prima metà del XX secolo, negli Stati Uniti d’America, furono poste le basi per la moderna tecnologia alimentare, ovvero per una ricerca scientifica di base espressamente orientata allo specifi-co settore produttivo, e capace di supportare l’innovazione e l’ottimizzazione dei processi rispetto ad esigenze sempre più differenziate e spesso non conciliabili attraverso il semplice miglioramento tecnico incrementale.

Per maggiore precisione, lo sviluppo tecnologico alimentare è stato relativamente rapi-do per prodotti ottenuti con procedimenti fisici e/o chimici, senza un ruolo rilevante degli aspetti microbiologici ed enzimatici. Come esempi si possono citare in ordine temporale le produzioni di zucchero, di estratti di carne e di concentrato di pomodoro con elevato resi-duo secco. Anche la produzione della pasta secca ha avuto un’industrializzazione relativa-mente rapida, ma il passaggio dal lento essiccamento in condizioni naturali (incartamento al sole, rinvenimento in cantina umida e essiccazione vera e propria in stanzoni con aperture orientate secondo i venti prevalenti) a quello accelerato con aria riscaldata artificialmente ha eliminato dal processo l’incipiente fermentazione che, in funzione della specifica carica microbica ambientale, dava alla pasta di ciascun singolo produttore una caratterizzazione aromatica distintiva. Tale semplificazione e standardizzazione del processo, peraltro, è ri-sultata commercialmente accettabile in quanto la caratterizzazione aromatica della pasta è prevalentemente affidata al condimento e la sua qualità commerciale è riferita alla “tenuta in cottura”. Nel caso dei salumi crudi, invece, la sostituzione delle condizioni climatiche natu-rali con la regolazione automatica di temperatura, umidità e velocità dell’aria è stata molto più ritardata perché la perdita delle caratteristiche aromatiche derivanti dalle modificazio-

industriale rispetto a quella artigianale, ma anche nella sua base scientifica. Anche la storia della tecnologia alimentare dimostra che le scoperte scientifiche individuali hanno avuto re-ale applicazione solo dopo l’intervento di altri ricercatori e, affinché tale meccanismo non sia casuale come nel passato, oggi l’approccio tecnologico è multidisciplinare per definizione.

I prodotti alimentari sono il risultato di molteplici modificazioni, subite dalla materia pri-ma durante la lavorazione e la conservazione, che possono essere quelle volute, oppure in-desiderate e addirittura potenzialmente nocive. Per governare tali modificazioni in funzione degli obblighi di legge e delle esigenze del mercato, la “tecnologia alimentare” deve essere basata sulla “scienza alimentare”, per ottimizzare e innovare le tecniche operative e solu-zioni impiantistiche. A sua volta, la scienza alimentare comprende le pertinenti conoscen-ze di base in ambito biologico, biochimico, microbiologico, chimico, fisico e chimico-fisico. L’applicazione tecnologica delle conoscenze scientifiche, oltre a tenere conto dei materiali, della componentistica meccanica e di automazione, sviluppati anche in settori molto diver-si, utilizza strumenti computazionali, economici e statistici sia nella fase di progettazione, sia in quella produttiva, nell’ottica di un sistema di gestione del complesso formulazione-processo-prodotto finalizzato alla tenuta sotto controllo ed al miglioramento continuo delle prestazioni in termini di efficacia e di efficienza.

1.2.2 - EVoLuzIonE DELLE TEcnIchE TRADIzIonALIIl problema più pressante nella maggior parte della millenaria storia dell’uomo è stato

quello di assicurarsi alimenti per soddisfare la fame. Tutto ciò che era edibile veniva man-giato senza alcuna preoccupazione per i valori nutritivi e la differenziazione delle diete di-pendeva unicamente dalle condizioni ambientali e stagionali. Come per gli animali, la scelta individuale di accettabilità igienica degli alimenti era basata sulle valutazioni sensoriali istintive (aspetto e odore); la definizione di tipologie vietate (alimenti tabù) o soggette a specifiche prescrizioni (alimenti medicamentosi) era invece riservata alle autorità che orga-nizzavano e gestivano la vita collettiva.

Le fermentazioni che prevengono la putrefazione, l’essiccamento, il riscaldamento, la sa-latura e l’uso del freddo sono stati sempre alla base della conservazione degli alimenti, per ovviare alla precarietà di rifornimento delle materia prime; tuttavia rimasero pratiche utili ma misteriose della vita quotidiana fino al XIX secolo4.

In particolare, la caseificazione e la salamoiatura delle carni con disidratazione con-trollata da involucri semipermeabili (vescica, budelli, cotenna), che sono tecniche emble-matiche delle produzioni alimentari parmensi, hanno origini antichissime e sono tuttora validissime dal punto di vista nutrizionale perchè sono state tramandate attraverso i millen-ni per una selezione naturale (darwiniana) rispetto alle tante altre casualmente applicate. A tramandarle, infatti, sono state le tribù e le successive organizzazioni sociali che hanno avuto la prevalenza sulle altre per maggiore forza e abilità, certamente anche in virtù delle

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mezzi per ridurre il costo del lavoro. Nel settore siderurgico la sostituzione della legna con il coke e la raffinazione della ghisa hanno costituito una vera innovazione di processo e di prodotto. Nel settore tessile l’elemento determinante dell’industrializzazione è stata l’uso della “macchina a vapore” (inventata nel 1712 da Thomas Newcome e sviluppata nel 1775 da James Watt) come macchina motrice per i grandi telai meccanici e l’applicazione tecnologica delle conoscenze scientifiche ha riguardato prevalentemente la costruzione e l’evoluzione di tali macchine; i prodotti erano invece quelli tradizionali e le condizioni del processo erano ancora gestite per lo più con la tecnica empirica. Comunque, la prima industrializzazione ha riguardato la produzione di materie prime e semilavorati; i manufatti (con l’eccezione delle ceramiche) continuavano ed essere realizzati solo artigianalmente6.

Dopo il Regno Unito, la rivoluzione industriale ha interessato nell’ordine la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, la Svezia e il Giappone. In Italia il processo di industrializzazio-ne è stato molto più lento, e non solo per la mancanza di materie prime e di un mercato coloniale. Nel secolo scorso l’aggiornamento tecnologico del settore alimentare scontava un ritardo di 20-30 anni rispetto all’ambito chimico e farmaceutico, sia perché il mercato interno era protetto sia perché la ricerca scientifica in ambito alimentare era culturalmente orientata agli interessi agricoli.

Anche la prima industrializzazione alimentare ha riguardato ingredienti e semilavo-rati: a partire dalla Germania, per la fabbricazione dello zucchero di barbabietola; e dalla Francia, per le conserve alimentari. Due settori che hanno interessato rapidamente proprio Parma.

1.2.4 – IL FoRMAGGIo PARMIGIAnoSono stati i monaci benedettini e cistercensi del XII secolo a mettere a punto la tecnica

originaria di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano che permetteva di ottenere forme di grande dimensione con una struttura interna (grana) tale da mantenere una gra-devole commestibilità, anche dopo una lunga conservazione. La produzione di formaggio tipo grana si è diffusa lungo la via Emilia, presso corsi o sorgenti d’acqua che consentiva-no di avere abbondante pascolo per l’allevamento bovino, in corrispondenza delle abbazie medioevali che potevano permettersi “vaccherie” sufficientemente grandi da fornire gior-nalmente il latte necessario per almeno una forma da 13-18 chilogrammi. La primogenitura parmense, probabilmente, è stata favorita dalla disponibilità del sale ottenuto dalle sorgenti di acque salmastre come quelle di Salsomaggiore. Fatto sta che anche il formaggio prodotto nel lodigiano veniva chiamato parmigiano. Nel ‘400 il monastero di San Giovanni aveva 4 ca-seifici: 2 a Parma e 2 a Reggio Emilia, gestiti da affittuari. Il Duca di Parma Ranuccio I Farnese, che aveva espropriato vaccherie ecclesiastiche e nobiliari, alla sua morte nel 1622 lasciò 15 aziende che producevano formaggio nel parmense e 3 nel piacentino. Nel ‘700 furono i colti gesuiti a introdurre un approccio razionale alla gestione delle loro vaccherie e a introdurre

ni biochimiche faceva perdere ai prodotti le peculiarità qualitative che li distingueva dalla normale carne secca e/o salata. Pertanto, è stato necessario acquisire preliminarmente le conoscenze scientifiche che, interpretando l’effetto delle modalità di lavorazione tradizio-nali sulle modificazioni microbiologiche e/o enzimatiche, hanno permesso di individuare le condizioni di meccanizzazione che permettessero di riprodurle. Altrettanto si può dire per il settore caseario, ma nel caso specifico del formaggio Parmigiano Reggiano l’industria-lizzazione è stata, ed è tuttora, molto più limitata rispetto al Grana Padano: gli obblighi di Disciplinare sono più vincolanti ma (in una situazione ideale) permettono di mantenere una superiorità qualitativa riconosciuta dal consumatore anche in termini di sovrapprezzo, così da remunerare il maggiore costo della materia prima e della lavorazione artigianale.

Questa diversa velocità di sviluppo tecnologico ha perpetuato fin quasi ai giorni nostri una netta separazione culturale ed organizzativa tra l’industria alimentare vera e propria, orientata al mercato e insofferente di vincoli territoriali per l’acquisto delle materie prime, e le cosiddette “industrie agrarie”, subordinate agli interessi della produzione primaria e restie ad adeguarsi a nuove logiche di mercato.

I due settori produttivi tradizionali, quelli del formaggio e quello dei salumi, fino a pochi decenni fa sono rimasti strettamente collegati non solo per l’assetto policolturale dell’eco-nomia agricola, ma anche per l’utilizzo del siero dolce, risultante dalla coagulazione della massa caseosa nella alimentazione dei suini nella loro fase di ingrasso finale. Ciò era possibi-le perché era normale avere la porcilaia a fianco del casello per la produzione di formaggio. oggi non è più così perché, mentre la caseificazione del parmigiano reggiano permane mol-to frammentata, gli allevamenti di suino pesante si sono molto concentrati per economie di scala. D’altra parte, mentre il Disciplinare del Formaggio Parmigiano Reggiano DoP fa coincidere la zona di produzione del latte con quella di caseificazione, i Disciplinari dei più celebri salumi DoP Prosciutto di Parma e Culatello di zibello consentono l’allevamento della materia prima in una zona geografica molto ampia rispetto a quella della trasformazione.

1.2.3 - LE PRIME InDuSTRIE ALIMEnTARIL’impiego del termine “tecnologia” per indicare le macchine e gli impianti che permetto-

no di effettuare processi produttivi con ridotto apporto manuale può essere fatto risalire alla “rivoluzione industriale”, iniziata in Inghilterra tra il 1760 e il 1780. Il nuovo assetto produt-tivo fu reso possibile dalla concomitanza di molti fattori socio-economici: tra questi vi è la disponibilità di manodopera urbanizzata per una radicale trasformazione subita dall’agricol-tura (da campo aperto a enclosures), e di un nuovo ceto borghese con spirito imprenditoria-le, che traeva dalla maggiore produttività agricola interna e dalle colonie i capitali necessari per sfruttare, a livello di grandi complessi produttivi, le conoscenze scientifiche fino ad allora rimaste a livello di applicazione potenziale. In una prima fase, si studiarono nuove forme di energia; in una seconda, i mezzi per sostituire la manodopera; in una terza fase, si cercarono

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tutto l’introduzione del sieroinnesto autoprodotto dagli stessi caseifici (analogamente al lievito madre tradizionalmente impiegato nella panificazione), reso possibile dagli studi di Pellegrino Spallanzani (P. Spallanzani. L’inoculazione nella fabbricazione del Grana, Le Stazio-ni Sperimentali Agrarie Italiane, 28 [1] 1895, 43-525). In effetti Pellegrino Spallanzani aveva inizialmente sperimentato un lattoinnesto, ma nella pratica produttiva si era affermato l’uso del sieroinnesto, successivamente perfezionato da G. Fascetti, che era succeduto allo Spal-lanzani nella direzione della Scuola di zootecnia e di caseificio di Reggio Emilia13.

Come nel caseificio presso Milano visitato dai fratelli Goncourt9, anche nei caselli del par-mense e del reggiano si diffonde l’impiego del termometro di vetro a colonna di mercurio che, rispetto al gomito del casaro, permetteva di tenere realmente sotto controllo le fasi di processo in caldaia. Si trattava di termometri con scala octogesimale in gradi Réaumur (dal nome dello scienziato francese René Antoine Ferchault de Réaumur che lo aveva introdotto nel 1730), il cui impiego era stato abbandonato in Francia già nel 1790 a favore dei gradi Cel-sius ma è sopravissuto fino ai giorni nostri nella produzione di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e di formaggi delle Alpi svizzere.

Nella provincia di Parma i caselli per il formaggio “di grana” erano 130 nel 1870, circa 170 dieci anni dopo e 220, con 266 caldaie, nel 189611. Alla fine dell’800, oltre ai 220 caseifici di Parma (che esportava il 10% della produzione), ve ne erano 385 a Reggio e 166 a Modena. Nel 1906 i caseifici erano complessivamente 1.200 (circa un quarto dei caseifici italiani), circa 2.600 nel 1930; mentre nel 1966 si erano ridotti a 1.850 (il 72% dei quali erano sociali)7. oggi aderiscono al consorzio di tutela della DoP 429 caseifici, che producono annualmente circa 3 milioni di forme, e 24 laboratori di grattugia.

Ai primi anni del ‘900 risalgono le prime latterie sociali, le cooperative e i magazzini di stagionatura, nonché le attrezzature produttive che sostanzialmente sono tuttora applicate: oltre al sieroinnesto, si diffondono lo spino metallico a gabbia Notari e le caldaie riscaldate a vapore7. Tuttavia, nel 1955 il 20% delle caldaie erano ancora a riscaldamento diretto con bruciatore a gas (A. Folloni. Il “Grana” Parmigiano-Reggiano prodotto tipico superlativo della terra emiliana, Latte 1955 29, 55-58)13.

Ancora oggi il Disciplinare di produzione della DoP prescrive l’impiego di “caldaie di lavorazione in rame di forma troncoconica per la produzione di non più di due forme” (con pezzatura minima 24 chilogrammi e massima 40 chilogrammi), impedendo quindi l’introdu-zione delle grandi “polivalenti” impiegate nell’industria casearia. La lavorazione della panna separata dal latte della munta serale e la burrificazione non hanno limitazioni di Disciplinare, ed è stata libera l’introduzione delle centrifughe e delle zangole, anche se di piccola capacità per la dimensione artigianale della caseificazione. Solo negli anni ’90 si è diffuso l’impiego degli agitatori meccanici (limitatamente alla “rotella”), e in modo più ridotto, quello delle fermentiere termostatate e delle vasche di salatura profonde con gabbie motorizzate. La “spinatura” è fatta tuttora prevalentemente a mano ed è appena iniziata la meccanizzazione

sotto il salatoio di un caseificio un magazzino sotterraneo che, grazie all’effetto naturale di refrigerazione, permetteva di ridurre la tendenza al gonfiore delle forme “tareggiate” duran-te i mesi caldi. Ma nel 1768 i gesuiti furono cacciati dal Ducato di Parma e con loro si inter-ruppe l’approccio razionale allo sviluppo della tecnica casearia7.

Cusatelli e Razzetti richiamano una pubblicazione del 1766 del mercante e viaggiatore francese Jean-Claude Flachat, nella quale è descritta la lavorazione del formaggio come era praticata a Parma in quei tempi8. Un secolo più tardi, nel 1855-1856, Edmond e Jules de Gon-court, appassionati di arte e di storia, prima ancora che scrittori di successo, nel loro viaggio in Italia, annotano dettagliatamente le modalità di produzione del formaggio “Parmesan” applicate in un caseificio presso Milano9. I fratelli Goncourt avevano visitato anche Parma, ma di questa città non lodano il formaggio, bensì l’eccezionale bellezza del teatro Farnese; come se avessero condiviso l’osservazione fatta nel 1734 dall’erudito lionese Pierre de ville in merito al fatto che i parmigiani non gradivano essere celebrati per l’eccellenza del loro formaggio10.

Confrontando le due descrizioni letterarie, risulta che la tecnica di caseificazione era sostanzialmente la stessa, anche con riferimento all’aggiunta di zafferano. A proposito di questo ingrediente - comune ad altri formaggi di antica tradizione come il siciliano “Piacinti-nu Ennese” e il “Bagòss” di Bagolino nell’alto bresciano - si può ritenere che originariamente il suo impiego non fosse dovuto alla possibilità di conferire colore e aroma, bensì per il potere “astringente” attribuitogli dalla medicina tradizionale, e certamente ben noto agli speziali dei monasteri medioevali. D’altra parte, oggi sono note le proprietà antiossidanti e antibat-teriche che accomunano lo zafferano a altre spezie impiegate nei salumi fin dall’antichità nonostante il loro alto costo e che, insieme al sale (ed eventualmente agli altri componenti delle acque salso-bromo-iodiche del parmense), permettono di controllare l’accrescimento della flora microbica selezionando quella non patogena.

Nel 1896 Carlo Rognoni, nel suo scritto “Per la storia del formaggio di grana”, richiama la delibera della Camera di Commercio di Milano dell’anno precedente che riservava la deno-minazione “parmigiano” al formaggio di Lodi e delle altre province lombarde e la denomina-zione “reggiano giallo” a quello prodotto a Parma e nelle province limitrofe, sostenendo che “l’epiteto di giallo” era stato aggiunto “per distinguerlo dal vero lodigiano, la cui pasta esposta all’aria suole impallidire e, talora, perfino diventar verdastra”. Nella nota “2”, relativa al termine “grana”, Rognoni precisa che la colorazione gialla è dovuta all’impiego di zafferano, ma che i Lodigiani preferivano usare l’anatto o estratto di oriana (dai semi di un arbusto tropicale) perché con lo zafferano i loro formaggi, esposti all’aria, diventavano verdognoli11. Sulla base di questa pubblicazione di Carlo Rognoni, la Camera di Commercio di Parma rivendicò il diritto territoriale del “vero formaggio parmigiano a pasta gialla inalterabile”12.

Tra fine ’800 e inizio ‘900 si hanno importanti innovazioni nella tecnica di caseificazione che hanno permesso di ridurre gli scarti e di migliorare, quindi, l’economia produttiva. Anzi-

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lità commerciali “maggengo” e “vernengo”, con la motivazione che le tecniche di allevamen-to si erano evolute al punto da consentire una produzione di formaggio qualitativamente equivalente in ogni mese dell’anno. In effetti, la mangimistica per produzione forzata era destagionalizzata e il colore del Parmigiano Reggino era diventato mediamente più simile a quello del Grana Padano, con buona pace per Carlo Rognoni che aveva difeso con passione la peculiarità cromatica del vero parmigiano. Lo standard di mercato era ormai quello della pasta bianca imposto dai grossisti che avevano nel Grana Padano il maggiore interesse eco-nomico; e che hanno ormai convinto quasi tutti i caseifici a fare escludere l’uso di foraggio fresco anche negli allevamenti più tradizionali.

A partire dalla fortunata esperienza delle “vacche rosse” nel reggiano, anche nel parmen-se alcune impres,e a ciclo integrato e con autonomia commerciale, hanno trovato economi-camente conveniente tornare alle tecniche di allevamento tradizionali, utilizzando razze rustiche meno esposte alle malattie e con una alimentazione meno forzata, ottenendo un formaggio di qualità superiore a quella media e premiata dal mercato, in quanto ricono-sciuta come tale dal consumatore più esigente. Ma si tratta pur sempre di piccole nicchie di mercato. Per la stragrande maggioranza dei caseifici è diventato progressivamente più difficile sopravvivere con un prodotto sempre più simile al diretto concorrente anche come prezzo di mercato, ma con costi di produzione decisamente più elevati. Una contraddi-zione economico-commerciale che si somma a quella di una cultura pre-tecnologica che ha creduto di poter ottenere un prodotto finito di alta qualità, mantenendo tradizionale la trasformazione, ma non la produzione della materia prima latte.

oltre alle ben note proprietà nutrizionali, il Parmigiano si caratterizza rispetto a molti altri formaggi per un contenuto notevolmente inferiore di tiramina e istamina, ammine biogene responsabili di reazioni pseudoallergiche in soggetti sensibili. La ragione non è nota ed è, quindi, necessario rispettare per quanto possibile integralmente la tradizione produttiva.

Di seguito è sintetizzata la tecnologia del formaggio Parmigiano Reggiano, con l’evo-luzione delle attrezzature impiegate. I dettagli operativi delle singole fasi possono variare sensibilmente tra le diverse province ed anche tra singoli casari di diverse “scuole”.

Il latte per la caseificazione, oggi ottenuto da vacche per lo più di razza “frisona”, deve provenire esclusivamente da allevamenti con collocazione geografica, modalità di alleva-mento e alimentazione conformi al Disciplinare della DoP. Poiché il Disciplinare di produzio-ne non permette l’impiego di sostanze antimicrobiche, nel latte deve essere minimizzata la presenza di spore di clostridi butirrici: batteri anaerobi di origine tellurica responsabili di gonfiori tardivi del formaggio. A tale fine, le lattifere non possono essere alimentare con fo-raggio insilato; il foraggio e il fieno non devono inglobare terriccio; e nella mungitura deve essere evitata la contaminazione fecale che veicola nel latte le spore batteriche, indipenden-temente dalla successiva filtrazione. Il latte proveniente da vacche affette da mastite o sotto-poste a terapia antibiotica non ha attitudine casearia e provoca difetti nel prodotto: sono

delle fasi di estrazione e di movimentazione della massa caseosa. Più rapida è stata la cli-matizzazione artificiale dei locali di stagionatura, grazie all’esperienza mutuata dal settore dei salumi crudi, e la meccanizzazione delle operazioni di movimentazione, spazzolatura e voltatura delle forme e pulitura delle tavole (oggi vi sono grandi magazzini di stagionatura completamente robotizzati). La crescita della grande distribuzione ha comportato l’esigenza di porzionare e confezionare il formaggio per la vendita al dettaglio e anche di offrirlo pre-grattugiato, scagliato o cubettato. Questa appendice alla lavorazione casearia, ovviamente, è stata fin dall’inizio caratterizzata da un elevato grado di meccanizzazione. Pertanto, men-tre la caseificazione è rimasta obbligatoriamente artigianale sia come manualità, sia come dimensione, sono state industrializzate e concentrate negli ultimi decenni le fasi produttive a monte (alimentazione delle bovine, mungitura, raccolta e distribuzione del latte) e a valle (stagionatura, porzionatura e confezionamento), che hanno subito una maggiore centraliz-zazione in grandi strutture.

Rispetto alla caseificazione, la produzione primaria ha avuto negli ultimi decenni una dinamica molto maggiore, con la selezione di bovine e la mangimistica finalizzate al conti-nuo incremento del volume di latte prodotto giornalmente, allo stesso modo di quanto av-veniva per gli allevamenti da latte da consumo. Di conseguenza, è stato necessario ricorrere sistematicamente ai trattamenti farmacologici di profilassi e di cura delle mastiti (al pun-to di dovere chiedere una deroga specifica per il contenuto massimo di cellule somatiche), e la carriera delle bovine si è accorciata drasticamente, con corrispondenti costi di produzione aggiuntivi che vanificavano i vantaggi della maggiore produttività. Una conseguenza as-surda è stata la necessità per i caseifici di sostituire le caldaie tradizionali con quelle attuali di maggiori dimensioni, per riuscire ad ottenere con latte a minore resa casearia forme con il peso minimo stabilito dal Disciplinare (originariamente 24 chilogrammi ed oggi 30 chilo-grammi per esigenze di massima resa nel taglio a spicchi). Il tutto è difficilmente comprensi-bile per una filiera di produzione e trasformazione così strettamente integrata quale è quella del formaggio Parmigiano Reggiano. Questa politica della quantità è proseguita addirittura quando già erano entrate in vigore le “quote latte”.

Fin dal Xv secolo il parmigiano migliore era il ”maggengo” (ottenuto dal latte munto in primavera-estate), e ancora all’inizio del secolo scorso la caseificazione avveniva in 120-180 giorni all’anno, in base alla disponibilità di foraggio. Anche successivamente, era considera-to di qualità migliore il formaggio “maggengo” (prodotto fra aprile e novembre) caratterizza-to dal colore giallo paglierino della pasta, non per l’uso di zafferano, ma dovuto al fatto che durante l’inverno le vacche erano alimentate con foraggio verde (in particolare erba medi-ca), anch’esso ricco di carotenoidi; il “vernengo” aveva invece la pasta più pallida perché in quei mesi le vacche erano alimentate prevalentemente con fieno. ovviamente, il colore era solo un segnale esteriore di una qualità aromatica, apportata soprattutto dalle essenze dei foraggi derivanti dai pascoli stabili collinari. Nel 1984 è stata abolita la distinzione tra le qua-

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valuta l’acidità (alla valutazione sensoriale si è aggiunta la titolazione con soda a viraggio cromatico) per stabilirne il dosaggio o, in casi estremi, per sostituirlo con quello di un altro caseificio. Attualmente sono disponibili sistemi di dosaggio automatico del sieroinnesto. La miscela di latte, sotto lenta agitazione con la rotella (originariamente di legno, oggi di teflon e meccanizzata), è sottoposta alla prima fase di riscaldamento a 22-23°C e, dopo avere ag-giunto il caglio o pressame (ottenuto dall’abomaso, quarto stomaco, di vitello da latte), la temperatura viene portata e mantenuta a 32-33°C, così da ottenere la coagulazione in 10-15 minuti. Anticamente, la temperatura era valutata sensorialmente; tra il XIX e il XX secolo si è diffuso il termometro di vetro a colonna di mercurio con galleggiante di sughero; e negli anni ’80-’90 è stato introdotto il termometro elettronico con ampio display per lettura a di-stanza. Gli enzimi proteolitici del caglio, in particolare la chimosina, e in misura minore quel-li già presenti nel latte idrolizzano, selettivamente il C-terminale dalla k-caseina idrofila, che è disposta sulla superficie delle micelle caseiniche native e ne stabilizza la dimensione colloi-dale (tale da farle rimanere stabilmente in sospensione nella fase acquosa). Questo attacco proteolitico, insieme alla presenza di ioni calcio, comporta l’aggregazione delle altre caseine idrofobe con formazione di una struttura continua caratterizzata da legami tridimensionali tra gruppi fosforici e ioni calcio, elastici anche se a bassa resistenza meccanica; l’originario sistema disperso tipo “sol” (particelle solide di dimensioni colloidali sospese in una fase liqui-da) si è trasformato in un sistema disperso tipo “gel” (particelle colloidali di fase liquida di-sperse in una fase solida). Accertata sensorialmente la raggiunta coagulazione (a tutt’oggi non sono disponibili sistemi di valutazione strumentali adeguati), il casaro rompe la caglia-ta fino a ridurla in granuli della dimensione di un chicco di frumento. Anticamente si utiliz-zavano rami secchi di biancospino (dal quale derivano i termini “spino” e “spinatura” tuttora in uso); poi un attrezzo metallico; ed oggi quello di acciaio inossidabile con lame disposte a gabbia sferoidale. oggi si impiegano spini motorizzati, ma la prima fase di rottura della ca-gliata è effettuata ancora manualmente. Sotto agitazione, si effettua una prima cottura rag-giungendo lentamente circa 45°C e una seconda cottura con riscaldamento rapido fino a circa 55-56°C. Tolto il “fuoco” e fermata l’agitazione, i granuli di cagliata sedimentano sul fondo della caldaia e la massa caseosa vi permane per 45-60 minuti, praticamente senza raffreddarsi. Questo trattamento termico comporta diveersi effetti: la modificazione struttu-rale (denaturazione) delle caseine del latte, con espulsione di parte dell’acqua inglobata e aumento di densità dei granuli, un effetto pastorizzante tale da distruggere adeguatamente (con 5-6 riduzioni decimali) i batteri patogeni non sporigeni (quelli infettivi ed anche gli stafilococchi tossinogeni), la selezione con incipiente accrescimento dei batteri lattici termo-fili (più termoresistenti dei mesofili) e anche la selezione degli enzimi che eserciteranno la loro attività nel lungo periodo di stagionatura. Successivamente la massa caseosa viene de-licatamente sollevata con la pala (tuttora si impiega quella di legno e l’operazione non è automatizzabile) e raccolta in una tela di canapa annodata su due bastoncini di legno per la

disponibili appositi test rapidi per escluderlo, anziché miscelato a quello normale. Nel perio-do estivo, tra la mungitura e la consegna al caseificio, il latte deve essere solo raffrescato, non refrigerato, per mantenere la sua attitudine alla lavorazione specifica. Nella raccolta, nel tra-sporto e nello scarico non si devono utilizzare contenitori con grande spazio libero, che pro-vochi sbattimento; e pompe centrifughe, che comportano un effetto di omogeneizzazione dei globuli di grasso. Il latte della sera, disteso in vasche larghe e basse, subisce una lenta scrematura per affioramento spontaneo (in campo gravitazionale, non centrifugo) dei globuli di grasso di dimensione superiore a quella colloidale, i quali trascinano per affinità superficiale parte della flora microbica, con particolare riferimento alle spore di clostridi bu-tirrici, comunque presenti. Dagli anni ’60-‘70 le vasche sono di acciaio inossidabile e posso-no essere dotate di sistemi di spruzzaggio di acqua sul fondo per il raffrescamento nei mesi più caldi. Tenuto conto del fatto che le tossine stafilococciche non sono inattivate dal tratta-mento termico in caldaia, è necessario non superare la temperatura di 15-18°C per evitare che nella sosta di 8-9 ore l’eventuale carica iniziale di Staphylococcus aureus raggiunga con-centrazioni dell’ordine di 106 cellule/g, tali da comportare una presenza rilevante di tossina. Durante la notte, comunque, si ha un accrescimento della flora microbica di interesse case-ario (maturazione del latte). All’alba la panna è separata con un piatto fondo “spannarola” e il latte scremato è fatto scendere per gravità nelle sottostanti caldaie, nelle quali è già stato immesso il latte della munta mattutina, misurando il volume delle due aliquote con un’asta graduata, originariamente di legno e poi metallica. Questa modalità di parziale scrematura del latte comporta nel formaggio un contenuto di grasso pari al 40-45% sulla sostanza secca. Attualmente la movimentazione del latte può essere effettuata con sistemi automatici com-prendenti pompe e flussimetri. Le caldaie di rame, a forma di campana rovesciata per favo-rire la sedimentazione sul fondo della massa caseosa, originariamente erano sospese su un braccio mobile, che permetteva di spostarle al di sopra o a fianco del fuoco a legna sotto-stante. Nella seconda metà dell’’800 è iniziata la sostituzione del fuoco a legna con bruciato-ri a gas e, successivamente, l’introduzione del riscaldamento indiretto a vapore. Attual-mente le caldaie di rame con doppio fondo a vapore a flusso regolabile hanno capacità di circa 12 quintali di latte, che permette di ottenere 2 forme “gemelle”. A partire dall’inizio del ‘900, alla miscela di latte, si aggiunge un’aliquota di sieroinnesto acidificato: del siero risul-tante dalla lavorazione del giorno precedente e lasciato fermentare - inizialmente in dami-giane, oggi in fermentiere termostatate - così da costituire un inoculo naturale di batteri lattici omofermentanti selezionati dalle condizioni di lavorazione specifiche. Questo inoculo - che ha permesso di ridurre la difettosità della produzione, evitando l’occasionale prevalen-za di forme microbiche non casearie - è diventato indispensabile con le attuali condizioni igieniche dei caseifici e, soprattutto, con l’abbandono delle attrezzature di legno e con l’im-piego di detergenti e sanificanti che impediscono la specifica colonizzazione ambientale sulla quale si basava la tecnica tradizionale. Prima di utilizzare il sieroinnesto, il casaro ne

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solida (compatta e senza canalicoli capillari) il trasferimento in controcorrente di sale e di acqua avviene per lenta diffusione molecolare (meccanismo di Fich) in funzione del gradien-te di concentrazione. Nel corso della salatura, che dura 20-30 giorni secondo il tipo di sala-toio, si completa la fermentazione lattica e lo spurgo del siero (con un calopeso del 4-5%) e l’attività microbiologica è controllata dal pH, dall’attività dell’acqua (aw), dall’esaurimento del lattosio e dalla formazione di batteriocine (metaboliti dei batteri lattici che inibiscono altre forme microbiche). Dopo 24 ore di asciugatura forzata in “camera calda”, finalizzata alla for-mazione della crosta per limitare la successiva perdita di umidità, le forme sono toelettate (rifilatura, eventuale asportazione di difetti superficiali e stuccatura); e, quindi, trasferite nel locale di stagionatura fresco, asciutto e ventilabile, sulle scalee (scaffalature con piani di le-gno).

ogni 30 giorni le forme sono sono rivoltate e spazzolate a secco. La spazzolatura serve per evitare l’accrescimento di feltri fungini (muffe). Dal 2002 non è permessa l’oliatura della crosta, per la quale anticamente si utilizzava il burro, e in epoca moderna olio di semi di lino. Anche le tavole di legno devono essere sistematicamente pulite per prevenirne l’infestazio-ne da parte di parassiti. Le forme devono stagionare come minimo 12 mesi per poter rice-vere, dopo espertizzazione sensoriale (visiva, acustica al martello e, eventualmente, tattile e olfattiva con ago), il marchio a fuoco della DoP.

La “maturazione” del formaggio consiste in una profonda trasformazione compositiva ad opera degli enzimi glicolitici, proteolitici e lipolitici, selezionati dalle condizioni di lavo-razione tra quelli presenti naturalmente nel latte e quelli rilasciati dai batteri lattici che si sono accresciuti nelle fasi precedenti. L’attività proteolitica, con la progressiva ma parziale scissione delle caseine in peptoni, peptici, oligopeptidi e amminoacidi liberi, viene svolta prevalentemente nei primi 6 mesi di stagionatura, e cessa sostanzialmente dopo 24 mesi. Mentre la cinetica della lipolisi è quantitativamente più uniforme e prosegue dopo tre anni di invecchiamento del formaggio, anche se riguarda inizialmente gli acidi grassi a corta cate-na, poi quelli a media catena e infine quelli a lunga catena. L’evoluzione di queste trasforma-zioni biochimiche, che determinano le peculiari caratteristiche sensoriali e nutrizionali del prodotto, è condizionata soprattutto dalla progressiva riduzione della mobilità dell’acqua all’interno della matrice caseosa.

Il calo peso delle forme raggiunge il 10-12% dopo 12 mesi; nel successivo invecchiamento il calo peso è molto più limitato e, all’attività enzimatica ridotta si aggiungono modificazioni di natura prevalentemente fisica (aggregazioni e segregazioni strutturali che determinano le peculiari caratteristiche meccaniche al taglio ed alla masticazione). I moderni magazzini di stagionatura - con particolare riferimento a quelli più grandi degli istituti bancari che deten-gono il prodotto in pegno sui prestiti concessi ai caseifici - sono completamente meccaniz-zati e automatizzati sia per il condizionamento igro-termico (15-20°C e 80-85 UR%) sia per la movimentazione delle forme sulle scalere (scalonatrici) e per la pulitura.

movimentazione. L’accrescimento dei batteri lattici comporta una progressiva acidifica-zione, per la trasformazione metabolica del lattosio in acido lattico, con conseguente espul-sione di acqua dai granuli caseinici (spurgo) e loro adesione. La massa caseosa, divenuta sufficientemente coerente, viene tagliata in due parti uguali (oggi sono disponibili attrezza-ture dette “gemellatrici” per il taglio semiautomatico), le quali sono raccolte in due tele che - dopo essere state appositamente manipolate per ridurre e posizionare la “bocca” (corri-spondente al taglio) in una zona che corrisponderà ad uno spigolo tra un “piatto” e lo “scalzo”, - sono annodate su un bastone trasversale per mantenere le due “gemelle” prima semi-im-merse nel siero e poi in completa emersione per la sgrondatura. Il siero dolce è inviato alla centrifuga scrematrice per recuperare la frazione grassa residua destinata alla burrificazione; l’aliquota necessaria alla produzione del sieroinnesto per il giorno successivo è posta nella fermentiera. Il siero restante è destinato alla produzione di ricotta, oppure al ritiro per desti-nazione zootecnica (raccolto in serbatoi refrigerati se è destinato alla produzione di disidra-tato di buona qualità). I fagotti di massa caseosa sono portati sullo “spersole” (piano di legno leggermente inclinato per agevolare il drenaggio del siero) e compressi all’interno di stampi cilindrici costituiti da una “fascera” a diametro variabile sormontata da un disco di compres-sione detto “tondello” (originariamente di legno ed oggi di teflon), per proseguire la fermen-tazione lattica e lo spurgo del siero. ogni 3-4 ore i fagotti sono estratto dagli stampi, rivoltati e di nuovo compressi, con cambio della tela. Il giorno successivo le forme liberate dalla tela sono inserite in fascere metalliche bombate (oggi di acciaio inossidabile con interposta una “matrice” di teflon che stampiglia sullo scalzo la puntinatura e la codificazione del caseificio e del lotto). Anche se la diversa velocità di raffreddamento degli strati esterni rispetto a quelli interni comporta una diversa velocità del metabolismi batterico, già dopo le prime 48 ore di questa fase, risulta praticamente completata la glicolisi del lattosio, del glucosio e del galattosio ad opera dei batteri lattici termofili, prevalentemente omolattici. Quando la tem-peratura scende al di sotto di circa 45°C, si ha anche un limitato accrescimento della flora lattica eterofermentante, responsabile della produzione di acido acetico e di anidride carbo-nica. Dopo tre giorni complessivi di formatura per compressione e spurgo, le forme hanno acquisito completa coesione e stabilità dimensionale e sono sottoposte a salagione in sala-moia satura. Le vasche “orizzontali” tradizionali (prima in muratura e poi di vetroresina), con le forme galleggianti di costa o di piatto in monostrato e rigirate manualmente ogni due giorni, sono state in buona parte sostituite dalle vasche “verticali” a completa immersio-ne, con le forme sistemate su telai a più ripiani movimentati con carroponte e con ricircolo della salamoia. Per scambio osmotico, si ha la penetrazione del sale nelle forme e fuoriuscita di acqua dalle stesse. La velocità di trasferimento di massa tra salamoia e superficie solida è limitata dalla polarizzazione di concentrazione dell’interfaccia che, a sua volta, dipende dal regime di moto relativo (convezione naturale nelle vasche orizzontali a galleggiamento e convezione meccanica in quelle verticali ad immersione). Comunque, all’interno della fase

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la lunga stagionatura nonostante l’impiego di budello grasso (“gentile” o “culare”).I nostri salumi tradizionali sono il risultato di processi molto più complessi rispetto alla

carne semplicemente salata o essiccata e la loro produzione, pur essendo una pratica do-mestica, era affidata ad artigiani detentori della competenza specifica. Nel periodo invernale il “mazén”, si recava presso le fattorie (i contadini allevavano più capi in soccida) e le case padronali per uccidere il maiale, sezionarlo in tagli da consumare freschi (sangue e frattaglie) e quelli salati a media e a lunga conservazione secondo le esigenze del proprietario.

All’inizio dell’’800, iniziarono a diffondersi i primi laboratori di tipo commerciale che in-viavano salami e prosciutti anche in Francia17. Tra questi si può citare quello di Donino Fere-oli, che nel 1851era era attivo a Felino e dal quale trova origine l’attuale salumificio Fereoli Gino & Figlio. L’allevamento commerciale dei maiali era localizzato presso i caselli del par-migiano il quale fornivano il siero dolce che, insieme alla crusca, era la base alimentare dei maiali nella fase di ingrasso.

Alla fine del XIX secolo l’attività salumiera trova, quale elemento di sviluppo, la disponi-bilità di impianti frigoriferi che permettevano di destagionalizzare la produzione. A metà degli anni ’30 erano attivi 25 prosciuttifici, le cui lavorazioni sono rimaste sostanzialmente di tipo artigianale fino al secondo dopoguerra. oggi, su circa 250 salumifici del parmense, 171 sono prosciuttifici (la cui produzione per il 40% copre quella nazionale e per il 5% circa è relativa alla DOP Prosciutto di Parma)14. La lavorazione del “culatello”, invece, è rimasta arti-gianale e praticamente familiare fino a pochi anni orsono; così limitata da avere un mercato strettamente locale e da essere oggetto tutt’al più di un prezioso regalo per parmigiani fuori sede e per pochi forestieri in grado di apprezzarlo (anche per la laboriosità della sua prepa-razione al consumo).

Anticamente la lavorazione dei salumi era direttamente collegata all’allevamento e alla macellazione dei suini. oggi le fasi sono del tutto separate, anche quando avvengono nello stesso territorio e, a maggior ragione, quando si trasformano tagli acquistati sul mercato internazionale. I moderni impianti di macellazione e di sezionamento sono altamente mec-canizzati: effettuano la rifilatura delle cosce di suino pesante specifica per le diverse DoP e raccolgono separatamente i diversi tagli destinati ai prodotti macinati. Avendo perso il collegamento diretto della trasformazione all’allevamento, data la notevole influenza del-le caratteristiche della materia prima sulla qualità e sulla resa dei prodotti finiti, sarebbero necessarie specifiche di fornitura basate, di volta in volta, sui parametri oggettivi e limiti di accettabilità facilmente e rapidamente riscontrabili. Ma in questo ambito, mentre la co-noscenza scientifica è abbastanza sviluppata e si basa su tecniche analitiche anche molto complesse, l’approccio tecnologico di interesse industriale è ancora decisamente scarso. Eppure l’esperienza di stage aziendale di alcuni dottorandi in “Scienze e Tecnologie Alimen-tari” ha dimostrato che una efficace tenuta sotto controllo della materia prima permette di ridurre notevolmente i “fuori standard” di salami stagionati, e di aumentare di qualche punto

1.2.5 - I SALuMICon il termine “salumi” si comprende un’ampia gamma di prodotti a base di carne, per

lo più suina, conservati mediante l’impiego combinato di sale, spezie, nitriti e/o nitrati, e di parziale disidratazione (con l’apporto del fumo quando l’asciugamento è effettuato pres-so un fuoco a legna). I salumi possono essere distinti sinteticamente in diverse categorie: quelli costituiti da tagli anatomici interi e quelli composti da pezzi o triti più o meno fini di tagli magri e grassi; quelli protetti all’esterno da cotenna (con sugna nelle parti scoperte) e quelli insaccati in budelli naturali più o meno grassi e di diverse dimensioni, oppure in bu-delli artificiali o sintetici; quelli stagionati e consumati crudi o previa lessatura, e quelli cotti all’atto stesso della preparazione; quelli fermentati, quelli che subiscono solo maturazione enzimatica e quelli sostanzialmente esenti da attività biochimica. Le combinazioni tra que-ste alternative, insieme ai diversi tagli di carne e alle diverse modalità operative, comportano una grande differenziazione di presentazione e percezione sensoriale tra i prodotti, anche a parità di tipologia base.

In Emilia e, in particolare, nel parmense la tradizione di preparare salumi è stata cer-tamente favorita dalla disponibilità del sale proveniente dalle vicine acque ipertoniche di Salsomaggiore, e anche per l’effetto antibatterico dovuto all’elevato contenuto di ioduri e bromuri che, probabilmente, ha permesso di ottenere salumi con un contenuto relativa-mente basso di sale e di spezie; e questo li ha resi più apprezzati rispetto a quelli di altre regioni. Secondo l’Unione Parmense degli Industriali - che peraltro non cita la fonte - la du-chessa Maria Luigia d’Austria stimolava i contadini a produrre prosciutti “sempre più dolci”14. Il clima collinare sub-appenninico ha caratterizzato le tecnica di lavorazione del prosciutto e del salame; quelle del “prosciutto senz’osso” (culatello e fiocco) e della “spalletta” (o spalla di San Secondo) sono invece state determinate dalla elevata umidità e dalla scarsa ventilazio-ne della Bassa, incompatibile con la lavorazione di cosce e spalle in osso.

Sono molte le fonti letterarie, tra le quali gli scritti sui viaggi in Italia di intellettuali fran-cesi nella fine del XvIII secolo, che citano come specialità gastronomiche di Parma, oltre al formaggio, il prosciutto, la spalletta e la bondiola15.

L’incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli, nell’acquaforte del 1691, intitolata “Gioco della Cucagna che mai si perde e sempre si guadagna”, nella figura con didascalia “Investiture di Parma” rappresenta un insaccato che in genere è identificato come bondiola o coppa, mentre appare troppo piccolo per essere un culatello come alcuni rivendicano16. Per inciso, Piacenza è associata al formaggio, con una punta di grana; Reggio, alle spongate. In effetti il termine “bondiola”, più che al contenuto si riferisce al budello utilizzato: grande di bovino e tale da acquisire una forma tondeggiante; cosicché il salume così denominato può essere sia una coppa stagionata cruda, sia una sorta di cotechino da mangiare previa lessatura. D’altra parte, oltre alla spalla di San Secondo, anche quello che oggi è denominato “salame di Feli-no”, anticamente poteva essere consumato cotto, in particolare se era molto disidratato per

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mento dell’attività dell’acqua, la flora microbica moderatamente alofila favorisce l’estrazione delle proteine miofibrillari nelle fasi di impasto e la precipitazione delle proteine sarcopla-smatiche durante i processi fermentativi, impartendo la necessaria coesività tra i particolati. Nei tagli interi crudi stagionati il sale applicato all’esterno ha il compito di estrarre acqua e inibire l’accrescimento della flora microbica superficiale, mentre quello penetrato all’inter-no denatura le proteine e regola le attività enzimatiche (una concentrazione insufficiente rispetto al valore di attività della catepsina B nella materia prima comporta eccessiva prote-olisi, con conseguente inflaccidimento e gusto amaro-pungente). Nei cotti disossati il sale ha come ruolo fondamentale l’estrazione in zangolatura delle proteine miofibrillari che, ge-lificando dopo cottura e raffreddamento, permettono l’incollaggio dei muscoli inizialmente tagliati per il disosso.

Gli additivi comunemente utilizzati nei salumi, fatta eccezione per il prosciutto crudo DoP, sono i nitrati e/o nitriti (anticamente il salnitro) che, oltre a conferire al prodotto la colorazione rossastra, inibiscono l’accrescimento di microrganismi anaerobi e, in particolare, di Clostridium botulinum e di Clostridium perfringes. In realtà sia l’effetto sul colore sia l’azione antimicrobica è svolta dai nitriti e, più precisamente, dall’ossido di azoto che si forma dal nitrito a ph acido; i nitrati devono essere invece preliminarmente ridotti a nitriti dall’enzima nitrato-reduttasi di origine microbica (Micrococcaceae ed altri componenti della flora nor-malmente presente). Anche se non si ha la denaturazione dovuta a cottura, la mioglobina (il pigmento rosso che è parte della proteina sarcoplasmatica del muscolo) in assenza di ossigeno si trasforma in metmioglobina di colore bruno-grigiastro; mentre in presenza di ossido nitroso si trasforma in nitroso-mioglobina mantenendo il colore rosso. Anche l’azione antimicrobica è dovuta agli ossidi di azoto che attaccano i gruppi amminici dei sistemi dei-drogenasi microbici, provocando così l’inibizione. L’ascorbato, oltre a proteggere dall’inscu-rimento e l’irrancidimento del prodotto reagendo preferenzialmente con l’ossigeno inizial-mente inglobato nell’impasto, inibisce la formazione di anidride nitrosa da parte dei nitriti e, quindi, la formazione di nitrosammine (potenzialmente cancerogene). Poichè l’ascorbato è un antiossidante solubile in acqua, per proteggere efficacemente dall’inrancidimento la frazione grassa (soprattutto con gli attuali elevati livelli di insaturazione) si impiegano anche antiossidanti lipofili quali i tocoferoli.

Nei salumi cotti si possono impiegare polifosfati che riducono la sineresi in cottura, au-mentando la capacità di ritenzione dell’acqua da parte della carne, con un conseguente aumento della resa produttiva e della succosità del prodotto. I polifosfati però sequestrano il calcio e, anche nelle dosi massime permesse dalla legge, sono sconsigliati in particolare nella dieta dei bambini, delle donne in gravidanza e degli anziani per l’effetto negativo sul-la struttura ossea. Pertanto, dagli anni ’80 è diventato commercialmente importante poter dichiarare in etichetta l’assenza di polifosfati aggiunti, sostituendoli con ingredienti che per-mettono di ottenere risultati tecnici equivalenti: caseinati e sieroproteine del latte o altre

percentuale la resa di prosciutti cotti; ripagando immediatamente i costi di sperimentazione e di messa a punto della metodologia.

Fino alla prima metà del secolo scorso le lavorazioni salumiere erano effettuate in ma-niera artigianale, utilizzando attrezzature molto semplici e quasi esclusivamente ad aziona-mento manuale. oggi, invece, la meccanizzazione è molto diffusa sia per le fasi operative sia per la movimentazione. Questa evoluzione è evidente anche dal punto di vista del layout degli stabilimenti per salumi stagionati. La tradizionale disposizione su tre piani, per sfrut-tare diversamente le condizioni climatiche esterne, era stata mantenuta anche quando era stata già introdotta la climatizzazione artificiale. oggi si costruiscono su un solo piano per agevolare la movimentazione automatica del prodotto attraverso le diverse fasi di processo. In realtà, però, anche se il settore del prosciutto cotto ha una storia recente, è stato però ca-ratterizzato da un rapido sviluppo industriale (grazie alla tecnica e ai macchinari inizialmen-te importati dal Nord-Europa); il segmento dei salumi crudi stagionati ha avuto invece un’evoluzione industriale molto più lenta e tuttora non completata. Questa differenza è dovuta al fatto che la tecnica di produzione dei salumi crudi stagionati, tipici della tradizione italiana, non ha potuto usufruire del know how scientifico sviluppato a livello internazionale per i salumi cotti. D’altra parte, rispetto a quelli cotti, i salumi crudi sono caratterizzati, a fron-te di variabili di formulazione e di azioni meccaniche più semplici, dalle complesse modifica-zioni microbiologiche e/o enzimatiche che ne determinano le peculiarità e che sono stret-tamente dipendenti dalla qualità iniziale dei tagli di carne e dalle modalità di asciugamento e di stagionatura. Per questa ragione, la tecnica dei crudi ha avuto un effettivo progresso solo negli anni ‘70, quando al controllo della temperatura si è aggiunto quello dell’umidità relativa dell’aria e del regime di ventilazione; anche se tuttora le condizioni di trattamento all’interno delle celle sono spesso disuniformi e, comunque, la loro regolazione richiede at-tente verifiche sensoriali da parte degli addetti. Pertanto, questa tecnica di lavorazione potrà diventare una vera e propria tecnologia solo quando le fasi di concomitante e interdipen-dente trasferimento di calore e di massa potranno essere progettate e tenute sotto controllo sulla base di appositi modelli matematici igro-termo-fluido-dinamici. Tali modelli, peraltro, essendo molto più complessi rispetto a quelli dei trattamenti di cottura e di pastorizzazione dei salumi cotti, sono oggetto di ricerca accademica ma ancora non applicabili direttamente in ambiente produttivo. D’altra parte, la mancanza di know how internazionale per i salumi crudi stagionati ha comportato nel tempo il vantaggio di fare sviluppare in loco costruttori di macchine e impianti specifici, che attualmente sono esportati insieme alle tecniche di lavorazione in Paesi come Argentina e Brasile, dove i discendenti dei nostri emigranti con-servano l’abitudine a questo tipo di alimenti.

ovviamente l’ingrediente comune a tutti i salumi è il sale, miscelato direttamente nei prodotti macinati e applicato nei tagli interi a secco sulla superficie, oppure come salamoia per immersione o iniezione. Il cloruro di sodio nei salami, oltre a selezionare per abbassa-

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alla ristorazione più economica). Anche a parità di tipo di materia prima utilizzata, gli stam-pi di cottura avevano forme diverse (anche in funzione delle diverse abitudini regionali), al punto che chi serviva un mercato allargato doveva avere una dozzina di tipi di stampo, con conseguenti problemi di logistica interna, difficoltà di programmazione della produzione e immobilizzo di magazzino.

Ancora alla fine degli anni ’70, i prosciutti erano salamoiati mediante iniezione ipoder-mica manuale molto lenta, e che richiedeva una particolare abilità da parte dell’operatore. Dopo la cottura dentro gli stampi immersi in vasche con acqua prossima all’ebollizione e il successivo raffreddamento, il prodotto era semplicemente confezionato in sacchi plasti-ci, ma la sua shelf life era breve, anche in condizioni refrigerate per la ricontaminazione su-perficiale post raffreddamento. Taluno confezionava il prodotto in grandi scatole di banda stagnata sagomate “a mandolino” (verniciate internamente e con un dischetto di alluminio rivettato sul fondo, quale “anodo sacrificale” per proteggere la base di acciaio dalla corro-sione dovuta all’elevato contenuto di cloruri) e lo sottoponeva ad un trattamento di steri-lizzazione superficiale in autoclavi a vapore. Poiché, a seguito del trattamento termico, non correttamente correlato alla composizione ed alla quantità di salamoia siringata, si aveva una rilevante sineresi, le scatole ancora calde e rigonfie erano perforate sul coperchio e com-presse per fare uscire la fase acquosa libera; successivamente, continuando a comprimere il coperchio, il foro era chiuso con una saldatura a lega stagno-piombo. Il tutto manualmente. Nella seconda metà degli anni ’80 erano ormai generalmente utilizzate le siringatici mul-tiago automatiche con successiva zangolatura refrigerata e sottovuoto, differenziata per tipo di materia prima e livello di qualità del prodotto: zangole a “betoniera” per massaggia-tura lenta e delicata; impianti automatici a “bidoni” per massaggiatura più energica e im-pastatrici a pale per sfibratura dei pezzi da prodotto ricostituito (eventualmente inteneriti con semitagli e detendinati mediante apposite macchine prima della siringatura). Era stato anche introdotto lo stampaggio sotto vuoto e la cottura in armadi a vapore-aria. Inoltre, era stata sperimentata la cottura del prodotto già racchiuso ermeticamente in un sacco plastico resistente al trattamento termico, con una salamoiatura a “calo zero” (ovvero di com-posizione e quantità tale da non dare sineresi), oppure con sacchi aventi una “proboscide” che fuoriusciva dallo stampo, tale da accogliere per pressione la maggior parte della fase sierosa ed eliminata dopo raffreddamento con doppia termosaldatura e taglio intermedio. Ma, per la variabilità della materia prima in termini di capacità di ritenzione dell’acqua, la tecnica a “calo zero” era realmente applicabile solo rinunciando alla massima resa. Il sacco con “proboscide” comportava invece molta manualità e dava scarse garanzie di ermeticità; cosicché, nonostante il maggior costo energetico, si è quindi affermato il confezionamento sotto vuoto dopo raffreddamento con un secondo trattamento di pastorizzazione superfi-ciale e di raffreddamento.

Nonostante il grande apprezzamento a livello internazionale del Prosciutto di Parma,

proteine, zuccheri e polisaccaridi a medio e alto peso molecolare, idrocolloidi e fibre. Anche nel caso dei salumi crudi, questi ingredienti in opportune proporzioni secondo il tipo di prodotto, oltre ad aumentare la capacità di ritenzione dell’acqua e la resa, possono miglio-rare la presentazione del prodotto all’atto dell’affettatura (integrità e aspetto). Nel caso dei salami crudi, ad esempio, viene favorita la precipitazione delle proteine miofibrillari e sarco-plasmatiche, con maggiore coesività tra le particelle magre e grasse. Sempre nei salami, gli zuccheri semplici si utilizzano anche per garantire un’adeguata fermentazione.

Sempre con l’esclusione del Prosciutto di Parma DoP, sono molti gli altri ingredienti che possono essere impiegati nelle “conce” e nelle “salamoie”: generalmente il pepe, spesso anche altre spezie, talora aglio e vino. Questi ingredienti, indispensabili per conferire aro-ma ai salumi cotti; per quelli crudi, a parte gli effetti sensoriali tramandati dal loro impiego plurisecolare, hanno una importante funzione antiossidante ed anche batteriostatica com-plementare a quella del sale. Essi impediscono l’irrancidimento e l’accrescimento microbi-co quando sono presenti superficialmente in elevata concentrazione; mentre nei prodotti tritati favoriscono la fermentazione lattica selezionando la flora microbica occasionalmente presente. Per garantire sistematicamente una corretta fermentazione dei salami, oggi si im-piegano starter specifici, con inoculi tali da essere sicuramente competitivi rispetto alla flora microbica indesiderata. L’abbassamento del ph, conseguente alla fermentazione, comporta un’ulteriore azione di selezione microbica che permette di portare il prodotto a temperature superiori, adatte alla sua maturazione enzimatica. Quando l’accrescimento di muffe super-ficiali non comporta difetti nel prodotto finito (come nel caso del prosciutto stagionato), ma permette di regolare meglio lo scambio di umidità con l’ambiente esterno e apporta enzimi utili alla maturazione specifica (come nel caso del salame di Felino), è bene effettuare un ino-culo superficiale anche di queste forme microbiche. Infatti, se ci si affida all’accrescimento spontaneo dei miceti presenti nell’ambiente di lavoro, è inevitabile avere accrescimenti di muffe eterogenee, indesiderate per la diversa colorazione del feltro fungino e talora perico-lose se producono micotossine. Nelle lavorazioni “semplificate”, le muffe accresciute sponta-neamente vengono eliminate con spazzolatura e lavaggio, infarinando poi la superficie per simulare la tradizionale “piumatura” di muffe bianche benigne.

Nella produzione di prosciutto crudo stagionato, nonostante l’impiego degli impianti frigoriferi, ancora negli anni ‘50 la percentuale dei pezzi difettosi era tra il 25% e il 30%, mentre oggi si aggira intorno al 2%18. Fortunatamente, l’esperienza empirica degli addet-ti permetteva di individuare precocemente i prosciutti che non sarebbero “andati a buon fine” e, quindi, di recuperarli quando erano ancora idonei alla trasformazione in prosciutti cotti. Questa produzione, peraltro, era molto limitata e utilizzava tecniche essenzialmente artigianali. Successivamente, la produzione di salumi cotti è divenuta del tutto autonoma e ha avuto un rapido sviluppo industriale. Al prosciutto cotto - differenziato in diversi livelli di qualità - si è aggiunta la spalla e il prodotto in pezzi “ricostituiti” (essenzialmente destinato

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in camere con iniezione di azoto liquido. Un problema ancora aperto è connesso alla espor-tazione negli USA, per la difficoltà di adeguarsi all’obbligo di garanzia “listeria free” (assenza analitica di batteri del genere Listeria) che si applica a questi alimenti di tipologia “ready to eat” (da consumare senza previa cottura). Sono tuttora in corso ricerche sperimentali di trattamenti germicidi fisici non termici, ma la stessa esperienza statunitense ha dimostrato che l’unica soluzione attualmente disponibile è garantire l’assenza di Listeria nella materia prima per i salumi crudi e, comunque, negli ambienti di lavorazione e di stoccaggio. Ma que-ste condizioni, indipendentemente dalle procedure di detergenza e di sanificazione, sono molto difficili da attuare in stabilimenti di macellazione e di trasformazione e con impianti di raffreddamento che non siano stati appositamente progettati e costruiti per non essere essi stessi “focolai” di batteri psicrofili come quelli del genere Listeria.

Negli anni ‘80-’90, gli obblighi ambientali relativi ai reflui di allevamento e quelli igie-nici sulla macellazione hanno imposto a questi due settori una forte aggregazione per rag-giungere economie di scala. Le nuove strutture sono state localizzate in Lombardia e in Emi-lia Romagna, ma lontano dalle zone tipiche di trasformazione, per le quali è stata perseguita una politica di particolare tutela ambientale. D’altra parte, l’impiego di materia prima fresca nazionale si è sempre più ristretto ai salumi con DoP che la rendono obbligatoria nel proprio Disciplinare, risultando molto più economica negli altri casi quella di provenienza estera. Comunque, il maiale “pesante” del circuito produttivo vincolato dalle DOP (comune al Pro-sciutto di Parma, di San Daniele e di Modena e al Culatello di Zibello) ha ormai molto poco di tradizionale e l’evoluzione sia della genetica sia dell’alimentazione rendono spesso le cosce disponibili poco adatte alla trasformazione in prodotto stagionato. Infatti, l’accrescimento troppo rapido e l’elevato contenuto di acidi grassi insaturi della dieta comportano, rispet-tivamente, eccessiva attività di enzimi proteolitici durante la maturazione (valutata come attività della catepsina B) e scarsa consistenza, ed elevata ossidabilità dello strato di grasso esterno (valutata come numero di iodio). Per quest’ultimo, l’elevato tenore di acidi grassi insaturi può essere considerato positivo dal punto di vista nutrizionale, ma non certamente dal punto di vista tecnologico. Il problema di scarsa idoneità alla trasformazione delle co-sce suine già nei primi anni ’90 era stato documentato scientificamente dai ricercatori della Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari, ma tuttora permane. Lo di-mostrano le seguenti considerazioni fatte da un ricercatore nel 2006: “Una scorretta alimen-tazione (carenze proteiche ed energetiche) infatti non solo riduce le prestazioni produttive degli animali, ma ritarda il raggiungimento di quello stato di maturazione delle carni di cui l’attività enzimatica è l’indice. Ne risulta che è particolarmente importante, proprio ai fini della qualità delle carni da destinarsi alle produzioni tipiche, che gli animali ricevano un’alimentazione che consenta loro di esplicare tutta la loro potenzialità produttiva e soprattutto che al momento del-la macellazione l’accrescimento del tessuto muscolare sia in fase calante e sia in pieno sviluppo il tessuto adiposo. Tale concetto che gli animali debbano essere macellati quando sono “finiti” e

la sua esportazione era fortemente penalizzata dal fatto che all’estero non erano in genere utilizzate (anche a livello commerciale) macchine affettatrici adatte e, comunque, era preclu-sa la vendita attraverso la grande distribuzione. Qualche pioniere, già negli anni ’80, aveva pensato di superare questo handicap con la preaffettatura, ma l’unica forma di confezio-namento allora in grado di proteggere il prodotto sia meccanicamente, che dall’ossigeno e dalla disidratazione era una scatola di banda stagnata rettangolare, molto larga e bassissi-ma, chiusa sotto vuoto. Il prodotto si conservava molto bene, ma lo spessore del lamierino necessario per sopportare il vuoto interno era tale da rendere la scatola, oltre che molto costosa, davvero difficile da aprire, anche disponendo di un buon apriscatola. Nei decenni successivi, anche in Italia si è progressivamente allargata la quota di prodotti alimentari vei-colati dalla grande distribuzione e l’esigenza di commercializzare i porzionati e preaffettati è divenuta pressante per tutti i salumi crudi e cotti. I tranci potevano essere adeguatamente confezionati sottovuoto in sacchi plastici termoretraibili; mentre per i preaffettati è stato necessario attendere la disponibilità di vaschette plastiche a elevata barriera e chiuse con adatta atmosfera modificata. Infatti l’impiego di buste chiuse sottovuoto, nonostante l’in-serimento di foglietti plastici di interfalda, non permetteva di mantenere integre le fette all’utilizzo. Ma per i salumi cotti ed anche per quelli crudi poco stagionati, con elevata attività dell’acqua e senza poter impiegare additivi antibatterici ad ampio spettro, il problema prin-cipale da superare è stato quello di garantire una adeguata shelf life in condizioni di refrige-razione (peraltro con una “catena del freddo” poco affidabile) effettuando le operazioni di affettatura e di confezionamento in ambiente a bassissima carica microbica alterativa, oltre che potenzialmente patogena. Negli anni ’90, questo problema è stato affrontato mutuan-do dal settore farmaceutico e medicale la tecnica delle “camere bianche”. Queste, peraltro, erano poco efficaci perché malamente adattate al traffico continuo di materiali e di addetti provenienti dagli altri ambienti con elevata contaminazione microbica: le macchine di affet-tatura e di confezionamento non erano progettate e costruite per essere adeguatamente pulite e sanificate e, talora, anche non adatte per la contaminazione crociata dovuta alla copresenza di prodotti stagionati e prodotti cotti. Mentre inizialmente erano sorte aziende dedicate al preconfezionamento anche per conto terzi, oggi la quota di prodotto venduto preaffettato è tale per cui la maggior parte dei salumifici e prosciuttifici si è attrezzata auto-nomamente. Ad esempio, la produzione di Prosciutto di Parma preaffettato dal 2000 a oggi è passata da 15 a 52 milioni di vaschette, con una quota del 21% rispetto al totale del prodot-to marchiato e del 36% di quello esportato19. Questo sviluppo è stato consentito dalla mi-gliore progettazione e gestione delle “camere bianche” e dei macchinari, che hanno anche raggiunto capacità produttiva elevata. Per esigenze di presentazione e per ridurre lo sfrido, il prodotto è appositamente fabbricato con forme adatte, oppure compresso in mattonel-le dopo il disosso; e per mantenerlo sufficientemente rigido nonostante il calore generato dall’attrito del taglio ad alta velocità, recentemente è stato introdotto il preraffreddamento

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e graduale. Il tutto, ovviamente, adattando empiricamente le modalità operative in funzione delle effettive condizioni atmosferiche per evitare sia fermentazioni anomale e ammuffi-mento, sia una struttura anomala per asciugamento troppo rapido22, 23.

