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MERCATO DEL LAVORO: FLESSIBILITÀ IN USCITA 1 LICENZIAMENTI INDIVIDUALI E COLLETTIVI a cura di Angelo Zambelli IN COLLABORAZIONE CON

LA RIFORMA DEL LAVORO meRcato del lavoRo: FleSSiBilitÀ in ... · IV Il disegno del Governo è stato dunque quello di adottare una disciplina che faccia della sanzione indennitaria

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meRcato del lavoRo: FleSSiBilitÀ in uScita

1LICENZIAMENTI

INDIVIDUALI E COLLETTIVI

a cura di

Angelo Zambelli

IN COLLABORAZIONE CONI manuali del Sole 24 ORE Settimanale N. 1/2012

Euro 9,90

La Riforma del Lavoro offre una serie di strumenti operativi per la comprensione delle numerose e importanti novità introdotte nel diritto e nel mondo del lavoro dalla Legge 28 giugno 2012, n. 92.

La Riforma viene illustrata nei suoi risvolti di immediata applicabilità nell’attività quotidiana di professionisti e imprese.

La Riforma del Lavoro nasce dall’esperienza del Sole 24 Ore e dalla operatività del Sistema Frizzera 24 e fornisce soluzioni chiare e autorevoli.

A poco più di un anno dalla promulgazione della Legge 4 novembre 2010, n. 183 (cd. Collegato Lavoro), che ha introdotto rilevanti novità in materia di impugnazioni, deca-denze e procedure di conciliazione e arbitrato, il Legislatore è intervenuto nuovamente con la Legge 28 giugno 2012, n. 92, che rappresenta sotto molteplici profili una riforma epocale del nostro diritto del lavoro. Ci riferiamo, ovviamente e in particolare, alle mo-difiche apportate all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che, al dichiarato fine di creare maggiore flessibilità in “uscita” dai rapporti di lavoro, hanno profondamente rivisitato l’apparato sanzionatorio applicabile in ipotesi di illegittimità dei licenziamenti.

L’opera affronta con un approccio estremamente pratico e operativo – grazie an-che alla presenza di prospetti riepilogativi e ai numerosi richiami giurisprudenziali – la nuova disciplina in tema di licenziamenti individuali, soffermandosi altresì sulle problematiche relative all’esercizio del potere disciplinare e a quelle scaturenti dalle procedure di licenziamento collettivo.

Un capitolo è dedicato a impugnazioni e decadenze nonché al rito speciale introdotto per le controversie relative ai licenziamenti.

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LA RIFORMADEL LAVORO

LICENZIAMENTI INDIVIDUALI

E COLLETTIVI

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I Manuali del Sole 24 ORE – Aut. Min. Rich.

Direttore responsabile: Roberto Napoletano

Il Sole 24 ORE S.p.A. – Via Monte Rosa, 91 – 20149 Milano

Settimanale - N. 1/2012

Volume 1 – Licenziamenti individuali e collettivi

© Il Sole 24 ORE a cura dell’Area Tax&Legal

Direttore: Paolo Poggi

Redazione: Claudio Pagliara - Ermanno Salvini

Progetto grafi co copertine: Marco Pennisi & C.

Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.

Finito di stampare nel mese di settembre 2012 presso:

Grafi ca Veneta – Via Malcanton, 2 – 35010 Trebaseleghe (PD)

LA RIFORMA DEL LAVORO continua ONLINE

Il Sole 24 ORE riserva ai lettori di «La riforma del lavoro» l’opportunità di approfondire online i temi trattati in questo volume.

È suffi ciente collegarsi all’indirizzo www.ilsole24ore.com/collanariformalavoro, registrarsi gratu-itamente e inserire il seguente codice di attivazione:

01T10D12

Una volta entrati nell’area riservata è possibile:● consultare la normativa di riferimento;● reperire le circolari applicative● approfondire i contenuti del volume con articoli tratti dalle Riviste Professionali del Gruppo 24 Ore.

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LICENZIAMENTI: PICCOLI PASSI IN AVANTI

L’attuale contesto economico rende quanto mai attuale fare un punto sulla fi scalità delle opeIl Go-verno Monti, fi n dal suo insediamento, ha espresso l’intenzione di far evolvere il mercato del lavoro verso un equilibrio occupazionale basato su una maggiore fl uidità e dinamicità per favorire l’inse-rimento più stabile dei giovani nel mondo del lavoro. Purtroppo però nel corso del confronto con le Parti Sociali il progetto di riforma elaborato dal Governo ha subìto un profondo mutamento di con-tenuto, perdendo di incisività anche sul versante della nuova disciplina dei licenziamenti.Sembrava infatti che attraverso l’eliminazione della reintegrazione sui licenziamenti per motivi economici e su parte di quelli disciplinari e l’introduzione di una indennità compresa tra un minimo e un massimo predefi niti, si potesse determinare con precisione il severance cost e si passasse da un sistema di job property ad un sistema di responsabilizzazione dell’impresa, in grado di aumen-tare tra l’altro l’attrattività del nostro sistema per gli investimenti stranieri e la produttività del nostro sistema economico. In realtà, la reintroduzione della reintegrazione vanifi ca quasi comple-tamente la portata di questa manovra. La riforma non modifi ca davvero le condizioni in uscita e, per di più, irrigidisce l’ingresso nel mercato del lavoro. Unico vero elemento positivo è l’introduzione della conciliazione obbligatoria, utile per tempestività e per fi nalità, anche se poi ci si limita sem-plicemente a suggerire l’utilizzo dell’outplacement - che sarebbe invece fondamentale per la ricol-locazione delle persone e per un sano sviluppo occupazionale - senza incentivarlo in nessun modo.In questa sede vogliamo limitarci ad alcune, necessarie, considerazioni circa i noti provvedimenti in materia di licenziamenti, che ben verranno illustrati nella presente pubblicazione.Il fatto che solo per le ragioni discriminatorie si sia mantenuto il regime precedente di reintegro unito ad indennità potenzialmente illimitata fa comprendere sia la gravità giustamente attribuita alle forme di discriminazione che, al contempo, la durezza complessiva del precedente sistema, che oggi viene fortunatamente riformato.Parlare di “radicale insussistenza del fatto” lascia, probabilmente, eccessivo spazio discrezionale al giudice nel defi nirne le fattispecie; tuttavia, la limitazione, in tal caso, a 12 mensilità massime di indennizzo costituisce un importante passo avanti per permettere alle aziende di conoscere il co-sto, seppur ingente, del licenziamento.Negli altri casi viene fatta chiarezza cancellando la reintegrazione e defi nendo con precisione l’in-tervallo di indennità.In questo quadro rimane delicata la questione del licenziamento per scarso rendimento, non di-pendente da disabilità o malattia in fase acuta: l’assenza di certezza circa l’esito del possibile giu-dizio continua infatti a costituire un problema per persone e aziende. Infi ne, sulla disciplina del procedimento giudiziale in materia di licenziamento, vengono introdotte due novità di rilievo che dovrebbero ridurre tempi ed incertezze: l’istituzione di un “tentativo di conciliazione” – rapido per legge, obbligatorio e che consiglia l’utilizzo dello strumento dell’outpla-cement – che si confi gura come una sorta di “primo grado di giudizio”; e l’attivazione di una corsia privilegiata rispetto a tutte le altre cause di lavoro.

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IV

Il disegno del Governo è stato dunque quello di adottare una disciplina che faccia della sanzione indennitaria la regola generale e di quella reintegratoria un rimedio straordinario, riservato a una ristretta minoranza di casi. Il che va, anche se non pienamente, nel senso della riduzione degli spazi di interpretazione dei giudici e rende molto più agevole l’identifi cazione di un’indennità in cui siano già noti i minimi e i massimi. Tutto ciò, va detto, contribuisce a rassicurare le aziende che, in questo modo, possono conoscere in anticipo le eventuali conseguenze delle proprie decisioni. Si è persa invece l’occasione di corresponsabilizzare l’azienda nel supportare il lavoratore licenziato a trovare una nuova occupazione. Qualche passo in avanti è stato però compiuto. Resta indubbiamente ampio spazio perché si mi-gliorino le condizioni di fl essibilità in uscita del nostro mercato, anche se sarà determinante – da qui in avanti - la stabilità di queste norme, così come fondamentale sarà l’attuazione di un forte investimento per la comunicazione dei nuovi criteri ad aziende e persone. Non si è certo giunti al massimo livello di semplicità e chiarezza, ma si sta probabilmente andando nella direzione di una maggiore trasparenza e responsabilizzazione delle imprese e dei lavoratori del nostro Paese.

Stefano Colli-Lanzi, CEO Gi Group e Presidente Gi Group Academy

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LICENZIAMENTI INDIVIDUALI E COLLETTIVI

INDICE GENERALE

di Angelo Zambelli

pag. pag.

Premessa ........................................................ III

Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formalie procedurali del licenziamento individuale ......1

1.1 Nozione .......................................................11.2 Fonti ..........................................................11.3 Forma..........................................................11.4 Contenuto ...................................................21.5 Comunicazione dei motivi ..........................21.6 Immodifi cabilità delle ragioni poste

a fondamento del licenziamento ...............31.7 Licenziamento per fatti

concludenti ..............................................31.8 Rinnovabilità del licenziamento ineffi cace ....31.9 Soggetto legittimato ad intimare

il licenziamento .......................................41.10 Prova della ricezione dell’atto

di recesso da parte del lavoratore ..........41.11 Rifi uto a ricevere

la comunicazione di licenziamento .............4

Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità .............................5

2.1 Classifi cazione ............................................52.2 Licenziamento ad nutum ............................5

2.2.1 Contenuto ed ambito di applicazione ....................................5

2.2.2 Motivo illecito e licenziamento ad nutum ..................6

2.2.3 Sistema differenziato di tutela nel licenziamento causale .......6

2.2.4 Tutela obbligatoria..............................62.2.5 Tutela reale ........................................62.2.6 Regime applicabile .............................72.2.7 Regime differenziato

di tutele e L. 108/1990 ........................72.2.8 Ambito della tutela reale ....................7

2.2.9 Legittimità costituzionale del regime differenziato di tutela ........8

2.2.10 Estensione convenzionale della tutela reale ................................8

Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare ............9

3.1 Contestazione dell’addebito .......................93.2 Forma scritta ..............................................93.3 Requisito dell’immediatezza ......................93.4 Onere della prova .....................................103.5 Requisito della specifi cità ........................11

3.5.1 Funzione ...........................................113.5.2 Contestazione della recidiva .............11

3.6 Requisito della immodifi cabilità ...............123.7 Preventiva indicazione

della sanzione irrogabile .......................133.8 Modalità di comunicazione

al lavoratore ..........................................143.9 Giustifi cazioni del lavoratore ....................143.10 Suffi cienza del termine di difesa ...........153.11 Obbligo del datore di lavoro

di sentire il lavoratore a sua difesa .......153.12 Assistenza dell’organizzazione

sindacale ................................................163.13 Problema del rispetto del termine

di difesa da parte del datore di lavoro ...163.14 Computo del termine ............................183.15 Forma e modalità di comunicazione

del licenziamento ..................................183.16 Requisito della tempestività ..................183.17 Termine previsto

dalla contrattazione collettiva ...............193.18 Proporzionalità tra addebito

e sanzione disciplinare ..........................193.19 Previsione della contrattazione

collettiva ................................................203.20 Esecuzione della sanzione disciplinare 20

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VI

– segue – INDICE GENERALEpag. pag.

3.21 Ipotesi di inapplicabilità dell’art. 7 S.L. ........................................21

3.22 Impugnazione della sanzione disciplinare illegittima ...........................21

3.23 Impugnazione della sanzione in sede arbitrale ........................................22

3.23.1 Termini e natura giuridica ................223.23.2 Effetti sulla sanzione disciplinare .....223.23.3 Alternatività

con l’impugnazione ..........................233.23.4 Problema della revocabilità

della scelta ......................................233.23.5 Impugnazione del lodo .....................243.23.6 Procedure arbitrali previste

dalla contrattazione collettiva...........24

Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento .....25

4.1 Nozione di giusta causa ............................254.2 Criteri giudiziali di accertamento

della sussistenza della giusta causa ....254.3 Pregiudizio economico subito dal

datore di lavoro ......................................274.4 Valutazione dei comportamenti

pregressi del lavoratore ........................274.5 Tolleranza da parte del datore

di lavoro di analoghi inadempimenti .....284.6 Valutazione di fattispecie qualifi cate

dalla contrattazione collettiva come giusta causa di licenziamento ..............28

4.7 Rilevanza dei comportamenti o delle situazioni soggettive estranee alla prestazione lavorativa ......................29

4.8 Comportamenti estranei alla prestazione lavorativa ......................22

4.9 Rapporti tra procedimento civile e giudizio penale .....................................30

4.10 Carcerazione preventiva ..........................314.11 Requisito della tempestività ....................324.12 Problema della pendenza

di procedimento penale ..........................324.13 Adozione della sospensione

cautelare e suoi effetti ............................................33

4.14 Ammissibilità della conversione giudiziale del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustifi cato motivo soggettivo ............33

Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento ...............................35

5.1 Nozione .....................................................355.2 Distinzione tra giusta causa

e giustifi cato motivo soggettivo ............355.3 Tipologie di recesso nella

contrattazione collettiva ........................355.4 Caratteristiche del giustifi cato motivo

soggettivo di licenziamento ...................365.5 La fattispecie dello scarso rendimento ........365.6 Clausole di “rendimento minimo” ............37 5.7 Assenze ingiustifi cate ...............................38

Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo .......................39

6.1 Nozione .....................................................396.2 Licenziamenti per ragioni inerenti

all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro ..............39

6.2.1 Soppressione del posto di lavoro .........396.2.2 Insindacabilità delle scelte

imprenditoriali ...................................406.2.3 Mansioni precedentemente

attribuite al lavoratore e soppressione del posto ....................41

6.2.4 Cessazione dell’attività produttiva ........416.2.5 Matrimonio e maternità

in caso di cessazione dell’attività .........416.2.6 Onere probatorio ...............................416.2.7 Sussistenza in concreto ed attuale .......426.2.8 Obbligo di repechâge .........................43

6.3 Licenziamenti per ragioni inerenti al regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro ...............43

6.3.1 Malattia del lavoratore .......................436.3.1.1 Modalità di computo

del periodo di comporto .....................456.3.1.2 Tempestività del recesso

per superamento del periodo di comporto ..........................................45

6.3.1.3 Motivazione del recesso per superamento del periodo di comporto ..........................................46

6.3.1.4 Assenze per malattia cagionata dalla nocività dell’ambiente di lavoro ....46

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VII

– segue – INDICE GENERALEpag. pag.

6.3.1.5 Licenziamento durante la malattia ......466.3.1.6 Sopravvenuta inidoneità fi sica o

psichica del lavoratore ........................476.3.1.7 Differenze tra l’istituto della

malattia e quello dell’inidoneità fi sica o psichica ..................................47

6.3.2 Impossibilità della prestazione lavorativa derivante da un provvedimento dell’autorità ................48

6.3.3 Provvedimenti giudiziari restrittivi della libertà personale del lavoratore .....48

6.3.4 Diritto del lavoratore alla reintegrazione in caso di assoluzione ......48

6.3.5 Ritiro del porto d’armi o mancato rinnovo del decreto di nomina ..............49

6.3.6 Ritiro del tesserino di accesso alle strutture aeroportuali ..................49

Capitolo 7 - Il preavviso .....................................51

7.1 Fonte giuridica e funzione ........................517.2 Effi cacia reale od obbligatoria

del preavviso ..........................................517.3 Sospensione per sopravvenuta malattia ....527.4 Effi cacia reale del preavviso e

indennità sostitutiva ..............................527.5 Durata del periodo di preavviso................53

7.5.1 Proroga del termine di preavviso .........547.5.2 Defi nizione di una durata

differente del preavviso rispetto a quanto disposto dal CCNL...................54

7.6 Indennità sostitutiva del preavviso ...........547.6.1 Incentivazione all’esodo .........................557.6.2 Trattamento fi scale ................................55

Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento ...............................................57

8.1 Fonte giuridica e funzione ........................578.2 Licenziamento discriminatorio ................57

8.2.1 Tipizzazione legale .............................578.2.2 Discriminazione sessuale ...................598.2.3 Discriminazione sindacale ..................598.2.4 Onere probatorio ................................598.2.5 Generalizzazione dell’ambito di

applicazione della tutela reale .............598.2.6 Licenziamento discriminatorio

nelle organizzazioni di tendenza ..........608.3 Licenziamento a causa di matrimonio ........60

8.4 Licenziamento della lavoratrice madre ...618.4.1 Deroghe al divieto ..............................618.4.2 Lavoratore padre ...............................628.4.3 Presentazione del certifi cato medico .....628.4.4 Mancata informazione all’atto

dell’assunzione ..................................628.4.5 Altre fattispecie di divieto

di licenziamento .................................628.4.6 Morte del feto, aborto e morte

del bambino ......................................638.5 Casi di nullità previsti dalla legge

e motivo illecito determinante ..............638.6 Licenziamento ineffi cace ..........................64

8.6.1 Ineffi cacia del licenziamento orale .................................................64

8.6.2 Ineffi cacia per carenza di contestuale motivazione ..................65

Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo .............67

9.1 Ambito di applicazione .............................679.2 Fattispecie ................................................679.3 Ambito soggettivo di applicazione ............679.4 Tipologia ...................................................689.5 Imprese commerciali ...............................689.6 Agenzie di viaggio e turismo, operatori

turistici e imprese di vigilanza ..............689.7 Aziende della logistica ..............................699.8 Soci lavoratori di cooperative

di produzione e lavoro ...........................699.9 Imprese di pulizia .....................................699.10 Aziende esercenti servizi di

trasporto pubblico in concessione ........709.11 Ferrovie dello Stato ...............................709.12 Ipotesi di esclusione ..............................71

9.12.1 Rapporti a termine .............................719.12.2 Fine lavoro nell’edilizia ......................719.12.3 Attività stagionali o saltuarie ............71

9.13 Agenzie di somministrazione di lavoro .729.14 Requisiti dimensionali ...........................729.15 Riferimento temporale

della consistenza numerica dell’impresa ...........................................72

9.16 Criteri di computabilità dei lavoratori ...739.17 Requisiti soggettivi ................................749.18 Requisiti causali ....................................759.19 Direttiva CEE n. 75/129 ..........................769.20 Licenziamento collettivo per

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VIII

– segue – INDICE GENERALEpag. pag.

riduzione dell’attività dell’impresa ........................76

9.21 Verifi ca giudiziale della procedura ........779.22 Requisiti numerico-temporali ...............779.23 Procedura ..............................................799.24 Consultazione in sede sindacale ...........809.25 Consultazione in sede amministrativa ..869.26 Comunicazione del licenziamento ........869.27 Comunicazione

ex art. 4, co. 9 L. 223/1991 .....................879.28 Verifi ca della legittimità del recesso .....879.29 Criteri di scelta ......................................889.30 Ipotesi di invalidità del licenziamento ...91

9.30.1 Condotta antisindacale ......................929.30.2 Vizi della procedura e

datori di lavoro non imprenditori .......929.31 Particolari categorie di lavoratori .........93

Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria ......................................................95

10.1 Tutela reale ............................................9510.1.1 Requisito numerico per

l’applicabilità della tutela reale .............9510.1.1.1 Onere della prova della

sussistenza del requisito numerico .......................................99

10.1.2 Unità produttiva .....................................9910.1.2.1 Nozione ...............................................9910.1.2.2 Luogo del licenziamento .................10010.1.3 Requisito soggettivo per

l’applicabilità della tutela reale ......10010.1.4 Effetti giuridici

della reintegrazione ........................10010.1.5 Immediata esecutorietà

ed ammissibilità dell’esecuzione in forma specifi ca ............................100

10.1.6 Ripresa del servizio .............................10110.1.7 Situazioni che non consentono

la reintegrazione ..............................10210.1.8 Responsabilità penale

per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione ..............................102

10.1.9 Luogo della reintegrazione e trasferimento del lavoratore reintegrato .......................................102

10.1.10 Indennità risarcitoria .......................10310.1.10.1 Opzione in sostituzione

della reintegrazione .........................10510.1.11 Profi li previdenziali

e assicurativi della reintegrazione .........................105

10.2 Tutela obbligatoria ..............................10610.2.1 Indennità risarcitoria ............................108

Capitolo 11 – La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 s.l .............109

11.1. La nullità del recesso nel nuovo articolo 18 ............................................109

11.1.1 Il licenziamento discriminatorio .....10911.1.2 Il licenziamento a causa di

matrimonio .......................................11011.1.3 Il licenziamento a causa di

maternità/paternità ........................11011.1.4 Il licenziamento nullo per

motivo illecito e determinante o ineffi cace ..........................................110

11.1.5 La sanzione: reintegrazione e risarcimento .....................................111

11.1.6 L’aliunde perceptum ......................11211.1.7 L’opzione alla reintegrazione ..........112

11.2 La disciplina sanzionatoria nel licenziamento disciplinare ..................112

11.2.1 La reintegrazione ............................11311.2.2 L’indennità risarcitoria ...................11311.2.3 Violazione della procedura

disciplinare .......................................11411.3 Il giustifi cato motivo oggettivo:

fl essibilità in uscita? ............................115Procedura preventiva di comunicazione

del g.m.o. .............................................11511.4 I licenziamenti collettivi .....................118

11.4.1 Vizi della comunicazione di apertura della procedura di mobilità ..........................................118

11.4.2 Termine per la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità ..........................118

11.4.3 Il regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi .....................119

Capitolo 12 – Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie ........................................121

12.2 Impugnazione stragiudiziale ..............121

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IX

– segue – INDICE GENERALEpag. pag.

Angelo Zambelli, avvocato in Milano, partner di Grimaldi Studio Legale, di cui è Responsabile del Dipartimento di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, collabora stabilmente con il Sole 24 Ore. È autore di numerose pubblicazioni in campo giuslavoristico e partecipa abitualmente, in qualità di docente e/o relatore, a convegni e seminari in materia di diritto del lavoro, diritto sindacale e relazioni industriali.

12.3 Impugnazione giudiziale ......................12212.4 Le novità introdotte dalla L. 183/2010

e, successivamente, dalla L. 92/2012 ..12212.5 Rinunzia o revoca dell’impugnazione ..12412.6 Effetti dell’impugnazione ....................12512.7 I problemi applicativi introdotti

dalla L. 10/2011 ...................................12512.8 Legittimazione ad impugnare il

licenziamento ......................................12612.9 Impugnazione del licenziamento

proposta dal solo legale del lavoratore ......................................126

12.10 Decorrenza del termine di impugnazione ......................................126

12.11 Sede in cui recapitare l’atto di impugnazione ......................................127

12.12 Prova dell’impugnazione .....................12712.13 Effetti della mancata impugnazione ...12812.14 Impugnazione del licenziamento e

contratti di lavoro a termine ................12912.15 Il rito speciale per le controversie

in tema di licenziamenti introdotto dalla L. 92/2012 ..................129

Capitolo 13 – Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori 133................................................133

13.1 Il dirigente d’azienda ...........................13313.2 Licenziamento disciplinare ................13313.3 Giusta causa .......................................13413.4 Giustifi catezza .....................................13413.5 Conseguenze del licenziamento ........13513.6 Periodo di preavviso previsto dai

principali CCNL in caso di recesso da parte del datore di lavoro ....................................135

13.7 Indennità supplementare prevista dai principali CCNL per i dirigenti .......136

13.8 Incremento automatico dell’indennità supplementare per i dirigenti previsto da alcuni CCNL 136

13.9 Trattamento contributivo e fi scale dell’indennità supplementare .............137

13.10 Lavoratore in prova ..............................13813.11 Licenziamento della lavoratrice

madre in prova .....................................13913.12 Licenziamento del lavoratore in

prova assunto obbligatoriamente .......13913.13 Lavoratore a termine ...........................13913.14 Apprendistato ......................................14013.15 Lavoratore domestico ..........................14113.16 Lavoratrici madri e lavoro domestico 14113.17 Lavoratore a domicilio .........................14113.18 Telelavoro ............................................14213.19 Lavoratore in possesso dei requisiti

pensionistici .........................................142La disciplina sino al 31.12.2011 ....................142La disciplina dal 1.1.2012 ..............................14413.20 Lavoratore assunto obbligatoriamente 14413.21 Lavoro nautico ....................................14513.22 Lavoro sportivo ....................................14513.23 Job sharing ...........................................14613.24 Job on call ...........................................14613.25 Socio lavoratore di cooperativa ...........14713.26 Lavoratore assunto con contratto di

inserimento .........................................147

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Licenziamenti individuali e collettivi

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Capitolo 1

LE NOVITÀ IN TEMA DI ONERI FORMALIE PROCEDURALI DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE

1.1 Nozione

Il licenziamento è una delle forme di estinzione del rapporto di lavoro che si esplica me-diante atto unilaterale del datore di lavoro contenente la dichiarazione al lavoratore di voler risolvere il rapporto di lavoro subordinato in corso.

1.2 Fonti

Attualmente la materia dei licenziamenti individuali è disciplinata dagli artt. 2118 e 2119 c.c., dalla L. 15.7.1966, n. 604, dalla L. 20.5.1970, n. 300, dalla L. 11.5.1990, n. 108, dalla L. 4.11.2010, n. 183, dalla recentissima L. 28.6.2012, n. 92 (s.o. n. 136 alla G.U. 3.7.2012, n. 153) nonché da talune leggi speciali.

1.3 Forma

L’art. 2, co. 1, L. 604/1966 (come sostituito dall’art. 2, L. 108/1990) sancisce l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare per iscritto il licenziamento a pena di ineffi cacia del recesso. Il licenziamento, dunque, è un negozio unilaterale recettizio a forma vincolata che si perfezio-na nel momento in cui la dichiarazione di volontà del recedente giunge a conoscenza del de-stinatario, acquistando così l’idoneità necessaria alla produzione dell’effetto voluto.

La forma scritta per l’intimazione del recesso da parte del datore di lavoro è richiesta dalla legge ad substantiam. Ne consegue che il licenziamento individuale intimato senza l’osser-vanza della forma scritta è nullo, e quindi improduttivo di effetti giuridici, per difetto di forma (Cass., Sez. Un., 18.10.1982, n. 5394; Cass. 28.11.2006, n. 11670 e Trib. Milano 20.12.2009).

La legge 108/1990 ha ampliato l’ambito di applicazione dell’obbligo della forma scritta del licenziamento, estendendolo a tutti i datori di lavoro sia imprenditori che non imprendi-tori e a prescindere dall’elemento dimensionale dell’azienda. Il legislatore, inoltre, ha espressamente previsto che l’obbligo della forma scritta di cui all’art. 2, co. 1, L. 604/1966 si applichi anche al licenziamento dei dirigenti. Alcuni autori ritengono che siano esclusi dall’applicazione della norma i licenziamenti dei domestici, degli ultra sessantenni in pos-sesso dei requisiti pensionistici e dei lavoratori in prova (che, come vedremo meglio oltre, rappresentano fattispecie estranee alla disciplina vincolistica di cui alla L. 604/1966). A fu-gare ogni dubbio, sovviene il co. 4 dell’art. 2 della legge in esame, il quale impone espressa-mente la forma scritta per i soli dirigenti, implicitamente escludendone l’applicabilità alle altre fattispecie sopra citate.

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2 Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali e procedurali del licenziamento individuale

Licenziamenti individuali e collettivi

1.4 Contenuto

La legge non prevede l’adozione di formule sacramentali per la comunicazione della volontà di recesso; pertanto tale volontà può essere comunicata anche in forma indiretta purché in maniera non equivoca. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha avuto modo di precisare che: «Ai sensi dell’art. 2, legge 604/1966, il licenziamento deve rivestire la forma scritta; pur non essendo necessa-rie formule sacramentali, trattandosi di negozio giuridico unilaterale recettizio, la relativa manifesta-zione di volontà deve risultare chiara e univoca, in modo da rendere conoscibile al destinatario, senza dubbi e incertezze, l’intenzione del dichiarante di estinguere il rapporto» (Cass. 17.3.2001, n. 3869).

Sulla base di tale principio la Suprema Corte ha recentemente ritenuto valido il licenzia-mento intimato con lettera non sottoscritta, ma recante l’intestazione e in calce la denomina-zione dell’impresa e il nome del titolare (Cass. 24.3.2010, n. 7044). Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la consegna da parte del datore di lavoro dell’atto scritto di liqui-dazione delle spettanze di fi ne rapporto, quando il rapporto di lavoro sia stato di fatto inter-rotto, contiene in sè la chiara manifestazione della volontà di licenziare (Cass. 17.6.1995, n. 6900; nel merito, recentemente, Trib. Trieste 14.7.2011). Tuttavia, proprio in materia di conse-gna del prospetto del trattamento di fi ne rapporto al lavoratore, la Suprema Corte non è giun-ta a risultati univoci circa il fatto se considerare tale dichiarazione quale chiara manifestazione della volontà di recesso. In una decisione più recente, infatti, la stessa Suprema Corte, pur ri-badendo il principio che l’intimazione del licenziamento non necessiti di formule sacramenta-li, ha confermato la decisione di merito che aveva escluso integrare il requisito della forma scritta del licenziamento l’annotazione della risoluzione di singoli rapporti di arruolamento sul libretto di navigazione unita alla contestuale consegna al lavoratore di un foglio di liquidazio-ne delle spettanze contenente la voce “TFR” (Cass. 17.3.2001, n. 3869).

Sotto un diverso profi lo, la Cassazione ha precisato che l’accettazione da parte del dipen-dente del trattamento di fi ne rapporto, ancorché non accompagnata da alcuna riserva, non può valere quale tacita rinunzia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento (Cass. 21.3.2000, n. 3345; Cass. 2.6.1995, n. 6189).

1.5 Comunicazione dei motivi

Ai sensi dell’art. 2, c. 2, della citata L. 604/1966, come modifi cato dall’art. 1, co. 37, L. 28.6.2012, n. 92, «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specifi cazione dei motivi che lo hanno determinato».

Il legislatore, dunque, ha reso obbligatorio ciò che sin qui era eventuale onere del lavoratore domandare, giacché la precedente formulazione della norma in esame era «il prestatore di lavoro può chiedere, entro quindici giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso: in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto».

In assenza di contestuale motivazione il licenziamento è ineffi cace, con le conseguenze sanzionatorie di natura economica di cui si dirà oltre (vedi cap. 11). Tale obbligo di motivazione riguarda tutte le ipotesi di recesso da parte del datore di lavoro e, pertanto, non è limitato al recesso per giusta causa e per giustifi cato motivo soggettivo. La previsione legale dell’obbligo della motivazione è posta a tutela del lavoratore licenziato al fi ne di garantire al medesimo la possibilità di conoscere i fatti posti a base del recesso, di controllarne la fondatezza e di valu-tare l’opportunità di un’eventuale contestazione (Cass. 5.5.2011, n. 9925).

L’obbligo in esame, peraltro, è stato reso ancor più stringente per l’ipotesi di licenziamento

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Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali e procedurali del licenziamento individuale

Licenziamenti individuali e collettivi

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per giustifi cato motivo oggettivo da effettuare nell’ambito delle imprese con più di 15 dipenden-ti. In tale caso infatti - ai sensi dell’art. 7, L. 604/1966, come modifi cato dall’art. 1, co. 40, L. 28.6.2012, n. 92 – il recesso deve essere preceduto da una comunicazione trasmessa da datore di lavoro alla Direzione Territoriale del Lavoro e, per conoscenza, al lavoratore interessato, nella quale devono essere indicati «i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato». Ricevuta la comunicazione in que-stione, la Direzione Territoriale del Lavoro convoca le parti avanti la Commissione Provinciale di Conciliazione affi nché vengano esaminate «anche soluzioni alternative al recesso». La procedu-ra non può durare oltre 20 giorni dalla convocazione delle parti avanti la Commissione, «fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione fi naliz-zata al raggiugimento di un accordo». Laddove, al termine della stessa, non vi sia accordo, «il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore».

1.6 Immodifi cabilità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento

Conseguenza necessaria della ratio della previsione dell’obbligo della motivazione è l’immo-difi cabilità della motivazione stessa, atteso che diversamente sarebbe vanifi cata la possibilità di valutazione e contestazione da parte del lavoratore dei motivi posti alla base del licenziamento. Peraltro, tale principio si riferisce agli elementi di fatto posti alla base del licenziamento e non già alla qualifi cazione dei medesimi, la quale può essere legittimamente mutata dal giudice (Cass. 23.2.1991, n. 1937). È stato altresì ribadito che il principio di immutabilità dei fatti conte-stati (in caso di licenziamento disciplinare) si pone in funzione di garanzia, non risultando pre-cluse dall’operatività del detto principio le modifi cazioni dei fatti contestati che non si confi gurino come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella contestata ma che, riguardando circostanze prive di valore identifi cativo della stessa fattispecie, non precludano la difesa del lavoratore sulla base delle conoscenze acquisite e degli elementi a discolpa apprestati a seguito della contestazione dell’addebito (Cass. 6.5.2011, n. 10015).

1.7 Licenziamento per fatti concludenti

Tale fattispecie di licenziamento è confi gurabile solo nella limitata area in cui non è richie-sta la forma scritta, come nel caso del rapporto di lavoro domestico. Diversamente, nelle aree di applicabilità dell’art. 2, L. 604/1966, qualora il datore di lavoro ponga in essere un compor-tamento che possa essere inteso per il suo carattere univoco come espressione della volontà di estromettere defi nitivamente il lavoratore dall’azienda, tale condotta integra un licenzia-mento ineffi cace in quanto in violazione dell’art. 2, L. 604/1966.

1.8 Rinnovabilità del licenziamento ineffi cace

La Cassazione ha esaminato, inoltre, la questione della rinnovabilità del licenziamento ineffi cace. Sul punto, la Suprema Corte è unanime nel ritenere che il licenziamento intimato verbalmente è in-suscettibile di convalida in quanto l’art. 1423 c.c. prevede «che il contratto nullo non può essere convalidato se la legge non dispone diversamente», salva peraltro la legittimità di un nuovo licenzia-mento, successivo a quello orale, che abbia tutti i requisiti di sostanza e di forma previsti dalla legge.

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4 Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali e procedurali del licenziamento individuale

Licenziamenti individuali e collettivi

1.9 Soggetto legittimato ad intimare il licenziamento

Il datore di lavoro è il soggetto legittimato ad intimare il recesso. Da ciò consegue che, nel caso in cui il datore di lavoro sia un soggetto munito di personalità giuridica di diritto privato, il licenzia-mento deve essere intimato dalla persona o dall’organo munito di poteri dispositivi del relativo di-ritto (Cass. 13.6.2003, n. 9493; Cass. 11.6.1999, n. 5786). Secondo la giurisprudenza di legittimità, il licenziamento intimato da un soggetto privo della rappresentanza dell’ente non è infi ciato da nul-lità assoluta ma è annullabile da parte del datore di lavoro, il quale può anche ratifi carlo a norma dell’art. 1399 c.c., sempre che la ratifi ca sia fatta nelle stesse forme prescritte per l’atto ratifi cato e, quindi, in forma scritta laddove per quell’atto (come in generale per il licenziamento in caso di applicabilità della L. 604/1966) occorra tale forma ad substantiam (Cass. 24.11.1997, n. 11733).

1.10 Prova della ricezione dell’atto di recesso da parte del lavoratore

La comunicazione del licenziamento, avendo natura di atto unilaterale recettizio, soggiace alla disciplina dettata dagli artt. 1334 e 1335 c.c., la quale sancisce che «gli atti unilaterali producono effetto nel momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati» e che tali atti si reputano conosciuti «nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia». Pertanto, la Supre-ma Corte ha affermato che, nel caso di impiego del servizio postale, la prova della conoscenza del licenziamento deve essere particolarmente rigorosa e fornita mediante l’avviso di ricevimento della raccomandata o con l’attestazione della compiuta giacenza del plico presso l’uffi cio postale, ovvero può essere fornita anche mediante presunzioni, purché caratterizzate dai requisiti legali della gravità, della precisione e della concordanza (Cass. 14.4.1985, n. 2558; da ultimo, Cass. 5.5.2009, n. 13087). La presunzione di conoscenza stabilita dall’art. 1335 c.c. comporta, quindi, che il mittente dia prova del fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto recettizio all’indirizzo del destinatario, mentre è a carico del destinatario fornire la prova contraria di non avere avuto notizia per causa a lui non imputabile. In applicazione del suddetto principio la Suprema Corte ha ritenuto che, anche in mancanza dell’avviso di ricevimento della lettera raccomandata a mezzo della quale è stato co-municato il licenziamento, la ricevuta rilasciata dall’uffi cio postale costituisce prova della spedi-zione, sulla quale può fondarsi la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e la conoscenza dello stesso ex art. 1335 c.c. (Cass. 16.1.2006, n. 758).