L’officina Pattison di napoli nel 1830 ha introdotto la gramola a coltelli; forse corrispon-dente a quella che Cesare Spadaccini sosteneva di avere allestito nel suo scritto del 1833: “Uomo di bronzo per rimuovere l’abominevole uso di lavorare la pasta con i piedi”. Sempre la Pattison ha realizzato nel 1870 la prima gramola completamente automatica e un torchio idraulico “a gotto montante”. 21 Comunque, anche se la lavorazione dell’impasto e la sua for-matura erano agevolate da attrezzature meccaniche, l’essiccamento continuava ad essere molto laborioso e non riproducibile se basato su condizioni ambientali tradizionali; oppure tale da non permettere di ottenere pasta di buona qualità se si utilizzavano stufe. Nel ven-tennio a cavallo tra ‘800 e ‘900 si contano circa 20 brevetti e, in particolare, nel 1898 quello dell’Ing. vitaliano Tomasini che, sviluppando una idea di Filippo De Cecco dell’omonimo pa-stificio abruzzese, che permetteva di riprodurre (seppure in maniera scarsamente control-lata) le condizioni del sistema di essiccamento naturale “alla napoletana”. Nel primo quarto di secolo del Novecento vengono depositati oltre 150 brevetti e, in particolare, quello di Renato Rovetta, inventore del primo essiccatoio con regolazione di temperatura, umidità e distribuzione del flusso d’aria 22, 23.

In questo contesto di industrializzazione dell’attività pastaria, Parma ha svolto e svolge un ruolo particolarmente rilevante.

Nell’Archivio di Stato di Parma sono stati rinvenuti due campioni di pasta secca risalenti agli anni 1837 e 1838, relativi al rifiuto per qualità non conforme di una fornitura destinata ai carcerati 24.

Tra le molte attività di pastificazione artigianale attive a Parma, il primo pastificio con assetto industriale fu quello fondato dall’Ing. Ennio Braibanti nel 1870. Giuseppe e Mario Braibanti, figli di Ennio ed anch’essi ingegneri, si dedicarono allo sviluppo dei macchinari produttivi e nel 1933 progettarono la prima pressa-impastatrice italiana. Successivamente, Giuseppe Braibandi fondò e amministrò l’impresa meccanoalimentare F.lli Braibandi di Mila-no, la quale nel 1946 lanciò sul mercato internazionale le prime linee totalmente automati-che per la produzione di paste corte e, nel 1949 quelle per paste lunghe 22.

Pietro Barilla senior, che nel 1887 aveva aperto un laboratorio artigianale per pane e pasta fresca, nel 1910 mise in funzione un vero e proprio pastificio. Negli anni ’50 lo stabi-limento fu ammodernato e potenziato e nel ‘68 fu affiancato da quello di Pedrignano che, con una crescita progressiva, diventerà il più grande sito produttivo pastaio. A partire dagli anni ’70 entrano a far parte del Gruppo Barilla sia la parmense Braibanti sia la Voiello (attiva a Torre Annunziata fin dal 1879). Nei primi anni ’80 la Barilla ha introdotto nuove linee di pastificazione automatizzate e con la fase di essiccamento ad alta temperatura per breve tempo che, conciliando la riduzione dei tempi di trattamento con una migliore texture della

cioè quando abbiano raggiunto un adeguato grado di adiposità è apparentemente ovvio. Nella suinicoltura moderna invece sempre più spesso si utilizzano suini con potenzialità di accresci-mento tale che, sebbene giungano al macello ad un peso adeguato per le produzioni tipiche (160 chilogrammi), sono ancora in fase di accrescimento muscolare e quindi non “finiti”.20

Come nel caso del formaggio Parmigiano Reggiano, anche per il Prosciutto di Parma, no-nostante i limiti posti dal Disciplinare, le modalità di allevamento si sono evolute con l’obietti-vo di incrementare sempre più la resa produttiva, rendendo maggiormente difficile riuscire a ottenere la qualità tradizionale del prodotto finito, mantenendo effettivamente tradizio-nale solo le modalità di trasformazione. D’altra parte, tranne piccole nicchie di mercato, lo strapotere della grande distribuzione ha innescato una spirale economica perversa: il prezzo medio di mercato spuntato dal prodotto finito (assurdamente vicino a quello del prosciutto cotto, che non ha il calo peso e l’immobilizzo di capitale di quello stagionato) non permette ai prosciuttifici di premiare con il prezzo di acquisto le cosce fresche di migliore qualità. Non sorprende, quindi, il fatto che la gran parte della produzione di prosciutto crudo sia al di fuori dalla DoP, dal momento che la conoscenza tecnologica oggi disponibile permette di ottene-re uno standard di prodotto con adeguato rapporto qualità/prezzo, modificando le modalità di lavorazione tipiche in funzione della materia prima utilizzata.

1.2.6 – LA PASTA E I PRoDoTTI DA FoRnoLa produzione commerciale di pasta essiccata si è diffusa dalla Sicilia, nel palermitano

dove erano disponibili sia il grano duro sia le condizioni climatiche favorevoli all’essiccazio-ne, alla Liguria e alla Campania, in particolare Torre Annunziata e Gragnano, che avevano il clima adatto, ma dovevano importare il grano duro. La pasta essiccata era un bene di lusso per il costo di trasporto del grano duro e, soprattutto, per il costo elevato di una lavo-razione completamente manuale; infatti diventa un alimento popolare nel XvII secolo con l’invenzione del torchio meccanico.21

La lavorazione della pasta prevedeva e prevede tuttora una serie di operazioni meccani-che per la sua formatura, seguite da trattamenti igro-termici per arrivare al completo essic-camento. originariamente anche le operazioni meccaniche erano del tutto manuali. Dopo l’impastamento e la gramolatura, la formatura era inizialmente effettuata per laminazione (compressione con un rullo o tra due rulli); ma già nel ‘600 si è diffusa l’estrusione con torchio o pressa, ovvero la compressione dell’impasto contro una piastra di bronzo forata (trafila), con aperture per formati cilindrici, a nastro o tubolari, e taglio allo scarico. La pasta fresca era posta su un telaio oscillante (trabatto) ed esposta al sole e al vento o comunque asciugata rapidamente in superficie (incartamento), per ridurne l’adesività e la deformabilità; poi, po-sta su telati era portata in cantina fresca e leggermente umida, per evitarne la successiva rot-tura con una ridistribuzione dell’acqua interna (rinvenimento) e, infine, era postata in locali arieggiati da grandi finestre (con eventuali bracieri) per la vera e propria essiccazione, lenta

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fortemente carente dal punto di vista tecnologico e non in grado di adeguarsi alle preferenze dei consumatori. In particolare il ritardo culturale riguardava l’approccio all’ingredientistica puramente chimico e subordinato alle proposte dei fornitori; mentre, proprio questo settore ha ampie potenzialità di innovazione di prodotto, se si è in grado di progettare nuove carat-teristiche strutturali e funzionali scegliendo tra le innumerevoli variabili di formulazione.

Contrariamente alla pasta ed anche ai predetti prodotti da forno, le origini della produ-zione commerciale di pane risalgono addirittura alle prime fasi di aggregazione urbana, perché le singole famiglie non potevano disporre di un forno adatto. Eppure questa attività è rimasta in Italia di dimensione strettamente artigianale fino agli anni ’80. Questa anomalia è dovuta al forte condizionamento politico esercitato a livello normativo dalla categoria dei panificatori, ma anche perché la componente fermentativa del processo lo rendeva poco adatto ad una industria alimentare capace di gestire i fenomeni fisico-meccanici ma priva di competenze tecnologiche comprensive degli aspetti biochimici. Nel 1980 la Barilla ha acqui-sito una serie di panifici operanti in Toscana, Piemonte e Lombardia; dal 1994 ne ha progres-sivamente aggregato la produzione fino a concentrarla in tre grandi stabilimenti , ciascuno per Regione ma con un mercato nazionale, che rappresentano tuttora (dal 2003 non fanno più parte del Gruppo Barilla) la più grande realtà produttiva di pane fresco industriale. Si deve osservare, peraltro, che questa industrializzazione è stata possibile solo acquisendo da altri Paesi, oltre ai macchinari, anche il know how tecnologico che era assente in Italia anche a livello accademico per l’approccio esclusivamente empirico che era considerato intrinse-camente connaturato al settore.

1.2.7 - L’InDuSTRIA SAccARIFERANel 1799 Franz carl Achard, titolare della cattedra di fisica a Berlino, presentò a Fede-

rico Guglielmo III di Prussia dei “pani di zucchero” da lui ottenuti a partire da una varietà barbabietola da foraggio appositamente selezionata e ottenne un finanziamento di 50.000 talleri, per costruire a Kunern in Slesia il primo zuccherificio industriale che entro in funzione nel 1802 25. Allora in Europa si utilizzava lo zucchero di canna che proveniva principalmente dalle colonie del Centro America. Ma nel 1804 gli inglesi, per contrastare l’espansionismo di Napoleone, attuarono un blocco navale che imponeva alle navi dirette negli scali controllati dai francesi di transitare prima per i porti della Gran Bretagna pagando pesanti dazi. Napo-leone rispose con il Blocco Continentale (Decreto di Berlino del 1806) e lo inasprì nel 1807 (Decreti di Milano), proibendo l’importazione dei coloniali, compreso lo zucchero di canna. napoleone impose la coltivazione della barbabietola nei dipartimenti attorno a Parigi e, aiutato dal finanziere e studioso di scienze naturali Benjamin Delessert che aveva perfe-zionato il metodo di Archard, favorì il sorgere di zuccherifici tramite premi sulla produzione di zucchero ed esenzioni fiscali. Poiché questi incentivi non risultavano efficaci nel Regno d’Italia, su cui regnava lo stesso Napoleone, lo Stato francese con propri capitali (tramite il

pasta (grazie all’ottimale formazione del reticolo glutinico che limita la fuoriuscita dell’amido in cottura), ha permesso di utilizzare miscele di semole variabili in funzione delle variazioni del mercato ma ottenendo un prodotto di qualità media, con buon rapporto qualità/prezzo e, soprattutto molto più standardizzato rispetto alla concorrenza. E’ importante considerare che il consumatore medio italiano, che mangia un primo di pasta quasi tutti i giorni, è molto esigente dal punto di vista della tenuta in cottura (assenza di collosità e mantenimento del nerbo “al dente”, ma senza gusto di amido) e, più che al livello di qualità assoluto, apprezza la costanza del livello che diventa abituale e induce fidelizzazione al marchio. Fatto sta che la pasta Barilla incrementò rapidamente la sua quota di mercato a scapito di quella degli al-tri stabilimenti industriali, i quali peraltro non disponevano delle conoscenze tecnologiche, prima ancora che delle risorse finanziarie per attuare rapidamente le stesse innovazioni di processo. Ciò ha dato all’impresa parmense un vantaggio competitivo di circa dieci anni sulla concorrenza e, quindi, le risorse per autofinanziare la sua espansione internazionale e la concomitante differenziazione produttiva (prodotti da forno e condimenti per primo piatto). Anche se i nuovi impianti più avanzati non erano di fabbricazione italiana ed erano ovviamente utilizzati anche in altri Paesi, le competenze interne per selezionare le semole fin dalla scelta varietale dei grani duri e delle rispettive condizioni di coltivazione, di mettere a punto le condizioni di processo e di tenerle strettamente sotto controllo, ha permesso alla Barilla di conquistare e mantenere la leadership produttiva a livello internazionale.

La capacità interna di orientamento delle scelte agronomiche è stato un importante fat-tore competitivo, perché ancora negli anni ’70-’80 la ricerca agronomica pubblica in questo ambito era essenzialmente dedicata alla produttività e all’adattamento forzato allo stress salino e alla siccitosi; laddove la ricerca in Francia era molto più orientata alla qualità in pa-stificazione. Il fatto è che nel nostro Paese era in vigore la “legge di purezza” che vietava l’immissione sul mercato di pasta secca che non fosse esclusivamente ottenuta con semola di grano duro (peraltro dichiarata incompatibile con il Trattato CEE sul mercato unico euro-peo, in base al principio della sentenza “Cassis de Dijon” del 1979). Questa norma doveva servire a tutelare il reddito dei produttori agricoli pugliesi e siciliani e si dava per scontato che utilizzando la semola la pasta dovesse risultare necessariamente di buona qualità. Inve-ce, estremizzando, dal punto di vista della pastificazione può essere addirittura migliore un ottimo grano tenero rispetto ad un grano duro scadente.

Nel 1975 la Barilla ha iniziato una differenziazione produttiva con l’attivazione della linea di prodotti da forno a marchio Mulino Bianco e, successivamente, con l’acquisizione della Pavesi, acquisendo rapidamente la maggiore quota di mercato dei biscotti, dei prodot-ti da prima colazione e dei sostituti del pane, soprattutto, ampliando grandemente questo mercato fino ad allora stagnante. Ciò è stato possibile grazie al fatto che Barilla ha saputo dedicare rilevanti risorse umane per la ricerca e sviluppo sia di prodotto sia di processo in questo settore che, pur avendo già un assetto impiantistico del tutto industriale, in Italia era

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vano generatori di vapore, estrattori e concentratori di grande dimensione ed anche mac-chine di filtrazione e separatori centrifughi. Tali macchinari furono importati dalla Francia e si può pensare che da queste possano avere preso spunto le officine parmensi per il pro-gressivo sviluppo delle attrezzature che, al contrario di quelle strettamente specifiche per la fabbricazione dello zucchero, potevano essere impiegate anche per la trasformazione del pomodoro e che avevano quindi un potenziale mercato locale molto più ampio. Si fa riferi-mento in particolare alla evoluzione delle caldaie, come dimensione e come modalità di ri-scaldamento. Dal fuoco diretto alla camicia di vapore e, alla fine dell’800, l’impiego del vuoto con colonna barometrica per concentrare a temperatura più bassa (dalla semplice “boulle” alle batterie con doppio stadio), con i corrispondenti generatori di vapore (dal combustibile legna al carbone e infine al gas). Risale al 1846 l’officina del gas di Parma, con distillazione del carbon fossile30.

1.2.8 - L’InDuSTRIA DELLE conSERVE ALIMEnTARIL’industria alimentare, intesa come prodotti alimentari e non come ingredienti quali lo

zucchero, ha le sue origini in Francia, a Ivry-sur-Seine, dove nel 1796 François nicolas Ap-pert ha realizzato le prime conserve racchiuse in bottiglie di vetro a bocca larga, tappate con sughero precompresso e bloccato da una gabbietta di filo di ferro, e sottoposte a bollitura. Nel 1804 Appert, vinse il premio di 12.000 franchi messi in palio dal Direttorio francese per chi avesse presentato il migliore progetto per la fornitura di alimenti conservati alle forze ar-mate di Napoleone I e nello stesso anno avviò a Massy una vera e propria fabbrica produtti-va (la Maison Appert). La commissione che aveva deciso l’attribuzione del premio compren-deva il celebre chimico-fisico Gay-Lussac. Nel 1810 Apert descrive con dettagli applicativi e minuziosi disegni la sua invenzione nel “Le Livre de tous le Ménage ou l’Art de Conservar pendant Plusieurs Années Toutes les Substances Animales et vegetales” (31). Tuttora sono chiamati “appertizzati” i prodotti alimentari confezionati ermeticamente e trattati termica-mente in maniera tale da risultare stabili a temperatura ambiente (ovvero commercialmen-te sterili). Lazzaro Spallanzani nel 1752, confutando la teoria della generazione spontanea, aveva dimostrato che gli estratti vegetali e di carne non subivano nel tempo alterazione se erano messi in fiale di vetro chiuse ermeticamente alla fiamma e tenute per più di un’ora in acqua bollente. Comunque, soltanto dopo più di un secolo, sarà Luis Pasteur che nel 1859, ripetendo le esperienze di Spallanzani, collegherà la stabilizzazione di liquidi alimentari alla distruzione termica dei microrganismi originariamente presenti. In effetti, l’impiego di bot-tiglie di vetro con sigillatura precaria (individuata come punto critico dallo stesso Appert) e la bollitura a bagnomaria non garantivano l’effettiva stabilità microbiologica dei prodotti così trattati. Il reale sviluppo dell’industria conserviera è stato possibile solo grazie all’impie-go di scatole di banda stagnata, che arrivò molto presto, e all’autoclave per prodotti a bassa acidità che, pur derivando dalla famosa pentola a pressione di Papen del 1681, solo nel 1852

prefetto Dupont Delporte che si era appena insediato nel Granducato di Parma e Piacenza) fece costruire nel 1811 il primo zuccherificio a Borgo San Donnino, oggi Fidenza, che peraltro non sopravvivrà a Waterloo 26.

Lo zuccherificio di Borgo San Donnino può essere considerata la prima industria alimen-tare italiana; anche se davvero effimera. Nel 1815, con la caduta di Napoleone e con il ritorno dello zucchero di canna, infatti, vennero a mancare anche le condizioni economiche per giustificare la prosecuzione di una attività che era sorta con un finanziamento pubblico an-ziché per un progetto imprenditoriale. D’altra parte, fino al 1870 l’Italia della Restaurazione ha visto pochi altri tentativi di impiantare zuccherifici e tutti falliti rapidamente.

Mentre già nel 1813 in Francia funzionavano 34 zuccherifici, in Italia diversi altri tentativi ebbero vita molto breve, risultando più vantaggiosa la sola raffinazione del saccarosio im-portato grezzo, e una consistenza paragonabile (29 zuccherifici) fu raggiunta solo un secolo dopo (27).

Fin dal 1879 carlo Rognoni aveva iniziato a sperimentare la coltivazione della barbabie-tola da zucchero ed a propagandarla attraverso il Bollettino del Comizio Agrario di Parma, del quale era presidente. Il Rognoni, peraltro, propugnava lo sfruttamento diretto del pro-dotto da parte degli agricoltori 28. Si può dedurre, quindi, che nel parmense, dopo la breve esperienza napoleonica sia proseguita una attività saccarifera di tipo artigianale. La Società Ligure-Lombarda, che nel 1872 aveva costruito una raffineria a Genova e una seconda nei primi anni ’80 in provincia di verona, nel 1899 installò uno zuccherificio anche a Parma e, con la mediazione di Antonio Bizzozero (titolare della Cattedra Ambulante di Agricoltura che aveva una visione più industrialista del più anziano Rognoni), incentivò economicamente gli agricoltori locali a destinare 500 ettari alla coltivazione di barbabietola da zucchero. Tra i primi ad aderire (con 6 ettari) fu Giovanni Bonani, parroco di Mezzano Inferiore, che parte-cipava anche al comitato che mediava i prezzi tra agricoltori e lo zuccherificio 29. Il rapporto con il settore agricolo non era solo per l’approvvigionamento della materia prima, ma anche per la fornitura di foraggio melassato. Lo stabilimento, successivamente divenuto Eridania e dismesso nel 1968 per trasferire la produzione a San Quirico Trecasali, è stato tutelato come archeologia industriale e nel 2001 è diventato l’Auditorium Nicolò Paganini progettato da Renzo Piano. Il destino saccarifero di Parma è confermato ancora oggi, visto che quello di San Quirico Trecasali (oggi Eridania Sadam) è uno degli unici 4 zuccherifici italiani sopra-vissuti con l’ultima oCM europea del settore.

All’inizio, quando l’estrazione dello zucchero (come la concentrazione del succo di po-modoro) era su piccola scala artigianale gestita dagli stessi produttori agricoli, come pro-pugnato da Carlo Rognoni, le attrezzature impiegate erano di legno e quelle metalliche (ta-glierine, vasche, torchi a tela di sacco, caldaie a fuoco diretto) erano realizzate dalle officine meccaniche locali che lavoravano genericamente il rame e il ferro. Quando, invece, l’attività saccarifera divenne effettivamente industriale, comprendendo anche la raffinazione, servi-

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Nel 1874 a Parma, per iniziativa di Carlo Rognoni, si costituisce la Società Anonima di coltivatori per la preparazione delle conserve di pomidoro. Al 1887 risale la Giuseppe Cal-da di Sala Baganza.

Come risulta dai registri della Camera di Commercio, le imprese della provincia di Parma che trasformavano il pomodoro in estratto erano 4 nel 1893, 5 nel 1894, 7 nel 1895, 11 nel 1896, 13 nel 1897 e tra le 14 e le 16 fino al 1905. Ma questi dati, sono sottodimensionati in quanto la registrazione alla Camera di Commercio diventerà obbligatoria solo nel 1910. Infatti, secondo i dati ministeriali, nel 1890 erano attivi in provincia di Parma 16 opifici, che disponevano complessivamente di 35 caldaie a fuoco diretto, occupavano 76 operai e producendo mediamente 535 quintali all’anno di conserva nera in pani. La lavorazione avveniva introducendo i pomodori in sacchi di tela, che venivano schiacciati sotto una rudi-mentale pressa azionata a mano per eliminare il liquido placentare. La polpa veniva passata nei bigonci attraverso grandi setacci di rame, quindi bollita sul fuoco a legna, rimescolando-la con lunghe pale di legno, infine veniva fatta asciugare al sole, e l’estratto veniva confezio-nato in pani. Alcuni fabbricanti erano commercianti di salumi e formaggi e solo in seguito si dedicano all’agricoltura; ma quelli che riusciranno a sviluppare le loro imprese fino ai giorni nostri erano prevalentemente proprietari terrieri che reinvestivano i profitti agricoli in que-sta attività, oltre che nella produzione di formaggio e in alcuni casi anche di salumi 35.

Lodovico Pagani, che nel 1894 aveva iniziato a produrre conserva di pomodoro in so-cietà col Rognoni, alla sua morte nel 1904 diventa titolare dell’impresa che, successivamen-te, saranno i suoi figli a fare transitare dalla fase pionieristica della conserva nera alla fase industriale moderna. Giuseppe Pezziol, a Padova, confezionava i concentrati di pomodoro in vasi di vetro (il doppio e il triplo) o in pani. Dal 1890 iniziò a mettere il doppio concentrato in scatole di lamierino rivestite internamente di carta pergamena e cinque anni dopo (nel 1895) fu acquistata la prima macchina per chiudere le scatole senza doverle stagnare una per una. Nel 1901 la Pezziol decise di insediarsi nel luogo della produzione del pomodoro e costruì uno stabilimento attrezzato fin dall’inizio con le boules. Nel 1896 Remigio Rodolfi aprì un piccolo opificio per la produzione di concentrato di pomodoro che restò attivo solo per 11 anni; mentre il fratello Giuseppe attivò un caseificio e suo figlio Mansueto, acquisiti terreni contigui al caseificio, aggiunse la produzione agricola e la trasformazione del pomo-doro tuttora attiva. nel 1899 fu fondata la F.lli Mutti, trasformando una azienda agricola in industria per la trasformazione del pomodoro. A fianco, c’era un caseificio già attrezzato allora con caldaie a vapore 36.

Tra il 1902 e il 1907 sorsero 19 stabilimenti forniti di caldaie a vapore e nel 1908 erano già 24, per lo più piccole imprese familiari ma alcune di esse erano società per azioni ed avevano una dimensione relativamente grande37. Con l’introduzione nelle imprese più capitalizzate dei concentratori sotto vuoto, inizialmente importati dalla Francia ed anche dalla tedesca Erfurter Maschinenfabrik che aveva una propria rappresentanza a Parma, il settore assunse

Raymond Chevalier-Apert, pronipote di Nicolas Appert ed erede della sua fabbrica di con-serve, riuscì a sviluppare in maniera affidabile32.

Nel 1810 in Gran Bretagna, Peter Durand, che aveva avuto rapporti d’affari tuttora non ben chiariti con Appert, brevettò la scatola di banda stagnata saldata a piombo e, già nel 1813 gli inglesi John hall e Bryan Donkin, in una piccola fabbrica nei pressi di Dartford cominciarono a produrre scatolette di carne per la marina militare. Negli USA, le prime botti-glie di pomodori conservati sono state preparate nel 1821 a Boston da William Underwood, un inglese emigrato nel nuovo continente dopo avere conosciuto la tecnica di Appert da giovane apprendista presso una impresa commerciale di Londra. Underwood, che doveva importare le bottiglie di vetro dall’Inghilterra, è stato anche tra i primi a sostituirle con le più robuste scatole di banda stagnata Allora, peraltro, la produzione era manuale e molto costo-sa, dal momento che un bravo artigiano non poteva fabbricare più di 60-70 scatole in una giornata32. Si trattava di piccole produzioni artigianali vendute a prezzi molto elevati, fino al 1861, quando la Guerra Civile americana incentivò la produzione di alimenti conservati su larga scala per le truppe. Solo nel 1880-90, di nuovo in Gran Bretagna, iniziò la fabbricazione automatica con l’applicazione dei fondelli al corpo cilindrico mediante doppia aggraffatura ermetica 33. oggi, con una sola linea se ne possono fabbricare più di 1.000 al minuto, nonché riempirle e chiuderle con la stessa velocità.

A Parma e, parallelamente, nella zona di napoli e Salerno si sono sviluppati i più impor-tanti poli conservieri italiani, ma con notevole ritardo rispetto ad altri Paesi. Come riferisce Ballarini34, nel 1832 Agnoletti, già credenziere e liquorista alla corte di Maria Luigia, nel suo “Manuale del cuoco e del pasticcere” descrisse la preparazione di una “conserva di pomidoro al fresco” costituita da polpa di pomodoro setacciata due volte, messa in bottiglia copren-dola con poco olio, sigillando poi le bottiglie con turaccioli incatramati e facendole bollire a bagno maria per sedici minuti. E’ del tutto verosimile che Agnoletti abbia derivato questa ricetta dall’opera di Appert, pubblicata venti anni prima, nel 1810. Applicata al pomodoro, che ha una elevata acidità naturale, questa tecnica non ha presentato i problemi incontrati da Appert nel preparare per le forze armate francesi conserve di legumi e di carne a bassa acidità; tanto è vero che la stessa procedura è arrivata fino ai nostri giorni come pratica do-mestica, soprattutto nel Sud-Italia.

Nel 1856 a Torino il ventenne Francesco cirio, privo di cultura ma con grande intuizione, prese in affitto un locale dove fece installare un camino capace di contenere due grandi caldaie da bucato e, basandosi solo sull’evidenza della prova pratica, riuscì a conservare dei piselli. visto il successo, estese il metodo ad altri ortaggi strettamente stagionali; compreso il pomodoro, al quale resterà strettamente legato il marchio Cirio (non è noto quando iniziò la sostituzione delle bottiglie con le scatole metalliche). Nel 1875 Francesco Cirio aprì nel napoletano la prima fabbrica di concentrato di pomodoro, aiutato peraltro dal parmigiano Lamberto Gandini35.

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striale (dal concentrato per ketchup alle polpe per pizze), i conservieri più dinamici hanno sempre cercato di rivolgersi anche al mercato al dettaglio con rilavorazioni interne a proprio marchio e con preparazioni alimentari ad elevato valore aggiunto. Di seguito si riportano alcuni esempi della capacità innovativa sviluppata nel tempo dall’industria conserviera par-mense.

Althea, nata nel 1932 dall’idea dei fratelli Bertozzi di non produrre soltanto conserva di pomodoro, ma anche prodotti più ricchi e pronti all’uso, nel 1937 ha lanciato sul merca-to “Sugoro”, il primo sugo pronto italiano (confezionato in vasetti di vetro con capsula a fascetta di facile apertura) che si aggiudicherà nel 1947 il “Diploma di Gran Premio” alla prima Esposizione dell’Alimentazione promossa dalle Fiere di Parma. Seguono negli anni ’50 prodotti innovativi (tipo snacks) a base di frutta molto concentrata, così da risultare “self stable”, e dadi per brodo. Nel 1961 inizia la commercializzazione dello spicchio di formaggio Parmigiano Reggiano senza crosta confezionato in un involucro plastico sotto vuoto, che allora era innovativo anche se diventerà poi di impiego elettivo e generalizzato per questo prodotto. Dopo diversi passaggi societari, dal 1997 lo stabilimento appartiene alla DELFINo S.P.A. di Acerra (Napoli).

La Rodolfi Mansueto, fondata nel 1906, negli anni ’50 inizia la produzione di “ortolina”, una salsa pronta da bolliti a base di concentrato di pomodoro e verdure, coraggiosamente confezionata in tubetto di alluminio fino ad allora impiegato solo per dentifricio, e installa un primo impianto per trasformare il concentrato in polvere di pomodoro.

Nel 1961 Calisto Tanzi, insieme ad altri piccoli investitori, aveva fondato Dietalat, una pic-cola azienda per latte pastorizzato in concorrenza con il monopolio locale della Centrale del Latte di Parma. Successivamente trasformata in Parmalat, l’azienda è stata la prima a livello mondiale ad utilizzare con successo la tecnica Tetrapak (confezionamento asettico in contenitori tetraedrici di cartoncino plastificato) per produrre latte a lunga conservazione uhT (ovvero trattato termicamente a temperatura molto alta per un tempo molto breve prima di essere confezionato asetticamente) di qualità migliore rispetto a quello sterilizzato in bottiglia e, soprattutto, con un contenitore che costava solo un terzo rispetto al vetro. Grazie a questa innovazione, a partire dagli anni ‘70 l’azienda è diventata rapidamente una multinazionale leader in questo settore. Tra le altre innovazioni si possono citare un latte fer-mentati con particolari batteri probiotici e il latte pastorizzato e microfiltrato su membrane ceramiche a shelf life estesa.

La Boschi Luigi e Figli, nata intorno al 1905 dalla trasformazione della precedente atti-vità molitoria e attualmente appartenente al Gruppo CIo-Casalasco, agli inizi degli anni ’80 apparteneva al gruppo Parmalat e da questa mutuò la tecnica di trattamento e confeziona-mento asettico per applicarla con successo prima alla passata e alla polpa di pomodoro, poi a succhi di frutta, alle minestre e condimenti (presso lo stabilimento di Felegara rilevato dalla Campbell Soup che lo aveva attivato nel 1965) e, infine, al tè e ad altre bevande. Alla mol-

nel suo complesso una rilevanza quantitativa tale da indurre la coltivazione del pomodoro su vasta scala.

Secondo il Maggiore Eugenio Massa38, nel 1910 erano attivi a Parma 36 stabilimenti di conserve alimentari, 31 dei quali dedicati esclusivamente alla produzione di concentrato di pomodoro, e “L’estratto del Parmense ha preso il sopravvento su quello delle altre regioni […] L’esportazione di anno in anno va aumentando e buona parte del prodotto viene ritirato dalle principali piazze d’Europa.”

Nel 1910 erano contemporaneamente commercianti di formaggio, fabbricanti di salumi e di conserve le ditte Musi e Polon, Rizzoli Emanuelli, Società Parmigiana Prodotti Alimentari, Guscetti e ozzola; fabbricanti di salumi e di conserve le ditte Boschi Luigi e fratelli, Martinelli Lodovico e Napoleone, Ugolotti Antonio e Calda Giuseppe; commercianti di formaggio e produttori di conserve le ditte Marchese Enrico, Abele Bertozzi di Colorno, Carrara e Bona-ventura di Noceto. L’esercizio di più attività consentiva di a diversificare il rischio d’impresa e la diversa stagionalità delle lavorazioni consentiva di ottimizzare l’utilizzo della forza lavoro ed i flussi di cassa. Cosicchè nel 1912 presso la Camera di Commercio l’industria conservie-ra parmigiana risultava costituita da 61 stabilimenti che, con 226 impianti sottovuoto (da intendersi come singole boulle discontinue), trasformavano ben 1,5 milioni di quintali di pomodoro. Una produzione che eccedeva la domanda e che determinerà per il settore uno stato di crisi fino agli anni ‘30 35.

nel 1922 venne istituita la Stazione Sperimentale per l’Industria delle conserve Alimentari in Parma, la quale avrà il merito di acquisire le conoscenze tecniche e scienti-fiche disponibili a livello internazionale e di adattarle e trasmetterle al contesto produttivo locale, alimentando la continua innovazione impiantistica e di processo. Secondo l’Unione Parmense degli Industriali14, da 36 fabbriche di conserve di pomodoro del 1904, nel 1930 erano diventate ben 77; mentre dal dopoguerra, la crescente meccanizzazione del settore ha comportato una progressiva riduzione del numero di imprese, ma con una crescente capacità produttiva globale.

Nel tempo, mentre le imprese campane si sono prevalentemente dedicate alla produ-zione di pomodori pelati, con il concentrato come sottoprodotto, a Parma la produzione di pelati è stata sempre meno rilevante rispetto al concentrato e, nei tempi più recenti, è stata abbandonata perché l’integrità del prodotto comportava maggiori costi di raccolta e di trasporto. La produzione di passate e di polpe è diventata invece largamente preponde-rante, soprattutto perché quello dei concentrati si era ridotto a mercato di semilavorati con bassi margini di guadagno per la crescente concorrenza di nuovi paesi produttori nordafri-cani e asiatici (il basso livello di conoscenze necessario per i concentrati di pomodoro non costituiva certo una barriera tecnica sostitutiva di quella doganale europea in progressivo smantellamento). D’altra parte, anche se la maggior parte della produzione di derivati del pomodoro è stata sempre costituita da semilavorati per una seconda trasformazione indu-

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tivi in zone marine. Nella progressiva meccanizzazione di modalità operative manuali di tipo tradizionale i costruttori di macchinari hanno avuto ovviamente un ruolo primario. In Italia ed anche a Parma, fino al secondo dopoguerra la scienza alimentare non era ancora formalizzata, l’attenzione era rivolta più alla quantità che alla qualità prodotta e la cono-scenza dei processi in funzione delle caratteristiche della materia prima e del prodotto finito era a livello di tecnica empirica. La conoscenza tecnica era detenuta in particolare dai costruttori di macchinari che assommavano l’esperienza dei singoli clienti.

Cosicché i macchinari stessi non erano standardizzati ma subivano continui adatta-menti ed erano venduti all’industria alimentare insieme al know-how applicativo, realiz-zando una forma primordiale di quello che oggi chiamiamo trasferimento tecnologico.

A dimostrazione del basso livello della tecnologia tradizionale, si può ricordare che, ancora negli anni ’70, a Parma erano frequenti le proteste dei “conservieri” per il fatto che i “meccano-alimentari” vendevano le linee per la trasformazione del pomodoro anche all’estero, creando competitori a più basso costo di materia prima e manodopera. oggi, fortunatamente, grazie alla presenza di competenze tecnologiche su base scientifica, le nostre imprese del settore hanno saputo mantenersi competitive in termini di qualità a fronte dei derivati del pomodoro a basso prezzo prodotti in Cina con gli stessi impianti. Comunque, per tutta l’industria alimentare l’industrializzazione diffusa e competitiva è stata resa possibile solo con l’innovazione di prodotto e di processo.

L’industria conserviera degli anni ’60-’80 del secolo scorso era gestita in maniera pura-mente empirica ed il buon risultato dei processi dipendeva dall’esperienza dei cosiddetti “praticoni” e, quando proprio non se ne poteva fare a meno, ci si rivolgeva all’esperto di riferimento della Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari di Par-ma; ma dicendo il meno possibile per non svelare i segreti industriali che si era convinti di possedere rispetto alla concorrenza.

In questo clima di gelosa chiusura verso la conoscenza esterna, dominavano alcune figure aziendali strategiche: i “caldaisti” patentati, senza i quali non si poteva generare il vapore; i “boullisti”, che sapevano regolare quasi istintivamente gli impianti di con-centrazione allora privi di strumentazione e di automatismi, e gli “aggraffatori”, che ri-uscivano a inscatolare il prodotto in maniera perfettamente ermetica, anche quando le macchine erano un poco logore e le scatole avevano scarsa omogeneità dimensionale e meccanica.

Queste figure, dalle quali dipendeva molto il successo di una campagna di lavorazione, non potevano essere considerate della classe operaia ma semmai dei professionisti; per lo più infatti non erano compresi nelle trattative sindacali e stipulavano contratti personali in funzione della loro insostituibilità. Con l’avvento dei concentratori continui a controllo automatico, i “boullisti” hanno perso i loro privilegi, mentre il ruolo strategico degli “ag-graffatori” permane tuttoggi.

tiplicazione dei prodotti si è aggiunta quella delle forme di confezionamento: asettica-mente in cartoni, sacchetti e bottiglie di plastica; a caldo in lattine di banda stagnata o alluminio e in bottiglie di vetro.

La società cooperativa Parmasole, nata nel 1912 come Pagani e Ceresini ed ora Co-lumbus del Gruppo Mantua, nel 1985 aveva rilevato la celebre Arrigoni di Cesena ed era diventato lo stabilimento con la maggiore capacità produttiva applicando lo stoccaggio di polpe e passate di pomodoro in enormi cisterne asettiche (tanto grandi da dover essere collocate al di fuori dello stabilimento) come semilavorati ad uso interno, oltre che in sac-chi plastici asettici per la spedizione.

Greci Industria Alimentare, le cui origini risalgono al 1923 con la produzione di con-centrato di pomodoro, nel 1966 inizia la produzione della polpa e nei primi anni 70 scel-se di dedicarsi esclusivamente ai prodotti per la ristorazione professionale, aggiungendo ai derivati del pomodoro preparazioni gastronomiche inscatolate a base di vegetali, di carne, di formaggi e prodotti ittici e diventando leader di mercato in questo settore. La chiave del successo può essere sintetizzata nell’avere abbinato alla cura nella scelta delle materie prime la capacità di approccio tecnologico alla progettazione ed al controllo dei processi, sviluppando anche una tecnica proprietaria di confezionamento asettico in scatole di banda stagnata.

La Barilla, in una tappa della sua differenziazione produttiva, a fine anni ’80 lancia la sua linea di sughi pronti a base pomodoro e vi aggiunge progressivamente quelli a base bianca ed i pesti, utilizzando un innovativo sistema di confezionamento asettico in vasi di vetro. Negli anni ’90 questi sughi pronti acquisiscono la leadership di mercato e vengono prodotti e distribuiti anche negli USA.

Pur lontana dal mare Parma ha attratto anche la produzione di conserve ittiche. Ad iniziare la lavorazione del pesce azzurro fu la Rizzoli e Tosi, che si era trasferita da Torino a Parma nel 1892 e che si occupava anche di salumi e formaggi. Trasformata poi in Rizzoli Emanuelli, è divenuta celebre per le sue alici in salsa piccante (la cui base pomodoro pote-va giustificare la venuta a Parma) con il logo dei tre gnomi.

Fino agli anni ’70 le alici erano confezionate in scatole di banda stagnata con coperchio “a decollage” (saldato con lega piombo-stagno e con applicata l’apposita chiavetta per aprirlo). Nel tempo la produzione è stata estesa ad altre conserve ittiche e attualmente le stesse tradizionali alici sono confezionate anche in “minipack” (vaschette plastiche mo-noporzione). Con la tipica logica del distretto produttivo, nel 1950 nasce la zarotti e nel 1974, per gemmazione familiare dalla Rizzoli Emanuelli, la Delicius Rizzoli che, partendo anch’essa dalle alici e da altre conserve ittiche, recentemente ha sviluppato una gamma di pesce fresco filettato e refrigerato “ready to cook” di alta qualità. Mentre le alici erano acquistate come semilavorato maturato sotto sale, per gli altri prodotti ittici le predette aziende sono ricorse prima al copacking e, attualmente, hanno propri stabilimenti produt-

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con un indubbio effetto “Italian style” anche per mezzi di produzione tutt’altro che frivoli.Come già detto, l’industria meccano-alimentare parmense si è specializzata nella co-

struzione di macchine e impianti per le lavorazioni locali via via industrializzatesi in maniera diffusa, a partire da quelle per la pasta secca e per il concentrato di pomodoro, adattando queste ultime anche alla trasformazione della frutta e alla produzione di conserve vegetali più in generale, che si erano affermate in Romagna ed in Campania. Successivamente si è sviluppato il settore delle attrezzature per salumifici, con particolare riferimento ai salumi crudi che non potevano contare su un know how sviluppato in altri Paesi. Molto più recente è stato lo sviluppo dei macchinari per il formaggio parmigiano, vincolato alla dimensione artigianale e tuttora caratterizzato dall’impiego di caldaie con fondo di rame, di attrezzature di legno e di tele di canapa.

Attingendo in parte da una dettagliata trattazione di Del Sante 37, di seguito si richia-mano brevemente alcuni dati sulla consistenza numerica del nascente meccano-alimentare parmense e alcuni esempi di pionieri, ai quali va il merito di avere messo robuste radici per tutto il settore anche nei casi in cui le loro imprese non sono state tramandate fino ai gior-ni nostri. Per rispondere alla crescente domanda locale dell’industria alimentare, ma anche dei settori ferroviario, agrario ed edilizio, le officine meccaniche di Parma che erano 8 nel 1897, erano diventate 33 nel 1913 e 36 nel 1922. La Bartolomeo Ballari, fondata nel 1872, si era specializzata nella costruzione di impianti per mulini, pastifici, fabbriche di concentrato di pomodoro (fu tra le prime ad introdurre i concentratori cilindrici) e di motori idraulici. Negli anni ‘40, con la ragione sociale A. & G. Rossi dell’ing. Andrea Rossi, produceva anche intubettatrici automatiche. oggi, come Ing. A. Rossi impianti industriali, continua a produrre macchinari per trasformare frutta e pomodoro. La carlo Migliavacca, fondata nel 1875 e tuttora attiva, nel 1936 ha registrato il primo brevetto di dosatrice per concentrato di po-modoro. La Pierino Reviati di Felino, che ha origine da una bottega di fabbro ferraio iniziata dal padre Cesare nel 1896, inizio prima a riparare e poi a costruire macchine per l’industria delle conserve di pomodoro ed oggi è ancora attiva come Pellacini Sergio e Figli a Sala Ba-ganza. oreste Luciani, che aveva iniziato come operaio nell’officina Centenari specializzata in macchinari a vapore, nel 1909 fondò una propria officina. Dopo la Grande Guerra aveva una propria fonderia e potenti presse per lo stampaggio delle piastre per recipienti a pres-sione e nel secondo dopoguerra la produzione comprendeva anche aggraffatrici per scatole che, pur essendo a basso livello di automazione, erano così affidabili che i pezzi di ricambio continuarono ad essere richiesti anche dopo la chiusura dello stabilimento (avvenuta nel 1985). All’inizio del secolo scorso lo stabilimento meccanico più grande era quello dell’ing. Alberto Cugini (già Luigi Ferrari, poi Ing.ri Cugini e Mistrali) che nel 1910 contava 130 operai, disponeva anche di una fonderia e produceva turbine e impianti per la conserva di pomo-doro, per mulini, caseifici e pastifici. Ma nel 1912 l’impresa fallì perché il declino della spinta trainante delle fabbriche di conserva di pomodoro e la riduzione dell’attività molitoria, non

1.2.9 - L’InDuSTRIA MEccAnIcA PER L’InDuSTRIA ALIMEnTAREFino all’ultimo decennio del XIX secolo, fatta eccezione per gli zuccherifici, la produzio-

ne di alimenti a livello commerciale avveniva in maniera del tutto manuale e utilizzando attrezzature molto semplici: di legno, di ferro e di rame. Le attrezzature metalliche erano fabbricate dai fabbri ferrai e ramai. I prodotti alimentari privi di protezione intrinseca (crosta nel formaggio, cotenna o budelli nei salumi) erano confezionati in carta oleata, casse e barili di legno e, solo in piccola parte, in contenitori di vetro o di ceramica. Il passaggio dall’arti-gianato all’industria alimentare è stato determinato dalla sostituzione delle forze naturali (uomo, animali, acqua, vento) con macchine azionate da energia appositamente prodotta (vapore prima e elettricità successivamente), che hanno permesso di aumentare la capacità produttiva a parità di manodopera impiegata. A sua volta, anche i costruttori di macchinari sono passati dalla fase artigianale, nella quale si costruivano da soli i propri attrezzi, a quella industriale con la progressiva introduzione di macchine utensili. Come riferisce Ubaldo Del Sante (37), all’inizio del ‘900 non era ancora in uso il maglio a balestra o pneumatico e le semisfere di rame grezze prodotte nel bresciano erano modellate manualmente per ricavar-ne i fondi delle boulle di cottura e concentrazione. Inizialmente, quindi, erano le fonderie e le officine meccaniche generiche che costruivano, oltre a manufatti e macchinari di vario genere, anche attrezzature e macchine per l’industria alimentare allestite di volta in volta “su misura”. Come retaggio di questa versatilità, ancora nel secondo dopoguerra, pur essendoci già stata una differenziazione produttive specialistica, era normale che i clienti chiedessero al loro fornitore di macchine alimentari anche attrezzature estranee al settore di competen-za. D’altra parte, il forte sviluppo di mercato avuto dai costruttori parmigiani negli anni ’70, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, è stato basato proprio sulla concorrenzialità dell’ap-proccio “tailor made”, rispetto a quello standardizzato delle multinazionali del settore.

Nel primo decennio del secolo scorso, le officine meccaniche che costruivano genera-tori di vapore e motori a vapore avevano come committenti anche le nascenti industrie alimentari e, nel tempo, alcune di esse hanno sviluppato questo settore di mercato grazie alla capacità di ideare e costruire macchine sempre più efficienti. L’introduzione del vapore come mezzo di riscaldamento indiretto, oltre che come forza motrice, è stato un elemento particolarmente importante per le officine meccaniche locali perché ha trovato applicazio-ne nei numerosi caseifici e, soprattutto, per la trasformazione del pomodoro. Infatti è stato a partire da questo settore che vi è stata l’evoluzione più ampia e tuttora in corso di impianti di concentrazione e di trattamento termico. Nel secondo dopoguerra è iniziata la sostituzione del rame con l’acciaio inossidabile (che diventerà materiale elettivo per l’igiene alimentare) e i costruttori parmensi si sono particolarmente affermati a livello nazionale e internazionale proprio per la particolare abilità nel lavorare, saldare e lucidare a specchio questo materiale anche nelle superfici estterne non a contatto con l’alimento. Della tradizionale abilità ma-nuale, infatti, è rimasta la propensione a non trascurare anche gli aspetti puramente estetici,

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l’azienda ebbe un grande sviluppo ma, alla fine degli anni ‘60 la crisi del mercato del concen-trato di pomodoro comportò una profonda ristrutturazione del settore. La vettori & Manghi si diede il ruolo di main contractor, per offrire all’estero “fabbriche chiavi in mano”, ricorrendo sempre più alla subfornitura su proprio know how progettuale, sviluppando il segmento fine linea (dosatrici, aggraffatrici, etichettatrici, pallettizzatori) ed estendendo i settori di uti-lizzo dalle conserve vegetali alla trasformazione delle carni, del pesce e del latte. Nel 1987, a seguito di una nuova crisi del settore, l’azienda fu veduta alla multinazionale di engineering FATA e questa nel 1994 chiuse lo stabilimento di Parma.

Una storia parallela, ma fortunatamente con un esito più felice, è quella della Rossi & Ca-telli. Il giovane Camillo Catelli, dopo una breve esperienza come tecnico presso un’azienda meccanica, nel 1945 ha fondato con due amici la Catelli e C. che, cogliendo tempestivamen-te le esigenze di rinnovo impiantistico delle aziende alimentari nella nuova Italia post-belli-ca, dopo un solo anno di vita occupava già 70 addetti. Successivamente, un breve sodalizio con l’Ing. Rossi ha determinato un deciso orientamento della produzione al settore delle macchine per l’industria conserviera e la nuova denominazione societaria Rossi & catelli, che sarà mantenuta nel tempo anche se già dal 1948 all’Ing Rossi era subentrato come socio Adolfo Cecchi, il sinergico manager con il quale Camillo Catelli condurrà l’azienda per mezzo secolo di continua crescita. Fin dagli anni ’50 l’azienda si è caratterizzata per la particolare capacità innovativa, testimoniata dall’intenso e non usuale ricorso alla brevettazione inter-nazionale. Negli anni ’60 ai macchinari per la trasformazione del pomodoro e della frutta si aggiunse quello per la sterilizzazione uhT del latte che, presso la Parmalat, furono abbi-nati alle confezionatrici asettiche Tetrapak e ne seguirono l’espansione multinazionale. oggi il Gruppo CFT comprende anche gli stabilimenti Manzini, Bertoli, Comaco, Sima e Raytec vision ed è attualmente l’unica grande impresa meccano-alimentare parmense che può competere con le grandi multinazionali presenti nello stesso territorio e con produzioni ana-loghe (JBT, ex FMC, e GEA). Nel 1947 è stata fondata la Soavi Bruno & Figli (poi NIRO e oggi del Gruppo GEA), inizialmente per la produzione di macchine per il burro e successivamente omogeneizzatori per l’industria casearia, una particolare applicazione di pompe a pistoni ad alta pressione. L’impiego di questi omogeneizzatori è stato esteso ai nettari e succhi di frutta e le pompe ad alta pressione sono state impiegate anche per alimentare a flusso costante gli sterilizzatori asettici. Alla Savi, nel tempo, si sono aggiunte altre imprese parmensi (come la Bertoli, ora del Gruppo CFT), dando origine ad un sub-distretto altamente specializzato.

L’industria meccano-alimentare di Parma ha avuto un grande sviluppo nella seconda metà del ‘900, soprattutto per l’esportazione nei Paesi in via di sviluppo (Sud-America, Medio-Oriente, Nord-Africa, Est-Europa) e anche in quelli più arretrati grazie ai finanziamenti Statali per la cooperazione allo sviluppo. La concorrenzialità dei nostri costruttori rispetto alle multinazionali del settore era dovuta alla grande flessibilità organizzativa, che permetteva di offrire a prezzi relativamente bassi macchinari adattati alle esigenze specifiche del cliente

erano compensati dalla timida introduzione di macchinari nei caseifici. Fin dal 1890 alcuni Manzini si erano dedicati alla lavorazione del rame e uno di questi,

Egidio Manzini, negli anni ’30 brevettò una batteria di concentratori accoppiati ad un solo condensatore a colonna barometrica” e produceva impianti per la lavorazione del pomo-doro, mosti d’uva, latte, caseina, malto per panificazione, nonché bacinelle per cottura ba-sculanti a doppia velocità. Tito Manzini, invece, alla fine del secolo scorso era stato tecnico montatore presso lo zuccherificio Eridania, successivamente ampliò la sua esperienza nel settore conserviero e nel 1922 fondò la sua officina che si sviluppò costruendo linee per la produzione e l’inscatolamento di conserve di pomodoro e di frutta, oltre che per caseifici. Oggi l’attività è inglobata nel Gruppo CFT (già Rossi & Catelli).

Nel 1850 Pompeo Simonazzi aprì a Baccanelli una officina che costruiva attrezzi agricoli e i suoi discendenti, verso il 1910, estesero la produzione ai macchinari per la lavorazione delle conserve alimentari e per i caseifici e negli anni ‘30 iniziò la produzione dosatrici per il riempimento automatico delle scatole di conserva di pomodoro. Successivamente la Si-monazzi si indirizzò esclusivamente alle macchine per l’imbottigliamento del vino e di altre bevande, realizzando nel 1958 la prima imbottigliatrice rotativa italiana. Dopo diversi pas-saggi societari, oggi lo stabilimento di Baccanelli è inglobato nel gruppo SIDEL e occupa più di 1.000 addetti.

Dal “Dizionario biografico dei parmigiani”39 risulta che Tommaso Barbieri, il quale da gio-vane aveva iniziato a lavorare nell’officina Cugini e Mistrali, dopo aver gestito con il socio Palmia una vecchia officina meccanica, verso il 1924 si mise in proprio, rilevando lo stabile della ex Cugini. Fu il suo stabilimento a costruire la prima pressa automatica per la produzio-ne di pasta brevettata dai fratelli Mario e Giuseppe Braibanti, per la quale arrivarono ordina-zioni da tutto il mondo. Dal 1938, in un nuovo stabilimento venivano costruite intere linee di produzione acquistate da grandi pastifici; ma, poiché non nascondeva di accogliere nella sua officina perseguitati dal regime fascista, nel 1944 fu assassinato e con lui morì anche l’azienda.

All’inizio del secolo scorso risale anche la fondazione a Panocchia della Ghizzoni Ettore, la cui attività si è tramandata di padre in figlio fino ad oggi, mantenendosi competitiva sul mercato delle macchine per l’industria conserviera nonostante la dimensione relativamente piccola. La storia della Vettori & Manghi descritta da Giancarlo Culatelli 40 è emblemati-ca delle dinamiche che hanno caratterizzato il meccano-alimentare parmense nel secon-do dopoguerra. Rodolfo vettori e Ennio Manghi, che nel 1943 avevano avviato una officina meccanica generica, nel 1948 puntarono sulla progettazione e costruzione di attrezzature per l’industria conserviera e furono i primi a sostituire i fondi di rame con quelli di acciaio inossidabile, importando sia il materiale base sia gli utensili per lavorarlo. Proprio in quegli anni, infatti, l’industria conserviera doveva adeguarsi al contenuto massimo di rame (50 mg/kg) stabilito per motivi igienici dall’Inghilterra ed da altri paesi importatori. Negli anno ’50

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afferisce alla National Can Italiana con sede nel salernitano. Dal 1946 la Lanzi di Pontetaro produce macchine di piccola potenzialità per la fabbricazione e per la chiusura di scatole di banda stagnata per conserve alimentari in tre pezzi, cilindriche e sagomate.

1.2.10 - EVoLuzIonE DELLE MAcchInE PER L’InDuSTRIA conSERVIERACome riportato da Cusatelli41, in una intervista sulla “Gazzetta di Parma” del 29 settem-

bre 1967, la nipote Laura Rognoni così descriveva la produzione artigianale di conserva di pomodoro: «Qui a Panocchia, nel vecchio podere del mio nonno, c’è tuttora l’antica con-servera, dove le pile dei sacchi di tela venivano schiacciate sotto una rudimentale pressa azionata a mano o a cavalcioni, per eliminare il liquido dei pomodori: ricordo bene i grandi setacci di rame che passavano la polpa nei bigonci, le grandi caldaie di rame in cui sul fuoco a legna si cuoceva la salsa, continuamente rimescolata da lunghe pale di legno: Poi veniva fatta asciugare su tavole al sole, e infine conservata e confezionata in pani di 1 kg, duri e neri, che venivano avvolti in fogli colorati di carta oleata». Questo stesso schema operativo può essere utilizzato per illustrare sinteticamente lo sviluppo dei macchinari impiegati nella produzione industriale a partire dal primo ‘900.

Fino a quando erano impiegate varietà tradizionali, per triturare il pomodoro erano im-piegati trituratori a coltelli. Con l’introduzione degli ibridi da raccolta meccanica, invece, è stato necessario ricorrere ai trituratori a martelli, peraltro di uso più generale. Secondo la tecnica tradizionale, il pomodoro era triturato a freddo (cold break) e poi riscaldato in scam-biatori di calore a calandria, detti “brovatrici”, a temperature non troppo elevate per non inattivare i semi che venivano recuperati per l’anno successivo. Il triturato riscaldato, la cui consistenza era stata ridotta dagli enzimi pectolitici attivati dal riscaldamento, era inviato alla setacciatura per separare i frammenti di pelle ed i semi (passatura con luce del vaglio da 1,2 mm) e per ridurre la dimensione dei granuli di polpa (raffinazione con un secondo vaglio da 0,8-0,6 mm e, se il concentrato era destinato alla ricostituzione in succo da bere, superraffinazione con un terzo vaglio da 0,4 mm). Per il concentrato destinato alla produzio-ne di ketchup, invece, la triturazione era effettuata a caldo (hot break) (introdotta nel 1936), riciclando sul trituratore una parte del prodotto in uscita dalla brovatrice, così da limitare la macerazione enzimatica ed avere una maggiore consistenza. Quando si è sviluppata la produzione di “passata di pomodoro”, il mantenimento della massima consistenza è di-ventato elemento di vantaggio competitivo, in quanto permetteva di ridurre il grado di con-centrazione del prodotto finito, e, a tale fine, la Rossi & Catelli ha sviluppato il “super hot break”, basato sulla disaerazione del prodotto nel trituratore, così da inibire fin dall’inizio l’attività degli enzimi pectolitici.

Con l’introduzione degli ibridi di pomodoro ad alta consistenza per la raccolta meccanica e per il trasporto in cassoni liberi, è stato necessario aumentare la potenza delle passatici, cercando peraltro di evitare il passaggio nella polpa di frazioni indesiderate come quelle

(tailor-made) e di eccellente fattura anche estetica. Si era informalmente costituito un vero e proprio distretto industriale specializzato; nel quale le imprese maggiori avevano la forza commerciale per acquisire e gestire contratti internazionali anche chiavi-in-mano (assumen-dosi l’impegno di formare le maestranze e, talora, anche di commecializzare prodotti) ed ef-fettuavano al loro interno solo le lavorazioni più strategiche, avevano favorito (spesso gem-mate dalle prime) la maggior parte del lavoro alle molte imprese più piccole che offrivano contoterzismo molto economico. In questo contesto, nelle imprese maggiori spiccava la fi-gura del “montatore trasfertista”, al quale era affidato appunto il montaggio degli impianti, ma anche il loro collaudo, l’addestramento della manodopera e, spesso, la conduzione della prima campagna di produzione. Quello dei montatori era un lavoro duro, che costringeva a lunghe permanenze all’estero; ma anche gratificato dall’esercizio del comando assoluto e dalle integrazioni al salario. Questo ne faceva una sorta di casta privilegiata, sia per il buon tenore di vita garantito alla famiglia, sia per l’invidia che destavano i racconti sui piacevoli fine-settimana trascorsi in grandi ed esotiche città straniere. Certamente, al pensionamento era difficile per questi giramondo riadattarsi alla normale vita familiare e cittadina, ma la ca-renza di giovani disposti a sostituirli, permetteva loro di proseguire l’attività come freelance. oggi la figura del trasfertista è stata normalizzata dalle risorse telematiche che permettono di consultare di volta in volta lo specialista in sede per la soluzione dei problemi.

Collateralmente all’industria delle conserve alimentari, si è sviluppato a Parma anche un altro settore meccanico: quello dei contenitori primari, con origini molto antiche. Rocco Bormioli nel 1825 aveva aperto una vetreria a Borgo S. Donnino (oggi Fidenza) e nel 1860 aveva trasferito la produzione a S. Leonardo, producendo bottiglie con lavorazioni prevalentemente manuali. Dopo essere stato distrutto nella Seconda Guerra Mondiale, lo stabilimento fu ricostruito con forni e meccanizzazione statunitensi, permettendo così di conquistare rapidamente la principale quota del mercato del vetro cavo per alimenti. oggi, dopo molte variazioni societarie, la Bormioli Rocco S.p.A. basata a Fidenza è la seconda indu-stria vetraria in Europa (terza al mondo) con 20 stabilimenti produttivi.

Anche se già nel 1895 erano impiegate localmente scatole di banda stagnata e aggraf-fatici per la loro chiusura, il primo scatolificio è sorto a Parma nel 1907, la Società Ligure Emiliana che produceva giornalmente fino a 15.000 scatole di banda stagnata. Successiva-mente questo settore si è sviluppato nella zona che attualmente è in provincia di Reggio Emilia. Nel 1910 a Montecchio Emilia è stata fondata la Società Anonima Cooperativa Catto-lica denominata “Casa del Popolo”, poi divenuta capolo e oggi IMPRESS. Nel 1955 è nata a Calerno la fabbrica di barattoli Fa.ba Sirma, alla quale si sono aggiunti successivamente uno scatolificio a Battipaglia ed uno a Parma per le bottiglie PET, oggi tutti inglobati nella mul-tinazionale Crown Imballaggi Italia. La Superbox di S. Ilario d’Enza (RE), attivata nel 1960, dopo diversi passaggi societari ha chiuso lo stabilimento nel 1997 trasferendo la produzio-ne in Turchia. La In.cAM. Fabbrica Barattoli di campegine è nata negli anni ’80 ed oggi

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sto valeva in particolare per la conformazione di impianto che prevedeva nei diversi stadi una temperatura decrescente all’aumentare del grado di concentrazione, in controcorrente quindi rispetto al grado di vuoto. Con l’introduzione delle varietà di materia prima ad elevata consistenza, è stato necessario passare alla configurazione in equicorrente, perché il prodot-to più concentrato doveva avere temperatura elevata per risultare pompabile e, comunque, è risultato più difficile ottenere triplo concentrato.

Per promuovere i primi concentratori continui si sosteneva che una frazione di succo ini-ziale potesse “by-passare” i vari stadi di trattamento preservando nel prodotto finale l’aroma di fresco. Questo giustificava anche l’inserimento a valle del concentratore

Il triplo concentrato di pomodoro destinato alla rilavorazione industriale era riempito a caldo in fusti da 200 litri (prima di legno, poi di plastica) con strati di sale; mentre il doppio concentrato (microbiologicamente più alterabile) era riempito a caldo in scatole di banda stagnata di grande formato (10 e 5 kg), fino all’introduzione negli anni ‘80 del trattamento termico e confezionamento asettico in sacchi plastici da 200 litri presterilizzati a raggi gamma, utilizzando riempitrici asettiche che hanno rappresentato una evoluzione pretta-mente parmigiana della tecnica “bag-in-box” introdotta nel 1974 dalla Sholle statunitense. I concentrati da mercato al dettaglio erano confezionati per lo più in scatole di piccolo forma-to (molto diffuso il tamburello da 100 g) e in tubetti di alluminio flessibile. Oggi il mercato di questi prodotti è ridottissimo e praticamente limitato ai tubetti flessibili da 130 o 180 g, in quanto è stato sostituito da derivati del pomodoro a maggiore contenuto di acqua.

Il riempimento a caldo dei fusti non richiedeva particolari macchinari, in quanto era ef-fettuato scaricando direttamente il prodotto dal fondo delle boulle di concentrazione di-scontinue, ed anche la chiusura (peraltro non ermetica) era manuale. Per le scatole di banda stagnata e per i tubetti, invece, era necessario disporre di sistemi di dosaggio e macchine chiuditrici, seppure a funzionamento semiautomatico. Diverse officine parmensi si sono specializzate nella produzione di queste macchine, tanto più complesse e automatizzate quanto più piccoli erano i contenitori da riempire e chiudere. Il sistema di dosaggio era volumetrico a pistone e, poiché il confezionamento nei piccoli formati avveniva per lo più fuori campagna con prodotto precedentemente conservato nei fusti, le dosatrici erano in-tegrate con sistemi di preriscaldamento (prima in semplici tramogge con camicia a vapore e agitatore, poi con scambiatori di calore tubolari e pompe di circolazione). Le macchine per chiudere le scatole di banda stagnata erano e sono tuttora costituite essenzialmente da un piatto di appoggio, un mandrino per comprimere il coperchio sul corpo scatola e due rollini che si avvicinano in successione con moto relativo rotazionale per realizzare la dop-pia aggraffatura tra il bordo del corpo scatola e quello del coperchio ricoperto di mastice (con una prima operazione di aggancio ed una seconda operazione di sovrapposizione e compressione dei ganci), così da renderla ermetica grazie al mastice interposto tra gli strati metallici. A parità di principio di funzionamento, peraltro, le macchine aggraffatrici hanno

necrotizzate. A tale riguardo si possono citare la passatrice-raffinatrice a battitori liberi But-terfly della Rossi & Catelli, il Turboestrattore monostadio della Manzini e quello alveolare epicicloidale della Bertocchi.