1.11 Rifi uto a ricevere la comunicazione di licenziamento

In materia di rifi uto da parte del lavoratore di ricevere sul luogo di lavoro l’atto di licenziamento la Corte di legittimità ha affermato che è principio fondamentale del nostro diritto, sia sostanziale che processuale, che il rifi uto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa risolversi a danno dell’obbligato, infi ciandone l’adempimento. Nel diritto processuale, infatti, se il destinatario rifi uta di ricevere la notifi ca, questa si considera fatta a mani proprie (art. 138 c.p.c.). Tale principio vale anche per la comunicazione di un atto unilaterale recettizio, quale è il licenziamento (Cass. 12.11.1999, n. 12571; da ultimo, Cass. 18.9.2009, n. 20272).

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Capitolo 2

IL RECESSO CAUSALEE LE IPOTESI RESIDUALI DI LIBERA RECEDIBILITÀ

2.1 Classifi cazione

Nella variegata normativa che disciplina il licenziamento individuale emerge un dato unifi -cante costituito dal principio del cd. recesso causale in virtù del quale il licenziamento intima-to dal datore di lavoro deve essere sempre assistito da giustifi cato motivo o giusta causa. Al recesso causale si contrappone la fi gura codicistica del recesso ad nutum, in cui il datore di lavoro nulla allega e nulla è tenuto ad allegare a giustifi cazione della sua volontà di recedere dal rapporto.

2.2 Licenziamento ad nutum

2.2.1 Contenuto ed ambito di applicazione

Secondo l’art. 2118 co.co. «ciascuno dei due contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corpo-rative), dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso il recedente è tenuto verso l’altra parte ad un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro».

A seguito dell’evoluzione legislativa, ed in particolare a seguito della L. 108/1990, l’area della co.d. libera recedibilità, nella quale è possibile recedere ad nutum ovvero senza motiva-zione alcuna e con il solo onere del riconoscimento del preavviso o della relativa indennità sostitutiva, è meramente residuale. Attualmente riguarda:

● i lavoratori domestici (art. 4, co. 1, L. 108/1990);● i lavoratori ultra-sessantaseienni e le lavoratrici ultra-sessantaduenni in possesso dei requisiti

pensionistici, sempre che queste ultime non abbiano optato per la prosecuzione del rappor-to sino al limite di età previsti per gli uomini ai sensi della L. 26 febbraio 1982, n. 54 e del-la L. 29.12.1990, n. 407, per coloro che godono della co.d. tutela obbligatoria (art. 4, co. 1, L. 108/1990);

● i lavoratori ultrasettantenni in possesso dei requisiti pensionistici per coloro che godono della co.d. tutela reale;

● i dirigenti (a contrariis dagli artt. 10, 3 e 2, co.4, L. 604/1966);● i lavoratori assunti in prova (art. 10, L. 604/1966);● gli apprendisti (art. 10, L. 604/1966);● gli atleti professionisti (L. 23.3.1981, n. 91 e D.M. 13.3.1985).

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6 Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità

Licenziamenti individuali e collettivi

Se, da un lato, il legislatore è progressivamente intervenuto a restringere l’ambito di appli-cabilità dell’art. 2118 co.co., che attualmente opera limitatamente ai rapporti sopra citati, dall’altro non è stata apportata alcuna modifi ca relativamente al preavviso.

2.2.2 Motivo illecito e licenziamento ad nutum

Il licenziamento ad nutum può essere annullato per illiceità del motivo ex art. 1354 co.co. qualora contrastante con norme imperative, ordine pubblico e buon costume: in tal caso il recesso deve considerarsi nullo.

La maggior parte dei casi di nullità del licenziamento per illiceità del motivo è tipizzato e disciplinato autonomamente nelle fattispecie previste dall’art. 4 della L. 604/1966, art. 15 del-la L. 300/1970 e art. 3 della L. 108/1990, tutte relative ad ipotesi discriminatorie per ragioni politiche, religiose, sindacali, razziali, di lingua o di sesso.

2.2.3 Sistema differenziato di tutela nel licenziamento causale

Nell’ambito del licenziamento causale il legislatore ha disegnato due distinti regimi di tu-tela, uno solo dei quali costruito sull’inidoneità del recesso non assistito da giusta causa o giustifi cato motivo a risolvere il rapporto. Essenzialmente sono le differenziate conseguenze del licenziamento illegittimo (in quanto non sorretto da giusta causa o giustifi cato motivo) a distinguere e caratterizzare i due regimi di tutela cd. “obbligatoria” o “reale”. Si segnala che la L. 28.6.2012, n. 92, ha diversifi cato il regime sanzionatorio applicabile ai licenziamenti inti-mati successivamente alla sua entrata in vigore, prevedendo conseguenze differenziate a seconda del tipo di licenziamento oggetto di impugnativa giudiziale, approfonditamente esa-minate nel Capitolo 11 Permangono, in ogni caso, le differenze teoriche tra il regime di tutela obbligatoria e quello di tutela reale.

2.2.4 Tutela obbligatoria

Il regime di tutela obbligatoria (detta anche compensativa) è disciplinato dall’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604, secondo cui il datore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo è tenuto a riassumere il lavoratore o, in mancanza, a corrispondergli una determinata indennità la cui quantifi cazione è demandata al giudice entro un minimo ed un massimo previsti dalla legge.

Sul punto è necessario precisare che l’art. 30, co. 3, L. 4.11.2010, n. 183, stabilisce che «nel defi nire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della L. 15.7.1966, n. 604, e successive modifi cazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e parametri fi ssati dai predetti contratti» - ovvero sia dai «contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certifi cazione» - «e comun-que considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situa-zione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il compor-tamento delle parti anche prima del licenziamento».

La tutela apprestata al lavoratore dalla disposizione in esame viene altresì comunemente defi nita debole, in quanto di natura meramente patrimoniale.

2.2.5 Tutela reale

L’art. 18 S. L. nella previgente formulazione prevedeva un secondo regime di tutela in caso di licenziamento illegittimo (cd. tutela reale o ripristinatoria o specifi ca). La garanzia offerta al

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Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità

Licenziamenti individuali e collettivi

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lavoratore dal citato art. 18 veniva defi nita forte poiché obbligava il datore di lavoro a reintegra-re il lavoratore nel posto di lavoro e a corrispondergli un’indennità commisurata alle retribu-zioni non percepite (in misura non inferiore a 5) a titolo di risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento illegittimo.

Occorre sottolineare che le modifi che introdotte dalla L. 28.6.2012, n. 92, che peraltro è applicabile ai soli licenziamenti posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore, riguardano principalmente la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti, per il cui approfondi-mento si rinvia ai capitoli successivi.

2.2.6 Regime applicabile

La differenza tra applicabilità della tutela reale, di quella obbligatoria ovvero della discipli-na codicistica attraversa verticalmente tutti i rapporti di lavoro: alcuni sono assoggettati alla tutela obbligatoria, altri a quella reale, a margine rimangono alcuni rapporti soggetti esclusi-vamente al regime di libera recedibilità.

In giurisprudenza è consolidata la tesi che si tratti di tre regimi distinti di licenziamento con conseguente possibilità di valutare autonomamente i presupposti di applicabilità dell’uno anzi-ché dell’altro.

2.2.7 Regime differenziato di tutele e L. 108/1990

Prima della promulgazione della L. 108/1990, la Corte di Cassazione aveva bene riassunto gli ambiti di applicazione dei tre diversi regimi, affermando che la tutela reale trova applicazio-ne nelle imprese industriali e commerciali che in ciascuna sede, stabilimento, fi liale, uffi cio o reparto autonomo, ovvero nell’ambito dello stesso comune, occupino più di 15 dipendenti, nonché nelle imprese agricole che occupino più di 5 dipendenti (sia pure soltanto nello stesso ambito territoriale), quale che sia la loro dimensione complessiva; in difetto di tali presupposti, ed inoltre in caso di datore non imprenditore, è operante la tutela obbligatoria, ove sussista il requisito numerico dell’occupazione di almeno 36 dipendenti, stabilito dall’art. 11, L. 604/1966; mancando infi ne anche quest’ultimo requisito, il licenziamento rimane disciplinato dall’art. 2118 co.co.

La L. 108/1990 ha innovato il regime differenziato di tutele previsto per i licenziamen-ti individuali. Formalmente è rimasto il sistema tripartito, tuttavia per effetto del combi-nato disposto dell’art. 1, L. 108/1990 (che delimita il campo di applicazione dell’art 18 S.L.), dell’art. 2, L. 108/1990 (che ridisegna il campo di applicabilità della L. 604/1966), e del successivo art. 6, L. 108/1990 (che abroga l’art. 11, co. 1, L. 604/1966), il controllo delle ragioni di licenziamento è stato esteso anche alle piccole imprese e tendenzial-mente a qualsiasi datore di lavoro, rimanendo del tutto marginale l’area di libera rece-dibilità.

Ciò è il portato dell’eliminazione di ogni soglia dimensionale in precedenza prevista ai fi ni dell’applicabilità della tutela obbligatoria che, conseguentemente ed allo stato attuale, opera in tutte quelle ipotesi in cui non trovi applicazione la tutela reale, la cui area è stata a sua volta estesa.

2.2.8 Ambito della tutela reale

La L. 108/1990, come detto, ha esteso l’ambito di applicazione della tutela reale operando in due direttrici:

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8 Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità

Licenziamenti individuali e collettivi

1 oggettiva: rendendo applicabile tale regime a tutti i datori di lavoro che occupano più di 60 di-pendenti;

2 soggettiva: rendendo applicabile tale regime anche ai datori di lavoro non imprenditori.

Si segnala inoltre che la recente L. 28.6.2012, n. 92, pur prevedendo un apparato sanziona-torio diversifi cato a seconda della concreta ipotesi di licenziamento, ha mantenuto inalterati i requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18 S.L.

2.2.9 Legittimità costituzionale del regime differenziato di tutela

Più volte la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi circa la legittimità costitu-zionale del differente regime di tutela operante nel nostro ordinamento in caso di licenziamen-ti individuali. In particolare, anteriormente alla promulgazione della L. 108/1990, la Corte Co-stituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, L. 15.7.1966, n. 604 nella parte in cui, subordinando la stabilità del posto di lavoro ai limiti dimen-sionali dell’impresa, violerebbe il principio della parità di trattamento tra lavoratori assistiti da stabilità e lavoratori licenziabili ad nutum e, parimenti dopo tale L., ha nuovamente reputato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604, così come modifi cato dall’art. 2, L. 11.5.1990, n. 108, nella parte in cui attribuisce al datore di lavoro la facoltà di scelta fra la riassunzione del lavoratore ed il risarcimento del danno, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (Corte Cost. 23.2.1996, n. 44).

2.2.10 Estensione convenzionale della tutela reale

La cd. tutela reale, prevista dall’art. 18, L. 20.5.1970, n. 300, può essere pattiziamente este-sa al di fuori dei limiti legali soggettivi e oggettivi, ma ciò può avvenire solo a condizione che una tale estensione risulti chiaramente dalla disciplina individuale o collettiva del rapporto dedotto in giudizio, la cui interpretazione non può che essere demandata al giudice di merito (Cass. 26.5.2000, n. 6901).

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Capitolo 3

IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

Il licenziamento disciplinare non è una categoria autonoma che si affi anchi a quella del li-cenziamento per giusta causa o giustifi cato motivo, ma rappresenta il recesso intimato dal datore di lavoro per la violazione di una prescrizione, contrattuale e non, di diligenza o più in generale di una regola di comportamento del lavoratore: vale a dire quel licenziamento che costituisca una reazione del datore di lavoro ad un’inadempienza o, in senso lato, una colpa del lavoratore assunta ed allegata come giusta causa o giustifi cato motivo di recesso.

La fattispecie del licenziamento disciplinare, salve poche limitate eccezioni, è rinvenibile in qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, a prescindere dal regime sanzionatorio dell’illegittimità dello stesso: ne consegue che anche nelle piccole aziende, nonché nell’area della libera recedi-bilità (per quanto marginale e residuale) devono essere rispettate le regole procedimentali di intimazione del licenziamento disciplinare se ed in quanto tale. Analogamente, l’identifi cazione del carattere disciplinare del licenziamento prescinde dal fatto che il rapporto di lavoro si svolga, o meno, nell’impresa: dunque, può esserci licenziamento disciplinare anche nell’ambito di rap-porti di lavoro con organizzazioni di tendenza od associazioni senza fi ne di lucro.

3.1 Contestazione dell’addebito

L’art. 7, co. 2, S.L. prescrive che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore (fatto salvo il rimprovero verbale) senza avergli pre-ventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa. La ratio della previa contestazione dell’addebito è quella di consentire al dipendente incolpato di fornire le sue giustifi cazioni e di fi ssare, con carattere di immutabilità, la condotta della quale è incolpato il lavoratore stesso.

3.2 Forma scritta

L’art. 7, co. 5, S.L. prevede espressamente la forma scritta della contestazione dell’adde-bito disciplinare. Tale forma è prevista ad substantiam (Cass. 24.5.1984, n. 3209; Cass. 1.6.1988, n. 3716), con la conseguenza che il mancato rispetto della stessa comporta l’inidoneità della previa contestazione ad operare come valido antecedente della sanzione successivamente ir-rogata. Quanto al contenuto sostanziale della contestazione dell’addebito, è stato precisato che questa non richiede particolari formalità, ma solo l’esposizione dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale contestato, essendo irrilevante che essa sia nominata come “co-municazione”, che non indichi il termine a discolpa e che non convochi il lavoratore per un’au-dizione a sua difesa (Cass. 7.1.1998, n. 67). Circa il soggetto abilitato a contestare l’infrazione, l’espressione «datore di lavoro», di cui all’art. 7 co. 2, deve intendersi riferita allo stesso quale

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Licenziamenti individuali e collettivi

titolare del diritto di procedere alla contestazione ma non quale persona fi sica tenuta a prov-vedervi personalmente.

3.3 Requisito dell’immediatezza

La contestazione deve essere immediata rispetto all’accadimento del fatto o alla notizia di esso che ne abbia avuto il datore di lavoro.

È principio acquisito in giurisprudenza che il requisito dell’immediatezza vada interpretato in senso relativo, con riferimento alle caratteristiche dell’infrazione e alla necessità di un mar-gine temporale per il suo preciso accertamento, senza tuttavia che la dilatazione temporale possa vanifi care il diritto alla difesa del lavoratore. È stato precisato a tal proposito che il prin-cipio dell’immediatezza e della tempestività riguarda, ad un tempo, sia la contestazione degli addebiti sia l’irrogazione della sanzione, e trova il suo fondamento nell’art. 7, co. 3 e 4, S.L., che riconoscono al lavoratore incolpato il diritto alla difesa. Tale diritto deve essere garantito nella sua effettività, soprattutto nel senso di una contestazione ad immediato ridosso dei fatti contestati, così da poter consentire al lavoratore l’allestimento del materiale difensivo (docu-mentazione, testimonianze ecc.) per contrastare nel modo più effi cace il contenuto delle accu-se rivoltegli dal datore di lavoro (Cass. 14.9.2011, n. 18772); in giurisprudenza l’applicazione dell’accennato principio è stata “temperata” nel senso che l’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere intesa in una accezione “relativa” essendo compatibile con un inter-vallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni com-messe dal prestatore ovvero con una complessità della struttura organizzativa dell’impresa tale da far ritardare il provvedimento disciplinare (da ultimo, ex plurimis, Cass. 31.1.2012, n. 1403 e Cass. 23.2.2012, n. 2725); non può tuttavia rientrare in questa “elasticità” la contesta-zione a distanza di parecchi mesi rispetto ai fatti addebitati, che rende, di fatto, impossibile per il dipendente l’esercizio del diritto di difesa, né costituisce giustifi cazione del ritardo l’as-serita e indimostrata complessità delle verifi che nonché la disorganizzazione amministrativa nella conduzione aziendale (Cass. 8.1.2001, n. 150).

La giurisprudenza, peraltro, ha sottolineato che non possa ritenersi violato il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare nel caso in cui il contratto collettivo applica-bile consenta, a fronte di imputazioni penali accompagnate da provvedimenti restrittivi della li-bertà del lavoratore, di sospendere cautelarmente quest’ultimo dalla prestazione lavorativa e rinviare la contestazione disciplinare e l’ulteriore corso del procedimento disciplinare all’esito del primo grado del giudizio penale (Cass. 4.8.2006, n. 17767; Cass. 5.11.1997, n. 10855).

Sempre con riferimento ad un eventuale procedimento penale instaurato nei confronti del lavoratore, deve escludersi che incorra nella violazione del principio di immediatezza il datore di lavoro che, ai fi ni di un corretto accertamento del fatto, anziché procedere a proprie indagini, scelga di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale (Cass. 12.3.2001, n. 3560). Tale principio è stato ribadito anche recentemente dalla giurisprudenza di legitti-mità secondo cui la tempestività della contestazione di cui all’art. 7, co. 2, legge 300/1970 va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disci-plinare, appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplina-re ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato quando il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragione-volmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito

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disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale (Cass. 2.3.2008, n. 7983).

Con riferimento alla recidiva, la giurisprudenza ha statuito che viola il principio dell’imme-diatezza il comportamento del datore di lavoro che rinvii la contestazione dell’addebito al fi ne di utilizzare l’eventuale reiterazione dell’illecito come elemento di maggior gravità da porre alla base di una più grave sanzione disciplinare.

3.4 Onere della prova

L’onere della prova della tardività della contestazione disciplinare grava sul lavoratore (Cass. 22.2.1995, n. 2018).

Ove sia eccepita la tardività della contestazione, spetta al datore comprovare le ragioni impeditive di una rapida cognizione del fatto addebitato al dipendente e la tempestiva promo-zione dell’azione disciplinare, non appena avuta la notizia del fatto (Cass. 12.11.1993, n. 11180).

3.5 Requisito della specifi cità

3.5.1 Funzione

La contestazione dell’addebito deve essere specifi ca, nel senso che deve contenere l’espo-sizione puntuale delle circostanze essenziali del fatto ascritto al lavoratore (anche se non è richiesta né l’indicazione delle disposizioni legali o contrattuali violate, né la specifi cazione dell’elemento soggettivo che si contesta al lavoratore) al fi ne di consentire a quest’ultimo il pieno esercizio del suo diritto di difesa e deve contenere la non equivoca manifestazione dell’intenzione del datore di lavoro di considerare gli addebiti come illecito disciplinare.

REQUISITO DELLA SPECIFICITÀ

Cass. 19.3.1992, n. 3404 Il requisito di specifi cità non è ritenuto soddisfatto in una fattispecie in cui la contestazione dell’addebito, relativo ad un comportamento minaccioso nei confronti di altri lavoratori, era stata formulata senza la specifi cazione delle circostanze di luogo e di contenuto delle frasi intimidatorie nonché dei destinatari delle stesse, negando altresì che la mancata indicazione dei nomi di costoro potesse essere giustifi cata da ragioni di opportunità.

Cass. 16.9.1999, n. 10019 Il requisito di specifi cità è ritenuto soddisfatto qualora la dichiarazione del datore di lavoro abbia fatto riferimento, per una più precisa indica-zione dei fatti, ad una precedente comunicazione al lavoratore mede-simo

Cass. 22.11.2011, n. 24567 Il requisito di specifi cità è ritenuto soddisfatto qualora la dichiarazione del datore di lavoro abbia fatto riferimento, per una più precisa indica-zione dei fatti, ad una contestazione verbale effettuata nell’immediatez-za dei fatti e sul luogo esatto in cui gli stessi erano stati commessi, così da richiamare circostanze note al lavoratore

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In particolare, l’esigenza della specifi cità della contestazione non obbedisce ai rigidi cano-ni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, né si ispira ad uno sche-ma precostituito e ad una regola assoluta ed astratta, ma si modella in relazione ai princìpi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzio-nalmente e teleologicamente fi nalizzata all’esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incol-pato ad esercitare pienamente il diritto di difesa (Cass. 18.6.2002, n. 8853; più recentemente, Cass. 30.12.2009, n. 27842).

3.5.2 Contestazione della recidiva

L’ultimo comma dell’art. 7 S.L. dà rilievo alla circostanza della ripetizione dell’illecito - c.d. recidiva - pur contenendone gli effetti negativi nell’arco di 2 anni dall’applicazione delle san-zioni.

La dottrina ha precisato che il biennio decorre dalla comunicazione del provvedimento disci-plinare e che, trascorso detto termine, i comportamenti in precedenza sanzionati non assumono più autonomo rilievo, ma possono essere richiamati dal datore di lavoro solo per corroborare (e non accrescere) la gravità dell’addebito contestato e per confermare l’adeguatezza della sanzio-ne disciplinare ovvero per accertare la natura e la consistenza del fatto da valutare.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che è possibile tenere conto, quali circostanze confermative della signifi catività degli addebiti contestati (ai fi ni della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profi lo psicologico, delle inadempienze del dipenden-te e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprendito-re) anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento (Cass. 10.1.2011, n. 313).

Anche per la recidiva compiuta nel biennio vige il principio della specifi cità, atteso che la stessa non può essere contestata con il mero richiamo alla sua natura generica o specifi ca, ma richiede una contestazione che faccia riferimento a fatti specifi ci, individuabili nella loro materialità (Cass. 9.11.2000, n. 14555).

Con riferimento alla tempestività della contestazione di plurimi addebiti posti a fondamen-to del licenziamento disciplinare è stato ritenuto illegittimo il comportamento del datore di lavoro che in una condotta progressiva sostanzialmente unitaria del lavoratore aveva ravvisato la successione nel tempo di una pluralità di violazioni disciplinari e quindi, scomponendo tale condotta in più fatti illeciti, aveva utilizzato il fatto addebitato successivamente per contestare la recidiva rispetto a quello contestato per primo, risultando in tal caso violato il principio dell’immediatezza della contestazione che impone di non frapporre indugi tali da determinare un cumulo di addebiti (Cass. 7.9.2000, n. 11817).

Invece, nel caso di successivi comportamenti del lavoratore costituenti ognuno un’infra-zione disciplinare, il datore di lavoro non ha l’obbligo di procedere in ogni caso alla unifi cazio-ne delle varie sanzioni in una sola più grave, avendo ammesso la giurisprudenza che il datore di lavoro possa, sanzionate di volta in volta le singole infrazioni, procedere poi alla contestazio-ne della recidiva in occasione di ogni ulteriore violazione, com’è dimostrato dalla previsione dell’art. 7, legge 300/1970, che vieta solo di tenere conto delle sanzioni disciplinari che siano state applicate anteriormente al biennio; né è rinvenibile, in materia disciplinare, una funzione di prevenzione in vista del recupero del rapporto che verrebbe compromessa dalla valutazione atomistica dei singoli comportamenti, in quanto il potere disciplinare, ove si esplichi nel ri-spetto dei generali criteri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. che vietano rea-zioni sleali e pretestuose, non trova altro limite se non la proporzionalità della sanzione rispet-to ai comportamenti posti in essere dal dipendente (Cass. 10.2.2000, n. 1481).

Nel biennio, ove richiamata espressamente dal codice disciplinare in quanto elemento co-

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stitutivo dell’illecito e non mero criterio di determinazione della sanzione, la recidiva deve es-sere esplicitamente contestata, a pena di nullità della sanzione stessa (Cass. 10.1.2011, n. 313). Di contro, non è indispensabile che di essa si faccia esplicita menzione nella contestazio-ne disciplinare laddove venga utilizzata soltanto per evidenziare il particolare grado di gravità delle mancanze, quale mero criterio determinativo della sanzione che si ritiene proporzionata (Cass. 20.2.2012, n. 2433).

3.6 Requisito della immodifi cabilità

La contestazione è immutabile, nel senso che fatto contestato e fatto posto a fondamento della sanzione applicata debbono corrispondere.

Il principio dell’immutabilità della contestazione deve essere inteso in relazione alla sua funzione di garanzia del diritto di difesa del lavoratore, cosicché è esclusa la possibilità di modifi care il fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente.

In particolare, l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni disciplinari, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare anche diversamente tipizza-ta dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva (Cass. 28.8.2000, n. 11265).

È stato peraltro precisato che in relazione alle garanzie previste dall’art. 7, legge 300/1970, per l’applicazione di sanzioni disciplinari, il principio di immutabilità della contestazione non può dirsi violato nell’ipotesi in cui l’addebito contestato al lavoratore sia formulato con rife-rimento alla condanna penale riportata dal lavoratore (nella specie, per violazione di segre-to di uffi cio) e il successivo licenziamento disciplinare sia invece motivato con la violazione di obbligazioni contrattuali, ma tanto la contestazione quanto il provvedimento disciplinare facciano univoco riferimento agli stessi fatti materiali, non controversi (Cass. 19.12.1992, n. 13464).

Inoltre, in tema di risoluzione del rapporto di lavoro è stato chiarito come il principio della immutabilità della contestazione riguardi le circostanze di fatto su cui è fondato il licenzia-mento e non già la qualifi cazione dell’infrazione addebitata al lavoratore; pertanto tale princi-pio non è stato giudicato violato allorché il giudice abbia ritenuto la legittimità del licenziamen-to perché i fatti contestati dal datore di lavoro al dipendente integravano l’ipotesi della giusta causa, benché gli stessi fatti fossero stati addotti dal datore di lavoro nell’atto di recesso per motivare l’asserito mancato superamento del periodo di prova da parte del lavoratore mede-simo (Cass. 23.1.1987, n. 668; nello stesso senso, si registra un caso in cui il giudice ha ritenu-to che le condotte del lavoratore, qualifi cate dal datore di lavoro come “abbandono del posto di lavoro”, costituissero invece “dichiarazioni false”, Cass. 29.8.2011, n. 17743).

In ogni caso, poi, il principio in esame impedisce di attribuire rilevanza ad altre mancanze non addebitate al lavoratore, ma non preclude la valutazione di altri fatti che non vengono considerati come cause autonome di recesso ma come circostanze confermative dei fatti con-testati e della loro gravità (Cass. 15.5.1984, n. 2964).

In particolare, l’integrazione dell’originaria formulazione delle censure non determina una modifi cazione della contestazione allorché le circostanze nuove addotte dal datore di lavoro non risultino determinanti per l’esatta individuazione e comprensione dei fatto ogget-to di censura, ma riguardino allegazioni volte a fornire precisazioni e chiarimenti a tal scopo non essenziali. Ad esempio, per la giurisprudenza di legittimità, sarebbero tali le comunica-zioni fi nalizzate a correggere imprecisioni circa la denominazione di un locale pubblico (piz-

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zeria) presso il quale il lavoratore si era recato ripetutamente durante l’orario di lavoro (Cass. 22.11.2011, n. 24567).

La conseguenza dell’irrogazione della sanzione per causa diversa da quella enunciata nel-la contestazione è l’illegittimità della sanzione stessa (Cass. 7.5.1991, n. 5054).

3.7 Preventiva indicazione della sanzione irrogabile

Non sussiste alcun obbligo a carico del datore di lavoro né di indicare, nella contestazione degli addebiti, la sanzione che presumibilmente intende irrogare né di render note al dipen-dente le prove a suo carico (Cass. 30.1.1984, n. 721).

Peraltro, la giurisprudenza ha specifi cato come all’atto della contestazione dell’addebito ex art. 7, legge 300/1970, non sia preclusa al datore di lavoro la possibilità di anticipare il tipo di sanzione che si intende adottare, in quanto tale anticipazione non si pone in contrasto né con la lettera né con la ratio del citato art. 7, sempre che, ovviamente, sia comunque seguito il prescritto iter disciplinare (Cass. 5.12.1997, n. 12366).

Giurisprudenza maggioritaria

Nel caso di preventiva indicazione della sanzione irrogabile, il prov-vedimento defi nitivamente adottato può essere diverso ed anche più grave (oppure anche mancare) in relazione agli accertamenti ulterio-ri o alle valutazioni conseguenti alle difese presentate dal lavoratore (Cass. 20.7.1989, n. 3427; Cass. 18.10.1986, n. 6157).

Giurisprudenza minoritaria

La comunicazione al lavoratore, nella lettera di contestazione dell’ad-debito, della sanzione che si intende irrogare, o la specifi cazione delle disposizioni dalle quali tale sanzione è desumibile, si risolve nella spe-cifi cazione dei tratti distintivi dei fatti materiali sui quali il lavoratore è chiamato a difendersi e, pertanto, ha l’effetto di precludere (salvo nuove contestazioni nei limiti segnati dal principio d’immediatezza) l’irrogazione di una sanzione più grave di quella comunicata con la let-tera di contestazione o desumibile dalle norme ivi richiamate (Cass. 11.12.1990, n. 11779).

3.8 Modalità di comunicazione al lavoratore

Le modalità di comunicazione al lavoratore della contestazione disciplinare (a mani, per posta, con l’ausilio di un terzo) sono rimesse alla discrezionalità del datore di lavoro.

Peraltro, essendo la contestazione un atto di natura recettizia, la giurisprudenza ritiene che valga la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., ai sensi del quale la dichiarazione si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

È stato altresì ritenuto che a nulla rileva che il lavoratore abbia rifi utato di ricevere l’atto in esame: il rifi uto di conoscenza imputabile al lavoratore, infatti, non fa venire meno la presunzio-ne di conoscenza derivante dalla legge - art. 1335 c.c. e 138, co. 2, c.p.c. - (Pret. Torino, 5.1.1981).

La prova dell’effettiva ricezione della contestazione disciplinare da parte del lavoratore

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destinatario è a carico del datore, il quale può dimostrare con qualunque mezzo l’adempimen-to dell’onere. In particolare, nell’ipotesi di invio della lettera di contestazione mediante racco-mandata a mezzo del servizio postale, è suffi ciente a tal fi ne la prova dell’avvenuto avviso, all’indirizzo del lavoratore destinatario, della giacenza del plico postale, quale risultante dall’annotazione apposta su questo (Cass. 10.11.1990, n. 10853).

3.9 Giustifi cazioni del lavoratore

Ricevuta la contestazione dell’addebito il lavoratore può comunicare al datore di lavoro le sue giustifi cazioni; ma l’eventuale omissione dell’esercizio di tale facoltà, come anche l’insuf-fi ciente allegazione difensiva, non determina alcuna preclusione né pregiudica il lavoratore che in sede di successiva impugnazione della sanzione può dedurre ogni ulteriore circostanza utile alla sua difesa (Cass. 27.7.1996, n. 6787).

In tema, la Corte di Cassazione ha negato che sussista un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati. La messa a disposi-zione della documentazione suddetta, secondo i giudici di legittimità, deve ritenersi dovuta solo in quanto e nei limiti in cui l’esame della stessa sia necessaria al fi ne di una contesta-zione dell’addebito idonea a permettere a controparte un’adeguata difesa (Cass. 18.11.2010, n. 23304).

Peraltro, il datore di lavoro non è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustifi cazioni fornite dal lavoratore a seguito della contestazione della mancanza e ad enun-ciare le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle (Cass. 13.11.2000, n. 14680).

3.10 Suffi cienza del termine di difesa

I cc. 2 e 5 dell’art. 7 S.L. prevedono, rispettivamente, che «il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventi-vamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa» e che «i provvedimenti di-sciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto dei fatti che vi ha dato causa».

Pertanto, il lavoratore ha 5 giorni di tempo dalla ricezione della lettera di contestazione disciplinare per comunicare al datore di lavoro le sue eventuali giustifi cazioni.

In dottrina si è dubitato che tale termine, assai ridotto, possa tutelare suffi cientemente il lavoratore incolpato, vuoi perché la parallela norma prevista per il pubblico impiego attribui-sce al medesimo fi ne un termine di 20 giorni, prorogabile di ulteriori 15 giorni ove ricorrano gravi motivi (art. 105, D.P.R. 10.1.1957, n. 3), vuoi perché il termine di 5 giorni è da considerar-si rispettato quando il datore di lavoro riceve le giustifi cazioni del lavoratore, a nulla rilevando quando le stesse siano state inviate.

La giurisprudenza, peraltro, ha avuto modo di precisare che l’esistenza di uno stato di in-capacità naturale (ad esempio per malattia con stato confusionale) nei 5 giorni previsti dall’art. 7, L. 300/1970 - in quanto idoneo ad impedire al lavoratore di rendere le giustifi cazioni per ri-spondere agli addebiti contestati - viene indubitabilmente ad integrare un vizio alla procedura di legge vanifi cando la realizzazione degli scopi cui la medesima è preordinata, con la conse-guenza della necessaria posticipazione del termine di scadenza e, nel caso di irrogazione an-

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ticipata del provvedimento disciplinare, di annullamento del medesimo.La dottrina ha poi osservato, con riferimento all’inapplicabilità del termine di cinque giorni

al rimprovero verbale, come ciò comporti la possibilità di irrogare immediatamente tale san-zione dopo la contestazione ed anche nello stesso contesto temporale.

3.11 Obbligo del datore di lavoro di sentire il lavoratore a sua difesa

Il datore di lavoro è tenuto a sentire oralmente il lavoratore solo ove quest’ultimo lo chieda. Invero l’art. 7, L. 300/1970 non comporta in ogni caso l’obbligo per il datore di lavoro di convoca-re il lavoratore stesso per eventuali discolpe; un obbligo del genere, infatti, non solo non esiste certamente nell’ipotesi in cui lo stesso lavoratore non abbia rivolto al datore di lavoro una forma-le richiesta in tal senso (essendo al lavoratore riservata ogni valutazione in ordine alle modalità di esercizio del proprio diritto di difesa, tra le quali rientra anche il silenzio), ma non esiste nep-pure - per una ragione generale di correttezza e buona fede - quando, dopo la contestazione scritta dell’addebito, il lavoratore abbia comunque avuto modo di formulare le proprie difese e di manifestare le proprie ragioni senza remore e in piena libertà in un contraddittorio la cui effetti-vità, nel caso concreto, va accertata dal giudice del merito (Cass. 28.8.2000, n. 11279).

Per contro, la tempestiva presentazione, da parte del lavoratore, di giustifi cazioni scritte “con-suma” l’esercizio del diritto di difesa soltanto quando lo scritto non contenga alcuna richiesta di audizione, altrimenti permane l’obbligo del datore di lavoro di sentire oralmente il dipendente prima di irrogare la sanzione disciplinare (Cass. 6.7.1999, n. 7006). Infatti, secondo la giurispruden-za di legittimità, il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare può avvertire l’esigenza di essere sentito personalmente dal datore di lavoro, anche quando abbia inviato una compiuta difesa scritta. Tuttavia, in questa ipotesi, egli ha l’onere di comunicare la propria volontà in termini univo-ci, a tutela dell’affi damento del datore di lavoro, il quale non può essere esposto ingiustamente al rischio di sentirsi dichiarare illegittimo il licenziamento per un vizio di procedura determinato pro-prio dal contenuto incerto e poco chiaro della comunicazione del lavoratore. In particolare, è stato escluso che si potesse ravvisare una richiesta di audizione in cui il lavoratore chiedeva di essere ascoltato “per ogni ulteriore chiarimento dovesse necessitare” (Cass. 26.10.2010, n. 21899).

Vero è che il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione delle giustifi cazioni scritte, anche se queste appaiono già di per sé ampie ed esaustive e senza che occorra, nella richiesta di audizione, la specifi cazione delle relative ragioni di completamente della difesa (Cass. 27.1.2011, n. 1947; Cass. 31.1.2011, n. 2159).

L’audizione del lavoratore può avvenire anche nel corso di un colloquio informale, non determinando la violazione delle garanzie procedimentali prescritte dall’art. 7, L. 300/1970 la circostanza che l’audizione del lavoratore sia avvenuta nel corso di un colloquio di carat-tere informale che sia stato accordato da soggetto abilitato a rappresentare ai fi ni in esame il datore di lavoro (Cass. 20.1.1998, n. 476).

Quanto al luogo in cui tale audizione può svolgersi, va rilevato che nessuna fonte normativa o pattizia prevede che l’audizione del lavoratore debba avere luogo nell’orario e nella sede di lavoro, né contempla l’onere del datore di lavoro di consentire l’esercizio del diritto di difesa alle condizioni – relative al quando e al quomodo – richieste dal dipendente (Cass. 4.5.2011, n. 9770).

La mancata audizione orale del lavoratore che ne abbia fatto richiesta è causa di nullità del provvedimento disciplinare (Pret. Milano, 15.10.1994). Tuttavia, ove il datore di lavoro, a segui-to di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un

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differimento dell’incontro sulla base non già di impossibilità, ma di una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare (Cass. 31.3.2011, n. 7493).