La classificazione merceologica dei diversi concentrati è definita dal D.P..R. 11 aprile 1975 n. 428, il quale prevede ancora il “sestuplo concentrato di pomodoro”, ovvero un succo di pomodoro concentrato fino ad almeno il 55% di residuo secco al netto del sale aggiunto (con circa 10 kg di pomodori freschi per ottenere 1 kg di prodotto), corrispondente grosso modo all’antica “conserva nera” ottenuta completando la concentrazione per ebollizione con un asciugamento al sole. Il triplo ed il doppio concentrato sono quelli con residuo secco netto non inferiore, rispettivamente, al 36% e al 28%. Per il concentrato semplice e per il semi-concentrato il limite è di residuo secco è, rispettivamente, 18% e 12%.

La concentrazione del succo polposo inizialmente era effettuata in maniera discontinua con le “boulle”, così chiamate perché le prime erano state importate dalla Francia. Si trattava di una evoluzione della bacinella a doppio fondo (flussato con vapore saturo come mezzo di riscaldamento), con agitatore ad ancora e chiusa da una campana, a sua volta collegata nella sommità ad una colonna d’acqua barometrica in maniera tale da condensare il vapore libe-rato dal prodotto e mantenere all’interno un certo grado di vuoto, con conseguente abbas-samento della temperatura di ebollizione. Successivamente sono state realizzate batterie di “boulle” per la concentrazione finale del prodotto scaricato da un singolo preconcentratore. Infine, sono stati applicati al pomodoro i concentratori continui ad uno o più stadi, ciascu-no costituito da uno scambiatore di calore tubolare (introdotto nel 1935) e una camera di ebollizione sotto vuoto, e l’abbinamento alla colonna barometrica del vuoto meccanico me-diante pompa ad anello liquido. Non è stato possibile mutuare direttamente i concentratori continui a circolazione naturale già impiegati per liquidi newtoniani, quali le soluzioni zuc-cherine e il latte. Infatti, la reologia pseudoplastica del succo polposo di pomodoro ha reso necessario introdurre le pompe per la circolazione forzata, azionate da turbine alimentate con il vapore di caldaia per contenere il costo energetico, visto che in Italia l’energia elettrica è stata sempre particolarmente cara. Per minimizzare il consumo di vapore, d’altra parte, i concentratori continui sono a multiplo effetto (utilizzo del vapore liberato dal prodotto in uno stadio ad alta temperatura e basso vuoto, per riscaldare lo stesso prodotto in uno stadio a bassa temperatura ed alto vuoto, oltre che prevedere la termocompressione del vapore liberato dal prodotto con vapore vivo di caldaia.

La sostituzione dei fondi di rame con quelli di acciaio inossidabile inizia nel secondo do-poguerra e dal 1957 la Maselli Misure aveva reso disponibile il rifrattometro per il controllo automatico del grado di concentrazione. L’evoluzione dei concentratori, con riduzione sia della temperatura sia del tempo di trattamento e conseguente riduzione della velocità di imbrunimento non enzimatico (reazione di Maillard), a parità di grado di concentrazione ha permesso di ridurre progressivamente l’inscurimento del colore e il gusto di cotto. Que-

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per lo più dagli scarti di cernita). Poiché i pomodori pelati sono dosati quasi a temperatura ambiente e la poca salsina aggiunta calda non permetterebbe di eliminare l’aria inglobata nelle scatole (con conseguente assenza di vuoto interno e rapida corrosione della banda stagnata per azione dell’ossigeno), prima della chiusura le scatole (eventualmente con il co-perchio solo preaggraffato) erano sottoposte ad un trattamento di riscaldamento in un tun-nel a vapore (exhauster) per allontanare l’aria interna prima della chiusura ermetica. Questa operazione, che comportava un grande spreco di vapore, con la crisi energetica degli anni ’70, è stata sostituita dall’introduzione delle colmatrici sotto vuoto per la salsina e del getto di vapore sulle aggraffatrici. In tutti i casi, per la stabilizzazione microbiologica dei pomodori pelati è necessario sottoporre il prodotto inscatolato ad un trattamento termico in grado di portare a circa 90°C la temperatura della porzione di prodotto che si riscalda più lentamente. A parte i piccoli bagni statici con acqua all’ebollizione per produzioni artigianali e le grandi vasche con tappeto mobile sul fondo che erano impiegati in Campania ancora negli anni ’80, i costruttori di Parma hanno proposto pastorizzatori-raffreddatori continui a scatola rotante ad alta capacità produttiva anche molto innovativi (come quello di Dall’Argine Ghiretti che, soprattutto nei formati da 1 e 3 kg, permette di abbassare i tempi di trattamento grazie alla inversione del moto di rotazione delle scatole indotta dal movimento alternato del piano di rotolamento). Le soluzioni tecniche sviluppate per il confezionamento e la pastorizza-zione dei pomodori pelati hanno trovato applicazione anche per la frutta sciroppata; una produzione oggi divenuta marginale ma che aveva avuto un grande sviluppo in Romagna e in Campania negli anni ‘60-’80. Nonostante l’introduzione sul mercato di nuovi materia-li, sia per i pomodori pelati sia per la frutta sciroppata il contenitore più adatto è tuttora la tradizionale scatola di banda stagnata non verniciata. Questo perché la lenta corrosione elettrochimica dello stagno, oltre ad eliminare il poco ossigeno inizialmente presente, com-porta lo sviluppo di idrogeno atomico e l’ambiente fortemente riducente protegge il colore e l’aroma del prodotto anche per tempi di conservazione molto lunghi.

Ritornando ai derivati del pomodoro, come già detto, a partire dagli anni ‘70 l’interes-se produttivo si è accentrato sulle passate e polpe. Le prime sono ottenute con le normali passatrici attrezzate con setacci a maglia media o grande (passata rustica), con il successivo trattamento in trovatrice e una concentrazione fino a 10-12 °Brix. Per le polpe, invece, sono state messe a punto apposite macchine che, alimentate con pomodori tagliati, permettono di separare la buccia dalla polpa sfruttando la diversa resistenza meccanica mediante estru-sione su piastra forata oppure compressione su fili o lame di acciaio paralleli e/o a griglia, con successivo passaggio su vaglio sgrondatore per separare il siero e buona parte dei semi. In tutti i casi, il successivo trattamento in brovatrice comporta una profonda degradazione strutturale, mentre con sistemi di riscaldamento più blandi l’attivazione degli enzimi pectoli-tici comporta una elevata sineresi con ridotta resa in polpa. La frazione sierosa è parzialmen-te concentrata insieme al succo derivante dagli scarti di cernita e la salsina così ottenuta è

subito un progresso continuo che ha portato dalle prime attrezzature da banco completa-mente manuali alle attuali multi testa a controllo elettronico che arrivano a chiudere 1.000 scatole al minuto.

I trituratori, le bolle di concentrazione e le dosatrici a pistone per i concentrati di pomo-doro hanno trovato impiego anche nella produzione di confetture e marmellate; ma con evoluzione più lenta data la taglia molto più piccola di queste produzioni (ancora nel de-cennio scorso l’impiego di concentratori continui era una eccezione). Per il confezionamen-to finale di questi prodotti, invece, l’impiego delle scatole di banda stagnata è stato molto marginale rispetto a quello dei vasi di vetro. La tipologia di tappatrici è mutata nel tempo con il tipo di chiusure impiegate: dalle robuste capsule a corona, che richiedevano sem-plici mandrini a pressione, alle capsule twist-off da avvitare delicatamente sulle filettature dell’imboccatura del vaso e tenute salde dal vuoto interno generato per raffreddamento del prodotto riempito a temperatura prossima a quella di ebollizione.

La produzione di pomodori pelati, che a Parma ha affiancato quella dei concentrati fino agli anni ’60-’70 ed ha invece caratterizzato lo sviluppo conserviero in Campania, richiede attrezzature completamente diverse ma che sono anch’esse rappresentative del primato meccano-alimentare parmense. Le pelatrici a vapore con caduta di pressione (dette termo-fisiche), che erano state introdurre negli USA fin dagli anni ’40 in alternativa alla pelatura in bagno di soda caustica, non erano adatte ai pomodori di forma allungata utilizzati per legge in Italia, in quanto la bassa resistenza meccanica comportava elevata incidenza di rotture. Notevole fortuna riscosse pertanto la pelatrice termo-meccanica della Savi, basata su un preriscaldamento superficiale per attivare gli enzimi pectolitici, una incisione dentinata longitudinale e lo sgusciamento della polpa dalla pelle lacerata per compressione tra tam-poni disassati che mimano lo schiacciamento nel palmo della mano. Quando, però, le varietà di pomodoro tradizionali furono sostituite dai nuovi ibridi ad elevata resistenza meccanica, le pelatrici termo-meccaniche non risultarono competitive rispetto a quelle termo-fisiche, molto più semplici ed a maggiore capacità produttiva (quella sviluppata negli anni ’80 dalla FBR, con la seconda camera tenuta sotto vuoto mediante un eiettore regolabile, si caratteriz-zò per la particolare versatilità e per il ridotto consumo energetico). Per evitare di avere nel prodotto finito bacche deteriorate o immature, la lavorazione prevede fasi di cernita prima e dopo la pelatura e, l’introduzione di selezionatrici ottiche automatiche ha reso economi-camente accettabili queste operazioni tradizionalmente affidate a squadre di numerose ad-dette (come il controllo del riempimento scatole, questo tipo di lavoro era esclusivamente femminile). La necessità di mantenere l’integrità della polpa nel prodotto finito, garantendo peraltro il peso netto dichiarato in etichetta anche nelle scatole di formato standard da 480 g con diametro relativamente piccolo, ha richiesto l’impiego di calibratici a monte della pe-latura e di particolari sistemi di inscatolamento. Come riempitrici si sono affermate quelle rotative a piatto forato, con a valle la colmatura con salsina (concentrato semplice ottenuto

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all’ossigeno comportava una minore shelf life rispetto a quelli tradizionali, era divenuta com-patibile con l’affermazione della grande distribuzione e dei suoi sistemi logistici. Comunque, per via della presenza di fibre o addirittura di pezzi di pomodoro, è stato necessario adattare le macchine form-fill-seal Tetrapak normalmente impiegate per il latte, sostituendo in parti-colare nella termosaldatura a tubo pieno le semplici barre saldanti con quelle ad ultrasuoni. Successivamente si sono diffuse le fill-seal asettiche tipo Combibloc che impiegano cartoni preformati. A seguito del Decreto Ministeriale 23 settembre 2005, può essere denominato passata di pomodoro solo il prodotto che non sia stato concentrato a più di 12 °Brix e suc-cessivamente ridiluito e che, se non è confezionato direttamente nel contenitore di vendita, deve essere preliminarmente condizionato in asettico.

oggi il prodotto considerato dal mercato il sostituto dei pomodori pelati di maggior pregio è il vero e proprio cubettato, caratterizzato da regolarità di forma e di colorazione. Questo cubettato è ottenuto sottoponendo il pomodoro (preferibilmente di varietà par-tenocarpica, ovvero senza semi) a pelatura termo-fisica prima del passaggio in taglierina, con il confezionamento diretto in scatola di banda stagnata e il successivo trattamento in pastorizzatore-raffreddatore a scatola rotante. Infatti, le tecniche asettiche convenzionali e, seppure in misura minore, anche il riscaldamento ohmico comportano un danno termo-meccanico che degrada la forma dei cubetti di pomodoro e, come già detto per i pomodori pelati, i contenitori asettici di poliaccoppliato non proteggono il colore e l’aroma allo stesso modo della banda stagnata. Le macchine di lavorazione e le modalità di confezionamento utilizzate per le passate, le polpe e i cubettati di pomodoro hanno avuto applicazione diretta per i derivati della frutta: puree preconcentrate con i corrispondenti succhi polposi e prodot-ti in pezzi destinati alla produzione di confetture.

Anche grazie alla tradizionale manifestazione fieristica dedicata al meccano-alimentare (nata come Mostra delle Conserve, poi Tecnoconserve ed ora CibusTec), i costruttori par-mensi hanno sviluppato le loro abilità anche per settori che non avevano già rilevante appli-cazione nel territorio vicino. Anzitutto si deve citare il settore del confezionamento aset-tico che, oltre alle applicazioni già citate precedentemente, si è innestato sulle tradizionali competenze di imbottigliamento della Simonazzi e, anche con la gemmazione di Procomac, ha conquistato una leadership internazionale nel riempimento asettico di bevande in botti-glie di materiale plastico. Per quanto riguarda le tecniche di stabilizzazione microbiologi-ca a freddo, si può citare un brevetto Simonazzi per il trattamento iperbarico di bevande già racchiuse in bottiglie plastiche, che però non ha avito applicazione commerciale per i tempi di trattamento eccessivamente lunghi. Alla produzione di sottaceti e sottoli, sviluppatasi a livello industriale in diverse regioni italiane negli anni ‘70-’80 a partire da semilavorati, si è dedicato un segmento del settore meccano-alimentare parmense con macchine specifiche, quali le dosatrici a tamburo rotante e a piano vibrato, le colmatrici sotto vuoto, le tappatrici per vasi di vetro e i pastorizzatori-raffreddatori ad acqua più economici di quelli a passo

aggiunta alla polpa per renderla meno acquosa. Rispetto ai concentrati, le passate hanno costi di produzione molto inferiori perché è molto più alta la resa rispetto alla materia prima impiegata. ovviamente, è molto inferiore anche la resa in termini di utilizzo gastrono-mico, ma il prodotto è stato valorizzato con l’immagine di maggiore freschezza e naturalità. Le polpe, d’altra parte, hanno costi di produzione molto inferiori rispetto ai pomodori pelati perché sono ottenuti da varietà tonde ad alta resistenza meccanica, senza necessità di cali-bratura e con ridotto scarto di cernita. Ma il vantaggio principale è la possibilità di stoccare il semilavorato in grandi contenitori durante la campagna di lavorazione del fresco, effet-tuando successivamente il confezionamento nei contenitori finali in funzione delle richieste del mercato e utilizzando macchinari con ridotta capacità produttiva.

Come già anticipato per il doppio concentrato, anche questi semilavorati sono sottopo-sti ad un processo di trattamento termico e confezionamento asettico in grandi contenitori presterilizzati. Per gli impianti continui di riscaldamento, sosta termica e raffreddamento asettico la Rossi & Catelli si è potuta avvalere dell’esperienza acquisita per il latte UhT della Parmalat, ma sono state necessarie molte modifiche perché i derivati del pomodoro in que-stione non hanno reologia semplice di tipo newtoniano e, nel caso delle polpe, contengono fasi solide. I costruttori parmensi si sono distinti in particolare nella progettazione di scam-biatori di calore a superficie raschiata, con soluzioni costruttive molto più economiche di quelle preesistenti statunitensi. Per lo stoccaggio temporaneo del semilavorato da rilavorare internamente si utilizzano grandi cisterne asettiche presterilizzate a vapore e pressurizzate con aria sterile; mentre per la vendita del semilavorato tal quale si usano sacchi plastici pre-sterilizzati a raggi gamma da 200 litri e racchiusi in fusti di acciaio riciclabili (di forma tron-coconica per poterli impilare da vuoti). Tuttavia l’applicazione dei sacchi asettici alle passate e polpe non è stata semplice, in quanto il loro sciabordio durante i trasporti dovuto alla bassa consistenza rispetto al doppio concentrato comportava microfratturazione per fatica dell’accoppiato plastico in corrispondenza delle doppie pieghe e degli spigoli a contatto con la parete del fusto esterno, con conseguente ricontaminazione microbica e alterazione del prodotto. Le passate possono essere riconfezionate a caldo in bottiglie di vetro a boc-ca larga con capsule tipo twist-off. La stessa cosa può valere anche per le polpe, che però in buona parte sono destinate alle pizzerie e al catering e sono confezionate in scatole di banda stagnata da 3 kg con successivo trattamento nei pastorizzatori-raffreddatori, oppure ritrattate e riconfezionate asetticamente in sacchetti plastici da 10-15 kg (questa tecnica è tuttora oggetto di innovazioni competitive).

Agli inizi degli anni ’80 la Boschi ha mutuato da Parmalat la tecnica di confezionamento asettico Tetrapak applicandola alla passata ed alla polpa di pomodoro, dando una nuova immagine commerciale a questi prodotti con il vantaggio dell’impiego di contenitori mol-to meno costosi rispetto alle scatole metalliche ed alle bottiglie di vetro. L’introduzione di questo tipo di contenitore, la cui minore capacità protettiva sia meccanica sia di barriera

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dall’arruginimento sulla faccia esterna e dalla corrosione interna che subirebbe se fosse a diretto contatto con il prodotto alimentare (soprattutto se molto acido come nel caso dei derivati del pomodoro e della frutta).

Nel secondo dopoguerra su è passati dalla laminazione dell’acciaio a caldo, che compor-tava spessori di circa 0,5 mm, alla laminazione a caldo seguita da quella a freddo e alla dop-pia riduzione grazie a treni di laminazione più potenti, con una progressiva riduzione fino al 50% dello spessore e, corrispondentemente, del peso e del costo della base di acciaio. Per mantenere la necessaria resistenza meccanica delle scatole è stata introdotta la cordonatura del corpo cilindrico.

Applicando la tecnica di formatura delle scatole in due pezzi mediante imbutitura e stiramento, lo spessore del corpo cilindrico si è ridotto a circa 0,1 mm, anche se applicabile come resistenza meccanica solo nel caso di bevande gassate. Per quanto riguarda lo stagno, molto costoso e considerato materiale strategico, mentre la tradizionale stagnatura per im-mersione (proseguita peraltro fino agli anni ’70) comportava sulle due facce una copertura di circa 60 g/m2, l’introduzione della stagnatura elettrolitica, la sua applicazione differen-ziata sulle due facce, l’impiego di vernici interne molto protettive e della litografatura ester-na e, infine, le tecniche di elettrodeposizione LTS (light tin steel) hanno permesso di ridurre drasticamente il peso di copertura, fino a circa 1 g/m2. Negli anni ’80 la saldatura a lega del corpo scatola è stata del tutto sostituita dalla saldatura elettrica (introdotta per prima dalla svizzera Soudronic), sia per evitare la presenza di piombo a contatto con l’alimento sia per ridurre la quantità di banda stagnata impiegata. Sempre per ridurre i costi, la banda stagnata è stata sostituita dalla banda cromata (acciaio protetto da un sottile strato di cromo e ossidi di cromo elettrodeposto), sono state introdotte le scatole in due pezzi (quelle imbutite e reimbutite e, soprattutto, quelle imbutite e stirate) e la rastrematura della bocca del corpo cilindrico per ridurre il diametro del fondello.

Anche i sistemi di apertura hanno avuto una grande evoluzione, a partire dallo scalpello e martello necessari al Capitan Parry nell’Artico. Al 1858 risale il brevetto statunitense di un apriscatole munito di una sorta di baionetta, dal quale sono derivati quelli ancora in uso. Come “servizio al cliente”, vi erano gli apriscatole monouso per decolage attaccati al coper-chio con un punto di saldatura: l’applicazione più antica è stata nelle scatole rettangolari tipo sardine con il coperchio saldato con lega al piombo e, successivamente, nelle scatole per carne in gelatina con semitagli sul corpo cilindrico sotto la doppia aggraffatura. Succes-sivamente, per competere con i contenitori alternativi di più facile apertura, a partire dagli anni ’60 è stato necessario introdurre coperchi easy open con semitaglio ed anello per la rottura a strappo (prima realizzabili solo di alluminio e, successivamente, anche di banda stagnata o cromata).

Per mantenere la resistenza alla corrosione interna, con la riduzione dello strato di sta-gno è stato necessario migliorare corrispondentemente le caratteristiche protettive delle

pellegrino impiegati per le bevande imbottigliate (si può citare quello proposto per prima da Tecnoceam, a pioggia con flusso in controcorrente e recupero di calore, caratterizzato da semplicità di manutenzione e da consumi energetici particolarmente contenuti). Parma si è imposta a livello nazionale e internazionale anche per macchine destinate alle conserve a bassa acidità (vegetali, carnee e ittiche), che pure avevano limitata applicazione nel ter-ritorio vicino. Come particolarmente attiva in questo campo si può citare la Levati (oggi del Gruppo GEA), con le macchine automatiche per la mondatura di diversi tipi di ortaggi, le pe-latrici a vapore per tuberi, le friggitrici continue e, soprattutto, una gamma di autoclavi tec-nicamente evolute e adatte a diversi tipi di contenitore, discontinue ma disponibili anche in batterie automatizzate e in grado di competere con quelle costruite in Germania e Francia.

venendo ai contenitori per conserve, la zona di Parma è storicamente caratterizzata dal primato nella fabbricazione di vetro cavo alimentare della Bormioli, con le progressive evo-luzioni relative alla formulazione base, al disegno e ai trattamenti superficiali che, a partire dalle bottiglie a bocca larga fabbricate manualmente ai tempi di Appert, hanno consentito di migliorare progressivamente le prestazioni in termini di riduzione di peso, di maggiore resistenza agli urti, agli attriti ed agli sbalzi termici, di maggiore regolarità di forma e di di-mensioni. Parallelamente a quello dei contenitori di vetro si è sviluppato quello delle chiu-sure con garanzia di ermeticità: dai coperchi di vetro con guarnizione di gomma e sistemi vari di bloccaggio, alle capsule metalliche con guarnizione di gomma e fascetta metallica di bloccaggio, alle capsule tipo corona, fino alle più moderne pray-off tenute bloccate dal vuoto interno (preferite per garanzia di sicurezza nei vasetti per baby food) e twist-off, erme-ticizzate con stratificazione di elastomeri adatti alle diverse applicazioni.

Ma il settore quantitativamente più rilevante nel parmense è stato quello delle scatole metalliche, a partire dallo stabilimento della Ligure Emiliana attivato nel 1907 quando or-mai la tecnica di fabbricazione era già industrializzata. Infatti, i primi barattoli erano fabbri-cati manualmente tagliando, curvando e saldando con lega a base di piombo fogli di ferro laminati per battitura e stagnati per immersione nello stagno fuso; anche la chiusura dopo il riempimento era effettuata saldando a piombo un disco sul corpo cilindrico. Con questa tecnica primordiale erano state prodotte le scatole di vitello arrostito che William Edward Parry portò con se nel suo viaggio del 1824 verso il Polo Nord e che recavano l’indicazione di usare scalpello e martello per la loro apertura. La fabbricazione della banda stagnata e quella delle scatole hanno avuto una prima fase di sviluppo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con l’introduzione della doppia aggraffatura dei fondelli sul corpo cilindrico (sanitary can) e con la progressiva meccanizzazione delle operazioni per ridurre il costo della mano-dopera, ed una seconda fase dagli anni ’50 agli anni ’80, che ha comportato profonde mo-dificazioni finalizzate a ridurre il costo del contenitore per mantenerlo competitivo rispetto ai nuovi materiali plastici e accoppiati. Nella banda stagnata la base di acciaio ha la funzione di resistenza meccanica, mentre la ricopertura di stagno serve a proteggere l’acciaio stesso

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vernici senza aumentarne significativamente il costo. Con l’avvento della petrolchimica, le vernici interne per scatole a base di resine naturali sono state sostituite con quelle sintetiche e queste, insieme al side stripe per ricoprire la saldatura elettrica, hanno subito una continua evoluzione, oltre che per migliorarne le performance protettive, anche per l’introduzione di obblighi di legge sulle cessioni al prodotto e sulle emissioni di solventi organici nelle fasi di applicazione. Sempre per ridurre i costi, è stata progressivamente ridotta anche la quantità di mastice, con sofisticati sistemi di applicazione che ne garantiscono comunque la insosti-tuibile funzione di ermeticizzante delle doppie aggraffature. Parallelamente a queste inno-vazioni, la fabbricazione delle scatole e dei relativi coperchi ha dovuto progressivamente restringerne la variabilità dimensionale per permetterne l’impiego con le linee di riempi-mento e chiusura sempre più veloci.

Tutte queste innovazioni hanno permesso di mantenere competitivi i prezzi delle sca-tole, ma a fronte di impianti produttivi sempre più automatizzati e costosi, che hanno richiesto investimenti giustificabili solo con crescenti capacità produttive. Di conseguenza, mentre fino agli anni ’70-’80 erano ancora molte le industrie conserviere (soprattutto in Campania) che si fabbricavano direttamente le scatole, negli ultimi decenni vi è stata una concentrazione del settore in pochi stabilimenti grandi e, per lo più, afferenti a multinazio-nali. Nel parmense non si è sviluppata invece la fabbricazione degli imballaggi plastici per conserve, che è stata una differenziazione produttiva di imprese che erano già insediate prevalentemente in Lombardia.

La crescente cadenza delle macchine di confezionamento primario ha indotto la neces-sità di meccanizzare tutte le operazioni di fine linea: etichettatura e codificazione; im-ballaggio in cartoni e, successivamente, in termoretraibile o in espositori; palettizzatori e depalettizzatori.

Se quello delle conserve alimentari è stato ed è tuttora il settore meccano-alimentare quantitativamente più importante per Parma, una posizione di tutto rilievo ha quello del-le macchine e degli impianti per l’industria dei salumi crudi, con particolare riferimento ai sistemi di condizionamento artificiale per le diverse fasi di stagionatura dei salumi e appli-cati anche alla stagionatura dei formaggi (Frigomeccanica, nata nel 1962, è diventata una delle più importanti aziende del settore a livello internazionale, assorbendo recentemente l’attività dell’ex concorrente Benassi Impianti). Più recentemente, alcune imprese si sono specializzate nella costruzione di attrezzature per il porzionamento, la grattugiatura e il confezionamento del parmigiano reggiano. Per il settore pastaio, oltre alla produzione di impianti a capacità produttiva relativamente piccola, si può citare il sistema di premiscela-zione innovativo della Storci.

Infine, a fianco dei costruttori di macchine e impianti, il distretto meccano-alimentare parmense conta importanti imprese che forniscono la relativa componentistica, con parti-colare riferimento alle pompe, alle valvole e ai sistemi di controllo automatico.

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comprimé, et de là transporté dans une forme de bois, dite fassera, et serré avec un câble, de ma-nière à lui donner la hauteur qu’on désire. Ensuite, il se pose sur un plan incliné, spersore, et il est placé dessous un plateau de bois, appelé tondello, pour l’écoulement du petit lait qui reste. Alors le fromage est porté dans la salatoia. Là, les fromages sont exposés sur des tables de granit, où sont creusés de petits canaux, et salés deux fois par semaine, en raison de là solidité qu’ils acquièrent. Cette opération dure 40 ou 50 jours. Enfin, les fromages sont emmagasinés dans la casera, et pla-cés sur des planches de bois. C’est là qu’ils sont enduits d’huile de graine de lin, l’hiver, deux fois la semaine, l’été, tous les deux jours. Les marchands de fromages reconnaissent la bonté du fromage en l’auscultant avec un petit marteau de fer.” 10 Pierre De ville. Voyage d’italie, Lyon 1734, manoscritto inedito, Aix, Biblioteca Méjanes. “Parma è considerata la patria di quel buon formaggio che si chiama Parmigiano perché si fa da queste parti: non si trova così buono in tutte le città vicine, se non proprio a Parma. ho rilevato che gli abitanti di questa città non gradiscono affatto che si parli dell’eccellenza del loro formaggio: è per essi una specie di insulto di cui facilmente si offendono”. Traduzione e citazione in: Anonimo. Il Parmigiano-Reggiano. Antologia Letteraria, Musei del cibo della provincia di Parma, 2004, http://www.musei-delcibo.it/page.asp?IDCategoria=217&IDSezione=1065: 11 C. Rognoni. Per la storia del formaggio di grana, Parma 1896, http://www.percorsigastronomici.it/percorsienogastronomici/Repository/EmiliaRomagna/Digit%20parma/Libri%20parma/storia%20formaggio%20grana.pdf 12 E. Sani, Il Parmigiano-Reggiano dalle origini ad oggi, Reggio 1954. Citato in: Anonimo. I prodotti nella storia. Scoperte, viaggi e tradizioni dei cibi nella storia dell’uomo, Progetto EAT:ING 2008, http://www.eat-ing.net/attach/iprodottinellastoria.pdf (13) G. Mucchetti, F. Addeo e E. Neviani. Evoluzione storica della produzione di formaggi a denomina-zione di origine protetta (DOP). 1. Pratiche di produzione, utilizzo e composizione dei sieroinnesti nella caseificazione a formaggi Grana Padano e Parmigiano Reggiano: considerazioni sulle relazioni tra sie-roinnesto e DOP. Scienza e Tecnica Lattiero-Casearia, 1998 49 (5) 281-31114 Unione Parmense Industriali. Settori Industriali e servizi, http://www.upi.pr.it/servlet/login/upi/9/settori.html?pagina=osservatorio/it_D04_01.inc15 Anonimo. Prosciutto di Parma, Musei del cibo della provincia di Parma, 2004, http://www.musei-delcibo.it/page.asp?IDCategoria=234&IDSezione=969 16 G.M. Mitelli, Gioco della Cucagna che mai si perde e sempre si guadagna, Biblioteca Comunale For-teguerriana, http://www.istitutodatini.it/biblio/images/it/forteg/stch/dida/b-9.htm17 A. Revelli Sorini. Storia salumeria italiana. Taccuini Storici, http://www.taccuinistorici.it/ita/news/antica/salumi-carni/Storia-salumeria-italiana.html18 M. Contini. Tipologie edilizie e tecnologie negli stabilimenti di lavorazione e stagionatura dei salumi, Musei del cibo della provincia di Parma, 2004, http://www.museidelcibo.it/page.asp?IDCategoria=234&IDSezione=969&ID=2954519 Consorzio del Prosciutto di Parma. Press area.http://www.prosciuttodiparma.com/consorzio/news/20 G. Della Casa. Rapporti fra i fattori ambientali ed alimentari e l’assetto enzimatico delle carni nel suino pesante. ASTER, Banca dati ricerca alimentare 2006,

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La genealogia delle aziende nel parmense 1.3

1.3.1 - L’EVoLuzIonE DI un coMPARToIn questo capitolo è illustrata, in forma sintetica, la storia delle aziende che hanno opera-

to, dalla fine del 1800 ad oggi, nei settori delle macchine per la lavorazione ed il confeziona-mento dei prodotti alimentari e della produzione di contenitori in banda stagnata, e per vari motivi hanno cessato l’attività oppure cambiato la loro ragione sociale.

Per le altre aziende, di cui non è ricostruita qui la storia, si rimanda al volume intitolato “Repertorio”, nel quale sono contenute le schede dedicate alle ditte del comparto tuttora operanti nel territorio parmense.

Come avvenuto per le aziende citate in questo capitolo, anche per molte altre - soprat-tutto dopo il 1970 - si sono verificati notevoli cambiamenti che hanno portato a una vera e propria rivoluzione e prolificazione di aziende di piccole e medie dimensioni, con chiusura di alcune di esse, passaggi di proprietà e concentrazione in gruppi.

Quali le cause di questa evoluzione? - Un mercato di sbocco nazionale ed internazionale molto ricettivo.- Uno spirito di iniziativa e intraprendenza, tipica caratteristica parmigiana. Infatti, un alto

numero di tecnici e commerciali, acquisite le esperienze presso le ditte in cui avevano ini-ziato la loro carriera professionale, si sono messi in proprio, dando vita a nuove ditte, quasi sempre in concorrenza con le prime.

- Entrata nel territorio parmense di gruppi italiani ed esteri di livello internazionale, che hanno acquistato le più grandi aziende del comparto, applicando concetti gestionali che, se da un lato hanno portato ad un notevole miglioramento nel controllo generale, dall’altro hanno agevolato la fuga di tecnici e commerciali che hanno creato nuove aziende o hanno contribuito a rafforzare aziende concorrenti.

È nel 1983 che l’Ing. Carlo De Benedetti, presidente della CIR e della controllata Sasib di Bologna, entra nel mercato parmense con l’obiettivo di acquisire un certo numero di azien-de che producevano macchine destinate all’industria alimentare, con l’intento di formare un grande gruppo da destinare alla conquista di vasti mercati. Questo progetto faceva seguito a quello già avviato, e in evoluzione, comprendente le aziende alimentari italiane di mag-giore prestigio come la Buitoni, la Berni e le aziende del gruppo SME, fra cui De Rica, Cirio,

LA GEnEALoGIA DELLE AzIEnDE nEL PARMEnSE

di Mario Gelati

biblioteche2.comune.parma.it/lasagni/40 G. Gonizzi. Vettori & Manghi: la meccanica parmense nel mondo, http://www.museidelcibo.it/page.asp?IDCategoria=315&IDSezione=1239&ID=29159841 G. Cusatelli. Scrittura nei campi. Carlo Rognoni: opera e linguaggio, http://www.museidelcibo.it/page.asp?IDCategoria=315&IDSezione=1239&ID=37919

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uomini.Per quanto riguarda la sola città di Parma, le officine meccaniche erano 8 nel 1897, 33 nel 1913 e 36 nel 1922, nel 1908 gli occupati erano circa 400.Si trattava principalmente di piccole realtà artigianali a conduzione familiare, fra le quali si ricordano: - La Pietro campanini, presso la quale lavoravano 8 operai, e che produceva torchi per uva e per pasta, caldaie per locomobili e serbatoi per latrine.- La Giovanni centenari & F., con sede in via Delle Fonderie, la cui produzione si basava su costruzioni in ferro di vario genere; oltre che nei pesi e misure, era specializzata nella costruzione di macchine a vapore per caseifici e pastifici.- la Antonio centenari & c., con officina in Piazzale dei Servi, impegnato nel settore au-tomobilistico; Bigi Arnaldo, entrato in società con Antonio Centenari, nel tempo rimarrà titolare unico dell’azienda.- la Luigi Ferrari, nata nel 1878, con sede a Barriera Bixio (allora denominata Barriera San Francesco), che costruiva macchine agricole. La Luigi Ferrari si trasforma, negli anni suc-cessivi, nellab Ing. Cugini e Mistrali, e all’inizio del ‘900 nella Ing. Cugini, sempre con sede in oltretorrente. La Ing. Cugini era una delle principali industrie meccaniche: nel 1910 era arrivata ad occupare circa 130 operai. La sua produzione era basata sulla costruzione di turbine e impianti per l’industria conserviera e macchine per mulini, caseifici, pastifici. Il prestigio della Cugini si unirà anche con quello della Barilla, per la quale realizzò il primo torchio in ghisa. La fortuna dell’azienda si esaurirà nel 1911 quando, dopo le proteste de-gli operai per ottenere migliori condizioni salariali, l’azienda arrivò al fallimento. Gli operai creditori provarono a mantenere in attività la ditta, ma senza alcun successo. - La Elia zanichelli, operante a Parma negli anni ’20 con doppia sede, una in via Petrarca e una in via Cavour. La zanichelli era specializzata nell’installazione di impianti per la lavora-zione del pomodoro, macchine per produrre scatole di latta e aggraffatrici.

Altre officine parmigiane conosciute in quegli anni erano quelle di Arnoldo Rampinelli in Borgo del Leon d’oro e in via San vitale, Ermenegildo Dall’olio in piazzale Bernabei e di Palmia & Barbieri che si trasformerà nella oddone Palmia & Figlio in via volturno1.Del periodo fra fine ‘800 e inzi ‘900 risalgono anche le origini delle aziende che fecero ve-ramente la storia del comparto agroalimentare nel parmense: la Simonazzi, la oreste Lu-ciani, la Manzini, la Ing. Darecchio, la A & G Rossi, la Ligure Emiliana, di cui, nelle pagine seguenti, sono presentate le relative storie, seppure in forma breve. È da queste realtà che, negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale, e nel periodo immediatamente successivo, escono tecnici e operai specializzati che daranno vita allo sviluppo del com-parto delle tecnologie agroalimentari, che fa di Parma la capitale nazionale e mondiale di questo comparto.

Bertolli. Era indubbiamente un progetto affascinante e lungimirante, che anticipava tutti i concorrenti in questa nuova strategia industriale, rappresentata dalla tecnologia in abbina-mento al prodotto alimentare finito: in una parola, l’agroalimentare nel suo complesso.

Il progetto di acquisizione è iniziato con la Manzini, seguita pochi mesi dopo dalla Co-MACo, dalla Simonazzi e dalla Sarcmi. Le acquisizioni non si sono limitate al gruppo De Be-nedetti; anche altri gruppi si sono presentati sul mercato parmense come Fata di Torino, TMC Padovan di vittorio veneto, GEA di Bochum, Sipa di Conegliano veneto e la Sarcmi di Imola e la Tetra Laval. Conseguentemente a questo, i già poco confidenziali rapporti fra le aziende sono peggiorati, soprattutto fra le concorrenti, e questo ha portato a:

- scarsa confidenza e mancanza di collaborazione fra le aziende;- sottrazione reciproca di personale qualificato e specializzato (soprattutto tecnici e com-

merciali);- sottrazione di concetti tecnologici, anche se coperti da brevetto;- concorrenza spietata sui mercati nazionali ed internazionali, con l’applicazione di sconti

inaccettabili in un’ottica di gestione corretta e volta allo sviluppo dell’azienda in termini di ricerca, formazione, penetrazione in nuovi mercati e servizi post vendita.

Come richiesto ripetutamente dalle aziende del comparto - inserite in questo reperto-rio - il futuro dei loro rapporti deve essere impostato su nuove regole, particolarmente di carattere comportamentale; e perché questo possa avvenire, la stragrande maggioranza ha auspicato la costituzione di un consorzio, o una forma alternativa, che dia vita a un tavolo di lavoro attorno al quale affrontare i problemi che gravano sul settore.

1.3.2 - SToRIA DELLE AzIEnDE DA FInE ‘800 A FInE ‘900Il comparto delle tecnologie agroalimentari comincia a formarsi nel territorio parmense alla fine dell’’800, e mentre si sviluppa lentamente fino alla metà del ‘900, nel periodo im-mediatamente successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, si incrementa veloce-mente per esplodere letteralmente negli anni ‘60/’70.Ricostruire la storia del primo periodo non è stata cosa semplice, in quanto in quegli anni non esisteva ancora il registro delle imprese, tenuto dalle Camere di Commercio: la sua introduzione sarà prevista solo con il Codice Civile del 1942, per essere poi attuato defini-tivamente da una legge del 1993. Gli unici dati disponibili prima degli anni quaranta sono quelli recuperabili da vecchi documenti, ruoli delle imposte dirette, fatture, registrazioni di partecipazioni alle manifestazioni. Ciò che ci resta sono quindi testimonianze frammen-tate che hanno permesso di tratteggiare i pur brevi cenni che seguono.Nel 1880, secondo un indagine del ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel parmense operavano 17 ditte fra fonderie e officine meccaniche con sedi nei centri di Parma, Fidenza, Felino e Sorbolo con un numero di 147 addetti di cui 38 donne e 109

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Negli anni ‘60 entra in azienda Adriano Simonazzi figlio di Ampelio contribuendo ad un ulteriore incremento dell’azienda investendo in uomini e in tecnologia; si ampliano i mercati estendendosi anche oltreoceano negli Stati Uniti, in sud America e in sud Africa. Negli anni ‘80 nasce la Simonazzi France con sede ad Evian, viene acquisita la Enomec di verona, la Sibnastri Parma e la ABM Parma.

Il 1987 verrà ricordato come l’anno di ingresso della Simonazzi nell’orbita dei maggiori gruppi industriali del packaging mondiale.

Nel 1987 infatti la Simonazzi viene acquisita dal gruppo Sasib di Bologna, parte di CIR. Negli anni ’90 l’azienda continua la sua espansione insieme al gruppo. Le molte acqui-

sizioni intraprese dal gruppo includono Alfa (azienda produttrice di macchine etichettatrici a Mantova), Meyer e Mojonnier (marchi storici nel campo delle riempitrici e dei mixer negli Stati Uniti) ed Elettric 80 (sistemi per l’automazione del fine linea a Viano, Reggio Emilia).

Nel 1998 il gruppo Sasib si focalizza sulle attività food & beverage e porta la sua sede a Parma.

Nel 2001 il gruppo svizzero SIG, leader nel settore del packaging alimentare, acquisisce da Sasib le attività beverage, e riporta alla luce il marchio Simonazzi, creando la nuova divi-sione SIG Simonazzi all’interno del gruppo.

Quattro anni dopo, nel 2005, Simonazzi entra a far parte del gruppo Tetra Laval, leader di mercato mondiale nel packaging alimentare, mutando la ragione sociale in Sidel.

Monoblocco riempitrice-tappatrice per bottiglie, 1960

La storia della Simonazzi comincia con Pompeo Simonazzi che, nato a Gualtieri (Reggio Emilia) nel 1828, giovanissimo comincia a lavorare come fabbroferraio.

Nel 1850 nasce a Baccanelli Parma la officina Simonazzi specializzata nella costruzione di macchine per l’agricoltura. Alle fine dell’ottocento Luigi Simonazzi prosegue l’opera del padre Pompeo specializzandosi nella produzione di serrature di sicurezza e cancellate arti-stiche. Questa attività è proseguita alla morte di Luigi dal figlio Arnaldo.

Nel 1910 inizia la produzione di macchine per la lavorazione delle conserve e dei prodot-ti lattiero caseari.

Negli anni ‘30 avviene la costruzione della prima dosatrice per il riempimento di scatole con conserva di pomodoro e delle prime attrezzature per cantine.

verso la fine degli anni ‘40 Arnaldo con i figli Ampelio e Lorenzo iniziano la produzione delle prime macchine manuali per l’imbottigliamento del vino.

É negli anni ‘50 che l’attività della Simonazzi si amplia velocemente nel campo dell’im-bottigliamento di liquidi alimentari quali birra, acqua minerale, succhi di frutta, eccetera.

1850 - LA SIMonAzzI

Cena sociale 1952; al centro i fratelli Simonazzi e alla loro destra l’Ing. Tincati e Dall’Argine

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All’inizio degli anni ’60 entrano in azienda Silvano e Saverio, i figli di Tito, e dal 1964 la famiglia Nasturzio dà avvio a una politica di nuovo sviluppo dell’attività che porta, nel 1969, alla costruzione dello stabilimento di 19mila metri quadrati su un terreno di 108mila metri quadrati nel quartiere Paradigna, nell’attuale via Forlanini. Il mercato sempre più ricettivo e la struttura produttiva fanno raggiungere alti livelli di produzione all’azienda, che arriva a occupare fino a 450 persone, in gran parte stagionali. Da testimonianze di collaboratori, in particolare del direttore sig. Pagani, vengono evidenziate le grandi qua-lità umane dei componenti della famiglia Nasturzio, che hanno saputo trasmettere in tutto l’ambiente il senso del dovere e del rispetto, come era nella loro natura di veri ga-lantuomini. Nel 1975 la Ferenbal, ditta francese, acquista una parte della Ligure Emiliana che continua la produzione di alcuni tipi di scatole; subito dopo la Ferenbal è assorbita dalla Carnaud, che infine acquista anche la parte residua della Ligure Emiliana.

L’ultimo passaggio societario di cui è oggetto la Ligure Emiliana è quello fra la Car-naud e l’inglese Metal Box la quale, nel 1986, chiude la Ligure Emiliana, ponendo fine a una delle prime aziende del parmense - e probabilmente anche d’Italia - che produceva barattoli e scatole in banda stagnata destinati all’industria alimentare.

Reparto produzione barattoli in banda stagnata, 1920

Nel 1907 è costituita la Ligure Emiliana con sede legale in via Buranello a Sanpierdare-na, Genova e lo stabilimento in viale Piacenza, Parma. Il fondatore è Tito Nasturzio, geno-vese, già titolare di una feriera che produceva banda stagnata destinata alla realizzazione di imballaggi. L’attività della Ligure Emiliana si concentra nella produzione di barattoli e scatole in banda stagnata, inizialmente in forma manuale e con macchine semi automati-che, e successivamente con l’impiego di macchine automatiche per la saldatura a stagno dei corpi, l’agraffatura dei fondelli e la produzione degli stessi con presse meccaniche: tutte macchine a bassa resa produttiva.Con l’evoluzione della tecnologia viene abban-donata la saldatura a stagno dei corpi delle scatole e introdotta quella elettrica; con la riduzione degli spessori del lamierino - portato a 0,16 millimetri - sono inoltre impiegate macchine cordonatrici che assicurano l’indeformabilità del contenitore, resistendo alla pressione interna della fase di sterilizzazione dei prodotti inscatolati. I barattoli e le sca-tole sono destinati soprattutto all’industria conserviera e a quella per la lavorazione del tonno.

1907 - LA LIGuRE EMILIAnA

Tito Nasturzio e i figli Silvestro e Saverio partecipano, assieme alle maestranze, alla Santa Messa celebrata nel 1957 in occasione del 50° anniversario della fondazione

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miglia Franco, costituendo la Franco Luciani & C., che chiuderà poco tempo dopo; Alfio assume la direzione dell’azienda con la col-laborazione della moglie Maria Ludovica, e facendo ordine nella vasta gamma di mac-chine fino a quel momento costruite, orga-nizza la produzione in tre sezioni:- agraffatrici automatiche e semi automati-che per scatole e barattoli; gruppi di riem-pimento e di chiusura di barattoli in banda stagnata e cartone per prodotti liquidi;- generatori di vapore a tubi d’acqua e di fumo (famoso diventerà il modello Corno-vaglia); autoclavi; bacinelle di cottura;- impianti per la lavorazione di pomodoro, frutta, latte e prodotto ittici.

Agli inizi del 1980, conseguentemente a una profonda crisi di mercato, la gestione entra in difficoltà, e dopo cinque anni, nel 1985, l’azienda è posta in liquidazione. Negli anni successivi la struttura è demolita completamente per fare posto alla costruzione di un intero quartiere a uso abitativo. Un tentativo per salvare la prima sezione produttiva della ditta è messo in atto nel 1986 dalla CoMACo di Montecchio Emilia, Reggio Emilia, che rileva dal tri-bunale fallimentare questo ramo della produzione con relativi progetti, macchine utensili e magazzino, creando la nuova società Luciani-Parma. Purtroppo questa società non ha avuto il tempo di entrare in attività a causa dell’acquisizione del gruppo CoMACo da parte della Sasib di Bologna, appartenente al gruppo CIR dei fratelli De Benedetti: la Luciani Parma è incorporata nella CoMACo e per decisione della nuova proprietà la produzione della oreste Luciani viene completamente abbandonata.

oreste Luciani ha lasciato un segno profondo nel settore in cui ha operato non solo per le sue capacità tecniche, ma anche per quelle commerciali, consolidando rapidamente la presenza dell’azienda all’estero; per meglio comprendere la dimensione della capacità im-prenditoriale di oreste, basta sottolineare, che in abbinamento alle proprie macchine, la Lu-ciani commercializzava con successo anche scrematrici per latte fabbricate dalla Alfa Laval di Milano. Sicuramente è possibile affermare che la oreste Luciani non è stata solo una grande realtà industriale del nostro territorio, ma anche una scuola che ha formato tecnici e operai specializzati, che negli anni precedenti e immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, hanno dato vita ad altre aziende che sono state protagoniste del grande sviluppo del comparto parmense delle tecnologie agroalimentari.

Reparto di montaggiogeneratori di vapore, 1970

Nel 1909 si costituisce la oreste Luciani con sede in via Imbriani 81/87 a Parma. I soci fondatori sono oreste Luciani, Ferretti, Merusi.

Oreste Luciani (1891-1974) è un operaio dell’Officina Centenari, che lavorando di giorno e studiando di sera, riesce a raggiungere un alto grado di preparazione progettuale con il quale poter definire molte invenzioni che diventeranno la base del vastissimo programma produttivo di oltre cinquant’anni di attività.

Le prime macchine a cui si dedica Luciani sono quelle per la lavorazione del pomodoro, del formaggio e del ghiaccio. Alla fine della Prima Guerra Mondiale per l’officina Luciani, che dispone anche della fonderia per la ghisa, inizia il vero sviluppo industriale, espandendo la produzione con la costruzione di macchine per la lavorazione di cioccolato e di gelati, oltre che quelle per la macellazione delle carni (soprattutto suine).

Negli anni ‘28/’29 la oreste Luciani si trasferisce nella nuova sede di via Bologna 25/31 e alla vecchia produzione abbina la costruzione di macchine per la lavorazione del pomodoro, della frutta, dei mosti e dei vini, e una gamma completa di macchine per la lavorazione del Parmigiano Reggiano comprendente generatori di vapore, caldaie a doppio fondo, pompe, scrematrici e zangole.

La guerra, in corso dal 1941 al 1945, colpisce duramente la Luciani, privandola di buona parte della sua manodopera specializzata e distruggendo con i bombardamenti la massima

parte delle sue strutture, del macchinario e delle attrezzature. La volontà, la perseve-ranza e l’impegno di oreste Luciani con la concorde attiva collaborazione dei familiari e dei dipendenti si esaltano in modo parti-colare, consentendo di superare il grave di-sastro della guerra; e in pochi anni l’azienda è ricostruita completamente. Lo sviluppo aziendale è rapidissimo e negli anni Cin-quanta la Luciani vanta già un organico di oltre 200 persone; ad oreste si affiancano i figli Alfio e Franco che contribuiscono ad aumentare ulteriormente la dimensione aziendale al punto da raggiungere nel 1970 un numero di 400 dipendenti2.

Nel 1974 viene a mancare oreste Luciani e l’anno successivo esce dall’azienda di fa-

1909 - LA LucIAnI

III Mostra Internazionale delle Conserve Alimentari, Parma 1948

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fabbrica delle donne, in precedenza non consentita. Gli anni Sessanta e Settanta vedono un notevole sviluppo della S.C.A.L diventando leader nazionale nel settore della produzione di contenitori in banda stagnata, in concorrenza con Fa.Ba. e Superbox.

Nel 1970 ha inizio una serie di importanti acquisizioni: fra queste la Govoni di Tresigallo (Ferrara), la Lito Sud di Cava di Tirreni (Salerno) e la nascita di Copack a Rovereto.

L’ascesa sdel gruppo Capolo si deve anche al ricorso massiccio alle nuove tecnologie e quindi alla robotizzazione che tuttavia non ha diminuito lo sviluppo occupazionale; infatti agli inizi degli anni Sessanta l’organico era di oltre 300 addetti.

Il 1989 mette fine alla storia della società cooperativa e la realtà montecchiese assume l’impostazione di un’azienda di profitto a tutti gli effetti: infatti, è la fase storica delle prime aggregazioni industriali a livello internazionale, il totale delle quote delle centinaia di azio-nisti sono acquistate dalla società Ilva del gruppo Italsider, la quale, dopo due anni, cam-biando la propria strategia industriale, esce dal settore cedendo le quote al gruppo Secchi. Nel 1993 avviene un ulteriore passaggio di proprietà alla multinazionale Impress, tuttora operante a Montecchio Emilia.3

Fotografia del 1915

Nel 1911 nasce la più importante industria montecchiese, fondata per iniziativa del par-roco di San Donnino, Monsignor Attilio Alai, che con l’intento di creare occupazione per la popolazione della zona, crea la “Società anonima cooperativa cattolica”, chiamata Casa del Popolo: una delle prime “cooperative bianche” del reggiano. I soci iniziali della cooperati-va sono quattro sacerdoti, cinque possidenti, quattro coltivatori diretti, un affittuario, un impiegato, due calzolai e un lattoniere. Beneficiando dell’esperienza del lattoniere Silvio Minardi, primo capo fabbrica dell’azienda, l’attività della ditta inizia con la produzione di scatole di latta per conserve di pomodoro.

Il primo direttore della cooperativa è Giacomo Bolzoni. Una svolta importante nella sto-ria della cooperativa avviene nel 1922 con l’arrivo, nella veste di nuovo direttore, di Giu-seppe Mori. A fianco di Mori è eletto presidente Lorenzo Saporetti, uno dei primi soci della

cooperativa, nonché sindaco del Comune di Montecchio Emilia dal 1914 al 1920.

Durante il periodo fascista la cooperati-va è costretta a cambiare statuto, assumen-do la nuova ragione sociale DI C.A.P.o.L.o. La C.A.P.o.L.o. amplia sempre più la propria attività e la compagine societaria, raggiun-gendo negli anni Settanta il numero di cin-quecento soci.

Nel 1952 a Giuseppe Mori subentra, quale direttore, il figlio Lucio e nel 1955, a seguito di una grave conflittualità all’inter-no dell’azienda, vengono licenziati 23 ope-rai. L’episodio crea le premesse per la nascita di una nuova società concorrente: alcuni di questi operai, unitamente ad altri soci, fondano un’azienda in borgo Enza per la produzione di contenitori in banda stagna-ta, trasformandosi, pochi anni dopo, nella Fa.Ba. con sede a Sant’Ilario d’Enza.

Nel 1960 la C.A.P.o.L.o. cambia la ragio-ne sociale in S.C.A.L. (Società Confezioni Ar-ticoli Latta), modificando lo statuto e in par-ticolare l’articolo che ammetteva l’entrata in

1911 - LA cAPoLo

Un interno della fabbrica nel 1920

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Busto del fonfatore Tito Manzini

(1877 - 1929)

macchine di propria produzione nel 1948 si aggiunge la costruzione su licenza del pri-mo concentratore continuo, progettato e brevettato dall’ingegnere D’Arecchio.4

Nel 1970 la ditta si trasferisce nuova-mente questa volta in via Paradigna 94/A e negli anni successivi continua la costruzione di impianti sempre più innovativi, confer-mandosi fra i leader mondiali nella costru-zione di macchine e impianti completi per la lavorazione del pomodoro e della frutta. Nel 1985 la Manzini & C. è acquistata, come altre aziende del parmense, dalla Sasib di Bologna appartenente al gruppo Cir dei fratelli De Benedetti che nel frattempo ave-vano acquisito anche la Comaco di Montec-chio Emilia. Con questa operazione è creata la Manzini-Comaco, con sedi produttive a Parma e a Montecchio Emilia. Nel 2000 i fratelli De Benedetti decidono di uscire dal settore delle tecnologie agroalimentari e la Manzini-Comaco è acquisita dalla Sig che la cede, nel 2005, al nuovo gruppo parmense CFT (Catelli Food Tecnology).

Nel 2007 si assiste nuovamente alla scorporazione dell’attività della Comaco che ritor-na a Montecchio abbinandosi a quella della Sima anch’essa acquisita, nel frattempo, dal gruppo CFT, dando vita alla CFT Packaging. Nello stesso periodo avviene la fusione fra la Rossi&Catelli e la Manzini, creando la nuova società CFT Food Processing con l’accorpamen-to della produzione dei due marchi nella sede di via Paradigna 94/A.

A titolo puramente storico si ricorda che, fin dal 1890, altri rami del nucleo originario dei Manzini si dedicarono alla costruzione di macchine per l’industria alimentare. Negli anni ’20 Egidio Manzini apre la sua piccola officina in borgo Santo Spirito 5; Giuseppe invece operava in borgo Catena 26. Mentre l’esperienza di Giuseppe ha avuto una breve vita, Egidio conti-nua con successo la propria attività: negli anni ’30 brevetta una batteria di concentratori ac-coppiati ad un solo condensatore a colonna barometrica, e continua nella costruzione degli impianti per la lavorazione del pomodoro a cui aggiunge quelli per la lavorazione del mosto d’uva, del latte, della caseina, del malto per panificazione, oltre alla costruzione di bacinelle basculanti a doppia velocità per la cottura di verdure, carne, sciroppi, marmellate e canditi. Fra i Manzini è noto anche Giovanni, un fabbro con l’officina in via Spezia, che costruiva e modellava a mano le caldaie di rame per la produzione del formaggio grana. Alla sua morte, fino agli anni ’90, l’attività è stata continuata dal figlio Paolo.

Nel 1918 nasce la Tito Manzini con sede in viale Mentana 94, Parma. Tito acquisisce le prime nozioni nel campo meccanico presso la piccola officina avviata dal padre e alla fine dell’ottocento amplia la propria esperienza lavorando come tecnico montatore nello zuc-cherificio Eridania di via veneto e pochi anni dopo collabora, per un periodo abbastanza lungo, con il cavaliere Romeo Tosi, contitolare di un’industria di conserve in via Mulini Bassi. Nel 1910 riceve un attestato di benemerenza per l’opera prestata in Argentina presso una fabbrica che lo stesso Tosi aveva aperto nel continente americano. Nel 1917, mettendo a profitto tutta l’esperienza maturata, installa l’intera fabbrica di Paolo Baratta a Battipaglia in provincia di Palermo. Il risultato è positivo e Manzini matura l’idea di avviare la progetta-zione e la costruzione di macchine per la lavorazione del pomodoro e apre l’officina di viale Mentana.

Nel 1929 scompare Tito Manzini e alla conduzione aziendale subentrano i figli Manlio, Bruno, Sante ed Ettore, già presenti da qualche anno nell’azienda di famiglia. La ragione so-ciale cambia così in Manzini & C. A seguito di un rapido incremento dell’attività, viene costru-ita una nuova sede in via Trento 39. Alla costruzione di impianti completi per la lavorazione del pomodoro si aggiungono quelli per la lavorazione della frutta, e quelli per i caseifici. Alle

1918 - LA MAnzInI

Primo nucleo dell’officina, 1920

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Nel 1934 nasce la Bronzoni Giovanni&Fratelli con sede in via dei Mille a Montecchio Emilia (Reggio Emilia). I fratelli Bronzoni, oltre che Giovanni, erano Renzo e Gino. L’azienda inizia l’attività con il servizio di trasporto della ghiaia raccolta nel fiume Enza e dei barattoli prodotti dalla ditta Capolo, eseguendo contemporaneamente nella piccola officina di ma-nutenzione lavori di carpenteria. L’officina dei fratelli Bronzoni diventa, oltre che azienda costruttrice di impianti, una piccola scuola professionale per giovani futuri imprenditori di straordinaria professionalità.

Negli anni Quaranta e Cinquanta infatti hanno lavorato i fratelli Dieci, Piero zecchetti, Eros Ficarelli che farà nascere poi il centro di avviamento professionale precursore della Calf, e anche i fratelli Spaggiari; tutti crearono le loro officine sviluppandole nel tempo con grandi risultati anche per l’economia in generale di Montecchio.

1934 - LA BRonzonI

Fotografia del 1915

Nei primi del Novecento Tommaso Bar-bieri inizia la sua attività costituendo la Palmia&Barbieri con sede in via volturno 3 a Parma. Nel 1924 Barbieri esce dall’azienda e rileva l’officina Cugini di via Bixio, costituen-do la Tommaso Barbieri.

L’attività della Tommaso Barbieri è rivolta principalmente alla costruzione di macchi-ne per pastifici. Il vero sviluppo dell’officina sarà legato alla collaborazione con lo studio di progettazione di Mario e Giuseppe Brai-banti: i fratelli Braibanti, di origine parmigia-na, avevano aperto a Milano un importante studio di progettazione di macchine per pa-stifici, per la cui costruzione si rivolgevano principalmente all’officina Barbieri.

Uno dei prodotti di questa collaborazio-ne è la pressa continua, totalmente automatica, finita di costruire nel 1933 e installata nel pastificio del padre dei Barbieri, in località valera a Parma. Anche la Barilla acquistò macchine progettate dai Braibanti e costruite da Barbieri: fra il 1936 e il 1937 furono istallate nel suo stabilimento sei presse continue con vasca impastatrice orizzontale. Alla fine degli anni Qua-ranta la Barbieri occupava circa 170 operai, esportando in tutto il mondo, in particolare in America e Russia. Barbieri era un antifascista dichiarato e questo nel 1944 gli costò la vita.5 La morte di Tommaso Barbieri e il sopraggiungere di una pesante crisi economica, iniziata in piena guerra mondiale e proseguita anche dopo il 1945, portarono, negli anni Cinquanta, alla chiusura dell’azienda per liquidazione. Dalla Barbieri uscirono decine di tecnici e operai mol-to preparati in quanto, già in quegli anni, l’organizzazione aziendale era perfetta, soprattutto per quanto riguarda la gestione della produzione con l’impostazione dei centri di costo, delle commesse di lavorazione, dei centri di controllo e collaudo. Gli operai e i tecnici usciti dalla Barbieri contribuirono a sviluppare quella rete di officine, di piccole o medie dimensioni, che si specializzarono nella costruzione di macchine per l’agroalimentare, anche per settori di-versi da quello della lavorazione della pasta. La passione per il proprio mestiere e l’originalità di Barbieri sono ancora oggi testimoniate dal mosaico fatto realizzare dallo stesso Tommaso sulla parete esterna dell’officina, in cui sono rappresentate le vecchie impastatrici e quella dei fratelli Braibanti, costruite nella propria officina.

1924 - LA BARBIERI

Presse continue fornite al pastificio Barilla 1933

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Nel 1936 si costituisce la Gherri Gino con sede a Parma. L’attività della Gherri Gino inizia con la costruzione di riduttori per gas metano, motori elettrici e macchine per la ricostruzione di gomme. Nel 1952 entra in azienda il figlio Giancarlo che, abbandonando la vecchia attività, inizia la progettazione e la costruzione di macchine per la lavorazione delle carni, in partico-lare per i salumi, fra le quali il tritacarne, l’impastatrice, l’insaccatrice, la scotennatrice. Negli anni successivi entrano in azienda i figli Gino e Gabriele, e alla costruzione di macchine per l’industria delle carni si affianca la produzione di macchine per il confezionamento di prodotti liquidi e semidensi alimentari in vasi: nascono quindi le riempitrici a pistoni, le colmatrici e le incapsulatrici per vasi in vetro. Nel 1999 Giancarlo Gherri cede la società alla Unimac di Mon-tecchio Emilia, e da vita direttamente, negli anni successivi, alla Gherri Meat Technology attiva nei settori dei salumifici, piatti pronti e surgelati. La Unimac abbandona la costruzione della macchine per la lavorazione delle carni, mantenendo solo il segmento per il confezionamento di prodotti alimentari in vasi. Da pochi mesi fa la Gherri Gino è stata incorporata nella Unimac, che a sua volta ha cambiato la ragione sociale in Unimac-Gherri con sede a Montecchio Emilia. Nella sede parmigiana è tuttora operante la divisione produttiva del marchio Gherri.

1936 - LA GhERRI

Il giovane Giancarlo Gherri

Nel 1960, ultimati gli studi tecnici, entra in azienda Mario Bronzoni, figlio di Giovanni e successivamente il fratello Giuseppe e la cugina Giuliana. La produzione si allarga con la costruzione di trasportatori per barattoli, per cartoni e imballaggi vari vuoti e pieni a cui si aggiungono i palettizzatori e depalettizzatori per gli stessi e per casse di cartone.

Nel 1975 la Bronzoni con un organico di sessanta dipendenti costruisce il nuovo stabi-limento in via Galilei al numero 1, aprendo di fatto il nuovo parco industriale montecchie-se. Le automazioni industriali sono la nuova frontiera tecnologica e la Bronzoni diventa un’azienda all’avanguardia nella produzione di linee complete di movimentazione, di con-tenitori metallici, in vetro e plastica e anche cartoni, fusti, fustini e palette.