3.12 Assistenza dell’organizzazione sindacale

Il co. 3 dell’art. 7 S.L. prevede la possibilità per il lavoratore incolpato di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. A tal propo-sito è stato precisato che il lavoratore può farsi assistere nel corso del procedimento discipli-nare da qualunque organizzazione sindacale, e non solo da quelle che abbiano costituito, ai sensi dell’art. 19, S.L., rappresentanze nell’unità produttiva in cui il dipendente presta la sua opera (Cass. 30.8.1993, n. 9177; Cass. 22.9.2003, n. 14055).

3.13 Problema del rispetto del termine di difesa da parte del datore di lavoro

La sanzione disciplinare (che sia più grave del rimprovero verbale) non può essere irrogata prima del decorso del termine di 5 giorni dalla comunicazione della contestazione dell’adde-bito, né tanto meno può darsi materiale esecuzione al provvedimento adottato.

Sino all’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte vi era contrasto sulla neces-sità di rispettare tale termine nell’ipotesi in cui il lavoratore avesse comunicato le sue giu-stifi cazioni prima del suo decorso, controvertendosi se il datore di lavoro dovesse comunque attendere cinque giorni per poter irrogare la sanzione o se potesse farlo anche prima.

Le Sezioni Unite hanno affermato che il licenziamento disciplinare - al quale sono applica-bili non solo le regole procedimentali stabilite a garanzia del contraddittorio dai primi tre com-mi dell’art. 7 Stat. Lav. ma anche il disposto del successivo comma 5 - non può essere intima-to prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa, salva la facoltà del datore di lavoro di adottare tale provvedimento non appena gli siano pervenute le giustifi cazioni del lavoratore incolpato, anche se il termine medesimo non sia ancora interamente decorso (Cass., Sez. Un., 26.4.1994, n. 3965).

Con l’importante precisazione che è legittima la sanzione disciplinare irrogata prima della scadenza del termine di cinque giorni qualora il lavoratore abbia già fornito le proprie giustifi -cazioni senza riserva di ulteriori integrazioni (Cass. 28.3.1996, n. 2791).

A tale principio si è poi adeguata la giurisprudenza successiva, anche se non è mancata qualche voce di dissenso (Cass. 22.4.1997, n. 3498).

Successivamente, però, la Suprema Corte, modifi cando il proprio precedente orientamento, ha statuito che il termine di 5 giorni dalla contestazione dell’addebito, prima della cui scadenza è preclusa, ai sensi dell’art. 7, co. 5, L. 300/1970, la possibilità di irrogazione della sanzione di-sciplinare, ivi compreso il licenziamento, pur essendo stabilito per consentire al lavoratore di comunicare al datore di lavoro le sue giustifi cazioni, risponde ad una ra� o più completa ed orga-nica, ravvisabile non solo nella necessità di consentire al datore di lavoro di adottare la sanzione dopo aver conosciuto le difese dell’incolpato, ma anche nella necessità per lo stesso datore di lavoro di fruire di un tempo, anche se molto breve, di ripensamento e di raffreddamento, tale comunque da fargli adottare i più gravi provvedimenti con la necessaria ponderazione; conse-guentemente, prima dell’intero decorso del detto termine non è consentito al datore di lavoro di irrogare il licenziamento, anche ove risulti che, prima della scadenza, il lavoratore abbia fornito le proprie giustifi cazioni (Cass. 25.7.2002, n. 10972; Cass. 22.2.2002, n. 2610).

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Tale decisione costituisce indubbiamente un ripensamento o comunque un’inversione di tendenza rispetto al precedente prevalente orientamento della stessa Corte.

In seguito è nuovamente intervenuta la Suprema Corte a Sezione Unite (Cass., Sez. Un., 7.5.2003, n. 6900) a comporre il contrasto giurisprudenziale sorto in materia, statuendo che il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza del termine di cui all’art. 7, co. 5, L. 300/1970 quando il lavoratore ha esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustifi cazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensi-ve. A questa interpretazione sembra aver aderito la giurisprudenza di legittimità successiva alla più recente pronuncia delle Sezioni Unite citata (Cass. 19.10.2011, n. 21622).

Anche se la questione interpretativa sembra ormai risolta da questo ulteriore intervento della Corte di Cassazione, un comportamento improntato alla prudenza suggerisce e forse impone in ogni caso il rispetto del termine dei 5 giorni dall’avvenuta contestazione disciplinare prima di procedere all’irrogazione della sanzione.

3.14 Computo del termine

Per il computo del termine dei 5 giorni si tiene conto dei giorni di calendario e non dei giorni lavorativi e si applica la regola della computabilità dei giorni festivi intermedi, deriva-bile dal sistema e positivamente espressa, per i termini processuali, dall’art. 155, co. 3, c.p.c. (Cass. 13.11.2000, n. 14680).

3.15 Forma e modalità di comunicazione del licenziamento

Il provvedimento di licenziamento deve essere comunicato in forma scritta al lavoratore in quanto atto unilaterale recettizio.

È con tale comunicazione che il provvedimento può considerarsi «applicato» per gli effetti del co. 6 dell’art. 7, ossia per l’impugnativa della sanzione stessa («il lavoratore, al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, (...), la costituzione, (...), di un collegio di conciliazione ed arbitrato»).

3.16 Requisito della tempestività

La giurisprudenza richiede che l’irrogazione della sanzione disciplinare sia tempestiva ri-spetto al fatto contestato.

La ra� o della tempestività si fonda sull’art. 7, cc. 3 e 4, S.L., che riconosce al lavoratore incolpato il diritto alla difesa (Cass. 8.1.2001, n. 150).

La giurisprudenza di merito ha evidenziato come, sebbene l’art. 7 non preveda un termine entro cui il datore di lavoro possa esercitare il potere disciplinare, non di meno deve escluder-si che egli possa irrogare una sanzione disciplinare allorché sia trascorso un considerevole lasso di tempo dalla contestazione (nella specie la sanzione era stata irrogata dopo sette mesi da quest’ultima; Pret. Roma 11.1.1990).

Peraltro, nel caso in cui il fatto contestato (costituendo ad un tempo illecito disciplinare e pena-

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le) emerga nella sua compiutezza all’esito del procedimento penale, l’irrogazione della sanzione è stata ritenuta tempestiva dalla giurisprudenza nonostante il rilevante tempo trascorso dalla con-dotta contestata al lavoratore. A tal proposito, la giurisprudenza ha infatti ritenuto che in pendenza di un processo penale a carico del lavoratore il principio dell’immediatezza che condiziona la vali-dità del recesso in tronco per giusta causa deve essere coordinato con l’esigenza di accertamento dei fatti, ed il comportamento dell’imprenditore che decide di mantenere in servizio il dipendente riservandosi di provvedere all’esito degli accertamenti in sede giudiziaria non può essere interpre-tato come rinunzia all’esercizio del potere disciplinare (Cass. 4.2.1992, n. 1165).

Altre decisioni, invece, hanno ritenuto incompatibile la ritardata intimazione da parte del datore di lavoro del recesso per giusta causa con l’attesa dell’esito del giudizio penale, anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si sia costituito parte civile nel processo penale, attesa la diversità, sul piano del contenuto e degli effetti, tra la vicenda penale e quella del rapporto di lavoro (Cass. 1.8.1984, n. 4578) e la incompatibilità della protrazione del rapporto di lavoro con la sussistenza di una giusta causa di licenziamento (Cass. 29.10.1991, n. 11508).

Nello stesso senso, è stato recentemente affermato che ai fi ni della valutazione circa la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare «non può assumere autonomo ed autosuffi -ciente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento pena-le, considerata l’autonomia tra i due procedimenti, l’inapplicabilità, al procedimento discipli-nare, del principio di non colpevolezza… la circostanza che l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l’assenza di analogo disvalore in sede disciplinare» (Cass. 26.3.2010, n. 7410).

3.17 Termine previsto dalla contrattazione collettiva

È possibile che la contrattazione collettiva preveda un termine per l’irrogazione della san-zione disciplinare, scaduto il quale deve presumersi che le giustifi cazioni del lavoratore siano state tacitamente accettate dal datore di lavoro. Infatti, la norma prevista dal co. 5 dell’art. 7, L. 300/1970 - che vieta l’applicabilità di provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale prima che siano decorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa -, non esclude che la disciplina collettiva possa arricchire le garanzie di difesa dell’incolpato con la previsione di un termine fi nale per l’adozione del provvedimento discipli-nare e con l’attribuzione di un determinato signifi cato al comportamento del datore di lavoro.

Pertanto è ritenuta legittima la clausola contrattuale (nella specie si trattava dell’art. 23, CCNL 18.1.1987 per gli addetti all’industria metalmeccanica privata) che preveda un termine finale per l’irrogazione della sanzione, configurandosi la mancata adozione del provvedimento disciplinare entro il termine finale quale accettazione delle giustificazioni fornite dal lavoratore (Cass. 21.3.1994, n. 2663).

3.18 Proporzionalità tra addebito e sanzione disciplinare

La sanzione deve essere proporzionata alla gravità del fatto addebitato al lavoratore ed accertato a suo carico, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto, soggettive ed oggettive, che hanno caratterizzato la condotta contestata (Cass. 27.2.1995 n. 2252).

Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare

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di quello fi duciario, occorre valutare - da un lato - la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono sta-ti commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, e - dall’altro - la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione infl itta. Con particolare riguardo a quest’ultimo aspetto, viene preso in consi-derazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fi ducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto di lavoro si risolva in un pre-giudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fi ni del giudizio di proporzionalità, l’in-fl uenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dub-bio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligente-mente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (Cass. 12.2.2012, n. 2014; Cass. 15.4.2011, n. 8774; Cass. 17.1.2011, n. 924).

Valga peraltro aggiungere che l’art. 30, co. 3, L. 4.11.2010, n. 183 (cd. Collegato Lavoro) stabi-lisce al riguardo che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustifi cato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti indivi-duali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certifi cazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10.9.2003, n. 276, e successive modifi cazioni».

Nello stesso senso, ma in maniera ancor più incisiva, la recentissima L. 28.6.2012, n. 92, at-tribuisce valore vincolante alle tipizzazioni di giusta causa (e di “giustifi cato motivo soggettivo”, cfr. Capitolo 5) contenute nei contratti collettivi e nei codici disciplinari applicabili al rapporto di lavoro: l’art. 1, co. 42, di tale norma prevede infatti che nelle ipotesi in cui «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collet-tivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», il giudice «annulla il licenziamento» ed applica il regime sanzionatorio previsto in ipotesi di licenziamento disciplinare invalido (cfr. Capitolo 11).

Sul punto, la giurisprudenza sin qui pronunciatasi ha costantemente affermato che le clau-sole della contrattazione collettiva che prevedono per specifi che inadempienze del lavoratore l’irrogazione del licenziamento non esimono il giudice dalla necessità di accertare in concreto la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente ed il rapporto di proporziona-lità tra sanzione e infrazione (Cass. 24.10.2000, n. 13983), tenendo conto delle circostanze del caso concreto e della portata soggettiva della condotta.

3.19 Previsione della contrattazione collettiva

Quando il contratto collettivo punisca con sanzione disciplinare non espulsiva un determi-nato comportamento del lavoratore, non è consentito al giudice di merito di apprezzare tale condotta quale ragione di irrimediabile lesione del rapporto fi duciario legittimante il recesso del datore di lavoro, sempre che, peraltro, vi sia integrale coincidenza tra la fattispecie con-trattualmente prevista e quella effettivamente realizzata, restando per contro quella valuta-zione possibile (e doverosa) quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto all’ipotesi contrattuale (Cass. 29.4.1998, n. 4395).

Il principio di proporzionalità della sanzione irrogata al fatto addebitato non esclude però che il datore di lavoro possa applicare una sanzione meno grave di quella prevista dal contrat-to collettivo applicato al rapporto (Cass. 13.8.1991, n. 8828).

La mancanza di proporzionalità tra addebito e sanzione rende la sanzione stessa illegittima.

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3.20 Esecuzione della sanzione disciplinare

Le sanzioni disciplinari, una volta irrogate e comunicate al lavoratore (in ragione della loro natura di atti recettizi), hanno effi cacia immediata e possono essere portate ad esecuzione senza che debbano trascorrere i 20 giorni successivi all’applicazione entro i quali il lavoratore può promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato al fi ne di ottenere la revoca del provvedimento (Cass. 23.7.1985 n. 4336).

Un’opinione quasi isolata in giurisprudenza ed assai datata ritiene invece che l’eseguibilità della sanzione sia condizionata alla mancata impugnazione della sanzione da parte del lavo-ratore (Pret. Milano 8.4.1971).

3.21 Ipotesi di inapplicabilità dell’art. 7 S.L.

In presenza di rapporti di lavoro con caratteristiche particolari la legge dispone che il pote-re disciplinare possa essere esercitato secondo modalità diverse da quelle delineate dall’art. 7 S.L.; in altri casi, anche nel silenzio della legge, si discute in dottrina e giurisprudenza dei limiti di applicabilità di tale norma o della stessa confi gurabilità di un potere disciplinare con quelle caratteristiche. I casi sono i seguenti:

● lavoro sportivo: l’art. 4, co. 8, L. 91/1981, esclude che sia applicabile l’art. 7 S.L. alle «sanzioni di-sciplinari irrogate dalle federazioni sportive nazionali». Secondo una parte della dottrina la ratio consisterebbe nell’esigenza di accorciare i tempi della giustizia sportiva dato che quelli stabiliti dallo Statuto sarebbero eccessivi e incompatibili con il regolare andamento delle competizioni sportive;

● lavoro a domicilio: la dottrina è divisa sull’applicabilità dell’art. 7 S.L., mentre non constano pronunce giurisprudenziali a riguardo;

● lavoro domestico: in giurisprudenza è stata sollevata questione di costituzionalità degli artt. 7 e 35 S.L. nella parte in cui escludono l’applicabilità al rapporto di lavoro domestico delle procedu-re per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari (Pret. Firenze, 23.6.1994). La Corte Costituzionale ha dichiarato la questione inammissibile per difetto di rilevanza (C. Cost. 26.5.1995, n. 193);

● dirigenti: la Suprema Corte ha inizialmente negato l’applicabilità dell’art. 7 S.L. ai dirigenti in ragione della specifi cità del lavoro dirigenziale rispetto a quello degli altri dipendenti. In parti-colare, la Cassazione a Sezioni Unite ha inizialmente statuito che le garanzie del contraddittorio previste dalla citata disposizione statutaria per l’irrogazione di sanzioni disciplinari e consi-stenti nella preventiva contestazione dell’addebito e nell’attribuzione di un termine a difesa, non trovano applicazione nel caso di licenziamento di dirigente d’azienda (qualifi ca connotata dalla collocazione in posizione di vertice nell’azienda quale alter ego dell’imprenditore) in ra-gione della natura spiccatamente fi duciaria del rapporto che esclude la stessa confi gurabili-tà del potere disciplinare del datore di lavoro (Cass., Sez. Un., 29.5.1995, n. 6041; conforme: Cass. 12.10.1996, n. 8934). Successivamente la Suprema Corte ha precisato che l’art. 7, legge 300/1970, non si applica al licenziamento disciplinare dei soli dirigenti di vertice, applicandosi invece a quello dei c.d. pseudo-dirigenti o dirigenti convenzionali (Cass. 11.2.1998, n. 1434; nello stesso senso: Cass. 27.11.1997, n. 12001). Si segnala, tuttavia, che da ultimo la Suprema Corte ha affermato che tali garanzie sono applicabili anche in caso di licenziamento disciplinare del dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifi ca posizione, di vertice o non di vertice, dello stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un comportamento negligente o, in senso lato, colpevole (Cass., Sez. Un., 30.3.2007, n. 7880; Cass. 3.4.2003, n. 5213) sia se a base del recesso siano poste condotte tali da recidere il necessario vincolo fi duciario (Cass. 27.12.2011, n. 28967; Cass. 17.1.2011, n. 897; Cass. 7.12.2010, n. 24794).

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3.22 Impugnazione della sanzione disciplinare illegittima

L’art. 7, co. 6 e 7, S.L. defi nisce la tipologia dei mezzi di impugnazione di cui può avvalersi il la-voratore avverso il provvedimento disciplinare: attivazione della procedura conciliativo-arbitrale o delle «analoghe procedure» previste dai contratti collettivi, oppure ricorso al giudice ordinario.

L’illegittimità della sanzione può derivare dalla violazione del procedimento disciplinare, dall’insussistenza dell’addebito posto dal datore di lavoro quale ragione giustifi catrice della sanzione stessa o dalla violazione del principio di proporzionalità.

Valga peraltro aggiungere che la L. 28.6.2012, n. 92, prevede delle conseguenze particola-ri in caso di licenziamento disciplinare ineffi cace in quanto intimato in violazione delle norme procedurali previste dall’art. 7 S.L. Infatti, una tale violazione comporta non già la reintegra-zione del lavoratore nel posto di lavoro bensì meramente la condanna del datore di lavoro al pagamento di «un’indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto» (cfr. Capitolo 11), salvo che il recesso intimato non sia censurabile anche nel merito, ossia in relazione alle ragioni poste a fondamento del licenziamento.

3.23 Impugnazione della sanzione in sede arbitrale

3.23.1 Termini e natura giuridica

La dottrina ritiene che il termine di 20 giorni previsto per promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato, contestualmente alla designazione del primo arbitro da parte del lavoratore, decorra dal momento della comunicazione della sanzione e non sia pre-visto a pena di decadenza. Invece, il termine di 10 giorni per nominare il secondo arbitro da parte del datore di lavoro decorre dalla comunicazione da parte dell’Uffi cio del lavoro. A tale proposito occorre sottolineare come il datore di lavoro entro il medesimo termine di 10 giorni possa, alternativamente, nominare il secondo arbitro o promuovere il giudizio ordinario, para-lizzando così la procedura arbitrale; in tale ultimo caso, tuttavia, l’esecuzione della sanzione disciplinare resta sospesa sino alla defi nizione del giudizio (Trib. Milano, 16 ottobre 2000; nel-lo stesso senso: Pret. Catania, 22.2.1988, con la precisazione che «fi no alla defi nizione del giudizio» è da intendersi il passaggio in giudicato della sentenza che dichiara legittima la san-zione stessa).

Qualora invece il datore di lavoro non provveda alla nomina del proprio rappresentante in seno al collegio arbitrale nel termine di 10 giorni dall’invito ricevuto dall’uffi cio del lavoro, la sanzione disciplinare si estingue automaticamente.

Infi ne, nessun termine è stabilito per la nomina del terzo arbitro, scelto d’intesa dal lavo-ratore e dal datore di lavoro o, in mancanza di accordo, designato dal direttore dell’Uffi cio del lavoro.

3.23.2 Effetti sulla sanzione disciplinare

Sebbene l’attivazione della procedura conciliativo-arbitrale sia facoltativa, abbiamo già ac-cennato come la stessa sia resa appetibile dal legislatore con la previsione dell’effetto sospen-sivo dell’effi cacia della sanzione disciplinare non eseguita «fi no alla pronuncia da parte del

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Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare

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collegio», nonché della caducazione automatica della sanzione stessa in caso di mancata no-mina del rappresentante in seno al collegio arbitrale da parte del datore di lavoro.

C’è da sottolineare che il legislatore riconnette la sospensione dell’esecuzione della san-zione all’attivazione della procedura arbitrale da parte del lavoratore (anche se poi il datore di lavoro reagisce proponendo azione giudiziale di accertamento) ma non alla promozione delle «analoghe procedure» contrattualmente previste né all’impugnazione della sanzione in sede giurisdizionale.

Peraltro atteso che, come già detto, i provvedimenti disciplinari, una volta applicati, hanno effi cacia immediata, senza che debbano trascorrere i 20 giorni successivi all’applicazione en-tro i quali il lavoratore può promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbi-trato al fi ne di ottenere la revoca del provvedimento, la promozione della costituzione di tale collegio sospende solo gli effetti non ancora realizzati di una sanzione già comminata (Cass. 23 luglio 1985, n. 4336).

3.23.3 Alternatività con l’impugnazione giudiziale

Una volta applicata la sanzione disciplinare il lavoratore, se intende impugnarla per farne valere l’illegittimità, ha la facoltà di scelta tra la procedura arbitrale e il ricorso giurisdiziona-le. Il datore di lavoro invece può solo accettare (non già promuovere) la costituzione del colle-gio arbitrale richiesta dal lavoratore, mentre può adire l’autorità giudiziaria per l’accertamen-to della legittimità della sanzione.

3.23.4 Problema della revocabilità della scelta

L’individuazione del momento in cui la scelta arbitrale diventa irretrattabile è questione controversa in giurisprudenza.

Da ultimo la Suprema Corte ha statuito che nell’ipotesi in cui il lavoratore colpito da licenzia-mento disciplinare abbia inizialmente scelto di avvalersi del collegio arbitrale previsto dall’art. 7, L. 300/1970, fi nché il suddetto collegio non addivenga ad una pronuncia può sempre esperire, nei limiti della prescrizione, l’azione giudiziaria rivolta all’accertamento della nullità del licenzia-mento, atteso che l’alternatività - intesa come irretrattabilità della scelta compiuta dal lavorato-re - tra il ricorso all’autorità giudiziaria e quella al procedimento arbitrale deve intendersi con riguardo alla sola eventualità che quest’ultimo sia effettivamente pendente (per tale dovendosi intendere il procedimento in cui sia intervenuta la regolare costituzione del collegio arbitrale) o sia pervenuto alla sua conclusione con la pronuncia del lodo (Cass. 20.2.1999, n. 1452; Cass. 10.4.1990, n. 3023; 8.2.1990, n. 891; 12.3.1987, n. 2588; 14.1.1987, n. 214; 3.12.1981, n. 6414).

Per quanto riguarda il mancato compimento della procedura arbitrale ove, dopo la costi-tuzione del collegio arbitrale, la procedura non arrivi al suo esito normale con l’emissione del lodo, vi è contrasto in giurisprudenza:

primo orientamento (Cass. 7.4.1992, n. 4245; Cass. 18.2.1992, n. 1978; Cass. 12.3.1987, n. 2588)

il mancato compimento della procedura arbitrale, indipendentemen-te dalle cause che l’abbiano determinato, comporta comunque il ri-pristino della facoltà delle parti di adire il giudice.

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24 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare

Licenziamenti individuali e collettivi

– segue –

altro orientamento (Cass. 17.9.1993, n. 9568)

la costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato, concretatasi con la nomina dei rispettivi componenti da parte degli interessati, i quali in tal guisa concludono l’accordo compromissorio, segna il momento pre-clusivo dell’azione giudiziaria, la cui facoltà potrebbe essere restituita alle parti solo ove il procedimento arbitrale non potesse concludersi con la decisione per fatto non imputabile ad alcuna delle parti stesse.

conferma del primo orientamento (Cass. 17.6.1999, n. 6081)

ritenendo che la rinuncia alla tutela giurisdizionale per effetto della scelta degli arbitri deve qualifi carsi come condizionata alla sopravve-nienza di un lodo valido, sicché quando, per qualsiasi ragione, il patto compromissorio abbia esaurito la sua effi cacia per l’impossibilità di far regolare dagli arbitri tale rapporto, risorge per le parti la facoltà di sottoporre al giudice le questioni già deferite agli arbitri.

3.23.5 Impugnazione del lodo

Attesa la natura irrituale dell’arbitrato in esame, la relativa decisione non è impugnabile nel merito avanti all’autorità giudiziaria ordinaria, salvo il controllo sia sull’esistenza di vizi idonei ad infi ciare la determinazione degli arbitri per alterata percezione o falsa rappresenta-zione dei fatti, sia sull’osservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accor-di collettivi.

3.23.6 Procedure arbitrali previste dalla contrattazione collettiva

L’art. 7, co. 6, S.L. prevede espressamente la contrattazione collettiva disciplini ulteriori e diverse procedure pattizie di conciliazione ed arbitrato, purché siano «analoghe» a quelle di fonte legale.

Con riferimento a tali procedure pattizie, la dottrina ha evidenziato come il disposto nor-mativo sia rispettato ove esse offrano al lavoratore garanzie non difformi da quella arbitrale, e cioè: termine per l’impugnazione della sanzione non inferiore a venti giorni; corretto contrad-dittorio; posizione paritetica delle parti nella costituzione dell’organo decisorio; sospensione della sanzione fi no alla pronuncia.

In giurisprudenza è stato confermato che «non è “analoga”, in riferimento al disposto dell’art. 7, co. 6, L. 300/1970, una procedura conciliativa prevista da contratti collettivi che non garantisca al prestatore di lavoro colpito da sanzione disciplinare una tutela equivalente a quella offerta dalla procedura di impugnazione in sede arbitrale prevista dalla medesima di-sposizione (trattavasi, nella specie, di una procedura meramente conciliativa e non arbitrale, con un termine di proposizione ridotto rispetto a quello legale, e senza previsione della so-spensione del provvedimento disciplinare sino alla conclusione del procedimento); restando comunque salva, anche a prescindere da tale valutazione, la facoltà del lavoratore di ricorrere alla procedura arbitrale prevista dall’art. 7 cit. o di adire l’autorità giudiziaria ordinaria» (Cass. 28.1.1984, n. 709).

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Licenziamenti individuali e collettivi

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Capitolo 4

LA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO

4.1 Nozione di giusta causa

La legge dispone che il licenziamento del prestatore di lavoro non possa avvenire che per giusta causa o per giustifi cato motivo (art. 1, L. 15.7.1966, n. 604). L’art. 2119 c.c. defi nisce come giusta causa di licenziamento quella che «non consente la prosecuzione, anche prov-visoria, del rapporto»: vale a dire, neppure per il periodo di preavviso. L’indeterminatezza ed elasticità del concetto normativo ha creato non pochi problemi interpretativi e, soprattutto, applicativi, coincidenti con la necessità di valutare e selezionare, in concreto, quando una determinata condotta posta in essere dal prestatore di lavoro possa costituire o meno giusta causa di licenziamento. Le diffi coltà sono state superate grazie alla copiosissima elabora-zione giurisprudenziale in materia che, nel tempo, ha delineato i criteri interpretativi ed applicativi della norma. Criteri che, da una parte, pongono dei limiti al potere discrezionale del datore di lavoro, reso particolarmente ampio dal disposto normativo, e, dall’altra parte, permettono di defi nire in linea generale come giusta causa di licenziamento quella causa che ha quale presupposto un inadempimento imputabile e colpevole del prestatore di lavo-ro e che incide negativamente sulla fi ducia del datore di lavoro sull’esattezza dei futuri adempimenti.

4.2 Criteri giudiziali di accertamento della sussistenza della giusta causa

Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento e se è stata rispettata la regola codicistica della proporzionalità della sanzione il giudice deve accertare in concreto se la specifi ca mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo conte-nuto obiettivo ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente, risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a lede-re in modo grave la fi ducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere la massima sanzione espulsiva senza che in tal caso possa rilevare l’assenza o la modesta entità di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro (Cass. 2.11.2011, n. 2692; Cass. 27.2.2008, n. 5116; Cass. 8.9.2006, n. 19270; Cass. 7.7.2006, n. 15491; Cass. 15.1.2003, n. 313; Cass. 26.3.2003, n. 11516; Cass. 23.4.2002, n. 5943).

In base all’orientamento giurisprudenziale sopra riportato, dunque, l’accertamento della effettiva sussistenza di una giusta causa da parte del giudice consiste nel valutare se, in con-creto, la mancanza posta in essere dal prestatore di lavoro abbia, innanzitutto, leso o meno il vincolo fi duciario tra datore di lavoro e prestatore di lavoro; e, di conseguenza, se la sanzione comminata dal datore di lavoro al lavoratore sia proporzionata, o meno, al fatto da quest’ulti-mo commesso.

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26 Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

In relazione alla lesione dell’elemento fi duciario – elemento che costituisce un presuppo-sto necessario per la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – «la condotta del lavo-ratore deve essere valutata nel suo contenuto obbiettivo, con specifi co riferimento alla natura e alla qualità del rapporto, al particolare vincolo di fi ducia che esso implica per la posizione rivestita nel suo ambito dal prestatore di lavoro, al grado di affi damento richiesto per le man-sioni ricoperte, nonché nella sua portata soggettiva in relazione alle circostanze del suo veri-fi carsi, ai motivi che l’hanno determinato e alla intensità dell’elemento volitivo, che deve esse-re riferito anche all’ambito della relazione lavorativa e non solo ai profi li meramente interiori» (Cass. 12.4.2010, n. 8641).

Per quanto attiene, invece, al vaglio di proporzionalità tra fatto addebitato e recesso «vie-ne in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fi ducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fi ni del giudizio di proporzionalità, l’infl uenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavorato-re che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rappor-to di lavoro» (Cass. 13.2.2012, n. 2014; Cass. 26.7.2010, n. 17514). Il giudizio di proporzionalità (art. 2106 c.c.) tra il fatto addebitato e la sanzione infl itta è, dunque, rimesso al giudice e si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazio-ne al concreto rapporto.

Tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola gene-rale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustifi cata solamente in presenza di un notevole inadempimen-to degli obblighi contrattuali ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provviso-ria del rapporto (Cass. 6.4.2012, n. 6498).

In concreto, la mancanza del lavoratore potrà dare luogo a giusta causa di licenziamento quando essa – tenuto presente ed applicato il principio di proporzionalità tra il fatto addebitato e la sanzione infl itta, e non rientrando la fattispecie in una specifi ca previsione disciplinare – sia di tale gravità da negare l’elemento essenziale del rapporto di lavoro quale è quello della fi ducia.

Quanto alle elencazioni delle condotte disciplinarmente rilevanti contenute in alcuni con-tratti collettivi, la giurisprudenza si costantemente orientata nel senso di attribuire a siffatte elencazioni valenza meramente esemplifi cativa e non tassativa: tali “tipizzazioni”, infatti, pur potendo essere utilizzate dal giudice quale parametro di riferimento ai fi ni dell’accertamento della lesione del vincolo fi duciario, non sono mai state ritenute «idonee da sole a fornire il para-metro per verifi care la sussistenza o meno della concreta lesione di quel vincolo» (Cass. 10.12.2002, n. 17562).

A tale riguardo, tuttavia, occorre sottolineare come la legislazione giuslavoristica più re-cente abbia attribuito rilevanza sempre più preminente alle condotte tipizzate nella contratta-zione collettiva (nonché nei codici disciplinari aziendali e nei contratti individuali di lavoro “cer-tifi cati”) al fi ne della valutazione della sussistenza, o meno, di una giusta causa di licenziamento.

In particolare, l’art. 30, co. 3, L. 4.11.2010, n. 183 prevede che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa … presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei

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Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

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contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certifi cazione di cui al titolo VIII del D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, e successive modifi cazioni».

Nello stesso senso, ma in maniera ancor più incisiva, la recentissima L. 28.6.2012, n. 92 ha attribuito valore vincolante alle tipizzazioni di giusta causa (e di “giustifi cato motivo soggetti-vo”, v. cap. V) contenute nei contratti collettivi e nei codici disciplinari aziendali: il co. 4 dell’art. 18 S.L., come modifi cato dal co. 42 dell’art. 1, L. 28.6.2012, n. 92, prevede, infatti, che nelle ipotesi in cui «il fatto posto a base del recesso rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disci-plinari» aziendali, il giudice «annulla il licenziamento» ed applica il regime sanzionatorio pre-visto in ipotesi di licenziamento “disciplinare” illegittimo (vedi cap. 11).

Sul punto, peraltro, deve essere sottolineato che la maggior parte dei contratti collettivi attualmente vigenti non contiene alcuna puntuale elencazione delle condotte disciplinarmente rilevanti: è prevedibile, pertanto, che alla luce delle previsioni del nuovo articolo 18 S.L. la contrattazione collettiva tenderà ad individuare e defi nire siffatte condotte in maniera molto più precisa e rigorosa rispetto al passato.

4.3 Pregiudizio economico subito dal datore di lavoro

Ai fi ni della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha stabilito che, attesa l’idoneità del comportamento del dipendente a produrre un pregiudizio potenziale per se stesso valutabile nell’ambito della natura fi duciaria del rapporto, la sussistenza e l’en-tità di un danno economico effettivo per il datore di lavoro ha un rilievo secondario ed accesso-rio rispetto alla valutazione complessiva delle circostanze delle quali si sostanzia l’azione commessa (Cass. 2.11.2011, n. 22692; Cass. 23.4.2008, n. 10541; Cass. 4.12.2002, n. 17208; Cass. 16.9.2002, n. 13536). Ciò in quanto, come già accennato, quello che in concreto rileva nella valutazione della sussistenza di una giusta causa - in uno con la lesione del vincolo fi du-ciario e la proporzionalità della sanzione rispetto alla mancanza posta in essere - è la riper-cussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura corret-tezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti.

Si deve tuttavia segnalare l’esistenza di alcune decisioni in cui la Corte Suprema, anche recentemente, si è orientata nel senso di attribuire al danno economico un qualche rilievo. È stato infatti statuito che il giudice, per valutare la congruità di un licenziamento per giusta causa e quindi verifi care la effettiva compromissione del vincolo fi duciario, non possa prescin-dere dal considerare ogni elemento caratterizzante il fatto concreto, eventualmente tenendo conto anche dell’entità del pregiudizio patrimoniale che il prestatore di lavoro, con la sua con-dotta, possa aver arrecato al datore di lavoro (Cass. 29.8.2011, n. 17739; Cass. 18.2.2000, n. 1892; Cass. 11.2.2000, n. 1558).

4.4 Valutazione dei comportamenti pregressi del lavoratore

Con riferimento ai comportamenti del prestatore di lavoro anteriori a quello che ha dato origine alla contestazione, la giurisprudenza di legittimità è univocamente orientata nel senso di ritenere la rilevanza di tali comportamenti, e ciò anche qualora tali comportamenti non sia-no stati tempestivamente contestati ma costituiscano una conferma della signifi catività di altri

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Licenziamenti individuali e collettivi

addebiti ai fi ni della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profi lo psicologico, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del provvedimento sanzio-natorio irrogato.

Addirittura, è stato precisato che – sempre ai fini della valutazione della gravità della inadempienza posta in essere dal prestatore di lavoro – si può tenere conto dei precedenti disciplinari già sanzionati, anche se risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non ostando a tale valutazione quanto previsto dall’art. 7, ultimo co., L. 300/1970 (Cass. 24.2.2012, n. 2870; Cass. 21.5.2008, n. 12958; Cass. 20.7.1996, n. 6523; Cass. 19.11.1993, n. 11410).

4.5 Tolleranza da parte del datore di lavoro di analoghi inadempimenti

Ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, la gravità dell’inadempi-mento e della condotta del lavoratore non può essere esclusa dal fatto che analoga con-dotta ed inadempimento, commesso da diverso dipendente, siano stati oggetto di diversa valutazione da parte del datore di lavoro, considerato il carattere autonomo di ciascuna inadempienza e l’impossibilità di giustificare l’una in dipendenza dell’altra (Cass. 9.9.1995, n. 9534).

È stato altresì affermato che la tolleranza da parte del datore di lavoro di precedenti mancan-ze - dello stesso o di altro lavoratore - non implica acquiescenza preclusiva della possibilità di un licenziamento per un’eguale infrazione successiva, atteso anche il presumibile progressivo ab-bassamento del limite entro il quale il datore di lavoro può essere indotto a tollerare la ripetizio-ne di condotte antigiuridiche dei propri dipendenti, le quali lo legittimerebbero a recedere dal contratto, e tenuto altresì conto che la mancata reazione alle prime infrazioni può essere giusti-fi cata, nel caso in cui l’azienda abbia una struttura organizzativa complessa, dalla diversità di competenze degli organi e uffi ci preposti all’accertamento e alla valutazione delle varie mancan-ze (Cass. 12.7.1999, n. 7351; Cass. 15 .1. 1997, n. 360; Cass. 11.2.1995, n. 1505).

In ogni caso, la valutazione del giudice di merito volta a stabilire se una determinata infrazione del lavoratore prevista come giusta causa di recesso dalla contrattazione collet-tiva sia idonea, per la sua intrinseca gravità obiettiva, a costituire giusta causa di licenzia-mento ai sensi dell’art. 2119 c.c., è incensurabile in sede di legittimità se condotta alla stregua di una compiuta valutazione delle risultanze di fatto e sorretta da adeguata e logi-ca motivazione.