È nel 1991 che la Bronzoni crea le premesse di un triste futuro. Con la morte dei fonda-tori Gino e Renzo esce dalla società Giuliana e l’entusiasmo che ha alimentato negli anni precedenti l’evoluzione tecnologica della produzione si è notevolmente affievolito. È pro-prio in quegli anni che entra nella Bronzoni, acquisendo la maggioranza delle quote sociali, il gruppo Altech di Parma. Tale operazione segnerà la fine della prima vera officina mon-tecchiese, infatti in poco tempo si pongono le premesse per chiudere l’attività subendo l’onta del fallimento, mentre la produzione, soprattutto di palettizzatori e depalettizzatori, è continuata dalla Levati di Collecchio già facente parte del gruppo Altech.6

Sede dell’azienda nel 1975

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La Sirma Litografia Latta e Affini nacque negli anni ’40 prima della fine della Seconda Guer-ra Mondiale, con sede e reparto di litografia a Sala Baganza; mentre lo stabilimento produttivo si trova in via Golese, 10 a Parma. La Sirma iniziò la propria attività producendo barattoli e sca-tole in banda stagnata destinati all’industria alimentare, soprattutto conserviera.

Negli anni 1968-1969 venne acquisita dalla ditta Metalgraf di Lecco, a sua volta produttrice di contenitori metallici che nel 1978 cedette il pacchetto azionario della Sirma alla EFIM, socie-tà a partecipazione statale, cambiando la ragione sociale in Tubettificio Ligure.

Nel 1980 la nuova società trasferì sede e stabilimento nel quartiere Spip di Parma; subito dopo avvenne l’acquisizione da parte della FA.BA. di Calerno (Reggio Emilia) che modificò la ragione sociale in Nuova Sirma proseguendo nella produzione di contenitori metallici e botti-glie e preforme in PET (la divisione PET venne poi ceduta nell’Agosto 2006).

Nel Dicembre 1996, a seguito di una fusione per incorporazione della Nuova Sirma nella Faba, venne modificata la ragione sociale in FABA SIRMA.

1940 - LA SIRMA

Formatrici-Saldatrici semiautomatiche, 1949

Agli inizi del 1940 nasce la A&G Rossi con sede in via Trieste 5, a Parma. I fondatori sono Alfredo e Giovanni Rossi, ma le radici che por-tano alla creazione di questa società si devo-no ricercare molto tempo prima: nel 1872 Bartolomeo Ballari inizia l’attività di fabbro meccanico a barriera Saffi e nel 1913 affida la conduzione dell’azienda a oreste Rossi, figlio di Giuseppina Masi, vedova Rossi, che Ballari ha sposato in seconde nozze.

La produzione della Ballari si è sviluppa-ta costruendo impianti per mulini, pastifici, macchine per la lavorazione del pomodoro e motori idraulici.Con l’entrata in azienda di Alfredo e Giovanni figli di oreste Rossi e a seguito alla morte di quest’ultimo, l’azienda cambia la ragione sociale in A&G Rossi.7

È questo il periodo in cui Giovanni Rossi, arrivato fino alle soglie della laurea in inge-gneria, interrompe gli studi e si dedica alla

progettazione della prima intubettatrice automatica per concentrato di pomodoro, installan-dola presso la ditta Fratelli Mutti di Basilicanova; la conduzione dell’azienda è affidata a Gio-vanni con l’appoggio appassionato della moglie, ai quali negli anni ’60/’70 si aggiunge il figlio Andrea, laureato in ingegneria meccanica. Le intubettatrici Rossi si affermano con successo in tutto il mondo ma con la morte di Giovanni, avvenuta alla fine del 1970, segue un periodo di insufficiente aggiornamento tecnologico, a causa del quale l’azienda perde quote di mercato e nel 1987 chiude definitivamente; con la scomparsa della A&G Rossi è venuto a mancare un marchio storico dell’industria meccanica parmense.

A titolo puramente storico è però giusto ricordare anche il ruolo svolto da altri componenti della famiglia Rossi. Un fratello di oreste, Plinio, uscito dal nucleo familiare apre, attorno al 1920, in via Emilia ovest 13 a Parma, un’autonoma officina per la produzione di macchine per l’industria conserviera. L’attività negli anni ’30 è proseguita dal figlio Archimede, presso una nuova sede in viale Campanini 5.

Nell’immediato dopo guerra l’officina è trasferita in Argentina dove diventa un’importante realtà tuttora attiva e condotta dal figlio di Archimede, Amedeo Rossi.

1940 - LA A & G RoSSI

Intubettatrice per concentrato di pomodoro 1941

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Il sig. Vettori Rodolfo con autorità in visita alla 18a Mostra Internazionale delle Conserve e Imballaggi, 1963

spagnola Ipiasa con sede in Saragozza, voluta soprattutto per fornire il mercato spagnolo e sudamericano. È questo l’anno in cui entrano in azienda l’Ingegner Stefano vettori, figlio di Ro-dolfo, e Paolo Banchini, genero di Manghi. Agli inizi degli anni ’80, intravedendo la necessità di un profondo rinnovamento tecnologico di idee, procedure e uomini, la proprietà decide di ce-dere l’azienda; nel 1987 la vettori & Manghi è così acquistata dalla Fata, gruppo multinazionale torinese: la vettori&Manghi muta la ragione sociale in Fata e in breve tempo i soci fondatori, Rodolfo vettori e Ennio Manghi, abbandonano l’azienda, seguiti a pochi anni di distanza da Stefano vettori e Paolo Banchini. L’attività prosegue con una gestione molto sofferta e l’azien-da perde progressivamente posizioni sui mercati mondiali fino al 1993 quando si assiste alla cessazione dell’attività e seguita nel 2007 dall’abbattimento dello stabilimento. Con la cessa-zione dell’attività, dopo pochi anni, il marchio vettori & Manghi è recuperato dalla società I.T.A., il cui titolare era Paolo Banchini, ex socio della vettori & Manghi, acquistandolo dalla Fata. Nel 2008 anche la I.T.A. si ritira dal mercato e il marchio vettori & Manghi viene acquisito dal gruppo Cft, assicurando in tal modo l’assistenza e la fornitura di ricambi alle centinaia e centinaia di macchine attive in tutto il mondo.

Nel 1943 nasce La vettori & C., società di fatto con sede in via Monte Grappa 8, Parma. Soci fondatori sono Rodolfo vettori, proveniente dal settore trasporti, Ennio Manghi e Aldo Ghiretti, provenienti dalle officine reggiane. Legale rappresentante è Rodolfo vettori. L’attività iniziale si sviluppa nel campo della meccanica generale con la produzione di apparecchiature agricole, attrezzature per dentisti, scaldacqua elettrici ad immersione e altri macchinari.

Nel 1946 la sede è trasferita presso l’ex stabilimento della fabbrica di profumi “Trionfale”, posta fra viale Piacenza e viale Pasini. È nello stesso anno che esce dalla compagine societaria Aldo Ghiretti e la ragione sociale è modificata in vettori & Manghi. Inizia la progettazione e costruzione di impianti per l’industria conserviera che diventerà la principale area di svilup-po dell’azienda. Nel 1953 avviene un nuovo trasferimento dell’azienda in via La Spezia 54. La vettori & Manghi si afferma sempre più a livello internazionale esportando macchine e im-pianti soprattutto in Somalia, Etiopia, Paesi arabi, Libia, Algeria, Spagna e Grecia. Alla originaria costruzione di macchine per la lavorazione delle conserve vegetali si aggiunge quella per la lavorazione della frutta, della carne, del pesce e del latte. Nel 1968 viene costituita la filiale

1943 - LA VETToRI & MAnGhI

Impianto di evaporazione con concentratore continuo e finitura in bulle, 1957

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Linea concentrato hot break da 2.500 t/giorno, 2000

rosissima clientela in tutto il mondo. È giusto rilevare, che mentre quasi tutte le aziende di maggior rilievo di Parma hanno ceduto alle lusinghe e al miraggio di far parte di importanti gruppi nazionali o internazionali, la famiglia Catelli, confermando il proprio coraggio, ha dato vita nel 2005 al gruppo Cft e oggi è la più interessante realtà del territorio parmense che alla costruzione di macchine sia di processo che di confezionamento per prodotti alimentari co-struisce macchine per l’industria petrolchimica e della detergenza ponendosi all’avanguar-dia nel settore a livello mondiale. Nella sede in via Paradigna, Parma, la Cft produce macchi-ne dei marchi Manzini e Rossi & Catelli mentre a Montecchio Emilia (Cft Packaging) produce le macchine del marchio Comaco e Sima. La capacità tecnica e le grandi doti anche umane di Camillo Catelli sono state confermate nel 2004 con il conferimento della Laurea honoris causa in Ingegneria Meccanica da parte della Facoltà di Ingegneria del nostro Ateneo.

Nel 1945 Camillo Catelli, proveniente dalla ditta oreste Luciani, apre una piccola officina in vicolo Santa Maria a Parma. Subito dopo entra in società con Camillo Catelli l’Ingegnere Angelo Rossi, creando la Rossi & Catelli; nel 1946 l’azienda si trasferisce nella nuova sede di via Budellungo.

All’inizio degli anni Cinquanta esce dalla società Angelo Rossi e l’attività si espande ra-pidamente nel campo della costruzione di macchine e impianti completi per la lavorazione del pomodoro, della frutta e del latte. Innumerevoli sono stati gli impianti realizzati dalla Rossi&Catelli, fra questi meritano una particolare menzione l’evaporatore a circolazione for-zata discendente “Anteo” brevettato nel 1957; nel 1973 l’evaporatore della serie “Califfo” e il concentratore continuo “venus”; sempre nel campo della lavorazione del pomodoro ven-gono realizzati la pelatrice “vesuvio”, le passatrici e raffinatrici “Butterfly” e “Giubileo”. Per il settore lattiero caseario sono realizzati impianti per la sterilizzazione UhT STEMATIC LoNG RUN. Nel 1977 la gamma si espande ulteriormente con gli sterilizzatori “olimpic” e “Apollo”.

La Rossi & Catelli, con l’entrata in azienda del figlio di Camillo, Roberto, e delle figlie Adele e Livia, consolida la propria attività imponendosi all’attenzione di una prestigiosa e nume-

1945 - LA RoSSI & cATELLI

Impianto di elaborazione con concentratore continuo e finiture in bulle, 1957

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Il Gruppo Fa.Ba, oggi Crown Imballaggi Italia, ha una storia molto articolata e com-plessa, caratterizzata da una costante cre-scita ed espansione industriale, realizzata attraverso un continuo ampliamento della gamma di prodotti realizzati, l’apertura di nuovi stabilimenti e l’incorporazione di al-tre importanti aziende storiche del settore dell’imballaggio metallico.

La Fa.Ba si costituisce nel 1955 per ini-ziativa di un gruppo di manager della fami-glia Foresti e di operai usciti dalla Capolo di Montecchio di Reggio Emilia, uniti dalla co-mune esperienza del packaging.

L’azienda, inizialmente situata in un pic-colo stabilimento nel centro di Sant’Ilario d’Enza in provincia di Reggio Emilia, si af-ferma da subito per l’affidabilità e la qualità delle forniture rivolte all’industria alimenta-re. Dopo l’apertura del nuovo stabilimento di Calerno, consolida la sua leadership nel settore dell’imballaggio metallico per alimenti, in concorrenza con Superbox e Capolo.

Nel 1970, per poter operare con una presenza stabile nel mercato del Mezzogiorno è costituita la Fa.Ba. Sud con sede e stabilimento a Nocera Inferiore (Salerno) che, oltre ai con-tenitori metallici per alimenti, inizia a produrre coperchi ad apertura facilitata sia in banda stagnata che in alluminio, per tutto il gruppo e il mercato estero.

Nel 1980 il Gruppo Fa.Ba. rileva dalla EFIM la società Nuova Sirma, con sede e stabilimen-to nel quartiere Spip di Parma.

Gli anni ‘70 e ’80 vedono un notevole sviluppo del Gruppo Fa.Ba., che aumenta ulterior-mente la sua capacità produttiva, ponendo sempre la massima attenzione alle esigenze del mercato e investendo tempestivamente nelle innovazioni tecnologiche e impiantistiche. Proprio nel 1982, con lo spirito di diversificare ed innovare, nello stabilimento di Calerno sono installate le prime presse per la produzione di scatole imbutite in alluminio, attività che tutt’oggi è in continua espansione.

La fine degli anni ’80 e ’90 è caratterizzata da un importante consolidamento dei leader

1955 - LA FA.BA.

Cesoie semiautomatiche, 1957

Nel 1947 nasce la Soavi Bruno&Figli con sede a Parma. L’azienda inizia la propria attività con la costruzione di macchine per il burro; pochi anni dopo si dedica anche alla produzione di omogeneizzatori ad alta pressione per l’industria casearia. Con l’impiego di proposte tec-niche innovative, l’azienda si espande in nuovi mercati internazionali, diventando un punto di riferimento per l’Europa. A questa crescita si accompagnano la ricerca di nuove soluzioni e lo sviluppo di macchine capaci di raggiungere livelli di pressione sempre maggiori tali da essere impiegate in nuove e complesse applicazioni. L’attività e le competenze continuano ad aumentare nel corso degli anni, esplorando nuove opportunità tecniche e rivolgendosi non solo al mercato nazionale, ma anche a quello europeo. Nel 1990 la società è venduta al gruppo danese Niro Atomizer, cambiando la ragione sociale in Niro Soavi e continuando l’ascesa nel mercato mondiale con omogeneizzatori ad alta pressione dinamica e pompe a pistoni, che rappresentano la tecnologia di riferimento da sempre sviluppata dall’azienda. Nel 1993 il grup-po Niro entra a far parte di GEA AG, una delle più grandi aziende multinazionali con sede a Bo-chum, in Germania; questo ha permesso alla Niro Soavi di sviluppare una rete internazionale integrata dall’organizzazione GEA. Il gruppo GEA – Global Engineering Aliance – rappresenta attualmente uno dei più importanti gruppi internazionali di progettazioni e soluzioni tecno-logicamente avanzate, quotato sul mercato azionario tedesco MDAX. Nel 2007 acquisisce la nuova ragione sociale di GEA Niro Soavi, mantenendo la sede a Parma, dove tutt’oggi opera.

1947 - LA SoAVI

Omogeneizzatore a 3 pistoni, costruito nel 1949 e a 8 pistoni costruito nel 1972

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Nel 1958 si costituisce la Dall’Argine & Ghiretti con sede in via Golese, a Parma. I soci fondatori sono Ermes Ghiretti, pro-veniente dalla vettori & Manghi, e Franco Dall’Argine proveniente della Mingazzini, entrambe società di Parma.

Data l’esperienza acquisita dai due tito-lari, la ditta inizia la costruzione di macchi-ne per l’industria alimentare, soprattutto del settore pomodoro. La prima macchina prodotta è la taglierina per pomodoro da essiccare, fornita alla Rodolfi Mansueto di ozzano Taro, seguita subito dopo dai dop-pifondi per formaggio Parmigiano Reg-giano. Negli anni successivi si aggiunge la costruzione delle spuntatrici e pelatri-ci e delle polpatrici per pomodoro. Per l’alta qualità del prodotto lavorato le macchine Dall’Argine&Ghiretti riscuotono, immediatamente, un grande successo, venendo esporta-te in diversi paesi del mondo. La realizzazione più prestigiosa, che ha contraddistinto per oltre vent’anni la ditta, è però il pastorizzatore a scatola rotante con avanzamento a piani mobili.

Questa macchina è brevettata, e per l’alta qualità tecnologica e il risultato ottenuto sul prodotto pastorizzato, l’impianto spunta un prezzo di gran lunga superiore a tutte le altre macchine concorrenti, che si presentano tecnologicamente inferiori.

Nel 1968 l’azienda si trasforma in Srl e trasferisce la sede a Stradella di Collecchio, Par-ma. Nel 1990 i soci fondatori, non individuando in famiglia una continuità imprenditoria-le, decidono di vendere l’azienda all’ingegnere Grandi di Modena. I titolari escono così dall’azienda che fondarono anni primi, non senza una comprensibile sofferenza.

Nel 1996 avviene un ulteriore passaggio di proprietà alla A.K. Robin’s di Baltimora, U.S.A. La gestione dell’azienda in quest’ultimo passaggio si dimostra non priva di proble-matiche e all’inizio del 2000 la Dall’Argine & Ghiretti è acquisita dalla Navatta Group, che incorpora l’attività della Dall’Argine & Ghiretti, con tutti i suoi brevetti, nelle proprie linee di prodotto, rilanciando l’alta qualità dei suoi impianti.

1958 - LA DALL’ARGInE & GhIRETTI

Sterilizzatore raffreddatore-asciugatore continuo a scatola rotante e

a pressiopne atmosferica, 1959europei e mondiali del packaging che coinvolge anche il Gruppo Fa.Ba. Risale, infatti, al 1987 l’entrata della Carnaud francese nell’azionariato della società. Sempre in questo contesto di accorpamenti, nel 1989 la francese Carnaud S.A. e l’inglese Metal Box ltd si uniscono, dando origine alla CMB S.A., un gruppo di grandi dimensioni presente in 29 paesi nel mondo. A seguito di questo accorpamento il Gruppo Fa.Ba. beneficia dell’apporto del ramo di attività contenitori metallici per food della Super Box (facente parte della Metal Box), incorporando gli stabilimenti di Sant’Ilario d’Enza e Battipaglia (Salerno).

Nel 1996 CMB SA acquisisce il 100% del capitale del Gruppo Fa.Ba. e nello stesso anno la multinazionale americana Crown holding acquisisce la CMB SA, dando vita al primo grup-po mondiale nell’imballaggio. Il Gruppo FA.BA., divenuto così parte integrante della Crown holding, continua nella sua strategia d’innovazione ed espansione. Da segnalare nel 2001 l’inizio della produzione nello stabilimento di Calerno dei coperchi pelabili (Peel Off) per prodotti sterilizzabili e nel 2007 l’acquisizione da parte di Fa.Ba. Sud della società La Metal-grafica, leader nella lito verniciatura su metallo nel Sud Italia.

Dal Gennaio del 2009, con lo scopo di semplificare la struttura societaria, Fa.Ba.-SIRMA e Fa.Ba. Sud si fondono e costituiscono un’unica società denominata CRoWN IMBALLAGGI ITALIA operativa in quattro stabilimenti (Parma, Calerno, Nocera, Battipaglia) nella produzio-ne di scatole 3 pezzi in banda stagnata, scatole 2 pezzi in alluminio, coperchi Eo in alluminio e banda stagnata, coperchi Peel off.

Reparto produzione lattoni, 1957

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IMC-FMC (International Machinery Corporation) nasce a Parma il 25 marzo 1960 come sussi-diaria del gruppo multinazionale americano FMC. La genesi del gruppo affonda nel 1883, quan-do – negli Stati Uniti d’America – Mr. John Bean inventa la prima pompa a pressione utilizzata per l’applicazione di pesticidi nei frutteti. Da allora il gruppo si sviluppa rapidamente, specializ-zandosi anche nel settore della lavorazione e conservazione degli alimenti, e dando vita – già nel secondo anteguerra – alle prime macchine riempitrici, sterilizzatori continui per barattoli e macchine per la lavorazione e trasformazione di frutta e vegetali.

Nel corso degli anni, diversificandosi in molteplici settori, il gruppo si trasforma in multinazio-nale, vantando una presenza in 34 paesi.

Per i primi 2 anni, il management di IMC-FMC a Parma è guidato dal direttore americano Mr. Peer, che successivamente lascia la dirigenza a personale italiano.

Dal 1975 - anno in cui subentra il nome FMC come nuova ragione sociale - la sede di Parma continua ad approfondire e svilup-pare le proprie conoscenze tecnologiche nel campo della sbucciatura e denocciolatura di vari tipi di frutta (albicocche, mele, pesche e pere), nonché delle riempitrici di scatole di tonno. Introduce l’evaporatore T.A.S.T.E. (Thermally Accelerated Short Time Evapora-tor) per la concentrazione di succhi di agrumi e - con l’acquisizione nel 1995 dell’azienda americana FranRica – presenta a Parma lo ste-rilizzatore asettico Flash Cooler FranRica, e il pre-concentratore per pomodoro in versione T.A.S.T.E.

Nel luglio 2008, con l’adozione del nome del proprio fondatore, diventa John Bean Technologies Corporation, JBT FoodTech.

Questi anni di evoluzioni interne non han-no modificato la vision della divisione Food di FMC, che rimane quella di essere il partner di riferimento per l’industria alimentare, contri-buendo al successo dei suoi clienti con la pas-sione e la competenza delle sue persone.

1960 - LA FMc

Locandina della IMC-FMC del 1960

Nel 1963 si costituisce la R. Levati con sede a Collecchio, Parma.

Socio unico e presidente è Renzo Levati che continua l’attività del padre già presente sul mercato da molti anni per la revisione e la vendita di macchine usate per l’industria conserviera. Renzo Levati inizia la progetta-zione e costruzione di macchine e impianti per la lavorazione dei vegetali fra le quali in particolari la detorsolatrice di peperoni, la friggitrice per patatine chips e altri tipi di ver-dure, nonché le autoclavi di sterilizzazione.

Con la prematura morte di Renzo Levati nel luglio del 1983 l’attività continua con la presenza della moglie e delle figlie maggiori. all’inizio degli anni ‘90 avviene il passaggio di proprietà al gruppo Altech il quale incorpora nella Levati la costruzione delle macchine prodotte dalla ditta Bronzoni di Montecchio

rilevandone il know how soprattutto per i palettizzatori e depalettizzatori per barattoli.Questa operazione porta alla nascita della Levati Bronzoni che nel 1997 viene acquistata

dalla Procomac di Sala Baganza, Parma, che desiderando dare maggiore impulso ai due rami di attività, la suddivide in due distinte società: la Levati Food Tech srl che mantiene l’identità di azienda produttrice di impianti per la lavorazione dei prodotti ortofrutticoli; e la Levati per la costruzione di sistemi di palettizzazione con tecnologia d’avanguardia e alte potenzialità.

Nel 2001 la Levati cambia nuovamente la ragione sociale in Procomac Packaging. La pro-duzione della Procomac Packaging diventa sempre più strategica per il gruppo Procomac potendo fornire linee complete nel campo particolarmente dell’imbottigliamento di liquidi alimentari.

Nel 2007 sia la Levati Food Tech che la Procomac Packaging vengono acquisite dalla mul-tinazionale GEA con sede a Bochum, cambiando nuovamente la ragione sociale rispettiva-mente in GEA Levati Food Tech e GEA Procomac Packaging.

ll 31 dicembre 2008 la GEA Procomac Packaging viene incorporata nella GEA Procomac S.p.A, pur mantenendo la sede produttiva a Collecchio.

1960 - LA LEVATI

Renzo Levati illustra la detorsolatrice di peperoni,1972

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Nel 1963 si costituisce la A.B.M con sede in via Argini Mariano, Parma. I soci fondatori sono Aldo e Bruno Mordazzi con l’assisten-za tecnica del padre, Celestino Mordazzi, ex capo officina e addetto alla manutenzione degli impianti presso la Cirio di villafranca veronese.

Nel 1965 entra in società Sergio Dalla Tana, cugino dei Mordazzi, assumendo la guida della parte commerciale. Le prime macchine prodotte dall’A.B.M sono state l’unscrambler (raddrizzatore di barattoli pieni per pomodo-ri pelati, piselli, ecc), l’incartonatrice a caduta e rotolamento e l’incollatrice di cartoni; tutte macchine destinate all’industria conserviera. Negli anni la produzione dell’A.B.M si è note-volmente evoluta, in particolare dall’ingresso in società nel 1970 dell’ingegnere Cunico. Ed è proprio in questo periodo che per la necessità di disporre di maggiore spazio è aperta una sede produttiva a Neviano Arduini, Parma, e l’attività viene ampliata con la costruzione di nuo-ve macchine fra le quali un palettizzatore per cartoni e sacchi, palettizzatori/depalettizzatori per barattoli e bottiglie, palettizzatori per casse in plastica per acqua minerale. Particolare rilie-vo nella storia dell’ABM nella metà degli anni 70 è stata la realizzazione dei palettizzatori per astucci di zucchero (sucre en morceaux),macchine per cui ebbe il monopolio per diversi anni nei più grandi zuccherifici europei “Genarale Sucriere” - “Beghin Say”- “Eridania”. Altro capito-lo importante dell’evoluzione tecnologica fu alla fine degli anni 70 inizi 80 la realizzazione di grossi impianti di palettizzazione centralizzati controllati con microprocessori (PLC). Risonan-za nazionale ebbe la realizzazione dell’impianto Alivar-Pavesi a Novara con l’installazione di 3 palettizzatori automatici con 22 linee di produzione da palettizzare contemporaneamente. La realizzazione fu celebrata dalla stampa nazionale , l’articolo più ampio fu pubblicato da “PA-NoRAMA” .

Nel 1983 l’azienda viene acquistata prima da Adriano Simonazzi, e poi nel 1988 le quote sono intestate direttamente alla ditta Simonazzi di Parma, diventando una divisione produt-tiva con la denominazione di Simonazzi Packaging. Con questa operazione il marchio A.B.M cessa di esistere sul mercato.

1963 - LA A.B.M.

Depalettizzatore automatico per barattoli vuoti, 1985

Il 10 gennaio del 1962 nasce Tecnindustria con sede a vigheffio, Parma. I soci fondatori sono stati Gianni Dordoni, Franco Martini, Giancarlo Silva, Luciano Patteri, tutti provenienti dalla vettori&Manghi di Parma. Beneficiando dell’esperienza acquisita da tutti i soci, l’azienda inizia la propria attività costruendo per conto di terzi macchine particolari destinate al settore alimentare e principalmente prodotti derivati dalla frutta e dalla verdura. Dopo circa tre anni Tecnindustria decide di crearsi una clientela propria per la fornitura delle macchine progettate e costruite direttamente e conseguentemente a un rapido sviluppo viene costruita la nuova sede in via La Spezia a Collecchio. Nel giro di dieci anni il numero dei dipendenti passa da 5 a 50 e alla costruzione di macchine singole si abbina quella di linee complete che vanno dal ricevimento del prodotto fresco al confezionamento finale in vasi e scatole.

Nel 1990 le quote societarie di Tecnindustria vengono rilevate dalla società Plant Group di Modena cambiando ragione sociale in Tecnindustria Impianti Srl; escono dall’azienda i vecchi soci Franco Martini e Giancarlo Silva mentre Gianni Dordoni rimane come consulente.

Nel 2004 la Tecnindustria cambia nuovamente di proprietà essendo le quote sociali acqui-site dal gruppo TMCI Padovan di vittorio veneto. L’anno successivo tutta l’attività è trasferita a vittorio veneto e purtroppo un’altra azienda storica scompare dal territorio parmense.

1962 - LA TEcnInDuSTRIA

Impianto per la calibratura delle ciliegie, 1965

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La genealogia delle aziende nel parmense 1.3

Nel 1963 nasce la FBR in via A. da Brescia 12/A. I soci fondatori sono Gianni Bertonelli, Fabbi, Rastelli, sostituito quest’ultimo, dopo poco, da Salati. Tutti provenivano dalla ditta Rossi & Catelli, già operante nella meccanica per l’Industria alimentare, con esperienza nei montaggi ed avviamento impianti.

L’anima del gruppo è Bertonelli. L’attività inizia con la progettazione e costruzione di macchine per l’Industria alimentare in genere, per specializzarsi in seguito sulla pelatura del pomodoro, progettando una pelatrice meccanica, rivoluzionaria per quel periodo. Se-guirono poi le colmatrici sottovuoto per barattoli contenenti pomodori pelati, riempitrici a pistoni e linee per frutta.

Sull’onda del successo delle prime costruzioni, la produzione viene ampliata con le pelatrici termo-fisiche, gli evaporatori per concentrato di pomodoro a circolazione forzata su tutti gli effetti e gli scambiatori di calore. Il successo dell’azienda continua e i propri impianti sono apprezzati da una vasta clientela in tutto il mondo.

Nel 1979 muore Bertonelli, leader indiscusso della società, e dopo un breve periodo di disorientamento, l’azienda è rilevata da alcuni dipendenti che creano la Nuova FBR. La direzione della neonata realtà viene affidata a Pierluigi Merusi e Claudia Silvestri, che rimangono sempre ai vertici aziendali nonostante i vari cambiamenti che si susseguo-no nel tempo. Nel 1989, per scelta strate-gica, l’azienda è ceduta al gruppo Altech Spa che acquista in seguito le ditte Levati di Collecchio, leader nella costruzione di impianti per il trattamento delle verdure, e Bronzoni di Montecchio Emilia, leader nella movimentazione scatole.

Nel 1991 la Nuova FBR acquista la Elpo, leader nel riempimento asettico, arrivan-do nel 1995 alla fusione per incorporazio-ne delle due aziende, assumendo la nuova ragione sociale di FBR-ELPo.

Nel 2002 un ulteriore cambiamento por-ta la FBR-ELPo al gruppo Sacmi di Imola e nel 2007 avviene l’ultimo passaggio dell’intrecciata storia della FBR, con il tra-sferimento dalla Sacmi al gruppo parmi-giano Catelli holding.

1963 - LA FBR

Evaporatore continuo per concentrato di pomodoro, 1975

Nel 1963 nasce la Berchi con sede a vi-gheffio, Parma. Socio fondatore è Rinaldo Chiapponi, proveniente dalla ditta Simonazzi. L’attività della Berchi inizia con la lavorazione conto terzi di particolari meccanici, commis-sionati dalle ditte che producevano macchi-ne per l’imbottigliamento. A questa attività si aggiunge la progettazione e la costruzione di trasportatori; e nel 1970 avviene la costruzio-ne del primo palettizzatore di casse per botti-glie di acqua minerale. Lo sviluppo dell’azien-da, nel frattempo trasferitosi a Sala Baganza, è rapidissimo grazie all’alta qualità della produ-zione, apprezzata non solamente dal mercato interno, ma anche da quello estero: nel 1980, per la prima volta, la quota di fatturato estero supera la quota di fatturato Italia. Nel 1994 la Berchi acquista la Parmatec, ditta specializzata

nella costruzione di riempitrici a gravità e isobarometriche, diventando fornitore di linee com-plete per imbottigliamento e confezionamento. Purtroppo nel 2003 muore Rinaldo Chiapponi e subentra alla guida dell’azienda il figlio Roberto. Nel 2004 inizia il processo di fusione fra la Berchi e la Parmatec, che porta alla costituzione della nuova azienda Berchi Group. Nel 2005 è inaugurata una nuova area produttiva: è potenziata tutta l’organizzazione sia di gestione sia commerciale e il gruppo Berchi si inserisce fra le aziende più importanti al mondo per il settore dell’imbottigliamento, in particolare per acqua minerale, soft drinks e liquidi alimentari in botti-glie di materiale plastico. Nel 2007 il gruppo stringe un’alleanza con la SIPA del gruppo zoppas Industries di vittorio veneto, per avere la possibilità di fornire linee complete, che includono la soffiatrice per bottiglie e tutto il processo a monte a partire dalla resina di PET. Nel 2008 Roberto Chiapponi ravvede i pericoli per l’azienda determinati dalla forte competizione con gruppi più grandi come la Sidel e la GEA-Procomac presenti anche in Italia o la Krones e la KhS all’estero. Nello stesso tempo SIPA decide di entrare con decisione nel mercato dei grandi impianti per l’ imbottigliamento attraverso acquisizioni strategiche. Si concretizza così la decisione da parte della famiglia Chiapponi di cedere nel settembre 2008 al gruppo zoppas l’intero pacchetto azionario, uscendo dall’ azienda. Entro il 2009 l’ integrazione in corso porterà alla fusione di Berchi Group in SIPA dando come SIPA Berchi continuità alle competenze e prospettiva per il futuro.

1963 - LA BERchI

Incassettatrice per bottiglie, 1970

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Nel 1967 si costituisce la COMACO (Costruzioni Macchine Confezionatrici) con sede in via Per Barco, Montecchio Emilia, Reggio Emilia.

I soci fondatori sono Mario Gelati (proveniente dalla Ocme di Parma), Adriano Cavatorta (proveniente dalla Oreste Luciani di Parma), Ivan Del Rio (direttore della Fa.Ba.), Emilio Rever-beri (funzionario della Cassa di Risparmio di Reggio Emilia), Piero e Silvio Zecchetti (titolari dell’omonima azienda). Accomandatario è nominato Mario Gelati. Tutti i soci, pur provenen-do da aziende diverse, individuano nella nuova società le capacità tecniche per progettare, principalmente, agraffatrici di nuova generazione. L’attività ha così inizio presso la già avviata officina Fratelli zecchetti: la prima macchina prodotta è un’aggraffatrice automatica per barat-toli di banda stagnata; immediatamente dopo nasce il monoblocco, riempitrice e agraffatrice di barattoli da 1 litro per olio. Per dare maggiore consistenza all’attività, la CoMACo assume l’esclusiva di vendita di tutta la produzione della ditta Fratelli zecchetti, che comprende pa-lettizzatori e depalettizzatori per barattoli in banda stagnata, vasi e bottiglie in vetro e relativi trasportatori aerei e a terra. Beneficiando della grande esperienza professionale acquisita da Gelati e da Cavatorta, la clientela da immediatamente fiducia alla società, permettendole un rapido sviluppo. Alla costruzione delle prime macchine si affianca quella di una gamma com-pleta di aggraffatrici e riempitrici volumetriche a pistoni rotative sia singole che in monobloc-co. L’abbinamento della produzione diretta Comaco e della produzione zecchetti consente, in pochi anni, la realizzazione di linee complete per il confezionamento di oli alimentari, oli

1967 - LA coMAco

Reparto montaggio aggraffatrici, 1980

Nel 1965 nasce la B.C. di vittorio Macrì & C. con sede in via Carra, Parma. I soci fondato-ri sono vittorio Macrì, Guido Chierici e olimpio Ferrari; amministratore delegato è nominato Macri. L’attività inizia con la progettazione e costruzione di riempitrici a gravità e isobariche di prodotti liquidi alimentari in bottiglie (soprattutto di vino). Conseguentemente al rapido sviluppo dei consumi avvenuto negli anni successivi, l’attività della B.C. negli anni ’80 aumenta rapidamente. Fra le nuove realizzazioni una particolare importanza è riconosciuta alla realizza-zione delle riempitrici per bevande gassate in lattine di alluminio.

Nell 1981 avviene il trasferimento della sede nel nuovo stabilimento di Gattatico di Reggio Emilia, che permette di consolidare e sviluppare ulteriormente la produzione e di conseguen-za la presenza della ditta sui mercati internazionali che porta all’apertura di sedi commerciali a Mosca, Chicago e Singapore.

Nel 2002 l’azienda è acquistata dalla società Simpach di Milano e cambia nuovamente sede trasferendosi a Montecchio Emilia, sempre in provincia di Reggio Emilia, con la nuova ragione sociale Simpach Bottling & Canning (SBC).

Subito dopo vittorio Macrì e la sua famiglia, che l’ha affiancato nella conduzione dell’azien-da per molti anni, escono dalla ditta.

1965 - LA B.c.

Monoblocco riempitrice-aggraffatrice per lattine soft drink, 1980

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per la costruzione delle sole macchine riempitrici e agraffatrici di barattoli in banda stagnata; la Comaco Chemical, per la costruzione di riempitrici e chiuditrici di barattoli, fusti, fustini e flaconi per oli lubrificanti e detersivi liquidi; la Comaco Sistem, per la produzione di palettiz-zatori e depalettizzatori e trasportatori vari. Le tre realtà, tutte con sede a Montecchio, incre-mentano con successo le rispettive attività, riscuotendo consensi sempre maggiori da parte della clientela sia del settore agroalimentare sia di quello chimico e petrolchimico. Nel 1984 la CoMACo-Food rileva dal tribunale fallimentare il segmento delle aggraffatrici e riempitrici della oreste Luciani di Parma la cui attività era ferma da due anni, evitando in questo modo il fallimento dell’azienda. viene così costituita la nuova società Luciani-Parma le cui quote sono sottoscritte per il 90% dalla COMACO-Food e il restante 10% da Alfio Luciani e Dall’Olio Euge-nio. Nello stesso anno i fratelli De Benedetti, attraverso la Sasib di Bologna, decidono di entrare nel mercato parmense acquisendo varie ditte dell’impiantistica alimentare allo scopo di creare un grande gruppo per la fornitura di impianti completi, da affiancare al gruppo alimentare in fase di formazione (Buitoni, Cirio, De Rica, Bertolli, Berni). Dimostrando grande interesse per il gruppo CoMACo ne propongono l’acquisizione e, soprattutto Mario Gelati, consigliere delegato e presidente CoMACo, intravede nella potenza economica e di immagine dei De Benedetti un ulteriore possibilità di sviluppo aziendale, orientando la compagine societaria a realizzare questa impegnativa operazione. In pochi mesi, ma non senza contrasto con alcuni soci dipendenti, profondamente legati all’azienda in cui erano cresciuti, si giunge all’acquisi-zione delle quote del gruppo CoMACo da parte della Sasib. Gelati è confermato consigliere

Attribuzione ”Prix de promotion internationale de l’industrie 1983” da parte dell’“Institut international de promotion et de prestige” di Ginevra, riconosciuto dall’UNESCO

lubrificanti e di tutti i prodotti derivanti dalla lavorazione del pomodoro e della frutta.

Sono dell’inizio degli anni Settanta la costituzione della CoMACo Sud per la com-mercializzazione e l’assistenza post vendita di tutte le macchine di produzione CoMACo; e della fine degli anni ’70 la costituzione della CoMACo Spagna con sede in Saragozza, re-alizzata in comproprietà con la società Ipiasa, filiale della vettori&Manghi di Parma. Il rapi-do sviluppo della produzione mette in crisi gli spazi occupati in comune da CoMACo e zecchetti, spingendo quest’ultima, alla metà

degli anni Settanta, a costruire una propria sede indipendente, lasciando così i locali totalmen-te disponibile per la CoMACo Come negli anni precedenti era uscito dalla società Ivan Del Rio, sostituito da Enzo Benedini, così, a seguito della scissione sopra descritta, escono Emilio Reverberi e i due fratelli Zecchetti. Le quote dei soci uscenti e parte degli altri - pari al 60% del capitale sociale - sono acquistate dalla società Wrapmatic del gruppo Gentili di Bologna. Con la Wrapmatic nasce una collaborazione molto efficace che permette sia alla CoMACo, sia alla zecchetti, di aumentare rapidamente il livello del loro sviluppo. Una pesante crisi di mercato, a fine degli anni Settanta, genera però gravi contrasti fra i vecchi soci della CoMACo e la di-rigenza della ditta bolognese, causando l’uscita di quest’ultima dalla società. Le quote della Wrapmatic vengono acquisite da una quarantina di dipendenti della CoMACo e da alcuni suoi agenti di vendita, dando vita a un sistema di compartecipazione innovativo per il periodo, differente dalla forma cooperativa affermata sul territorio reggiano.

Questa nuova impostazione porta la zecchetti a decidere di rendersi autonoma dalla CoMACo, creando una propria rete commerciale e questo ha portato ad un radicale cam-biamento dei rapporti fra le due società. Il trauma che in questo modo si crea, causa l’uscita dalla Zecchetti di quattro tecnici, che nel 1979 danno vita alla F.D.P. (Fabbrica Depalettizzatori e Palettizzatori) con sede a Cortetegge di Cavriago, Reggio Emilia. Questa società inizia a pro-gettare e costruire nuove macchine, vendendole in esclusiva alla Co.MA.Co e consentendogli di continuare la politica commerciale già avviata da anni con la zecchetti.

Nel 1981 la CoMACo, cresciuta fino a 70 dipendenti, abbandona i locali della zecchetti e si trasferisce in nuovi spazi, in parte di proprietà e in parte in affitto, in via volta; contempo-raneamente decide di rilevare tutte le quote della F.D.P., trasferendone la produzione nella nuova sede. La ditta, beneficiando di una fase favorevole di mercato incrementa ulteriormen-te le dimensioni aziendali raggiungendo nel 1984 il numero di 150 dipendenti. Nello stesso anno l’assemblea dei soci decide di scorporare la CoMACo in tre società: la Comaco Food,

La sede all’inizio dell’attività, 1968

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Nel 1968 nasce la Savi Antonio con sede in via Lanfranco 7, Parma.Soci fondatori sono Savi Antonio, proveniente dalla Rossi&Catelli, e la moglie Gorreri Gia-

comina.La prima macchina progettata e costruita è la pelatrice meccanica per pomodoro, che

incontrò grande successo presso le fabbriche del meridione d’Italia particolarmente nelle province di Napoli e Salerno. La gamma delle macchine per la lavorazione del pomodoro è arricchita con le linee di lavaggio, le scottatrici e altre macchine.

Nel 1980 l’azienda familiare si trasforma in S.p.A e nel 1984 entra in società Rossano Ca-valieri - già consigliere delegato dell’azienda - acquisendo il 51% del pacchetto azionario. Cavalieri introduce la produzione Savi in tutto il mondo, fornendo anche linee complete ma a causa una grave crisi del settore del pomodoro, nel 1994 la Savi cessa l’attività.

Nel 1996 Rossano Cavalieri costituisce la Cavalieri, acquistando il know how della Savi, dando nuovo impulso all’attività, mantenendo in questo modo alto il prestigio di uno dei marchi più prestigiosi del settore delle macchine per la lavorazione del pomodoro.

1968 - LA SAVI

Principio della pelatrice per pomodoro, brevetto Savi Antonio

delegato dell’azienda, ma le nuove strategie sono dettate direttamente da Bologna. La con-seguenza di questo è un susseguirsi di fatti che condizioneranno per vent’anni la storia della società. La prima decisione è il riaccorpamento delle società del gruppo COMACO (Comaco Food, Comaco Chemical, Comaco Sistem, Comaco Sud e Luciani Parma) in un’unica azienda. L’operazione porta a notevoli contrasti fra Gelati che rappresenta i vecchi soci e la nuova pro-prietà e nel 1998, non senza sofferenze, Gelati abbandona l’azienda con l’intento di difendere dall’esterno gli interessi della vecchia compagine societaria e non influire negativamente sulla già pesante situazione gestionale, che nel frattempo si era creata. Questo è, purtroppo, l’inizio di una disgregazione che porta alla fuga del personale maggiormente qualificato e il gruppo più numeroso costituisce la società Sima, diventando in breve tempo la maggiore concorrente della stessa CoMACo

Nel 1990 la strategia del gruppo Sasib porta alla fusione della CoMACo con la ditta Manzi-ni, già parte del gruppo Sasib, cambiando la ragione sociale in Manzini-Comaco.

Nel 2000 si conclude l’avventura dei fratelli De Benedetti a Parma e tutte le aziende ac-quisite sono cedute alla Sig, azienda multinazionale leader nel confezionamento di prodotti liquidi in contenitori flessibili. Questa non è l’ultima operazione, in quanto, nel 2005 la società Manzini-Comaco è acquisita dal nuovo gruppo parmense Cft (Catelli Food Technology). La Cft crea la divisione packaging con sede a Montecchio - comprendente la produzione del mar-chio Comaco e del marchio Sima, rilevato dal gruppo Simpach - e oggi a Montecchio, dopo vent’anni di turbolenze, il 60% del personale presente nel 1988 in COMACO è attivo in Cft Packaging, contribuendo in vario modo ad aumentarne il patrimonio sia tecnologico che di valori aziendali.

Sede aziendale, 1982

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Le origini della Parmasei risalgono al 1977, data in cui nasce la Pnelmec con sede in via Scarabelli zunti, Parma. I soci fondatori sono Romano Belletti, Bondani Bruno, Roberto Gio-acchini, Carlo Levati, Lino Mutti e Anzio Storci, tutti provenienti dalla società Barilla. Ammini-stratore delegato è nominato Roberto Gioacchini.

L’attività inizia con la consulenza tecnica e progettazione di macchine per il confezio-namento del latte e il servizio di assistenza e ricambi per pastifici. A queste si aggiungono la progettazione e la costruzione di macchine e impianti prototipo destinati ai settori della pasta secca, della pasta fresca, della sterilizzazione del tonno in scatola e delle bevande.

Agli inizi degli anni ‘80 entra in società la ditta Braibanti di Milano, già operante nel set-tore degli impianti per pastifici.

Nel 1983 la Pnelmec cambia ragione sociale in Parmasei, avviando una nuova fase di espansione nel campo tecnologico e nella penetrazione di nuovi mercati.

Purtroppo nel 1994 l’azienda cessa l’attività, ma alcuni dei soci fondatori, come Bruno Bondani e Anzio Storci, danno vita a nuove società tuttora operanti nel territorio parmense.

1977 - LA PARMASEI

Invassoiatrice automatica per coppette, 1985

Nel 1973 si costituisce la Cantadori & Colli con sede in via Pozzo Ferrato a Montecchio Emi-lia (Re). I soci fondatori sno Claudio Cantadori e Livio Colli, provenienti entrambi dalla Fratelli Dieci. L’attività iniziale si è concretizzata in lavori di carpenteria per le aziende di Montecchio Emilia. Con l’incremento dell’attività alla fine degli anni Settanta la Cantadori & Colli trasferisce la propria sede in via volta. Nella nuova sede, oltre a lavori di carpenteria si sviluppa l’attività con la costruzione di macchine complete per conto sia di aziende di Montecchio Emilia che di Parma sempre nel settore Packaging.

Nel 1983 entra in società Iames Tesauri proveniente dalla ditta Spaggiari di Montecchio Emilia, azienda anch’essa operante nel segmento della palettizzazione. La società cambia ra-gione sociale in EMMETI. È questo l’inizio di una nuova politica che da lavorazione conto terzi si trasforma in produzione diretta sia di macchine per la palettizzazione e depalettizzazione che di trasportatori di collegamento. Nel 2000 si aggiunge alla compagine societaria Fausto Savazzi proveniente dalla FMC di Parma, contribuendo ad espandere la presenza del marchio EMMETI in tutto il mondo ed alimentando la necessità di una nuova e più ampia sede azienda-le in via Galvani. Nel 2001 scompare Livio Colli, lasciando un vuoto profondo nel cuore di chi lo ha conosciuto e pochi anni dopo esce dall’azienda anche il secondo fondatore dell’azienda, Claudio Cantadori. Aumentano ulteriormente le dimensioni aziendali e, alla fine del 2001,è inaugurata la nuova sede in via Galilei.8

1973 - LA cAnTADoRI & coLLI

Da destra Tesauri, Colli, Cantadori, Savazzi e Tonelli, Natale 1999

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Nel 1979 si costituisce la ELPo con sede in Langhirano, Parma.

I soci fondatori sono Martin Ellenberg, tecnologo alimentare e Renato Ponzi, mec-canico, entrambi provenienti dalla ditta Star.

Martin Ellenberg è l’esperto del riem-pimento asettico e l’attività inizia con la progettazione e la costruzione delle prime riempitrici asettiche per concentrato di po-modoro e altri prodotti alimentari in conte-nitori flessibili pre-sterilizzati con raggi Gam-ma “bag-in-box”.

Il successo di questo nuovo tipo di con-fezionamento di prodotti, considerati come semilavorati, fu tale da portare all’ elimina-zione dei precedenti concetti per la loro conservazione.

Infatti i fusti da 200 Kg ed i contenitori da 1000 Kg lentamente prenderanno il posto delle linee di confezionamento dei barattoli da cinque chilogrammi.

La nuova tendenza fu quella di riempi-re fusti asettici durante la stagione, per rilavorare il prodotto successivamente in barattoli secondo la richiesta del mercato. L’evoluzione delle riempitrici asettiche passò dalla steri-lizzazione del bocchello con agente chimico fino alla eliminazione completa usando uni-camente vapore. Lo sviluppo di un tappo termo-resistente “ELPo” è stato uno dei brevetti dell’azienda.

L’automatizzazione completa di queste macchine ha portato ad un’ affidabilità totale ed i timori esistenti dei primi periodi di installazione sono stati completamente superati.

Nel 1991 la ELPo è acquisita dalla Nuova FBR ed il Martin Ellenberg continua la sua colla-borazione e nel 1995 avviene la fusione per incorporazione in quest’ultima, dando vita alla società FBR-ELPo. Il nuovo management utilizzò tutte le esperienze pregresse e continuò a migliorare in termini di progettazione meccanica, elettronica e soprattutto assistenza tecni-ca, l’affidabilità delle macchine prodotte. Nel 2002 la FBR-ELPo entra a fare parte del gruppo Sacmi di Imola e nel 2007 viene incorporata nel gruppo parmigiano Catelli holding.

1979 - LA ELPo

Riempitrice asettica di fusticon concentrato di pomodoro, 1985

Nel 1978 nasce la Sarcmi con sede a Pontetaro, Parma.I soci fondatori sono Giancarlo Tosini, Secondo Lecchini, Franco Tincati, Adriano Carbogna-

ni e Roberto vighi, tutti tecnici provenienti dalla ditta Simonazzi di Bacanelli, Parma.L’amministratore delegato è Giancarlo Tosini. L’attività iniziale della Sarcmi si è incentrata

sulla revisione di macchine per l’imbottigliamento e la produzione di nastri trasportatori da impiegare in linee complete. Successivamente si è sviluppata la produzione di riempitrici ro-tative per bevande, sia in lattine sia in bottiglie di PET: di grande prestigio il brevetto mondiale per le riempitrici di bottiglie in PET in monoblocco composto da sciacquatrice/riempitrice/capsulatrice.

Nel 1983 la società si trasforma in SpA e si trasferisce nella nuova sede di Noceto- Parma. Nel 1985 alla compagine societaria si aggiunge Umberto varazzani, proveniente dalla ditta Simonazzi di Parma, che assunse la direzione commerciale dell’azienda, dando notevole im-pulso allo sviluppo dell’attività, già peraltro di alti livelli, beneficiando della grande esperienza tecnica dei soci fondatori.

Nel 1987 l’azienda entra nel gruppo Sasib di Bologna e pochi anni dopo si fonde con la ditta Simonazzi, già facente parte del gruppo, e la nuova realtà cambia ragione sociale in Sasib Beverage.

1978 - LA SARcMI

Riunione commerciale, 1987

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Impianto trasporto bottiglie, 1982

la quotazione; Ermanno Morini decide allora di uscire dalla borsa, restituendo a tutti i sotto-scrittori delle azioni il 100% dei capitali investiti.

Se negli anni compresi fra il 1994 e il 2002 sono state fondate varie società commerciali all’estero e avviate o potenziate varie sedi produttive sia in provincia di Parma (come la Pro-comac Packaging e la Levati Food Tech) sia al di fuori del parmense, con il 2004 inizia un’ar-ticolata ristrutturazione che porta alla chiusura di alcune sedi. viene così avviato nel 2006 il rilancio del gruppo Procomac con l’acquisizione di importanti commesse, soprattutto per l’imbottigliamento in asettico di prodotti alimentari sensibili, quali succhi di frutta e pro-dotti a base di latte. Ma è nel 2007 che si attua l’operazione che pone definitivamente fine a un periodo per iniziarne uno nuovo. Ermanno Morini, rendendosi conto della debolez-za strutturale del proprio gruppo rispetto ai concorrenti del calibro di TetraPack-Sidel, Khs Salzgitter e Krones, decide di cedere tutte le azioni della Procomac a un gruppo di grande potenzialità: in poco tempo la scelta cade sulla GEA di Bochum; conseguentemente a tale operazione Ermanno Morini rimane nel consiglio di amministrazione della società e per la Procomac inizia un nuovo futuro con la ragione sociale GEA Procomac.

Nel 1979 si costituisce la Procomac con sede in Strada Pilastrello 13 a Collecchio, Parma.I soci fondatori sono Ermanno Morini, Germano Storci - entrambi provenienti dalla Si-

monazzi - e valdo Ravanetti tecnico artigiano.L’attività inizia con la produzione dei più disparati prodotti come: camini con recupero di

calorie, lavacestelli per il settore avicolo, lavatrici per gabbie di trasporto pollame e stampi per il settore petrolifero. In pratica i soci della Procomac, a differenza di altri lavoratori fuo-riusciti dalla Simonazzi, non decidono di costruire macchine in concorrenza con la ditta di origine, ma cercarono di mantenere con questa buoni rapporti, per diventare addirittura fornitori di parti speciali da installare sulle macchine della Simonazzi.

Nel 1981 entra in società Ivon van Neste, di origine belga, assumendo il ruolo di direttore tecnico, grazie alla vasta esperienza maturata nello stesso ruolo presso la parmigiana Si-monazzi e l’americana Barry We Miller. Nel corso degli anni vengono progettate e costruite varie macchine per l’imbottigliamento di liquidi alimentari come le sciacquatrici di bottiglie, la riempitrice a gravità e isobarometriche, e in asettico; in breve la Procomac si propone al mercato mondiale come fornitore di linee complete per l’imbottigliamento acqua minerale, succhi, latte e altri prodotti.

Nel 1983 la Procomac si trasferisce a Sala Baganza e poco dopo entra in comparteci-pazione con varie aziende fornitrici, fra cui la Errebizeta che produceva trasportatori, as-sumendone nel 1987 il suo controllo. Sempre nel 1987 avviene l’acquisizione della Eprom,

ditta specializzata nella progettazione e nel cablaggio di quadri elettrici per l’automa-zione di macchine e linee complete.

Nel 1992 Procomac si trasferisce nella nuova, e attuale, sede in Strada Fedolfi a Sala Baganza. Dal 1992 al 2002 escono in periodi vari i soci di Morini compreso Ivon van Neste ed entra in società il fondo di in-vestimenti Sgr del gruppo Interbanca.

Nel 2003 la società, avendo raggiunto un fatturato di 146 milioni di euro e con un organico di oltre 700 dipendenti, decide di entrare in borsa nel segmento Star. Il crollo del mercato e la mancata conferma di im-portanti forniture non permettono però il raggiungimento del budget presentato per

1979 - LA PRocoMAc

Riunione di lavoro, da destra Ivon Van Neste, Valdo Ravanetti, Germano Storci ed Ermanno Morini, 1981

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Parmatec si costituisce nel 1990 sottoforma di Consorzio di imprese con sede in via Pietro Zani 11, Parma. Tra i soci costituenti del consorzio ci sono Giuseppe Capitelli (presidente), Gio-vanni Gallinari e alcuni validi tecnici e dirigenti usciti dalla Sasib-Simonazzi.

La Parmatec, due anni dopo la sua costituzione, muta la ragione sociale in Parmatec Group S.r.l. , Giovanni Gallinari ne diviene presidente e Ermes Battistini consigliere e direttore tecnico.L’attività a suo tempo iniziata con la costruzione di linee di trasporto e movimentazione di bottiglie, fardelli e cartoni per impianti di imbottigliamento prosegue con la progettazione di monoblocchi di riempimento. E’ del 1992 la realizzazione di una riempitrice isobarica per bottiglie in PET assolutamente innovativa per quei tempi, dotata di importanti brevetti.In par-ticolare la macchina non richiedeva alcuna regolazione e nessun elemento per cambi di forma-to, essendo stata eliminata, prima nel suo genere, anche la coclea in ingresso grazie all’utilizzo di una speciale stella distanziatrice. La macchina e il relativo impianto vennero venduti allo stabilimento Coca Cola di Bergamo, concretizzando così un primo importante successo. Con questa realizzazione iniziò la fornitura di linee complete di imbottigliamento, agendo come in-tegratori. È poi del 1993 la realizzazione di un Sistema di Acquisizione dati dedicato al controllo e la gestione delle linee di imbottigliamento. Il progetto fu presentato agli imbottigliatori Coca-Cola in occasione del loro meeting annuale. Negli anni sono mutate anche le sedi produttive: nel 1991 si assistette al primo trasferimento in via Mutta e in seguito, sempre allo scopo di poter utilizzare spazi maggiori, la ditta si insediò in località Madregolo di Collecchio, Parma.

Nel 1995 la Berchi di Sala Baganza acquisisce il pacchetto di maggioranza della Parmatec. Rinaldo Chiapponi ne diviene presidente, mentre Giovanni Gallinari e Ermes Battistini riman-gono soci di minoranza. È grazie alla sinergia con questo impor-tante e riconosciuto leader nel settore del Packaging che Par-matec si afferma rapidamente come produttore di soluzioni complete per il settore del be-verage. Nel 2005 la Parmatec si fonda per incorporazione con la Berchi trasferendo tutta la produzione presso la sede di Sala Baganza dando vita alla nuova ragione sociale Berchi Group SPA.

1990 - LA PARMATEc

Gruppo riempimento e tappatura bottiglie, 1995

Nel 1988 nasce Sima con sede a Cavria-go, Reggio Emilia. I fondatori sono Eugenio Dall’olio, Franco Castagnetti, Gianni Melli, Saturno Ferrari, oriano Coscelli, Daniele Be-nedini, Paolo Montali, provenienti tutti dalla Co.MA.Co. di Montecchio Emilia. Presiden-te e consigliere delegato furono Eugenio Dall’olio e Franco Castagnetti.

Stante le esperienze acquisite dai soci fondatori, l’azienda si sviluppa rapidamente nel settore della progettazione e costruzione di palettizzatori, depalettizzatori e aggraffa-trici per barattoli in banda stagnata.

Soprattutto con riferimento alle aggraf-fatrici sono stati applicati concetti di alta af-

fidabilità e igienicità, ponendo il prodotto all’attenzione di una clientela sempre più esigente e qualificata. L’alta tecnologia delle aggraffatrici prodotte ha permesso alla Sima di ottenere alti consensi anche per i palettizzatori e i depalettizzatori al punto da poter offrire linee com-plete di confezionamento per prodotti derivati dal pomodoro, dalla carne e prodotti per cani e gatti e altri animali.

Nel 1992, per problemi di spazio, la società si è trasferita nella nuova sede in via G. Galilei 18 a Montecchio Emilia, Reggio Emilia,.

Nel 1993 entra nella sede della Sima la società IFM (Italian Filling Machinery), specializza-ta nella progettazione e costruzione di riempitrici volumetriche a pistoni rotative, colmatrici sottovuoto e telescopiche, capsulatrici per capsule twist-off, pastorizzatori e raffreddatori. La IFM era stata fondata da Sergio Cornali proveniente dalla FBL Sala Baganza e Giancarlo Allodi proveniente dalla zilli&Bellini Parma. La Sima unitamente alla produzione delle macchine IFM ha la possibilità di fornire linee complete per il 90% di costruzione diretta: la conseguenza è un rafforzamento della fiducia da parte della clientela, situata soprattutto in Germania, Fran-cia, Nord Africa ed Estremo oriente.

Nel 1998 sia Sima che IFM entrano nel Gruppo Sympak, avendo quest’ultima acquisito il pacchetto di maggioranza di entrambe. Dopo anni di successi sia tecnologici che di am-pliamento dei mercati, nel 2008 il Gruppo Sympak cede il ramo di attività della Sima e IFM al gruppo Cft di Parma, che costituisce la divisione Cft Packaging con i marchi Sima e Co.MA.Co., mantenendo la sede produttiva di Montecchio.

1988 - LA SIMA

Montaggio gruppi aggraffatrici, 1992

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BIBLIoGRAFIA E noTE1 G. Gonizzi, Anni di Latta, Editore Fiere di Parma, Parma 1995.2 G. Gonizzi, Anni di Latta, Editore Fiere di Parma, Parma 1995.3 A. Minardi, F. Ficarelli, Storie di imprenditori Montecchiesi, T&M Associai Editore, Reggio Emilia 1995. G. 4 U. Delsante. L’industria meccanica a supporto del comparto alimentare nell’anteguerra, http://www.museidelcibo.it/allegato.asp?ID=5598905 G. Gonizzi, Anni di Latta, Editore Fiere di Parma, Parma 1995. 6 A. Minardi, F. Ficarelli, Storie di imprenditori Montecchiesi, T&M Associai Editore, Reggio Emilia 1995.7 Gonizzi, Anni di Latta, Editore Fiere di Parma, Parma 1995.8 A. Minardi, F. Ficarelli, Storie di imprenditori Montecchiesi, T&M Associai Editore, Reggio Emilia 1995. G.

Nel 1991 si costituisce la Alsim con sede nel quartiere Moletolo a Parma. La fondatrice è olivia Simonazzi insieme a Marco Pulli, Gabrile Stocchi, provenienti tutti dalla Simonazzi.

I fondatori, forti dell’esperienza acquisita nella ditta di provenienza, iniziano immediata-mente la progettazione e costruzione di macchine e linee per l’imbottigliamento.

Il prestigio del nome Simonazzi contribuì, insieme alla qualità delle macchine, al rapido successo della nuova azienda, riscuotendo consensi presso una vasta clientela, anche al di fuori dai confini nazionali.

Alla fine degli anni ’90, olivia Simonazzi si rende conto che competere con concorrenti del calibro di Procomac, Krones, Sig, Khs era un’impresa ardua, e si pose l’obiettivo di con-vogliare l’azienda in un gruppo di pari potenzialità dei competitor; nel 1997 decise di fare entrare in società la Sidel, inizialmente con la quota azionaria del 33%, passata poi all’80% nel 1999 e infine nel 2002 alla totale acquisizione delle azioni Alsim. Subito olivia Simonazzi esce dall’azienda e tutta l’attività è incorporata nella Sidel Filling, con sede a Baccanelli, Par-ma, già detentrice del marchio Simonazzi.

1991 - LA ALSIM

Sede dell’azienda, 1992

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I PIonIERI

Siamo invitati, ora, a sperimentare l’emozione di un incontro, quasi un contatto, con la generazione imprenditoriale del dopoguerra, con i “pionieri” del comparto delle tec-nologie agroalimentari del parmense, leggendo le loro testimonianze auto-biografiche, perciò vibranti, essenziali ed esemplari, sgorgate, con spontaneità e partecipazione, nel corso di alcune significative interviste.

Questi protagonisti che sintetizzano il passaggio dalla manualità artigiana alla promo-zione tecnologica, associando praticità e creatività, riprendono lo spirito e l’avventura degli iniziatori dell’800 e riescono a trasmettere il loro entusiasmo per la passione di futuro con cui hanno affrontato o affrontano il loro presente.

Le interviste ci fanno cogliere, alla radice, lo spirito di appartenenza che accomuna i nostri “pionieri”, essendo il fattore “parmigianità” un dato di fatto e di valore che anima una cultura in cui la tradizione convive con la singolarità e la originalità di ciascun ope-ratore sospinto alla ricerca e alla innovazione.

Si può partire da questa eccezionale esperienza di uomini che sentono di mettere a frutto i propri talenti per la migliore destinazione “consumieristica” dei prodotti della terra, nella loro variopinta e festosa gamma, al servizio della vita umana, perché c’è qui, in sostanza, il germe di una possibile investigazione di “sociologia del lavoro” intrecciata con la identità storica del territorio parmense.

Questa identità si costruisce e si mantiene, nella continuità peculiare, senza stagna-zioni anomiche e senza rigettare – e anzi, incorporando – i fattori divenienti dell’antica ruralità dalla quale tutto proviene e che tutto ha animato, nei secoli, nella vasta articola-zione dei mestieri e delle invenzioni, e nella sapiente “divisione del lavoro” – nei campi, nelle acque, nelle vegetazioni cicliche o differenziate, negli allevamenti, nelle botteghe, nei mercati – sino a farci riconoscere la “civiltà contadina” nelle stesse giunture della modernizzazione e della tecnologia quotidiana.

Non deve sfuggirci, infine, la tensione etica che si accompagna all’appassionata im-presa di questi “pionieri” che, mentre si aprono al mondo per finalizzare la propria arte inventiva, dichiarano, più volte, di voler difendere il primato della famiglia, e dei suoi va-lori, sui quotidiani assilli aziendali e rappresentativi, che sono, certo, strumenti preziosi, ma solo “strumenti”, non totalizzanti al punto da oscurare la vita!

di Angelo Scivoletto

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noME: Bruno DarecchionATo IL: 03/05/1915ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Progettista ed inventore, nel secondo dopo guerra ha lavorato come libero professioni-sta alla Manzini; negli anni ‘60 ha fondato e diretto la Darecchio Srl. In seguito al suo pen-sionamento, la ditta è ora gestita dai figli.