4.6 Valutazione di fattispecie qualifi cate dalla contrattazione collettiva come giusta causa di licenziamento

Di norma i contratti collettivi riportano – a titolo esemplifi cativo – una elencazione di com-portamenti che, qualora posti in essere dal prestatore di lavoro, possono costituire giusta cau-sa di licenziamento. Le fattispecie contrattuali, in quanto meramente indicative, non sono tas-sative. Ciò comporta che, anche qualora un contratto collettivo preveda che una determinata condotta del prestatore di lavoro possa costituire una giusta causa di licenziamento, il giudice adíto in sede di impugnazione non è vincolato dalla previsione contrattuale ma deve valutare l’effettiva gravità del comportamento alla stregua dei parametri di cui all’art. 2119 c.c. e, dun-que, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.

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Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

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4.7 Rilevanza dei comportamenti o delle situazioni soggettive estranee alla prestazione lavorativa

In linea generale, i comportamenti del lavoratore estranei al rapporto di lavoro, perché attinenti alla sua vita privata, sono ritenuti irrilevanti ai fi ni della sussistenza di una giusta causa di licenziamento. Il principio ora menzionato trova, peraltro, non poche eccezioni nella casistica giurisprudenziale con riferimento a fattispecie nelle quali la condotta del prestatore di lavoro, pur essendo estranea al rapporto di lavoro e, di conseguenza, non inquadrabile qua-le inadempimento, sia egualmente idonea a produrre effetti rifl essi nell’ambito lavorativo fa-cendo venire meno l’elemento della fi ducia. In particolare, rilevano quei comportamenti del prestatore di lavoro che sono idonei ad integrare un’ipotesi di reato. Si tratta di ipotesi diffe-renti da quelle previste dai contratti collettivi e la cui valutazione e selezione deve essere ese-guita a seconda che si verifi chino all’interno dell’azienda, ovvero al di fuori da essa.

Con riferimento alla prima ipotesi, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, qua-lora il comportamento di un dipendente posto in essere all’interno dell’azienda integri un’ipotesi di reato, la valutazione della gravità di tale comportamento, ai fi ni della sussistenza di una giusta causa, ha carattere del tutto autonomo rispetto alla valutazione della gravità del reato. Ciò in quan-to la valutazione della sussistenza, o meno, di una giusta causa deve essere operata dal giudice alla stregua della ratio dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 1, l. 15.7.1966, n. 604, vale a dire tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fi duciario che lega le parti nel rapporto, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle fi nalità e regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dalla presenza, o meno, di un danno patrimoniale, ed indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fi ni penali. In concreto, dunque, deve essere valutata la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del la-voratore rispetto agli obblighi assunti. In tal senso, si è più volte espressa la giurisprudenza di legit-timità (Cass. 10.11.2011, n. 23422; Cass. 3.1.2011, n. 37; Cass. 3.10.2007, n. 20731; Cass. 17.4.2001, n. 5633 ; Cass. 5.8.2000, n. 10315; Cass. 8.2.2000, n. 1412).

Questo principio, più volte ribadito, è stato ampliato con l’introduzione di un nuovo criterio di valutazione della sussistenza di giusta causa di licenziamento defi nito «disvalore ambien-tale». È stato infatti considerato che nella valutazione della gravità della condotta del lavora-tore licenziato per giusta causa può assumere rilievo anche un altro elemento che è quello costituito dal disvalore ambientale della condotta stessa, anche per la specifi ca posizione pro-fessionale occupata dal dipendente e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale, specialmente se a lui sottoposti (Cass. 18.1.2008, n. 1077; Cass. 23.10. 2006, n. 22708; Cass. 4.12.2002, n. 17208).

4.8 Comportamenti estranei alla prestazione lavorativa

L’analisi dei comportamenti o situazioni soggettive estranee alla prestazione lavorativa as-sume altresì particolare interesse con riferimento alle pronunzie giurisprudenziali attinenti la commissione di reati da parte del lavoratore al di fuori dell’azienda. Infatti, pur trattandosi, con tutta evidenza, di fattispecie che rientrano nel più ampio contesto dei comportamenti estranei

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30 Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

alla prestazione lavorativa e come tali – secondo la regola generale sopra ricordata – irrilevan-ti ai fi ni della sussistenza di un giusta causa di licenziamento, in concreto possono produrre rifl essi nell’ambiente lavorativo e possono essere di gravità tale da far venire meno l’elemento della fi ducia, indipendentemente dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro ed all’attinenza della condotta con l’attività svolta.

giusta causa di licenzia-mento - sussistenza

In base al principio sopraenunciato, ad esempio, è stata ritenuta sussi-stente una giusta causa di licenziamento di un dipendente di un istituto di credito condannato per il reato di ricettazione (Cass. 13.4.2002, n. 5332), atteso anche il particolare rigore con il quale deve essere valuta-ta la lesione del rapporto fi duciario – particolarmente intenso nel set-tore del credito – ed indipendentemente dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro.Vero è che, per intuibili motivi, la valutazione della lesione della fi ducia sottesa ad un rapporto di lavoro nel settore del credito non può che esse-re particolarmente rigorosa anche con riferimento alla commissione di reati al di fuori dell’ambito lavorativo: ad esempio, è stata ritenuta sussi-stente una giusta causa di licenziamento nel caso in cui un dipendente di un istituto bancario, coinvolto in fatti di droga, sia stato incriminato per il delitto di spaccio di stupefacenti, risultando inoltre detentore di stupefa-centi per uso personale. Infatti, una simile condotta non solo può recare discredito al datore di lavoro, ma anche compromettere l’ele-mento fi -duciario sotteso allo specifi co rapporto di lavoro, attesa la delicatezza e responsabilità delle mansioni esercitate (Cass. 17.6. 2002, n. 8716 ).

giusta causa di licenzia-mento - esclusione

Di contro, e sempre con particolare attenzione al vincolo di fi ducia che discende dalla delicatezza e responsabilità delle mansioni esercitate, va-lutato sia sotto il profi lo oggettivo che sotto il profi lo soggettivo, è stata esclusa la sussistenza di una giusta causa di licenziamento di due operai specializzati librari, dipendenti dell’Istituto Poligrafi co e Zecca dello Stato, coinvolti in un procedimento penale e condannati per il reato di esercizio abusivo di attività di gioco e scommessa. L’esclusione di una giusta causa è stata motivata sia sul piano normativo (poiché nel Regolamento del perso-nale di detto Istituto non era ricompresa l’ipotesi di cessazione del rappor-to di lavoro per la commissione di un reato quale quello di specie) sia sul piano oggettivo, attesa l’attività svolta dai dipendenti che non aveva carat-teristiche tali da richiedere specifi catamente un ampio margine di fi ducia né in sé, né in ordine alla serietà dei comportamenti privati dei dipendenti, ed era, comunque, totalmente estranea rispetto a quelle «delicate» pro-duzioni proprie dell’Istituto datore di lavoro (Cass. 10.12.2002, n. 17562)

4.9 Rapporti tra procedimento civile e giudizio penale

L’insegnamento costante della giurisprudenza della Corte Suprema è per l’assoluta auto-nomia fra la valutazione di un fatto in sede penale e la valutazione dello stesso fatto in sede di accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento. Questo principio è stato ancora di recente confermato: il giudice del lavoro adíto con impugnativa di licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tenere conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di

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assoluzione del lavoratore ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di co-gnizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualifi cazioni degli stessi del tutto svin-colate dall’esito del procedimento penale.

In ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fi ni della verifi ca della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della ratio dell’art 2119 c.c. e della L. 15.7.1966, n. 604, e cioè tenendo conto dell’in-cidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fi duciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle fi nalità delle regole di discipli-na postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fi ni penali, sicché non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affer-mi la legittimità del recesso nonostante l’assoluzione del lavoratore in sede penale per le mede-sime vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustifi cazione dell’immediata risoluzione del rapporto (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla Suprema Corte, in relazione al licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che aveva prestato denaro dietro note-vole interesse ad un collega di lavoro ed aveva proceduto poi a tutti i conseguenti atti di recupero crediti, aveva ritenuto la gravità del comportamento del dipendente, in quanto idoneo a turbare l’ordine della compagine aziendale, distolta dai suoi necessari moduli di solidarietà fra compagni di lavoro e di dedizione esclusiva all’attività di lavoro, ed aveva perciò reputato legittimo il reces-so del datore di lavoro, indipendentemente dall’avvenuta assoluzione del lavoratore dal reato di usura; Cass. 5.8.2000, n. 10315). Tale principio è stato recentemente ribadito anche da Cass. 4.4.2012, n. 5371; Cass. 25.1.2008, n. 1661 e Cass. 8.1.2008, n. 132.

4.10 Carcerazione preventiva

La valutazione della sussistenza, o meno, di una giusta causa di licenziamento del lavora-tore sottoposto a carcerazione preventiva per aver commesso un reato deve essere compiuta distin-guendo, in linea generale, le fattispecie nelle quali la commissione del reato sia estra-nea allo svolgimento del rapporto di lavoro da quelle nelle quali il reato sia stato commesso ai danni del datore di lavoro.

Nel primo caso, la giurisprudenza è costantemente orientata ad escludere che la carcerazione preventiva costituisca valida giustifi cazione di recesso sia per giusta causa che per giustifi cato motivo soggettivo, in quanto la carcerazione preventiva costituisce un fatto oggettivo che determina una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione ai sensi dell’art. 1464 c.c., in relazio-ne alla quale la persistenza, o meno, nel datore di lavoro dell’interesse a ricevere le ulteriori pre-stazioni del dipendente detenuto deve essere valutata con esclusivo riferimento alla previsione di cui all’art. 3, seconda parte, della L. 15.7.1966, n. 604, vale a dire a ragioni inerenti all’attività pro-duttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, avuto riguardo alla capa-cità di fronteggiare l’assenza e, dunque, del suo interesse alla continuazione del rapporto.

A tale proposito è opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 102-bis, att. c.p.p, qualora il prestatore di lavoro venga licenziato in quanto sottoposto a custodia cautelare per aver com-messo un reato estraneo alla prestazione lavorativa, in caso di successiva sentenza di assolu-zione, proscioglimento, non luogo a procedere o di provvedimento di archiviazione a favore dello stesso, avrà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ma non alle retribuzioni per il periodo intercorso tra il licenziamento e la reintegrazione.

Tuttavia, recentemente, la giurisprudenza ha evidenziato che, in caso di sentenza di asso-luzione, il giudice chiamato a decidere sull’impugnazione del licenziamento per fatti che furo-no oggetti dell’imputazione penale non è obbligato a tener conto dell’accertamento nel giudi-

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Licenziamenti individuali e collettivi

cato di assoluzione del lavoratore. Egli ha, infatti, il potere di ricostruire autonomamente e con pienezza di cognizione i fatti materiali e di pervenire a valutazioni degli stessi del tutto svinco-late dall’esito del procedimento penale (Cass. 25.1.2008, n. 1661).

4.11 Requisito della tempestività

Logica conseguenza della defi nizione normativa di giusta causa è che il recesso del datore di lavoro dal rapporto di lavoro deve avvenire con immediatezza: tale elemento, pertanto, rile-va quale elemento costitutivo del recesso in tronco e ne condiziona la validità e l’effi cacia.

È necessario, tuttavia, precisare che il principio in esame deve essere inteso in senso rela-tivo potendo risultare compatibile con un intervallo di tempo (più o meno lungo) reso necessa-rio dall’accertamento dei fatti da contestare e dalla valutazione degli stessi.

Vero è che quanto maggiore sarà il tempo intercorrente tra il fatto e l’addebito, tanto più rigorosa dovrà essere la prova, incombente sul datore di lavoro, tesa a vincere la presunzione di illiceità della contestazione non tempestiva. In particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti stessi (Cass. 25.6. 2009, n. 14952).

4.12 Problema della pendenza di procedimento penale

Il principio della tempestività nel recesso per giusta causa ha posto non pochi e delicati problemi con riferimento alla valutazione di questo elemento costitutivo dell’istituto in esame nell’ipotesi di pendenza di un processo penale a carico del lavoratore, in relazione ai medesimi fatti posti alla base del recesso.

Cass. 1.2.1995, n. 1170; Cass. 4.2.1992, n. 1165; Cass. 7.12.1985, n. 6167

è legittimo il comportamento del datore di lavoro che si riservi di valu-tare le risultanze del procedimento penale promosso nei confronti del dipendente ai fi ni del recesso per giusta causa, ciò tanto più laddove i comportamenti ascritti siano estranei alla prestazione lavorativa.

Cass. 1°.8.1984, n. 4578 è incompatibile la ritardata intimazione da parte del datore di lavoro del recesso per giusta causa con l’attesa dell’esito del giudizio penale, anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si sia costituito parte civile nel processo penale, attesa la diversità, sul piano del contenuto e degli effetti, tra la vicenda penale e quella del rapporto di lavoro

Cass. 26.3.2010, n. 7410 ai fi ni della valutazione circa la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare «non può assumere autonomo ed autosuffi ciente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimen-to penale, considerata l’autonomia tra i due procedimenti, l’inapplica-bilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza… la circostanza che l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l’assenza di analogo disvalore in sede disciplinare» (Cass. 26.3.2010, n. 7410).

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Una corretta soluzione del problema potrà essere data solo di volta in volta, valutata la fattispecie concreta in tutte le sue variegate implicazioni, non ultime le specifi che previsioni del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

4.13 Adozione della sospensione cautelare e suoi effetti

Il principio della tempestività nel recesso per giusta causa deve essere valutato anche te-nendo conto della eventuale adozione, da parte del datore di lavoro, del provvedimento di so-spensione cautelare nei confronti del dipendente: provvedimento, questo, che permette al da-tore di lavoro di esonerare dalla prestazione lavorativa il dipendente coinvolto in relazione alla ipotizzata sussistenza di una giusta causa di recesso, pur dovendo ancora acquisire tutti gli elementi di valutazione utili per decidere l’adozione, o meno, del provvedimento espulsivo.

Si ritiene, in linea generale, che l’adozione della sospensione cautelare, anche se non pre-vista da specifi ca disciplina legale o contrattuale, costituisca legittima espressione del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro per assicurare lo svolgimento ordinato ed effi cien-te dell’attività aziendale, e non soggiaccia all’applicazione dell’art. 7 S.L.

È stata sottolineata, inoltre, l’autonomia della sospensione cautelare rispetto al licenzia-mento per giusta causa, dovuta alla diversa natura e disciplina degli istituti in esame: autono-mia che permane anche tenendo conto del collegamento funzionale fra i due istituti, atteso che il primo viene di norma adottato in via meramente cautelare in attesa del secondo.

In relazione, poi, agli effetti della sospensione cautelare, in linea di principio l’adozione di questo provvedimento non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione.

4.14 Ammissibilità della conversione giudiziale del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustifi cato motivo soggettivo

La giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento (oggetto di specifica trattazione nel capitolo seguente) sono qualificazioni giuridiche di comportamenti egual-mente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immedia-to e l’altro con preavviso, che si differenziano per la diversa gravità dell’inadempimento del lavoratore.

Pertanto, nell’ipotesi di impugnazione di licenziamento intimato per giusta causa, qualora la condotta del lavoratore non integri una giusta causa, il provvedimento espulsivo può ben essere convertito in licenziamento per giustifi cato motivo soggettivo.

Tale conversione può avvenire su istanza di parte o essere disposta d’uffi cio dal giudice, comportando in concreto il riconoscimento a favore del prestatore di lavoro dell’indennità so-stitutiva del preavviso.

Infatti, nel caso di conversione il giudice del merito è tenuto a condannare il datore di lavo-ro al pagamento della suddetta indennità, dovendosi ritenere che tale richiesta sia implicita-mente contenuta nella domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore contestual-mente all’impugnazione del licenziamento in tronco.

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Capitolo 5

IL GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO DI LICENZIAMENTO

5.1 Nozione

La nozione di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento è fornita dall’art. 3, L. 15.7.1966, n. 604, ai sensi del quale esso consiste in un notevole inadempimento degli ob-blighi contrattuali del prestatore di lavoro

5.2 Distinzione tra giusta causa e giustifi cato motivo soggettivo

Secondo la prevalente dottrina la differenza tra giusta causa e giustifi cato motivo sogget-tivo di licenziamento non è qualitativa ma solo quantitativa, in relazione all’intensità e gravità del fatto commesso dal prestatore di lavoro. In altre parole, nel primo caso la maggiore gravi-tà della mancanza commessa dal lavoratore giustifi ca il recesso in tronco dal rapporto di lavo-ro; nel secondo caso, la minore gravità dell’inadempimento obbliga il datore di lavoro a rispet-tare il periodo di preavviso.

La giusta causa e il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento sono dunque due forme di inadempimento differenziate solo sul piano quantitativo, costituendo due species di un unico genus, essendo entrambe integrate dalla colpevole violazione da parte del lavoratore degli obblighi di diligenza, richiesti dalla natura delle prestazioni assegnategli, o di obbedienza alle disposizioni impartitegli dall’imprenditore e dai suoi ausiliari, o di fedeltà.

5.3 Tipologie di recesso nella contrattazione collettiva

Spesso i contratti collettivi tipizzano le ipotesi di giusta causa di licenziamento, più rara-mente ciò accade con riferimento alle fattispecie di giustifi cato motivo soggettivo di licenzia-mento. In ogni caso, il fatto che la disciplina collettiva preveda un comportamento come giusta causa di licenziamento non esime il giudice, investito della impugnativa della legittimità di tale recesso, dal dovere di valutare la gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circo-stanze del caso concreto, tra le quali assume rilievo non trascurabile l’elemento intenzionale che sorregge la condotta del lavoratore; e, d’altra parte, il giudice può considerare come giu-sta causa ex art. 2119 c.c., ovvero come giustifi cato motivo soggettivo ex art. 3, L. 604/1966, anche un fatto diverso da quelli espressamente contemplati nella tipizzazione contrattuale, conservando il disposto del contratto semplicemente una portata indicativa (Cass. 26.5.2000, n. 6900).

Al riguardo, peraltro, si sottolinea che in virtù della L. 28.6.2012, n. 92, la tipizzazione con-trattuale è assurta a criterio legale di valenza dirimente ai fi ni della valutazione della legit-timità del licenziamento per motivi soggettivi: il co. 4 dell’art. 18 S.L., come novellato dal

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36 Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

co. 42 dell’art. 1, L. 28.6.2012, n. 92, prevede, infatti, che laddove il giudice «accerta che non ricorrono gli estremi del giustifi cato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto posto a base del recesso ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti col-lettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento» e condanna il datore di lavoro secondo il regime sanzionatorio previsto in ipotesi di licenziamento “disciplinare” il-legittimo (sul punto, si rinvia al cap. 11).

5.4 Caratteristiche del giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento

Anche nell’ipotesi di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento il giudice di merito deve valutare se il comportamento del lavoratore sia idoneo a far venire meno l’elemento fi duciario, considerando gli aspetti concreti dei fatti addebitati al lavoratore.

La valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posi-zione delle parti, al grado di affi damento richiesto dalle specifi che mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verifi carsi, ai mo-tivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto cor-relato alla specifi ca connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente (Cass. 27.1.2004, n. 1475).

5.4 La fattispecie dello scarso rendimento

Una delle fattispecie più comuni di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento è rap-presentata dallo scarso rendimento del lavoratore, che non raggiunga in un prefi ssato pe-riodo di tempo i minimi di produzione pattiziamente stabiliti (come accade ad esempio per i produttori di contratti assicurativi o di vendita che operano al di fuori dell’azienda) ovvero ottenuti dalla media dei dipendenti che disimpegnano le medesime mansioni (situazione ti-pica degli addetti alle lavorazioni in serie, nelle quali è possibile determinare con suffi ciente precisione i risultati conseguibili con un impegno medio). Nella prima ipotesi il risultato della prestazione costituisce un elemento essenziale del contratto e può avere un carattere tipicamente aleatorio; nella seconda, l’oggetto dell’obbligazione di lavoro è una mera pre-stazione di fare, non un determinato risultato, ma sono stabiliti dei parametri volti a verifi -care che la prestazione sia resa con la diligenza e la professionalità media richiesta dalle mansioni affi date.

Naturalmente, lo scarso rendimento è confi gurabile anche nei rapporti di lavoro che non presentino le evidenziate caratteristiche allorché l’esecuzione della prestazione sia carente ed irregolare per effetto di un comportamento lavorativo negligente ed impreciso.

A tale proposito, sebbene il rendimento del lavoratore subordinato costituisca un valore estremamente diffi cile da ricostruire, atteso che il facere tipico soddisfa un’obbligazione di mezzi (e non di risultato come nel contratto d’opera), la giurisprudenza ha evidenziato come l’irrilevanza del risultato della prestazione non escluda la necessità che la stessa sia utile per il datore di lavoro, ovvero idonea a soddisfarne l’interesse ad ottenerla.

Lo scarso rendimento è qualifi cabile come adempimento parziale del lavoratore, e potrà

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Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

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riscontrarsi quando al facere del lavoratore non si accompagni la diligenza esigibile in virtù della particolare natura del rapporto, determinando l’assenza di utilità della prestazione.

La Suprema Corte ha elaborato una serie di criteri volti a determinare l’idoneità del sotto-rendimento a costituire giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento, cui attenersi in caso di contestazione della legittimità del recesso operato dal datore di lavoro:

valutazione dell’elemento soggettivo del comportamento del lavoratore (doloso o colposo);

– accertamento del nesso di causalità immediata tra la negligenza e l’adempimento scadente del dipendente: se ne esclude la responsabilità, infatti, solo nell’ipotesi in cui lo scarso rendimento non sia imputabile allo stesso;

– verifi ca se il risultato disatteso dal dipendente rientri nelle possibilità medie dei suoi colleghi aventi la medesima qualifi ca ed addetti alle stesse mansioni, utilizzando come parametri per la determinazione del rendimento utile la quantità del lavoro svolto, la qualità dello stesso ed il tempo impiegato a tal fi ne;

– accertamento che l’insuffi ciente rendimento sia «notevole» ex art. 3, L. 604/1966, e cioè che in concreto, tenuto conto del tipo di rapporto di lavoro e degli obblighi assunti dal lavoratore, il sottorendimento abbia rilevanza tale da frustrare fondatamente l’aspettativa del datore di lavoro che il dipendente renda nel futuro la prestazione dovuta (e, quindi, faccia apparire inutile l’irrogazione di sanzioni conservative e non lasci altra alternativa al datore di lavoro all’infuori del licenziamento). In relazione a tale caratteristica dell’inadempimento dell’obbligazione con-trattuale, il CCNL Metalmeccanici Industria ha previsto la possibilità di ravvisare il “notevole” inadempimento nell’ipotesi di recidiva di comportamenti, sanzionati da minori provvedimenti conservativi, di per sé non idonei a costituire tale grave mancanza ma che complessivamente considerati si compongono in un unico comportamento confi gurabile come “illecito grave”, a cui è proporzionato e legittimo reagire con il recesso dal rapporto di lavoro, sorretto da giustifi cato motivo soggettivo;

– accertamento dell’indebolimento della fi ducia che il datore di lavoro nutriva nei confronti del dipendente;

– accertamento che lo scarso rendimento non sia dovuto a fattori socio-ambientali o all’organiz-zazione dell’impresa;

– valutazione del comportamento complessivo del lavoratore e non solo apprezzamento di singoli episodi di rendimento inferiore.

Appare opportuno ricordare come l’onere della prova della sussistenza del giustifi cato motivo di licenziamento spetti al datore di lavoro, ex art. 5, L. 604/1966. Viceversa, il lavorato-re dovrà provare che l’inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile ovve-ro che l’esatto adempimento è mancato nonostante il lavoratore abbia seguito le regole dell’or-dinaria diligenza ed abbia fatto tutto il possibile per adempiere l’obbligazione dovuta.

5.5 Clausole di “rendimento minimo”

L’onere della prova posto in capo al datore di lavoro non viene meno nemmeno in presenza della clausole c.d. di rendimento minimo, con cui il dipendente si obbliga al raggiungimento di un determinato livello minimo di produzione. Tali clausole vengono utilizzate nei confronti di particolari tipologie di lavoratori che operano fuori dei locali dell’impresa e che sono dotati di autonomia operativa, come i produttori delle compagnie di assicurazione. La giurisprudenza ritiene valide tali clausole, ma non consente che le medesime trasformino l’obbligazione del prestatore di lavoro subordinato da obbligazione di mezzi in quella di risultato, con la conse-

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Licenziamenti individuali e collettivi

guenza che il mancato raggiungimento del risultato prefi ssato costituisce il mero indice dell’i-nesatta esecuzione e che per procedere al licenziamento del dipendente è necessario l’accer-tamento della sussistenza di altri elementi, anche in presenza di difformi previsioni del contratto individuale o collettivo.

In particolare il giudice, anche in presenza delle clausole c.d. di rendimento minimo, deve verifi care se il livello pattuito fosse concretamente raggiungibile dalla media dei lavoratori addetti a quella determinata e specifi ca attività ed operanti nella stessa zona e se la carenza del rendimento rispetto al minimo pattuito fosse tale da costituire un inadempimento notevole per negligenza del lavoratore e non per diffi coltà ambientali.

La giurisprudenza, pertanto, ritiene nulle le clausole c.d. di rendimento minimo che preve-dono la risoluzione ipso iure del rapporto di lavoro in ipotesi di mancato raggiungimento del risultato prefi ssato per contrasto con norme imperative (art. 2119 c.c. ed art. 3, L. 604/1966), essendo imprescindibile la prova della negligenza o colpa del prestatore di lavoro.

5.6 Assenze ingiustifi cate

Riconducibili alla violazione della regola di diligenza, le assenze ingiustifi cate del presta-tore di lavoro costituiscono una forma di inadempimento concernente l’obbligazione fonda-mentale posta a carico del dipendente, e cioè quella di prestare l’attività lavorativa.

Di solito tale materia è regolata dalla contrattazione collettiva che fi ssa i limiti di tolleran-za concernenti l’assenza ingiustifi cata, limiti che, una volta superati, autorizzano il datore di lavoro ad irrogare il licenziamento, il quale potrà essere, a seconda dei casi, per giusta causa o per giustifi cato motivo soggettivo.

La giurisprudenza è costante nel ritenere legittima la regolamentazione della contrattazio-ne collettiva, anche qualora fi ssi limiti di tolleranza ristretti. Inoltre, il fatto che un contratto collettivo non preveda la durata minima dell’assenza ingiustifi cata, oltre la quale il datore di lavoro ha facoltà a recedere dal rapporto, non preclude al giudice di merito di valutare la gra-vità dell’inadempienza del lavoratore (Cass. 14.5.2002, n. 6974).

Per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della prova, spetta al datore di lavoro prova-re il fatto oggettivo dell’assenza e al lavoratore dimostrare che l’assenza è giustifi cata perché imputabile a fatti cui la legge riconosce rilievi impeditivi della prestazione lavorativa.

Altro profi lo sul quale la Suprema Corte è intervenuta è quello della comunicazione, da parte del prestatore di lavoro, del proprio recapito al fi ne di consentire al datore di lavoro l’e-ventuale controllo sulla veridicità delle ragioni poste a fondamento dell’assenza: l’art. 1334 c.c. sulla effi cacia degli atti unilaterali è applicabile a tutte le dichiarazioni recettizie dirette ad una determinata persona e quindi anche alla comunicazione del lavoratore dipendente assen-te per malattia diretta a rendere noto al datore di lavoro il cambiamento del suo recapito, al fi ne di rendere possibili i controlli sulla giustifi catezza dell’assenza.

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Capitolo 6

IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

6.1 Nozione

È il licenziamento fondato su ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa che, a mente dell’art. 7, L. 18.12.1966, n. 604, come modifi cato dall’art. 1, co. 40, L. 28.6.2012, n. 92, deve ora essere preceduto - per le aziende che occupino alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori - dalla procedura preventiva avanti la Direzione Territoriale del Lavoro meglio descritta al Capitolo 1.

Tale tipo di recesso, previsto all’art. 3, seconda parte, della L. 18.12.1966, n. 604, che com-porta l’obbligo del datore di lavoro al preavviso, è giustifi cato da ragioni che non si riferiscono ad inadempimenti del prestatore di lavoro ma a specifi che esigenze aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro, oppure a quei comportamenti o situazioni collegate al prestatore di lavoro ma non riconducibili alla sua sfera volitiva.

Secondo una distinzione operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la prima tipologia è riconducibile alla fattispecie dei licenziamenti per ragioni inerenti all’attività produttiva, men-tre la seconda integra la fattispecie dei licenziamenti per ragioni inerenti al regolare funziona-mento dell’organizzazione del lavoro.

A tale proposito la Suprema Corte ha stabilito che rientrano nell’ambito del giustifi cato motivo oggettivo sia i licenziamenti intimati in relazione all’insorgenza di specifi che esigenze aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro, sia i licenziamenti che traggono origine da comportamenti o situazioni facenti capo al prestatore di lavoro, purché non costitu-iscano una forma di inadempimento (Cass. 11.8.1998, n. 7904).

6.2 Licenziamenti per ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro

6.2.1 Soppressione del posto di lavoro

Le esigenze inerenti all’attività produttiva possono richiedere la soppressione di un deter-minato posto di lavoro in quanto divenuto superfl uo a seguito di nuove scelte produttive o di una nuova organizzazione del lavoro operata dall’imprenditore.

Tali caratteristiche distinguevano originariamente il licenziamento per soppressione del po-sto ai sensi dell’art. 3 legge 604/1966 dalla fattispecie del licenziamento collettivo caratterizza-to, invece, da un generico ridimensionamento dell’attività produttiva. Tuttavia, a seguito dell’en-trata in vigore della disciplina in materia di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991 tale distinzione è venuta meno, in quanto non sussiste più tra i due istituti una differenza ontologica e qualitativa. Entrambi i licenziamenti sono caratterizzati da motivi non inerenti alla persona del lavoratore ed ai fi ni della confi gurabilità dell’uno o dell’altro tipo di licenziamento occorre verifi -

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Licenziamenti individuali e collettivi

care la sussistenza dei requisiti numerico-temporali e dimensionali sanciti dalla citata L. 223/1991.

Da ciò consegue che rientrano nell’ambito della disciplina del licenziamento per giustifi ca-to motivo oggettivo anche i licenziamenti plurimi (cioè non collettivi ai sensi di legge) per ri-assetto organizzativo o dovuti alla decisione dell’imprenditore di affi dare in esterno un seg-mento o una fase del proprio ciclo produttivo nonché i licenziamenti legati ad una semplifi cazione del lavoro attraverso l’impiego di macchine industriali od impianti robotizzati.

6.2.2 Insindacabilità delle scelte imprenditoriali

Le ragioni che inducono alla soppressione possono essere di carattere economico (cioè volte alla riduzione dei costi o all’incremento dei profi tti) oppure di carattere tecnico-produtti-vo (cioè fi nalizzate ad aumentare l’effi cienza del lavoro attraverso, ad esempio, l’introduzione di innovazioni produttive).

Secondo la giurisprudenza le scelte aziendali devono ritenersi insindacabili nel merito in virtù dell’art. 41 Cost. che garantisce la libertà dell’iniziativa imprenditoriale, dovendo il con-trollo giurisdizionale limitarsi a verifi care l’effettività dell’esigenza aziendale addotta dal dato-re di lavoro (Cass. 16.2.2012, n. 2250; Cass. 24.5.2011, n. 11356; Cass. 18.3.2010, n. 6559; Cass. 7.4.2010, n. 8237; Cass. 13.7.2009, n. 16323).

In tale solco giurisprudenziale si è inserito il Legislatore, stabilendo all’art. 30, co. 1, L. 4.11.2010, n. 183, che «in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, co. 1, del decreto legislativo 30.3.2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di … esercizio dei poteri datoriali … e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente».

A tale riguardo, la recente L. 28.6.2012, n. 92, ha espressamente previsto che la violazione da parte dell’Autorità giudiziaria dei limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro costituisce motivo di impugnazio-ne per violazione di norme di diritto.

Benché il principio della insindacabilità delle scelte imprenditoriali appaia ormai consoli-dato in giurisprudenza e ribadito dal legislatore con le recenti norme sopra menzionate, è controverso se la soppressione del posto di lavoro tesa ad una mera riduzione dei costi possa legittimare un licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo:

le ragioni inerenti all’attività produttiva possono essere le più varie e non possono considerarsi legittime solo quelle volte a fronteggiare situazio-ni sfavorevoli

Cass. 22.2.2011, n. 4276

perché possa sussistere un giustifi cato motivo oggettivo di licenzia-mento causato da un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fi ne di una più economica gestione dell’impresa, detta decisione deve esse-re volta a fronteggiare situazioni sfavorevoli strutturali e non tempo-ranee e non deve essere quindi pretestuosa o strumentale ad un mero aumento del profi tto

Cass. 24.2.2012; n. 2874; Cass. 2.2.2012, n. 1461; Cass. 20.9.2010, n. 19842

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Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo

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6.2.3 Mansioni precedentemente attribuite al lavoratore e soppressione del posto

Ai fi ni della sussistenza del giustifi cato motivo oggettivo, nel caso di licenziamento causato dalla soppressione del posto di lavoro cui è addetto il singolo lavoratore non è necessario che ven-gano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore medesimo, ben potendo tali mansioni essere diversamente ripartite (Cass. 2.10.2006, n. 21282; Cass. 22.8.2007, n. 17887).

6.2.4 Cessazione dell’attività produttiva

Rientra nell’ipotesi del giustifi cato motivo oggettivo il licenziamento individuale conse-guente alla cessazione dell’attività produttiva, ipotesi peraltro espressamente prevista dall’art. 24, c. 2, L. 223/1991 per il licenziamento collettivo.

La scelta dell’imprenditore di cessare l’attività produttiva non è censurabile e l’imprendito-re non è tenuto a giustifi care la decisione di non permanere ulteriormente nel mondo della produzione e dello scambio di beni e servizi: ne consegue che la cessazione dell’attività non deve necessariamente essere collegata ad una crisi aziendale.

Coerentemente con l’impostazione sopra riportata, la giurisprudenza di legittimità ha af-fermato altresì che costituisce giustifi cato motivo oggettivo la decisione del datore di lavoro di cessare l’attività per il timore di dover affrontare eccessivi impegni economici in conseguenza delle rivendicazioni seppure legittime dei dipendenti.

Peraltro, il datore di lavoro deve dimostrare l’avvenuta cessazione dell’attività produttiva, la quale non è esclusa dal fatto che lo stabilimento sede dell’impresa non sia stato immediatamente dismes-so o alienato rimanendo nella disponibilità dell’imprenditore ma come entità non funzionante, né è esclusa dal fatto che uno o pochi dipendenti siano stati mantenuti in servizio al solo fi ne di compiere e completare le pratiche relative alla suddetta cessazione dell’attività (Cass. 16.7.1992, n. 8601).

6.2.5 Matrimonio e maternità in caso di cessazione dell’attività

La cessazione dell’attività lavorativa viene in rilievo in relazione ad alcune norme poste a tutela della donna lavoratrice. Infatti, ai sensi dell’art. 35, co. 5, del D.Lgs. 11.4.2006, n. 198, è nullo il licenziamento intimato per causa di matrimonio salvo il caso in cui il datore di lavoro dimostri che questo sia motivato dalla cessazione dell’attività dell’azienda alla quale la lavora-trice è addetta. Parimenti non è valido ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 26.3.2001, n. 151, il licen-ziamento intimato dall’inizio del periodo di gestazione e fi no al termine del periodo di interdi-zione dal lavoro nonché fi no ad un anno di età del bambino, a meno che non ricorrano alcune ipotesi, fra le quali è appunto prevista la cessazione dell’attività.

6.2.6 Onere probatorio

In tema di licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve assolvere all’onere di provare:

a. la sussistenza in concreto delle ragioni di carattere produttivo-organizzative addotte; b. l’incidenza causale di dette ragioni sulla posizione rivestita in azienda dal lavoratore licenziato; c. l’impossibilità di utilizzare il prestatore di lavoro licenziato in altre mansioni compatibili (c.d.

obbligo di repechâge).

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Licenziamenti individuali e collettivi

Tuttavia, come detto, il controllo giudiziale deve fermarsi alla verifi ca del dato oggettivo e non può estendersi ad un sindacato sull’opportunità e congruità delle scelte imprenditoriali, rispetto al quale l’imprenditore gode della tutela di rango costituzionale prevista dall’art. 41 Cost. che gli garantisce libertà di iniziativa economica.