Settant’anni di lavoro, di progetti, di in-venzioni applicate al settore industriale in generale, non solo a quello agroali-mentare; l’ingegnere Bruno Darecchio, durante la Seconda Guerra Mondiale, era impegnato nell’elaborazione, per l’esercito italiano, di una soluzione capa-ce di rendere più efficiente la difesa con-traerea: studiava balistica e l’applicava all’elettronica, cercando di inventare… il radar.

Lei vanta una lunga esperienza che spazia dal campo militare a quello agroalimenta-re. come ha sviluppato questa pluralità di competenze?Mi sono laureato piuttosto rapidamente in in-gegneria: anche se provenivo dagli studi clas-sici, mi piaceva la geometria, e all’Università scoprii la mia passione per la progettazione di impianti. Al Politecnico di Milano seguivo con grande passione tutte le lezioni di Scien-ze della Costruzione. Pensando a cosa potevo fare nella mia vita, pensai di dedicarmi anche

al campo dell’elettronica, perché ero convinto che avrebbe potuto ottimizzare i tempi di rac-colta dei dati. Riuscii a fare esperienza pratica di queste nozioni direttamente sul campo, du-rante la guerra, quando fui chiamato a Roma per studiare balistica applicata all’elettronica. In pratica, si trattava di progettare un radar.

Quando è avvenuto il contatto con il setto-re agroalimentare?Era destino che iniziassi a operare in questo settore come libero professionista, visto che la mia tesi di laurea era dedicata al progetto di uno stabilimento innovativo per produrre concentrati di pomodoro. Nel 1951 proget-tai un cuocitore automatico e continuo per trasformare il sugo di pomodoro in concen-trati di alta qualità perchè ottenuti più rapi-damente e a basse temperature, grazie a un moderno finitore integrato da un regolatore elettronico. La ditta Manzini trovò straordina-rio il mio progetto, e lo appoggiò in pieno. La Manzini cedette il regolatore automatico alla ditta parmigiana Maselli che lo ha diffuso in tutto il mondo, anche per altre applicazioni industriali come il refrattometro elettronico.

Quale fu il successo di questo impianto e quali furono le successive invenzioni?Il concentratore continuo e completamente automatico “Brevetti Darecchio” ha ottenuto un grande successo internazionale e per cir-

ca 10 anni non ha avuto alcun concorrente. Il cliente più importante è stato l’Unione Sovie-tica che nel 1970 ha ordinato alla ditta Man-zini i suoi primi sei cuocitori Darecchio. Dal 1978 al 2008 ho poi costruito principalmente impianti automatici continui e molto originali per sgusciare vongole o altri molluschi a due valve. Nel 1980 ho fornito alla Nestlè un eva-poratore continuo per prodotti di altissima viscosità, che ho chiamato Turbon.

Quando è stata costituita la Darecchio?Erano i primi anni ’60, avevo delle liquidità da parte, e mi misi in proprio, ma non in con-correnza con la ditta Manzini. Iniziai con la ricezione di un ordine giunto da una ditta di Siena per una macchina per candire la frut-ta; poi lavorai per la ditta italiana zuegg, che in collaborazione con la tedesca Shwatauer Werk di Lubecca ha applicato nel suo stabili-

mento di verona un apparecchio canditore di maggiore potenzialità produttiva. Dovemmo lavorare nel piazzale di un’officina di Fontevi-vo (Parma) per avere lo spazio sufficiente per questa realizzazione. Ciò di cui vado più orgo-glioso è però il fatto di non avere mai dovuto spendere neanche un centesimo in pubblici-tà: il nome “Ing. Darecchio” bastava a suscitare la massima fiducia in chi operava nel settore dell’agroalimentare.

che rapporto aveva con i suoi dipendenti?Per comprendere il clima che regnava alla Da-recchio basta dire che iniziammo più o meno tutti insieme, e più o meno avevamo la stessa età: i miei dipendenti andarono quasi tutti in pensione nel 1998, dopo tanti anni di fedeltà assoluta alla mia azienda, e io volli andare in pensione con loro. Erano ottimi lavoratori, e loro si trovavano bene con me: dicevano sem-pre, al momento della busta paga, che “nean-che le banche pagavano così puntualmente”.

è soddisfatto delle scelte lavorative che ha fatto nel corso della sua professione?Assolutamente sì, sono davvero molto sod-disfatto di ciò che ho fatto e di ciò che ho in-ventato. Ancora adesso alla notte, invece che contare le pecore, per addormentarmi conto gli apparecchi canditori che ho costruito.

di Matteo Sartini

L’uoMo DALLE MILLEInnoVAzIonI TEcnoLoGIchE

Bruno Darecchio

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noME: Camillo CatellinATo IL: 07/02/1919ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Ha iniziato a lavorare nel settore dell’impian-tistica alimentare, presso la Oreste Luciani. Ha poi fondato la Rossi&Catelli, marchio sto-rico del settore e conosciuto in tutto il mon-do, sino a creare l’odierna Catelli Holding.

Camillo Catelli, ovvero una bella e im-portante fetta della storia del settore delle tecnologie agroalimentari. Con la sua Rossi&Catelli, fondata nell’immedia-to dopoguerra insieme ad Angelo Rossi, ha inventato, costruito, perfezionato ed esportato macchinari per la lavorazione agroalimentare in tutto il mondo, diven-tando simbolo dell’eccellenza del territo-rio parmense.

catelli, la sua storia parte da lontano; come è entrato nel mondo delle tecnolo-gie alimentari?ho iniziato a lavorare fin da giovanissimo, era-no gli anni ’20, come garzone in diverse botte-ghe presenti a Parma; avrò avuto all’incirca 7 o 8 anni. Ma fu entrare nella ditta oreste Luciani che cambiò la mia vita: imparai a muovermi e a lavorare nel settore delle tecnologie agroa-limentari; feci un’esperienza sul campo che si rivelò fondamentale per aiutarmi ad avviare una mia attività. Molto di ciò che ho imparato nel mio lavoro, l’ho imparato alla Luciani.

Fino a quando lavorò alla Luciani?Fino al 1939, quando scoppiò la guerra e io andai a fare il radiotelegrafista a Udine; il gior-no dell’armistizio, l’8 settembre 1943, tornai a Parma, e decisi di aprire una piccola attività in vicolo Santa Maria insieme a qualche ami-co. Producevamo e riparavamo macchine per zuccherifici e industrie conserviere.

La ditta si è poi trasferita in via Budellun-go…Quella di via Budellungo è stata la sede sto-rica della mia impresa, e fino a pochi anni fa era là che lavoravamo e producevamo le no-stre macchine. Fu sempre in quegli anni che conobbi l’ingegnere Angelo Rossi con il qua-le fondai la Rossi&Catelli, il marchio con cui fummo poi conosciuti ovunque. Proprio per la notorietà che avevamo acquisito, decisi di conservare il nome dell’azienda anche quan-do la mia strada si divise da quella di Rossi, che negli anni ’50 se ne andò in America; eravamo molto ben conosciuti, cambiare nome sareb-be stato dannoso.

Quali sono state le innovazioni tecnologi-che che hanno cambiato più in profondità il suo lavoro?Bisogna partire dall’evaporatore a circolazione forzata discendente “Anteo”, da noi brevet-tato nel 1957 in collaborazione con la heinz. Grazie ad “Anteo” sbarcammo negli Stati Uniti

e installammo 50 impianti in California, e più di 500 in tutto il mondo, guadagnando una notorietà incomparabile. Da questo primo brevetto sviluppammo nel 1973 gli evapora-tori della serie “Califfo”, che si distinguevano per l’utilizzo della circolazione forzata su tutti gli effetti, e il concentratore continuo “venus”, in grado di lavorare fino a 14.400 tonnellate di pomodoro al giorno.

Può indicare anche altre importanti inven-zioni della Rossi&catelli? Sicuramente la pelatrice “vesuvio” con il Siste-ma Termofisico; le passatrici raffinatrici “But-terfly e Giubileo”, ad alta capacità estrattiva; il sistema brevettato per la disattivazione enzi-matica “hot Break”, modello “Eldorado”. Negli anni ‘70 sviluppammo gli impianti continui “Fredor” per la liofilizzazione. Poi vi fu l’ingres-so nel settore lattiero-caseario con il nuovo

impianto brevettato per la eterizzazione UhT (ultra high temperature) STEMATIC LONG RUN. Nel 1977 vi fu la gamma di sterilizzatori “olimpic” fino ad “Apollo”, l’ultimo evaporatore a film cadente realizzato con ricompressione meccanica, ad alto risparmio energetico.

Qual è stata la filosofia alla base dello svi-luppo della sua azienda?Investire importanti risorse nella ricerca per in-novare il know-how e la tecnologia ed ottene-re decine di brevetti che, in alcuni casi, hanno radicalmente trasformato i tradizionali metodi di lavorazione, e portato innovazioni indispen-sabili per assicurare ai nostri clienti prestazioni superiori e maggiore competitività.

oggi lei ha costituito la catelli holding: come è giunto a questa coraggiosa deci-sione?Il mercato mondiale richiede sempre più for-niture complete e assistenza post vendita. In questa ottica ci siamo impegnati nell’acqui-sizione di aziende leader nei settori del food processing e packaging. Molte di queste, come la Manzini, la Comaco, la Sima, la FBR Elpo, la Raytec erano state acquisite da azien-de multinazionali italiane ed estere e portarle alla parmigianità originale è stato per tutti noi motivo di grande soddisfazione.

di Matteo Sartini

cATELLI, L’ARTIGIAnoDELL’InGEGnERIA

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Camillo Catelli

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noME: Angelo RossinATo IL: 15/11/1920ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Fondatore della Rossi & Catelli di Parma, si ritirò negli anni Cinquanta per costruire mo-tociclette, ma ritornò presto nell’ambiente fondando la Rossi Ing. A. Impianti Industria-li, che conduce tuttora insieme ai suoi figli.

È un nome storico per la città, un vero pioniere per il settore, un ingegnere a tut-to tondo, visto che si è occupato anche di motori, e un uomo dalla vita avventu-rosa: ecco in breve la biografia di Angelo Rossi, fondatore della Ing. Angelo Rossi e testimone dei numerosi cambiamenti che il settore ha affrontato negli anni.

Ingegnere, una vita davvero avventurosa la sua: partiamo dagli inizi, la laurea e il pri-mo lavoro, come è andata?Studiavo al Politecnico di Milano, e mi laureai durante la Seconda Guerra Mondiale. Dato che i mezzi di trasporto su binario non erano affidabili a causa dei bombardamenti, per discutere la tesi partii in bicicletta da Parma il giorno prima, e una notte fui anche trattenuto come prigioniero dalle Camicie Nere, in attesa che potessi chiarire la mia assenza dal fron-te. Ne uscii con un po’ di fortuna. Rientrato a Parma, e tornata la normalità dopo la guerra, conobbi, tramite il ragioniere Cecchi, Camillo Catelli, e con lui collaborai per mettere in fun-

zione alcune macchine per il pomodoro che una famosa ditta dell’epoca aveva comprato, ma che non funzionavano.Quel lavoro andò molto bene, e con una sem-plice stretta di mano fondammo la “Rossi & Ca-telli”; aprimmo un’officina in un borgo di Par-ma per riparare le macchine che lavoravano il pomodoro, che allora erano in rame. Catelli aveva l’esperienza sul campo, io ero ingegne-re: ci integrammo alla perfezione.

E vi gettaste sul perfezionamento delle macchine con il solo materiale a disposizio-ne…Esattamente. Per prima cosa, modificai le mac-chine passatrici: fino ad allora - e stiamo par-lando della fine degli anni Quaranta - queste tipologie di macchine separavano pelli e semi con un movimento assiale. Io le modificai in-troducendo la separazione centrifuga, che dava risultati molto migliori. Dopo poco tem-po, furono definitivamente abbandonate tutte quelle a separazione assiale e furono adottate quelle adattate con la mia modifica.

Quali altre modifiche apportaste alle mac-chine tradizionali?Come detto, i macchinari con cui avevamo a che fare, le bull, erano in rame. Ma i fogli di rame che ne ricoprivano il fondo erano im-perfetti, non uniformi e di vario spessore. Io e Catelli ci concentrammo sulla modalità di

rendere uniforme il fondo, per diminuire an-che il peso della macchina stessa. Usammo un foglio di lamiera su cui lavorammo speri-mentando idee e soluzioni che ci venivano in mente sul momento, e creammo i fondi di lamiera da lastra. I vantaggi erano molti: uni-formità, innanzitutto, ma anche una maggiore purezza, quindi migliore trasmissione di calore e maggiore rendimento.

La sua strada si divise però presto da quella di catelli.Esatto, per alcune incomprensioni ci dividem-mo, e lui mantenne il nome dell’azienda. Io mi buttai nel mondo dei motori e creai la “Moto Rossi”, un motociclo di grandi prestazioni per l’epoca, che raggiungeva anche i 140 chilome-tri all’ora come punta di velocità. Progettavo il motore e il telaio, e ottenni alcuni successi, ma l’ingresso dei grandi gruppi rovinò i miei

piani, perché iniziarono a dilatarsi troppo i pa-gamenti e la situazione divenne insostenibile. Così tornai al mio vecchio settore delle mac-chine per il pomodoro.

Lei ha poi fondato una nuova azienda, la Rossi Ing. A. Perchè questa scelta? E quali sono state le difficoltà incontrate?Non è stato facile; dovetti partire da zero, fa-cendomi conoscere dal mercato, “raccoglien-do” anche clienti che magari altri non avevano accettato. Ma sono state fondamentali la co-stanza e la tenacia, due doti preziose in que-sto mestiere e per chi decide di intraprendere un’attività. Riuscii ad emergere e a fare affer-mare il mio lavoro . Poi mi aprii verso altri set-tori, in particolare verso le macchine per i suc-chi di frutta, ambito produttivo in cui abbiamo lavorato fino a oggi.

cosa consiglierebbe a un giovane che vo-lesse iniziare a lavorare oggi in questo set-tore?Di inseguire con costanza e tenacia la pro-pria aspirazione lavorativa senza farsi sco-raggiare dai primi insuccessi, dalle prime difficoltà. È ovvio però che un ragazzo deve essere sicuro di volere intraprendere questa strada, piena di ostacoli: per questo occorre essere determinati.

di Matteo Sartini

InGEGnERE E uoMoDALLE GRAnDI IDEE

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noME: Enzo Benedini nATo IL: 07/11/1926ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Agente di commercio. Ha lavorato nel cam-po dell’agroalimentare come rappresen-tate per la vendita di macchinari prodotti dalle più importanti aziende del territorio.

Enzo Benedini ha alle spalle 65 anni di lavoro, quasi tutti spesi nel campo dell’agroalimentare come rappresen-tante per la vendita di macchine pro-dotte dalle più importanti aziende del territorio.

Qual è stata la sua formazione e come si è svolto il suo percorso professionale?ho cominciato a lavorare fin da giovane, fa-cendo svariate attività, ma è stato nel 1949 che sono entrato nel comparto agroalimen-tare come agente di commercio per alcune società di imballaggio e metalmeccanica. Con gli anni mi sono fatto conoscere nel set-tore e sono stato chiamato da aziende sem-pre più importanti.

La sua posizione l’ha portata quindi a la-vorare in un certo numero di aziende, ac-quisendo molta esperienza...Nel 1963 sono entrato alla Manzini, specializ-zata in impianti per la lavorazione, trasforma-zione e concentrazione del pomodoro. Nel

1975 sono passato alla Rossi e Catelli che nel frattempo, grazie alla genialità tecnica del si-gnor Camillo Catelli, aveva raggiunto risultati tecnologici più all’avanguardia della Manzini. Nel frattempo ero anche il rappresentante di altre importanti aziende come la Faba, una fabbrica che produceva barattoli, e la Coma-co, che forniva macchinari per la movimen-tazione e l’imballaggio; di quest’ultima sono stato anche socio e vice presidente.

Quali erano le tecniche utilizzate nel cam-po agroalimentare agli inizi della sua car-riera e come si sono evolute? Quando ho iniziato, a Parma e nelle pro-vincie vicine c’erano 43 conservifici. oggi si sono ridotti a poco più di una decina che però producono molto di più rispetto ai miei tempi. Questo vuol dire che il mercato ha costretto le aziende ad aumentare le proprie dimensioni; e quelle più piccole sono state assorbite oppure hanno cessato l’attività. Poi, naturalmente, ci sono stati dei notevoli miglioramenti tecnici. Una volta la raccolta e il trasporto del pomodoro avvenivano ma-nualmente, mentre oggi tutto è meccaniz-zato. Contemporaneamente, le ricerche sul pomodoro hanno permesso di creare varietà con la buccia più resistente che regge meglio la lavorazione meccanica.

Qual è la differenza principale fra passato

e presente nella raccolta del pomodoro?Agli inizi la raccolta dei pomodori occupava cinque o sei tornate, perché la maturazione avveniva in periodi differenti; oggi è possibile far maturare i pomodori quasi tutti insieme, cosicché l’80% circa della raccolta avviene si-multaneamente.

come si sono modificate negli anni le rela-zioni imprenditoriali e lavorative?Chi opera oggi nel campo dell’imprenditoria non può fare a meno di tenere in considera-zione la globalizzazione. Con l’abbattimento delle barriere, i nostri prodotti hanno spesso subito la concorrenza sleale dei marchi stra-nieri e numerosi tentativi di contraffazione. In Italia abbiamo dei prodotti tipici unici a livello mondiale, irriproducibili, e per questo dovrebbero essere maggiormente tutelati a livello legislativo.

Famiglia e lavoro si possono conciliare?Mio figlio e mio nipote hanno continuato la mia attività e conducono oggi l’agenzia di commercio Benedini&Bertoletti. Prima anco-ra di trasmettergli le conoscenze lavorative, che avevo acquisito nella mia carriera, gli ho insegnato i valori della famiglia, che a mio pa-rere sono il cardine dei rapporti umani.

che impressione ha dei giovani che oggi si avvicinano al mondo del lavoro?A mio parere, dovrebbero essere più umili e pazienti. I giovani di oggi vogliono tutto e subito, e spesso pretendono di raggiungere privilegi e posti di rilievo quando ancora non hanno la giusta maturità. L’esperienza svilup-pata nella mia vita mi ha portato a capire che quando si entra nel mondo del lavoro biso-gna iniziare con serietà e spirito di servizio, e farsi conoscere pian piano per le proprie qualità. Al momento giusto le gratificazioni arriveranno.

Rifarebbe le scelte compiute finora?Sono molto soddisfatto della mia carriera. ho sempre lavorato con serietà e mi sono sem-pre fatto apprezzare. Ancora oggi, quando contatto le aziende con cui ho avuto rapporti lavorativi, sono sempre ricevuto con stima e ammirazione.

di Vincenzo Pirillo

IL SEGRETo DEL MIoSuccESSo? LA SERIETà

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noME: Carlo Testa nATo IL: 27/11/1927ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Responsabile dei Servizi Tecnici Generali del-la Bormioli Luigi dal 1964 al 1987. Andato in pensione, ha continuato a lavorare come consulente fino al 1996. Oggi è impegnato nella concessionaria Gruppo Ferrari.

La carriera professionale dell’ingegner Carlo Testa inizia nel lontano 1958, quando, fresco di laurea in ingegneria meccanica, fu assunto da un’industria vetraria francese con sedi a Milano e Roma. Dopo sei anni decide di tornare a Parma presso la Bormioli Luigi, azienda specializzata nella produzione di artico-li in vetro per la casa e flaconi per l’alta profumeria.

come ha iniziato a lavorare alla Bormioli?Nell’azienda francese mi trovavo bene e avevo raggiunto, dopo pochi anni, il ruolo di vicedi-rettore, ma l’obiettivo era quello di avvicinar-mi a casa. Così attraverso un amico ingegnere sono entrato in contatto con la Bormioli Luigi, dove sono stato assunto nel novembre del 1964 come Responsabile dei Servizi Tecnici Generali.

Per quanti anni è rimasto all’interno dell’azienda?Sono andato in pensione nel 1987, ma per

altri dieci anni ho continuato a svolgere ope-ra di consulenza, fino a quando nel 1996 mi sono definitivamente ritirato. Ancora oggi continuo comunque a lavorare come consulente per la concessionaria del Gruppo Ferrari, di cui sono soci i miei due fi-gli.

Torniamo alla Bormioli. come era organiz-zata la produzione?L’azienda aveva due tipi di produzioni: da una parte i flaconi per i profumi, che presentava-no un maggiore valore aggiunto, grazie a un design sviluppato in base alle richieste delle aziende di profumi; dall’altra i bicchieri e le bottiglie di vetro per liquidi alimentari, che invece avevano costi di vendita più bassi. Nel corso degli anni un grande cambiamento ha interessato le bottiglie di acqua minerale, per le quali la plastica ha sostituito quasi comple-tamente il vetro. Una scelta dettata dalla mag-giore praticità, ma che ha causato problemi di inquinamento.

come è cambiata la produzione nel corso degli anni?La grande rivoluzione è stato il passaggio dal-le macchine meccaniche a quelle elettroni-che, che sono controllate da un’unica scheda centrale e funzionano meglio. Se però la scheda si blocca si ferma tutto il si-stema, e bisogna aspettare che venga sostitu-

ita prima di riprendere la produzione. Una vol-ta invece si poteva intervenire sui singoli pezzi degli asservimenti meccanici. Sostanzialmen-te identici sono rimasti anche i forni refrattari all’interno dei quali si fonde il vetro, perché vengono costruiti sempre con gli stessi mat-toni resistenti alle alte temperature. Fino agli anni ottanta funzionavano però a metano o a olio combustibile, mentre in seguito sono stati introdotti sul mercato i forni elettrici, che creano meno dispersione di energia e meno inquinamento. Erano aziende inglesi che for-nivano i relativi progetti alla Bormioli.

Per la fornitura di macchinari esistevano delle collaborazioni anche con aziende lo-cali?Dalla zecchetti compravamo i nastri traspor-tatori per la movimentazione delle bottiglie, che erano in acciaio perché dovevano tra-

sportare bottiglie che uscivano dal forno di ricottura a 50 gradi. oggi i nastri sono stati al-largati un po’ rispetto al passato, e questo per-mette di trasportare più bottiglie e far avan-zare più lentamente il nastro. Per noi ocme ha costruito il prototipo del palettizzatore di bottiglie per succhi di frutta, con l’obiettivo di ridurre gli spazi occupati e di conseguenza i costi di trasporto.

Dal suo punto di vista, come è cambiato il lavoro per i dipendenti?oggi i lavoratori sono molto più autonomi che in passato, e fanno affidamento sulla macchi-na di riferimento. Una volta invece c’era un maggiore contatto umano tra gli operai e i propri supervisori.

Per concludere, quale consiglio si sente di dare ai giovani che si avvicinano oggi al mondo del lavoro?Dal mio punto di vista bisogna cercare di fare un lavoro che piace, nel quale si possa met-tere tutta la propria passione, perché altri-menti si rischia di arenarsi strada facendo. Io per esempio ero un “maniaco” degli impianti meccanici e industriali, e fin da quando sono uscito dall’Università ho cercato di inserirmi in questo settore. I risultati poi sono venuti di conseguenza.

di Vincenzo Pirillo

un conSIGLIo? FAREun LAVoRo chE PIAcE

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noME: Luciano Del SantenATo IL: 16/04/1930ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:È un ex perito industriale meccanico, con una breve esperienza come Istruttore mec-canico industriale. Ha operato presso la ditta Rossi, dell’ing. Angelo, e la Simonazzi, dove restò fino alla pensione nel 1990.

Una vita, un lavoro, un’azienda: Luciano Del Sante ha legato indissolubilmente la propria carriera lavorativa alla Simonaz-zi, entrando nell’ufficio tecnico come dise-gnatore nel 1952. Erano in due operatori allora: quando se ne andò in pensione, nel 1990, erano diventati 60. Tempi che cambiano e dimensioni dell’azienda che si espandono. E la tecnologia si evolve.

Qual è il punto di partenza per poter rac-contare la sua lunga attività lavorativa?Certamente è l’incontro con Franco Tincati, persona fondamentale per la mia carriera. Era il 1952, lui lavorava nell’ufficio tecnico della Simonazzi, che Ampelio, il titolare, aveva in-tenzione di ampliare, partendo dall’officina di fabbro che aveva ereditato dal padre. Tincati era da solo in quell’ufficio e aveva bisogno di un collaboratore, di un disegnatore: è così che entrai in quell’impresa tanto importante per la mia vita. L’azienda era ancora piccola, e il clima era molto familiare. Io mi occupavo soprattut-to di lavatrici, Tincati di riempitrici.

che strumenti usava nel suo lavoro?Io avevo un tavolo da disegno, il tecnigrafo. Certo, l’avvento dell’innovazione tecnolo-gica e dei computer erano ancora lontano. Ma anche per le fotocopiatrici vale lo stesso discorso: gli originali erano su carta lucida, e avevamo un enorme archivio, davvero scon-finato, dove erano conservati tutti i fogli e i disegni originali fatti a mano, indispensabili per la nostra attività. L’informatica arrivò solo negli anni ’90, quando io andai in pensione, e non ho potuto imparare ad usarla.

Qual era l’iter per trasformare l’idea in prototipo?Molto semplice: sul disegno erano contenute le indicazioni essenziali per realizzare la mac-china. Questo era un documento essenziale. Fatto il disegno, i primi tempi si andava diret-tamente dall’operaio, per parlare con lui della realizzazione del progetto su carta. Più avanti, con l’allargamento dell’impresa, venne creato un Ufficio Produzione, che raccoglieva i dise-gni, li schedava e scandiva i tempi di realizza-zione. E poi c’era la questione dei costi per la realizzazione delle idee: ricordo che Ampelio Simonazzi, una volta vista la prima bozza di progetto, diceva sempre: costa troppo!

che ricordo ha di Ampelio Simonazzi?ottimo, davvero meraviglioso. Aveva fatto una cosa straordinaria, portando quell’of-

ficina di fabbro a fornire macchine in tutto il mondo. ho tantissimi ricordi legati a lui, quando andavamo in trasferta all’estero, per trattare con un cliente, lui prendeva sempre su me o Tincati, raccomandandoci di non parlare mai col cliente: eravamo tecnici, quel-lo che sapeva vendere era lui. Se, durante il colloquio, aveva bisogno di chiarimenti da parte nostra, si rivolgeva a noi in dialetto par-migiano: gli interpreti non hanno mai capito di cosa parlassimo.Anche quando l’azienda è cresciuta, assumendo sempre più persone e assistendo quindi all’ingresso dei sindaca-ti, ho sempre preteso da loro una cosa sola: rispetto per Ampelio, perché aveva dato il lavoro a tutti noi.

Qual è stato il cambiamento più grande avvenuto durante la sua esperienza?Indubbiamente il passaggio dalle macchine

manuali e semiautomatiche a quelle auto-matiche: andammo a vedere il primo prototi-po arrivato dalla Germania proprio qui a Par-ma, alla Centrale del Latte, e lo studiammo a fondo. Poi le evoluzioni sono state profonde in funzione delle richieste dei clienti, che na-turalmente volevano macchine capaci di ca-richi di lavoro sempre più impegnativi, e dei prodotti lavorati: vino, acqua minerale, bibite, latte, succhi di frutta e ognuno di essi necessi-tava di una macchina diversa.

Rimpiange qualcosa della sua carriera?Assolutamente nulla: io sono davvero molto soddisfatto, anzi devo dire che in un certo senso mi è dispiaciuto andare in pensione, perché il mio lavoro e le persone con cui ho lavorato mi piacevano molto. E il mio deside-rio sarebbe quello di poter mettere al servizio della comunità la mia esperienza: oggi forse manca la fase di apprendistato per i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro. Perché non dare la possibilità, per i neo pen-sionati che lo desiderano, di formare questi giovani in attesa di occupazione, con veri e propri Centri di Formazione - Lavoro? Il punto focale, secondo me, è che si guarda ai pen-sionati come ad un problema, mai come ad una risorsa: bisogna cambiare questa impo-stazione. di Matteo Sartini

un DISEGnAToREcon cARTA E PEnnA

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Luciano Del Sante

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noME: Aldo MigliavaccanATo IL: 05/03/1930ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:È il proprietario dell’azienda Carlo Miglia-vacca, ditta di lunga tradizione fondata nel 1875 e specializzata nella costruzione di macchine per l’industria alimentare e con-serviera. Oggi riveste il ruolo di consulente.

L’azienda “Carlo Migliavacca”, fondata nel lontano 1875, opera nella costruzio-ne di macchine per l’industria alimenta-re e conserviera.Aldo Migliavacca entrò giovanissimo nella ditta di famiglia, e ancora oggi continua a svolgere lavoro di consulen-za.

Qual è stata la sua formazione signor Mi-gliavacca?Ai miei tempi non si pensava certo a studiare. Già nel 1943, a soli 13 anni, ho cominciato a la-vorare nell’azienda di famiglia, che era di pro-prietà di mio padre e dei miei zii. La nostra è una ditta con una lunga storia alle spalle, basti pensare che la prima iscrizione all’albo della Camera di Commercio fu firmata da mio non-no, Carlo Migliavacca, nel 1875. Siamo di certo una delle aziende più longeve tra quelle che ancora oggi operano nel nostro territorio.

Quale mansione svolgeva?Quando si entrava così giovani si veniva di-

rottati verso i settori dove c’era più bisogno di manodopera. Posso dire di aver svolto qual-siasi mansione, dalle pulizie alla saldatura, dal-la fresatura alla tornitura. Quest’ultima attività è stata però quella in cui mi sono specializzato maggiormente. Fino all’età di 20 anni le cose sono andate così. Poi nel 1950 mio padre è morto, e i miei zii hanno liquidato dalla socie-tà me e miei fratelli. Io però ho deciso di rien-trare come socio insieme agli zii.

Di cosa si occupa la vostra ditta?Noi realizziamo macchine per l’industria ali-mentare, in particolare pompe di alimenta-zione, che servono per trasportare i prodotti e i dosatori. Le aziende agroalimentari vengono da noi e ci chiedono qual è la macchina migliore per riempire un determinato contenitore con un certo prodotto, e noi realizziamo il prototipo più adatto. Le nostre macchine vengono inse-rite in impianti complessi che ne contengono anche altre prodotte da aziende diverse. Una volta, per esempio, producevamo anche le aggraffatrici, utili per chiudere i barattoli di banda stagnata, ma abbiamo deciso di ab-bandonare questa produzione perché troppo costosa.

Qual è stato il primo settore alimentare per il quale avete prodotto macchinari?Per quanto riguarda gli alimenti, una volta

trattavamo quasi esclusivamente concentrati di pomodoro. In seguito, grazie allo sviluppo di diverse tipologie di dosatori, abbiamo co-minciato a trattare anche altri prodotti come le confetture, gli oli, i succhi di frutta e i con-dimenti vari.

come ha coniugato nella sua vita famiglia e lavoro?Mi sono sposato nel 1955, all’età di 25 anni. Mia moglie era la tipica casalinga di una volta, che si occupava della casa e dei figli, e questo mi ha permesso di dedicare tutte le forze al lavoro. Con gli anni, poi, famiglia e lavoro si sono in-crociati. Mia figlia ha, infatti, lavorato per al-cuni anni nell’azienda prima di abbandonare per motivi familiari; mentre mio figlio è anco-ra qui, e da quando sono in pensione ha preso il mio posto nella gestione dell’attività.

Qual è stato il segreto del successo della sua azienda?La nostra è stata fin dall’inizio una piccola azienda con struttura artigianale, e continua ad essere così anche oggi. Nel corso degli anni abbiamo eliminato le lavorazioni più difficili e costose e non abbiamo mai pensato di fare una politica di espansione, perché sentivamo di non avere i mezzi per competere con la concorrenza industriale. Fino ad oggi è stata una scelta che ha dato i suoi frutti.

come hanno risposte le aziende ai cambia-menti dei mercati economici?La grande differenza è stata sicuramente la globalizzazione. ormai non si può ragionare più in termini locali come avveniva ai miei tempi, ma bisogna essere abbastanza qua-lificati da competere a livello internazionale. Non tutte le aziende sono state capaci negli anni di rapportarsi con questo nuovo model-lo economico, e hanno finito per scomparire o essere assorbite da altre.

Quale consiglio si sente di dare ad un ragaz-zo che entra oggi nel mondo del lavoro?Un ragazzo deve avere alle spalle uno studio serio, perché solo una preparazione adeguata gli permetterà di andare avanti in un mondo lavorativo sempre più competitivo.

di Vincenzo Pirillo

MIGLIAVAccA: unAFAMIGLIA, un’AzIEnDA

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Aldo Migliavacca

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noME: Sergio PaganinATo IL: 23/09/1930ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Genovese, nasce come contabile all’interno di una compagnia di assicurazioni, ma dopo il suo incontro con la famiglia Nasturzio as-sume la direzione dello scatolificio “La Ligu-re Emiliana”, con stabilimento a Parma.

Per chi è nato sul mare, è difficile capire come si possa vivere in pianura, lontano dall’acqua. Ma poi ci si affeziona ai luo-ghi, e lì si rimane a vivere per il lavoro, per la famiglia, per i figli. Ecco la storia di Sergio Pagani, contabile genovese trapiantato a Parma dopo l’incarico come dirigente dello scatolificio “La Li-gure Emiliana” della famiglia Nasturzio. Un’esperienza che, secondo la sua testi-monianza, gli ha cambiato la vita.

come ha iniziato a operare nel settore dei contenitori in banda stagnata?Assolutamente per caso: io lavoravo a Genova per una compagnia di assicurazioni dove mi occupavo di contabilità tecnica. Poi, la Edison, dopo la nazionalizzazione dell’energia elet-trica, fece acquisizioni in tutta Italia, e fu così anche per la società per la quale lavoravo: mi trovai così affiancato da colleghi che volevano insegnarmi il lavoro, senza saperne granché. Ebbi la fortuna di conoscere, nel frattempo, il signor Tito Nasturzio, figlio di Silvestro, fonda-

tore nel 1907 della Ligure Emiliana con sede a Genova Sampierdarena e stabilimento in viale Piacenza a Parma, importante centro di colti-vazione del pomodoro. Il signor Tito mi offrì la possibilità di assumere la direzione dello stabilimento di Parma. La città allora mi stava un po’ stretta, perché troppo piccola rispetto a Genova e nel poco tempo libero mi recavo qualche volta in città più grandi solo per vede-re un po’ di gente. Con il passare del tempo ho avuto modo di apprezzare sempre più Parma ed i suoi abitanti, il suo ordine e il suo verde. Quando iniziò la sua esperienza parmi-giana?Nel 1964 divenni direttore dello stabilimento “La Ligure Emiliana”. La prova più dura, ma allo stesso tempo più entusiasmante, con cui mi confrontai, fu il trasloco dell’intera attività da viale Piacenza - dove Silvestro Nasturzio nel 1907 costruì il suo stabilimento - al quar-tiere Paradigna. La decisione venne presa già nel 1964 per espandere l’attività; poi nel 1969 vennero acquistati 108.000 metri quadrati di terreno nei pressi di quella che oggi si chiama via Forlanini. Lì costruimmo uno stabilimento di 19.000 metri quadrati, un vero gigante.

che ricordi ha di questo trasloco?Furono molte le difficoltà che incontrai, dai pompieri che ogni giorno mi chiamavano per avere garanzie sui sistemi di sicurezza e antin-

cendio, fino all’impianto di riscaldamento, che accesi per riscaldare gli operai che già vi lavo-ravano ancora prima che lo stabilimento fos-se completato. E per questo presi anche una denuncia, da cui uscii però innocente. Un altro episodio legato a questo peiodo, che ricordo in particolare, è quello del contadino con il gra-no maturo, pronto per essere tagliato, proprio sul terreno dove dovevamo costruire. Il pcon-tadino venne nel mio ufficio per implorarmi di aspettare 15 giorni, giusto il tempo di mietere. Decisi che 15 giorni in più non avrebbero fatto del male a nessuno.

nel campo dei barattoli, qual è stata l’inno-vazione più importante?Sicuramente, quella riguardante i lamierini d’acciaio che formavano il corpo dei barattoli, costituiti da fogli sempre più sottili, fino ad es-sere delle vere e proprie veline dallo spessore

di 0,16 millimetri. E poi il rivestimento di sta-gno: nei primi tempi si realizzava immergendo il lamierino in una vasca, con un grande spreco di stagno. Con l’introduzione del procedimen-to per elettrolisi, il consumo di stagno si ridus-se fortemente e il processo di rivestimento fu ottimizzato.

com’era il rapporto con i dipendenti?Avendo 900 dipendenti, di cui la maggior parte stagionali, se ne vedeva di ogni tipo, ma devo dire che i parmigiani sono sempre stati ottimi lavoratori. Erano invece tempi molto duri per quello che riguardava i rapporti con i sindacati: ricordo nottate intere passate all’Unione Indu-striali per giungere a un accordo sui contratti o sugli scioperi. Non era facile, all’epoca, parlare con loro, si era formato un muro fortissimo.

Tutto il tempo che ha investito per il suo la-voro ha avuto ripercussioni sulla famiglia?Indubbiamente sì, e questa è stata una mia colpa, anche se devo dire che lavorare mi ha sempre divertito tantissimo, ed è stato entu-siasmante. Ma più di ogni altra cosa, la mia fortuna è stata quella di aver incrociato il mio percorso con la famiglia Nasturzio, Tito prima, e i figli Silvestro e Saverio poi, poco più anziani di me all’epoca. Sono stati dei gentiluomini, e posso dire di essere stato onorato di avere la-vorato per gente così. di Matteo Sartini

IL GEnoVESE chE ScELSE PARMA E I BARATToLI

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Sergio Pagani

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noME: Geremia GhizzoninATo IL: 23/01/1933ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Ha ereditato dal padre la Dante Ghizzoni & Figlio, trasformandola da una piccola atti-vità artigianale in un’azienda fornitrice di macchine per la lavorazione del pomodo-ro, del tonno e delle confetture di frutta.

Sacrificio e rispetto; rispetto, soprattut-to, del proprio lavoro e delle persone che quel lavoro dividono con te. Questo è stato l’insegnamento morale che Dante Ghizzoni ha trasmesso al fi-glio Geremia, e che ha segnato la vita e la carriera di questo pioniere del setto-re. Ghizzoni ha continuato l’attività, di “ramaio”, del padre trasformandola in un’azienda affermata che, grazie alle sue innovazioni, ha saputo affermarsi in Italia e oltreconfine.

Ghizzoni, quando e come ha iniziato a la-vorare nel settore delle tecnologie agroa-limentari?La mia storia imprenditoriale è legata a mio padre Dante. Era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, mio padre produceva e riparava macchinari in rame e io ho iniziato ad affiancarlo nella sua attività senza finire la scuola superiore, come invece lui avrebbe voluto: d’altra parte erano tempi piuttosto duri, e due braccia in più nel lavoro in famiglia

facevano comodo. Devo però dire che tutte le innovazioni che ho potuto apportare in seguito, nel corso della mia attività, nascono dall’esperienza che ho maturato imparando da mio padre. Ci tengo a sottolinearlo, l’espe-rienza è una cosa che non si può imparare studiando, ma si acquista quotidianamente solo sul campo.

ha parlato di innovazioni, quali sono state quelle che hanno davvero cambiato il suo lavoro?La prima in assoluto, che devo citare, è quella riferita al materiale impiegato: il passaggio, che divenne inevitabile, dal rame all’acciaio inossidabile, fu una vera e propria rivoluzione. Una rivoluzione che ci creò però non pochi problemi, soprattutto a livello di lavorazione: abbiamo dovuto imparare a lavorare l’acciaio inox, noi che per anni ci eravamo dedicati al rame. Non fu semplice.

E poi vennero le innovazioni pensate per i macchinari?Si, la prima che ricordo con molto piacere è l’impianto per produrre la polpa di pomo-doro in alternativa ai tradizionali pomodori pelati. Fui il primo a costruire una linea con-cepita per tale scopo. Si trattava di un pro-dotto completamente nuovo, ed era impor-tante trovare soluzioni a problemi che non conoscevamo. Questo è un esempio concre-

to di quello che dicevo: era tutta esperienza che facevo sul campo, imparando dai miei stessi errori.

Dopo questa prima novità, ce ne furono delle altre che segnarono la produzione della vostra ditta?Negli anni, capii che poteva essere una scelta strategica differenziare la gamma della mia produzione. Mi dedicai alla lavorazione del tonno, settore nel quale brevettai un sistema tecnologico di cottura a vapore e asciuga-mento sotto vuoto dei tranci in grandi au-toclavi. Questo permise di ottenere enormi vantaggi in qualità, rendimento e tempi: solo un’ora di lavorazione, una rivoluzione rispet-to al vecchio sistema caratterizzato da tempi lunghissimi. Le prime prove di applicazione del nuovo sistema, che furono eseguite con un impianto da laboratorio presso la Stazio-

ne Sperimentale delle Conserve di Parma, diedero subito conferme straordinarie.

La Ghizzoni seguiva anche la produzio-ne di confetture di frutta. In questo caso cosa avvenne?Lavorando continuamente sugli impianti tradizionali per la produzione di confetture di frutta, progettai, con soddisfazione, un nuovo impianto ultra rapido con serpentino speciale rotante - sempre sotto vuoto - che immediatamente brevettai: in questo modo si poteva ottenere un prodotto a grossi cu-betti che manteneva l’aspetto della frutta fresca, da miscelare allo yogurt, un settore in forte espanzione e con grandi richieste.

come descriverebbe il rapporto con i suoi dipendenti, anche in considerazio-ne dei diveri periodi in cui si è trovato a operare?Geremia Ghizzoni, a questa domanda, non ha voluto rispondere direttamente a voce, ma ha preferito indicare con una mano una targa appesa al muro dietro le sue spalle, guardandola con evidente orgoglio. Sulla targa, a lettere d’argento, è impressa la dici-tura: “A Ghizzoni Geremia, con stima e rico-noscenza, i suoi dipendenti”. Una frase che vale più di mille parole.

di Matteo Sartini

L’InSEGnAMEnTo DI DAnTE GhIzzonI

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Geremia Ghizzoni

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noME: Anzio StorcinATo IL: 12/08/1934ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Fondatore nel 1991 della Storci SpA, di cui è direttore generale e presidente in carica con funzioni ancora operative. Tra gli inca-richi, tuttora svolti, vi è il ruolo di responsa-bile del laboratorio di Ricerca e Sviluppo.

Lo sapevate che buona parte della pa-sta che mangiate è fatta con l’utilizzo di macchine Storci? Questo solo per rende-re meglio l’idea dell’“impresa” condot-ta da Anzio Storci. Dopo sessant’anni dall’inizio della sua carriera, Storci guida una delle più grandi aziende del mon-do che creano impianti per produrre la pasta, in continua espansione anche su nuovi mercati.

Lei ha iniziato fin da subito a lavorare in un’azienda già affermata: la Barilla. cosa può raccontare di quell’esperienza?Sono entrato in Barilla nel 1949, a quindici anni. ho cominciato come garzone d’officina: affiancavo un operaio specializzato, m’inse-gnava come riparare gli stampi delle mac-chine che davano la forma alla pasta. Mi ero specializzato in quelle per le farfalle. A dician-nove anni sono entrato nell’Ufficio tecnico, dove affiancavo un progettista meccanico. ho cominciato a disegnare macchine e impianti completi e a progettare linee automatiche e

continue per fare la pasta. Mi occupavo anche del collaudo, e così ho imparato a fare il tec-nologo.

Il suo nome è associato allo storico stabili-mento Barilla di Pedrignano. Qual è il moti-vo di questo binomio?Diciamo che Pedrignano è nato anche con il mio contributo. Dopo aver curato l’acquisto e l’installazione di tre linee prototipo da 2mila chilogrammi di pasta all’ora – una cifra incre-dibile per quel tempo – e dato il loro risultato positivo, sono state installate altre linee simili alle prime, ma maggiorate a 4mila chilogram-mi all’ora, e sono diventato responsabile tecni-co di tutta la parte produttiva. Lo stabilimento aveva gli impianti più grandi e innovativi del mondo. Ed era anche il più produttivo: siamo stati i primi a fare oltre 9mila quintali di pasta al giorno.

nel 1991 lei ha fondato la nota ditta Storci SpA. come descriverebbe la sua azienda?La Storci SpA, insieme alla Fava SpA di Cento di Ferrara, è leader mondiale nella cotruzione di impianti per la produzione della pasta sec-ca, sia come fatturato sia come quantità e di-mensioni delle macchine. Noi progettiamo e costruiamo i macchinari che successivamente saranno installati in tutto il mondo. Costruia-mo anche macchine e impianti per pasta fre-sca farcita (tortellini e ravioli) e non farcita (la-

sagne, tagliatelle, orecchiette), pasta a rapida cottura, pasta senza glutine e pasta precotta per piatti pronti.

In sessant’anni di attività si è senz’altro ac-corto di un’evoluzione nel modo di fare la pasta. cosa è cambiato?La chiave della rivoluzione nella produzione della pasta è stata la tecnologia, che ha consen-tito l’automatizzazione dei processi produttivi e il miglioramento della qualità dei risultati. Il lavoro umano si è gradualmente allontanato dai macchinari: prima c’erano i torchi in cui la pasta veniva pressata e tagliata fisicamente e in fabbrica c’era bisogno degli operai che azio-navano le macchine o dei mastri pastai che preparavano l’impasto e assaggiavano il risul-tato. Adesso anche i più piccoli impianti assol-vono a tutte queste funzioni, riducendo i tem-pi di lavoro, eliminando ogni tipo di manualità

e, soprattutto, aumentando la produzione in maniera esponenziale: se prima si facevano al massimo 3 o 4 quintali all’ora, adesso si rag-giungono i 92 quintali.

La crisi finanziaria che ha colpito i mercati economici di tutto il mondo, ha avuto riper-cussioni anche sul settore della produzione di macchine per la pasta?Il nostro settore non è toccato direttamente dalla crisi, e le ragioni sono due: innanzitut-to la pasta è un prodotto sempre richiesto di cui non si può più fare a meno, e poi da noi investono sia i piccoli produttori che le grandi aziende.

E questo cosa significa?I primi acquistano le nostre macchine per pro-durre pasta che poi vendono anche a 10 euro al chilo, con un notevole guadagno. I grandi produttori, invece, investono nelle nostre linee di impianti per ridurre i costi di produzione: una linea di macchine per produrre 8mila kg di pasta all’ora ha dei costi non molto superio-ri a quelli di una linea che ne produce 4mila. Conviene, insomma. E grazie a tutto ciò, è possibile stimare che il fatturato di quest’anno dovrebbe essere attorno ai 17 milioni di euro, il valore più alto mai raggiunto nella storia dell’azienda.

di Alessandro Trentadue

DA VEnT’AnnI LEADER MonDIALE PER LA PASTA

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Anzio Storci

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noME: Giancarlo GherrinATo IL: 01/10/1936ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Fondatore del settore alimentare della Gherri Gino S.n.c. (poi venduta nel 1999) e della Gherri Meat Technology, di cui è at-tualmente presidente. È stato per sei anni presidente della associazione Comaca.

Per oltre cinquant’anni Giancarlo Gherri ha prodotto macchine per la lavorazio-ne di carne, insaccati e per il confeziona-mento delle conserve, portando novità in entrambi i settori. È tuttora alla guida della Gherri Meat Technology perché è convinto che “al mondo non ci sia niente da inventare. C’è solo da migliorare”.

Signor Gherri, come ha iniziato la sua attività?ho cominciato nel 1952, in seguito alla scomparsa di mio padre Gino che nel 1936 aveva fondato la ditta Gherri Gino. Lui si era occupato per anni della progettazione e re-alizzazione di riduttori per gas metano, mo-tori elettrici e macchine per la ricostruzione delle gomme. Quando sono subentrato io, visto che questo tipo di lavorazione era pericolosa a causa delle scarse tecnologie di un tempo, ho deciso di cambiare la dire-zione produttiva e di trasformare la nostra azienda in una realtà legata al settore ali-mentare.

Qual è stato il suo primo incarico impor-tante e il momento che considera di svolta per la sua attività?Un mio zio aveva costruito un macinasale a rulli, macchina innovativa che permetteva di produrre fino a 10 quintali di sale raffinato all’ora contro i 2 o 3 che gli apparecchi ordi-nari dell’epoca erano in grado di fare. A quel tempo c’era già il monopolio del sale ed era disponibile sul mercato il tipo grosso e quel-lo fine (da cucina), entrambi non adatti per la lavorazione dei salumi. vi era quindi la neces-sità di raffinarlo. Così ho iniziato a costruire e a promuovere il nuovo macinasale: lo portavo ai salumifici del Nord Italia per la “tentata ven-dita”. Ero poco più che ventenne, sposato da poco ma molto intraprendente. Nel giro di un anno ne ho venduti 60.

come si è arrivati allo sviluppo delle mac-chine per la lavorazione delle carni?A metà degli anni ’70, quando avevo poco più di trent’anni, la Gherri Gino si è specializzata nella produzione di macchinari da utilizzare nei macelli e nella lavorazione degli insaccati. Mi riferisco, innanzitutto, a quattro strumenti fondamentali: tritacarne, impastatrice, insac-catrice e scotennatrice.

Vi occupavate anche di altre linee di pro-duzione?Sì, oltre ai macchinari per la lavorazione degli

insaccati, curavamo anche il corredo delle al-tre macchine necessarie, come le timbratrici, le lavaprosciutti, gli stampi e le presse per pro-sciutti disossati.

come funzionava il mercato nei suoi primi anni di attività? A parte i grossi salumifici, la maggior parte delle aziende era gestita da piccoli privati: macellai e salumieri che facevano tutto a mano e in casa. Per questo bisognava essere propositivi e far conoscere a ognuno le novità tecnologiche che potevano migliorare la loro produzione. All’inizio avevo quattro rappre-sentanti che prendevano accordi con i privati e poi andavo personalmente a chiudere le vendite. Con i miei macchinari ho favorito lo sviluppo di molti piccoli imprenditori locali.

Di cosa vi occupate alla Gherri Meat Tech-

nology?La Gherri Meat Techology ha conservato dell’azienda storica un vasto patrimonio di conoscenza ed esperienza dell’intero Setto-re Carne, di cui adesso ci serviamo per rap-presentare in Italia diverse aziende interna-zionali leader nel settore dei macchinari e impianti per l’industria alimentare. Con la Gherri Meat Technology è cambia-ta la strategia: mentre prima producevamo macchine, adesso ci occupiamo di “trading commerciale”, un sistema di rappresentanza esclusivo di queste imprese straniere sul ter-ritorio italiano, con la garanzia della nostra assistenza tecnica.

Lei ha cominciato poco più che ventenne. come vede oggi i giovani della stessa età? Adesso ogni tipo di informazione si raggiun-ge facilmente anche stando a casa. Questo è un bene, ma può limitare le capacità dei ra-gazzi che così trovano tutto già pronto e ten-dono a essere passivi. Dovrebbero provare lavori tecnici e materiali per capire veramen-te il funzionamento delle cose. È una scuola importantissima. Un altro consiglio: uscite dalla provincia, conoscete altre realtà e, una volta tornati a casa, riproponetele e investite su quelle. È anche su questo che ho costruito la mia carriera.

di Alessandro Trentadue

PARTIRE DALLA GAVETTA E MIGLIoRARSI SEMPRE

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Giancarlo Gherri

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noME: Bruno MontanarinATo IL: 14/07/1937ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Laureato in Ingegneria Meccanica, ha lavo-rato per vent’anni alla Fa.Ba. come direttore tecnico e consulente tecnico per il packaging. Sul finire degli anni Ottanta ha lasciato la Faba ed è stato tra i fondatori della IN.CAM.

Bruno Giorgio Montanari ha un’espe-rienza quasi quarantennale nella produzione di barattoli e scatole in banda stagnata e in alluminio. Un pro-fessionista del settore packaging, che ha imparato tutto quel che sa, o quasi, direttamente sul campo. Presso l’lN.CAM, azienda di cui è stato uno dei soci fondatori, ha svolto la funzione di diret-tore tecnico. Anche dopo la pensione, nel 1995, ha continuato, fino al 2005, a essere attivo nel settore come libero professionista.

un’esperienza maturata solo sul lavoro o anche gli studi hanno segnato la sua pro-fessione?Prima di dedicarmi all’attività lavorativa ho seguito l’università: il biennio a Parma e la specializzazione in ingegneria meccanica a Padova. Terminati gli studi sapevo tutto dei motori, mentre mi mancava una vera prepa-razione sulle tecnologie applicate al settore agroalimentare.

E come avvenne il contatto iniziale con il settore delle tecnologie agroalimentari?Era la fine degli anni Sessanta, avevo una tren-tina d’anni. Fui contattato dalla Fa.Ba., ditta di Reggio Emilia leader nel suo settore. Il facto-tum della Fa.Ba. era il ragioniere Del Rio. Prima d’allora mi ero occupato soprattutto di motori diesel in un’azienda che operava per conto della Lombardini.

In Fa.Ba. che ruolo ricopriva?All’inizio ero un impiegato tecnico. Alla fine dell’anno di prova fui promosso dirigente e divenni direttore tecnico. Negli ultimi tempi ero anche direttore per le tecnologie e i nuo-vi sviluppi. In sostanza mi occupavo di tutti i problemi tecnologici e produttivi dello stabi-limento. La nostra produzione andava dalle scatole e barattoli in banda stagnata e in allu-minio, ai coperchi ad apertura facilitata (easy open) e quelli per i barattoli in vetro (twist-off). Ma l’idea più originale della Fa.Ba. fu un’altra.

Quale?Le bottiglie in PET per le acque minerali. Il PET è un materiale plastico che ha tutte le mi-gliori caratteristiche del vetro, ma rispetto a questo, è più leggero, infrangibile e “a perde-re”. La Fa.Ba. è stata la prima ditta a produrre contenitori in PET, cosa che le ha permesso di adeguarsi rapidamente alle nuove esigenze del mercato.

Qual è stata, invece, l’evoluzione nel campo del barattolo?Nei primi tempi ogni corpo barattolo era rica-vato da una fascia rettangolare calandrata e saldata a lega di piombo. Con il passaggio alla saldatura elettrica automatica vi fu un abbat-timento dell’inquinamento - prima si lavorava col 98 per cento di piombo - e crebbe la veloci-tà di produzione: si passò da 60 a 400, e infine a 800, scatole al minuto.

Lo spessore del barattolo si ridusse?Certo. La robustezza dei barattoli, nei primi tempi, era garantita dallo spessore del cor-po del cilindro, rigorosamente liscio. La vera innovazione fu la nervatura del suo corpo, cosa che consentì di ridurne lo spessore: si poteva ottenere la stessa resistenza di prima con un minore impiego di materiale. Questo ha comportato l’avvio di una profonda colla-

borazione con i costruttori di aggraffatrici e nervatrici per risolvere problemi che deriva-rono proprio dalla riduzione di spessore della banda stagnata.

Vi sono state evoluzioni nel tipo di conse-gna dei prodotti?Sì. Dai cartoni si passò, a metà degli anni ‘60, alla palettizzazione, prima manuale e poi au-tomatica; la Fa.Ba. è stata la prima azienda a installare il palettizzatore dei barattoli proget-tato dalla ocme di Parma, offrendo nel con-tempo piena collaborazione per la sua messa a punto.

L’ambiente di lavoro cambiò molto tra gli anni ‘60 e ‘90?Nel rapporto con i colleghi e gli operai no. Cambiò in termini di condizioni di lavoro. Un tempo serviva più forza lavoro, e c’era meno elettronica. Con l’automazione si poté aumen-tare la produzione, fino a triplicarla. Il passag-gio dalla saldatura a piombo a quella elettrica consentì di abbattere l’inquinamento atmo-sferico all’interno dello stabilimento. Incapsu-lando le macchine più rumorose - come le for-matrici o le presse per i coperchi - si limitarono i decibel. Furono conquiste notevoli, novità che permisero di migliorare sensibilmente la qualità di vita nei luoghi di lavoro.

di Diego Dalla Costa

MonTAnARI, IL TEcnIcoDEL PAcKAGInG

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noME: Giorgio PirondinATo IL: 30/07/1937ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Il primo impiego ricoperto è stato quello di disegnatore progettista alla Rossi & Catelli all’età di 19 anni. In seguito, alla fine degli anni Sessanta, ha svolto la funzione di di-rettore tecnico presso la Rolli.

Giorgio Pirondi è una delle figure stori-che del settore agroalimentare a Parma: è entrato alla Rossi & Catelli fin dalla gio-vane età, alla fine degli anni Cinquanta, e nel 1963 è passato al settore agroa-limentare, imparando l’importanza di una rigorosa organizzazione industriale presso l’americana Delmonte e appli-candola poi alla Rolli.

Quando è entrato in contatto con il settore delle tecnologie agroalimentari?Sono entrato subito nel settore, quando ero ancora giovane, all’età di 19 anni, a pochi mesi dal conseguimento del diploma. Infatti era il 1958 quando sono stato assunto alla Rossi & Catelli, un’azienda che considero, senza alcun dubbio, la migliore nel settore della forni-tura di macchine all’industria conserviera di quell’epoca. ho iniziato a lavorare nell’ufficio tecnico come disegnatore progettista: la mia prima esperienza che è poi proseguita per cinque anni.

Quali sono stati i passaggi maggiormente determinanti della sua storia professiona-le?La mia storia professionale si è interamente sviluppata all’interno di questo settore: dopo l’esperienza alla Rossi & Catelli, infatti, ho lavo-rato per 6 anni alla Delmonte, azienda ameri-cana che aveva aperto uno stabilimento a San Felice sul Panaro. Sono poi tornato a lavorare a Parma alle dipendenze della ditta Rolli, dove ho operato per 10 anni come direttore tecni-co. Successivamente, la Rolli è stata ceduta alla cooperazione ed è diventata Parma Sole, e vi sono rimasto per 11 anni. Infine, ho lavo-rato per 3 anni presso il Consorzio Casalasco del Pomodoro, e successivamente ho svolto compiti di consulenza tecnica in tutto il mon-do, fino in Cina.

Quali erano i problemi più rilevanti all’epo-ca in cui ha iniziato a lavorare alla Rossi & catelli?Erano legati soprattutto ai ritmi lavorativi, all’organizzazione delle aziende che era pra-ticamente inesistente e alle condizioni igie-niche; tutti elementi che ho imparato a risol-vere dopo la mia esperienza alla Delmonte, visto che gli americani avevano una mentalità già all’avanguardia. Basta considerare che in un’epoca in cui la produzione più alta in Ita-lia era di 100 bottiglie di ketchup al minuto in un’azienda sviluppata come l’Arrigoni, alla

Delmonte si toccavano le 500 bottiglie al mi-nuto.

come ricorda i rapporti con le componenti sociali della azienda in cui ha lavorato?ho sempre potuto contare su ottimi rappor-ti con tutte le parti in causa: portai alla Rolli i metodi di lavoro appresi alla Delmonte, e ricordo chiaramente che il commendatore Rolli si stupì della mia decisione di creare una struttura orizzontale con numerosi responsa-bili di settore. Arrivando a chiedermi scherzo-samente se nella sua fabbrica fossero divenuti tutti quanti dei capi.

con i collaboratori che tipo di relazioni si erano instaurate?Anche con i miei collaboratori, con quelli che si sono impegnati duramente, non ho mai avuto alcun tipo di problema: il mio metodo

consisteva nel fornire l’esempio, arrivando in fabbrica presto e andando a casa tardi, un metodo che ti consente di avere rispetto e considerazione da parte dei lavoratori e dei collaboratori.

E le relazioni con i sindacati come erano?In questo caso vi sono state maggiori difficol-tà nei colloqui, visto anche il periodo difficile che si attraversava negli anni ’70: ma devo dire che siamo sempre giunti a un accordo, pur tra le mille discussioni che abbiamo condotto.

E dei fornitori, cosa può dire?Non ho mai voluto considerare i fornitori come un elemento esterno all’azienda; per me erano dei veri e propri collaboratori, e come tali li trattavo, vale a dire con onestà, ri-spetto e con molta franchezza.

è soddisfatto delle scelte che ha compiuto nella sua vita lavorativa?Devo dire che non cambierei nulla di ciò che ho fatto. ho anche coniato un motto sul mio lavoro: “il pomodoro è come la malaria ti entra nel sangue e non va più via”. Certo, il lavoro in alcuni periodi ha inevitabilmente tolto del tempo alla mia famiglia, ma credo di essere riuscito a conciliare i due aspetti e credo che sia importante sforzarsi per riuscirci.

di Matteo Sartini

LA TEcnoLoGIA: unA GRAnDE PASSIonE

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noME: Giorgio SpoccinATo IL: 20/09/1938ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:È fondatore e amministratore unico di Tec-notermica Srl, azienda di Parma specia-lizzata nella realizzazione di generatori di vapore per macchine industriali del settore agroalimentare, tessile e alberghiero.

La sua attività lo ha portato a conoscere il mondo: Algeria, Tunisia, Egitto, Sene-gal, Libano. Non c’è Paese che Giorgio Spocci non abbia visto. Per oltre trent’an-ni ha fatto l’avventuriero. Oggi viaggia ancora, in Africa soprattutto, ma senza lo stress dei giorni passati.

come è arrivato a fondare la Tecnotermi-ca?Avevo sempre sognato un’officina tutta mia. Dopo le scuole primarie, sono entrato come operaio alla Tommaso Barbieri, con sede in via D’Azeglio, ditta specializzata nella costruzione di macchine per la produzione della pasta. Lavorai nel ruolo di tornitore per cinque anni, finché un giorno decisi d’iscrivermi ad un cor-so per disegnatore all’istituto La Salle, a Parma. ottenuto il diploma, intorno al ’62-’63, entrai nella Termo Sirchio come calderaio. Dopo do-dici anni decisi di tentare l’avventura con una mia impresa, e fondai per questo l’azienda che ho chiamato Tecnotermica.

La Tecnotermica cosa realizza?Costruiamo generatori di vapore, ossia calda-ie, indispensabili per il funzionamento degli impianti di processo. Lavoriamo soprattutto per la trasformazione dei prodotti alimentari (pomodori, frutta, bevande), per l’industria tessile e per il settore alberghiero (macchine per lavanderie).

Qual è il vostro mercato di riferimento?Quello estero. Circa il 90 per cento di quel che realizziamo lo vendiamo fuori dall’Ita-lia, nel nord Africa soprattutto. Siamo stati spesso anche al seguito di altri costruttori d’impianti come vettori&Manghi, Manzini e Rossi&Catelli, in paesi quali venezuela, nelle Filippine, in Etiopia, Yemen.

Il vostro è un mercato difficile?Sì, decisamente. In Italia è più semplice. Però all’estero c’è un vantaggio: prima pagano e poi, eventualmente, discutono. Da noi accade il contrario. Le condizioni cambiano anche da Paese a Paese. In Algeria, per esempio, la bu-rocrazia è un ostacolo per gli imprenditori: per fare affari in Algeria bisogna saper fare i salti mortali. oltretutto, gli arabi sono i clienti più difficili: se sei capace di trattare con loro, vuol dire che sei pronto per lavorare ovunque.

Ricorda qualche episodio curioso?Più d’uno. Spesso mi trovavo in Paesi lontani

e in situazioni difficili. Una ditta svizzera, mi ricordo, ci aveva commissionato un impian-to in Azerbaijan; il termine di consegna era impossibile. Il posto era assolutamente sper-duto, verso il confine con l’Iran. Per arrivare ci vollero sette ore d’aereo. Ci restammo quat-tro giorni, per conoscere l’impianto e discu-tere il da farsi. Tornammo a casa e in altri tre giorni preparammo il progetto. Una squadra di sei persone tornò in Azerbaijan e realizzò l’impianto sul posto, tutto a tempo di record. Una follia.

E con le lingue straniere come se la cava?ho imparato il francese in Algeria, per esi-genze di lavoro, ovviamente. Per l’inglese ci sono i miei due soci, che poi sono i miei due figli maschi: uno è ragioniere, l’altro - il mag-giore - perito elettronico. A ciascuno ho dato il 25 per cento delle quote: prima o poi, tutta

la responsabilità dell’impresa toccherà a loro. Intanto si fanno le ossa in azienda.