6.2.7 Sussistenza in concreto ed attuale

È stato osservato dalla giurisprudenza che le ragioni poste alla base del licenziamento devono essere ricondotte ad elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti e non future ed eventuali. Inoltre, l’onere probatorio verte non solo sull’esistenza delle ragioni della soppressione ma anche sull’effettiva soppressione del posto di lavoro. Tale orientamento giurisprudenziale appare stabile: ogni qual volta, infatti, il lavoratore licenziato venga sostitu-ito immediatamente o dopo qualche mese da altro dipendente neo-assunto, anche qualora il costo di quest’ultimo sia inferiore a quello del lavoratore licenziato, scatta una presunzione di illegittimità del licenziamento. A conferma di tale orientamento, si segnala che di recente la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento, intimato ad un dipendente per ragioni economiche, preceduto dalla stipula di un contratto di collaborazione a progetto con altro sog-getto, in vista della sostituzione del dipendente licenziato (Cass. 19.1.2012, n. 755); tuttavia, non mancano pronunce di merito che, facendo una moderna applicazione dell’istituto del giu-stifi cato motivo oggettivo di licenziamento, hanno ritenuto che in ipotesi di riassetto organiz-zativo per una più economica gestione dell’impresa è legittimo il licenziamento di un dipen-dente per sostituire lo stesso con altro lavoratore dotato di più specifi ca esperienza lavorativa e maggiore autonomia operativa, al fi ne di consentire all’azienda – operante nel caso di specie nel settore turistico – una migliore penetrazione nel mercato e, dunque, una più economica gestione dell’impresa (Corte d’Appello di Bologna, 3.12.2010).

Ai fi ni della prova della effettiva soppressione del posto di lavoro non è necessario che il datore di lavoro dimostri che siano state soppresse tutte le mansioni attribuite al lavoratore licenziato. Il datore di lavoro è infatti libero di ridistribuire ed attribuire diversamente nell’am-bito del proprio organico aziendale le mansioni in precedenza espletate dal lavoratore licen-ziato: tale scelta, a parere della giurisprudenza di legittimità, non è sindacabile dal giudice nei suoi profi li di congruità ed opportunità in quanto è espressione della libertà di iniziativa eco-nomica tutelata dall’art. 41 Cost. (Cass. 17.7.2002, n. 10356).

6.2.8 Obbligo di repechâge

Per quanto attiene alla prova circa l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato per giustifi cato motivo oggettivo in altra attività dell’impresa, c.d. obbligo di repechâge, la giuri-sprudenza sembra ormai costante circa il contenuto di detto obbligo.

In virtù del principio che il licenziamento deve rappresentare l’extrema ratio, consegue per l’imprenditore l’obbligo primario di ricercare ogni possibilità di riutilizzazione dei dipendenti i cui posti di lavoro siano venuti meno, così che il datore di lavoro deve dare prova dell’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore licenziato a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza.

In altre parole il datore di lavoro deve fornire la prova che, nell’ambito della propria orga-nizzazione aziendale, insindacabilmente determinata dal medesimo, non esiste alcuna possi-bilità di reimpiego per il dipendente licenziato. L’onere probatorio deve essere assolto nei limi-ti della ragionevolezza nonché nell’ambito delle contrapposte deduzioni delle parti, e deve essere contenuto a circostanze di fatto e di luogo concrete ed effettive proprie della singola vicenda esaminata.

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Tale onere, inoltre, può essere anche assolto mediante il ricorso a risultanze probatorie di natura presuntiva e indiziaria.

Sempre sul medesimo argomento, la Corte di Cassazione afferma che tale onere, concer-nendo un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, come la circostanza che i posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso, stabilmente occupati, o che dopo il licenziamento – e per un congruo periodo – non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifi ca e per l’espletamento delle stesse mansioni (Cass. 13.7.2009, n. 16323; più di recente, Cass. 30.11.2010, n. 23926).

Peraltro, sebbene spetti al datore di lavoro l’onere probatorio circa l’obbligo di repechâge, esiste comunque un preciso onere di deduzione ed allegazione del lavoratore che impugna il licenziamento circa la possibilità di una sua diversa utilizzazione nell’impresa con mansioni equivalenti, con la conseguenza che ove il lavoratore non prospetti nè indichi alcun elemento a tale riguardo nel ricorso introduttivo, non sorge neppure l’obbligo dell’imprenditore della prova dell’impossibilità di un diverso e conveniente utilizzo del dipendente licenziato (Cass. 4.12.2007, n. 25270; Cass. 2.4.2004, n. 6556; da ultimo, Cass. 8.2.2011, n. 3040).

Per quanto concerne l’individuazione delle mansioni analoghe al fi ne dell’assolvimento della prova in questione, occorre fare riferimento all’art. 2103 c.c. Il datore di lavoro dovrà dare prova dell’incollocabilità del lavoratore con riferimento alle mansioni da quest’ultimo espleta-te ed alle competenze acquisite in azienda o in altre affi ni senza essere tenuto ad individuare sue possibili utilizzazioni nell’ambito di competenze del tutto diverse, per il solo fatto, ad esempio, dell’avvenuto conseguimento di un titolo di studio genericamente riferibile a tali di-verse competenze (Cass. 14.9.1995, n. 9715).

Sotto altro profi lo la giurisprudenza maggioritaria ritiene che non sussiste alcun obbligo del datore di lavoro di verifi care, al fi ne di evitare il licenziamento, se vi siano possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, anche se non mancano recenti e alquanto discutibili pronunce di segno opposto che, in ipotesi di soppressione del posto di lavoro, si sono spinte sino ad afferma-re che il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori «rientranti nel suo bagaglio professionale», purchè tali mansioni siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cass. 1.7.2011, n. 14517).

In una sentenza la Suprema Corte ha affermato, riallacciandosi ad una precedente pronun-cia delle Sezioni unite (Cass., Sez. Un., 7.8.1998, n. 7755), che la dequalifi cazione del lavorato-re allo scopo di evitare il licenziamento può essere ammessa solo se sia l’effetto di un accordo tra le parti con il quale - da un lato - il datore di lavoro dia atto, almeno implicitamente, che non vi sono ostacoli all’inserimento del dipendente demansionato nell’assetto aziendale e - dall’altro - il lavoratore accetti il suddetto demansionamento.

Infatti il patto di demansionamento - che, ai soli fi ni di evitare un licenziamento, attribuisce al lavoratore mansioni inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successiva-mente acquisito – costituisce non già una deroga all’art. 2103 c.c., norma diretta alla regola-mentazione dello jus variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile, bensì un adegua-mento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso del lavoratore, che presuppone l’impossibilità di assegnare al lavoratore mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte e la manifestazione – sia pure in forma tacita – della disponibilità del lavoratore ad ac-cettarle (Cass. 25.11.2010, n. 23926; Cass. 5.8.2000, n. 10339).

La prova dell’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore ad altre mansioni deve essere assolta con riferimento all’epoca del licenziamento e prendendo in considerazione l’intero complesso aziendale e non il solo reparto ove era addetto il lavoratore licenziato, salvo il caso di rifi uto del lavoratore medesimo a trasferirsi altrove.

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Licenziamenti individuali e collettivi

Una recente pronuncia si è spinta addirittura oltre, affermando che in materia di obbligo di repechage è illegittimo il licenziamento del lavoratore qualora il datore di lavoro non riesca a dimostrare di non poter ricollocare il lavoratore in altri rami dell’azienda valutando anche le sedi all’estero dell’azienda (Cass. 15.7.2010, n. 16579).

Per le conseguenze derivanti dall’illegittimità del licenziamento per giustifi cato motivo og-gettivo si veda il Capitolo 11.

6.3 Licenziamenti per ragioni inerenti al regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro

Vengono ricondotti in questa categoria i licenziamenti dovuti alla non proseguibilità del rapporto per il venire meno della capacità o della possibilità del lavoratore di espletare rego-larmente la prestazione lavorativa per cause al medesimo non imputabili; si tratta di fattispe-cie valutate obiettivamente per i rifl essi che essi producono sull’organizzazione del lavoro, di entità tale da escludere un oggettivo interesse produttivo dell’impresa a mantenere in vita il rapporto di lavoro e ricevere le ulteriori possibili prestazioni.

6.3.1 Malattia del lavoratore

L’art. 2110 c.c. detta una disciplina speciale in materia di assenza dal lavoro per malattia. Il legislatore ha, infatti, stabilito che in occasione di eventi come la malattia, l’infortunio, la gravi-danza ed il puerperio, che impediscono la regolare effettuazione della prestazione lavorativa, il rapporto di lavoro è sospeso ed il datore di lavoro non può recedere dal rapporto, anche se non ha più interesse alla prestazione ed anche se ricorrono le condizioni previste dalla legge per in-timare un licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo, fi no a quando l’assenza dal lavoro non si protragga oltre il termine stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equi-tà. Tuttavia una volta decorso tale termine, c.d. periodo di comporto, il datore di lavoro è libero di recedere dal rapporto a prescindere dall’esistenza o dimostrazione delle condizioni poste dalla legge in materia di licenziamento, dovendo il giudice del merito limitarsi ad accertare se la ma-lattia, unica o discontinua, abbia superato o meno il termine prefi ssato.

I contratti collettivi stabiliscono di norma la durata del periodo di comporto, il quale si di-stingue tra: comporto secco, quando il periodo di conservazione del posto di lavoro si riferisce ad un’unica ed ininterrotta malattia, e comporto per sommatoria, quando il periodo di com-porto comprende una pluralità di episodi morbosi che si manifestino entro un determinato periodo di tempo. Talvolta, però, il contratto collettivo non contempla il periodo di comporto per sommatoria.

Secondo la giurisprudenza di legittimità in caso di malattie cd. ad intermittenza, vale a dire quando si verifi ca l’alternanza tra periodi di prestazione lavorativa e periodi di assenza per malattia, senza però che ciascun singolo episodio morboso superi il previsto periodo di com-porto secco, è compito del giudice determinare il comporto per sommatoria ricorrendo all’e-quità, come previsto dall’art. 2110, c. 2, c.c.

Le assenze dovute ad infortunio sul lavoro e malattia professionale sono oggetto della me-desima disciplina di cui all’art. 2110 c.c. anche per quanto attiene al potere demandato all’au-tonomia collettiva di determinare la durata del periodo di conservazione del posto di lavoro e di identifi care i criteri per il calcolo del comporto. Ne consegue che la contrattazione collettiva può disciplinare unitariamente o diversamente il periodo di comporto, a seconda che le assen-ze siano dovute a malattia professionale o ad infortunio sul lavoro oppure a malattia comune.

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Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo

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6.3.1.1 Modalità di computo del periodo di comporto

Per quanto attiene ai criteri di computo del periodo di comporto è stato precisato che per verificare il superamento dello stesso si applica la regola che un termine fissato a mesi deve essere computato secondo il calendario comune e non assumendo una durata convenzionale fissa di trenta giorni, salvo che non sussistano regole contrattuali di diverso contenuto.

Quando invece il contratto collettivo fa riferimento all’anno di calendario si deve intendere il periodo compreso tra il 1.1.e il 31 dicembre, mentre il riferimento all’anno solare deve in-tendersi ad un periodo di 365 giorni computati dal primo giorno della malattia.

La Corte di Cassazione ha, peraltro, affermato che nel caso di comporto per sommato-ria si computano i giorni festivi o comunque non lavorativi, come ad esempio i giorni di sciopero, che cadano durante la malattia certificata, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso, a meno che non venga fornita la prova contraria da parte del lavo-ratore, mentre non si computano i giorni non lavorativi che abbiano preceduto o seguito il periodo di assenza in quanto non ricompresi nei giorni di malattia indicati nella certifica-zione medica.

Salva diversa previsione del contratto colletivo, il datore di lavoro, secondo la giurispruden-za, non è tenuto a comunicare al lavoratore che sta per scadere il periodo di comporto e pari-menti non è tenuto a ricordare al medesimo che può fruire di un periodo di aspettativa al ter-mine del comporto.

6.3.1.2 Tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto

Un problema che è stato posto frequentemente all’esame della giurisprudenza attiene al tempo dell’esercizio del diritto di recesso e al rilievo dell’accettazione della ripresa dell’attività lavorativa da parte del datore di lavoro.

È principio consolidato che nel caso in cui il recesso per superamento del periodo di com-porto sia tempestivo, la prova della sussistenza del nesso di causalità sia in re ipsa. A tale proposito, la Cassazione ha precisato che non può negarsi al datore di lavoro un ragionevole spatium deliberandi perchè egli possa valutare convenientemente, nel suo complesso, la fat-tispecie, e ciò anche per accertare una possibile convenienza alla protrazione del rapporto nonostante le numerose assenze. Sul punto, peraltro, la Corte di Cassazione ha sostenuto che in ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto non opera il criterio del-la tempestività, mancando gli estremi dell’urgenza che si impongono nell’ipotesi di giusta cau-sa (Cass. 23.1.2008, n. 1438). Spetterà, dunque, al giudice del merito stabilire se il ritardo, per la sua durata e per la sua modalità, risulti o meno idoneo a concretizzare una rinunzia al dirit-to di licenziamento, circostanza che va valutata caso per caso con riferimento all’intero conte-sto delle circostanze signifi cative.

In tema di rapporti tra rinuncia ad avvalersi del comporto e accettazione della ripresa lavo-rativa si segnala una sentenza della Corte di Cassazione che ha chiarito che nel caso di avve-nuto superamento del periodo di comporto, l’accettazione da parte del datore di lavoro della ripresa dell’attività lavorativa del dipendente non signifi ca di per sè che il datore di lavoro ab-bia rinunciato al diritto di recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 2110 c.c. e, quindi, non resta precluso l’esercizio del diritto, ferma restando però la necessità che sia provata l’esistenza di un nesso di causalità tra l’intimazione del licenziamento ed il superamento del periodo di comporto. La prova della sussistenza di detto nesso di causalità è in re ipsa nel caso di licen-ziamento intimato non appena superato il comporto, mentre deve essere fornita dal datore di lavoro nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo di tempo dal supera-mento di comporto (Cass. 7.9.2001, n. 11515).

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Licenziamenti individuali e collettivi

6.3.1.3 Motivazione del recesso per superamento del periodo di comporto

Una questione abbastanza dibattuta in giurisprudenza attiene alla necessaria indicazione da parte del datore di lavoro dei giorni di assenza in caso di licenziamento intimato per supe-ramento del periodo di comporto. La Cassazione da ultimo ha affermato che anche in questo tipo di licenziamento, in base alle regole dettate dall’art. 2 della legge 604/1966, nel testo an-teriore alla riforma attuata con la L. 28.6.2012, n. 92, sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavorato-re - il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter opporre propri specifi ci rilievi - ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specifi care tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento. Di conseguenza, nel caso di non ottemperan-za del datore di lavoro con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve conside-rarsi illegittimo. Con la recente L. 28.6.2012, n. 92 che, modifi cando l’art. 2, co. 2, L. 604/1966, all’art. 1, co. 37, ha espressamente previsto che la lettera di licenziamento debba contenere la specifi cazione dei motivi che lo hanno determinato, non pare vi possano essere ulteriori dubbi circa la necessaria indicazione dei giorni di assenza del lavoratore.

6.3.1.4 Assenze per malattia cagionata dalla nocività dell’ambiente di lavoro

Tuttavia, se il datore di lavoro è responsabile dell’inabilità lavorativa del proprio dipenden-te, in quanto ha omesso di adottare le misure atte a prevenire la malattia violando, quindi, l’obbligo di protezione sancito dal combinato disposto degli artt. 1176 e 2087 c.c., non potrà legittimamente risolvere il rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto. Infat-ti, il periodo di assenza per malattia imputabile al datore di lavoro non è utile ai fi ni del calcolo del periodo di comporto per malattia.

Ne consegue che quando la malattia o l’infortunio del lavoratore sono imputabili alla re-sponsabilità del datore di lavoro, il medesimo non potrà recedere per superamento del perio-do di comporto ma soltanto per sopravvenuta impossibilità della prestazione, con obbligo per il datore di lavoro di reperire altre mansioni più adatte allo stato di salute del dipendente.

6.3.1.5 Licenziamento durante la malattia

Il licenziamento con preavviso intimato durante la malattia rimane temporaneamente inef-fi cace nei confronti del lavoratore al quale spetta la retribuzione sino alla scadenza della cau-sa ostativa e quindi sino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa.

Si precisa, tuttavia, che tale principio non si applica al licenziamento intimato per supera-mento del periodo di comporto. Infatti, già prima della L. 28.6.2012, n. 92, sia la giurispruden-za di legittimità che quella di merito ritenevano che il licenziamento intimato durante la ma-lattia per superamento del periodo di comporto, anteriormente alla scadenza di questo, fosse nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c.c., che vieta il licenziamento stesso in costanza della malattia del lavoratore, e non già temporaneamente ineffi cace, con differimento dei relativi effetti al momento della scadenza suddetta come, invece, aveva origi-nariamente sostenuto la Corte stessa. Il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sen-si del citato art. 2110 c.c. una situazione autonomamente giustifi catrice del recesso, che deve perciò esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso per legittimare il datore di lavoro al compimento di quest’atto ove di esso costituisca il solo motivo. Con la L. 28.6.2012, n. 92, il Legislatore ha espressamente previsto che nel caso in cui sia accertato il difetto di giustifi cazione del licenziamento intimato «in violazione dell’art. 2110, secondo comma, del codice civile (il licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, ndr)» il Giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione ed al pa-

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gamento dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a do-dici mensilità, con ciò recuperando l’indirizzo giurisprudenziale sopra citato (cfr. più approfon-ditamente, Capitolo 11).

Discorso diverso merita la questione della malattia del dipendente insorta successivamen-te all’avvio della procedura di cui al nuovo art. 7, legge 604/1966, come modifi cato dall’art. 1, co. 40, L. 28.6.2012, n. 92: in tal caso, infatti, il licenziamento intimato all’esito di tale proce-dura produce effetto retroattivo sin dal giorno della comunicazione di avvio: l’effetto sospen-sivo dell’effi cacia del licenziamento è limitato alle sole ipotesi di maternità, paternità e infor-tunio occorso sul lavoro, con esclusione dell’evento della malattia.

Inoltre, il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura preventiva viene con-siderato come preavviso lavorato secondo quanto stabilito dall’art. 1, co. 41, L. 28.6.2012, n. 92.

6.3.1.6 Sopravvenuta inidoneità fi sica o psichica del lavoratore

Appartiene alla categoria del giustifi cato motivo oggettivo inerente al regolare funziona-mento dell’impresa la sopravvenuta inidoneità fi sica permanente del lavoratore a svolgere regolarmente le mansioni assegnategli.

Qualora vi sia una sopravvenuta impossibilità alla prestazione lavorativa che non abbia carattere temporaneo, come nella malattia, ma permanente o quanto meno la cui durata temporale sia in-determinata o indeterminabile, il datore di lavoro, alla stregua della gene-rale disciplina codicistica stabilita dagli artt. 1463 e 1464 c.c. sull’impossibilità della prestazio-ne, può recedere dal rapporto qualora tale inidoneità determini una mancanza di interesse dell’impresa alla prosecuzione del rapporto. Tale inidoneità a svolgere regolarmente la pre-stazione lavorativa permette, quindi, al datore di lavoro di risolvere il contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile a ricevere un adempimento parziale, interesse valutato in base ai criteri forniti dall’art. 3, seconda parte, L. 604/1966.

Valga ricordare che la disciplina sanzionatoria prevista dal nuovo art. 18, co. 4, come modi-fi cato dall’art. 1, co. 42, L. 28.6.2012, n. 92 - ovvero reintegrazione e risarcimento del danno nel massimo pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto - trova applicazione, oltre che alla già menzionata ipotesi di difetto di giustifi cazione del licenziamento intimato in viola-zione dell’art. 2110, secondo comma c.c., di cui al paragrafo che precede, anche a tutti i casi di sopravvenuta inidoneità fi sica o psichica del lavoratore, sia esso divenuto inabile a causa di infortunio o malattia (art. 4, comma 4, legge 68/1999), sia che si tratti di lavoratore avviato obbligatoriamente (art. 10, comma 3, legge 68/1999. Sul punto, si rinvia al Capitoli 11 e 13.

6.3.1.7 Differenze tra l’istituto della malattia e quello dell’inidoneità fi sica o psichica

Una questione più volte esaminata dalla giurisprudenza attiene al rapporto tra l’istituto della malattia e quello dell’inidoneità fi sica. La distinzione tra le due fattispecie è abbastanza netta: la malattia ha carattere temporaneo e comporta l’impossibilità totale della prestazione per tutta la sua durata, mentre l’inidoneità ha carattere permanente o, quanto meno, una du-rata indeterminata o indeterminabile e non comporta necessariamente l’impossibilità totale della prestazione, consentendo la risoluzione del rapporto indipendentemente dal supera-mento del periodo di comporto.

Sulla base di tale distinzione la Cassazione ha affermato che, anche prima del superamen-to del periodo di comporto, il datore di lavoro può recedere dal rapporto ove la malattia deter-mini l’inidoneità del lavoratore a prestare per il futuro la normale attività lavorativa in quanto la disciplina dettata dall’art. 2110 c.c. presuppone la diversa ipotesi dell’impedimento tempo-raneo, tale da consentire, una volta cessata la causa ostativa, la ripresa del lavoro. In una

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Licenziamenti individuali e collettivi

particolare ipotesi, la Cassazione ha altresì precisato che ove le reiterate assenze per malattia siano riconducibili ad un’unica affezione che trovi la sua causa nelle particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, con ciò dando luogo ad un’idoneità permanente del lavoratore stesso a svolgere regolarmente le mansioni assegnategli, il datore di lavoro che sia edotto di ciò deve risolvere il rapporto di lavoro (in ossequio al diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost.) senza necessità di attendere il superamento del periodo di comporto (Cass. 13.12.2000, n. 15688).

6.3.2 Impossibilità della prestazione lavorativa derivante da un provvedimento dell’autorità

L’impossibilità temporanea o parziale della prestazione potrebbe, altresì, derivare da prov-vedimenti dell’autorità pubblica che di fatto impediscano al lavoratore di offrire la propria pre-stazione lavorativa. Tale ipotesi di licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo, avvicinabile alle precedenti dal punto di vista della incolpevolezza del prestatore di lavoro, sono la carce-razione preventiva e la revoca di autorizzazioni amministrative. Tali circostanze, valutate obiettivamente, determinano secondo i princìpi generali in materia di obbligazioni contrattua-li una impossibilità sopravvenuta, temporanea e/o parziale, della prestazione lavorativa, in relazione alla quale la persistenza dell’interesse del datore di lavoro a ricevere ulteriori o fu-ture prestazioni va valutata alla stregua delle ragioni attinenti all’attività produttiva, all’or-ganizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa di cui all’art. 3, seconda parte, L. 604/1966.

6.3.3 Provvedimenti giudiziari restrittivi della libertà personale del lavoratore

Se può dirsi ovvio che nell’ipotesi di una condanna del lavoratore a pena detentiva quale l’ergastolo il datore di lavoro possa recedere dal rapporto per impossibilità totale della presta-zione, più problematica è invece l’ipotesi del licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo a seguito di un’impossibilità temporanea della prestazione, come nel caso della carcerazione preventiva. L’orientamento della giurisprudenza è ormai consolidato, nel senso di ritenere possibile il recesso del datore di lavoro ove manchi un apprezzabile interesse alle future pre-stazione lavorativa. La valutazione dell’imprenditore dovrà essere effettuata sulla base delle esigenze dell’impresa, attraverso un giudizio prognostico cioè con riguardo non solo al periodo intercorso dall’inizio della carcerazione alla data del licenziamento ma anche all’ulteriore du-rata della forzata assenza.

6.3.4 Diritto del lavoratore alla reintegrazione in caso di assoluzione

L’art. 102-bis, disp. att. c.p.p., prevede il diritto alla reintegrazione a favore del prestatore di lavoro che, sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero agli arresti domi-ciliari, sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell’applica-zione della misura, laddove venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di pro-scioglimento o di non luogo a procedere, o provvedimento di archiviazione. Si precisa che la norma si applica esclusivamente al caso in cui il fatto per cui la custodia cautelare è stata di-sposta sia totalmente estraneo al rapporto di lavoro. La Cassazione è unanime nel ritenere che detta norma non abbia inciso sulla disciplina della legittimità del licenziamento ma sol-tanto sulle sue conseguenze, tant’è che viene riconosciuto al lavoratore esclusivamente il di-ritto alla reintegrazione, mentre il medesimo non potrà pretendere il risarcimento del danno ex art. 18 S.L.

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Licenziamenti individuali e collettivi

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6.3.5 Ritiro del porto d’armi o mancato rinnovo del decreto di nomina

Anche tali ipotesi rientrano nella categoria del licenziamento per giustifi cato motivo ogget-tivo. La Suprema Corte ha ritenuto che la revoca della nomina a guardia giurata e/o il ritiro del porto d’armi da parte dell’autorità pubblica legittimino il datore di lavoro a recedere dal rap-porto per sopravvenuta impossibilità della prestazione. Tali provvedimenti della pubblica au-torità, infatti, privano il lavoratore del titolo che lo abilita a svolgere le mansioni proprie di guardia giurata e, pertanto, giustifi cano il recesso del datore di lavoro qualora quest’ultimo non abbia un apprezzabile interesse alla prosecuzione del rapporto, interesse valutato alla stregua delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

6.3.6 Ritiro del tesserino di accesso alle strutture aeroportuali

Con riferimento a questa particolare fattispecie è stato affermato che, nell’ambito dei rappor-ti di lavoro con le società di gestione degli impianti aeroportuali, il datore di lavoro può legittima-mente recedere dal rapporto nel caso di revoca del tesserino di accesso alle zone aeroportuali da parte della Guardia di fi nanza. Il dipendente di società di gestione aeroportuale privato del tesserino, infatti, non può svolgere le mansioni affi date in quanto non può più accedere alle strutture aeroportuali. Ne consegue la sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione che abilita il datore di lavoro a recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 1464 c.c. in mancanza di un suo interesse apprezzabile alle future prestazione valutate con riguardo alle ragioni inerenti l’attività produttiva e la sua organizzazione. In tale ipotesi il datore di lavoro dovrà dimostrare le ragioni tecnico-produttive che rendevano impossibile attendere la rimozione del temporaneo impedimento alle normali funzioni del lavoratore, sia delle analoghe ragioni ostative ad un im-piego del medesimo, con mansioni almeno equivalenti, in luoghi diversi; tali ragioni devono es-sere inoltre valutate dal giudice del merito tenendo conto delle oggettive esigenze dell’impresa, delle dimensioni della stessa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva ivi attuato, del perio-do di assenza, della ragionevolmente prevedibile, secondo un giudizio ex ante, protrazione della stessa e della natura delle mansioni espletate dal lavoratore.

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Capitolo 7

IL PREAVVISO

7.1 Fonte giuridica e funzione

L’art. 2118 c.c. prevede che ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato con l’obbligo di concedere alla controparte un termine di preavviso. In mancanza di ciò, la parte recedente deve corrispondere alla controparte un’indennità equivalen-te all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso stesso (cd. in-dennità sostitutiva del preavviso). Tale indennità ha natura risarcitoria e non retributiva, sebbe-ne sia commisurata all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore nel periodo suddetto. E ciò in quanto, per usare le parole della Suprema Corte, la stessa è una semplice forma di risarcimento di danni preventivamente liquidati dalla legge ed è dovuta o dal datore di lavoro o dal lavoratore inadempiente in quanto il recesso senza preavviso è illecito (Cass. 28.5.1992, n. 6406), mentre la retribuzione è un’attribuzione patrimoniale proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.). Ciò nonostante l’indennità sostitutiva del preavviso, rientrando nella base imponibile contributiva, è soggetta all’ordinario regime contri-butivo ed è computabile nel trattamento di fi ne rapporto. L’obbligo del preavviso sussiste in tutte le ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro, qualunque sia il regime di stabilità del rapporto stes-so (tutela reale; tutela obbligatoria; libera recedibilità) ed anche qualora si tratti di un licenzia-mento intimato dal curatore fallimentare per cessazione dell’attività lavorativa.

La funzione del preavviso viene individuata dalla dottrina nella necessità di evitare un ec-cessivo turbamento nella sfera economica dell’altro contraente, dandogli tempo adeguato per provvedere diversamente. A tale proposito la giurisprudenza ha sottolineato come l’obbligo del preavviso a carico del datore di lavoro recedente dal contratto di lavoro a tempo indeterminato sia previsto in funzione della necessità per il lavoratore di ricerca e reperimento di una nuova occupazione (Cass. 7.2.1997, n. 1150).

7.2 Effi cacia reale od obbligatoria del preavviso

Fino a pochi anni fa l’opinione dominante in dottrina e pressoché pacifi ca in giurisprudenza riteneva che il preavviso avesse effi cacia reale, ossia che il rapporto di lavoro (con le connesse obbligazioni) proseguisse a tutti gli effetti per l’intera durata del preavviso, salva l’ipotesi di accettazione della corresponsione dell’indennità sostitutiva. In particolare, secondo tale orien-tamento, il rapporto di lavoro continuava ad essere retto dalla medesima disciplina che lo re-golava prima del recesso, con conseguente piena applicabilità delle norme di legge e di con-tratto collettivo sopravvenute nel periodo di preavviso ed interruzione di quest’ultimo in caso di malattia sopravvenuta.

La portata dell’effi cacia reale del preavviso era comunque mitigata dal fatto che:- è stata ritenuta valida la clausola di un contratto collettivo che prevedeva la facoltà per il

datore di lavoro di procedere al recesso senza preavviso, ma pagando la relativa indennità;

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52 Capitolo 7 - Il preavviso

Licenziamenti individuali e collettivi

- essa è derogabile per accordo delle parti quando queste, prima della scadenza del periodo di preavviso, pattuiscano l’esonero immediato dagli obblighi relativi alle reciproche prestazioni. L’accertamento in ordine alla esistenza di tale accordo - che è desumibile anche da compor-tamenti taciti e concludenti, come quello dell’accettazione senza riserve da parte del lavora-tore della preventiva liquidazione e corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso

- forma oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motiva-zione immune da errori logici e giuridici. In tale ipotesi, la data di cessazione del rapporto va fatta coincidere con quella del licenziamento, e non con la scadenza del periodo di preavviso dovuto, e ciò a tutti gli effetti, ed anche nei confronti di soggetti diversi dal datore di lavoro, qua-li gli enti gestori di previdenza e assistenza (Cass. 8.5.2004, n. 8797). La derogabilità e la rinun-ciabilità dell’effetto reale del preavviso non comporta però che la stessa previsione dell’obbligo del preavviso possa essere derogata dall’autonomia individuale o collettiva.

L’orientamento circa l’effi cacia reale del preavviso è stato radicalmente ribaltato negli ulti-mi anni. Recentemente, infatti, la giurisprudenza prevalente attribuisce effi cacia obbligatoria al preavviso di licenziamento; alla stregua di tale nuova interpretazione, nell’ipotesi in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve immedia-tamente con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso (da ultimo, Cass. 3.1.2011, n. 36).

7.3 Sospensione per sopravvenuta malattia

Con riguardo all’ipotesi di malattia sopravvenuta, la giurisprudenza ha avuto modo di pre-cisare che il preavviso lavorato è - in base alle regole generali (art. 2110 c.c.) - soggetto a so-spensione per sopravvenuta malattia del prestatore di lavoro, nei limiti del periodo di compor-to (Cass. 11.4.2005, n. 7369; Cass. 30.8.2004, n. 17334).

Atteso che il rapporto di lavoro prosegue a tutti gli effetti per l’intera durata del preavviso, laddove questo sia lavorato, durante tale periodo permane il dovere di fedeltà del lavoratore, il quale rimane pertanto soggetto all’avvio di eventuali procedimenti disciplinari.

Inoltre, deve essere riconosciuta la possibilità al datore di lavoro, intimato il licenziamento con preavviso, di intimare, durante il decorso di tale periodo, un nuovo licenziamento per giusta causa che si sovrapponga al primo (Trib. Larino, 28.7.2009; Cass. 5.2.1992, n. 1236). Evidente-mente anche il dipendente potrà dimettersi per giusta causa durante il preavviso «lavorato».

7.4 Effi cacia reale del preavviso e indennità sostitutiva

Per quanto riguarda la conversione del periodo di preavviso nella relativa indennità so-stitutiva, in passato era stato precisato in giurisprudenza che tale sostituibilità non rientrasse nella unilaterale disponibilità della parte recedente essendo necessario il consenso del sog-getto destinatario del recesso (c.d. effi cacia reale del preavviso); nè tantomeno il datore di la-voro, pur continuando a erogare la retribuzione per l’intero, poteva rifi utare la concreta presta-zione lavorativa perché ciò avrebbe comportato violazione del principio di tutela della dignità del lavoratore sancito da una pluralità di norme del nostro ordinamento giuridico positivo (artt. 4, 35, 41 Cost.; art. 2087 c.c.).

In caso di accordo tra le parti circa la sostituzione del preavviso con l’indennità, invece, si verifi cava l’immediata interruzione del rapporto come nell’ipotesi di accettazione da parte

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Capitolo 7 - Il preavviso

Licenziamenti individuali e collettivi

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del lavoratore dell’indennità sostitutiva del preavviso; sì che, in quest’ultimo caso, allo stes-so lavoratore non competono nuovi emolumenti che siano introdotti da disposizioni legisla-tive o contrattuali intervenute successivamente all’accettazione dell’indennità sostitutiva e anteriormente alla scadenza del periodo di preavviso (Cass. 2.11.2001, n. 13580; Cass. 29.7.1999, n. 8256).

Valga aggiungere che secondo la giurisprudenza è legittima la clausola di un contratto individuale di lavoro che preveda la sostituzione del preavviso con la relativa indennità ex art. 2121 c.c. in quanto l’art. 2118 c.c. non garantisce un diritto indisponibile al periodo di preav-viso e, quindi, la prosecuzione del rapporto di lavoro e delle connesse obbligazioni fi no alla scadenza del termine del preavviso è derogabile dalle parti attraverso la pattuizione della cessazione immediata del rapporto con la comunicazione del recesso (Trib. Milano, 18.8.2006).

7.5 Durata del periodo di preavviso

La durata del preavviso è determinata dal contratto di lavoro, sia esso individuale o collet-tivo. In mancanza di previsione della contrattazione collettiva, provvede a regolamentare la durata del preavviso l’art. 10, R.D.L. 13.11.1924, n. 1825, richiamato dall’art. 98 disp. att. c.c.

ART. 10, R.D.L. 13.11.1924, N. 1825

Il termine di cui all’articolo precedente (recesso dal contratto a tempo indeterminato), quando l’uso o la conven-zione non li assegnino in misura più larga, sarà determinato nel modo seguente in caso di licenziamento da parte del principale:

A) per gli impiegati che, avendo superato il periodo di prova, non hanno raggiunto i cinque anni di servizio: 1) mesi due di preavviso per gli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fi sso o non eser-

centi esclusi-vamente in proprio: commessi viaggiatori per l’estero, direttori tecnici ed ammini-strativi ed impiegati di grado e funzioni equivalenti;

2) mesi uno di preavviso per i commessi viaggiatori, direttori o capi di speciali servizi ed impiegati di concetto;

3) giorni quindici di preavviso per i commessi di studio e di negozio, assistenti tecnici e altri impie-gati di grado comune.

B) per gli impiegati che hanno raggiunto i cinque anni di servizio e non i dieci: 1) mesi tre di preavviso per la prima categoria; 2) giorni quarantacinque per la seconda categoria; 3) giorni trenta per la terza categoria.

C) per gli impiegati che hanno raggiunto i dieci anni di servizio: 1) mesi quattro per la prima categoria; 2) mesi due per la seconda categoria; 3) giorni quarantacinque per la terza categoria.

I termini di disdetta decorrono dalla metà o dalla fi ne di ciascun mese.In caso di mancato preavviso nei termini suddetti, è dovuta una indennità pari alla retribuzione corrispondente al periodo di preavviso.

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Licenziamenti individuali e collettivi

– segue – ART. 10, R.D.L. 13.11.1924, N. 1825

Oltre al preavviso nei termini come sopra stabiliti, o in difetto, oltre alla indennità corrispondente, è in ogni caso dovuta una indennità non inferiore alla metà dell’importo di tante mensilità di stipendio per quanti sono gli anni di servizio prestati.Agli effetti del presente articolo sono equiparati a stipendio e dovranno egualmente computarsi tut-te le indennità continuative e di ammontare determinato, le provvigioni, i premi di produzione non-ché le partecipazioni agli utili. Se l’impiegato è remunerato in tutto o in parte con provvigioni, premi di produzione o partecipazione, queste saranno commisurate sulla media dell’ultimo triennio e, se l’impiegato non abbia compiuto tre anni di servizio, sulla media degli anni da lui passati in servizio

Art. 98 disp. att. c.c.Nei rapporti d’impiego inerenti all’esercizio dell’impresa, in mancanza di usi più favorevoli per quanto concerne il trattamento cui ha diritto l’impiegato nei casi di […], durata del periodo di pre-avviso, la misura dell’indennità sostitutiva di questo […], si applicano le corrispondenti norme del R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito nella legge 18 marzo 1926, n. 562

7.5.1 Proroga del termine di preavviso

È ammissibile la proroga del termine di preavviso disposta dal datore di lavoro col consen-so del lavoratore in relazione a particolari esigenze aziendali o personali, non contrastando con alcuna disposizione legale o contrattuale.