è contento di quel che ha ottenuto in tutti questi anni?Sì, la soddisfazione è tanta. Il lavoro mi è sem-pre piaciuto e se tornassi indietro rifarei tutto.

come vede la realtà d’oggi?Lo dico con rammarico: oggi si lavora peggio d’un tempo. Con i clienti è cambiato tutto: ne-gli anni Sessanta o Settanta c’era più fiducia reciproca. Arrivava un ordine, si firmava il con-tratto, veniva aperta una linea di credito e si iniziava a lavorare. Negli ultimi anni è tutto più difficile: c’è meno serietà e meno disponibilità economica.

con i suoi dipendenti ha mai avuto diffi-coltà?No, anche perché l’azienda è piccola. oggi ho otto dipendenti e in passato mai più di dieci o dodici. Ci si conosce tutti: più che un’azienda, è una famiglia.

E alla sua famiglia ha potuto dedicare il giusto tempo?Purtroppo no. Sono partito con molti debiti e l’ambizione di realizzare qualcosa d’importan-te. Ero sempre in viaggio per lavoro. di Diego Dalla Costa

TuTTo InIzIò DALL’IDEA DI un’oFFIcInA...

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noME: Stefano VettorinATo IL: 20/02/1938ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Ha maturato esperienza di progettazione e certificazione aziendale come libero profes-sionista. Attualmente svolge mansioni tec-nico commerciali per la fabbrica di barattoli In.Cam. di Campegine (Re)

Stefano Vettori ha iniziato a fre-quentare fin da ragazzino l’officina dell’azienda di famiglia, la Vettori & Manghi, fondata nel 1943 dal padre Rodolfo e da altri due soci - Ennio Manghi e Aldo Ghiretti - con la deno-minazione di “Vettori & C.”

A quel tempo, negli anni ‘40, la ditta cosa produceva?L’azienda operava nella meccanica gene-rale. Dalla sua officina uscivano macchine agricole, ricavate da mezzi militari, attrez-zature portatili per dentisti, torce elettriche a dinamo, scaldacqua elettrici a immersio-ne... Insomma, un po’ di tutto.

Il passaggio al settore agroalimentare quando avvenne?Nel dopoguerra, quando dalla società uscì Aldo Ghiretti e la ragione sociale cambiò in “vettori & Manghi”.Mio padre capì che le maggiori opportuni-tà di lavoro potevano provenire dall’indu-

stria conserviera. Perciò si iniziò a costruire le prime macchine per trasformare il po-modoro fresco in conserve (concentrato, succhi, pelati). In poco tempo si ampliò la gamma di produzione: macchine per la la-vorazione della frutta, delle verdure, della carne e del tonno.Si progettavano e si fornivano linee e sta-bilimenti completi chiavi in mano, per la lavorazione di materie prime alimentari deperibili in prodotti finiti a lunga conser-vazione.

Lei come entrò in azienda?Dopo la laurea in ingegneria meccanica, conseguita a Bologna, entrai nell’ufficio tecnico: un’esperienza indispensabile per capire come nascevano i progetti delle macchine.Dal 1968 per i primi cinque anni, quasi a tempo pieno, e successivamente con frequenti viaggi, mi occupai - insieme al dottor Bianchini - della IPIASA, la filiale spagnola aperta dalla vettori & Manghi a Saragozza.

In azienda com’erano i rapporti tra pro-prietà e dipendenti?ottimi nei primi decenni. Molti dei nostri operai avevano iniziato assieme a noi - a 15/16 anni - e con noi erano rimasti fino alla pensione. Negli anni ’60-‘70 iniziarono

i conflitti sociali: la commissione interna comprendeva alcuni soggetti che pensa-vano solo alla politica. Tra molte difficoltà siamo comunque riusciti a convivere anche con queste situazioni.

E il rapporto relazione tra lei e suo padre di che tipo era?Buono, nel limite del possibile. Così, com’era anche con il socio dell’azienda, Ennio Man-ghi, che per me era come un secondo pa-dre. Tra vecchie e nuove generazioni era però inevitabile che vi fosse anche qualche scontro. Soprattutto sui modi di gestire e sviluppare l’azienda.

con il suo lavoro riusciva a dedicare del tempo alla famiglia?Non molto. Quando si ha un’azienda da condurre, tutto il resto, anche la moglie e i

figli, tende a passare in secondo piano.

Se potesse tornare indietro, scegliereb-be lo stesso tipo di occupazione?Forse ero più portato per altre materie. Se mio padre non avesse avuto la sua azienda probabilmente avrei scelto altro, magari ar-chitettura. Certo, fu anche lui a spingermi verso ingegneria. Questo percorso di stu-di serviva per poter entrare nella vettori & Manghi.

Ai giovani che volessero avvicinarsi a questo settore che consigli darebbe?Dipende. Se un ragazzo aspira soltanto al ruolo di tecnico o di operaio, è sufficiente una preparazione scolastica di tipo tecnico.Se invece ci si vuole candidare a un ruolo di responsabilità dirigenziale o manageria-le, è indispensabile una laurea - di 5 anni - in ingegneria o altro, secondo le funzioni che si andranno a svolgere. Tutto questo però non basta: alla teoria va unita l’espe-rienza formativa, quella fatta in azienda, per capire come funzionano le macchine dell’industria alimentare, come si gestisce un’azienda metalmeccanica. Ci vuole gente preparata anche in elettronica, una compo-nente sempre più fondamentale in questo settore produttivo.

di Diego Dalla Costa

un’IMPRESA LEADERTRA ITALIA E SPAGnA

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noME: Luciano BellettinATo IL: 29/06/1939ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Ha dedicato tutta la sua esperienza lavorati-va alla Ocme di Parma prima come appren-dista meccanico, poi come operaio qualifica-to e in seguito disegnatore tecnico. Nel 1983 è stato promosso a direttore tecnico.

Luciano Belletti, lo si può ben dire, ha dedicato una vita intera alla stessa azienda, la Ocme di Parma, nata nel ‘54 e specializzata nella costruzione di mac-chine e impianti per il confezionamento e il riempimento di prodotti alimentari, chimici e bevande.

come entrò in ocme?Avevo preso il diploma di avviamento indu-striale. L’ocme mi aveva assunto nel giugno del ‘55 come apprendista meccanico. Dopo l’apprendistato ero passato al tornio, con cui realizzavo gli stampi che servivano per pro-durre i componenti delle macchine.

non ha mai pensato di provare nuove espe-rienze in altre aziende?Proprio no. Quando ho iniziato a lavorare alla ocme c’erano solo cinque persone, compre-so il proprietario. Negli anni è cresciuta, e io sono cresciuto con essa, promozione dopo promozione, fino ad assumere ruoli di re-sponsabilità.

Non ho mai cambiato ditta perché era questa, negli anni, che cambiava, che si rinnovava e cresceva insieme ai suoi lavoratori. oggi, non a caso, la ocme è una realtà affermata a livel-lo internazionale, con 400 dipendenti e una grande reputazione sul mercato.

nel corso degli anni che incarichi ha rico-perto in ditta?Dopo l’apprendistato e l’esperienza come tornitore, la ditta aveva bisogno di un dise-gnatore per l’ufficio tecnico. Così iniziai a stu-diare - per corrispondenza – e presi il diploma di progettista. Dopo un periodo di prova mi confermarono nel ruolo: rimasi sorpreso di questo perché, pur avendo chiesto io di poter diventare di-segnatore, sapevo che sarebbe stato difficile. Invece il proprietario della ocme, il signor Ghiretti, aveva accettato subito la mia candi-datura.

Ma a fare il semplice disegnatore non rima-se a lungo...Sì, è così. Avevo iniziato a interessarmi a qual-che piccolo progetto. Poi vi fu una svolta im-portante, per me e per l’azienda. Negli anni Settanta la ocme aveva deciso di realizzare la prima wrap-around, una macchina incarto-natrice per bevande, e io ne ero stato uno dei progettisti. Di questo vado orgoglioso, perché la ocme è stata leader internazionale nella co-

struzione di questo tipo di macchine.

E dopo l’esperienza da progettista?Dopo l’esperienza di disegnatore progettista, divenni progettista-trasfertista: dovevo avere sempre la valigia pronta, per seguire il funzio-namento delle macchine nelle varie aziende all’estero. Avevo deciso di studiare le lingue nei corsi se-rali, prima il tedesco e poi l’inglese. Stavo via da casa anche 40 giorni, spesso in Nord o in Sud America. Era tutta esperienza sul campo, in vista di un’altra promozione.

che arrivò quando?All’inizio del 1983. La ocme aveva bisogno di un nuovo direttore tecnico. Era stato il mio pre-decessore, l’ingegner Pietralunga, a fare il mio nome per sostituirlo. Di questa ultima promo-zione ero felice, perché era stata una bella sod-

disfazione arrivare così in alto, ma ero anche consapevole della responsabilità che d’allora in poi mi aspettava: dovevo gestire un team di oltre 60 persone, una cosa non semplice.

con il suo lavoro riusciva a dedicare un po’ di tempo alla famiglia?In verità no, soprattutto quando dovevo af-frontare lunghe trasferte all’estero. Per questo, mi sento di dire che gran parte del mio succes-so professionale lo devo a mia moglie, che mi è sempre stata vicino.

Qual è stata la maggior soddisfazione otte-nuta grazie alla sua professione?Senza dubbio la medaglia di “Maestro del Lavoro”, ricevuta nel ‘93. Mi creda, per un pro-fessionista partito, come me, dal basso, senza una laurea in ingegneria, arrivare a questo ri-conoscimento significa tanto. Devo ringrazia-re la ocme per essere arrivato fin lì.

oggi lavora ancora per la ocme?Sì. In verità dal ’92 sono in pensione, ma con-tinuo a collaborare da libero professionista: viaggio - soprattutto in Europa - per seguire il funzionamento delle macchine prodotte dalla ditta. Nel tempo libero lavoro il legno, un hob-by che avevo fin da bambino e che ho ritrova-to con piacere.

di Diego Dalla Costa

ALL’InIzIo ToRnIToREPoI DIRETToRE TEcnIco

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noME: Rolando PaterlininATo IL: 29/05/1939ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Presidente della Csf Inox Montecchio Emi-lia, produttrice di pompe per l’impiantistica per il settore agroalimentare, chimico e far-maceutico. Socio acquisitore della Bardiani Valvole, della Omac Pompe e Cms Motori.

Rolando Paterlini figlio di due agricoltori, nel 1960 si diploma col massimo dei voti come perito meccanico. Tenta subito di entrare in Fiat, ma poi decide di accettare la proposta dell’Ing. Rossi per il quale la-vorerà come capofficina per 10 anni. Nel 1971 entra nella Csf Inox, di cui diventerà presidente.

Signor Paterlini, com’è nata la csf Inox?L’azienda nasce dall’idea di Catellani che si mise in società con Spaggiari e Ferretti. Dopo un anno Catellani rimase solo, così cercò di convincere me e un altro dipendente dell’Ing. Rossi a entrare in società. Avevo già 3 figli da mantenere e non potevo partire alla sprovvi-sta. Così, per un paio d’anni, lavorai con l’Ing. Rossi fino alle 6 di sera, poi mi recavo alla Csf dove restavo fino a mezzanotte. Solo nel 1971 riuscii a dedicarmi completamente alla Csf ricoprendo la carica di responsabile am-ministrativo. Nel 1982 l’azienda divenne una società per azioni e da allora io ne sono il pre-sidente.

Quali furuno le problematiche che incontrò all’inizio della sua attività?Provenendo dal settore conserviero sapevo bene quali erano i punti deboli. Nella piazza di Parma mancavano tanti componenti necessari per l’impiantistica che dovevano essere acqui-stati all’estero perché in Italia mancavano co-struttori idonei a fornirli. Così iniziammo a pro-durli noi e oggi siamo la terza realtà in Europa.

una scelta vincente, per la quale rifarebbe le stesse scelte fatte allora?Direi proprio di sì. Io volevo realizzare una produzione non strettamente di serie. È facile produrre componenti standard perché si fan-no grandi numeri e hai grandi guadagni; ma se il mercato si ferma non si ha l’elasticità per cambiare. Noi siamo soprannominati “i sarti” perché produciamo su misura le pompe, adat-tandole alle esigenze del cliente. Su 180.000 pompe in circolazione abbiamo un solo assi-stente post-vendita, e questo dimostra la cura impiegata nella realizzazione dei prodotti, che generalmente escono dalla fabbrica senza problemi.

Sono cambiate le relazioni imprenditoriali rispetto al passato?Non ci sono grandi differenze, è il mercato che è cambiato. Con la globalizzazione le aziende tendono a consociarsi e noi, che produceva-mo solo pompe, sentivamo l’esigenza di pos-

sedere un settore valvole e per altri apparecchi complementari. Diciannove anni fa, quindi, acquisimmo la Bardiani valvole, poi omac e la Cms Motori. Su queste aziende consociate non ho mai avuto l’egemonia e prendevamo le decisioni tutti insieme. Solo in questo modo i soci hanno potuto lavorare bene.

I suoi figli hanno proseguito l’attività im-prenditoriale?Mio figlio è responsabile del settore commer-ciale in Italia e mia figlia è in amministrazione. Manca solo qualcuno della famiglia nell’uffi-cio tecnico; magari potrà essere mio nipote a occuparsi di questo settore, così ogni settore dell’azienda sarà coperto. Insieme lavoriamo benissimo, c’è un feeling straordinario e non è una cosa semplice da trovare.

All’inizio è stato difficile conciliare il lavoro

con la famiglia?Tutto dipende dalla famiglia che si ha. Io ero a Montecchio fino alle 23, mia moglie lavora-va con l’ago fino alle 2, quindi era un sacrificio comune. Lei non si è mai tirata indietro e non ha mai detto nulla sulla mia scelta. Ai miei figli dico sempre che sono nati con la camicia, che sono fortunati perché sono entrati in azienda quando questa era già avviata.

Qual è il consiglio che vuole dare ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro?Il consiglio è di avere umiltà, ma purtroppo non ne hanno più. Il loro errore è che non vo-gliono più fare la “gavetta”: pensano di sape-re già tutto perché hanno un titolo di studio. Invece bisogna partire umilmente, poi piano piano s’impara.

c’è qualcosa della sua lunga attività di cui va fiero?La cosa che mi ha dato più soddisfazione è stata l’idea di costruire a Thika, in Kenia, una scuola per bambini dai 3 ai 13 anni, la “New bambini school”. Nel 2005 abbiamo costruito l’edificio nuovo con la corrente elettrica auto-noma, una piscina e un pozzo. ora i miei bam-bini sono 210. È un vero paradiso terrestre in una zona martoriata dalla povertà e dalla guerra tra etnie.

di Francesca Di Marco

IL LAVoRo unIToALL’IMPEGno SocIALE

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noME: Gianni DordoninATo IL: 05/03/1940ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Nel 1962 ha fondato la Tecnindustria, azienda che si affermò sul mercato per la produzione di macchine e impianti per la lavorazione di frutta e vegetali. Dal 2004 è consulente della Gea Levati Food Tech Srl.

Dopo cinquant’anni di attività Gianni Dordoni non ha nessuna intenzione di smettere. Instancabile tecnico, spe-cializzato in macchine per la trasfor-mazione di frutta e vegetali, ora mette a disposizione la sua approfondita e lunga esperienza per i giovani che la-vorano in questo settore.

Lei ha cominciato a sedici anni nella Vet-tori e Manghi, azienda che produceva macchine e impianti per la lavorazione di pomodoro e frutta. Di cosa si occupava?Mi occupavo della parte tecnica, affiancavo il capofficina nella progettazione, consegna e messa in funzione degli impianti. Lavora-vo in continuazione, dalle sei del mattino alle otto di sera, sempre sul campo per sette mesi all’anno, dato che le aziende ordinava-no linee e impianti a novembre per la con-segna entro fine luglio, in concomitanza con l’avvio della campagna del pomodoro.

In che modo è nata la sua azienda Tec-

nindustria?Dopo sei anni alla vettori e Manghi, nel 1962 io e altri tre miei colleghi abbiamo deciso di metterci in proprio. Avevamo pochi soldi, è stata una scelta coraggiosa: oltre alla grande volontà ci ha aiutato la laboriosità e l’impe-gno costante.In Tecnindustria io mi occupavo della parte tecnico-amministrativa, e i miei colleghi si dividevano nei settori finanziario, montag-gio e collaudo, e produzione.

come siete entrati nel mercato dell’im-piantistica agroalimentare?Con un rapporto diretto e di fiducia verso i clienti: all’inizio come costruttori conto ter-zi per aziende quali la vettori & Manghi e la Rossi & Catelli, che ci commissionavano la produzione di macchine per la lavorazione di prodotti che venivano poi rivendute ai loro clienti; in seguito abbiamo però deci-so di lavorare direttamente con il cliente finale.

E a quale settore vi siete rivolti?Chiaramente non potevamo competere con queste grandi realtà già affermate – soprat-tutto nella trasformazione del pomodoro – così ci siamo rivolti a un settore che stava nascendo proprio in quegli anni: quello dei vegetali e della frutta. Prima questi prodot-ti erano trattati in modo molto artigianale,

mentre dagli anni ’70 si iniziò a concepire la loro conservazione in vasi e scatole.

In che modo avete seguito questa ten-denza innovativa?Per diversi anni abbiamo progettato, costru-ito e consegnato macchine per il confezio-namento delle verdure direttamente ai no-stri clienti. Tra di loro c’erano Ponti, Saclà e Polli. E questo valeva anche per i surgelati: fornivamo Findus, orogel e Rolli. Facevamo lo stesso per il settore della frutta, lavoran-do con imprese davvero importanti come zuegg, Star, Plasmon e valfrutta, e con loro ci siamo specializzati in tali settori.

com’era l’andamento del mercato agroa-limentare in quegli anni?Era davvero dinamico e in continua cresci-ta: i consumi aumentavano e le aziende di

trasformazione crescevano e aggiornavano continuamente gli impianti di produzione, passando da macchine obsolete a strumenti nuovi ed efficienti. L’aumento dei consumi, in particolare, era legato alla necessità di trasformare la ma-teria prima in prodotti che si conservassero nel tempo. Prima della guerra la maggior parte delle famiglie, sia in campagna che in città, mangiava solo quello che autoprodu-ceva o che trovava nei mercati: tutti prodot-ti disponibili solamente nella stagione in cui venivano coltivati, e da consumare freschi.L’avvio dell’industria del confezionamen-to dei prodotti è dunque coinciso con una svolta radicale nelle abitudini alimentari delle persone.

Dopo più di cinquant’anni di attività non si è stancato di lavorare?Nel 2004 sono uscito da Tecnindustria per godermi la pensione, ma come vede non ci sono ancora riuscito.È una mia scelta, perché proprio non voglio smettere. ho sempre amato il mio lavoro perché mi ha sempre dato grandi soddisfa-zioni: creare un impianto che funziona e che può realizzare un prodotto alimentare di cui le persone si nutrono, dà un senso di appa-gamento e di soddisfazione.

di Alessandro Trentadue

QuAnDo LAVoRAREè un conTInuo PIAcERE

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noME: Adriano BocchinATo IL: 06/01/1941ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Proprietario della Sca.di.f., azienda specia-lizzata nella produzione di imballaggi in cartoni ondulati. Nel 1982 ha iniziato ad acquisire le prime quote dell’azienda di cui oggi è proprietario.

Adriano Bocchi è proprietario della Sca.di.f., azienda specializzata nella produ-zione di imballaggi in cartone ondu-lato. Prima di diventare imprenditore ha svolto nella sua carriera anche le mansioni di operaio tecnico e di com-merciale.

Quali sono le sue origini professionali?Dopo aver concluso gli studi tecnici, a dicias-sette anni, sono arrivate alla scuola delle ri-chieste per dei tecnici da parte della Barilla, così ho subito accettato di entrare all’interno dell’azienda. Sono rimasto alla Barilla per quindici anni, fino al 1973: per i primi dieci anni ho lavorato nel settore della manuten-zione tecnica, negli altri cinque sono passato al settore commerciale. Successivamente ho deciso di distaccarmi ed ho cominciato a fare il venditore di cartoni e scatole per conto di due aziende, una delle quali era la Sca.di.f.

Poi cosa è successo?Nel 1982 ho cominciato ad acquisire le prime

quote dell’azienda. I vecchi proprietari non avevano dei figli a cui lasciare l’attività, così nel corso degli anni l’ho rilevata completa-mente. oggi produciamo imballaggi in car-tone ondulato per clienti che nella maggior parte dei casi lavorano nel settore dell’agro-alimentare: grandi industrie alimentari, con-servifici, produttori di vini e liquori.

Dagli esordi della sua carriera lavorativa, quali sono stati i cambiamenti principali in questo settore?La tecnologia ha fatto la differenza nel no-stro settore più che in qualunque altro. Una volta la lavorazione era artigianale, mentre oggi il cartone non viene quasi più toccato dagli operai, perché ci pensano le macchine a fare tutto. Dal ’94 la trasformazione degli impianti da meccanici ad elettronici ha por-tato a confezionare prodotti più qualificati e contemporaneamente ad alleviare le fatiche dei lavoratori. In questi anni abbiamo inve-stito molto sulle nuove tecnologie ed oggi stiamo raccogliendo i risultati.

come ha coniugato nella sua vita la fami-glia e il lavoro?Dal momento che ho speso la mia vita nel lavoro, ho delegato a mia moglie la cresci-ta dei miei due figli maschi. Non posso che ringraziarla per come li ha educati. oggi en-trambi i miei figli lavorano nell’azienda, uno

nel settore commerciale e l’altro in quello amministrativo. Sono molto orgoglioso per-ché, nel corso del tempo, hanno dimostrato di meritare la fiducia che avevo riposto in loro.

Rifarebbe tutte le scelte che ha fatto nel suo passato, o ha qualche rimpianto?Non ho grossi rimpianti e sono contento del-le scelte fatte. Pur avendo iniziato un po’ tardi a fare l’imprenditore, a circa quaranta anni, posso dire di non aver fatto grossi errori e di avere recuperato bene il tempo perduto.

ha un ricordo della sua professione al quale è particolarmente legato?Ce ne sarebbero troppi da raccontare. Di-ciamo che la mia più grande soddisfazione è sempre stata quella di riscontrare nei miei lavoratori l’orgoglio per il fatto di lavorare in

questa azienda. Questo vuol dire che ho di-retto bene l’attività e che loro sono felici di stare qui. C’è una lavoratrice che è con noi da più di 25 anni e da poco è stata insignita dell’onorificenza di “Maestro del Lavoro”. Nel vederla ricevere quel premio sono stato feli-ce come se ad ottenerlo fossi stato io.

come è cambiato il mondo imprendito-riale nel corso degli anni?In confronto ai miei tempi il mercato del lavoro è notevolmente cambiato e ci sono molte meno opportunità. oggi c’è una ri-chiesta maggiore di qualifiche specialistiche, ma queste da sole non bastano. Una volta ottenuto un lavoro, bisogna infatti continua-re ad apprendere perché c’è un’evoluzione tecnologica incessante. Questi cambiamenti permettono però ai giovani di inserirsi più facilmente se sono capaci di tenersi aggior-nati.

Alla luce di questo, che consiglio darebbe ad un giovane che entra oggi nel mondo del lavoro?L’importante è avere motivazione e volontà di raggiungere un obiettivo. Pur essendo di-minuite le opportunità, alla fine si riesce ad emergere se si ha modestia e voglia di ap-prendere.

di Vincenzo Pirillo

IL DESIDERIo DI FAREL’IMPREnDIToRE

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noME: Massimiliano PellacininATo IL: 27/04/1943ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Tutta la sua vita lavorativa si è concentrata nella ditta Pellacini Sergio & Figli, ereditata dal padre e specializzata soprattutto nella produzione di macchine per la lavorazione dei succhi di frutta e del pomodoro.

È una storia che inizia da lontano, alla fine del XIX secolo, quando il bisnonno di Massimiliano iniziò l’attività di fabbro e maniscalco, riparando oggetti e utensili; quando poi nelle nostre terre si cominciò a lavorare il pomodoro con i macchina-ri provenienti dalle grandi città, erano i Pellacini a riparare guasti e rotture. E ve-dendo continuamente macchine grandi e piccole passare sotto i propri occhi e le proprie braccia, impararono anche a costruirle.

così inizia la vostra storia; com’è proseguita?Nel 1925 il nonno Pierino Reviati presentava la prima domanda di brevetto per un mescola-tore di pasta di pomodoro ad alberi concentri-ci. Negli anni Trenta già costruivamo macchine inscatolatrici per il pomodoro che utilizzavano il procedimento della pastorizzazione conti-nua. Tutti i macchinari a quell’epoca erano in rame, l’acciaio inossidabile venne molto dopo, al termine della Seconda Guerra Mondiale. In quel periodo ognuno costruiva la propria

macchina, ognuno aveva il proprio brevetto, i problemi si affrontavano singolarmente e ognuno li superava come poteva, con proce-dimenti anche molto empirici.Nel 1943 Pierino Reviati presentò domanda di brevetto per una macchina che separava i semi dal pomodoro. A regime vennero co-struite le passatrici raffinatrici per pomodoro, i concentratori a bolle sottovuoto con precon-centratore, le linee di lavaggio e cernita per il pomodoro con funzionamento a cascata. Ne-gli anni Cinquanta avvenne la grande rivolu-zione: con l’arrivo dei clienti esteri, venivano ri-chieste soluzioni qualitative che non avevamo, macchine potenti, igienicamente controllabili.

Quali erano le difficoltà maggiori che ri-scontrò in quegli anni?I problemi erano all’ordine del giorno: si con-tinuavano a sperimentare soluzioni nuove, le esperienze e le messe a punto si facevano sul campo; le difficoltà e i tempi di soluzione erano ampliati dal fatto che il pomodoro ha una stagione molto breve, e se qualcosa nel-la macchina non andava, spesso non c’era il tempo materiale per testare la soluzione che avevamo pensato.È nel 1950 che Sergio Pellacini subentra a Pie-rino Reviati nella conduzione dell’impresa, che assume il nome Pellacini Sergio & Figli, dando un forte impulso allo sviluppo di macchine in-novative.

Ma la Pellacini Sergio ha poi trasferito la produzione su altre macchine rispetto a quelle per la lavorazione del pomodoro.Esattamente. Negli anni Sessanta provammo con i legumi, poi venne il turno della frutta: oggi, tramite la progettazione di macchine per i succhi di frutta, quest’ultimo prodotto è diventato il fulcro della nostra attività. Non esiste però una causa precisa che oggi potrei riconoscere per spiegare la nostra scelta di allora; fu un insieme di fattori - nel quale la casualità ebbe un ruolo non piccolo - che ci portò a imboccare questa strada. Un po’ come succede nella vita.

è cambiato qualcosa nel modo di relazio-narsi con i suoi dipendenti?Nello scenario italiano c’è una data precisa che ha cambiato i rapporti in fabbrica, rendendoli più complessi: il 1968. Devo però dire che qui,

nella nostra realtà, problemi con i dipendenti non ce ne sono mai stati, e ogni volta che una discussione o un attrito emergevano, venivano messi sul tavolo e intorno a quel tavolo risolti.

c’è un episodio che ricorda in modo parti-colare nella sua vita lavorativa?Erano gli anni Settanta, e stavamo pensando alla progettazione di una macchina per il po-modoro, una pelatrice non più meccanica, com’erano tutte allora, ma che lavorava tra-mite trattamento termo-fisico; dirottammo molte risorse economiche da quel progetto alla costruzione del nuovo stabilimento, che dovevamo progettare e in cui poi ci saremmo trasferiti. Negli anni Novanta questo tipo di macchina fu adottato praticamente da tutte le aziende costruttrici; se avessimo proseguito nei nostri studi, avremmo anticipato tutti di vent’anni.

Lei è stato anche nel consiglio di Ammini-strazione dell’Ente Fiere di Parma: come ha visto questo settore da una posizione isti-tuzionale?Come un settore pieno di potenzialità, forte e solido; una locomotiva per tutta l’econo-mia parmense. Ma con un limite: un eccesso di provincialità, che abbiamo sempre avuto e che credo sia difficile da debellare.

di Matteo Sartini

PELLAcInI, DAL 1925DA PADRE In FIGLIo

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Massimiliano Pellacini

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noME: Gianni MellinATo IL: 17/02/1946ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Fu il primo operaio, poi capofficina, della Co-maco, azienda produttrice di macchine per il confezionamento di prodotti alimentari e chimici. Successivamente, con altri dipen-denti fuoriusciti da Comaco, fondò la Sima.

Le macchine industriali prima si pensa-no e poi si realizzano. Gianni Melli ha sempre fatto entrambe le cose. Ha ini-ziato a lavorare giovanissimo, nei primi anni Sessanta. Con passione e umiltà. Più che un operaio, è stato un inventore, uno degli ultimi nel suo settore.

Qual è stato il suo primo lavoro?Avevo iniziato alla Fasma, una piccola ditta che realizzava mobiletti pensili per cuci-ne. Ero molto giovane, 14 anni; ero appena uscito da una scuola d’addestramento pro-fessionale. Le mie vere passioni però erano la meccanica e l’elettronica. Quindi decisi di cambiare lavoro.

E arrivò alla comaco...Sì, nel 1968 trovai un posto alla Comaco, un’azienda di Montecchio nata un anno pri-ma. Si progettavano le macchine e le linee complete per il confezionamento dei pro-dotti nei settori dell’industria alimentare e chimica.

Lei può essere definito come un vero pio-nere...È proprio così. Fui uno dei primi dipendenti della ditta. Proprio questo fatto agevolò il mio lavoro: c’era tutto da inventare, si sperimen-tava strada facendo. Per prima cosa costruii il mio banco di lavoro. Poi mi impegnai nella costruzione delle prime macchine: una riem-pitrice e una aggraffatrice per olio alimentare in barattoli da un litro. Subito dopo venne l’ag-graffatrice per i barattoli da 5 kg per pomodo-ro pelato. ogni progetto aveva i suoi problemi e ci si doveva arrangiare per risolverli. Però le macchine d’allora erano semplici, almeno ri-spetto a quelle d’oggi.

I rapporti di lavoro in ditta com’erano?Buoni. Ci si sentiva come in una grande fami-glia, senza troppi problemi. In poco tempo ero già diventato capofficina, senza che io avessi richiesto la promozione. Con gli altri operai c’era collaborazione: ciascuno portava le sue idee e si discuteva insieme. L’impegno co-munque era notevole. La gran parte del lavoro arrivava d’estate, perciò non ci si poteva per-mettere di andare in ferie, se non a settembre o a ottobre.

Poi cosa accadde?Successe che l’azienda crebbe molto: c’era sempre più lavoro. Così, dopo vent’anni, es-sendo entrato in società con altri 40 dipen-

denti, decidemmo di vendere tutto: la Co-maco passò al gruppo Sasib Bologna e tutto cambiò. Non c’era più lo stesso rapporto tra direzione e operai. Io mi occupavo del collau-do e della consegna delle macchine, ma non riuscivo a lavorare più come un tempo. volevo cambiare mestiere. Successe viceversa che al-tri dipendenti della Comaco decisero la stessa cosa. Uscimmo in sei e fondammo la Sima, ri-manendo nel settore.

nella nuova azienda che ruolo ricopriva?Ero amministratore unico. E finii nelle grane. Un giorno arrivarono i carabinieri a casa mia per verificare se avessi rubato dei progetti dal-la precedente ditta; progetti che erano stati elaborati da me. Ma io non avevo alcun pro-getto: le mie idee le tenevo in testa, non ave-vo bisogno di metterle su carta. Alla fine tutto quello che trovarono fu un disegno di un cam-

per ideato e costruito tutto per conto mio.

Alla Sima come si lavorava?Bene. Si cercava di fare sempre meglio e più velocemente. Ma dopo una decina d’anni ci trovammo in difficoltà: si dovevano reinvestire molti soldi e pian piano i soci si tirarono fuori. Io ero l’unico disposto a continuare. vendem-mo la ditta al Gruppo Simpack - Milano. Rimasi per un paio d’anni con la nuova proprietà ma poi decisi, dopo più di 37 anni di lavoro, di an-dare in pensione.

Il lavoro le mancava?Sì, infatti non abbandonai completamente il settore. In Comaco uno dei dirigenti, Casta-gnetti, mi fece una proposta: “E se progettassi-mo una nuova macchina aggraffatrice?”. Accet-tai con entusiasmo. Sviluppai il progetto con un disegnatore - io non so usare i computer, ho sempre fatto tutto a mano - e realizzai il mo-dello della macchina in legno in scala 1:1. Speri-mentai molto e ideai soluzioni all’avanguardia.

nell’attività da lei svolta conta più la quali-tà o la quantità di lavoro?La qualità, senza dubbio. ogni macchina deve essere personalizzata con particolare attenzio-ne alle condizioni di impiego. Per questo cerco sempre di innovare e sperimentare. di Diego Dalla Costa

IDEE E InVEnTIVA PER STARE SuL MERcATo

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Gianni Melli

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noME: Ivor FuschinATo IL: 08/06/1945ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Attualmente consigliere delegato nel Cda della FBR-ELPO. È inoltre direttore com-merciale dell’azienda, per la quale si occu-pa anche della pubblicità e dell’immagine aziendale e istituzionale.

Per oltre trent’anni Ivor Fuschi ha pre-stato la sua opera fra le più grandi aziende del territorio parmense che producevano e producono macchine per il settore conserviero. Dalla Comaco (in cui è stato area manager e poi diret-tore commerciale) alla Bronzoni, dalla Manzini (all’inizio in veste di direttore commerciale e marketing, del settore Packaging, per poi passare alla direzio-ne commerciale generale dell’azienda) alla FBR-ELPO, dove tuttora opera. La sua conoscenza delle macchine per la trasformazione dei prodotti agroali-mentari, soprattutto di pomodoro e frutta, è quindi molto vasta.

cosa si intende per “conserva” e in che modo si ottengono i prodotti conservati?Una “conserva” è data da un prodotto, come dice la parola stessa “conservato”; nel par-mense però è indicativo soprattutto per il concentrato di pomodoro, ottenuto attraver-so l’eliminazione del liquido da un prodotto

composto da acqua e polpa.Il processo per fare una conserva ha origine nel momento in cui si raccoglie la materia pri-ma - ad esempio pomodoro e frutta - fino alla realizzazione di un prodotto completo, come una passata nel caso del pomodoro, o un suc-co nel caso della frutta. Prendiamo il caso del pomodoro: si inizia con la raccolta per passare al trasporto nell’industria trasformatrice, dove viene trattato. Qui si ottiene la polpa, che vie-ne poi sterilizzata e confezionata, nel nostro caso in asettico.

com’è cambiato negli anni il modo di con-servare i prodotti?Da una conservazione tradizionale in botti-glie, con scatole e vasi di vetro, siamo arrivati ai contenitori flessibili e asettici. Questa innovativa tecnologia è apparsa negli anni ‘80 e ha sostituito parte dei contenitori rigidi, citati prima, per il riempimento di con-tenitori flessibili presterilizzati, la cui capacità va dai 3 ai 1.000 litri. I sacchi utilizzati, perché è di questo che si sta parlando, vengono conte-nuti, una volta riempiti, in cartoni per capacità che vanno dai 3 ai 20 lt, in bidoni troncoconi-ci per capacità di 200 litri e infine in bins per quelli da 1.000 litri.

com’era il mercato quando ha iniziato a operare in questo settore?Molti anni fa la maggior parte delle industrie

conserviere erano diffuse in alcuni paesi eu-ropei, come Spagna, Turchia, Grecia, ecc..., oltre che, ovviamente, Italia e in alcune aree extraeuropee come Stati Uniti e Centro Sud America.

E oggi, invece, cos’è cambiato?Con il tempo sono comparse industrie del settore in molti Paesi in via di sviluppo, come India, Pakistan, Iran, Nord-Centro e Sud Africa, fino all’ exploit della Cina. Oggi l’80% delle no-stre vendite interessa le esportazioni, mentre solo il 20% è diretto al mercato italiano. La nostra clientela, a volte, fa grandi investi-menti che non ripete con frequenza, dato che i macchinari da noi prodotti durano nel tem-po. Ad esempio, proprio quest’anno, ci è giun-ta una richiesta per alcuni pezzi di ricambio di un impianto che avevamo venduto in Arabia Saudita nel 1968.

c’è un’esperienza che ricorda con partico-lare piacere?Le esperienza particolari sono state innumere-voli, ma quella che mi fa più piacere ricordare sono i primi giorni di lavoro in Co.MA.Co. Il ra-gioniere Gelati - all’epoca consigliere delegato - mi aveva invitato a visitare con lui, in piena campagna del pomodoro, alcune aziende salernitane specializzate nella conservazione del pelato. Provenendo da un altro settore, il primo approccio fu traumatico; mi feci però convincere da Gelati a insistere in questa atti-vità, facendo al contempo tesoro dei consigli che nel frattempo mi dava, che risultarono im-portanti per proseguire il mio lavoro.

oggi che obiettivo si pone chi lavora nel settore conserviero?Il presente e il futuro dell’industria conservie-ra, e del nostro settore che la serve, è volto alla ricerca di prodotti che mantengano sempre di più le caratteristiche originali dei prodotti da trattare. Questo si può ottenere migliorando l’impiantistica per il trattamento della mate-ria prima, il riempimento e la conservazione. Deve esserci un trattamento industriale che danneggi sempre meno aromi e sapori del prodotto fresco. È questa la sfida dei costrut-tori di impianti conservieri: fare un prodotto migliore con macchine sempre più sofisticate.

di Alessandro Trentadue

conSERVE: IL FuTuRonELL’IMPIAnTISTIcA

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noME: Franco PiazzanATo IL: 10/07/1946ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Dopo un’esperienza trentennale nel setto-re agroalimentare, fonda la Labs dove si realizzano impianti per la trasformazione e la conservazione di frutta, pomodoro e vegetali.

Franco Piazza ha iniziato la sua attività nel ’65 come disegnatore meccanico della FBR; dopo la chiusura della ditta, negli anni ’80, si dedica al packaging. È il fondatore della Labs, che dirige insieme ai suoi due figli.

Lei ha il merito di aver seguito lo sviluppo della prima pelatrice per pomodori. cosa ricorda di quell’esperienza?La FBR è stata la prima azienda a realizzare una macchina per pelare il pomodoro. Nel Sud Italia era concentrato circa il 95% della produzione nazionale di pomodoro pelato e le operazioni di pelatura erano eseguite ma-nualmente. Con una macchina molto sempli-ce, denominata a “bicicletta” perché costituita da un rullo gonfiato che ricordava una ruota, si è fatta una rivoluzione nel modo di lavorare, introducendo la prima pelatura meccanica.

nel campo commerciale che professionali-tà ha maturato?Trent’anni fa il nostro lavoro era cadenzato

dalla stagionalità: da luglio a settembre si se-guivano le operazioni di messa in funzione degli impianti mentre da settembre in poi si eseguivano le manutenzioni e ci si occupava dell’attività commerciale in vista della stagione successiva. ho avuto la possibilità di spaziare e seguire tutti i campi di attività, ad eccezione della parte amministrativa, alternandomi fra il ruolo di tecnico e tecnico commerciale. Que-sto aspetto è stato fondamentale ai fini della mia crescita professionale e mi ha permesso di conoscere e toccare con mano le problemati-che legate all’attività. Inoltre ero per oltre 100 giorni all’anno in viaggio per il mondo.

come giudica i rapporti commerciali con l’estero?Durante la mia attività ho lavorato con oltre 50 Paesi diversi, dove mi sono sempre recato per-sonalmente. oggi, data la dimensione di LABS e la tipologia dei prodotti che produciamo, la-voriamo ancora prevalentemente sui mercati esteri dove è ancora possibile trovare clienti e realtà in crescita, che necessitano di completa-re linee e investire su nuovi impianti con solu-zioni innovative.

ha riscontrato problematiche tecniche all’inizio della sua attività?Le difficoltà nel nostro lavoro non sono mai mancate, ma fin dall’inizio ho imparato ad af-frontarle con passione ed entusiasmo, senza

fatica. Certamente il lavoro richiede enormi sacrifici e amore per la propria attività; la dedi-zione al lavoro è senz’altro fondamentale per avere successo.

è stato difficile conciliare il lavoro con la fa-miglia?Molto difficile. Il lavoro mi ha costretto, per lunghi periodi, ed essere distante da mia mo-glie e dalla mia famiglia anche in momenti particolarmente significativi. Da sempre in questo settore c’è carenza di tecnici in quanto i sacrifici richiesti e i lunghi periodi di trasferta rendono molto difficile instaurare e mantene-re rapporti familiari.

che cosa è cambiato oggi nel settore rispet-to al passato?Io ricordo che all’inizio proponevamo ogni anno un’innovazione mentre oggi non è più

così semplice. Innovare è divenuto difficile. Ri-cordo inoltre che i clienti erano più disponibili e collaborativi; L’errore era considerato meno grave rispetto ad oggi.

c’è un episodio, fra i tanti che ha vissuto, che ricorda in modo particolare?Uno soprattutto mi ha molto rammaricato. Con LABS ho introdotto a Parma un nuovo sistema di ricevimento per pomodoro, chia-mato Stone Blocker, che permette di lavorare senza soste. Purtroppo, nonostante noi fos-simo aperti ad ogni forma di collaborazione, praticamente tutti hanno preferito il plagio alla cooperazione. Quel che più mi ha deluso è stato vedere che anche importanti dirigenti di aziende clienti hanno preferito acquistare macchine con identiche caratteristiche da altri fornitori.

Qual è il consiglio per i giovani che si affac-ciano al mondo del lavoro?Io auguro ai giovani di trovare un lavoro che piaccia, di non pensare solo al ritorno eco-nomico e non guardare sempre l’orologio mentre si lavora. vorrei ricordare, con grande emozione, Gianni Bertonelli, fondatore della FBR, una persona che ha sempre lavorato con gioia e che in questo modo mi ha insegnato a operare con professionalità e serietà.

di Francesca Di Marco

QuAnDo LAVoRARESIGnIFIcA VIAGGIARE

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noME: Giancarlo NeroninATo IL: 14/10/1948ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Titolare dell’azienda Automazioni Neroni Giancarlo, da lui fondata nel 1970, nella quale si occupa dei setori produzione, ac-quisti e vendite.

Per quasi quarant’anni Giancarlo Nero-ni ha realizzato gli impianti elettrici per il funzionamento delle macchine delle più grandi aziende dell’impiantistica agroalimentari di Montecchio, contri-buendo notevolmente alla crescita del-le automazioni industriali e all’espan-sione del settore.

Signor neroni, come ha avuto inizio la sua attività?Dopo la classe terza dell’istituto professiona-le ho trovato subito lavoro come apprendi-sta nell’azienda Radio Boni di Montecchio, un piccolo venditore di televisori, apparec-chi radiofonici ed elettrodomestici, che si occupava anche della manutenzione di im-pianti idraulici ed elettrici dell’ospedale Er-cole Franchini di Montecchio Emilia (Reggio Emilia). Ero un tuttofare, facevo riparazioni e manu-tenzioni di impianti elettrici per varie ditte nelle vicinanze. E da bravo apprendista mi toccava anche

pulire il locale di lavoro.

com’è entrato in contatto col settore agroalimentare?Mentre lavoravo da Boni ho partecipato alla costruzione degli impianti di produzione per la Cirio, commissionati dalla ditta Bronzoni, che era all’avanguardia nel settore delle au-tomazioni; si trattava di macchinari impiega-ti per la riduzione di manodopera attraverso meccanismi automatici messi in funzione da quadri elettrici.

Di cosa si occupava precisamente?Progettavo, costruivo e collaudavo i quadri elettrici che comandavano le macchine im-piegate principalmente in frantoi e fabbri-che della trasformazione del pomodoro.

Lei è stato uno dei primi impiantisti della zona a mettersi in proprio, vero?Proprio così, sono stato il primo. Era il 1970, e poco dopo l’avvio della mia attività sono entrato in contatto con la zecchetti, la prima azienda di Montecchio che diede l’avvio alla produzione di macchine per la palettizza-zione di vasi e scatole vuote e piene. ho la-vorato per la zecchetti costruendo i quadri di comando per le macchine destinate alla Star e ad altre ditte del settore alimentare. Quando poi è nata la Co.ma.co, ho prosegui-to in questa attività, realizzando gli impianti

elettrici delle macchine per il riempimento e l’aggraffatura di barattoli e scatole.

Quali sono state le innovazioni più rile-vanti nel settore dell’impiantistica elet-trica?Negli ultimi venticinque anni c’è stato uno sviluppo incredibile della tecnologia: dall’elettromeccanica si è passati al dominio dell’elettronica sofisticata con una serie di si-stemi digitali che hanno esaudito la richiesta sempre più ingente di velocità nella produ-zione. Se prima un’aggraffatrice realizzava solo cento scatole al minuto, adesso arriva a farne anche millecinquecento. Un’altra grande innovazione è la tele-assi-stenza: un servizio grazie al quale i nostri clienti, sia in Italia che all’estero, si collegano con il cellulare direttamente a noi e dalla no-stra sede troviamo l’errore o modifichiamo il

programma. Un notevole risparmio di tem-po e costi.

come considera il mercato attuale?Rispetto agli inizi, oggi si trova facilmente tut-to quello che serve per questo tipo di lavoro. Mi riferisco, soprattutto, alla componenti-stica: prima solo le nazioni industrialmente avanzate avevano le tecnologie più sofisti-cate. Tuttavia questa grande disponibilità di materiale ha comportato anche qualche aspetto negativo: innanzitutto esiste molta concorrenza non qualificata che le aziende prendono in considerazione perché guarda-no solo all’offerta e vogliono spendere meno. Il rischio è che la garanzia e l’affidabilità del nostro prodotto vengano vanificate.

Sua moglie Ivonne lavora al suo fianco da trent’anni. Lavoro e famiglia possono dunque coincidere...Sono davvero matto, non crede? Scherzi a parte, Ivonne rappresenta il cuore dell’azien-da. ha cominciato a lavorare quando erava-mo fidanzati, nel 1978: le ho insegnato ad assemblare e costruire quadri elettrici. Col tempo si è dedicata a seguire l’ufficio e ora si occupa della parte amministrativa del no-stro gruppo. oggi posso dire che è davvero insostituibile.

di Alessandro Trentadue

LA GRAnDE SFIDA DIAuToMAzIonI nERonI

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Giancarlo Neroni

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noME: Giacomo MagrinATo IL: 31/01/1948ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Presidente dell’azienda ACMI da lui fonda-ta all’età di 36 anni. Oggi l’azienda è leader in Italia nella costruzione di palettizzatori destinati all’industria delle bevande.

Giacomo Magri, 61 anni, ha costitui-to nel 1984 l’ACMI, azienda che oggi è leader in Italia nella costruzione di palettizzatori per casse e fardelli de-stinati, soprattutto, all’industria delle bevande.

Signor Magri, come è avvenuto il suo ap-proccio al mondo del lavoro? ho esordito nel settore degli imballaggi e dell’imbottigliamento a 21 anni, entrando nella ditta Berchi di Sala Baganza, dove già a 23 anni ero responsabile di produzione. Nel mio dna c’era però la professione di tecnico-commerciale, così a 26 anni ho lasciato la Berchi e ho intrapreso una nuova strada. Per dieci anni ho svolto il ruolo di commerciale, viaggiando in tutta Italia. ho sempre lavora-to con professionalità, riuscendo a ottenere la fiducia da una clientela affezionata che mi ha seguito anche nella nuova avventura.

Si riferisce all’Acmi?Esattamente. A 36 anni ho formalizzato

l’ACMI, perché pensavo che ci fosse spazio in quel campo imprenditoriale. Il settore in cui siamo entrati era quello degli imballag-gi e dell’imbottigliamento, specializzandoci nella costruzione di macchine incassatrici, palettizzatori e depalettizzatori.

come sono cambiate nel corso degli anni le relazioni lavorative all’interno dell’azienda?oggi è indispensabile avere dipendenti qua-lificati sia in fase progettuale che costruttiva, ma ancor di più avere personale che sposi la filosofia dell’azienda. Per questo inseriamo nel nostro organico giovani che crescano al nostro interno. Quattro degli attuali cinque dirigenti hanno avuto il primo impiego pro-prio in ACMI.

Potrebbe raccontarci un episodio della sua carriera che ricorda con maggiore af-fetto? Quando abbiamo creato l’ACMI non aveva-mo nemmeno la carta intestata per fare le fatture. Un cliente, ricevendo la carta non in-testata, mi ha dato un acconto di 200 milioni di lire, sui 280 milioni che doveva pagare, di-cendomi che sicuramente in quel momento avevo bisogno di liquidità. Questo episodio è stato determinante, perché mi ha dimo-strato che lavorando con onestà si riceve la fiducia delle persone.

Quali sono stati i cambiamenti tecnolo-gici che hanno coinvolto maggiormente l’azienda?Di certo a livello tecnologico c’è stata una rivoluzione. Nel settore della palettizzazio-ne una volta si costruiva a livello artigiana-le, mentre oggi un ingegnere impiega due mesi di lavoro solo per la fase di progetta-zione. Il segreto è stato quello di riuscire a costruire in maniera industriale macchinari altamente sofisticati.

come sono cambiati invece i rapporti imprenditoriali rispetto al passato?Sicuramente oggi il mondo sta cambiando e le persone hanno altri principi. Anche a livello imprenditoriale sta diminuendo la professionalità. Ma noi continuiamo a pun-tare sulla serietà e l’etica degli affari nei confronti di lavoratori, fornitori e, soprat-

tutto, dei clienti, che sono il nostro punto di riferimento costante e che abbiamo sempre cercato di soddisfare.

Alla luce di quanto detto, quale consi-glio darebbe ad un giovane che entra oggi nel mondo del lavoro?Penso che oggi sia fondamentale avere un certo grado di cultura e la predisposizione per un determinato lavoro. Nonostante si stiano perdendo certi valori, e l’unico obiettivo sembra quello di accumulare sol-di in breve tempo, penso che l’etica e l’one-stà continuino ancora a fare la differenza.

come ha coniugato nel corso della sua vita la famiglia e il lavoro?Mi sono sposato molto giovane, a 24 anni, e finora sono riuscito perfettamente a por-tare avanti il rapporto con mia moglie, no-nostante lei lavori e io abbia passato molto tempo lontano da casa. Abbiamo un solo figlio, che ha 37 anni ed è impegnato con me in azienda. Con lui ho un rapporto mol-to intimo e trasparente, e sono orgoglioso che abbia deciso di entrare nell’attività av-viata dal padre. È qui con noi da quando aveva 16 anni e, dopo essere passato dalle officine e dall’ufficio tecnico, oggi si occupa del settore commerciale e del marketing.

di Vincenzo Pirillo

I MIEI VALoRI: L’onESTà E LA PRoFESSIonALITà

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noME: Francesco MaininATo IL: 14/03/1949RuoLo: Attualmente vicepresidente della Tomato Farm, industria per la trasforma-zione del pomodoro di Alessandria fonda-ta nel 2006. È inoltre presidente della socie-tà di consulenza industriale Tecnofood di Salsomaggiore, da lui fondata nel 2005.

Oltre alla lunga e pluripremiata mili-tanza in aziende per la trasformazione del pomodoro e di altri prodotti alimen-tari, la grande esperienza e conoscenza del settore di Francesco Maini è testimo-niata da due prestigiosi titoli: dal 1999 al 2004 è stato infatti presidente del Gruppo Pomodoro dell’AIPA (Associa-zione Industriale Prodotti Alimentari) e presidente dell’INCA (Istituto Nazionale Conserve Alimentari) dietro la nomina del Consiglio dei Ministri.

La parte più lunga e importante della sua carriera si è svolta alla Boschi Luigi e Figli, dove ha lavorato per più di vent’anni. ci racconti.Sono entrato nella Boschi Luigi e Figli nel 1981. L’azienda era una realtà unica anche a quei tempi perché possedeva già una linea completa e varia di prodotti, spaziando dal pomodoro ai succhi di frutta, dalle salse alle bevande come il the, dai sughi alle zuppe. Sono stato direttore generale della Boschi

fino al 1996, anno in cui sono diventato am-ministratore delegato dello stabilimento acquistato dall’azienda a Felegara (ex Cam-pbell, l’industria produttrice di zuppe). Fino al 2004 sono stato amministratore delegato della Boschi e presidente di Italagro, società portoghese acquisita nel 1998.

Qual era il suo ruolo nell’azienda?ho sempre svolto un’attività con una base sia tecnica che commerciale. Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, mi occupavo dell’impiantistica, in particolare di innovazio-ni e ricerche rivolte allo sviluppo tecnologico degli impianti necessari per la trasformazio-ne di diversi prodotti alimentari. Il mio ruolo commerciale, invece, mi faceva intervenire nei grandi contratti: nel 2000, per esempio, è stato avviatp dalla Boschi un accordo con l’Unilever, il più grande gruppo alimentare a livello mondiale, per produrre il the Lipton in plastica, carta e lattine per Italia, Francia e Germania. In entrambi gli ambiti, il mio com-pito era quello di dare direttive sui prodotti da trattare e sul modo in cui trattarli.

Quale episodio della sua carriera ricorda con più orgoglio?A dire il vero me ne vengono in mente più di uno. Quando lavoravo alla Boschi ad esem-pio abbiamo realizzato con la Rossi & Catelli il primo impianto in asettico per il riempi-

mento del thè in bottiglie di plastica. Era il 1998, ed eravamo dei precursori perché allora le altre aziende usavano i conservanti per mantenere fresca la bevanda in bottiglie rigorosamente di vetro. Ancora prima, nel 1982, abbiamo realizzato l’impianto per la produzione della passata di pomodoro Pomì, marchio che è passato alla storia. E sempre dalla collaborazione Boschi e Catelli, nel 1984 è nato l’impianto per confezionare la polpa di pomodoro in poliaccoppiato, con il marchio Pomito.

Su quali obiettivi deve puntare l’industria agroalimentare in futuro?Si deve lavorare molto sulle politiche ambien-tali che oggi sono strategiche per un’azienda. Mi riferisco ad esempio alla gestione degli im-ballaggi. occorre realizzare confezioni a bas-sissimo impatto ambientale che inquinino di

meno e che allo stesso tempo garantiscano una durata di conservazione del prodotto pari a quella del vetro o della banda stagnata, senza creare preoccupanti problemi di smal-timento. Questo permetterebbe di ridurre gli altissimi costi dell’energia che viene impiega-ta nel settore alimentare, aumentati ancora di più dopo l’ultima impennata del prezzo del petrolio.

Pensa che sia possibile nell’attività azien-dale coniugare gli aspetti produttivi e quelli del rispetto ambientale?Guardi, io sono anche amministratore dele-gato della Ferrara Food, un’azienda che lavo-ra per la trasformazione del pomodoro, nata un anno fa. Il nostro stabilimento è costruito secondo criteri di risparmio energetico, ricoperto in-teramente con pannelli fotovoltaici, ed è si-tuato ad Argenta in provincia di Ferrara, un posto strategico dove nel raggio di 20 km si producono in media cinque milioni e mezzo di quintali di pomodoro all’anno. Se prima il 50% veniva portato a Parma e a Piacenza per la trasformazione con ingenti costi di trasporto, adesso si può lavorarlo sul posto, con un’enorme riduzione di tempo, spese e inquinamento.

di Alessandro Trentadue

LA PARoLA D’oRDInE: InnoVAzIonE conTInuA

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noME: Eugenio Dall’OlionATo IL: 07/02/1953ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Ha lavorato all’Oreste Luciani occupando-si prima della sfera produttiva e tecnica e poi del settore commerciale. Nel 2003 ha fondato la Top Can, ufficio commerciale che segue l’industria alimentare.

Eugenio Dall’Olio dopo essersi formato professionalmente nell’area tecnico-meccanica alla Oreste Luciani, grazie alla profonda conoscenza delle macchi-ne, passa al settore commerciale. Oggi è direttore della Top Can, ditta da lui fon-data nel 2003.

Quale fu il suo primo approccio con il mon-do del lavoro?A 18 anni cominciai a occuparmi della par-te produttiva e tecnica presso la ditta oreste Luciani e dieci anni dopo iniziai la mia attività come commerciale. Quando l’azienda chiuse, convinsi il ragioniere Gelati, consigliere de-legato della Co.MA.Co. Spa, ad acquistare il ramo di attività delle riempitrici e aggraffatrici: questo avvenne, e assieme alla Co.MA.Co., alla Sasib di Bologna e all’Ing. Luciani fondammo la Luciani Parma, che dopo un anno circa fu acquistata dalla Sasib, unitamente a tutte le aziende del gruppo Co.MA.Co. Subito dopo, il gruppo assunse la nuova ragione sociale di Sasib-Co.MA.Co.

Quando decise di fondare una propria azienda?Nell’’88, non essendo d’accordo con la politica aziendale, uscii e fondai la Sima in cui iniziai ad occuparmi di commercio estero, per poi passa-re alla direzione commerciale. Nel 2003 uscii da Sima insieme ad altri colleghi, fondando la Top Can, ufficio puramente commerciale che ven-de linee per l’industria alimentare nel mondo.

come è avvenuta la sua formazione?La mia formazione deriva dai 10 anni passati alla oreste Luciani a fianco dell’Ing. Alfio Lucia-ni, che per me è stato un vero maestro; tutto quello che mi ha insegnato, sia nel ruolo di tecnico di produzione sia nell’area commer-ciale, è stato poi fondamentale nel prosieguo della mia carriera lavorativa, perché ho potuto toccare con mano tutte le fasi del prodotto che poi sarei andato a vendere. Questa è le mia forza: riuscire a unire le mie approfondite conoscenze sulle macchine che vendevo alla mia innata capacità di convincere gli altri.

Quali difficoltà ha incontrato durante la sua attività?Problematiche tecniche vere e proprie non ci sono mai state. Sicuramente c’erano difficoltà legate alla lingua nei paesi esteri: farsi capire pie-namente, all’inizio, non è stato facile. Altri proble-mi erano legati all’alimentazione e a una serie di disagi che comporta un viaggio all’estero.

Le relazioni imprenditoriali sono cambiate rispetto al passato?Sì, notevolmente. oggi nelle aziende di un certo livello non c’è più il “padrone”, com’era chiamato il datore di lavoro, che praticamen-te decideva e acquistava il prodotto. ora nel settore delle aziende alimentari è totalmente diverso, bisogna convincere non più il titolare dell’azienda ma bensì 4 o 5 persone: direttore tecnico, direttore di produzione e poi il diret-tore degli acquisti; se si tratta di una linea par-ticolare anche il direttore generale. Tutto que-sto deve essere supportato da tante cose: da disegni, da soluzioni tecniche, da aspetti com-merciali come finanziamento o pagamento nel medio-lungo termine.

Qual è il suo giudizio sulla strategia del “prezzo più basso” applicato dal mercato?Il prezzo ha un ruolo fondamentale, ma credo

che sia meglio ottimizzare il rapporto qualità-prezzo. La qualità, nel medio e lungo termine paga sempre; non si può credere che macchi-ne a prezzo basso possono essere affidabili e durare a lungo. È molto importante avere ottimi tecnici: il prodotto per essere venduto deve prima di tutto convincere i commerciali. Il prezzo è importante ma non determinante.

I suoi figli hanno portato avanti la sua pro-fessione?ho due figli ma purtroppo non c’è continuità. Uno è archittetto, l’altro è inserito in un’azien-da dove si lavora il marmo.

è stato difficile conciliare il lavoro con la fa-miglia?Molto difficile. Ricordo quando mi recavo nei paesi arabi dove il giorno di festa è il venerdì e io, dopo aver lavorato fino a sera, partivo per lavorare in quei luoghi durante il week-end. E così la settimana lavorativa non finiva mai.

Quale consiglio darebbe ai giovani?Nell’attività commerciale devono imparare bene le lingue, conoscere le macchine, viaggia-re in continuazione. oggi vende chi è maggior-mente presente sul mercato; le aziende tendo-no a comprare dai fornitori che vedono spesso o con cui hanno un rapporto personale.

di Francesca Di Marco

QuAnDo IL coMMERcIoè un’ESPERIEnzA DI VITA

CART

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Eugenio Dall’Olio

200

LA STORIA DELLE TECNOLOGIE AGROALIMENTARI

201

1.4I Pionieri

noME: Antonio RobuschinATo IL: 10/07/1963ESPERIEnzA PRoFESSIonALE:Entra in azienda dopo la maturità scien-tifica, assumendo progressivamente le principali cariche: direttore commerciale, direttore generale, amministratore delega-to, fino all’attuale ruolo di Presidente.

Un’azienda storica la Robuschi SpA, che affonda le sue radici nel 1925 quando il fondatore, Giovanni Robuschi, decise di aprire a Parma una piccola officina per la riparazione di pompe ad uso agrico-lo. Nel corso degli anni l’officina cresce-rà fino a diventare un’azienda leader sul mercato internazionale per la costruzio-ne e fornitura di pompe destinate all’in-dustria, con filiali in diversi paesi esteri. Oggi presidente dell’azienda è Antonio Robuschi, nipote del fondatore.

Da piccola officina la Robuschi si è trasfor-mata in una realtà internazionale. Quali sono state le tappe principali di questa evoluzione?Quando fu fondata la Robuschi il lavoro era di tipo artigianale e nella sede di via Nino Bixio mio nonno, Giovanni, si occupava principal-mente della riparazione di pompe centrifu-ghe. Nel 1934 trasferì l’officina in via Emilia ovest dove sviluppò il settore della ricerca. È sempre in questo periodo che iniziano le

prime partecipazionI della Robuschi alle fiere di settore, facendo conoscere il nome della nostra azienda anche oltre i confini locali. Le dimensioni dell’officina risultarono ben pre-sto ridotte per l’attività della Robuschi, che si trasferì in una nuova sede in viale Piacenza dove saranno introdotte moderne tecno-logie per la produzione di pompe a pistoni contrapposti. Dopo la guerra la ditta cambie-rà nuovamente sede. Questa volta si sposterà in piazzale Barbieri e avrà inizio l’espansione dell’azienda sul mercato internazionale.

che tipi di problemi dovette affrontare suo nonno Giovanni per la costituzione dell’officina?Sicuramente il principale problema, che mio nonno dovette affrontare agli inizi dell’attivi-tà lavorativa, fu quello di farsi conoscere da un mercato agricolo, dove era presente un interlocutore scarsamente preparato all’uti-lizzo di un prodotto di tipo tecnico.

Quali furono gli sviluppi tecnologici più importanti per la crescita della Robuschi? Il primo step fu il passaggio dalla produzione di pompe per uso agricolo a pompe per uso industriale. Successivamente, tra il 1950 e il 1960, nacquero le pompe per il vuoto, serie RBP, per rispondere alle richieste del mer-cato locale dell’industria alimentare. Nello stesso periodo furono anche costruiti i pri-

mi soffiatori a lobi per il trasporto pneuma-tico di farina, polveri e granaglie alimentari. La nascita e, inizialmente, le varie evoluzioni dei prodotti hanno quindi seguito i bisogni del mercato locale e si sono poi trasformate per soddisfare quello globale. Negli anni ‘90 un’evoluzione importante fu la creazione di pompe e soffiatori assemblati con motore, seguita dalla fornitura di gruppi completi pronti all’uso. Le tecnologie informatiche hanno infine modificato il modo di gestire e organizzare sia la parte produttiva che quella commerciale dell’azienda.

come è cambiato il vostro cliente di riferi-mento?I clienti sono diventati nel tempo più esi-genti e desiderano avere un gruppo com-pleto di tutti gli accessori per il funziona-mento dei macchinari, al fine di evitare

eventuali problematiche nell’utilizzo.

nel corso della sua carriera ha notato cam-biamenti nei valori che caratterizzano gli ambienti lavorativi?Inizialmente l’attività era artigianale e anche i lavoratori erano “artigiani” del loro mestiere. Erano in grado di portare avanti autonoma-mente tutte le fasi produttive, fino a realizzare il prodotto finale su specifica del cliente. ora il personale è tecnologicamente più prepara-to e specializzato nella sua area di competen-za. Questo risulta essere un passaggio chiave per consentire una crescita importante delle quantità prodotte, mantenendo elevati stan-dard di qualità.

Anche lei è impegnato nella Robuschi. Giudica importante la continuità familiare nella conduzione aziendale?Ritengo che la continuità familiare nella conduzione aziendale sia importante se si possiede la “passione” per la propria attivi-tà; un’impresa deve essere curata e gestita come un figlio. ora, purtroppo, questo non è più sufficiente per garantire il successo della propria azienda; oggi occorre anche effettua-re una selezione accurata di un management di alto livello, per essere in grado di evolversi con il mercato. di Erika Ferrari

L’oFFIcInA DIVEnTATALEADER MonDIALE

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Antonio Robuschi

PART

E SEC

ONDA

LE PoTEnzIALITà DEL coMPARTo

2

205

AnALISI DEL coMPARTo: IL QuESTIonARIo SoTToPoSTo ALLE IMPRESE

di Massimo Capuccini

L’Italia è il regno delle rilevazioni statistiche; oggi come oggi non esiste notizia nel no-stro Paese che non abbia fondamento in un qualche rilievo numerico fornito da questo o quell’istituto di ricerca. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda l’economia, scienza che da sempre confina con la matematica. Eppure, in questo eccesso di offerta spes-so si perde qualcosa. Interi settori vengono “compresi” statisticamente attraverso l’interro-gazione di poche aziende campione, le quali divengono decisive per fotografare le macro tendenze di economie locali, regionali o nazionali.

Ma se si volesse capire nel dettaglio un relativamente piccolo settore come quello preso in esame in questa pubblicazione? È partendo da questa domanda che è stato realizzato un dettagliato questionario “cucito” addosso a un settore che a Parma conosciamo bene: il comparto delle tecnologie per l’agroalimentare. Le 63 imprese che hanno aderito (il 25% del totale che operano in questo settore) hanno risposto dettagliatamente, offrendo una foto-grafia molto precisa del comparto. Con questo capitolo non pretendiamo di offrire un’inda-gine con i crismi di una rilevazione statistica ufficiale, ma vogliamo analizzare le risposte che abbiamo ottenuto ai nostri quesiti, consci del fatto che un campione del 25% rappresenta in ogni caso un valore che mai potrà essere rappresentato in altri rapporti di questo genere.

Si tratta di un primo passo in vista della pubblicazione che verrà presentata in occasione di Cibus 2010. Per quell’evento l’obiettivo è di poter offrire una rilevazione basata sul 100% (250 circa) delle imprese che operano in questo settore sul nostro territorio.

2.1Analisi del Comparto

206

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

207

2.1

2.1.1 LA MoRFoLoGIA DELLE IMPRESEIl comparto delle teconlogie per l’agroalimentare è composta da circa 250 imprese. Di

queste 63 (il 25%) hanno risposto al questionario che è stato loro sottoposto dal Centro Studi Città e Democrazia. L’attività delle aziende è stata suddivisa in quattro macro settori: “Macchine e attrezzature per il processo di lavorazione dei prodotti agroalimentari”; “Mac-chine e apparecchi per il confezionamento e l’imballaggio impiegati nell’industria agroa-limentare”; “Imballaggi impiegati nell’industria agroalimentare” e “Macchine, attrezzature complementari e servizi per l’industria agroalimentare”.

Il primo vede una consistente rappresentanza di imprese nei settori specifci delle mac-chine per la lavorazione del latte, delle bevande analcoliche e dei prodotti ortofrutticoli con 85 ricorrenze. Il secondo, che risulta essere in assoluto il più rappresentato con 101 occorrenze (ogni impresa aveva la possibilità di indicare diversi settori di attività), vede la massiccia presenza di operatori dei settori della movimentazione e del confezionamen-to. Più marginali i rimanenti due macro settori che comunque assommano 59 ricorrenze complessive (vedi tabelle a lato).

Per quanto riguarda il fatturato, il valore complessivo di queste 63 imprese riferito al 2008 è di circa 1,3 miliardi di euro. 33 imprese hanno concorso a questo valore mettendo

a bilancio meno di 6 milioni di euro, men-tre solo 7 si posizionano in una fascia che sta oltre i 50 milioni di euro. Se ne deduce che il settore è caratterizzato da una varietà di imprese che vanno da una consistenza medio-piccola (con meno di dieci dipen-denti e fino due milioni di euro di fatturato) a grandi imprese con più di 150 milioni di fatturato e oltre 1000 dipendenti.

Nell’arco di otto anni (dal 2000 al 2008) la classe di fatturato è cresciuta per il 39,65% delle imprese mentre è rimasta invariata per il 55,17%, segno che alle dimesioni del fatturato complessivo si accompagna una sostanziale solidità dell’intero comparto in termini di performance: solo il 5,15% dichiara, infatti, di aver calatola propria classe di fat-turato in questo periodo di tempo.

Parlando di solidità delle aziende una considerazione va fatta anche in merito alle for-me sociali. Il 44, 26% (26) delle 63 imprese intervistate è una Società per Azioni. Un nume-ro appena poco superiore, 28, si è costituito come Srl. Particamente marginale il ricorso ad altre forme societarie come la Snc e la Sas.

Fasce di Fatturato in mln. di euro - Anno 2008

Andamento fatturato 2000-2008

Forma societaria

Analisi del Comparto

208

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

209

Segmento Imprese

Macchine e attrezzature per la raccolta dei prodotti ortofrutticoli e la trebbiatura 1

Macchine e attrezzature per la lavorazione e la preparazione delle bevande alcoliche 4

Macchine e attrezzature per la lavorazione e la preparazione delle bevande analcoliche 15

Macchine e attrezzature per la macellazione e la lavorazione delle carni fresche e conservate 8

Macchine e attrezzature per la lavorazione del pesce e molluschi freschi e conservati 4

Macchine e attrezzature per la lavorazione della canna e barbabietola da zucchero, caffè, e altri prodotti per infusi e derivati 1

Macchine e attrezzature per la lavorazione del latte e derivati 13

Macchine e attrezzature per la lavorazione della pasta secca e fresca 6

Macchine e attrezzature per la lavorazione dei prodotto da forno 4

Macchine e attrezzature per la lavorazione dei prodotti dolciari e del cioccolato 5

Macchine e attrezzature per il condizionamento dei prodotti ortofrutticoli freschi 2

Macchine e attrezzature per la lavorazione dei prodotti ortofrutticoli e prodotti derivati conservati 13

Macchine e attrezzature per la lavorazione della frutta secca 1

Macchine e attrezzature varie per la lavorazione di prodotti diversi 2

Macchine e attrezzature per la preparazione di pasti e bevande per alberghi, risto-ranti e bar 4

Revisione e commercio di macchine usate per la lavorazione di prodotti agroalimentari 2

Totale 85

2.1

1 - Macchine e attrezzature per il processo di lavorazione dei prodotti agroalimentari

Segmento Imprese

Macchine e apparecchi che effettuano sui prodotti, prima o dopo il confezionamento primario, operazioni di controllo e selezione

3

Macchine e apparecchi che effettuano sui prodotti, prima o dopo il confezionamen-to primario, operazioni di pulizia e di conservazione

14

Macchine e apparecchi che effettuano sugli imballaggi primari, sulle chiusure, sugli imballaggi secondari e di spedizione operazioni di controllo e selezione 5

Macchine e apparecchi per la movimentazione dei prodotti prima del confeziona-mento primario 15

Macchine e apparecchi per la movimentazione degli imballaggi primari, secondari, di spedizione, vuoti e pieni e anche di chiusure, accessori, e materiali per gli imballaggi 16

Macchine e apparecchi per il confezionamento primario dei prodotti alimentari liquidi, densi, in pezzi con liquido di governo 18

Macchine e apparecchi per il confezionamento primario dei prodotti alimentari in polvere e granulari, in pezzi 3

Macchine e apparecchi per il confezionamento secondario e per imballaggi di spedizione 5

Macchine e apparecchi che effettuano operazioni di immagine e di identificazione sugli imballaggi e sui prodotti 2

Macchine e apparecchi di fine linea 12

Macchine e apparecchi vari impiegati in altre fasi del confezionamento e imballaggio 5

Revisione e commercio di macchine usate per il confezionamento e l’imballaggio 4

Totale 101

2 - Macchine e apparecchi per il confezionamento e l’imballaggio impiegati nell’industria agroalimentare

Analisi del Comparto

210

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

211

2.1

Segmento Imprese

Macchine per produrre imballaggi 3

Impianti per la depurazione delle acque, per la sanificazione,per il trattamento dei rifiuti 4

Impianti per i trattamenti termici 3

Camere Bianche 1

Attrezzature per cambio formato 1

Strumentazione 1

Apparecchi di laboratori 1

Pompe 3

Raccorderia, rubinetteria, valvole 2

Quadri elettrici di comando 1

Contenitori di stoccaggio 2

Stampi e trafile 1

Analisi e consulenza 3

Progettazione conto terzi di macchine di processo e di confezionamento 1

Montaggi e assistenza conto terzi presso l’utenza 3

Progettazione di imballaggi 3

Logistica conto terzi 1

Boccaporti - chiusini - vasche di drenaggio 1

Compressori a bassa pressione 1

Impianti a pannelli solari 1

Impianti di sollevamento e ribaltamento 2

Lame per taglio alimenti 1

Tracciabilità e rintracciabilità prodotto 1

Supervisione impianti per ottimizzazione cicli 1

Macchine e attrezzature per sanificazione 1

Totale 43

4 - Macchine, attrezzature complementari e servizi per l’industria agroalimentare

Segmento Imprese

Contenitori in acciaio 2

Contenitori in alluminio 1

Contenitori in cartone 1

Contenitori rigidi in materiale plastico 1

Contenitori flessibili e semi rigidi in accoppiati 1

Contenitori flessibili e semi rigidi in alluminio 1

Contenitori flessibili e semi rigidi in carta e cartoncino 2

Contenitori flessibili e semi rigidi in materiale plastico 1

Chiusure (capsule coperchi e tappi) in acciaio e metalli vari 2

Chiusure (capsule coperchi e tappi) in legno e sughero 1

Mezzi ausiliari di chiusura 1

Etichette (etichette, bollini e cartellini) 1

Pallet e imballaggi industriali 1

Totale 16

3 - Imballaggi impiegati nell’industria agroalimentare

Analisi del Comparto

212

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

213

2.1.2 EXPoRTL’export rappresenta il fiore all’occhiello del comparto. Sono 11 le imprese su 63, il

17,4%, che dichiarano di aver realizzato nel 2008 dall’80% al 100% del proprio fatturato esportando i propri prodotti. Un risultato senza dubbio notevole, suffragato dal fatto che solo 8 imprese dichiarano di non concentrare il proprio business al di fuori dei confini nazionali. Il principale mercato di riferimento del comparto è, come è facile immaginare, l’Europa, che raccoglie il 66% delle imprese. Seguono Asia (9,5%) e Stati Uniti (4,7%). Più marginale il fatturato realizzato sui rimanenti mercati internazionali. Interrogati sulla po-sitività o meno dei deversi mercati scopriamo che a riscuotere i maggiori consensi è l’est europeo (46 voti favorevoli e solo 5 contrari) seguito a breve distanza da un agglomerato

costituito da Sud America, Giappone e Fi-lippine (39 contro 5). Cina e India insieme rappresentano il fanalino di coda con solo 28 preferenze e ben 15 commenti nega-tivi. Da sottolineare che ad una domanda specifica sugli effetti che lo sviluppo della tecnologia agroalimentare da parte dei paesi emergenti potrà avere sulle nostre esportazioni solo 10 imprese li hanno de-finiti “ininfluenti” mentre ben 43 li hanno giudicati “pericolosi”.

Parlando di internazionalizzazione l’11% delle imprese dichiara di avere una sede produttiva all’estero, mentre esat-tamente il doppio (22%) dispone di una sede commerciale. In cima alla lista dei Paesi che ospitano una sede produttiva c’è la Cina, scelta da ben tre imprese, se-guita dall’Ucraina con due stabilimenti. Da sottolinere però che tra coloro che hanno aperto una sede produttiva o commerciale fuori dall’Italia è altissima la percentuale di chi dichiara di avere avuto problemi: ben il 28,5%.

Bassa invece la percentuale di coloro che ricorrono a SACE, agenzia di credito all’esportazione, per la copertura dei rischi relativi e agli investimenti all’estero: 23,6%.

2.1

Export del Comparto

Utilizzo di SACE per copertura rischi

Imprese che hanno sedi all’estero

Il giudizio delle imprese sui mercati esteri

Analisi del Comparto

214

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

215

Un capitolo a parte va dedicato alle Fiere, che vedono in ogni caso una massiccia ade-sione del comparto: su 63 imprese intervistate si registrano 127 partecipazioni ad un to-tale di 11 fiere internazionali. Considerando che 14 imprese non dichirano affatto parte-cipazioni, se ne deduce che mediamente ogni azienda ha partecipato a più di due eventi fieristici nel 2008.

ovviamente la più frequentata è Cibus Tec di Parma, con 31 adesioni. Segue Anuga Tech (18), Emballage a pari merito con Drink Tec (13), Interpack (12), Hispak (11) e Simei (10). Sul fronte dei risultati però il panorama cambia sensibilmente: ad esempio ben il 50% delle imprese che hanno partecipato all’Ipack –Ima di Milano o al Ppma show di Biming-ham li hanno definiti “insufficienti”, mentre Simei (Milano), Hipspak (Spagna) e Cibus Tec si attestano intorno al 25% di giudizi negativi. A fare il pieno di consensi sono fiere come Emballage e Interpack seguite da Anuga di Colonia (con il 88%) e Gia di Parigi (85%).

2.1.3 InnoVAzIonE TEcnoLoGIcAIl comparto della meccanica per l’agroalimentare necessita per sua stessa natura di

un rapporto costante con la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Da questo punto di vista osservare il livello degli investimenti in questo determinato settore significa fotogra-fare il grado di competitività che le imprese hanno o si apprestano ad avere sui mercati internazionali.

Non stupisce in questo senso che le percentuali di fatturato destinate alla cosiddet-

ta innovazione tecnologica risultino parti-colarmente significative: dalle 63 imprese intervistate emerge che mediamente il 7,27% del fatturato viene impegnato in questo settore, anche se va sottolineato che su 41 imprese che investono, 28 stan-no sotto il 5%. Da rimarcare anche che un 22% di imprese dichiara di non effettuare investimenti in questo campo, una scelta che è nella maggior parte dei casi legata alla dimensione stessa dell’azienda, troppo piccola per dotarsi delle strutture necessa-rie per questo genere di attività.

In questo senso gioca un ruolo impor-tante anche il rapporto con strutture ester-ne in grado anche di attivare processi di condivisione tecnologica con imprese dello stes-so settore.

Al primo posto figura la Stazione Sperimentale delle Conserve (SSICA) con la quale il

2.1

Rapporti con strutture di ricerca

Imprese che investono in ricerca e sviluppo

Fiere Espone non espone

non risponde

Risultati positivi

Risultati negativi

cibus Tec - Parma 31 31 1 20 11

Anuga Food Tech - colonia 18 42 3 17 1

Alimentaria - Barcellona 3 56 4 2 1

Emballage - Parigi 13 45 4 13 0

Gia - Parigi 7 52 4 6 1

Interpack - Dusseldorf 12 48 3 12 0

Drink Tek - Monaco 13 46 4 10 3

hispak - Barcellona 11 47 5 8 3

PPMA - Bimingham 2 57 4 1 1

Ipack - Milano 7 52 4 3 3

Simei - Milano 10 48 5 7 3

Rapporti con Fiere Internazionali

Analisi del Comparto

216

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

217

2.1

39,6% degli intervistati dichara di avere rapporti che vanno dalla consulenza, all’elabora-zione di progetti di ricerca. È di poco inferiore (33,3%) il numero delle imprese che ricorre invece all’Università. In questo caso per attività di analisi laboratoriale e progetti di ricerca scientifica. Le Facoltà più “gettonate” risultano essere, abbastanza prevedibilmente, quelle di Ingegneria e Fisica.

Risulta invece apparentemente in ritardo il ricorso al Parco Scientifico e Tecnologico di Parma con il quale solo 4 imprese sulle 63 intervistate hanno dichiarato di avere rapporti. va però considerato in questo caso che la struttura è entrata in piena attività solo di re-cente e che rivolge la propria attenzione prevalentemente alla Piccole e Medie Imprese del territorio.

2.1.4 occuPAzIonELe 63 imprese del comparto della mec-

canica per l’agroalimentare intervistate impiegano complessivamente circa 6.000 addetti (dato riferito al 2008). Di queste 37 (quasi il 60%) hanno fino a 70 dipendenti mentre solo cinque imprese totalizzano da 250 a oltre 1000 dipendenti l’una, a testi-monianza del fatto che in questo settore operano aziende di dimensioni anche rag-guardevoli. La reperibilià della mano d’ope-ra è un problema per il 61% delle aziende, in particolar modo per figure professionali che vanno dai carpentieri, ai tecnici spe-cializzati a progettisti, programmatori e sistemisti.Per quanto riguarda il personale femminile sono poco più del 60% (38 su 63) le aziende che dichiarano di impiegarne. Abbastanza prevedibilmente il settore nel quale vengono maggiormente impiegate è quello commerciale (24 imprese), seguito da quello produttivo (19) e tecnico (14).

Identica percentuale, il 60%, per le im-prese che dichiarano di fare ricorso a mano d’opera straniera. Le provenienze più ricor-renti sono il Marocco e il Senegal e i risultati professionali sono definiti “buoni” o “suffi-

Impiego di personale femminile

Impiego di lavoratori stranieri

cienti” per la quasi totalità delle imprese (37 su 38). Infine sul fronte sindacale si evidenzia qualche “sorpresa” nei rapporti tra impresa e associazioni. Se è vero infatti che il 65% li giudica “buoni” (di questi il 4% li definisce “indispensabili”) c’è un buon 35% che invece segnala delle difficoltà nelle relazioni con i sindacati.

Rapporti con i sindacati

2.1.5 IL RAPPoRTo con ASSocIAzIonI, EnTI ED ISTITuTI DI cREDIToLe imprese credono nell’associazionismo, visto che il 92% delle aziende che hanno

risposto al questionario sono iscritte ad una associazione imprenditoriale (58 su 63). La più rappresentativa è l’Unione Parmense Industriali con 32 iscrizioni (50,79%) cui va aggiunta ai fini statistici due adesioni a Confindustria Reggio Emilia e una a Confin-dustria nazionale. Con percentuali sensibil-mente più contenute troviamo le imprese artigiane che complessivamente totalizza-no il 32% delle adesioni così ripartite: Cna (Confederazione Nazionale dell’Artigiana-to) 12, Gia (Gruppo Imprese Artigiane) 5 e Apla (Associazione Provinciale Liberi Arti-giani) 3. Nel conteggio delle adesioni va te-nuto presente che 5 imprese hanno dichia-rato una doppia adesione. Se guardiamo al grado di soddisfazione per il supporto rice- Rappresentatività delle associazioniSettori d’impiego del personale femminile

Analisi del Comparto

218

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

219

2.1

vuto dalla propria associazione scopriamo che su 58 imprese iscritte 7 lo definiscono “Insufficiente”, 21 “Sufficiente”, 14 “Discre-to” e 11 “Buono”. 5 imprese preferiscono in-vece non rispondere. Molto più contenuta l’adesione e la soddisfazione per l’attività delle associazioni di categoria. Sono in tut-to 19 le imprese che aderiscono alle sigle (il 30% del totale), ma di queste ben 7 (il 36% delle aderenti) definiscono il supporto for-nito “Insufficiente”, mentre le rimanenti 12 si dividono quasi equamente i giudizi che vanno da “Sufficiente” a “Buono”.

Importante anche la rilevazione delle opinioni rispetto al rapporto con l’ente di riferimento per l’attività imprenditoriale sul territorio: la Camera di Commercio. Su 63 aziende 18 non hanno opinioni a riguar-do mentre ben 12 (il 19%) ritiene sia “Insuf-ficiente”, 17 lo considerano “Sufficiente”, 13 “Discreto” e 3 “Buono”.

La vera sorpresa arriva dalla rilevazione circa il grado di soddisfazione del proprio rapporto con gli istituti di credito. Ben 36 Imprese (57%) li definisce “Buoni”, percen-tuale a cui si vanno ad aggiungere le 22 aziende (35%) che hanno selezionato l’op-zione “Sufficienti”. Solo 4 imprese scelgono di definirli “Difficili” giustificando la propria posizione con un’eccessiva rigidezza dei rapporti resi più complessi dall’entrata in vigore delle norme relative a Basilea 2. Quest’ultimo dato sembra dunque inverti-re, o quantommeno ridimensionare, il luo-go comune secondo cui le imprese tendo-no ad avere un rapporto conflittuale con le banche poiché queste sono poco propen-se ad investore e credere nell’azienda.

Rapporto con le associazioni Imprenditoriali

Rapporto con gli istituti di credito

Il rapporto con la Camera di Commercio

2.1.6 LE oPInIonI DELLE IMPRESECome vedono il futuro le 63 imprese che hanno aderito a questo progetto? Anche

da questa semplice domanda arriva qualche sorpresa. Contrariamente alle aspettative infatti sono solo 2 le imprese che scelgono la definizione “Negativo”. In 12 lo definisco-no “Incerto” e ben 31 addirittura “Positivo”. Si tratta di una posizione che certamente identifica meglio di altre il buono stato di salute complessivo del comparto.

Per quanto riguarda il progetto sulle tecnologie agroalimentari promosso dal Centro Studi “Città e Democrazia” il que-stionario chiedeva alle imprese di indicare al massimo due priorità di realizzazione rispetto a diversi obiettivi. In questo caso hanno riscosso maggior consenso il rilan-cio della cooperazione internazionale (27 preferenze), il dotarsi di un “Piano di pro-mozione diretto del comparto” (25 prefe-

Come vedono il futuro le imprese?

Le priorità delle imprese

Analisi del Comparto

220

LE POTENZIALITà DEL COMPARTO

221

renze) e la promozione generale del “Marchio Parma” (20 preferenze). Più distanziata l’op-zione di costituire un distretto (14 preferenze) e la creazione di un museo delle tecnologie agroalimentari (1 preferenza).

Rispetto all’obiettivo di “Città e Democrazia” di coinvolgere nel sostegno al settore il Comune, la Provincia, la Camera di Commercio, l’Università e le associazioni imprendito-riali, le aziende interpellate si sono espresse positivamente nel 89% dei casi (57 risposte lo definiscono “auspicabile”) mentre solo 6 (9,5%) risponde “utopistico”. Infine è stato chiesto alle imprese di mandare in forma libera un messaggio alle istituzioni affinché si adoperino per il sostegno dell’intero comparto delle tecnologie agroalimentari. Dalle 29 imprese che hanno deciso di rispondere emerge la necessità di avere meno burocrazia, meno politica e maggiore sostegno diretto alle aziende attraverso azioni a favore dell’export e della ri-cerca.

2.1.7 concLuSIonIIl comparto delle tecnologie per l’agroalimentare è solido, dinamico, investe in inno-

vazione e si muove con successo sui mercati internazionali. Gli imprenditori che ne fanno parte hanno un buon rapporto con gli istituti di credito e sono generalmente ottimisti sul futuro del proprio business. La fotografia che emerge dalla prima rilevazione effettuata sul 100% delle aziende che hanno aderito al progetto del Centro Studi “Città e Demo-crazia” lascia per molti aspetti stupiti, anche se a ben vedere, non sorpresi. Questo è un settore che è sempre stato definito “trainante” per la nostra economia, vero e proprio fiore all’occhiello di un territorio che ha saputo costruire accanto alle tipicità dei propri prodotti un’industria capace e ricca d’inventiva. Semmai la novità è rappresentata dal fatto che per la prima volta un’indagine “legge” il comparto trasversalmente, mettendo sullo stesso piano imprese con meno di dieci dipendenti e imprese con più di mille, per ottenere una visione d’insieme di questo ampio settore. E allora, al di là dei risultati più eclatanti, ecco emergere i temi decisivi per il futuro del comparto.

In primo luogo il lavoro. Sono troppe le imprese (il 61%) che denunciano la difficoltà nel reperire le figure professionali necessarie. Non avere figure professionali idonee impo-verisce l’impresa e la espone a subire concorrenza da territori dove è più facile reperirne. Questa è una sfida che il sistema delle istituzioni del territorio deve raccogliere e vincere, in primo luogo sul piano delle formazione professionale, in secondo luogo su quello della capacità di attrazione della manodopera specializzata da altri territori. Sempre in tema di lavoro c’è un margine significativo anche per migliorare i rapporti tra imprese e sindacati, miglioramento auspicabile proprio nel senso di saper “fare sistema” tra le associazioni del territorio. Sul fronte delle relazioni con le associazioni imprenditoriali si evidenzia l’auspi-cio da parte delle aziende di un miglioramento dei servizi. Il punto di vista del Centro Studi è che in certa misura occorre individuare un ambito dove si possa ragionare in termini di

2.1

filera e non di singola categoria merceologica. A questo comparto occorrono politiche di ampio respiro, pensate intrecciando le diverse necessità di imprese che possono essere o non essere in concorrenza tra loro, ma sempre sono fornitrici di uno stesso cliente. È questa la proposta forte che nasce dal progetto che Città e Democrazia intende porre all’attenzione di tutti gli attori coinvolti in questo settore e del quale questo libro rappre-senta un primo passo.

E che questo lavoro si stia muovendo nella giusta direzione lo possiamo avvalorare andando ad analizzare le opinioni delle imprese. Non solo si auspica che questo progetto possa essere portato a termine ma si indica chiaramente che le politiche future dovranno andare nella direzione di una promozione diretta del comparto e generale del “Marchio Parma”. Questo ci chiedono le imprese, questo abbiamo il compito, come rete di istituzio-ni, associazioni, enti e soggetti che operano su questo territorio, di raccogliere, interpreta-re e realizzare per il futuro di Parma e della sua gente.

Analisi del Comparto

PART

E TER

ZA

I cEnTRI DI SuPPoRTo EDI FoRMAzIonE

3

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3.1.1 - LA nAScITA DELLE FIERE DI PARMANegli anni venti il territorio parmense aveva sviluppato un sistema produttivo di eccel-

lenza per l’attività conserviera: non solo Parma primeggiava nella coltivazione e lavorazione del pomodoro – nel 1936 i settanta stabilimenti presenti nel territorio fornivano quasi un terzo della produzione nazionale di estratto del prodotto – ma presentava anche un’indu-stria metalmeccanica altamente specializzata in macchine per la sua lavorazione. Un tale sviluppo richiese, ben presto, la costituzione di un ente, che attraverso una fiera annuale, fosse in grado di fornire agli imprenditori conoscenze tecniche e scientifiche e momenti di confronto. A sostenere questa iniziativa furono la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari, il Comune e la Provincia di Parma e il Consiglio delle Corporazioni, che diverrà in seguito la Camera di Commercio. Nel 1939 sarà, quindi, costituita la Mostra delle Conserve Alimentari, un Ente autonomo con personalità giuridica, fornita di proprio statuto. Come presidente fu designato Mario Mantovani e come segretario generale Franco Ema-nuele, incaricato della realizzazione della Mostra.

Nella prima riunione del 1939 il Consiglio di amministrazione decise di realizzare, già l’anno seguente, la prima manifestazione, ma il progetto dovette essere rimandato a causa dell’entrata in guerra dell’Italia e della mancanza di un reale spazio espositivo; la sede era stata individuata nel Padiglione A, l’edificio neoclassico situato all’interno del Parco Ducale, che il Comune ultimò solo nel 1941. La prima manifestazione poté, quindi, essere realizzata nel 1941, dal 18 maggio al 1 giugno. L’esposizione fu chiamata Mostra Autarchica per sca-tole e imballaggi per conserve alimentari, e presentava due sezioni: Scatole e imballaggi, e Sprechi e Recuperi. Tale scelta fu causa dalla particolare situazione contingente del periodo bellico: durante la guerra era emersa la necessità di sostituire la banda stagnata, utilizzata per gli imballaggi, con materiali nazionali, meno cari e più facilmente reperibili rispetto allo stagno di cui il sistema autarchico aveva bloccato le importazioni.

Alla manifestazione parteciparono oltre cento espositori e tale risultato, confermò la ma-nifestazione anche per il 1942, estendendola a tutto il comparto dell’industria conservie-ra, dalla materia prima, ai prodotti, alle macchine, fino agli imballaggi. Con questa scelta la Mostra di Parma si affermò come unica al mondo nel suo genere: la Mostra delle Conserve Alimentari era la sola dedicata al settore conserviero e l’unica a coinvolgere tutto il relativo ciclo produttivo.

Il successo dell’evento fu notevole. Il Consiglio di Amministrazione era intenzionato a

LE FIERE DI PARMA E IL cIBuS TEc

3.1Le Fiere di Parma e Cibus Tec

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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ripetere l’esposizione anche l’anno succes-sivo, ma l’avanzare della crisi, causata della guerra mondiale, compromise questa pos-sibilità. I bombardamenti su Parma danneg-giarono seriamente la struttura e i tedeschi, che la occuparono, lasciarono tracce pesanti del loro passaggio. Con la fine della guerra, l’Ente fieristico si trovò in grave crisi finan-ziaria, ma ancora una volta fu il particolare periodo storico a dare nuova linfa alla re-alizzazione della mostra. La guerra aveva lasciato dietro di sé condizioni alimentari difficili, e seri problemi per l’industria con-serviera. Nel 1947 fu ricomposto il Consiglio di Amministrazione ed eletto presidente Giuseppe Micheli; gli enti locali e la Camera di Commercio rinnovarono i finanziamenti e nel 1949 fu siglata una nuova convenzio-ne fra l’Ente e il Comune di Parma per l’uso dei padiglioni. La prima mostra del secondo

dopoguerra fu dedicata agli alimenti in generale, dato che l’industria del pomodoro aveva perso il suo ruolo dominante. L’edizione del 1947 non riscosse però molto successo da parte degli espositori nazionali, registrando pesanti assenze, come quello dei rappresentati cam-pani. Fu invece buona la presenza straniera e l’incasso ricavato permise di realizzare con più tranquillità l’edizione del 1948 con la quale la mostra assunse il nome di Internazionale.

L’incremento delle esportazioni che seguì alla guerra diede un’importante spinta al rin-novamento tecnologico dell’industria italiana, e soprattutto al comparto parmense, suppor-tato dalla stessa Mostra delle conserve. Il 1949 fu un anno decisivo per il consolidamento della manifestazione fieristica; fu costruito un nuovo padiglione denominato “M”, da “mac-chinario”, e fu realizzato il Salone dell’Imballaggio: un settore in continua espansione, tanto che nel 1951 l’esposizione assunse il nome di Mostra Internazionale delle Conserve e degli Imballaggi. Negli anni Cinquanta, quando presidente era zanlari, si assistette anche all’allar-gamento del quartiere fieristico: dai 2.505 metri quadrati dei padiglioni originali, si passò ai 6.212 del 1954 e la mostra si impose all’attenzione nazionale come centro di nuovi sviluppi e perfezionamenti tecnici dell’industria conserviera. Sempre negli anni Cinquanta si fece strada la necessità di dare maggiore spazio agli altri settori dell’agroalimentare locale, come zucchero, salumi e latte. Nel 1951 la manifestazione divenne Mostra Internazionale delle Conserve e Imballaggi – Fiera dall’Alimentazione; a fianco del tradizionale appuntamento

La prima sede delle Fiere di Parma nel Parco Ducale (Tito Peretti, 1952)

delle conserve si affiancò una più generica mostra rivolta al settore alimentare in generale, con una particolare attenzione per il Parmigiano Reggiano. Ma la nuova Fiera risentì nega-tivamente delle manifestazioni della stessa natura presenti da tempo a Bologna e a Milano. Tale difficoltà portò Parma a stringere un accordo con Bologna per la creazione di un unico Salone dell’Alimentazione: a Bologna la sede per i prodotti e Parma quella per le macchine. Dal 1955 al 1963 nella città ducale si svolgerà il Salone Internazionale Tecnico Industriale delle attrezzature dell’alimentazione, che però si fuse progressivamente nella mostra delle conserve.

Gli anni Sessanta furono segnati da un notevole sviluppo del numero e della qualità dei prodotti offerti dall’industria conserviera italiana; l’industria meccanica parmense segnò ri-sultati sempre più positivi in termini di esportazione degli impianti di lavorazione del po-modoro. Sempre in questo periodo la mostra rafforzò le partecipazioni internazionali, affer-mandosi nel panorama fieristico mondiale: nel 1965 erano presenti 1.354 espositori di cui 1.009 esteri, rappresentativi di 34 nazioni. L’esposizione parmigiana continuava a imporsi nella sua unicità e completezza, specializzandosi nel settore impiantistico a scapito di quello del prodotto finito: a testimonianza di ciò, nel 1965 la manifestazione divenne Mostra Inter-nazionale delle Industrie per le Conserve Alimentari.

Nel 1971 l’Ente Fiere diede spazio a una nuova mostra, quella dedicata all’industria Lat-tiero-Casearia, che ricevette il patrocinio del Ministero dell’Agricoltura. Lo scopo della fiera era duplice: da una parte promuovere i prodotti locali, dall’altro proporre ai produttori una visione d’insieme dell’offerta tecnologica del momento. Dagli anni Settanta le esposizioni fieristiche di Parma assunsero un carattere sempre più particolareggiato, evidenzian-do soprattutto l’aspetto tecnico dei settori conserviero e lattiero-caseario. Nel 1979 la Mostra Internazionale delle Industrie per le Conserve Alimentari divenne Tecnoconser-ve e assunse una cadenza biennale, mentre il Salone Internazionale delle Industrie Lat-tiero-Casearie fu trasformata in MILC – Mo-stra Internazionale degli Impianti Lattiero-Caseari. Negli anni Settanta fu modificato anche il nome stesso dell’Ente: da Ente Au-tonomo Mostra delle Conserve Alimentari a Fiere di Parma, a sottolineare la diversificata serie di attività proposte. Nel 1984 le Fiere di Parma, su impulso del presidente Flavio

3.1Le Fiere di Parma e Cibus Tec

Manifesto dell’ 8° Mostra delle Conserve - 1953

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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Franceschi, trovarono una sede espositiva, più adatta per le proprie esigenze, nell’attuale quartiere fieristico di Baganzola. Nella nuova sede le Fiere occuparono inizialmente i primi tre capannoni di proprietà della Salvarani Cucine, azienda leader negli anni ’60 per la produ-zione di cucine sul territorio parmense, lasciati liberi a seguito della chiusura della ditta. La Fiera si è poi espansa costruendo nuovi spazi per un totale di sei padiglioni, fino alla realiz-zazione del Palacassa, arrivando a occupare una superficie complessiva pari a 300.000 metri quadrati.Fu proprio a Baganzola che, nel 1985, si svolse la prima edizione di Cibus - Salone Internazionale dell’Alimentazione, diversificando in appuntamenti biennali le fiere dedicate all’alimentare e quelle rivolte alle tecnologie alimentari conosciuta come Cibus Tec.

3.1.2 - IL cIBuS TEcIl Cibus Tec è la manifestazione fieristica che coinvolge i settori della componentistica, dei

servizi e della tecnologia, riunendo quelle che in precedenza erano i singoli appuntamenti di Tecnoconserve, Milc e Multitecno. Cibus Tec è una vetrina internazionale sul mondo delle tecnologie e dell’innovazione nel campo dell’impiantistica alimentare, integrando l’offerta espositiva di Cibus, la mostra internazionale dedicata al settore alimentare.

La sezione di Cibus Tec dedicata a Tecnoconserve ospita circa un terzo degli espositori complessivi dell’evento fieristico. Questo salone è dedicato alle principali tecnologie per il processo e il packaging della carne e dei prodotti vegetali diversificati in pomodoro, verdure fresche lavorate e ready to eat (IV e V gamma), frutta fresca (anche tropicale) e trasformazio-ne in succhi e in conserve di frutta (in scatola e non). Il settore lattiero-caseario è invece ospi-

3.1

Un padiglione del Cibus Tec

Le Fiere di Parma e Cibus Tec

tato all’interno del solone dedicato a Milc, in cui sono presenti un altro terzo degli espositori della fiera. In mostra vi è tutta la filiera della trasformazione del latte, dalle tecnologie per i prodotti di largo consumo (latte fresco, UHT, burro, yogurt, bevande a base di latte) alle linee complete per la produzione di formaggi a pasta dura e filata (Parmigiano Reggiano, mozza-rella…); e le tecnologie dedicate ai nuovi prodotti salutistici e di tendenza come i functional products e i probiotici. Il restante terzo degli espositori di Cibus Tec occupa infine il salo-ne Multitecno, dedicato alle tecnologie trasversali impiegate nell’industria agroalimentare. Negli spazi di Multitecno sono esposti apparecchi di igiene e di laboratorio, automazioni industriali, sistemi e tecnologie per l’imballaggio e il confezionamento, etichettatura, trac-ciabilità, qualità e sicurezza alimentare, gestione del fine linea e logistica.

3.1.3 - LA FILoSoFIA E GLI oBIETTIVI FuTuRI DI cIBuS TEcGrazie alla partnership instaurata da Fiere di Parma con Federalimentare per l’organizza-

zione di Cibus, la società fieristica può disporre di un articolato data base con contatti di circa 2.350 espositori e oltre 60.000 visitatori: contatti a cui può ricorrere per invitare a Cibus Tec i numerosi responsabili tecnici e di produzione delle aziende alimentari. A Cibus Tec parteci-pano aziende di varie dimensioni, dalle grandi multinazionali alle piccole realtà innovative, che individuano nella manifestazione italiana un contatto diretto con il mercato mondiale e quindi un importante spazio di promozione e di relazione con i competitor e i potenziali clienti. Le dimensioni espositive di Cibus Tec sono ben rese dai numeri dell’edizione 2007: 858 gli espositori provenienti da 27 Paesi, 22.000 i visitatori appartenenti a 105 Paesi, 107 i giornalisti accreditati di testate specializzate.

Con l’edizione 2009 le Fiere di Parma si impegnano a dare alla manifestazione un nuovo indirizzo, che sappia catturare l’attenzione di un numero sempre maggiore di visitatori in-ternazionali. La società fieristica sta, infatti, elaborando strategie per rafforzare l’incoming di buyer stranieri qualificati provenienti non solo dai mercati tradizionali, ma anche dai Paesi emergenti come Medio oriente e Nord Africa, e decision makers quali direttori generali, di-rettori tecnici e di produzione e i responsabili dell’area marketing e commerciale. Sulla base delle interviste sottoposte ad alcune grandi aziende in visita a Cibus Tec 2007 è emerso una particolare attenzione ai settori del packaging e del confezionamento, delle automazioni industriali, dei sistemi intelligenti di gestione dei magazzini, dei sistemi di gestione e di effi-cienza della produzione (recupero scarti industriali), dei sistemi di tracciatura del prodotto (sicurezza alimentare). In particolare è stata sottolineata l’esigenza non solo di conoscere le novità a livello impiantistico, ma anche di approfondire le diverse tematiche ad esso collega-te. Per questo motivo, a partire dall’edizione 2009, sono stati previsti incontri tematici e focus su vari argomenti; ogni edizione di Cibus Tec prevederà approfondimenti e spazi divulgativi, come il convegno organizzato con UCIMA (Unione Costruttori Italiani Macchine Automati-che per il Confezionamento e per l’Imballaggio) incentrato sul tema dell’imballaggio nella

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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grande distribuzione. ogni edizione di Cibus Tec prevederà zone tematiche e divulgative con espositori e una piccola sala per presentazioni, che ogni anno saranno dedicate a un preciso argomento, da analizzare secondo diversi approcci, dalla ricerca agli aspetti più pret-tamente normativi. Peculiarità di questi incontri sarà la loro organizzazione: gli eventi avran-no una durata ridotta di circa 15-20 minuti e l’approccio alle varie tematiche sarà di tipo trasversale volto a suscitare curiosità che potranno poi essere approfondite con le aziende che espongono a Cibus Tec. Ulteriore novità della manifestazione sarà la presenza di nuovi segmenti collegati al processo alimentare. È infatti stato elaborato, con la partecipazione della Fiera di Francoforte, un progetto incentrato sull’automazione industriale, settore già presente all’edizione 2009 di Cibus Tec, grazie alla partecipazione delle aziende del settore strumentazione e automazione industriale associate al GISI (l’Associazione Imprese Italiane di Strumentazione). Altro settore che vedrà un coinvolgimento sempre maggiore a Cibus Tec è quello del fine linea, della movimentazione e dei sistemi di gestione dei magazzini. Nel corso delle successive edizioni, Cibus Tec amplierà la sua offerta espositiva e convegnistica, trasformandosi in una manifestazione internazionale di ampio raggio: al suo interno potran-no trovare spazio, a fianco dei rappresentanti dell’impiantistica e della meccanica, anche gli altri settori della filiera agroalimentare come quello del packaging, e i rappresentanti dei processi fino ad ora non trattati come il settore bevande o il confectionery.

La società fieristica non è quindi solo un punto di riferimento espositivo a livello interna-zionale, ma si è anche affermata come partner di fiducia per l’attività congressuale, come te-stimoniato dalla collaborazione con le Associazioni confindustriali aderenti a Federalimenta-

re; con AMITOM (Associazione Mediterranea del Pomodoro da Industria) e WPTC (Consi-glio Mondiale del Pomodoro da Industria); e con FIL-IDF, Federazione Internazionale Lattiero-Casearia. Il mondo del pomodoro ha potuto apprezzare l’ottima organizzazio-ne del World Tomato Congress di Istanbul 2002, oltre che della gestione delle delega-zioni italiane ai congressi di Tunisi e Toronto; il comparto lattiero-caseario ha invece potu-to constatare le doti organizzative dello staff fieristico durante la Settimana della Scienza e Tecnologia Lattiero Casearia di Sirmione 2006. Il successo di questo evento è stato determinante per l’assegnazione all’Italia del FIL-IDF World Dairy Summit 2011, che Fiere di Parma organizzerà a Firenze. Il quartiere fieristico di Baganzola, Parma

LA STAzIonE SPERIMEnTALE DELLE conSERVE ALIMEnTARI3.2.1 - LE oRIGInI E IL conTESTo PARMEnSE

La SSICA è un’istituzione di ricerca applicata nata per assistere scientificamente il com-parto conserviero italiano, nel momento in cui la pratica empirica era abbandonata per imboccare quella dell’industrializzazione. Un passaggio indispensabile a partire dal 1950 quando, con l’aumento del benessere, aumenta la richiesta d’alimenti soprattutto d’origi-ne animale e, tra questi, in modo particolare, quella dei salumi che divengono alimenti di massa.

La fondazione della SSICA risale al 1922, anno nel quale il Ministero dell’Industria decise d’istituire a Parma, già cuore di un’industria conserviera d’impronta prevalentemente ve-getale (con rilevante preminenza della conserva di pomodoro), un centro di riferimento per gli imprenditori medio-piccoli del settore, collocato all’interfaccia fra il mondo acca-demico e l’industria, e avente come obiettivi principali: la realizzazione di ricerche finaliz-zate, la diffusione delle conoscenze, l’assistenza ai produttori di conserve e la stampa di una Rivista a contenuto tecnico-scientifico. L’originalità della formula, con cui il Decreto Regio 1396/1922 creava la Stazione delle Conserve, era nel fatto che l’istituto, pur operan-do sotto controllo ministeriale, era in grado d’individuare e attuare programmi di ricerca autonomi, di gestire autonomamente i finanziamenti - prevalentemente di provenienza industriale - e quindi di garantire snellezza operativa ed efficienza gestionale. Negli anni ’20 la città di Parma aveva raggiunto una posizione leader nella produzione agricola del pomodoro, nella sua trasformazione e nell’industria meccanica alimentare.

Sarà il primo direttore della futura Stazione, Francesco Emanuele, a trasformare il com-parto agro-alimentare, grazie alla promozione delle prime sperimentazioni e all’innova-zione delle tecnologie di produzione. Fu lui a creare un piccolo laboratorio che divenne un punto di riferimento per la produzione della meccanica alimentare.

I primi passi della SSICA furono verso l’acquisizione e la divulgazione delle conoscenze fondamentali in materia di conservazione degli alimenti, in particolare di quelli vegetali, partendo proprio dalle conserve di pomodoro in anni nei quali la razionalizzazione delle operazioni basilari della trasformazione, la formulazione degli ingredienti, le modalità di salatura delle carni e imballaggio erano un progresso epocale verso la modernizzazione.

La rivista della Stazione, con la pubblicazione delle prime sperimentazioni interne, la traduzione di lavori di ricercatori stranieri, il resoconto d’attività congressuali, iniziò a eser-citare un ruolo importante nella diffusione delle informazioni, ponendosi presto come

La SSICA 3.2

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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la più pertinente pubblicazione italiana, in materia di scienza e tecnologia degli alimenti. Da allora, “Industria delle Conser-ve” (l’attuale nome della Rivista, bilingue e dotata di un prestigioso Comitato Scienti-fico di referenza) contribuì costantemente a fare dell’Istituto un punto di riferimento delle cultura conserviera, colmando spazi nei quali l’Università e gli Istituti d’istruzio-ne, tradizionalmente vocati alla produzione agrozootecnica primaria, si avventuravano solo sporadicamente.

3.2.2 - Lo SVILuPPo DELLE FunzIonI DELLA SSIcA

Negli anni sessanta del secolo XX, la SSICA, cresciuta in strutture e mezzi, intra-prende un duplice percorso. Da una parte approfondisce i grandi temi “trasversali”

(microbiologia, analisi, tecnologie speciali ecc...); dall’altra parte sviluppa un percorso di specializzazione in senso merceologico con strutture a carattere specialistico dedicate ai prodotti, con l’obiettivo d’integrare i suddetti temi trasversali nelle tre grandi aree dei prodotti alimentari conservati d’origine vegetale, carnea e ittica. Su questa linea escono così, a firma di ricercatori della Stazione, le prime pubblicazioni in materia di conserve animali, con lavori sulla pastorizzazione e la sterilizzazione termica, che avevano il pregio d’unire la trattazione teorica dei meccanismi d’inattivazione e indicazioni operative sulla conduzione degli impianti di produzione, le modalità di confezionamento in tutte le sue fasi e varianti.

L’industria alimentare diviene matura per una forte e autonoma espansione, soprattutto nel settore delle carni, che dagli anni sessanta in poi si svilupperà con ritmi serrati durante i tre decenni successivi. Cambia anche la qualità della conservazione. I vegetali, le carni e i prodotti ittici conservati in scatoletta, pur non scomparendo, divengono ricordi di guerra e povertà, mentre le nuove confezioni e i salumi sono l’immagine di una nuova ricchezza, che tuttavia mantiene solide radici tradizionali. Appartengono agli anni sessanta le ricer-che sull’uso dei fosfati, dei nitrati, degli ingredienti e additivi, regolamentati dalla legge, analizzati con strumenti che allora apparivano avveniristici, come il primo, storico spettro-fotometro in dotazione alla Stazione e giunto con i piani post - bellici degli aiuti americani.Nel volgere di un decennio, l’Italia diviene uno dei primi produttori al mondo di nuove

La SSICA 3.2

SSICA sede centrale di Parma

conserve vegetali, soprattutto di pomodoro, e di prosciutti, che s’impongono sui mercati esteri, assieme ad altri salumi. Questo sviluppo ha bisogno di una forte azione di supporto tecnico scientifico a tutto campo, per rispondere alle sempre più precise richieste dei pa-esi importatori e dei consumatori.

La risposta della SSICA a queste esigenze viene prima con la creazione di laboratori specializzati, e tra questi un laboratorio chimico dedicato alla ricerca dei contaminanti e residui indesiderati, poi con la creazione di strutture, uniche nel loro genere, interamen-te dedicate alle tecnologie delle conserve vegetali e dei salumi e dotata d’impianti pilo-ta, ma già di livello industriale, capaci di ripetere e simulare le operazioni dell’industria. La contemporanea suddivisione in più settori, destinati a occuparsi rispettivamente dei diversi tipi di vegetali, dei prodotti ittici, dei salumi crudi e cotti, degli imballaggi, delle analisi sensoriali e soprattutto di tecnologie innovative, e l’immissione di nuovo personale laureato e tecnico, conferisce ai reparti configurazioni più efficienti, capaci d’affrontare i grandi temi della ricerca internazionale (la SSICA è partner in diversi progetti europei, CEE ed UE), organizzare corsi tecnico-scientifici per gli addetti delle imprese, eseguire ricer-che istituzionali d’interesse generale per il settore agroalimentare, eseguire ricerche su commissione, assistere le aziende nelle procedure d’autocontrollo e certificazione, offrire supporto alla risoluzione dei problemi tecnologici. Di pari passo gli interessi si allargano a

Impianto pilota della SSICA

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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tutte le filiere: dalla qualità della materia prima fino alla conservazione della freschezza del prodotto finito, nel concetto oggi scontato “dalla terra alla tavola”.

La pubblicazione di moltissime decine d’articoli scientifici e tecnici, le numerose relazio-ni presentate a meeting internazionali, l’organizzazione, insieme con l’Università, di due edizioni del Congresso Mondiale delle Carni (1983 e 2002), le innumerevoli tesi di laurea svolte presso la SSICA da studenti di molte Università italiane, sono il segno dei successi e del prestigio conquistato negli anni dai Dipartimento e reparti della SSICA. Nell’itinerario ora tratteggiato, rivestono un ruolo essenziale le strutture cosiddette “trasversali”, fra le quali spicca il reparto di Microbiologia, ove operano ricercatori e tecnici interamente de-dicati alle conserve alimentari. A loro si deve la comprensione dei principali difetti delle conserve alimentari, causa ricorrente, fino a un recente passato, di danni economici per gli operatori del settore. L’estensione della durata di conservazione della freschezza (self life) degli alimenti conservati, l’implementazione dei piani d’autocontrollo (sistema HACCP), la prevenzione degli scarti produttivi sono alcune delle acquisizioni da ascrivere ai microbio-logi degli alimenti, che oggi operano in una nuova e funzionale sede, frutto di un’avvedu-ta politica d’espansione dell’istituto e da chi si è avvicendato alla guida dell’Ente.

La realizzazione del nuovo reparto di microbiologia è un segno dell’attenzione con cui la SSICA ha costantemente seguito l’evolvere dell’industria agroalimentare, in tutte le sue componenti: artigianali e industriali. S’inserisce in questa strategia la recentissima nasci-

ta di un laboratorio dedicato alle materie prime, segmento nel quale la Stazione ha deciso d’inserirsi stabilmente, dopo che anni di ricerche interne hanno dimostrato il vincolo strettissimo che esiste tra la qua-lità degli alimenti conservati, soprattutto quelli tipici, e i requisiti chimico-fisici di cui la materia prima dev’essere in possesso.

Da non dimenticare le nuove tecnologie (ad esempio atmosfere modificate, tratta-menti non convenzionali dalle iper-pressio-ni alle correnti ohmiche e pulsate) che oggi si offrono a un’applicazione pratica a livello produttivo sia artigianale, sia industriale. In modo analogo avviene per quanto riguar-da le nuove richieste di sicurezza di cui è, ad esempio, da ricordare la tracciabilità e rintracciabilità delle produzioni.

Non bisogna infine dimenticare lo stret-

3.2La SSICA

Laboratorio delle conserve della SSICA

to rapporto che in tutta la sua lunga vita la SSICA ha dimostrato d’intrattenere con l’industria delle macchine destinate alla la-vorazione degli alimenti, sia vegetali e sia d’origine animale. Da questa collaborazio-ne non solo le macchine si sono adattate alle produzioni, ma spesso hanno dato av-vio a nuove produzioni innovative.

3.2.3 - IL PRESEnTE E LE PRoSPETTIVE FuTuRE

oggi la SSICA è l’istituto di riferimento della produzione degli alimenti, sotto qua-lunque aspetto conservati, come dimostra-no i costanti rapporti con le Associazioni di categoria, i Consorzi di tutela, gli Istituti di controllo. La ragione intima del suo succes-so rimane la stretta connessione con il frammentato mondo dei salumi italiani, dove coe-sistono grandi industrie e minuscole unità produttive.

È lo spirito con il quale era stata fondata da persone lungimiranti oltre ottanta anni, e che ne ha guidato tutto lo sviluppo.

Con circa 150 dipendenti, una sede a Parma e una ad Angri, in provincia di Salerno, la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Conserve Alimentari è oggi un ente a parteci-pazione pubblica e privata che svolge attività di ricerca, consulenza, analisi e controllo per l’industria conserviera, ponendosi come punto di riferimento per tutto il territorio nazio-nale. L’ente risponde alle richieste di 2700 industrie, con un’attività che riguarda per lo più le conserve di carne e vegetali, circa il 10% riguarda invece le conserve ittiche.

Attualmente, sono in corso un centinaio di progetti stabiliti in stretto coordinamento con le aziende produttive, anche attraverso le loro associazioni. Diverse sono le principali aree di ricerca. La prima è senz’altro la sicurezza alimentare, ottenuta con sistemi “morbidi” e rispettosi della qualità.

Importante è anche lo sviluppo di procedimenti nei quali siano eliminati o ridotti al minimo tutti gli additivi (il prosciutto di Parma è un alimento privo di additivi). Inoltre, si tende all’alleggerimento alimentare: se produrre un salame grasso e buono è facile, farne uno magro che sia anche di qualità richiede competenze elevate. Infine, una parte della ri-cerca è dedicata al recupero dei sottoprodotti del pomodoro da destinare all’allevamento o all’estrazione del licopene che ha proprietà antiossidanti importanti per la salute.

Di rilievo sono anche le ricerche sui cicli produttivi, in particolare sul risparmio energe-

SSICA sede di Angri (SA)

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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tico e la compatibilità ambientale. Qualità e tradizione sono mantenute, con un grande rispetto per il passato. Fresco è un cibo che mantiene le caratteristiche che aveva nel mo-mento della sua produzione e fresca è la fetta di prosciutto appena affettata. I ritmi mo-derni e la grande distribuzione hanno portato a sviluppare le tecnologie per conservare i cibi in vaschetta, anche fino a 20 o più giorni. Ma non è una strada semplice. Il prodotto deve essere protetto dai raggi ultravioletti, altrimenti cambia colore; allo stesso tempo deve essere visibile, altrimenti è invendibile; non deve essere sottovuoto, sennò si essicca, ma in una miscela di gas che eviti l’ossidazione, e deve essere avvolto da plastiche compa-tibili con il prodotto. Il contenitore per le verdure non è certo uguale a quello che si usa per la carne. A questo si aggiunga che le vaschette sono imballaggi e quindi devono essere riciclabili nel rispetto dell’ambiente. oggi la Stazione Sperimentale, nel contesto di Parma, dopo la conferma ufficiale della città come capitale europea dell’agroalimentare, si colloca in un ruolo di primo piano.

La SSICA è stata fra i promotori dell’Autorità per la Sicurezza Alimentare dell’Unione Eu-ropea (EFSA). Stretti sono i rapporti con l’Università, spesso con un comune programma di studi e molti professori di scienze e tecnologie alimentari degli atenei italiani provengono dalla SSICA.

oggi, infine, la SSICA sta ricoprendo un ruolo importante alla luce delle nuove disposi-zioni sanitarie europee in quanto, da gennaio 2006, non esiste più una legge italiana sulla sicurezza alimentare, ma solo direttive comunitarie che, se da un lato hanno liberalizzato, dall’altro richiedono al produttore una documentazione scientifica dettagliata sui metodi di produzione con una diretta assunzione di responsabilità. La SSICA è un grande suppor-to in questo senso sia per il singolo che per la categoria, riuscendo a fornire un servizio di analisi e assistenza tecnica presso le aziende.

PARMA TEcnInnoVA, IL PARco ScIEnTIFIcoE TEcnoLoGIco3.3.1 - LE oRIGInI E IL conTESTo PARMEnSE

Il Parco Scientifico e Tecnologico di Parma nasce nel 1996 come Consorzio tra Camera di Commercio, Comune, Provincia e Università di Parma, Unione Parmense degli Industriali e So-prip, ponendosi come mission quella di favorire la crescita di competitività sul mercato delle piccole e medie imprese del territorio. Nel 1999 il Consorzio, come unico socio, costituisce Par-ma Tecninnova S.r.l., la Società di gestione del Parco Scientifico e Tecnologico.

Parma Tecninnova è da sempre impegnata nella promozione della ricerca, del trasferimen-to tecnologico e dell’innovazione continua attraverso l’integrazione tra le esigenze innovative delle imprese e l’offerta di sapere scientifico e di tecnologia provenienti dai centri di eccellenza e dal sistema della ricerca.

L’obiettivo di Parma Tecninnova è quindi quello di essere uno strumento delle imprese del territorio impegnate a iniziare o proseguire un percorso innovativo: un braccio teso delle aziende per arrivare alle eccellenze scientifiche, per poter essere sempre più competitive in un mercato sempre più dinamico.

Panoramica zona Campus di Parma

Parma Tecninnova 3.3

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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3.3.2 L’oRGAnIzzAzIonE InTERnA E LE ATTIVITáUno degli elementi distintivi di Parma Tecninnova è la sua struttura organizzativa snella e

flessibile, in cui i processi non sono burocratizzati. Grazie a questo processo, i ricercatori si pos-sono concentrare solamente sulle attività scientifiche legate al progetto, mentre Parma Tec-ninnova gestisce le problematiche amministrative e gestionali e svolge un’azione di advisor sul progetto per verificarne la congruità con quanto definito nel business plan. La quasi tota-lità dei progetti di Parma Tecninnova è realizzata da ricercatori dell’Università, in particolare di quella degli Studi di Parma, con la quale opera in convenzione.

Un’altra attività importante, assolutamente complementare al trasferimento tecnologico, in cui è impegnato il Parco Scientifico, è il fund raising che si concretizza nel fornire assistenza alle aziende per il reperimento fondi di ricerca a livello regionale, nazionale ed europeo, attraverso la partecipazione a bandi di finanziamento per la ricerca. Parma Tecninnova ha, infatti, una struttura consolidata in grado di valutare preliminarmente la fattibilità del progetto di ricerca ai fini del finanziamento, coordinare il lavoro dei partner per la preparazione della documenta-zione per la domanda, redigere e presentare la domanda di finanziamento e la documentazio-ne tecnica a supporto, seguire l’iter valutativo presso le Autorità competenti e fornire eventuali integrazioni o chiarimenti, coordinare l’attività dei partner nella predisposizione della docu-mentazione di rendicontazione dei costi, preparare le domande di erogazione del contributo.

I settori in cui il Parco opera sono molteplici: alimentare, ambiente, energia, chimica, edilizia, farmaceutica, informatica (ICT), meccanica, pubblica amministrazione, sanità pubblica e priva-ta, terziario e servizi vari. ovviamente per la natura delle aziende del territorio, la meccanica e l’alimentare sono i settori nei quali il Parco realizza la maggioranza dei progetti.

Molto sono i vantaggi che l’impresa trae nel collaborare con il Parco Scientifico. Innanzitutto, ha un unico referente per le collaborazioni in campo di ricerca applicata.

L’impresa ha, infatti, rapporti contrattuali solamente con Parma Tecninnova, alla quale po-trà rivolgersi per le esigenze che intende risolvere nei diversi campi di applicazione aziendale. Sarà Parma Tecninnova che si occuperà, di volta in volta, della ricerca delle competenze per lo sviluppo dei progetti aziendali. Per l’azienda è come avere un comparto di Ricerca e Sviluppo in outsourcing al quale può attingere conoscenza e tecnologia per risolvere le sue esigenze di innovazione. L’impresa, attraverso il trasferimento tecnologico, accede allo stato dell’arte della ricerca scientifica e sviluppa innovazione, relativamente a nuovi prodotti/servizi, processi e si-stemi gestionali/organizzativi, traendone un vantaggio competitivo sul mercato, potendo nel contempo aumentare il proprio patrimonio relativo alla proprietà intellettuale.

Sviluppare progetti con Parma Tecninnova significa anche conoscere giovani risorse profes-sionali. Nei gruppi di lavoro, molto spesso, partecipano neolaureati o dottorandi di ricerca che l’azienda ha possibilità di conoscere su progetti concreti. In molti casi le aziende hanno avuto l’interesse di integrare tali risorse nel proprio organico.

L’impegno di Parma Tecninnova è anche rivolto all’organizzazione di meeting tecnologici,

Parma Tecninnova 3.3

seminari e convegni per creare momenti di informazione su specifiche tematiche e formazio-ne sulle nuove tecnologie.

3.3.3 - coME oPERA PARMA TEcnInnoVANegli ultimi anni la Società si è concentrata sull’attività di trasferimento tecnologico, inteso

come quel processo attraverso il quale il sapere scientifico e le tecnologie vengono trasferiti da chi li produce (Università e Centri di Ricerca) a chi li utilizza (Imprese/Enti). Compito del Parco Scientifico è recepire le esigenze delle Imprese e far dialogare i due mondi, quello della Ricerca e quello del Mercato, per facilitare un interscambio continuo tra Centri di Ricerca e Università da un lato, e Aziende dall’altro, al fine di creare rapporti continuativi nel tempo; due mondi molto diversi e distanti fra loro per mentalità e approccio alle problematiche e con tempi di azione differenti. Il Parco Scientifico è il “collante” necessario per tradurre gli in-put tecnologici in vantaggi per le imprese, attraverso un approccio concreto e un processo gestito in grande sinergia tra Parco, Ricerca e Impresa.

Il meccanismo che sta alla base del processo è molto semplice, più impegnativi sono inve-ce i contenuti. Il punto di partenza è l’esistenza di un’esigenza dell’azienda. Parma Tecninno-va deve recepirla e individuare le competenze scientifiche più idonee a soddisfarla, le quali, dopo un audit tecnologico approfondito in azienda, redigono un progetto in cui vengono evidenziati gli obiettivi, le attività, le tempistiche e i costi. All’interno di ogni progetto viene individuato un Project Leader che deve coordinare l’intero gruppo di lavoro, che spesso è formato da competenze trasversali che vanno, per esempio, dall’ingegneria alla biologia, dal marketing all’architettura. Una volta condiviso il progetto con l’azienda si può partire da su-bito con la sua realizzazione.

Parma Tecninnova è socia dell’APSTI (Associazione Parchi Scientifici e Tecnologici Italiani), il Network nazionale dei Parchi Scientifici e Tecnologici che opera per valorizzare il notevo-le patrimonio di competenze scientifiche, tecnologiche e organizzative presenti nei diversi

Parco sede Santa Elisabetta

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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Parchi, affinché possa divenire il contenuto condiviso e utilizzato dalla rete per creare uno strumento che sia il denominatore comune delle differenti esperienze e faciliti la collabo-razione e l’efficienza dei servizi dei singoli Parchi. Lavorare in network permette ai Parchi di scambiarsi esperienze e usufruire di eccellenze scientifiche che rappresentano le peculiarità di singoli Parchi, permettendo, al contempo, lo svilupparsi di sinergie che si traducono in una notevole riduzione di tempi e di costi.

3.4.1 - I coRSI DI LAuREAL’Università degli Studi di Parma ha avuto nel Prof. Giuseppe Casnati, dal 1967 titolare

della cattedra di “Prodotti organici naturali”, un caposcuola della chimica organica applicata al settore alimentare. Fu sua l’iniziativa di attivare la Scuola di specializzazione post-laurea biennale in Chimica e Tecnologia Alimentare, rimasta attiva fino al 2004 presso la Facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali.