La prorogabilità trova tuttavia un limite nella necessità di evitare che la decisione datoriale di prolungare reiteratamente il preavviso fi nisca per coincidere con la pura e semplice prose-cuzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato; in tal caso infatti la defi nitiva cessazione delle proroghe, stabilita dal datore di lavoro con decisione unilaterale, espone il lavoratore ad una situazione di diffi coltà analoga a quella iniziale derivante dalla prima comunicazione del licenziamento. Egli ha dunque diritto, col defi nitivo venire meno del rapporto, ad un nuovo pre-avviso o al riconoscimento della corrispondente indennità sostitutiva (Pret. Prato, 14.9.1988).

La giurisprudenza ha poi ravvisato nella prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il termine fi nale del periodo di preavviso contrattualmente stabilito un’ipotesi di revoca tacita del licenziamento intimato.

7.5.2 Defi nizione di una durata differente del preavviso rispetto a quanto disposto dal CCNL

La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che ove venga rispettato il termine minimo di preavviso stabilito dalle fonti richiamate dall’art. 2118 c.c., legittimamente il datore di lavoro può fi ssare la scadenza del relativo periodo con riferimento non già ad una data determinata bensì ad un evento futuro che non sia però determinabile quanto al momento del suo verifi car-si; poiché, peraltro, l’operatività di un periodo di preavviso di durata maggiore rispetto a quel-la prevista dalle regole del rapporto non può essere unilateralmente imposta dal datore di lavoro, il prestatore di lavoro rimane libero di cessare da rapporto allo scadere del termine di preavviso richiamato dalla norma in esame (Cass. 9.6.1994, n. 5596).

7.6 Indennità sostitutiva del preavviso

7.6.1 Trattamento contributivoA fronte della mancata prestazione in servizio del preavviso può essere corrisposta l’inden-

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Capitolo 7 - Il preavviso

Licenziamenti individuali e collettivi

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nità sostitutiva, il cui trattamento contributivo e fi scale presenta alcune peculiarità.Infatti, ai sensi dell’art. 12 della legge 30.4.1969, n. 153, successivamente novellato dall’art.

6 del D.Lgs. 2.9.1997, n. 314, l’indennità sostitutiva del preavviso è soggetta a contribuzione sociale, atteso che il principio fondamentale è che al lavoratore, per tutto il periodo di preavvi-so non prestato, devono essere riconosciuti i compensi ed i diritti che gli sarebbero spettati in costanza di rapporto di lavoro, inclusi pertanto i contributi previdenziali accreditabili a suo fa-vore. In linea generale, quindi, l’indennità sostitutiva del preavviso deve essere assoggettata a normale contribuzione sia per la quota a carico del lavoratore che per la quota a carico del datore di lavoro.

Tuttavia, in alcuni casi può verifi carsi che l’indennità sostitutiva del preavviso venga erogata non quale indennizzo specifi co per la dispensa dal prestare in servizio il periodo di preavviso contrattualmente dovuto ma ad altro titolo, quale corrispettivo per una serie di rinunce anche ad altri diritti o quale indennizzo per la risoluzione del rapporto di lavoro nell’ambito di un ac-cordo transattivo tra le parti volto a defi nire ogni e qualsiasi controversia inerente all’intercor-so rapporto di lavoro: in ipotesi siffatta viene a modifi carsi la intrinseca natura della dazione economica con conseguente esclusione dall’assoggettamento contributivo di tale indennità.

7.6.2 Incentivazione all’esodo

Infatti, le medesime disposizioni sopra citate prevedono che, oltre alle somme corrisposte a titolo di trattamento di fi ne rapporto, sono escluse dalla base imponibile ai fi ni contributivi le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fi ne di incentivare l’esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione.

Pertanto, qualora un ammontare pari all’indennità sostitutiva del preavviso venga corrispo-sta, a seguito di pattuizione intercorsa tra le parti in occasione della risoluzione concordata del rapporto di lavoro, a titolo di incentivazione all’esodo ed in eccedenza alle normali competenze di fi ne rapporto comunque spettanti al lavoratore, tale somma è esente da contribuzione, come confermato anche da alcune circolari dell’INPS (n. 581 del 22.1.1982; n. 170 del 19.7.1990, n. 170; n. 263 del 24.12.1997).

7.6.3 Trattamento fi scale

Per quanto attiene, poi, al trattamento fi scale della indennità in esame, l’art. 17 del D.P.R. 22.12.1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi), nel testo attualmente vigente, dispo-ne che l’applicazione all’indennità sostitutiva del preavviso dell’imposta sul reddito delle per-sone fi siche avvenga separatamente, in quanto somma percepita «una volta tanto in dipen-denza della cessazione» del rapporto di lavoro subordinato.

Pertanto, all’indennità sostitutiva del preavviso, al pari delle altre somme o indennità corri-sposte in aggiunta al TFR in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, si applica la medesima aliquota determinata per calcolare l’IRPEF sul trattamento di fi ne rapporto, ai sen-si del successivo art. 19 del TUIR.

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Capitolo 8

NULLITÀ E INEFFICACIA DEL LICENZIAMENTO

8.1 Licenziamento nullo

I primi tre commi dell’art. 18 S.L., così come modificato dall’art. 14 della L. 28.6.2012, n. 92, si propongono di disciplinare in modo organico gli effetti del licenziamento nullo, in par-te richiamando disposizioni di legge già in vigore nel nostro ordinamento e in parte recependo princìpi elaborati dalla giurisprudenza.

In base ai princìpi generali di diritto comune, la nullità ricorre quando l’atto sia privo di uno dei suoi elementi giuridici essenziali oppure sia contrario a norme imperative o comunque illecito.

L’atto nullo è improduttivo di effetti, come recita il noto brocardo latino quod nullum est nullum producit effectum; pertanto, sebbene dalla accertata nullità del licenziamento possano derivare conseguenze giuridico-patrimoniali differenziate (cfr. Capitolo 11), resta in ogni caso fermo il principio che il licenziamento nullo non è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro.

8.2 Licenziamento discriminatorio

Il primo caso di licenziamento nullo identifi cato dalla norma è il licenziamento discrimina-torio, ossia determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, razziali, etniche, nazionali, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla semplice partecipazione ad attività sindacali, ovvero ancora da ragioni di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

La disciplina sanzionatoria del licenziamento discriminatorio introdotta dall’art. 3, L. 108/1990 (e confermata dalla recentissima L. 28.6.2012, n. 92) rappresenta - da una parte - lo sviluppo dell’atto discriminatorio in generale di cui all’art. 15 S. L. e - dall’altra - il superamento della regolamentazione contenuta nell’art. 4, L. 604/1966. Tali norme sanciscono entrambe la nullità rispettivamente dell’atto e del licenziamento discriminatorio; tuttavia, il citato art. 3 ha introdot-to una rilevantissima precisazione, rappresentata dall’estensione della tutela c.d. reale di cui all’art. 18 S. L. «quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro» che pone in essere un «licenziamento determinato da ragioni discriminatorie», inclusi i dirigenti.

8.2.1 Tipizzazione legale

L’art. 3, L. 108/1990, richiama espressamente le «ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4, L. 15.7.1966, n. 604, e dell’art. 15, L. 20.5.1970, n. 300, come modifi cato dall’articolo 13 della L. 9.12.1977, n. 903», sanzionando con la nullità i licenziamenti determinati «da ragioni di credo poli-

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Licenziamenti individuali e collettivi

tico o fede religiosa», «a causa della sua affi liazione o attività sindacale ovvero della sua partecipa-zione ad uno sciopero» nonché da motivi di discriminazione «razziale, di lingua o di sesso».

Sebbene parte della dottrina ritenga di dover interpretare estensivamente le disposizioni sopra richiamate, appare preferibile la tesi secondo cui i motivi discriminatori sono esclusiva-mente quelli tipizzati dal legislatore, ferma restando la confi gurabilità di un licenziamento nullo perché intimato per un motivo illecito determinante. In ogni caso, in tema di discrimina-zione basata sul sesso l’art. 25, D.Lgs. 198/2006 (che ha sostituito l’art. 4, co. 1, L. 125/1991) detta le defi nizioni generali di discriminazione diretta ed indiretta, dovendosi intendere:

● con la prima «qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’or-dine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discri-minando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga».● che la seconda sussiste «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che ri-guardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».

In ogni caso, costituisce discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti.

A norma del successivo art. 26 «sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Sono, altresì, considerate come discri-minazioni le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione ses-suale, espressi in forma fi sica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradan-te, umiliante o offensivo. Sono, altresì, considerati come discriminazione i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifi utato i comporta-menti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi».

È poi importante rilevare che, ai sensi dell’art. 43, co. 1, D.Lgs. 286/1998, «costituisce di-scriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distin-zione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origi-ne nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».

Il successivo comma 2 precisa che «in ogni caso compie un atto di discriminazione: (…) e il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della L. 20.5.1970, n. 300, come modifi cata e integrata dalla L. 9.12.1977, n. 903, e dalla L. 11.5.1990, n. 108, compiano qualsi-asi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indiret-tamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione in-diretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un

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determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa».

8.2.2 Discriminazione sessuale

Un’altra fattispecie tipizzata dal legislatore è quella del licenziamento nullo perché intimato per ragioni di discriminazione sessuale. Secondo la giurisprudenza pronunciatasi sul punto, in termini generali la discriminazione sessuale ricorre in presenza di una disparità di trattamento «ingiusta e cioè se l’elemento del sesso avesse rappresentato nell’animo del datore di lavoro il motivo decisivo del diverso trattamento». Si deve segnalare che la nullità del licenziamento ricorre anche nella par-ticolare ipotesi in cui il recesso per tale motivo discriminatorio sia stato posto in essere dal datore di lavoro su induzione o indicazione provenienti da un soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro risol-to. Infatti, la Corte costituzionale con sentenza del 22.1.1987, n. 17, ha precisato al riguardo che «è infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, L. n. 903/1977, sulla parità fra uomini e donne in materia di lavoro, e art. 15, ultimo comma, L. 20.5.1970, n. 300, nella parte in cui escludo-no la rilevanza del comportamento del terzo che abbia comunque indotto il datore di lavoro a proce-dere al licenziamento della lavoratrice per ragioni di sesso, in riferimento agli artt. 3, 4 e 37 Cost.».

8.2.3 Discriminazione sindacale

Ciò premesso, la fattispecie più signifi cativa di licenziamento discriminatorio è certamente quella ex art. 15 S.L. del licenziamento del lavoratore per motivi sindacali ovverossia «a causa della sua affi liazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero».

Occorre preliminarmente rilevare che, affi nché possa operare il regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, L. 108/1990, e dall’art. 18, L. 300/1970, è necessario che il licenziamento sia determina-to in via esclusiva dal motivo predetto, indipendentemente dalla ragione formalmente addotta dal datore di lavoro. Pertanto, la rilevanza di un eventuale intento discriminatorio deve essere esclusa qualora il licenziamento appaia comunque sostenuto da giusta causa o da giustifi cato motivo.

In ogni caso, la giurisprudenza è costante nell’attribuire un ampio signifi cato alla locuzione “attività sindacale” di cui all’art. 15 S.L., sì da ricomprendervi non soltanto l’attività espletata dal sindacalista ma anche tutti i comportamenti comunque fi nalizzati a far valere diritti dei lavoratori dell’impresa, con il consenso espresso o tacito dei sindacati, essendo irrilevante la infondatezza delle rivendicazioni, purché non illecite nell’oggetto o nel motivo e purché non integrino inadempimenti contrattuali da parte del dipendente (Cass. 19.3.1996, n. 2335).

8.2.4 Onere probatorio

Il problema dell’individuazione del soggetto che è tenuto a dimostrare la sussistenza del motivo discriminatorio dell’atto di recesso datoriale è stato affrontato dalla Suprema Corte, secondo la qua-le l’onere di provare la sussistenza del motivo illecito del licenziamento, quale è quello discriminato-rio, grava - in applicazione della regola generale sulla ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. - sul lavoratore che lo alleghi a fondamento della domanda di reintegrazione (Cass. 15.11.2000, n. 14753), sebbene sussistano in alcuni casi disposizioni normative che prevedono l’alleg-gerimento dell’onere probatorio in capo al lavoratore, attraverso l’introduzione di presunzioni.

8.2.5 Generalizzazione dell’ambito di applicazione della tutela reale

Il comma 1 dell’art. 18 (e, prima ancora, l’art. 3, L. 108/1990) ha espressamente esteso il regime sanzionatorio di cui all’art. 18 S.L. a tutti i licenziamenti intimati per motivi discrimina-

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tori, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati dall’impresa recedente e preve-dendo altresì che tali disposizioni si applicano «anche ai dirigenti». Il regime sanzionatorio previsto in materia di licenziamento discriminatorio opera anche con riguardo al rapporto di lavoro a tempo determinato, atteso che né l’art. 18 S.L., né l’art. 15 S.L. né l’art. 3, L. 108/1990 introducono alcuna differenziazione tra lavoro a tempo indeterminato ed a tempo determinato.

8.2.6 Licenziamento discriminatorio nelle organizzazioni di tendenza

Occorre osservare che l’art. 4, co. 1, L. 108/1990 esclude l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 18 S.L. nei confronti delle c.d. organizzazioni di tendenza, defi nite come «datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fi ni di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto». La ratio della disposizione in esame è quella di agevolare l’attività di tali organizzazioni, escludendo dall’ambito della cd. tutela reale i rapporti di lavoro dalle medesime costituiti, con conseguente applicazione in ogni caso della sola tutela obbligatoria. Peraltro, nelle organizzazioni di tendenza è confi gurabile, oltre all’i-potesi del licenziamento c.d. ideologico - tale essendo quello intimato per ragioni strettamen-te attinenti l’ideologia perseguita dall’organizzazione di tendenza - anche quella del licenzia-mento intimato per uno dei motivi discriminatori elencati dal precedente art. 3 per ragioni estranee all’ideologia che connota il datore di lavoro recedente.

Secondo una parte minoritaria della dottrina, in entrambe le fattispecie dovrebbe operare la particolare disciplina derogatoria dettata dall’art. 4, L. 108/1990, con conseguente applica-zione della sola tutela obbligatoria. Tuttavia la giurisprudenza, nel privilegiare un’interpreta-zione estensiva dell’art. 18 S.L., è giunta a ritenere che l’esclusione dell’applicabilità di tale norma non opera nelle ipotesi di licenziamento ideologico nullo in quanto discriminatorio e di ineffi cacia del licenziamento per violazione dell’art. 2, L. 604/1966 (Cass. 5.8.1996, n. 7176).

8.3 Licenziamento a causa di matrimonio

In nuovo testo dell’art. 18, in secondo luogo, richiama i casi di recesso datoriale nullo per-ché intimato a causa di matrimonio. Tale fattispecie è oggi prevista dall’art. 35, D.Lgs. 11.4.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), ove il legislatore ha disposto che il licenziamento della dipendente si presume essere avvenuto a causa di matrimonio laddove sia stato intimato nel periodo intercorrente «dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di ma-trimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa».

Il successivo comma 3 della medesima disposizione precisa che «si presume che il licen-ziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblica-zioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio». Tale presunzione legale può essere superata qualora il datore di lavoro, su cui grava il relativo onere, fornisca la prova della sussistenza di una delle seguenti ipotesi previste dal co. 5 del citato articolo 35, D.Lgs. 11.4.2006, n. 198:

a. colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;

b. cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;c. ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del

rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

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Sotto altro profi lo, è opportuno evidenziare la previsione del settimo comma del citato art. 35, secondo cui la lavoratrice che, invitata a riassumere servizio a seguito della dichiarazione di nullità del licenziamento, dichiari di recedere dal contratto, «ha diritto al trattamento previ-sto per le dimissioni per giusta causa», ovvero all’indennità sostitutiva del preavviso. Tale di-sposizione, infatti, va letta alla luce del nuovo testo dell’articolo 18 S.L., in base al quale alla lavoratrice licenziata per causa di matrimonio, oltre al diritto di ricevere le retribuzioni sin lì perdute, è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro (cfr. Capitolo 11).

Ciò premesso, non appare verosimile che la lavoratrice goda simultaneamente di entrambe le citate forme di tutela. Infatti, una guarentigia così rafforzata non convince sia sotto il profi lo siste-matico sia alla luce della giurisprudenza sin qui registrata in tema di preavviso e tutela reale (ex plurimis, Cass.8.6.2006, n. 13380). Di conseguenza, sembra potersi ritenere che la disposizione di cui all’art. 35, co. 7, D.Lgs. 198/2006, sia stata tacitamente abrogata dalla L. 28.6.2012, n. 92.

8.4 Licenziamento della lavoratrice madre

La terza fattispecie di licenziamento nullo di cui al primo comma dell’art. 18 S. L. riguarda il recesso intimato alla lavoratrice madre nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fru-izione del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice o del lavoratore, o intima-to al lavoratore padre per la durata del congedo di paternità e sino al compimento di un anno del fi glio o, infi ne, in caso di adozione o affi damento (così richiamando quanto previsto dall’art. 54, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151). Il citato art. 54, co. 5, D.Lgs. 151/2001, sancisce, infatti, che «il licenzia-mento intimato alla lavoratrice in violazione delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3, è nullo». Il comma 1 della disposizione in esame ribadisce che «le lavoratrici non possono essere licen-ziate dall’inizio del periodo di gravidanza fi no al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III, nonché fi no al compimento di un anno di età del bambino».

8.4.1 Deroghe al divieto

Il comma 3 dello stesso art. 54 riprende l’ipotesi tassativa, già prevista dalla L. 1204/1971, nelle quali non opera il divieto di licenziamento, ovverossia i casi:

«a. di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rappor-to di lavoro;

b. di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;c. di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del

rapporto di lavoro per la scadenza del termine;d. di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’art. 4, L.

10.4.1991, n. 125 (art. 4, co. 1, 2 e 3 L. 10.4.1991, n. 125), e successive modifi cazioni».

Quanto all’inoperatività del divieto di licenziamento della lavoratrice madre per colpa gra-ve, si segnala che, secondo la giurisprudenza di legittimità, «la colpa grave non può ritenersi integrata da una giusta causa o da un giustifi cato motivo soggettivo, ma richiede quella colpa specifi camente prevista, connotata appunto dalla gravità, e proprio per questo diversa dalla

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colpa in senso lato che deve connotare qualsiasi inadempimento del lavoratore, per essere sanzionato con il licenziamento». Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha escluso che l’assenza ingiustifi cata e immotivata della lavoratrice madre per oltre una settimana fosse una condizione che integrava la colpa grave ai fi ni del licenziamento (Cass. 29 .9. 2011, n. 19912).

8.4.2 Lavoratore padre

È importante sottolineare che, «in caso di fruizione del congedo di paternità, di cui all’art. 28, D.Lgs. 151/2001», vale a dire allorché il padre abbia diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità (o per la sua parte residua) che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre, ovvero in caso di abbandono, nonché in caso di affi damento esclusivo del bambino a costui, «il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fi no al compi-mento di un anno di età del bambino» (art. 54, co. 7, D.Lgs. 151/2001).

8.4.3 Presentazione del certifi cato medico

Per fare valere la nullità del recesso datoriale «la lavoratrice, licenziata nel corso del pe-riodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certifi cazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano» (art. 54, comma 2, D.Lgs. 151/2001). Tale certifi cazione (il cui onere di presentazione, a diffe-renza di quanto prevedeva la normativa previgente in materia, non è assoggettato ad alcun li-mite temporale), assolve secondo la giurisprudenza di legittimità ad un ruolo di mero stru-mento di prova la cui presentazione può trovare un equipollente nell’effettiva conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro altrimenti ottenuta (Cass. 16.2.2007, n. 3620; Cass. 21.8.2004, n. 16505; Cass. 4.3.1988, n. 2248).

Ai fi ni dell’identifi cazione del periodo di operatività del divieto di licenziamento, l’art. 4 D.P.R. 1026/1976 precisa che l’inizio dello stato di gravidanza viene determinato a partire dal 300° giorno antecedente la data presunta del parto, attestata dal suddetto certifi cato medico di gravidanza.

8.4.4 Mancata informazione all’atto dell’assunzione

Sotto un diverso profi lo, la Suprema Corte (Cass. 6.7.2002, n. 9864) ha avuto modo di affer-mare che non può costituire giusta causa di licenziamento il comportamento della lavoratrice gestante o puerpera che, al momento dell’assunzione, non comunichi al datore di lavoro di trovarsi nella situazione in cui opera il divieto di licenziamento, atteso che un siffatto obbligo di informazione - che, peraltro, non può essere desunto dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c. o da altri generali princìpi dell’ordinamento - fi ni-rebbe per rendere ineffi cace la tutela della lavoratrice madre ed ostacolerebbe la piena attua-zione del principio di parità di trattamento, garantito costituzionalmente e riaffermato anche dalla normativa comunitaria (direttive CEE n. 76/207 e 92/85).

8.4.5 Altre fattispecie di divieto di licenziamento

Come disposto dall’art. 54, co. 6, D.Lgs. 151/2001, e come confermato dall’art. 18, comma 1, S.L. nel testo novellato dalla L. 28.6.2012, n. 92, «è altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore».

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Il divieto di licenziamento è esteso «anche in caso di adozione e di affi damento» e si appli-ca fi no a un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del conge-do di maternità e di paternità.

8.4.6 Morte del feto, aborto e morte del bambino

La morte del feto ovvero del neonato, avvenuta dopo il parto ed entro il primo anno di età, non fa venire meno il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Infatti l’art. 2, D.P.R. 1026/1976, stabilisce al riguardo che «nel caso che il bambino sia nato morto, o sia deceduto durante il periodo di interdizione dal lavoro, il divieto di licenziamento cessa alla fi ne di tale periodo. Ove il bambino sia deceduto dopo il periodo di interdizione e prima del compimento di un anno di età, il divieto cessa dieci giorni dopo la sua morte». Tali norme devono intendersi ancora in vigore in quanto non abrogate espressamente dal D.Lgs. 151/2001 e con esso com-patibili.

Valga osservare che, ai sensi dell’art. 12, D.P.R. 1026/1976 viene considerata come parto, a tutti gli effetti, «l’interruzione spontanea, o terapeutica, della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione».

L’aborto, invece (qualifi cato dal medesimo art. 12 come «l’interruzione spontanea, o tera-peutica, della gravidanza che si verifi chi prima del 180° giorno dall’inizio della gestazione»), è considerato a tutti gli effetti come malattia, ai sensi dell’art. 19, D.Lgs. 151/2001.

SANZIONI AMMINISTRATIVE

La violazione delle disposizioni in materia di divieto di licenziamento «è punita con la sanzione amministrativa da Euro 1.032 a Euro 2.582,00. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta di cui all’articolo 16, l. 24.11.1981, n. 689» (art. 54, comma 8, D.Lgs. 151/2001).

8.5 Casi di nullità previsti dalla legge e motivo illecito determinante

La L. 28.6.2012, n. 92, ha chiarito che le conseguenze del licenziamento di cui ai commi 1, 2 e 3 del nuovo articolo 18 S.L. (cfr. Capitolo 11) trovano altresì applicazione al recesso dato-riale «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge».

Trattasi dei casi di licenziamento a causa della domanda di fruizione di congedi per eventi e cause particolari, di fruizione di congedi per formazione e di congedi per la formazione con-tinua di cui alla L. 8.3.2000, n. 53, ovvero di recesso in frode alla legge, come ad esempio in caso di licenziamento intimato prima del trasferimento d’azienda e seguito da immediata ri-assunzione del lavoratore da parte dell’acquirente, al fi ne di aggirare le disposizioni dell’arti-colo 2112 del codice civile.

È possibile altresì che il licenziamento sia nullo (con conseguente applicazione della disci-plina sanzionatoria di cui ai primi 3 commi dell’art. 18 S.L.) per motivo illecito determinante, ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile.

Al riguardo, la giurisprudenza, ancorché non recente, ha ritenuto tale l’ipotesi del recesso ritorsivo, che consiste nel recesso datoriale quale ingiusta e arbitraria reazione ad un compor-tamento legittimo e corretto sotto ogni profi lo del lavoratore, inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi (Cass. 6.5.1999, n. 4543) ovvero, ad un comportamento di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (ritor-sione indiretta) (Cass. 8.8.2011, n. 17087).

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64 Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

In merito, è opportuno rilevare come la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito che, ove il lavoratore deduca il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale, è necessario che tale intento abbia avuto un’effi cacia determinativa ed esclusiva del licenziamento anche rispetto agli altri eventuali fatti idonei a confi gurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto (Cass. 9.3.2011, n. 5555).

8.6 Licenziamento ineffi cace

Tra le diverse categorie di invalidità di un atto, l’ineffi cacia rappresenta certamente quella più problematica sotto il profi lo della sua ricostruzione sistematica. Infatti il nostro ordina-mento, pur contemplando in alcune specifi che disposizioni tale tipologia di vizio dell’atto o del negozio giuridico, non disciplina né regola autonomamente la causa di invalidità in esame. In termini generali può comunque affermarsi che l’ineffi cacia riguarda tutti quei casi nei quali un negozio giuridico è inidoneo, per qualsiasi motivo, a produrre gli effetti che gli sarebbero pro-pri.

Ai limitati fi ni che qui interessano, l’ineffi cacia è espressamente contemplata dall’art. 2, L. 604/1966 (come sostituito dall’art. 2, L. 108/1990 e dall’art. 1, co. 37, L. 28.6.2012, n. 92) quale causa di invalidità del licenziamento individuale intimato senza l’osservanza della forma scrit-ta o in difetto della specifi cazione contestuale dei motivi determinati il recesso.

In proposito, è opportuno evidenziare che la L. 28.6.2012, n. 92 ha modifi cato il dettato nor-mativo del secondo comma del menzionato art. 2. Infatti, prima della riforma tale disposizione prevedeva l’obbligo di comunicazione al lavoratore dei motivi determinanti il licenziamento lad-dove costui, entro quindici giorni dall’intimazione del recesso, ne avesse fatto richiesta. In tal caso, il datore di lavoro era tenuto a comunicali per iscritto entro i successivi sette giorni.

Di contro, il testo attuale del secondo comma dell’articolo in esame prevede che «la comu-nicazione del licenziamento deve contenere la specifi cazione dei motivi che lo hanno determi-nato», con ciò imponendo la simultanea intimazione del recesso ed esplicitazione delle ragio-ni poste a fondamento di esso.

8.6.1 Ineffi cacia del licenziamento orale

In base al dettato normativo introdotto dalla L. 28.6.2012, n. 92, le conseguenze del licen-ziamento nullo si applicano anche al recesso dichiarato ineffi cace perché intimato in forma orale, il che comporta un’indubbia novità sotto il profi lo sanzionatorio per i datori di lavoro non rientranti nell’ambito della tutela reale oggi, invece, applicabile anche a costoro (cfr. Capitolo 11). Infatti, come previsto dall’art. 2, co. 1, L. 604/1966, «il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro», con espressa deroga al principio generale della libertà di forma del negozio giuridico.

La violazione di tale requisito formale da parte del datore di lavoro recedente è espressa-mente sanzionata dal successivo comma 3 della norma in esame con l’ineffi cacia del licenzia-mento intimato.

In base ai princìpi generali enunciati con riferimento a tale categoria di invalidità dell’atto, la giurisprudenza di legittimità espressasi prima dell’entrata in vigore della L. 28.6.2012, n. 92, coerentemente con il dato normativo sin qui vigente, riteneva che «il licenziamento intima-to oralmente è radicalmente ineffi cace per inosservanza dell’onere della forma scritta impo-sto dall’art. 2 l. 15.7.1966 n. 604, novellato dall’art. 2 l. 11.5.1990 n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fi ni di escludere la continuità del rapporto

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Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento

Licenziamenti individuali e collettivi

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stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applica-bile (reale od obbligatorio), giacché la sanzione prevista dal citato art. 2 non opera soltanto nei confronti dei lavoratori domestici (ai sensi della L. n. 339 del 1958) e di quelli ultrasessantenni (salvo che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), conseguendone, quindi, che la radicale ineffi cacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso» (Cass. 1.8.2007, n. 16955).

8.6.2 Ineffi cacia per carenza di contestuale motivazione

Come menzionato, anche il licenziamento intimato senza la contestuale comunicazione dei motivi che lo hanno determinato comporta l’ineffi cacia dello stesso. Tuttavia, a tale ineffi cacia è collegato un regime sanzionatorio diverso rispetto a quello del licenziamento orale.

Infatti, il comma 6 dell’articolo 18 S.L., così come modifi cato dall’art. 1 della L. 28.6.2012, n. 92, prevede che, «nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato ineffi cace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della L. 15.7.1966, n. 604, e succes-sive modifi cazioni», il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del li-cenziamento e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicom-prensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale commessa, «tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifi ca motivazione a tale riguardo».

Pertanto, in caso di licenziamento ineffi cace per carenza di contestuale motivazione la tu-tela approntata, anche per i datori di lavoro che occupano più di quindici lavoratori, è di carat-tere obbligatorio.

Tuttavia, laddove il giudice dovesse ravvisare che vi è anche un difetto di giustifi cazione del licenziamento, quindi che il recesso datoriale è carente anche da un punto di vista sostanziale e non meramente formale, egli applicherà le tutele previste contro il licenziamento privo di giusta causa e giustifi cato motivo di cui ai commi 4, 5 e 7 dell’art. 18 S.L. (cfr. Capitolo 11).

Infi ne, in base a quanto disposto dal nuovo sesto comma dell’art. 18 S.L., è ineffi cace il li-cenziamento intimato in violazione «della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della L. 15.7.1966, n. 604».

Per la disciplina di tali procedure, si rinvia ai Capitoli 1 e 3; per le conseguenze sanzionato-rie della loro violazione si rinvia al Capitolo 11.

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Licenziamenti individuali e collettivi

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Capitolo 9

IL LICENZIAMENTO COLLETTIVO

9.1 Ambito di applicazione

La materia dei licenziamenti collettivi ha ricevuto un’organica disciplina grazie alla L. 23.7.1991, n. 223 (da ultimo novellata dalla recente L. 92/2012), che ha recepito la direttiva comunitaria 129/1975 del 17.2.1975, modifi cata dalla successiva direttiva comunitaria 56/1992 del 24.6.1992 (oggetto di recezione da parte del D.Lgs. 26.5.1997, n. 151).

Tali direttive sono state poi successivamente abrogate dalla direttiva 1998/59 del 20.7.1998 con-cernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.

Il successivo D.Lgs. 8.4.2004, n. 110, ha poi dato completa attuazione alla citata direttiva comunitaria 1998/59, estendendo gli obblighi di informazione e consultazione previsti dalla legge in commento anche nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori.

9.2 Fattispecie

La L. n. 223/1991 prevede due fattispecie di licenziamento collettivo.La prima è disciplinata dall’art. 24, co. 1, rubricata «norme in materia di riduzione del

personale», che riguarda l’ipotesi del licenziamento attuato ab origine dall’imprenditore che non abbia fatto ricorso al trattamento straordinario di integrazione salariale prima di procede-re alla procedura di licenziamento collettivo.

A tale fattispecie si affi anca un’altra ipotesi di licenziamento collettivo prevista dall’art. 4, co. 1, L. 223/1991 per le sole imprese ammesse al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione l’imprenditore non ritenga di essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi.

In altre parole, si tratta del licenziamento collettivo attivato dall’imprenditore qualora l’ec-cedenza del personale sospeso non sia riassorbibile mediante il ricorso a strumenti alternati-vi al licenziamento.

Entrambe le due ipotesi di licenziamento collettivo seguono l’identica procedura discipli-nata dall’art. 4, L. 223/1991, commi da 2 a 12.

Un’ulteriore possibilità di ricorso ai licenziamenti collettivi è quella prevista dall’art. 2, co. 3, L. 223/1991 per l’ipotesi in cui, nell’ambito delle procedure concorsuali, non sia possibile per il curatore, il liquidatore o commissario giudiziale, la continuazione dell’attività produttiva o quando i livelli occupazionali possano essere solo parzialmente salvaguardati.

9.3 Ambito soggettivo di applicazione

Il D.Lgs. 8.4.2004, n. 110, ha modifi cato e integrato la L. 23.7.1991, n. 223, stabilendo che si

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Licenziamenti individuali e collettivi

applicano ai datori di lavoro non imprenditori, compresi i datori di lavoro che svolgono senza fi ni di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, «le disposizioni di cui all’art. 4, c. 2, 3, con esclusione dell’ultimo periodo, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 14, 15 e 15-bis».

Pertanto, con l’entrata in vigore del decreto legislativo sopra citato i datori di lavoro non imprenditori devono osservare l’obbligo di fornire alle organizzazioni sindacali le informa-zioni previste dalla legge in esame.

9.4 Tipologia

L’art. 24, L. 223/1991, si applica alle imprese che hanno alle proprie dipendenze più di 15 lavoratori, indipendentemente dal settore di appartenenza.

Di contro, l’art. 4, L. 223/1991, come già rilevato, trova applicazione alle sole imprese am-messe al trattamento straordinario di integrazione salariale.

La differenza tra imprese che rientrano nel campo di applicazione della disciplina di inter-vento straordinario di integrazione salariale e quelle che non vi rientrano determina tra l’altro, ai fi ni della procedura di licenziamento collettivo, l’obbligo delle imprese che benefi ciano di tale trattamento di integrazione salariale di versare all’apertura della procedura di mobilità il cd. contributo di ingresso.

9.5 Imprese commerciali

L’art. 12, L. 223/1991, ha esteso il campo di applicazione della normativa sul trattamento straordinario di integrazione salariale anche alle imprese esercenti attività commerciale che occupino più di 200 dipendenti. Peraltro, l’art. 7, L. 19.7.1993, n. 236, aveva esteso l’applicazio-ne delle disposizioni in materia di trattamento straordinario di integrazione salariale anche alle imprese commerciali che occupavano più di 50 addetti fi no al 31.12.1994, termine poi prorogato sino al 31.12.2002 con il D.M. 18.4.2002, n. 30956, come previsto dall’art. 52, co. 46, L. 28.12.2001, n. 448. Tale trattamento è stato ulteriormente prorogato da numerosi decreti ministeriali succedutisi negli anni e, da ultimo, l’articolo 33, co. 23, L. 12.11.2011, n. 183, ha prorogato tale trattamento sino al 31.12.2012.

Tale normativa transitoria può dirsi defi nitivamente superata con l’entrata in vigore della recente L. 28.6.2012, n. 92, che all’art. 3, co. 1, ha espressamente esteso le disposizioni in materia di trattamento di integrazione salariale (con i relativi obblighi contributivi) alle im-prese esercenti attività commerciali con più di cinquanta dipendenti.

9.6 Agenzie di viaggio e turismo, operatori turistici e imprese di vigilanza

L’accesso ai trattamenti di integrazione salariale straordinaria era stato prorogato anche per le agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici con più di 50 dipendenti nonché le imprese di vigilanza con d.m. 18.4.2002, n. 30968, sino al 31.12.2002. Anche tale termine è stato prorogato nel corso degli anni successivi con provvedimenti legislativi e, da ultimo, l’articolo 33, co. 23, della L. 12.11.2011, n. 183, ha prorogato tale trattamento sino al 31.12.2012.

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Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

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Senonché, anche tale normativa transitoria può dirsi ormai superata con l’entrata in vigore dell’art. 3, co. 1, della L. 18.6.2012, n. 92, sopra citato, che ha espressamente esteso le dispo-sizioni in materia di trattamento di integrazione salariale (con i relativi obblighi contributivi) alle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più di cinquanta dipen-denti, oltre che alle imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti e alle imprese del tra-sporto aereo e del sistema aeroportuale a prescindere dal numero dei dipendenti.

9.7 Aziende della logistica

Per le aziende della logistica che occupano più di 200 dipendenti è dovuto il cd. contributo di ingresso e ciò in quanto il Ministero del lavoro ha precisato che «l’attività esercitata dalle aziende operanti nel settore dei servizi logistici per conto terzi, seppure espletata nelle forme e con le modalità imposte dalla terziarizzazione dei rami aziendali delle grandi imprese, deve ritenersi di natura commerciale» (INPS, circ. 28.3.2000, n. 71).

Conseguentemente, l’INPS ha precisato che le imprese della logistica con più di 200 addet-ti rientrano nel campo di applicazione del trattamento straordinario di integrazione salariale e pertanto le medesime devono versare il contributo di mobilità. Di contro, per le imprese della logistica con più di 50 dipendenti valgono le stesse disposizioni sopra esposte per le imprese commerciali.

9.8 Soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro

La Suprema Corte ha esteso l’applicazione degli artt. 1, 4 e 24 anche ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro, affermando che l’art. 24 della L. 223/1991, nel testo so-stituito dall’art. 8, co. 1, D.L. 148/1993 (convertito nella L. 236/1993), deve essere interpreta-to nel senso che l’estensione ai soci delle cooperative di produzione e lavoro dell’applicazio-ne degli artt. 1, 4 e 24 L. 223/1991 cit., con esclusione di distinzioni nell’ambito sociale tra lavoratori soci e non soci, comporta l’applicabilità anche alla prima delle due suddette cate-gorie di lavoratori non soltanto della procedura di mobilità, ma anche dei relativi benefi ci; ne consegue che al datore di lavoro che assuma, alle condizioni stabilite dall’art. 8, co. 4, della stessa L. 223/1991 lavoratori già dipendenti e soci di una cooperativa iscritti nella lista di mobilità è attribuibile il contributo mensile pari al cinquanta per cento dell’indennità di mo-bilità che sarebbe spettata a ciascun lavoratore, previsto da tale ultima disposizione (Cass. 22.7.2005, n. 15510).

9.9 Imprese di pulizia

La giurisprudenza della Corte di Cassazione e parte della giurisprudenza di merito più re-cente hanno esteso l’ambito di applicazione della normativa sui licenziamenti collettivi anche alle imprese di pulizia che occupano più di 15 dipendenti in ipotesi di cessazione dell’appalto, e ciò in quanto la disposizione contenuta nell’art. 24, co. 4, ai sensi della quale sono escluse dall’applicazione della disciplina in esame le attività stagionali o saltuarie, i rapporti di lavoro a termine e di fi ne lavoro nelle costruzioni edili, è norma speciale non suscettibile di interpre-tazione estensiva.

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Licenziamenti individuali e collettivi

9.10 Aziende esercenti servizi di trasporto pubblico in concessione

L’art. 3, co. 4 bis, della L. 223/1991, introdotto dalla L. 236/1993, nel testo risultante dalla modifi ca introdotta dall’art. 7, D.L. 23.10.1996, n. 542 (convertito con L. 23.12.1996, n. 649), prevede espressamente che le disposizioni in materia di mobilità ed il relativo trattamento si applicano agli autoferrotranvieri (il cui rapporto è regolato dal r.d. 8.1. 1931, n. 148) licenziati da imprese dichiarate fallite o poste in liquidazione successivamente alla data del 1°.1. 1993.

Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza del 13.6.2000, n. 190, la quale, chiamata a decidere sulla questione di legittimità della citata norma con riferimento agli artt. 3, commi 1 e 11 della Costituzione, ha ritenuto che tale disposizione legislativa debba essere inter-pretata nel senso che essa opera soltanto per quanto concerne l’istituto della mobilità ed in particolare il diritto a fruire della relativa indennità da parte degli autoferrotranvieri.

Invece per quanto concerne la disciplina del procedimento preordinato al licenziamento collettivo nulla è mutato rispetto al sistema previgente con la conseguenza che le garanzie procedimentali di cui all’art. 24, L. 223/1991, che hanno carattere generale, valgono anche per le imprese che non benefi ciano dell’intervento straordinario di integrazione salariale, fra le quali devono annoverarsi anche le aziende autoferrotranviarie (C. Cost. 13.6.2000, n. 190).

Alla luce di tale sentenza, dunque, consegue che le aziende soggette all’applicazione del R.D. 148/1931 e che intendano procedere ad una riduzione di personale devono osservare le norme procedurali previste dall’art. 4, commi da 2 a 12, ancorché non dichiarate fallite o poste in liquidazione.

Peraltro, anche la Corte di Cassazione ha confermato che la normativa introdotta con l’art. 24 della predetta L. 223/1991 ha carattere generale, sicché le relative garanzie procedimentali si ap-plicano anche ai dipendenti da imprese autoferrotranviarie senza che esse possano ritenersi in-compatibili con le previsioni dell’art. 26 all. A al R.D. 148/1931, atteso che tale norma (che, nel di-sciplinare l’esonero del personale ferroviario in caso di riduzione di posti, autorizza l’assegnazione dei dipendenti in esubero a mansioni inferiori alla qualifi ca come alternativa al licenziamento) si pone su un piano assolutamente diverso da quello procedimentale regolamentato dall’art. 24, L. 223 del 1991, che, tra l’altro, coinvolge anche le rappresentanze sindacali (Cass. 8.8.2011, n. 17090).

9.11 Ferrovie dello Stato

Con la decisione del 16.12.2009, n. 26373, in tema di ridimensionamento degli organici delle Ferrovie dello Stato mediante riduzione del personale eccedentario, la Corte di Cassazione ha precisato che il programma di ristrutturazione e risanamento aziendale, da realizzarsi mediante licenziamenti, che il legislatore ha inteso agevolare apprestando gli opportuni ammortizzatori sociali (art. 59, co. 6, L. 449/ 1997), non esonera la società dal rispetto delle procedure previste dalla L. 223/1991, versandosi comunque in ipotesi di licenziamento collettivo per riduzione di personale, nell’ambito del quale i lavoratori da collocare in mobilità vanno individuati nel rispet-to dei criteri legali o convenzionali “in relazione alle esigenze tecnico-produttive dei complesso aziendale” e il criterio dell’anzianità contributiva rileva soltanto per la scelta dei dipendenti da licenziare. Ne consegue che la comunicazione inviata al dipendente, motivata con la verifi ca delle eccedenze di personale, l’inserimento del destinatario tra gli esuberi e nella graduatoria dei licenziamenti in base alla maggiore anzianità contributiva, esprime la volontà di recesso della società e costituisce, pertanto, intimazione del licenziamento che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine previsto dall’art. 5, co. 3, L. 223/1991.

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Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

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9.12 Ipotesi di esclusione

Ai sensi dell’art. 24, co. 4, L. 223/1991, le disposizioni in materia di licenziamento collettivo non si applicano ai casi di:● scadenza dei rapporti di lavoro a termine;● fi ne lavoro nelle costruzioni edili;● attività stagionali o saltuarie.

In tali ipotesi, infatti, non vi è un ridimensionamento della forza lavoro: la cessazione dei rapporti di lavoro è connaturata alla caratteristica dell’attività imprenditoriale esercitata che risente in modo particolare di un andamento produttivo ciclico.

9.12.1 Rapporti a termine

La disposizione richiama espressamente i rapporti a termine e non i contratti a termine, con la conseguenza che sono esclusi dall’ambito di applicazione della legge tutti i rapporti di lavoro in cui sia stabilito un termine di durata, come i contratti di formazione e lavoro, i con-tratti di apprendistato ed i lavoratori in prova. Al riguardo, e per completezza, si segnala come l’art. 2 della direttiva comunitaria 59/1998 escluda dall’ambito di applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi i contratti a tempo determinato «a meno che tali licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine». Sul punto si registrano soluzioni dottrinali dif-ferenti e non constano pronunce giurisprudenziali.

9.12.2 Fine lavoro nell’edilizia

In linea generale nel settore edile l’ipotesi di «fi ne lavoro» viene interpretata come fi siolo-gico esaurimento dei lavori e non come riduzione strutturale dell’impresa, con la conseguenza che il licenziamento del personale determinato, appunto, dal compimento della commessa viene fatto rientrare nel licenziamento plurimo individuale per motivo oggettivo.

Inoltre, nella nozione di fi ne lavoro nelle costruzioni edili viene fatto rientrare anche l’esau-rimento di una fase dei lavori, in conseguenza del quale possono essere licenziati i dipendenti che siano stati addetti solo a tale fase, qualora sia impossibile il loro impiego in altre mansioni o attività (Cass. 22.6.2000, n. 8506).

Si segnala peraltro che, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, la dero-ga alla disciplina dei licenziamenti collettivi nel caso di fi ne lavoro nelle costruzioni edili, pre-vista dall’art. 24 L. 223/1991, non può operare quando la fase lavorativa è in corso di graduale esaurimento, atteso che anche in tale ipotesi occorre procedere ad una scelta tra lavoratori da adibire alla ultimazione dei lavori e lavoratori da licenziare; scelta che deve seguire le regole fi ssate dagli artt. 4 e 5, L. 223/1991 (Cass. 12.8.2011, n. 17273).

Pertanto, è necessario distinguere l’ipotesi in cui il licenziamento del personale sia con-nesso effettivamente alla «fi ne lavoro» o alla «fi ne fase lavorativa» da quello in cui il licenzia-mento sia determinato da una situazione di crisi per riduzione dell’attività, ipotesi che com-porta l’applicazione dell’art. 24, L. 223/1991.

9.12.3 Attività stagionali o saltuarie

Sul concetto di attività stagionale la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene che l’atti-vità alberghiera non possa essere considerata stagionale in quanto, pur potendo l’impresa

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Licenziamenti individuali e collettivi

stipulare contratti a termine e pur potendo essere caratterizzata da ritmi stagionali, non ha per propria natura carattere di precarietà e saltuarietà, salva l’esistenza di tali particolarità che devono essere provate rigorosamente dal datore di lavoro (Cass. 29.11.2000, n. 15290). Peraltro, si segnala che secondo la giurisprudenza di merito l’esclusione dalla disciplina dei licenziamenti collettivi non deve essere riferita limitatamente ai rapporti di lavoro a termine ma deve riguardare anche i rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Diversamente, il riferi-mento alle attività stagionali contenuto nella disposizione dell’art. 24, co. 4, sarebbe già ricom-preso nei casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine (Trib. Napoli, 24.1. 1994).

9.13 Agenzie di somministrazione di lavoro

Il D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico agli artt. 20-28 l’istituto della somministrazione di lavoro, anche a tempo indeterminato (cd. staff leasing). Tale istituto è stato successivamente abolito dall’art. 1, co. 46, della L. 24.12.2007, n. 247, con effetto dal 1°.1. 2008, e reintrodotto dall’art. 2, co. 143, L. 23.12.2009, n. 191.

A tale ultimo riguardo ed ai limitati fi ni della presente trattazione viene in rilievo l’art. 22, co. 4, ai sensi del quale «le disposizioni di cui all’art. 4 della L. 23.7.1991, n. 223, non trovano applicazione anche nel caso di fi ne dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato».

Ne consegue che il licenziamento dei dipendenti del somministratore assunti a tempo in-determinato ed impiegati presso l’impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui abbiano termine i «lavori connessi alla somministrazione», concreta una fattispecie di licenziamento plurimo individuale per motivo oggettivo.

Infatti, l’ultimo capoverso del citato co. 4 dispone che in questo caso trova applicazione l’art. 3, L. 15.7.1966, n. 604.

9.14 Requisiti dimensionali

Come già sopra esposto la disciplina della procedura di mobilità trova applicazione alle sole imprese che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di 15 lavoratori, indipen-dentemente dall’articolazione dell’azienda in diverse unità produttive. Tale requisito numerico è soddisfatto anche ove vi sia un collegamento economico-funzionale tra più imprese che con-senta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre in presenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) inte-grazione tra le attività esercitate dalle varie persone giuridiche del gruppo e il correlativo inte-resse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-fi nanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confl uire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle va-rie persone giuridiche distinte, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (Cass. 10.4.2009, n. 8809).

9.15 Riferimento temporale della consistenza numerica dell’impresa

Per quanto concerne la fattispecie di licenziamento collettivo delle imprese ammesse alla

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Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

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cassa integrazione straordinaria, l’art. 1, L. 223/1991, stabilisce espressamente che l’impren-ditore deve avere occupato mediamente più di 15 dipendenti nel semestre precedente la data di presentazione della richiesta di intervento di integrazione salariale.

La citata disposizione stabilisce altresì che debbano essere computati gli apprendisti e i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro.

Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi disciplinata dall’art. 24, L. 223/1991, nulla viene espres-samente previsto. Tuttavia si ritiene applicabile il medesimo orientamento giurisprudenziale for-matosi in relazione al requisito occupazionale per l’applicazione dell’art. 18 S.L., secondo il qua-le il requisito occupazionale va riferito non già al criterio del numero dei lavoratori occupati alla data della intimazione del licenziamento, ma a quello della normale occupazione nel periodo antecedente alla data medesima, quale risultante dall’organigramma aziendale e senza tenere conto di contingenti ed occasionali riduzioni di personale (Cass. 9.12.1999, n. 13796).

Occorre tuttavia segnalare come una parte della giurisprudenza di merito abbia assunto al riguardo una diversa posizione interpretativa, affermando che per l’art. 24 della L. 223/1991 l’individuazione del momento in cui va verifi cata la consistenza numerica al fi ne dell’applicabi-lità della relativa disciplina è quello di apertura della procedura di mobilità (App. Milano, 14.3.e 12.6.2003).

9.16 Criteri di computabilità dei lavoratori

Sotto altro profi lo la dottrina era divisa in merito alla computabilità nel novero dei 15 dipen-denti dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro nonché degli apprendisti, ri-spetto ai cui contratti, peraltro, prima il D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, e più recentemente il D.Lgs. 14.9.2011 n. 167 (T.U. Apprendistato) sono intervenuti signifi cativamente prevedendo – da una parte – una nuova disciplina giuridica del contratto di apprendistato e – dall’altra – abrogato il contratto di formazione e lavoro, introdotto la fi gura del contratto di inserimento. Rispetto a quest’ultima tipologia contrattuale, tuttavia, la questione de qua è priva di rilievo pratico, atte-so che la recente L. 92/2012 ha abrogato gli articoli 54 – 59 del D.Lgs. 276/2003 che disciplina-vano il contratto di inserimento.

Quanto all’apprendistato, parte della dottrina ritiene che gli apprendisti debbano essere computati al fi ne della verifi ca del requisito dimensionale richiesto dalla legge in analogia a quanto stabilito dall’art. 1, L. 223/1991 per la CIGS. Anche il Ministero del lavoro con circolare n. 62/1996 ha chiarito che tali rapporti di lavoro debbano essere computati nell’organico.

Tuttavia, altra parte della dottrina si discosta da tale orientamento sostenendo la non com-putabilità di tali rapporti speciali nel novero dei 15 dipendenti, e ciò in quanto l’art. 21, comma 7, L. 56/1987 (oggi abrogato dall’articolo 7, comma 6, del D.Lgs. 14.9.2011, n. 167), stabiliva l’esclusione di tali categorie di lavoratori dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti.

A sostegno di tale tesi milita il fatto che nell’art. 24, L. 223/1991, manca una disposizione derogatoria quale quella contenuta nell’art. 1, L. 223/1991, che espressamente consente il computo di tali lavoratori al fi ne della richiesta d’intervento della CIGS.

Inoltre, l’art. 22, comma 5, del D.Lgs. 276/2003, introducendo un ulteriore vantaggio per il ricorso alla somministrazione, esclude dal calcolo il lavoratore «somministrato», il quale «non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fi ni della applicazione di normative di legge o di contratto collettivo».

Quanto, poi, al lavoratore assunto con contratto di lavoro intermittente (cd. contratto a chiamata o «job on call»), l’art. 39, D.Lgs. 276/2003 prevede che costui «è computato nell’or-

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ganico dell’impresa, ai fi ni della applicazione di normative di legge, in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre». Al riguardo, è interessante sot-tolineare come, a seguito dell’abrogazione del lavoro intermittente disposta dal Legislatore con l’art. 1, co. 45, della L. 24.12.2007, n. 247, il menzionato articolo ha ripreso vigore con la successiva emanazione del D.L. 25.6.2008, n. 112, convertito con modifi cazioni nella L. 6.8.2008, n. 133, che ha reintrodotto tale tipologia contrattuale.

Ugualmente non devono computarsi i lavoratori assunti a termine in sostituzione dei col-leghi assenti.

Da ultimo si segnala che la Suprema Corte è intervenuta sul punto chiarendo che i licen-ziamenti per riduzione di personale di cui all’art. 24 della L. n. 223 del 1991 sono applicabili alle sole imprese che occupino più di quindici dipendenti. Nel relativo computo non si può applicare in via analogica il criterio indicato al primo co. dell’art. 1 della stessa legge – ri-chiamato dall’art. 4 con riferimento alla valutazione del livello dimensionale dell’azienda previsto per i licenziamenti collettivi -, che, ai diversi fi ni dell’intervento della cassa integra-zione guadagni, prevede l’inclusione nell’organico aziendale degli apprendisti e dei lavorato-ri assunti con contratto di formazione lavoro, non versandosi nella situazione di mancanza di una norma di legge atta a regolare direttamente la materia e non trattandosi pertanto di integrare una lacuna dell’ordinamento, in quanto la regolamentazione del licenziamento per riduzione di personale contenuta nella L. 223/1991 è autosuffi ciente, e rispetto ad essa la disciplina sancita per il licenziamento preceduto da CIG dalla stessa legge ha carattere ec-cezionale, prevista esclusivamente per tale tipo di recesso (Cass. 17.11.2003, n. 17384).

Dovranno, di contro, essere computati i dirigenti, i lavoratori in prova nonché quelli con contratto a termine qualora, con riferimento a questi ultimi, e sempre in analogia con quan-to avviene in tema di licenziamenti individuali, si inseriscano nel c.d. organico oggettivo, ossia nell’organico normalmente necessario per la produzione dell’azienda, ovvero non sia-no stati assunti per esigenze eccezionali.

Del lavoratore part-time, sempre in base alla tecnica di rinvio adottata, si terrà conto per la quota di orario effettivamente svolto, con la precisazione che per il computo delle unità lavorative si deve far riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore (Trib. Torre Annunziata 11.3.2009, che ha escluso la confi gurabilità di un licenziamento col-lettivo in un caso in cui il numero dei lavoratori interessati non era di 7ma, in proporzione dell’orario ordinario di lavoro svolto, di 1,75).

9.17 Requisiti soggettivi

È pacifi co che la disciplina dei licenziamenti collettivi si applichi agli operai, impiegati e quadri, e ciò in quanto è lo stesso co. 9 dell’art. 4, L. 223/1991, a disporre che, esaurita la pro-cedura o raggiunto l’accordo sindacale, il datore di lavoro ha la facoltà di collocare in mobilità le citate categorie di dipendenti.

Vi sono peraltro dubbi interpretativi circa la possibile applicazione della normativa anche ai dirigenti ed ai funzionari.

Dirigenti e garanzie procedimentaliIn relazione ai dirigenti vi sono tesi difformi in dottrina. Da un lato, una parte della dottrina

ritiene, con orientamento ritenuto preferibile, che la categoria dei dirigenti non rientri nell’am-bito di applicazione delle garanzie procedimentali dell’art. 4, L. 223/1991, sul presupposto, oltre che di natura interpretativa del dato testuale, che tale categoria di lavoratori è esclusa

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anche dalla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.Di contro, altra parte della dottrina ritiene invece che sia applicabile anche ai dirigenti la

procedura relativamente all’informazione e consultazione nonché ai criteri di scelta.Sul punto la giurisprudenza di merito ha escluso la fondatezza della questione di illegit-

timità costituzionale dell’art. 24, L. 223/1991, nella parte in cui esclude i dirigenti dall’appli-cazione della procedura ma ha altresì ritenuto non manifestamente infondata la questione con riguardo a «quei dirigenti» il cui rapporto «non risulti caratterizzato in maniera deter-minante dall’elemento fi duciario» (Pret. Sassari, 3.12.1996).

Quanto ai funzionari la giurisprudenza di merito sul punto è divisa, ritenendo talvolta che la categoria dei funzionari sia da assimilare a quella dirigenziale e talaltra a quella degli impie-gati.

Con riferimento alla fi gura dei funzionari nel settore del credito, la Suprema Corte ha ritenuto che gli stessi rientrino nell’ambito di applicazione della L. 223/1991 perché la fi gura del funzionario delle aziende di credito costituisce una qualifi ca di origine contrattuale che, sebbene ricompresa nell’ambito del personale direttivo, distinto da quello impiegatizio, si colloca in posizione inferiore a quella del dirigente, cosicché, in difetto di diverse disposizio-ni legislative, il principio generale ricavabile dall’ordinamento è nel senso del ricorso alle disposizioni concernenti gli impiegati in generale (Cass. 15.1. 2009, n. 857).

9.18 Requisiti causali

Sotto il profi lo causale l’art. 24, L. 223/1991, defi nisce come collettivo il licenziamento «conseguente ad una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro». Inoltre, la disciplina del licenziamento collettivo si applica anche alle ipotesi di cessazione dell’attività d’impresa (art. 24, co. 2) anche in concomitanza con un trasferimento d’azienda o di un suo ramo (Cass. 29.4.2009, n. 10005).

La giurisprudenza sviluppatasi a seguito dell’introduzione della L. 223/1991 ha superato il precedente indirizzo giurisprudenziale che riteneva esservi una differenza ontologica fra li-cenziamento collettivo e licenziamento individuale sul presupposto che il primo dovesse deri-vare esclusivamente da una contrazione non temporanea dell’attività produttiva dell’impresa che comportasse la soppressione di elementi materiali dell’organizzazione.

In altre parole, venivano esclusi dai licenziamenti collettivi i licenziamenti derivanti da ridu-zione o trasformazione dell’attività di lavoro, compresi i cd. licenziamenti tecnologici, nonché quelli derivanti dalla cessazione di attività.

A seguito del nuovo impianto normativo si è venuto a modifi care il precedente indirizzo giurisprudenziale.

L’attuale consolidato orientamento della Suprema Corte ritiene che nel nuovo assetto nor-mativo conseguente all’entrata in vigore della L. 223/1991 i licenziamenti collettivi si differen-ziano dai licenziamenti individuali plurimi per giustifi cato motivo oggettivo non più dal punto di vista ontologico o qualitativo – in quanto entrambi tali tipi di licenziamento sono caratterizzati dal necessario collegamento a motivi «non inerenti la persona del lavoratore» (come esplici-tamente precisa il principio normativo comunitario posto dall’art. 1, lett. a, della direttiva cita-ta) – ma esclusivamente per la necessaria sussistenza dei presupposti numerico-temporali richiesti dall’art. 24 della menzionata L. 223/1991 (Cass. 15.1. 2003, n. 525).

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Licenziamenti individuali e collettivi

9.19 Direttiva CEE n. 75/129

La Direttiva 75/129 è stata abrogata dalla Direttiva 98/59 del 20.7.1998, la quale all’art. 1 ha però ribadito che «per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato dal datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore».

Logica conseguenza di tale principio è che in presenza dei presupposti numerico-tempora-li, una volta accertato che la risoluzione del rapporto non è collegata a motivi inerenti la per-sona del lavoratore, deve senz’altro applicarsi la disciplina di cui alla L. 223/1991.

Tale impostazione è del tutto coerente con la disciplina comunitaria laddove, come già os-servato, essa dispone che il licenziamento collettivo sussiste per il fatto che la risoluzione del rapporto è determinata da motivi non inerenti la persona del lavoratore.

In considerazione di tali princìpi la dottrina ritiene che il legislatore italiano avrebbe preso atto della sostanziale sussumibilità delle ragioni di «riduzione o trasformazione di attività o di lavoro» previste dall’art. 24 nelle «ragioni attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa» previste dall’art. 3 della L. 604/1966 per la sus-sistenza del giustifi cato motivo oggettivo nel licenziamento individuale.

Sotto il profi lo applicativo, tale impostazione consente di ritenere che per la confi gurabilità del licenziamento collettivo occorre una riduzione non temporanea dell’attività produttiva ov-vero, alternativamente, una trasformazione strutturale dell’impresa che comporti riduzione di uffi ci, reparti o lavorazioni (ad esempio, in relazione all’adozione di innovazioni tecnologiche), purché ciò determini una contrazione della forza lavoro, atteso che in entrambi i casi i licen-ziamenti sono ricollegabili ad una scelta di carattere dimensionale dell’imprenditore (Cass. 7.11.1998, n. 11251).

Dunque, viene considerato licenziamento collettivo anche quello derivante da una riduzio-ne o trasformazione dell’attività di lavoro in conseguenza di una riorganizzazione e, quindi, anche nell’ipotesi di licenziamento tecnologico.

Secondo una recente pronuncia della Corte di Giustizia UE, gli artt. da 1 a 3 della direttiva del Consiglio in esame si applicano alla cessazione delle attività di un ente datore di lavoro conseguente ad una decisione giurisdizionale che dispone il suo scioglimento e la sua liquida-zione, anche qualora la normativa nazionale, nel caso di tale cessazione, preveda la risoluzio-ne con effetto immediato dei contratti di lavoro dei dipendenti. Ciò in quanto, fi no all’estinzione defi nitiva della personalità giuridica di un ente, gli obblighi derivanti da tali disposizioni devono essere adempiuti ed eseguiti dalla sua direzione, qualora essa resti in carica ancorché con poteri limitati, oppure dal suo liquidatore, laddove ne assuma integralmente la gestione (Cor-te di Giustizia Ue, 3.3.2011, da C-235/10 a C-239/10).

9.20 Licenziamento collettivo per riduzione dell’attività dell’impresa

Ancora, viene considerato licenziamento collettivo quello correlato alla riduzione o trasfor-mazione di attività o di lavoro determinata da una diminuzione delle richieste di beni e servizi offerti sul mercato, da una situazione di crisi o da una modifi ca dell’organizzazione produttiva che comportino soppressione di uffi ci, reparti, lavorazioni o anche soltanto contrazione della forza lavoro (Cass. 18.11.1997, n. 11465).

Col che, dunque, viene confermato che la fattispecie del licenziamento collettivo sussiste non solo quando la trasformazione strutturale dell’impresa incida su elementi materiali dell’organizzazione, comportando la soppressione di uffi ci o reparti, bensì anche quando la

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Licenziamenti individuali e collettivi

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trasformazione strutturale dipenda da una effettiva riduzione dell’attività produttiva o comun-que da un ridimensionamento aziendale per calo di commesse o per l’adozione di una nuova tecnologia che, da un lato, aumenti la produttività e, dall’altro, renda esuberante il personale impiegato.

In tale caso, infatti, il licenziamento collettivo è collegato ad una scelta di carattere dimen-sionale dell’imprenditore (Cass. 29.1. 1994, n. 895).

9.21 Verifi ca giudiziale della procedura

La portata interpretativa della giurisprudenza ha comportato una limitazione dell’indagine svolta da parte del giudice chiamato a decidere sulla legittimità dei licenziamenti intimati a seguito della procedura per riduzione del personale. Infatti, da un lato, l’accertamento del giudice è limitato alla verifi ca del nesso eziologico tra il progetto o la necessità di ridimensio-namento ed i singoli provvedimenti di licenziamento (Cass. 18.11.1997, n. 11465), dall’altro, non possono trovare spazio in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali si fi nisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di «effettive» esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. Tale principio trova conferma nel fatto che la puntua-le e completa procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi ha introdotto un signifi cativo elemento innovativo, consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concer-nente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, desti-natarie di incisivi poteri di informazione e consultazione. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifi ci motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustifi cato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifi -che violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fi ne di operare discriminazioni tra i lavoratori, si fi nisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva. (Cass. 21 febbraio 2011, n. 4150).)

Valga altresì osservare che in materia di licenziamento collettivo l’onere della prova della sussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 24, L. 223/1991 incombe sulla parte (datore di lavoro o lavoratore) che sostenga che il licenziamento presenti i requisiti indicati dalla norma, senza che rilevi la diversa ripartizione dell’onere probatorio prevista dall’art. 5, L. 604/1966, in tema di prova della giusta causa o del giustifi cato motivo, attesa l’inapplicabilità della predetta normati-va ai licenziamenti per riduzione di personale (art. 11, L. n. 604 cit.; Cass. 22.3.2010, n. 6849).

9.22 Requisiti numerico-temporali

L’art. 24, co. 1, recita testualmente che la normativa sui licenziamenti collettivi trova appli-cazione nell’ipotesi in cui l’imprenditore intenda «effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia».

Tale disposizione ha dato adito a numerosi problemi interpretativi sotto diversi profi li.

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Licenziamenti individuali e collettivi

Innanzitutto ci si è chiesti se al termine della procedura di mobilità il datore di lavoro debba comunque intimare effettivamente un numero di licenziamenti pari ad almeno cinque o se, di contro, si debba avere riguardo esclusivamente al numero di esuberi inizialmente denunciati nel programma di riduzione del personale, indipendentemente dai recessi in seguito effettiva-mente intimati dal datore di lavoro.

La risposta a tale problema interpretativo è stata risolta nel senso che ciò che rileva affi n-ché si possa rientrare nella fattispecie di licenziamento collettivo è il momento iniziale di de-nuncia dell’esubero: è suffi ciente che al momento dell’avvio della procedura emerga l’inten-zione dell’imprenditore di voler effettuare almeno 5 licenziamenti, e ciò a prescindere dal fatto che, in seguito, il numero dei licenziamenti effettivamente intimati sia inferiore alla soglia prevista dalla legge.

Tale interpretazione trova principale conferma nel dato testuale della disposizione in com-mento che fa espresso riferimento «all’intenzione» del datore di lavoro e, dunque, al momen-to iniziale di avvio della procedura.

In secondo luogo, siffatta interpretazione trova conferma nella stessa ratio della procedura di consultazione sindacale che è tesa proprio a ridurre il numero dei prospettati esuberi.

A favore di tale interpretazione è anche il Ministero del lavoro che con la circolare 62/1996 ha chiarito che «è corretta l’interpretazione per cui il numero dei licenziamenti collettivi può essere inferiore a cinque, purché al momento dell’avvio della procedura di mobilità il datore di lavoro abbia inteso procedere al licenziamento di almeno cinque unità».

Siffatta soluzione è accolta anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui per poter qua-lifi care un licenziamento come collettivo ex lege 223/1991 è suffi ciente che, all’atto di attivazione della procedura, il datore di lavoro intenda addivenire alla risoluzione di almeno cinque rapporti di lavoro, indipendentemente dalla circostanza che, nelle more della procedura, il numero inizia-le delle dichiarate eccedenze venga ridotto (Trib. Milano, 29 febbraio 2003). Tale orientamento è stato successivamente confermato dalla Suprema Corte (Cass. 22.1. 2007, n. 1334).

Diversa è l’ipotesi del datore di lavoro che, ammesso al benefi cio della CIGS e non essendo in grado di garantire il reimpiego dei lavoratori sospesi, intenda procedere al licenziamento collettivo: in tale ipotesi, infatti, la procedura di mobilità dovrà essere esperita indipendente-mente dal numero di lavoratori che, non essendo possibile riassorbire, devono essere colloca-ti in mobilità (Pret. Trieste, 8.8.1998).

Ipotesi diverse di cessazione del rapporto di lavoro e raggiungimento della soglia numerica delle cinque unità

Sotto altro profi lo, ci si è chiesti se comunque un numero di licenziamenti inferiore a cinque non possa essere integrato con altre forme di recesso dal rapporto di lavoro, quali dimissioni, anche incentivate, o risoluzioni consensuali, sì da ricostruire ex post una fattispecie altrimen-ti individuale sotto il profi lo meramente numerico.

A tale riguardo, la questione può dirsi risolta a seguito di diverse pronunce della Supre-ma Corte, la quale ha ancora di recente confermato che ai fi ni della sussistenza di un licen-ziamento collettivo e della applicabilità della relativa disciplina, il termine licenziamento va inteso in senso tecnico, non potendo ad esso parifi carsi qualunque altro tipo di cessazione del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazio-ne del rapporto siano riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze della forza lavoro che giustifi ca il ricorso ai licenziamenti (Cass. 29.3.2010, n. 7519). Tale principio si fonda sul presupposto che il dato testuale dell’art. 24 parla espressamente di almeno cinque licenziamenti ed il termine «licenziamento» nel nostro ordinamento costitu-

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isce uno specifi co evento risolutorio identifi cabile secondo precise e inconfondibili categorie concettuali normativamente regolate e diverse da tutte le altre fattispecie risolutorie.

Infi ne, si segnala che la giurisprudenza di legittimità di recente ha altresì precisato in modo innovativo che l’art. 24 citato deve essere interpretato nel senso che ove i licenziamenti adot-tati dal datore di lavoro nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito di una stessa provincia, comunque riconducibili alla medesima riduzio-ne o trasformazione di attività o di lavoro, non superino il numero minimo di cinque, non è possibile assimilare a questi altre cessazioni del rapporto di lavoro riconducibili ad iniziativa del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore; solo una volta raggiunto il numero di cinque licenziamenti nell’arco temporale di centoventi giorni, an-che altre ipotesi risolutorie restano assoggettate alle procedure di mobilità ed ai criteri di scelta dei lavoratori (Cass. 22.1. 2007, n. 1334).

9.23 Procedura

La L. 223/1991 prevede che, prima che possano essere intimati i licenziamenti collettivi ritenuti necessari, l’imprenditore deve esperire la procedura a carattere consultivo c.d. di mo-bilità.

Tale procedura è disciplinata dall’art. 4, commi da 2 a 12 nonché 15bis, ed è unica per en-trambe le fattispecie di licenziamento collettivo previste dall’art. 4 e dall’art. 24, L. 223/1991. Infatti, l’art. 24 richiama espressamente l’applicazione dei sopra citati commi dell’art. 4.

In linea generale tale procedura si suddivide in due fasi: la prima di consultazione in sede sindacale e la successiva, ed eventuale, in sede amministrativa presso i competenti uffi ci.

Consultazione in sede sindacale La prima fase deve essere esperita entro il termine di 45 giorni dalla data di ricevimento

della comunicazione di avvio trasmessa dal datore di lavoro ai destinatari previsti ex lege (art. 4, co. 6).

Consultazione in sede amministrativaLa seconda eventuale fase ha una durata massima di 30 giorni a partire dal ricevimento da

parte dell’uffi cio competente dell’esito della consultazione tenutasi in sede sindacale (art. 4, co. 7).

Tali termini sono ridotti a metà se il licenziamento collettivo coinvolge un numero di lavo-ratori inferiore a 10 unità (art. 4, co. 8).

TerminiIn relazione a tali termini si osserva che la legge stabilisce solo un termine massimo ma

non fornisce alcuna indicazione di un termine minimo al raggiungimento del quale scatta la facoltà dell’imprenditore di procedere ai licenziamenti.

Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che va dichiarata l’ineffi cacia dei licenziamenti collettivi intimati in un momento antecedente all’esaurimento della procedura di mobilità pre-vista dai commi 6, 7 e 8 dell’art. 4, L. 223/1991 o al raggiungimento, in seno a detta procedura, di un accordo sindacale (Cass. 2.8.2001, n. 10576). Ovvia conseguenza di tale principio è che in assenza di un accordo sindacale i licenziamenti devono essere intimati solo a seguito dell’e-saurimento di tutta la proceduta (45 + 30 giorni).

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Licenziamenti individuali e collettivi

Sotto altro profi lo la Corte di legittimità ha affermato che i termini indicati dall’art. 4 non sono posti a tutela dei lavoratori bensì del datore di lavoro, a garanzia che la procedura non venga procrastinata oltre il tempo ritenuto dal legislatore congruo per la ricerca di ogni possi-bile superamento della situazione determinante la necessità di riduzione del personale.

Tale orientamento si pone in linea con quanto già affermato in precedenza dalla giurispru-denza di merito che aveva ritenuto la natura ordinatoria di tali termini, sì che il superamento della durata massima consentita dalla legge non comporta la violazione della procedura di mobilità (Pret. Torino, 5.1. 1993).

9.24 Consultazione in sede sindacale

Destinatari dell’obbligo di informazioneLa procedura ha inizio con l’invio di un’apposita comunicazione scritta, che deve avere i

determinati contenuti previsti dall’art. 4, co. 2, L. n. 223/1991, alle rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell’art. 19 della L. 20.5.1970, n. 300 nonché alle rispettive associa-zioni di categoria (ovvero alle associazioni nell’ambito delle quali tali rappresentanze sono state costituite). In assenza delle predette rappresentanze, la comunicazione deve essere in-viata alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale (art. 4, co. 2).

La disposizione legislativa precisa, inoltre, che la comunicazione di avvio della procedura può essere effettuata anche per il tramite dell’associazione datoriale alla quale l’impresa ade-risce o conferisce mandato.