Nel 1987, per consentire l’attivazione della Facoltà di Ingegneria, Pietro Barilla fece una generosa donazione che servì a finanziare la costruzione nel Campus della sede didattica di Ingegneria e il primo corso di laurea fu quello di Ingegneria Meccanica con indirizzo Im-piantistica Alimentare. Dal 2006 è attivo il corso di laurea magistrale in Ingegneria Meccanica dell’Industria Alimentare. Il corso si propone come obiettivi specifici la creazione di una figura con una solida preparazione nell’ambito dei settori che caratterizzano la meccanica dell’indu-stria alimentare e con una spinta preparazione rivolta alla progettazione di sistemi complessi (con l’impiego di tecniche e strumenti avanzati), alla produzione industriale e alla gestione e trasformazione dei prodotti alimentari. Il Laureato Magistrale sarà in grado di comprende-re e applicare, assumendo ruoli di responsabilità, le tecniche di progettazione avanzata di macchine e impianti dell’industria alimentare, con l’impiego di metodi e strumenti evoluti e l’utilizzo di nuovi materiali e sistemi di packaging; potrà realizzare e gestire processi di pro-duzione e trasformazione di alimenti, operare nel controllo di sistemi produttivi automatici, nella certificazione della sicurezza e della qualità alimentare e in ambito tecnico-commerciale per la promozione di prodotti e servizi e nell’assistenza ai clienti. Gli ambiti professionali tipici per i Laureati Magistrali in Ingegneria Meccanica dell’Industria Alimentare sono quelli dell’in-novazione e dello sviluppo della produzione alimentare, della progettazione avanzata di macchine e impianti dell’industria alimentare, della pianificazione e della programmazione, della gestione di sistemi complessi, nella libera professione, nelle imprese manifatturiere o di servizi e nelle amministrazioni pubbliche. I laureati magistrali potranno trovare occupazione presso industrie meccaniche dell’industria alimentare, aziende per la produzione di alimenti, enti per la gestione della sicurezza alimentare, imprese impiantistiche, industrie per l’automa-zione e la robotica, imprese manifatturiere alimentari in generale per la produzione, l’installa-zione e il collaudo, la manutenzione e la gestione di macchine, linee e reparti di produzione.

L’unIVERSITà DI PARMA:LA FAcoLTà DI InGEGnERIAE LA FAcoLTà DI AGRARIA

L’Università di Parma 3.4

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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Nel 1992 è stata attivata la Facoltà di Agraria con il corso di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari avente sede a Reggio Emilia, grazie alla disponibilità di fondi pubblici e privati rac-colti da un apposito Comitato sorto in questa provincia. Dal 1999, a seguito della costituzione dell’Università di Modena-Reggio, il corso di laurea è stato trasferito a Parma. Si deve notare come quella di Parma sia l’unica Facoltà di Agraria nata espressamente con riferimento alla trasformazione delle materie prime agricole, anziché innestare questo orientamento su una originaria matrice culturale di Scienze agrarie. Attualmente presso questa Facoltà sono attivi i corsi di laurea ed i corsi di laurea magistrale in Scienze e Tecnologie Alimentari e in Scienze Gastronomiche, un Dottorato di ricerca in Scienze e Tecnologie Alimentari e, periodicamente, è attivato anche un corso di Master in Sicurezza e Qualità Alimentare.

Il corso di laurea triennale in Scienze e Tecnologie Alimentari ha lo scopo di preparare laureati con le seguenti competenze operative: la gestione di PMI che operano nel settore della produzione, trasformazione, conservazione e commercializzazione degli alimenti; la sorveglianzae la conduzione dei processi di lavorazione degli alimenti e dei prodotti corre-lati; l’approvvigionamento delle materie prime e dei prodotti finiti, degli additivi alimentari e degli impianti destinati all’industria alimentare; le analisi dei prodotti alimentari, la verifica della sicurezza, il controllo di qualità di materie prime, prodotti finiti, additivi, coadiuvanti tec-

L’Università di Parma 3.4

La sede didattica della Facoltà di Ingegneria di Parma

nologici, semilavorati, imballaggi, e quant’al-tro attiene alla produzione e trasformazione degli alimenti; le ricerche di mercato, il mar-keting e le relative attività in relazione alla commercializzazione di alimenti; la messa a punto e lo sviluppo di prodotti alimentari; l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado delle materie tecnico-scientifiche con-cernenti il campo alimentare e quelle affini ad esso pertinenti.

Il corso di laurea magistrale in Scien-ze e Tecnologie Alimentari ha l’obiettivo di fornire solide basi teoriche e metodolo-giche per permettere al laureato di inserirsi nei seguenti ambiti occupazionali: l’industria alimentare, con particolare riferimento alle funzioni di responsabile della produzione, della ricerca e sviluppo, della gestione della qualità e della sicurezza igienica; le industrie pro-duttrici di ingredienti, additivi, materiali ausiliari, macchine e impianti per l’industria alimenta-re, con particolare riferimento alla funzione di ricerca e sviluppo; gli Enti di ricerca nell’ambito alimentare; gli organismi di valutazione, gestione e comunicazione del rischio igienico con-nessi ai prodotti alimentari; la libera professione di Tecnologo Alimentare, con le connesse funzioni consulenziali e peritali.

Il corso di laurea triennale in Scienze Gastronomiche, caratterizzato da un insieme di insegnamenti a carattere scientifico, culturale e gestionale, ha lo scopo di preparare laureati con buone conoscenze di base e applicative ed organizzative nell’ambito delle attività legate alla gastronomia. L’inserimento di questa figura professionale è previsto nei seguenti settori: turismo enogastronomico; produzione e commercio di alimenti e bevande, con particolare riferimento ai prodotti tipici e della gastronomia; la comunicazione enogastronomica.

Il corso di laurea magistrale in Scienze Gastronomiche è finalizzato alla formazione di laureati che possano trovare impiego in tutte le attività volte a diffondere la cultura gastrono-mica e alimentare a livello giornalistico, fieristico, di manifestazioni locali, e presso Enti Locali e aziende del settore agroalimentare e agroindustriale. In particolare, potranno costituire una efficace connessione tra le aziende produttrici di alimenti e i mercati di riferimento, in grado di interpretare la domanda e soddisfarla. Saranno quindi qualificati per far parte di strutture di consulenza e informazione nel settore agroalimentare, di panels di analisi sensoriale, e di gruppi di ricerca sugli alimenti in genere e sugli alimenti tipici in particolare.

La facoltà di Agraria è anche impegnata nell’ambito del corso di Master universitario inter-

Un’aula della Facoltà di Agraria di Parma

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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nazionale di secondo livello in Tecnologia degli alimenti che l’Università di Parma ha attivato dal 2008 in Argentina in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università di Buenos Aires (UBA) e che è frequentato da laureati già assunti in imprese alimentari argentine e dei Paesi limitrofi. A fronte di questa intensa attività didattica della Facoltà di Agraria, la corri-spondente attività di ricerca dei docenti è attualmente svolta all’interno di otto diversi Dipar-timenti. Nel 2008 è stato istituito il nuovo Dipartimento di Scienze e Tecnologie dei Prodotti Alimentari, al quale hanno aderito i docenti che si dedicano interamente alla ricerca in questo ambito, attualmente in attesa di essere attivato.

3.4.2 - LE STRuTTuRE DI RIcERcA E I LABoRAToRIL’Ateneo di Parma si caratterizza per la particolare diffusione delle attività di ricerca diret-

tamente o indirettamente connesse al comparto alimentare. In un’indagine interna, svolta nel 2004, hanno dichiarato di svolgere ricerca, almeno in parte riferita a queste tematiche, ben 39 gruppi di lavoro, afferenti a 23 dei 37 Dipartimenti esistenti. Sono coinvolte compe-tenze scientifiche che vanno dalle scienze di base (chimica, fisica, biologia, biochimica) e ap-plicative (ingegneria, farmaceutica, medicina, medicina veterinaria), a quelle economiche e giuridiche. All’interno dell’Università esistono anche strutture di raccordo interdisciplinare per le ricerche in ambito alimentare. Presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale è stata costituita la sezione italiana del Consorzio Volontario EHEDG (European Hygienic Enginee-ring and Design Group), che ha come obiettivo la divulgazione delle conoscenze in merito ai problemi di igienicità delle attrezzature alimentari e che coinvolge rappresentanti di primarie imprese alimentari e meccano-alimentari.

Nel 2006 sono stati istituiti con sede a Parma due laboratori a rete - TECAL e SIQUAL - fi-nanziati dalla regione Emilia Romagna con il compito di coordinare le ricerche condotte an-che nelle altre sedi universitarie della Regione. Dal 2008 i due laboratori insieme ad altri hanno dato origine ad un unico laboratorio della rete regionale Alta Tecnologia, il SITEIA - Sicurezza Tecnologia Innovazione Agroalimentare - con la direzione centrale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale di Parma. Gli obiettivi sono la ricerca industriale e il trasferimento tec-nologico per l’innovazione delle imprese del settore alimentare meccano-alimentare e del packaging. Il cofinanziamento regionale è relativo in particolare a ricerche per lo sviluppo di nuovi prodotti e processi, per la caratterizzazione e selezione delle materie prime, per la pro-gettazione e validazione di macchine per la produzione ed il confezionamento degli alimenti. Attualmente è in fase di progettazione un’ulteriore trasformazione della rete Alta Tecnolo-gia per la realizzazione del TECNoPoLo regionale dell’Università di Parma, presso il Campus universitario. In questa nuova struttura, che sarà dotata di competenze e di attrezzature di supporto per la ricerca industriale delle imprese alimentari e meccano-alimentari, conflui-ranno due centri interpartimentali: SITEIA con le competenze relative ai prodotti e ai processi alimentari, e CIPACK con competenze relative al packaging.

L’Università di Parma 3.5

3.5.1 GLI oBIETTIVI DEL coRSo E LA SEDE PARMIGIAnANel 1995, l’Istituto Italiano Imballaggio si rende conto della necessità di istituire, anche

in Italia, un Corso di Diploma triennale dedicato al Packaging. L’obbiettivo del corso dove-va essere la formazione di figure professionali che conoscessero i materiali e i prodotti da confezionare, le loro possibili incompatibilità e la resistenza alle aggressioni chimiche.

Dopo un’indagine approfondita tra diverse sedi del Nord Italia, nel 1996, una Com-missione dell’Istituto Italiano Imballaggio scelse l’Università degli Studi di Parma quale sede del nuovo Corso, dotandolo di un cospicuo finanziamento per coprire i costi supple-mentari che una tale realtà avrebbe comportato. La scelta della sede di Parma fu guidata da diverse peculiarità dell’ateneo cittadino: vocazione del territorio, alta qualificazione dell’Università, centralità geografica, qualità del campus, tipologia delle ricerche nel cam-po del Dipartimento di Chimica. Il tecnologo del Packaging deve essere in grado di pro-gettare gli imballaggi e districarsi tra gli aspetti normativi ed economici, con attenzione al recupero dei materiali e all’ambiente. Deve inoltre conoscere le nozioni legate alla logi-stica, al controllo della qualità, al marketing, alla comunicazione e alle relative legislazioni. Nel 1997 il Ministero della Pubblica Istruzione approvò i programmi proposti per il Corso di Diploma, permettendo la nascita del Diploma in Chimica, orientamento Tecnologia dell’Imballaggio e del Confezionamento: unico in Italia e uno dei pochi in Europa.

3.5.2 L’evoluzione e gli sviluppi futuri dell’insegnamentoNell’anno 2001 fu approvata la riforma dell’Università che abolì i Corsi di Diploma, tra-

sformandoli, se era il caso, in Corsi di laurea triennali. Si ebbe in questo modo il passaggio dal Corso di Diploma al Corso di Laurea in Scienza e Tecnologia del Packaging con pos-sibilità di accedere alle Lauree Specialistiche delle classi di Chimica e Chimica Industria-le. Negli ultimi tre anni è stata attivata, dall’Università di Parma, una convenzione con il CoNAI - Consorzio Nazionale Imballaggi - per approfondire i temi sulle problematiche riguardanti i rifiuti da imballaggi, prevedendo, anche in questo caso, un apposito contri-buto finanziario.

A partire dall’anno accademico 2009-2010 il Corso di Laurea in Scienza e Tecnologia del Packaging si è fuso con il Corso di Laurea in Chimica Industriale, dando origine al Cor-

L’unIVERSITà DI PARMA: IL coRSo DI LAuREA In TEcnoLoGIA DEL PAcKAGInG

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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so di Laurea in Chimica Industriale e Tecnologia del Packaging, con due separati indirizzi (quello dedicato al packaging mantiene tutti gli insegnamenti presenti nel vecchio Cor-so di Laurea). I laureati triennali, in ambedue gli indirizzi, e quelli precedenti alla riforma, possono iscriversi all’ordine dei Chimici, previo superamento dell’apposito concorso, e in ogni caso sono abilitati per accedere al Corso di Laurea Magistrale in Tecnologia della Chimica Industriale.

In questi anni i laureati del corso sono stati circa 100, di cui più di 90 hanno svolto la Tesi di Laurea presso aziende del settore. I riscontri da parte delle industrie sono stati molto positivi, e tutti i neolaureati hanno trovato occupazione in tempi brevissimi. Il GI-FCo - Gruppo Italiano Fabbricanti di Cartone ondulato - ha istituito da anni tre borse di studio triennali per matricole del Packaging con l’obiettivo di formare giovani tecnologi da inserire nelle aziende associate.

La ricerca nel settore si è molto sviluppata e parecchie sono le aziende che si rivolgono a docenti del corso per svolgere ricerche sul packaging. Il continuo sviluppo del settore industriale, connesso alla necessità di provvedere alla formazione di tecnologi con ade-guata preparazione, ha fatto sì che dal 2009 presso l’Università di Parma si costituisse il CIPACK - Centro Interdipartimentale Packaging - con lo scopo di approfondire le collabo-razioni tra l’Università di Parma e le aziende del settore.

Esterno della sede del Corso di Laurea

IL cEnTRo RISoRSEDELLA VAL D’EnzA3.6.1 IL conTESTo PRoDuTTIVo DELLA VAL D’EnzA

La val d’Enza reggiana include nove comuni della sponda reggiana del fiume Enza: Ca-nossa, San Polo d’Enza, Quattro Castella, Bibbiano, Montecchio Emilia, Cavriago, S’Ilario d’Enza, Campegine e Gattatico. Posti ai confini con la provincia parmense, questi nove comuni fondono le caratteristiche produttive delle due province: da un lato il distretto meccanico reggiano, dall’altro il distretto alimentare parmense.

Nell’area, per il solo settore di specializzazione del packaging, sono operanti centinaia di imprese di fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo e di fabbricazione di macchine e apparecchi meccanici, che impiegano più di 3.000 persone. Ufficialmente non si tratta di un distretto industriale, tuttavia è corretto parlare di un sistema produtti-vo locale fortemente specializzato, le cui rappresentanze hanno saputo integrare e rap-presentare i diversi attori pubblici e privati, combinando mercato e atti amministrativi, forme associative e tavoli di contrattazione. In questa realtà, grazie alla volontà di diver-si attori locali, alla loro forza progettuale e capacità di fare rete, è nato un laboratorio di concertazione e di innovazione al servizio del territorio per aumentarne le opportunità di sviluppo: il Centro Risorse val d’Enza.

L’idea di creare un centro che approfondisse le dinamiche competitive del settore e rafforzasse le politiche di alleanza fra mondo della scuola e mondo dell’impresa è emer-sa in seguito a un percorso progettuale, iniziato più di dieci anni fa, che ha visto il coin-volgimento delle Amministrazioni Comunali, della Provincia e della Camera di Commer-cio di Reggio Emilia, delle imprese CNA e della scuola del territorio.

All’interno di questo percorso, anche grazie all’utilizzo di metodologie strutturate, è stata data voce a tutti i soggetti pubblici e privati appartenenti e non al territorio: le imprese, i comuni, la scuola, l’università, gli studenti. Sono state realizzate analisi di contesto per capire i profili e i comportamenti imprenditoriali e le caratteristiche del sistema indagato. Sono stati organizzati diversi focus group nei quali i rappresentanti del sistema locale sono stati coinvolti per approfondire la conoscenza del sistema terri-toriale e delle imprese, le politiche programmatiche effettivamente attuate e le ricadute concrete sulle imprese e per riconoscere possibili azioni e luoghi da mettere in comune, al fine di promuovere la competitività del territorio.

Sono state ascoltate le imprese alle quali è stato sottoposto un questionario struttura-to per cogliere le dinamiche tra imprese e territorio, in riferimento alla conoscenza, ma

Il Centro Risorse della Val D’Enza 3.6

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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Il Centro Risorse della Val D’Enza 3.6

anche per evidenziare le loro potenzialità competitive e il presidio dei processi-chiave nel sistema locale di appartenenza. Per interpretare le dinamiche aziendali, si è fatto ricorso al benchmarking finalizzato all’osservazione dei macro-processi delle imprese, delle capacità di gestione delle competenze organizzative e delle relazioni con il terri-torio.

3.6.2 LA nAScITA DEL cEnTRoIl Centro Risorse val d’Enza è stato costituito nel 2007 all’interno della sede dell’Istituto

Tecnico Silvio D’Arzo di Montecchio Emilia. I partner del centro sono gli Enti Locali, i nove Comuni della val d’Enza, gli Imprenditori dell’Educazione CNA e l’Istituto Scolastico Silvio D’Arzo. Il centro ha assunto il ruolo di “regia” in grado di:

coordinare e integrare i diversi soggetti;•promuovere il sistema del packaging della Val d’Enza all’esterno (marketing ester-•no), per renderlo attrattivo rispetto alle professionalità che non erano presenti a livello locale e per supportare le piccole imprese in difficoltà nel rapporto con il mercato internazionale;esplicitare e rendere evidenti alla popolazione del territorio provinciale le possibi-•lità e le prospettive occupazionali nel settore, anche attraverso percorsi di orienta-

Veduta esterna del Centro

mento destinati ai ragazzi;essere in grado di presidiare il territorio in termini di monitoraggio dei fabbisogni •formativi e di figure professionali;essere in grado di realizzare azioni concrete a sostegno del sistema produttivo, an-•che per ciò che concerne le attività di ricerca e innovazione.

Il centro non nasce per sostituirsi a enti, istituzioni, soggetti pubblici o privati, già presenti e riconosciuti sul territorio, ma per proporsi come laboratorio di concertazione e di innovazione al servizio del territorio, per aumentarne le opportunità.

Tale strumento è a supporto dell’azione dei policy maker e degli operatori locali: un punto di coordinamento territoriale di competenze e di specialisti locali ed esterni all’area; un punto di governo e di riferimento di informazioni e conoscenze, in parte disponibili a livello locale, ma di difficile accesso. Il centro assume inoltre la funzione di osservatorio permanente basato sull’utilizzo di banche dati in grado di monitorare: il quadro economico internazionale, nazionale, regionale e locale; il mercato del lavoro; i fabbisogni professionali e organizzativi delle imprese.

3.6.3 LE FunzIonI E LE SInERGIE TERRIToRIALII destinatari del centro sono le imprese, in particolare quelle del settore del packaging

e dell’automazione industriale presenti nel territorio della valle, la scuola e le istituzioni. Le imprese individuano nel mercato, nella formazione, nella ricerca e innovazione e nell’accesso al credito alcune delle loro criticità; il centro risorse è importante anche per fornire in modo trasversale risposte a queste esigenze del territorio della val d’Enza permettendo di fare sistema nella ricerca della soluzioni. Le istituzioni individuano, fra le loro esigenze, la possibilità di accedere facilmente a una rete che ponga in contatto permanente gli attori principali del territorio: le pubbliche amministrazioni, le forze sociali, le imprese, la scuola, la formazione, altri centri di competenze. Il centro rappresenta, per loro, la “Biblioteca o Archivio del sapere” e funge da osservatorio permanente di monitoraggio di fenomeni come il mercato del lavoro e fabbisogni professionali delle imprese. Per le associazioni di categoria il centro ha una funzione di indirizzo rispetto Un’aula della Facoltà di Agraria di Parma

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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ai servizi offerti e le prospettive economiche di questo settore. Il centro funziona come un “broker” e bussola aziendale rispetto ai servizi che esistono ma che le imprese non conoscono. La scuola dichiara l’esigenza di una maggiore conoscenza del territorio e un maggiore collegamento con il sistema produttivo al fine di proporre un’offerta formativa, in termini di corsi e specializzazioni attivate, più consona alle esigenze imprenditoriali. Il centro può dare una risposta organizzando occasioni di incontro fra scuola e imprese, supportando la scuola in termini di indirizzo dell’offerta formativa, di utilizzo banche dati e di borse di studio. Rispetto a questo il centro offre alla scuola tavoli di confronto con le imprese e, grazie al monitoraggio dei bisogni formativi del mondo imprenditoriale, supporta la scuola in termini di indirizzo dell’offerta scolastica sulla base delle esigenze esplicitate.

Per garantire una preparazione che abbini teoria e pratica, la scuola individua nella collaborazione con le imprese la possibilità di arricchire non solo le conoscenze, ma anche le competenze dei propri studenti con esperienze professionali.

Da quando è nato il Centro Risorse sono stati presentati cinque osservatori Economici semestrali. L’“osservatorio Permanente della val d’Enza” è lo strumento che effettua, in modo autonomo, l’analisi dell’andamento congiunturale dell’area e, in particolare, della filiera del packaging e dell’agro-alimentare.

Si tratta di una banca dati in grado di monitorare fenomeni quali il quadro economico internazionale, nazionale, regionale e locale, il mercato del lavoro, i fabbisogni professionali e organizzativi delle imprese. Tale strumento è a supporto dell’azione degli imprenditori locali, degli amministratori pubblici e della scuola; se opportunamente mantenuto e rafforzato, potrà generare, in modo continuativo, indicazioni sugli assetti competitivi delle imprese, sulla loro capacità di apprendimento, sul sistema locale di competenze, veicolo di attrazione di risorse umane ed economiche nell’area.

Un’altra attività che i Comuni della val D’Enza giudicano sempre più strategica, e per la quale il Centro sta operando, è la promozione del sistema locale (marketing esterno) al fine di renderlo attrattivo rispetto alle professionalità che non sono presenti localmente e maggiormente conosciuto alla popolazione locale in termini di prospettive occupazionali, anche attraverso percorsi di orientamento destinati agli studenti. Attraverso il Centro vengono assegnate borse di studio, dove le imprese investono in favore degli studenti dell’Istituto Scolastico Silvio D’Arzo. Si tratta di borse di studio finalizzate alla ricerca economica e all’analisi del territorio.

Inoltre, il Centro è “Centro di Documentazione”, cioè un luogo di informazione e diffusione che funge da “Archivio del sapere” in cui sono contenuti tutti i materiali riguardanti il territorio della Val d’Enza (ricerche, studi, analisi), che funziona anche da banca dati per gli imprenditori, per gli studenti, le Istituzioni, i ricercatori dell’area e le associazioni di categoria.

L’ISTITuTo SuPERIoRESILVIo D’ARzo3.7.1 LE oRIGInI DELL’ISTITuTo

L’Istituto Silvio D’Arzo, che nel settembre 1982 ha acquisito autonomia in un primo tem-po come Istituto Tecnico Commerciale, ha sede nel Comune di Montecchio Emilia nella provincia di Reggio Emilia. Nato dapprima come sezione staccata dell’Istituto Scaruffi di Reggio Emilia, è stato oggetto, nel corso degli anni, di notevoli trasformazioni che attual-mente vedono la scuola strutturata su quattro indirizzi di studio: Istituto Tecnico Industria-le, Istituto Professionale, Istituto Tecnico Commerciale, Liceo Scientifico. In questo modo, l’Istituto ha assunto la definitiva funzione di Scuola - Polo scolastico del distretto della media val d’Enza.

L’Istituto D’Arzo, posto al centro della val d’Enza, e al confine tra le province di Reg-gio Emilia e Parma, è facilmente raggiungibile dalle località del territorio circostante ed è così frequentato da alunni provenienti dai Comuni di entrambe le sponde del fiume Enza. L’Istituto, in particolare nei suoi indirizzi di studio più mirati ai settori industriale e commerciale, si è sempre rapportato, fin dagli inizi, in modo fecondo con il mondo della produzione del Distretto della val d’Enza.

Grazie ai lavori di riqualificazione dell’area circostante, il Silvio D’Arzo diverrà un vero e proprio Campus, comprensivo di spazi sportivi, economici e culturali, in cui si collocheran-no le Scuole Medie superiori, ampliate nei suoi spazi didattici, e le nuove Scuole Medie del Comune di Montecchio Emilia.

3.7.2 L’oFFERTA FoRMATIVAIl corso di studio ITI risponde alla crescente domanda di figure professionali con pro-

filo interdisciplinare nelle aree della meccanica, dell’elettronica, dell’informatica e dell’au-tomazione. Queste conoscenze, riunite organicamente nei due percorsi formativi offerti dall’Istituto D’Arzo, collocano il perito in posizione di vantaggio nei molteplici settori pro-duttivi rivolti a beni con elevato grado di automazione e integrazione elettromeccanica. Al termine degli studi, il diplomato possiede una preparazione di valore professionale piena-mente spendibile nel mondo del lavoro. Il suo ruolo naturale, ma non esclusivo, è quello di progettista elettronico o meccanico, nonché di supervisore di sistemi meccatronici. Il titolo conferisce inoltre la possibilità di proseguire gli studi in ambito universitario e nella formazione tecnica superiore.

L’indirizzo Meccanico - Meccatronico propone un’offerta didattica pienamente ri-

3.7L’Istituto Superiore Silvio D’Arzo

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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spondente alle richieste del tessuto imprenditoriale locale. Il curricula del triennio di studi è stato di recente aggiornato con l’introduzione della disciplina di Elettronica. L’insegna-mento di tale materia si basa su un costante utilizzo del laboratorio, per affiancare la teoria alla pratica e per allargare le competenze del perito meccanico/meccatronico a settori del sapere importanti come l’informatica. L’indirizzo è stato inoltre aggiornato con la presenza del laboratorio nella materia di Sistemi ed Automazione Industriale, in cui vengono af-frontate e approfondite la pneumatica e l’elettro-pneumatica (automazione con aria com-pressa) mediante componenti all’avanguardia in grado di simulare la maggior parte delle automazioni industriali. Di grande importanza è la programmazione dei PLC (Controllori Logici Programmabili), che rappresentano il cuore dell’automazione industriale control-lata dall’elettronica e la programmazione di macchine utensili a controllo numerico per la lavorazione dei metalli. La progettazione meccanica si avvale di programmi informatici di disegno 2D e 3D avanzati, correntemente utilizzati in tutte le aziende del territorio, e si arricchisce di numerosi percorsi di lavoro in collaborazione con aziende della val d’En-za. Lungo il triennio finale del percorso di studi ITI Meccanica-Meccatronica, il curriculum studi tradizionale viene arricchito da collaborazioni con aziende situate nel comprensorio produttivo della val d’Enza. L’interazione scuola-azienda permette un vero e proprio tra-sferimento di conoscenze specifiche ed avanzate: i tecnici e i progettisti possono tenere

Isitituto Silvio D’Arzo

piccoli cicli di lezioni agli studenti nelle ore delle materie specialistiche, accompagnate dalla fornitura di materiale didattico. In questo modo, anche i docenti mantengono con-tinuamente aggiornato il loro livello di preparazione. Proprio in questo percorso si inne-stano le esperienze di stage estivi che i ragazzi intraprendono nelle aziende già a partire dalla fine della classe terza.

La specializzazione in Elettronica e Telecomunicazioni e Automatica approfondisce gli aspetti legati all’automazione e al controllo industriale da una parte, alla comunicazio-ne dati dall’altra, riferita ad applicazioni quali le reti dati, la telefonia cellulare, Internet e la “office automation”. Il corso di studi è finalizzato a far sì che l’allievo acquisisca buone co-noscenze in entrambi i settori, integrate da competenze hardware (uso della componen-tistica, progettazione di schede, impiego della strumentazione) e conoscenze software (programmazione, utilizzo dei pacchetti applicativi di uso comune nonché di CAD di pro-gettazione e simulazione). In considerazione delle caratteristiche della realtà produttiva della val D’Enza, in cui sono presenti numerose aziende ad elevato livello di automazione, particolare importanza viene attribuita alla conoscenza, da parte del Perito industriale per l’Elettronica e le Telecomunicazioni, dei sistemi di controllo basati sui dispositivi a logica programmabile (PLC, microprocessori).

L’Indirizzo IPSIA offre un percorso triennale al termine del quale rilascia un Diploma di Qualifica di operatore elettronico, e un percorso quinquennale che rilascia un Diplo-ma di Tecnico delle industrie elettroniche (TIEN). Entrambi i percorsi prevedono stretti legami con le realtà produttive del territorio che si concretizzano in stage in azienda. Il ruolo del TIEN è quello di provvedere in piena autonomia alla realizzazione, all’installazio-

Laboratorio linguistico

3.7L’Istituto Superiore Silvio D’Arzo

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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ne, all’adattamento, alla programmazione e alla manutenzione degli impianti elettrici ed elettronici in qualsiasi tipo di realtà produttiva. oggi ogni azienda che produce, trasforma e commercializza prodotti tecnologici dipende da macchine automatizzate. Anche nel settore edilizio le nuove frontiere impiantistiche sono rivolte alla domotica, al risparmio energetico e alle nuove tecnologie. Pertanto la figura professionale del TIEN può essere necessaria anche a quelle piccole realtà artigiane che con difficoltà assorbono la sempre più veloce evoluzione tecnologica.

L’indirizzo giuridico-economico-aziendale (IGEA), storico indirizzo di studio dell’Isti-tuto Silvio D’Arzo, prepara i futuri amministratori aziendali puntando in prima linea a una formazione teorica, volta a far acquisire conoscenze di carattere contabile per la lettura, l’interpretazione e la gestione del bilancio delle aziende private e pubbliche. La scelta pro-grammatica per definire le caratteristiche del profilo del Perito commerciale è in linea e in funzione delle esigenze del territorio, tant’è che la scelta di diversificare e approfondire la formazione degli alunni secondo le direttive degli imprenditori locali ha costituito per la scuola elemento di riferimento costante. Il desiderio e la volontà di confrontarsi con il mondo del lavoro sono stati alla base delle scelte fatte dall’istituto nell’attuazione degli stage in azienda resi possibili a tutti gli alunni, indipendentemente dal profitto scolastico. La conoscenza del territorio ha visto coinvolti, nel corso degli anni, gli studenti delle classi quarte e quinte spesso impegnati in lavori di ricerca. In un quadro di intesa collaborativa tra scuola e aziende locali, sono stati fatti studi di settore sotto forma di indagine esplo-

rativa con raccolta ed elaborazione dei dati sia dal punto di vista del soggetto giuridico (indagine relativa ad alcune cooperative storiche dalla zona) che economico, po-nendo particolare attenzione alle aziende che lavorano nel settore alimentare molto sviluppato sul territorio.

Il liceo scientifico si sviluppa su un cor-so di studi in cui sono presenti discipline dell’area umanistica e dell’area scientifica in un rapporto orario equilibrato; il fine è quello di fornire una preparazione di base che abitui gli allievi al rigore metodologico, alla chiarezza espositiva e allo spirito criti-co, così da poter proseguire gli studi in tutti gli indirizzi universitari. Una tale prepara-zione è comunque utile anche per un inse-rimento diretto nel mondo del lavoro, data la crescente importanza nella società odierna di una solida formazione culturale di base. Gli alunni delle classi terze e quarte possono partecipare a stage di lavoro estivo presso ditte ed enti del territorio, al fine di avvicinare gli alunni alla realtà lavorativa del nostro territorio. Il legame con il territorio è particolarmente importante per questo indirizzo. In-fatti, in ambito storico si è operato un collegamento con la storia locale, in particolare del ‘900, con la produzione di alcuni video documentari con interviste a testimoni della storia locale e ai temi dello sviluppo economico e sociale, anche della seconda metà del ‘900.

3.7.3 IL RADIcAMEnTo TERRIToRIALEL’Istituto Silvio D’Arzo, oltre ad investire sui percorsi d’istruzione già consolidati, da al-

cuni anni si propone anche come centro di formazione permanente della val D’Enza, per diffondere la cultura tecnico-scientifica e fornire opportunità di miglioramento professio-nale a tutti: diplomati, dipendenti di aziende, persone in attesa di una nuova occupazione, persone che vogliono riqualificarsi.

A questo proposito l’Istituto, oltre a promuovere attivamente da anni gli stage aziendali, ha raggiunto i seguenti risultati:

dal 2008 è diventato sede di corsi IFTS (Istruzione e Formazione Tecnica Superiore) • in collaborazione con enti di formazione ed imprese. In particolare sono stati attivati due percorsi: un primo corso di 1000 ore nell’ambito Produzione e un secondo di 500 ore nell’ambito Packaging. L’istituto ha inoltre stipulato convenzioni con importanti

Lezione pratica in laboratorio

Laboratorio di elettronica

3.7L’Istituto Superiore Silvio D’Arzo

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I CENTRI DI SUPPORTO E FORMAZIONE

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3.7L’Istituto Superiore Silvio D’Arzo

aziende della Val D’Enza (collaborazione e formazione dei dipendenti neoassunti);dal 2009 è diventato centro di formazione accreditato da CEToP-ASSoFLUID per • l’insegnamento dell’automazione pneumatica. Grazie alla disponibilità di laboratori all’avanguardia e di personale docente specializzato, l’Istituto D’Arzo è il quinto centro di eccellenza a livello nazionale abilitato al rilascio della Certificazione CETOP (Comi-tato Europeo delle Trasmissioni Oleoidrauliche e Pneumatiche) relativa al Livello 1 di Pneumatica. Il superamento dell’esame di certificazione determina l’iscrizione all’albo Assofluid (Associazione Italiana dei Costruttori ed Operatori del settore Oleoidraulico e Pneumatico).

Progetto del nuovo Campus della Val D’Enza

PART

E QUA

RTA

ALTRE PEcuLIARITà DEL SISTEMA PARMA

4

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IL TERRIToRIo E IL SISTEMA DELLE EccELLEnzE

di Luciano Mazzoni

Un libro che intenda parlare per esteso del settore dell’impiantistica agroalimentare del parmense non potrebbe dirsi completo se non offrisse una panoramica su “quanto sta in-torno”. L’eccellenza di Parma in questo settore è data infatti non solo da una grande spe-cializzazione, ma dalla capacità di sviluppare sul territorio strutture complementari fra loro, in grado di essere centri di formazione, di sapere, di ricerca fra loro integrati e sempre più proiettati verso l’esterno. In altri capitoli di questa pubblicazione si è parlato approfondi-tamente di strutture più direttamente pertinenti come la SSICA, l’Università degli Studi di Parma o il Consorzio Parma Tecninnova. ora vale la pena di presentare brevemente quelle realtà che pur non lavorando necessariamente a stretto contatto con le aziende del territorio ne integrano il lavoro promuovendone la proiezione sui mercati esteri o alimentando quella cultura del cibo di qualità che è il vero tesoro prezioso che nei secoli le genti di queste terre ci hanno tramandato.

Cultura è, infatti, la parola chiave per interpretare correttamente l’intero complesso delle attività umane, anche con riferimento ai fenomeni strettamente economici. Il successo di un territorio non appartiene solo a questa o quell’impresa, ma è sempre frutto di un agire col-lettivo che si fonda, necessariamente, su un collante formidabile: una cultura condivisa. Ecco allora che concetti come qualità, imprenditoria e innovazione si declinano diversamente a seconda dei territori che di volta in volta si prendono in considerazione. È in questo senso che molte delle istituzioni di cui si parlerà in questo capitolo, e tra queste quell’Istituzione Biblioteche che mi onoro di presiedere, rappresentano un baluardo fondamentale di questa cultura, facendo in molti casi da ponte tra un passato gravido di eredità e un futuro ancora tutto da conquistare.

4.0

262

ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

263

Negli ultimi anni i distretti industriali italiani hanno sofferto la competizione internazio-nale, manifestando alcuni nodi critici quali la modesta capacità di fare innovazione e la rigi-dità dei mercati di sbocco. Ciò ha messo in discussione il modello stesso di specializzazione che aveva caratterizzato i “distretti tradizionali”.

I distretti agroalimentari sono stati introdotti in Italia con il Decreto Legislativo 228 del 18/5/2001, che ha individuato due tipologie distinte: i rurali e gli agroalimentari di qualità. Questi ultimi sono definiti come sistemi produttivi locali, anche a carattere interregionale, caratterizzati da una significativa presenza economica e da interrelazione e interdipendenza produttiva delle imprese agricole e agroalimentari; oltre che da una o più produzioni certi-ficate e tutelate ai sensi della vigente normativa comunitaria o nazionale, oppure da produ-zioni tradizionali o tipiche. Le indicazioni del Decreto Legislativo offrono un orientamento preciso: i distretti agroalimentari di qualità hanno un evidente impatto nella definizione del modello di sviluppo del territorio e una significativa integrazione di filiera, caratterizzata da certificazioni o produzioni tipiche. Da un’analisi svolta dall’Istituto Tagliacarne sul PIL pro-vinciale negli anni 1995-2002, emerge che le province a maggior valenza della filiera agroa-limentare nella formazione del prodotto interno lordo sono tra quelle che hanno registrato i miglioramenti in termini di ricchezza pro capite tra i più interessanti. Si tratta di province, come la nostra, con un tessuto imprenditoriale formato da imprese con una spiccata voca-zione agroalimentare di qualità e un’organizzazione produttiva sul territorio di tipo sistemico,

in alcuni casi caratterizzata dalla presenza di prodotti tipici con marchio di tutela.

4.1.1 IL DISTRETTo DEL PRoScIuTToA Parma il distretto del Prosciutto è nato

nel 2007 con un accordo di programma sot-toscritto da tutti i soggetti promotori.1 L’ac-cordo individua come prioritari tre obiettivi: la qualificazione e la valorizzazione ambien-tale; la pianificazione urbanistica e territo-riale; e la definizione delle linee strategiche del governo del distretto. Per consentire il raggiungimento di questi obiettivi, il distret-to ha tra i suoi compiti quello di monitorare una serie di attività, dal sistema produttivo locale alle politiche territoriali. A queste si

aggiunge la definizione delle linee strategi-che per il mantenimento e il miglioramento del vantaggio competitivo, e la creazione di un fondo perequativo per “l’attuazione e la gestione delle aree produttive sovracomu-nali”. Il Distretto deve essere, dunque, visto come una sfida di “governance”, poiché rap-presenta un livello di governo intermedio, del tutto nuovo, in cui convergono attori pubblici e privati. Una dimensione in cui si concentrano decisioni fondamentali come quelle relative al marketing territoriale, rivol-to sia al turismo sia all’incentivazione di nuo-vi investimenti da parte di soggetti del ter-ritorio o esterni. Ma la sfida è anche a livello industriale poiché è necessario individuare, concertandole, zone adatte per la produ-zione che nello stesso tempo permettano di rispettare paesaggio e ambiente, senza pregiudicare l’attrattività turistica dei luoghi.

4.1.2 IL DISTRETTo DEL PoMoDoRoIl distretto del Pomodoro è nato come realtà sovra provinciale, coinvolgendo i territori di

Parma, Piacenza e Cremona2. Si tratta di un ente nato per difendere la qualità del pomodoro che ha la sua storia nel triangolo di territorio disegnato dalle tre province dove, a puro titolo di esempio, nel 2008 si sono trasformate ben 1,6 milioni di tonnellate di pomodoro, di cui 850mila solo nel parmense. Lo scopo è quello di rafforzare la posizione competitiva del siste-ma produttivo territoriale nel settore del pomodoro da industria, attraverso strumenti atti a favorire il confronto, il coordinamento e la cooperazione tra i soggetti della filiera; e l’attua-zione di un complesso organico di azioni per promuovere l’elaborazione condivisa di politi-che finalizzate al miglioramento della qualità delle produzioni e alla loro valorizzazione.

Tra gli obiettivi comuni fissati vi è lo sviluppo di politiche per la qualità, attraverso la definizione di un marchio di distretto, indicazioni geografiche, o altro. Importante anche il miglioramento delle forme contrattuali e la riduzione dei costi di produzione e trasforma-zione del pomodoro, realizzabili tramite valutazioni tecniche ed economiche, e operando sul coordinamento e sulla finalizzazione della ricerca oltre che della sperimentazione. Fon-damentale, infine, l’avvio di politiche di settore attraverso la partecipazione come Distretto ai dibattiti a livello europeo, nazionale e regionale.

4.1I distretti

I DISTRETTI

Pomodori maturi

Prosciutto di Parma

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ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

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4.2I consorzi di prodotto

I conSoRzI DI PRoDoTToI consorzi di tutela sono organismi composti da produttori e/o trasformatori di un de-

terminato prodotto di qualità. Essi hanno come scopo primo la tutela, la promozione e la valorizzazione dei prodotti, svolgendo al contempo anche l’importantissimo ruolo di informazione al consumatore e di vigilanza sulle produzioni. Essi, inoltre, salvaguardano il prodotto da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni e uso improprio della de-nominazione. Parma, in quanto territorio ad altissima vocazione agroalimentare, ospita numerosi Consorzi, da quelli più conosciuti del Prosciutto e del Parmigiano Reggiano, fino a quelli del Culatello, dei vini dei Colli e del Maiale Nero.

4.2.1 IL conSoRzIo DEL PARMIGIAno REGGIAnoIl Parmigiano Reggiano è un formaggio che vanta otto secoli di sto-

ria e che ha caratterizzato la produzione agricola di un vasto territorio che supera i confini della provincia di Parma. Il Consorzio nasce nel 1934 con l’obiettivo della difesa e tutela della Denominazione d’origine, salva-

guardando la tipicità e le caratteristiche peculiari del prodotto. Esso è rappresentativo di 429 caseifici che operano nel comprensorio di Reggio Emilia, Parma, Bologna, Modena e Mantova. Uno tra i provvedimenti più importanti presi dal Consorzio, al fine di tutelare la commercializzazione del prodotto, fu quello di introdurre, nel 1964, la marchiatura d’ori-gine con la scritta a puntini “Parmigiano-Reggiano” sul fianco della forma, dando così al formaggio l’aspetto esteriore attuale.

4.2.2 IL conSoRzIo DEL PRoScIuTTo cRuDo DI PARMAIl Prosciutto di Parma rappresenta il prodotto tipico d’eccellenza del

nostro territorio. Una condizione essenziale per ottenere il Crudo di Par-ma è che l’intera lavorazione avvenga in “zona tipica”: un’area estrema-

mente limitata che comprende il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza di almeno 5 chilometri da questa; esteso fino ad un’altitudine di 900 metri; delimitato a est dal fiume Enza e a ovest dal torrente Stirone.

Per difendere e tutelare la qualità del prodotto che si sta diffonde sempre più nel mon-do, è nato nel 1963 il Consorzio volontario del Prosciutto di Parma, un’organizzazione dei produttori (allora 23, oggi 189) che utilizzano e salvaguardano il metodo tradizionale di lavorazione.

Le attività del Consorzio sono molteplici: riguardano la gestione e la salvaguardia delle regole produttive, la gestione della politica economica del comparto, la vigilanza e la tute-la delle disposizioni di legge e dei regolamenti, la protezione del nome “Prosciutto di Par-

ma” e del relativo marchio (Corona Ducale). A riconoscimento di questo rigore, l’Unione Europea ha attribuito al Prosciutto di Parma la Denominazione d’Origine Protetta (DOP) già nel 1996, una tra le prime in Europa.

4.2.3 IL conSoRzIo DEL cuLATELLo DI zIBELLoDalle cantine della Bassa parmense alle tavole nazionali il percorso del

Culatello è stato, storicamente, tutt’altro che breve. Per molti secoli, infatti, il nome e il prestigio del Culatello sono rimasti circoscritti alle zone d’origine;

patrimonio della gente della Bassa che sola sapeva apprezzarne il gusto e con-servarne i segreti. A tutela della qualità e della tipicità di questo prodotto è stato creato il Consorzio del Culatello di zibello che garantisce la provenienza da quella fascia di terra che corre lungo le rive del Po, e la lavorazione antica e artigianale. Nel 1996 è stata uffi-cializzata la D.o.P. - Denominazione di origine Protetta - che fissa i criteri di lavorazione e indica i Comuni che fanno parte dell’area geografica di produzione del Culatello di zibello: Busseto, Roccabianca, Polesine Parmense, San Secondo Parmense, zibello, Sissa, Soragna e Colorno.

Salagione

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ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

267

I consorzi di prodotto 4.2

programma di miglioramento e valorizza-zione del territorio gestito, dopo aver pro-mosso azioni mirate al razionale e corretto uso della risorsa fungo, ha intrapreso le procedure volte al riconoscimento dell’In-dicazione Geografica Protetta.

Nel 1995 è stato costituito il Consorzio di Tutela, con lo scopo di garantire, valo-rizzare e promuovere il prodotto principe dell’alta valtaro, attraverso un apposito Di-sciplinare di produzione. Funghi Porcini della zona di Borgotaro

4.2.4 IL conSoRzIo DEI VInI DEI coLLIIl Consorzio nasce nel 1977 grazie all’intraprendenza di alcuni viticoltori

della zona di Langhirano, ed è tutt’oggi costituito da viticoltori, produttori singoli o associati e vinificatori della collina parmense. Il suo scopo prevede lo sviluppo, il miglioramento e la salvaguardia della qualità e della tipicità di

produzione, nel pieno rispetto della tradizione. Dal maggio del 2001 i vini dei Colli di Parma usufruiscono della denominazione D.o.C.;

dal 2003 il Consorzio è stato incaricato di svolgere le funzioni di controllo che comportano annualmente rilevazioni in vigna, in cantina, nella fase di imbottigliamento e di commer-cializzazione.

4.2.5 IL conSoRzIo DEL MAIALE nERoL’ultimo arrivato dei consorzi di tutela provinciale è quello del Maiale

Nero, nato nel 2006 per promuovere la razza “Nera Parmigiana”, un suino autoctono che rischiava l’estinzione. A partire da metà degli anni ‘90, gra-zie al contributo di Camera di Commercio, Soprip e Provincia di Parma, si

è attuato un progetto per il “recupero della antica razza suina nera di Parma e la sua reintroduzione nell’Appennino parmense”.

Il riconoscimento formale del tipo genetico ha consentito di avviare un percorso per la tutela e la valorizzazione commerciale dei prodotti derivanti da questo animale. Il consor-zio nasce dunque con la partecipazione dei produttori ma anche dei tre enti promotori, i quali si sono dati da subito un disciplinare di produzione. La Camera ha nel frattempo creato e registrato il marchio collettivo “Suino Nero Parma” (differenziato in “Suino Nero Brado” e “Suino Nero Parma Stabulato”), di cui ha successivamente concesso l’uso al Con-sorzio. Attualmente i soci allevatori, tra piccole e medio grandi aziende, sono 22.

4.2.6 IL conSoRzIo DEL FunGo DI BoRGoTARoBorgo val di Taro e le sue valli sono famose in tutto il mondo per il suo

fungo; da anni infatti la ricchezza principale dei boschi appenninici in Pro-vincia di Parma, nello spartiacque tra l’Emilia, la Liguria e la Toscana, non è più la legna da ardere - peraltro ottima e ricercata in tutto il Nord Italia - ma

sono piuttosto i prodotti del sottobosco. In particolare i funghi porcini di Borgotaro sono conosciuti ovunque in quanto fin dalla

fine dell’800, quando molti montanari furono costretti ad emigrare in America o in Inghil-terra, esportarono e fecero conoscere questo prodotto all’estero.

Nonostante questa fama antica, il Fungo di Borgotaro è un marchio molto giovane, in quanto il riconoscimento I.G.P. è stato ottenuto nel 1993 dal Ministero e nel 1996 dalla CEE. Il merito dell’iniziativa va attribuita al Consorzio Comunalie Parmensi, che nel suo

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ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

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4.3Le strutture scientifiche

Parma capitale dell’agroalimentare è anche capitale della ricerca scientifica sui temi ine-renti alla produzione industriale e non. In questo senso il riconoscimento più grande alla vo-cazione di questo territorio è stata l’assegnazione a Parma della sede dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. A questa struttura si affiancano, oltre che a realtà nazionali come la SSICA, anche enti nati in ambito provinciale come il consorzio Dalla Terra alla Tavola che opera in campo scientifico nel controllo delle filiere di produzione.

4.3.1 EFSAL’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) è la chiave

di volta dell’Unione Europea per la valutazione dei rischi legati alla sicurezza alimentare umana e animale. In stretta collaborazione con

le autorità nazionali, e in aperta consultazione con le parti interessate, l’EFSA fornisce con-sulenza scientifica indipendente, nonché una comunicazione chiara sui rischi esistenti ed emergenti. Il ruolo dell’EFSA consiste nel valutare e comunicare tutti i rischi associati alla ca-

LE STRuTTuRE ScIEnTIFIchE tena alimentare. Poiché le indicazioni dell’EFSA sono utilizzate per la definizione di politiche e decisioni dei gestori del rischio, essa svolge la maggior parte delle sue funzioni in risposta a richieste specifiche di consulenza scientifica. Le richieste di valutazioni scientifiche pro-vengono dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo e dagli Stati membri dell’UE. L’EFSA, inoltre, assume incarichi di lavoro in ambito scientifico anche di sua spontanea inizia-tiva attraverso la cosiddetta procedura di “autoassegnazione”.

A Parma questo importante organismo consultivo europeo è arrivato nel dicembre del 2003, a seguito di una candidatura promossa a livello provinciale da un vasto aggregato di enti ed associazioni, che sono state in grado di ottenere il necessario supporto politico a livello regionale e nazionale.

4.3.2 IL conSoRzIo DALLA TERRA ALLA TAVoLAIl Centro Italiano Servizi dalla Terra alla Tavola – TeTa - è stato costi-

tuito a Parma nell’ottobre 1998 su sollecitazione del tessuto istituzio-nale e imprenditoriale, legato alla filiera agroalimentare.

TeTa opera per lo sviluppo e diffusione di soluzioni per la sicurezza; il rispetto degli equili-bri ambientali e dei principi etici; la ricerca di soluzioni innovative per la qualità e la sicurezza idonee alle filiere agroalimentari italiane. Questi ambiti sono scientificamente analizzati e valutati attraverso le competenze di oltre 300 esperti, forniti degli enti soci per realizzare progetti di interesse generale.

In questo senso TeTa si pone come strumento per la promozione e la gestione di attività finalizzate alla qualità, alla innovazione e alla sicurezza nelle filiere agroalimentari. occorre infine sottolineare che il Consorzio non ha tra i propri scopi la consulenza alle singole azien-de, bensì lo sviluppo di progetti di utilità collettiva. L’individuazione degli argomenti “sensi-bili”, sui quali operare in via prioritaria, avviene per il tramite dei propri soci: associazioni di categoria, società di servizi, enti locali e camerali.

La sede dell’EFSA

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ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

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4.4Gli enti di promozione

Parma ha dimostrato nel tempo di saper fare sistema e di affrontare la sfida soprattutto dei mercati esteri, avvalendosi di strutture che sappiano portare avanti strategie di promo-zione adeguate a mantenere alta la competitività dei nostri prodotti e promuoverne la co-noscenza in tutto il mondo. Tra queste un ruolo di primo piano spetta alla Camera di Com-mercio, che con la riforma del 1993 ha visto riconosciuta l’autonomia statutaria per quanto riguarda sia l’organizzazione sia il funzionamento, consentendole di diventare vero e proprio motore di sviluppo per il territorio. Similarmente è funzionale in chiave strategica il ruolo di Parma Alimentare, consorzio nato per la promozione dell’agroalimentare sui mercati esteri attraverso la partecipazione alla principali fiere di settore del mondo.

4.4.1 cAMERA DI coMMERcIoLa valorizzazione del territorio e della sua econo-

mia è una delle attività qualificanti della Camera di Commercio. Negli ultimi dieci anni questo obiettivo è stato interpretato con forza, secondo un approccio integrato che ha coinvolto le componenti strategiche del “si-stema Parma”: le infrastrutture logistiche, il sistema dei servizi, la filiera agroalimentare, il comparto turistico.

L’intervento camerale si è quindi rivolto a favore di strutture e infrastrutture con vo-cazione specialistica e con elevata connota-zione di servizio, privilegiandole rispetto alle infrastrutture pesanti. In particolar modo un grande sforzo è stato fatto nell’ottica di uno sviluppo qualitativo del territorio, finalizza-to anche a dare impulso a una sua proiezio-ne internazionale. Questo obiettivo è stato perseguito attraverso interventi per valoriz-zare il potenziale del sistema dei trasporti, puntando sullo sviluppo di infrastrutture di livello internazionale (aeroporto); interventi per sostenere strutture innovative in grado di valorizzare il nesso tra sistema agroali-

GLI EnTI DI PRoMozIonE mentare, turismo, formazione, cultura e congressualità; ed infine interventi volti a sostenere il consolidamento di centri di competenza per l’innovazione e il trasferimento tecnologico.

4.4.2 PARMA ALIMEnTAREParma Alimentare nasce nel 1976 con l’obiettivo di promuovere in tutto

il mondo la conoscenza della tradizione e l´elevata qualità delle produzioni agroalimentari della provincia. Oltre alla Camera di commercio di Parma – ente fondatore – ne fanno parte istituzioni, associazioni di categoria e consor-zi di tutela3. Tra il 2001 e il 2002, è stato avviato il processo di riorganizzazione

e di rilancio della società in chiave di promozione integrata. Sotto questo profilo l’attività comprende l’organizzazione di partecipazioni collettive di imprese alle principali fiere inter-nazionali dell’alimentare e la realizzazione di iniziative di comunicazione dei valori e della qualità della produzione alimentare made in Parma, sempre presentata in stretta combina-zione con le specificità del territorio. In cinque anni il volume d’affari è cresciuto considere-volmente, passando dai 186.500 euro del 2003 ai 327.371 del 2008. Nel 2008 il consorzio è stato presente a un totale di 6 manifestazioni fieristiche e 11 eventi, ai quali hanno parteci-pato rispettivamente 34 e 43 aziende del territorio.

La sede della Camera di Commercio

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ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

273

La cultura alimentare 4.5

Non c’è e non può esservi Food valley se non si parla di cultura del cibo, conservazione della memoria e delle tradizioni, promozione della qualità come valore assoluto. In questo senso Parma ha costruito intorno alla propria eccellenza, l’Agroalimentare, un vero e pro-prio “sistema del sapere” che opera proprio per preservare e promuovere quella sapienza millenaria che ha fatto la fortuna di questo territorio.

4.5.1 ALMA: ScuoLA DI cucInA InTERnAzIonALENata nel 2002 e subito considerata come il più auto-

revole centro di formazione della cucina italiana a livello internazionale, ALMA è frutto della collaborazione tra isti-tuzioni private e pubbliche per la valorizzazione a livello

mondiale della cucina e dei prodotti nazionali. Sotto la guida del rettore, lo chef Gualtiero Marchesi, i più importanti cuochi e pastic-

ceri italiani e i più grandi esperti del settore tengono le proprie lezioni per chi ha concluso la Scuola alberghiera o ha iniziato da pochi anni l’attività.

La scuola offre aule e attrezzature didattiche all’avanguardia e una biblioteca di pub-blicazioni gastronomiche tra le più complete in Italia, con oltre 8.000 volumi e tutte le principali riviste del settore. Il core business è rappresentato dal Corso superiore di cucina italiana, due edizioni annue della durata di 10 mesi ciascuna, ma nel tempo l’offerta didat-tica si è ampliata e diversificata con il Corso superiore di pasticceria (7 mesi) e il Corso di sommelier professionista internazionale (11 mesi).

4.5.2 AcADEMIA BARILLANel maggio del 2004 veniva inaugurata Academia

Barilla. Apriva così i battenti un centro internazionale de-dicato a promuovere, difendere e sviluppare l’arte della Gastronomia Italiana. Ad un anno di distanza, nel 2005,

Academia Barilla apriva al pubblico uno strumento indispensabile per la sua missione: la Biblioteca Gastronomica Academia Barilla, collezione unica al mondo di testi legati all’Arte della Gastronomia, a disposizione di studiosi e appassionati con oltre 8.500 volumi a tema gastronomico e alimentare.

La Biblioteca comprende una ricchissima raccolta di testi specializzati in materia di storia dell’alimentazione e gastronomia, volumi datati a partire dal XvI secolo fino ai nostri giorni, costantemente ampliata attraverso acquisizioni mirate nell’editoria contempora-nea e scelte integrazioni al nucleo storico.

LA cuLTuRA ALIMEnTARE 4.5.3 ISTITuzIonE BIBLIoTEchE DI PARMAPer l’Istituzione Biblioteche del Comune di Parma non

si può parlare correttamente di un centro documentale sul cibo, che peraltro è presente in città. Tuttavia si tratta di una realtà che esprime un servizio che è in grado di soddisfare i bisogni di lettura e documentazione della po-

polazione di un territorio che ha fatto suo il brand dell’enogastronomia e del buon vivere. In particolare tutti gli operatori del settore conoscono la Biblioteca Bizzozero con i suoi 20.000 volumi e 1.000 testate periodiche su agricoltura e settori collaterali e testi di lette-ratura specialistica che non hanno corso di pubblicazione e tesi di laurea, data base relativi a profili giuridici del settore ambientale ed alimentare, oltre agli importanti fondi storici di Antonio Bizzozero e della Biblioteca del Consorzio Agrario Parmense. La Biblioteca In-ternazionale “Ilaria Alpi” inaugurata nel complesso del San Paolo all’inizio di quest’anno ha voluto proporre da subito titoli di “cucine del mondo” e aspetti del vivere quotidiano pensando a questi come primari strumenti di conoscenza reciproca.

Le proposte tra gli scaffali spaziano tra i paesi, le tradizioni e le abitudini: dalla cultura e cucina scozzese alle proposte messicane e caraibiche, alla cucina ebraica piuttosto che asiatica, ma anche cucina naturale, cucina natalizia, per i bambini e per i viaggiatori e un ampio spazio alla cucina mediterranea e alle cucine regionali italiane in diverse lingue straniere.

4.5.4 FonDAzIonE coLLEGIo EuRoPEoIl Collegio Europeo opera come istituto di for-

mazione superiore che prepara giovani laureati pro-venienti da tutto il mondo nell’ambito del diritto,

dell’economia e delle politiche dell’Unione Europea. Fondato nel 1988 come consorzio di enti, il Collegio Europeo di Parma è divenuto Fondazione nel 20044. L’offerta si divide in due categorie: formazione post-universitaria e formazione professionalizzante. La prima si incentra sul Diploma Avanzato in Studi Europei (DASE) inaugurato nel 2003 con la finalità di preparare giovani laureati alle carriere presso le istituzioni comunitarie, nazionali e lo-cali, le associazioni di categoria, il mondo delle imprese; ma anche alle libere professioni. Dal 2003 a oggi il Corso DASE ha registrato una media di 46 alunni per anno accademico. La sede della Fondazione ospita anche il Centro di documentazione europea, aperto agli studenti e ai cittadini che desiderano ricevere informazioni aggiornate e dettagliate sulle attività della Commissione Europea.

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ALTRE PECULIARITà DEL SISTEMA PARMA

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I Musei del Cibo 4.6

In provincia di Parma sono nati tre musei dedicati ad altrettante eccellenze agroali-mentari: il Prosciutto, il Parmigiano Reggiano e il Salame. La vocazione di queste realtà è spiccatamente turistica, avendo tra i propri obiettivi, oltre alla valorizzazione dei singoli prodotti “raccontati”, la costruzione di un nuovo prodotto turistico, che integri i luoghi di attrazione sul territorio agli itinerari eno-gastronomici. I Musei contribuiscono a valorizza-re i luoghi di produzione tipica già “viventi” sul territorio, curando in particolare quelli più idonei per storia, processo e qualità, ed inserendoli in itinerari che oltre ad interagire con i musei stessi, propongono un ricco programma di eventi che qualificano l’intero territorio attraverso la cultura gastronomica.

4.6.1 IL MuSEo DEL PARMIGIAno REGGIAnoIl 29 novembre 2003 veniva ufficialmente inaugurato e aperto al pub-

blico, a Soragna, all’interno dello storico Casello ottocentesco che sorge all’ombra della Rocca Meli-Lupi, il primo Museo del cibo, quello dedicato al Parmigiano-Reggiano. La raccolta del materiale del museo si è svolta su tutte e cinque le provincie in cui il Parmigiano-Reggiano è prodotto. Gli

oggetti reperiti si collocano per lo più nell’arco temporale compreso tra la seconda metà dell’ottocento e la prima metà del Novecento. Data la relativa omogeneità del materiale si è pensato di allestire l’esposizione come se si trattasse di “riarredare” l’antico caseificio Meli-Lupi. Infatti nel corpo più antico del fabbricato sono presenti gli oggetti necessari alla trasformazione. Nella parte più moderna dello stabile sono invece state allestite le sezioni non collegate con la trasformazione e cioè la stagionatura e commercializzazione oltre a quelle relative all’impiego gastronomico del prodotto e alla sua storia.

4.6.2 IL MuSEo DEL PRoScIuTToIl Museo del Prosciutto viene ufficialmente inaugurato il 2 maggio

2004. La sede viene indivduata a Langhirano nella vasta struttura dell’ex Foro Boario. Il Museo del Prosciutto e dei Salumi di Parma propone un per-corso che consente di ricostruire il processo di produzione, dal suino ai salumi, dei pregevoli prodotti dell’arte salumaria parmense. Al suo interno vi si trovano dunque sale dedicate non solo al classico Prosciutto crudo di

Parma, ma anche ad altri “capolavori” della tradizione salumiera locale quali il Culatello di zibello, il Salame Felino, la Spalla di San Secondo, tutti insieme vanto della gastronomia parmigiana, campioni di qualità e dolcezza, di equilibrio nutrizionale e di sapore.

I MuSEI DEL cIBo 4.6.3 IL MuSEo DEL SALAMEIl Museo del Salame di Felino apre al pubblico il 28 ottobre 2004 ed

è testimone del rapporto privilegiato instaurato nel tempo tra il prodotto unico che conosciamo e il suo territorio d’origine.

Felino rende così omaggio al suo “figlio” più amato, la cui storia è fi-nalmente a degna dimora nei magnifici locali settecenteschi delle cantine

del castello di Felino. Il Museo rappresenta un’occasione per far conoscere ed apprezzare non semplicemente l’essenza di quello che è stato definito il principe dei salami, ma il territorio e la comunità di cui è espressione, a partire dalla qualità delle materie prime fino alla sapienza delle mani che continuano a lavorarlo. Lo sforzo sostenuto per realizzare il progetto del Museo corrisponde pienamente alla volontà di offrire una nuova tappa tra le più notevoli lungo la strada del prosciutto e dei vini dei colli all’attenzione di esperti, curiosi e turisti.

noTE1 Del Distretto fanno parte Regione Emilia Romagna, Provincia di Parma; le due Comunità montane della Provincia di Parma; Associazione intercomunale pedemontane parmense; Comuni di Collecchio, Sala Baganza, Felino, Langhirano, Lesignano, Traversetolo, Montechiarugolo, Fornovo, Terenzo, Mede-sano, Calestano, Tizzano, Neviano, Berceto, Corniglio, Monchio, Palanzano, varano Melegari; Camera di Commercio di Parma; Soprip Spa, Consorzio del Prosciutto di Parma; Associazioni di categoria; Rappre-sentanze sociali; Università di Parma.2 Del Distretto fanno parte le Provincie di Parma, Piacenza e Cremona; le Camere di Commercio di Parma, Piacenza e Cremona; le associazioni di categoria: Upi, Coldiretti di Parma e Piacenza, Cio, Ainpo, Asipo e gli enti di ricerca SSICA, Azienda Stuard e Università di Piacenza.3 Si tratta in particolare di Provincia e Comune di Parma, UPI, Api, Apla, Ascom, Cna, Confesercenti, GIA, Lega cooperative, Unione cooperative, Consorzio Agrario, Consorzio Prosciutto di Parma e Consorzio Parmigiano-Reggiano. 4 Insieme alla Camera di Commercio di Parma sono soci fondatori: il Comune e la Provincia di Parma, la Regione Emilia-Romagna, l’Università degli Studi di Parma, l’Unione Parmense degli Industriali e la Fondazione Cariparma. Il Ministero degli Affari Esteri è socio sostenitore.