Esame congiuntoTale comunicazione deve essere trasmessa anche all’organo amministrativo competente in

materia di procedure di consultazione nell’ambito di operazioni di riduzione di personale. In relazione a ciò, la L. 23.12.1997, n. 469, in materia di «conferimento alle regioni e agli enti lo-cali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro» ha attribuito alla Regione la compe-tenza a promuovere «l’esame congiunto previsto nelle procedure relative agli interventi di in-tegrazione salariale straordinaria nonché quello previsto per la dichiarazione di mobilità del personale» (art. 2, L. 469/1997). Si segnala che in talune Regioni la competenza in materia di esame congiunto è stata demandata a livello provinciale in virtù di leggi regionali speciali.

Così che, in base a tale legge di devoluzione regionale, per le procedure di riduzione del personale non è più competente la Direzione territoriale del lavoro.

Comunicazione alle associazioni sindacali dei lavoratoriL’interpretazione letterale dell’art. 4, c. 2, L. 223/1991, induce ragionevolmente a rite-

nere che in presenza di RSA o RSU (dopo gli Accordi Interconfederali del 3.7.1993 e del 12.12.successivo) la comunicazione vada inoltrata alle sole associazioni sindacali territo-riali nel cui ambito le RSA/RSU siano state costituite ai sensi dell’art. 19 S. L., e non anche alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.

Tale interpretazione ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza più recente ma non sono mancate in passato pronunce in senso contrario.

Pertanto, qualora vi siano RSA o RSU in azienda, «la titolarità del diritto all’informativa e alla consultazione non spetta alle organizzazioni sindacali che non abbiano costituito rappre-

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Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

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sentanze sindacali aziendali» (Pret. Milano, 26.6.1997).Inoltre, in presenza di più sigle sindacali la comunicazione deve essere indirizzata e tra-

smessa a ciascuna sigla (anche se contestualmente alle altre), non essendo suffi ciente un’u-nica comunicazione cumulativa ad un soggetto.

Uffi cio del Lavoro competenteInfi ne, rimane da considerare quale sia l’Uffi cio del Lavoro competente nell’ipotesi in cui la

procedura di mobilità riguardi più unità produttive dislocate in diverse province o in diverse regioni.

Nell’ipotesi in cui si tratti di impresa che abbia fruito del periodo di Cassa integrazione straordinaria, il co. 15 dell’art. 4 prevede che sia competente l’Uffi cio Regionale del Lavoro se la mobilità riguarda più province ed il Ministero del lavoro se la procedura di mobilità riguarda più regioni.

Peraltro, si segnala che, in linea con tale disposizione e con la riforma sulle attribuzioni dei compiti agli enti locali, il D.P.R. 10.6.2000, n. 218, relativo alla semplifi cazione del procedimen-to per la concessione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria, stabilisce all’art. 2, co. 3, che competente per l’esame congiunto è la Regione qualora «l’intervento ri-guardi unità aziendali ubicate in una sola regione»; il Ministero del lavoro «qualora l’interven-to riguardi unità aziendali ubicate in più regioni».

Per quanto riguarda, invece, la procedura di mobilità relativa a più unità produttive disloca-te in diverse province o regioni attuata senza il preventivo ricorso alla CIGS, l’art. 24, L. 223/1991, richiama i commi da 2 a 12 dell’art. 4, e non anche il co. 15.

Sul punto, a seguito del conferimento a livello regionale della materia che qui interessa si dovrebbe poter ritenere che la competenza spetti in ogni caso alla Regione.

È invece escluso che i lavoratori coinvolti nella procedura di mobilità rientrino nel novero dei soggetti destinatari della comunicazione di avvio della procedura (Cass. 5.4.2000, n. 4228).

Comitato aziendale europeoIl D.Lgs. 2.4.2002, n. 74, ha attuato la Direttiva comunitaria 45/1994 del 22.9.1994 relativa

all’istituzione di un Comitato aziendale europeo (cd. CAE) o di una procedura per l’informazio-ne e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comu-nitaria.

Tale decreto, che è ispirato a migliorare il diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nelle imprese nelle quali si applica, fa espressamente salva la disposizione dell’art. 24, L. 223/1991, e stabilisce altresì al co. 10 dell’art. 16 che il CAE ha diritto di essere informa-to «qualora si verifi chino circostanze eccezionali che incidano notevolmente sugli interessi dei lavoratori, in particolare nel caso di delocalizzazione, chiusura di imprese o di stabilimenti, oppure licenziamenti collettivi».

Comunicazioni preventive previste dai contratti collettiviI contratti collettivi possono talvolta stabilire un obbligo preventivo a carico del datore di

lavoro di informazione e/o consultazione delle RSA o RSU presenti in azienda circa l’intenzione di procedere alla riduzione del personale, e ciò prima ancora dell’avvio uffi ciale della c.d. pro-cedura di mobilità.

Comunicazione di avvio della proceduraLa comunicazione di avvio della procedura deve contenere (art. 4, co. 3, come modifi cato

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Licenziamenti individuali e collettivi

dal D.Lgs. 26.5.1997, n. 151):- l’indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza;- l’indicazione dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali si ritiene di non poter

adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità;

- l’indicazione del numero, della collocazione aziendale e dei profi li professionali del persona-le eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato;

- l’indicazione dei tempi di attuazione del programma di mobilità;- l’indicazione delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano

sociale della attuazione del programma medesimo;- l’indicazione del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già

previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva. Alla comunicazione deve essere allegata copia della ricevuta di versamento all’Inps del contributo di ingresso previsto dall’art. 5, co. 4, L. 223/1991, ciò solo nel caso in cui l’impresa rientri nel campo di applica-zione della CIGS.

Inadempimento degli obblighi di informazioneIl contenuto della comunicazione ex art. 4, co. 3, deve essere tale da consentire all’interlo-

cutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sul-la programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che sono ineffi caci i licenziamenti comminati in esito ad una procedura di mobilità la cui comunicazione di avvio non rechi l’in-dicazione dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi che impediscono l’adozione di misure atte ad evitare la dichiarazione di mobilità (Cass. 11.4.2003, n. 5770), atteso che tale infor-mazione deve consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando an-che la possibilità di misure alternative all’esubero, con la conseguenza che l’incompletezza delle informazioni in questione risulta ontologicamente impeditiva di una profi cua parteci-pazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato (Cass. 9.8.2004, n. 15377). Peraltro, ha precisato la stessa Corte di Cassazione, la suffi cienza dei contenuti della comunicazione preventiva deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al controllo giurisdizionale, cosicché, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimen-sionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fi ne di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura, che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione o, comunque, incentrato sul-la maggiore prossimità del diritto a pensione (Cass. 13.1. 2012, n. 391; in senso analogo, Cass. 1.12.2010, n. 24343).

Parimenti, nell’ipotesi di cessazione totale dell’attività aziendale, non sussiste l’obbligo da parte dell’imprenditore di specifi care i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupaziona-li, proprio perché tale informazione si giustifi ca in funzione della possibilità di reimpiego dei lavoratori denunciati in esubero, situazione che presuppone la continuazione dell’attività di impresa (Cass. 4.11.2000, n. 14416).

Cosiccome il datore di lavoro non è tenuto a motivare circa la ravvisata impossibilità di ri-correre a misure diverse dal licenziamento, ove il progetto di ristrutturazione riguardi la chiu-sura di un settore aziendale del tutto autonomo, tale da escludere la fungibilità del personale

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Licenziamenti individuali e collettivi

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addettovi con quello restante (Cass. 10.5.2003, n. 7169).Quanto, invece, ai criteri di scelta, il datore di lavoro può legittimamente ometterne il rife-

rimento nella comunicazione di avvio poiché tali criteri, che possono essere di fonte legale oppure contrattuale, non possono essere fi ssati unilateralmente dall’imprenditore (Cass. 25 febbraio 1999, n. 1649).

L’inadeguatezza delle informazioni determina l’ineffi cacia dei licenziamenti intimati all’esi-to della procedura.

Si segnala, peraltro, che l’art. 1, co. 45, della recente L. 92/2012, ha aggiunto un periodo all’articolo 4, co. 12, della L. 223/1991, prevedendo che gli eventuali vizi della comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria – con la quale inizia la procedura di licenziamento collettivo in esame – possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della medesi-ma procedura.

La novella legislativa si inserisce nel solco del più recente orientamento giurisprudenziale in tema di procedura di mobilità secondo cui, quando sia stato raggiunto un accordo sindacale, il controllo giurisdizionale ex post su legittimità e correttezza della procedura (in relazione agli artt. 4 e 5 della L. 223/1991) si risolve nella verifi ca dell’idoneità della comunicazione di avvio alle orga-nizzazioni sindacali a fuorviare od eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali. Coerentemente, nel caso in cui sia stato raggiunto l’accordo sindacale, eventuali vizi (quali l’incompletezza o l’erroneità) della stessa comunicazione di avvio della proce-dura non sono rilevanti al fi ne dell’ineffi cacia del licenziamento intimato all’esito della procedura, ove non risulti dimostrata la idoneità effettiva dei vizi denunciati a fuorviare od eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali (Cass. 19.1. 2012, n. 750).

Contributo di ingressoLe imprese benefi ciarie del trattamento di integrazione salariale straordinaria sono tenute a

versare il contributo c.d. di ingresso all’Inps, che consiste in un’anticipazione pari ad una mensilità di massimale CIGS per ogni lavoratore denunciato in esubero (art. 4, co. 3). La ricevuta del versa-mento così effettuato deve essere allegata alla comunicazione di avvio della procedura da trasmet-tere alle organizzazioni sindacali di cui al co. 2 dell’art. 4 ed all’Uffi cio del lavoro competente.

Tale versamento è un’anticipazione di quanto le imprese suddette devono complessiva-mente versare all’Inps. In particolare, l’importo complessivo è di 9 volte il trattamento mensi-le iniziale di mobilità spettante al lavoratore moltiplicato per ciascun lavoratore dichiarato in esubero per le imprese che, benché ammesse al trattamento di integrazione salariale, non abbiano esperito il ricorso alla CIGS prima di procedere al licenziamento collettivo (art. 24, co. 3). Per le imprese che, invece, procedono al licenziamento collettivo a seguito di un periodo di Cassa integrazione guadagni straordinaria, il contributo complessivo è pari a 6 volte il tratta-mento mensile iniziale di mobilità spettante a ciascun lavoratore (art. 5, co. 4).

In caso di raggiungimento dell’accordo sindacale il contributo di mobilità dovuto sia ex art. 4 che ex art. 24 è ridotto a 3 mesi (art. 5, co. 4 e art. 24, co. 3).

La disciplina in commento prevede, poi, la possibilità per gli imprenditori di versare il con-tributo in 30 rate mensili (art. 4, co. 3).

Inoltre, nel caso in cui l’azienda collochi in mobilità un numero di lavoratori inferiore a quanto dichiarato in esubero la medesima può procedere al recupero delle somme pagate in eccedenza mediante conguaglio con i contributi dovuti all’Inps (art. 4, co. 10).

Infi ne, l’art. 8, co. 8, L. 236/1993, dispone che il mancato versamento del contributo di mo-bilità non comporta la sospensione della procedura di mobilità né la perdita da parte dei lavo-ratori interessati del diritto a percepire l’indennità di mobilità.

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Licenziamenti individuali e collettivi

Il trattamento di integrazione salariale, cui è rapportata l’indennità di mobilità, viene deter-minato di anno in anno. Secondo la circolare Inps 8 febbraio 2012, n. 20, per l’anno 2012 il massimale mensile è pari a Euro 931,28 lordi per le retribuzioni mensili sino a Euro 2.014,77, ed Euro 1.119,32 lordi per le retribuzioni mensili che superano la soglia di Euro 2.014,77.

L’indennità di mobilità viene corrisposta mensilmente dall’Inps.

Disposizioni transitorie e abrogatio legis in relazione alla indennità di mobilitàLa recente L. 92/2012 ha introdotto un nuovo istituto denominato “Assicurazione Sociale

per l’Impiego” – Aspi, gestito dall’Inps, gestioni prestazioni temporanee, con la funzione di fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un’inden-nità mensile di disoccupazione. Detta indennità mensile di disoccupazione si sostituirà dal 2016 all’indennità di mobilità. Dal 2013 al 2016 si assisterà, invece, a una graduale diminuzio-ne del periodo di mobilità. In particolare, l’art. 2, comma 46, della L. 92/2012 disciplina il re-gime transitorio applicabile ai lavoratori collocati in mobilità, in relazione al periodo dal 1º gennaio 2013 al 31 dicembre 2016. Viene defi nita la durata massima decrescente del tratta-mento di mobilità da attribuire ai lavoratori collocati in mobilità per ciascuno degli anni 2013/2016, rapportando la durata del trattamento medesimo all’età dei lavoratori interessati. In tal senso viene stabilita in dodici mesi la durata minima attribuibile ai lavoratori più giovani, e in quarantotto mesi la durata massima decrescente attribuibile ai lavoratori più anziani. In-fi ne, l’art. 2, commi 70 e 71, della L. 92/2012 abroga le disposizioni della L. 223/1991 in tema di intervento straordinario di integrazione salariale a decorrere dal 1° gennaio 2016 e quelle in materia di indennità di mobilità dal 1° gennaio 2017.

Esame congiuntoUna volta inoltrata la comunicazione di avvio della procedura di mobilità ai destinatari

previsti ex lege, entro sette giorni dal ricevimento dell’ultima comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni di categoria, si pro-cede all’esame congiunto tra le parti (art. 4, co. 5). Lo scopo della consultazione sindacale è quello di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza del persona-le e la possibilità di utilizzazione diversa di tutto o di parte del personale in esubero, anche mediante contratti di solidarietà e forme fl essibili di gestione del tempo di lavoro. Inoltre, l’esame ha per oggetto anche la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamen-to intese, in particolare, a facilitare la riqualifi cazione e la riconversione dei lavoratori in esubero. I rappresentanti sindacali dei lavoratori possono farsi assistere anche da esperti.

La titolarità di richiedere l’esame congiunto spetta ad ogni componente della RSU (Trib. Mi-lano, 26.2.1999) e il datore di lavoro non ha la possibilità di escludere dalla procedura di consul-tazione un sindacato a sua discrezione, pena la confi gurabilità di una condotta antisindacale.

Nell’ambito della consultazione sindacale il datore di lavoro è tenuto al rispetto degli obbli-ghi di correttezza e buona fede: l’indisponibilità o il rifi uto a trattare con le organizzazioni sin-dacali costituisce condotta antisindacale (Pret. Milano, 25.3.1994).

Al di là dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, il datore di lavoro non ha invece alcun obbligo di raggiungere l’accordo sindacale.

Nell’ipotesi in cui le parti raggiungano l’accordo sindacale, l’imprenditore ha facoltà di col-locare in mobilità il personale in esubero. Laddove, invece, l’accordo non venga raggiunto, esaurito il periodo temporale di 45 giorni previsto dalla legge si passa alla successiva fase in sede amministrativa.

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Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

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Accordo sindacaleAbbiamo già osservato come il datore di lavoro non abbia alcun obbligo di concludere un

accordo con le rappresentanze sindacali.Laddove, invece, le parti collettive riescano a raggiungerlo, la procedura deve intendersi

esaurita e il datore di lavoro può procedere a collocare i lavoratori in mobilità. Con la conclu-sione dell’accordo l’onere fi nanziario dell’imprenditore relativo al contributo di mobilità si ri-duce considerevolmente: come abbiamo già accennato sopra, dalle 9 mensilità per i licenzia-menti collettivi ex art. 24, e dalle 6 mensilità per quelli ex art. 4, il contributo scende complessivamente a tre mesi (art. 24, co. 3, e art. 5, co. 4).

Il contenuto dell’accordo sindacale può essere vario. Le parti possono stabilire convenzio-nalmente i criteri di scelta da osservare per il licenziamento del personale in esubero in dero-ga ai criteri legali previsti dall’art. 5, oppure pattuire il ricorso a misure alternative, quali la CIGS o i contratti di solidarietà, o il ricorso collettivo e generalizzato al part-time, oppure an-cora possono stabilire il riassorbimento, totale o parziale, degli esuberi.

Inoltre, l’art. 4, co. 11, L. 223/1991, prevede che le parti possano stabilire, anche in deroga al secondo co. dell’art. 2103 c.c., l’assegnazione di tutto o parte del personale in esubero a mansioni diverse ed inferiori sotto il profi lo dell’equivalenza professionale rispetto a quelle svolte.

L’art. 8, co. 2, L. 236/1993 prevede altresì che gli accordi sindacali possano regolare il co-mando o distacco di uno o più lavoratori dall’impresa di appartenenza ad un’altra per una du-rata temporanea.

Il contenuto dell’accordo sindacale può anche riguardare il periodo temporale entro il qua-le i licenziamenti devono essere intimati, in deroga a quanto disposto dalla legge. Infatti, l’art. 8, co. 4, L. 236/1993, stabilisce che la facoltà di collocare in mobilità i dipendenti in esubero deve essere esercitata per tutti i lavoratori oggetto della procedura di mobilità entro 120 gior-ni dalla conclusione della procedura medesima ma attribuisce nel contempo alle parti collet-tive la facoltà di derogare a tale termine.

La norma non dispone nulla circa il limite massimo possibile consentito per la deroga. La dottrina espressasi sul punto ha ritenuto che debba ritenersi legittima non solo la deroga ai 120 giorni bensì anche una proroga superiore che sia giustifi cata in base alle caratteristiche del caso concreto.

Effi cacia degli accordi collettiviCon riguardo all’effi cacia dell’accordo sindacale, la dottrina è divisa: a fronte di chi ritiene

che tali tipi di accordi non possano che avere effi cacia erga omnes, e quindi debbano valere nei confronti di tutti i lavoratori interessati a prescindere dalla loro affi liazione ad una organizza-zione sindacale, vi è una parte minoritaria che esclude la loro effi cacia soggettiva generalizza-ta in assenza dell’accettazione e della specifi ca procura dei singoli lavoratori interessati.

La scarna giurisprudenza di merito sul punto ha aderito al primo dei succitati orientamen-ti dottrinali, ritenendo che gli accordi collettivi di cui alla L. 223/1991, che intervengono sui criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità e/o in CIG, in quanto gestionali, e cioè tali da introdurre limitazioni al potere originario ed unilaterale del datore di lavoro, sono direttamen-te applicabili ai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti (Pret. Brindisi, 23.9.1999).

Peraltro la questione è stata defi nitivamente risolta dalla Consulta che con la sentenza 268/1994 ha ritenuto di generale applicazione i criteri di scelta eventualmente indicati dall’accor-do sindacale raggiunto all’esito della procedura di mobilità, arrivando in tal modo, sia pure indi-rettamente, a riconoscere un’effi cacia soggettiva generalizzata a tali tipi di contratto collettivo.

Quanto, poi, alla problematica relativa alla possibilità che l’accordo non venga accettato da tut-te le organizzazioni sindacali coinvolte, anche su questo punto la dottrina non ha espresso opinioni

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86 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

concordi. Da un lato, infatti, vi sono autori che ritengono necessaria l’accettazione dell’accordo da parte di tutti i soggetti sindacali che sono coinvolti nella procedura e che hanno chiesto l’esame congiunto. Dall’altro lato, altri autori sostengono che l’accordo possa considerarsi validamente raggiunto anche se non accettato da tutte le componenti sindacali, e ciò sul presupposto che la ratio della legge in commento privilegia in ogni caso la soluzione contrattuale.

Alla stregua del principio affermato dalla Corte Costituzionale, la Suprema Corte ha statu-ìto che, in materia di licenziamenti collettivi, l’accordo sindacale che determina i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare possa essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori di-rettamente o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità dell’approvazione dell’unanimità, poiché esso adempie ad una funzione regolamentare dele-gata dalla legge (Cass. 24.4.2007, n. 9866).

Oggi tuttavia entrambe le problematiche sopra riportate sembrano essere state risolte dal Le-gislatore. Infatti, la recente L. 14.9.2011, n. 148 (cd. Manovra Bis, di conversione del D.L. 13.8.2011 n. 138), all’art. 8 stabilisce che i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territo-riale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali presenti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti possono realizzare specifi che intese aventi effi cacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati (effi cacia cd. erga omnes), a condizione di essere sotto-scritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali. Tra le fi nalità che deve perseguire la cd. contrattazione collettiva “di prossimità” perché si realizzi l’effi -cacia erga omnes, l’art. 8 succitato annovera anche la “gestione delle crisi aziendali”, con evidente riferimento agli accordi in tema di cassa integrazione e di mobilità.

9.25 Consultazione in sede amministrativa

Qualora non venga raggiunto l’accordo sindacale, decorso il termine di 45 giorni il datore di lavoro deve comunicare all’uffi cio competente il risultato della consultazione e i motivi del suo esito negativo. Analoga comunicazione può essere trasmessa anche dalle associazioni sinda-cali dei lavoratori (art. 4, co. 6).

Lo scopo di tale seconda fase è evidentemente un ulteriore esame congiunto che possa sfociare eventualmente in un accordo sindacale. Infatti, l’uffi cio preposto convoca le parti al fi ne di un esame delle materie di cui al co. 5, art. 4 citato, anche formulando proposte per la realizzazione dell’accordo.

Tale seconda fase non può avere una durata superiore a 30 giorni dal ricevimento da parte dell’uffi cio della comunicazione sull’esito negativo della prima fase in sede sindacale (ridotti a metà se il licenziamento coinvolge un numero di lavoratori inferiore a 10 unità) (art. 4, co. 7).

Anche durante tale seconda fase, dunque, le parti possono raggiungere l’accordo sindaca-le, dopodiché il datore di lavoro ha facoltà di procedere ai licenziamenti. Diversamente, al da-tore di lavoro non resta che lasciare esaurire il termine di 30 giorni per poi poter procedere ad intimare i licenziamenti ritenuti necessari.

9.26 Comunicazione del licenziamento

Come già detto precedentemente, raggiunto l’accordo sindacale o esaurita la procedura, il datore di lavoro ha la facoltà di collocare in mobilità gli impiegati, gli operai ed i quadri ecce-

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denti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso nel rispetto dei termini di preavvi-so (art. 4, co. 9).

La forma scritta del licenziamento è prescritta a pena dell’ineffi cacia del licenziamento medesimo (art. 4, co. 12).

La comunicazione di recesso deve contenere unicamente la notizia del licenziamento senza alcuna necessità di motivazione, poiché la tutela dei lavoratori è affi data alla dettagliata rego-lamentazione della procedura di mobilità (Cass. 10.6.1999, n. 5719).

Pertanto, il lavoratore non è destinatario delle informazioni previste dalla procedura di mobilità e nemmeno di quelle riguardanti i criteri di scelta applicati (Cass. 26.9.2000, n. 12711).

9.27 Comunicazione ex art. 4, co. 9, L. 223/1991

In base all’art. 4, comma 9, L. 223/1991, come modifi cato dall’art. 1, comma 44, L. 92/2012, entro sette giorni dalla comunicazione di recesso a ciascun lavoratore coinvolto nella proce-dura di licenziamento collettivo, l’imprenditore è tenuto altresì a comunicare per iscritto all’Uf-fi cio regionale del lavoro e della massima occupazione, alla Commissione regionale per l’im-piego e alle associazioni di categoria di cui al comma 2 dell’art. 4, L. 223/1991 (ovvero quelle cui ha inviato la comunicazione d’apertura della procedura di mobilità) l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto di alcuni dati.

Prima della introdotta modifi ca legislativa, tale comunicazione doveva essere contestuale alla comunicazione di recesso a ciascun lavoratore coinvolto nella procedura di licenziamento collettivo.

Comunicazione all’Uffi cio regionale del lavoro e della massima occupazione, alla Commis-sione regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria

La comunicazione riguarda l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità e l’indicazione per ciascun soggetto dei seguenti dati:● nominativo; ● luogo di residenza; ● qualifi ca; ● livello di inquadramento;● età e carico di famiglia.

Nella medesima comunicazione il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire la puntuale indica-zione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta (art. 4, comma 9).

9.28 Verifi ca della legittimità del recesso

A differenza dei licenziamenti individuali, per i quali la verifi ca della legittimità del recesso è attribuita al giudice sulla base dei motivi posti a fondamento del recesso, nei licenziamenti collettivi il controllo sulla legittimità del recesso è collegato al rispetto degli adempimenti formali degli atti della procedura, con la conseguenza che l’inosservanza delle prescrizioni procedurali rende ineffi cace il recesso intimato.

Dal punto di vista pratico la comunicazione non può risolversi in una invocazione dei criteri di scelta previsti dalla legge o dall’accordo sindacale ma è indispensabile che il datore di lavo-

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ro espliciti le modalità con le quali tali criteri sono stati applicati ed utilizzati nel caso concreto.Sì che non è suffi ciente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunica-

zione dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, né la predisposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva dei criteri stessi, poiché vi è necessità di control-lare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previ-sti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per la individuazione dei dipendenti da licenziare (Cass. 8.11.2003, n. 16805).

9.29 Criteri di scelta

Ai sensi dell’art. 5, L. 223/1991, l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso azien-dale, nel rispetto dei criteri eventualmente previsti dagli accordi stipulati con i sindacati indi-viduati quali destinatari della comunicazione di avvio della procedura di mobilità (art. 4, co. 2). In mancanza di tali accordi l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro: 1) carichi di famiglia; 2) anzianità; 3) esi-genze tecnico-produttive ed organizzative.

La legge, pertanto, prevede due fonti di individuazione dei criteri di scelta: la fonte legale, che si applica solo in mancanza di un accordo, e la fonte convenzionale.

Secondo il costante insegnamento della Corte di legittimità, la previsione dell’art. 4, co. 9, L. 223/1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione ivi prevista deve dare una “pun-tuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specifi care nella detta comunica-zione le sue modalità applicative, in modo che la stessa raggiunga quel livello di adeguatezza suf-fi ciente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato de-stinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori - e non lui - avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o licenziati.

Discende dal suddetto principio che, poiché la specifi cità dell’indicazione delle modalità di applicazione del criterio di scelta adottato è funzionale a garantire al lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo la piena consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su di lui, in modo da consentirgli una puntuale contestazione della misura espulsiva, il parametro per valutare la conformità della comunicazione al dettato di cui all’art. 4, co. 9 sopra citato, deve essere individuato nell’idoneità della comunicazione, con riferimento al caso concreto, di garantire al lavoratore la suddetta consapevolezza (Cass. 6.6.2011, n. 12197).

Criteri di fonte legaleCome già osservato, i criteri previsti dalla legge si applicano solo in via residuale laddove le

parti collettive non abbiano raggiunto un accordo sindacale.La ripetizione del criterio oggettivo delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative all’i-

nizio e alla fi ne dell’articolo in commento è stata interpretata dalla dottrina prevalente nel senso che tale criterio ha la funzione di delimitare nel complesso aziendale l’ambito all’interno del quale devono essere effettuati i licenziamenti e deve essere scelto il personale ritenuto in esubero.

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Concorrenza tra i differenti criteriUna volta delimitato l’ambito entro il quale effettuare la riduzione del personale in funzione

delle necessità aziendali, la scelta concreta dei singoli lavoratori da collocare in mobilità deve essere fatta in base ai tre criteri in concorso tra loro.

In linea generale, al fi ne di verifi care l’entità dei carichi di famiglia, l’orientamento dottrinale prevalente tende a prendere in considerazione la documentazione relativa agli assegni familiari.

Quanto al diverso criterio relativo all’anzianità, essa deve intendersi quella di servizio del lavoratore (Cass. 19.5.2006, n. 11886).

Infi ne, le esigenze tecnico-produttive ed organizzative di cui al terzo criterio di scelta lega-le non attengono alla valutazione del rendimento produttivo del dipendente ma devono riguar-dare il contenuto oggettivo delle mansioni e la esuberanza di tali mansioni rispetto alle esi-genze aziendali.

La legge dispone che tali criteri debbano essere considerati in concorso tra loro. Sul punto, la giurisprudenza ha assunto un orientamento non univoco, ritenendo talvolta la prevalenza delle esigenze tecnico-produttive e, talaltra, escludendolo.

Parte della dottrina ha ritenuto al riguardo che, a parità di condizioni oggettive, l’ordine di elencazione è tassativo e la legge sancisce la prevalenza del fattore dei carichi di famiglia su tutti gli altri e quella del fattore dell’anzianità rispetto all’esigenza organizzativa.

Quanto, poi, all’ambito entro il quale la comparazione deve essere effettuata al fi ne della selezione dei dipendenti da collocare in mobilità secondo i criteri legali, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che deve tenersi conto di tutti i lavoratori dell’azienda (salvo che que-sta risulti ripartita in singole unità produttive), in modo da comparare tra di loro le posizioni di lavoratori di analoga professionalità e di simile livello (Cass. 29.11.1999, n. 13346).

Criteri di scelta: comparazione tra lavoratoriPertanto, secondo l’orientamento della Suprema Corte la comparazione deve avvenire

nell’ambito dell’intero complesso organizzativo e produttivo tra dipendenti aventi analoghe professionalità, a meno che il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esaustivo ed esclusivo ad un settore dell’azienda (Cass. 20.2.2012, n. 2429).

Ne discende che è arbitraria ed illegittima ogni decisione del datore diretta a limitare l’am-bito di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, se ciò non sia strettamente giustifi cato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale. La delimitazione dell’ambito aziendale di individuazione dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive e organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, co. 3, L. 223/1991, quando cioè gli esposti mo-tivi dell’esubero, e le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerente-mente a limitare la platea dei lavoratori oggetto di scelta. Per converso, non si può, invece, riconoscere in tutti i casi una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla “collocazione del personale” indicato dal datore nella comunicazione di cui all’art. 4 e la precostituzione dell’area di scelta (Cass. 29.4.2009, n. 9991).

Tuttavia, non mancano pronunce della giurisprudenza di legittimità che ritengono che, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unità operativa o ad uno specifi co settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fi ne di in-dividuare quelli da avviare alla mobilità, non deve necessariamente interessare l’intero com-plesso aziendale (a parità di attitudini professionali), ma può avvenire, secondo una scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle “esigenze tecnico-produttive”, nell’ambito della unità produttiva ovvero del solo settore interessato dalla ristrutturazione (Cass. 20.6.2007, n. 14339).

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Licenziamenti individuali e collettivi

Criteri di scelta convenzionaliLe parti collettive possono pattuire criteri di scelta da applicare per la selezione dei dipen-

denti in esubero in deroga a quelli previsti dalla legge. Come statuito dalla Suprema Corte, la contrattazione collettiva è libera di scegliere qualsiasi criterio, purché esso sia tale e cioè sia un criterio e non direttamente la scelta, e sia rivolto a tutelare gli interessi dei lavoratori nella logica della riduzione delle conseguenze negative dei licenziamenti e non sia, infi ne, discrimi-natorio (Cass. 13.1. 2012, n. 391).

Effi cacia degli accordi sindacaliLa questione dell’effi cacia degli accordi in questione è stata ormai risolta dalla Corte costi-

tuzionale con la sentenza del 22.6.1994, n. 268, che li ha defi niti quali accordi c.d. gestionali o di procedimentalizzazione.

La Consulta ha chiarito che tali accordi sindacali non appartengono alla specie dei contrat-ti collettivi normativi destinati a porre la disciplina dei rapporti individuali di lavoro, trattando-si di contratti appartenenti ad un diverso tipo, la cui effi cacia diretta si esplica esclusivamente nei confronti dell’imprenditore stipulante.

Solo indirettamente perciò questi contratti incidono nella sfera del singolo lavoratore tra-mite l’atto di recesso del datore di lavoro attuato nel rispetto dei criteri di scelta concordati sindacalmente. Dunque gli accordi in questione hanno ad oggetto la sola determinazione dei modi e delle condizioni con cui verrà esercitato il potere organizzativo dell’imprenditore, la cui natura unitaria giustifi ca l’effi cacia nei confronti di tutti i dipendenti dell’accordo che lo regola (C. Cost. 22.6.1994, n. 268).

Le parti collettive sono libere di scegliere i criteri di selezione del personale da licenziare purché, sempre secondo la Consulta, tali criteri convenzionalmente pattuiti non siano contra-ri a norme imperative di legge e siano posti nel rispetto dei princìpi di non discriminazione e di razionalità.

Sulla base di tali premesse l’elaborazione giurisprudenziale che ne è conseguita ha ricono-sciuto la legittimità del ricorso al criterio del raggiungimento dei requisiti pensionistici duran-te il collocamento in mobilità, oppure delle sole esigenze tecnico-produttive, o ancora quello della più elevata anzianità pensionabile (Cass. 24.4.2007, n. 9866).

Inoltre, come già evidenziato, per espressa previsione dell’art. 8 L. n. 148/2011, gli accordi collettivi in esame - fi nalizzati alla “gestione delle crisi aziendali” - hanno effi cacia nei con-fronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario relativo alle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero alle loro rappresentanze sindacali presenti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti.

Esigenze tecnico-produttiveIn relazione ai collocamenti in mobilità e ai licenziamenti collettivi, il principio previsto dagli

artt. 5 e 24, L. 223/1991, secondo cui i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifi co ordine stabilito da accordi collettivi, debbono essere osservati in concorso fra loro, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei mede-simi, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare preva-lenza ad uno solo di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecniche e produttive, essendo questo il criterio più coerente con le fi nalità perseguite attraverso la riduzione del personale, sempre che naturalmente una tale scelta trovi giustifi cazione in fattori obiettivi, la cui esisten-za sia provata in concreto da datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discrimi-natorie (Cass. 6.4.2002, n. 4949).

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Anzianità anagrafi ca e prepensionamentoAncora, la Suprema Corte ha riconosciuto la sussistenza dei requisiti di obiettività e razio-

nalità dell’accordo sindacale con il quale le parti collettive hanno concordato il duplice criterio dell’età anagrafi ca e dell’anzianità contributiva con la previsione di un trattamento integrativo sino al raggiungimento dell’età pensionabile. Tale criterio è stato ritenuto pienamente compa-tibile con le fi nalità volute dal legislatore ed è razionalmente giustifi cato nell’attuale contesto di disoccupazione strutturale (Cass. 7 dicembre 1999, n. 13691).

Infi ne, si segnala come recentemente la Suprema Corte abbia ritenuto lecito il criterio con-cordato tra azienda e sindacati per il licenziamento collettivo basato sul possesso dei requisi-ti per accedere al trattamento pensionistico. In primo luogo, infatti, non si ravvisa una discri-minazione in base al fattore età, in quanto il criterio adottato non si fonda esclusivamente sul dato anagrafi co, bensì sul possesso dei requisiti pensionistici: si possono avere casi di lavora-tori più anziani di età che, in virtù di una particolare storia lavorativa, non presentano i suddet-ti requisiti. In secondo luogo, accertata la necessità di licenziamento di parte del personale, appare ragionevole la scelta di privilegiare i lavoratori che, se licenziati, sarebbero passati alla disoccupazione, rimanendo così privi di reddito, e di licenziare, invece, quelli in possesso dei requisiti per accedere alla pensione, in modo da ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti (Cass. 26 aprile 2011, n. 9348).

La Corte di legittimità ha altresì chiarito che «in materia di collocamenti in mobilità e di licen-ziamenti collettivi ove il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali abbiano contrattualmente convenuto un unico criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, costituito dalla possibili-tà di accedere al prepensionamento, e si rendesse possibile il mantenimento in servizio di alcuni lavoratori prepensionabili, tale fatto non implica automaticamente la pretestuosità ed illegittimi-tà del criterio di scelta concordato, ma occorrerà valutare che il margine di discrezionalità del datore di lavoro nella scelta dei lavoratori prepensionabili da licenziare non sia utilizzato a mero scopo discriminatorio in violazione dei principi di correttezza e buona fede tenendo presenti la dinamica aziendale e, all’occorrenza, ispirandosi al criterio di fondo stabilito dall’art. 5, c. 1, L. n. 223/1991, il quale, non a caso, fa riferimento, per ben due volte, alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale» (Cass. 13 settembre 2002, n. 13393).

La tesi sostenuta dalla Corte Suprema si pone in linea con la ratio dell’impianto normativo dei licenziamenti collettivi, ispirato a favorire, per quanto possibile, la ripresa dell’attività pro-duttiva col sacrifi care persino diritti individuali che in ogni altro contesto sarebbero inderoga-bili. Riprova ne sia la deroga consentita dall’art. 4, c. 11, al divieto di mutamento in pejus delle mansioni di cui all’art. 2103 c.c. (Cass. 26 settembre 2002, n. 13963, in motivazione). Vero è che all’imprenditore, e non ad altri, è lasciato uno spazio, seppur contenuto, di scelta.

La giurisprudenza di legittimità ha, infi ne, statuito che, qualora il criterio di selezione dei la-voratori da porre in mobilità sia unico, il datore di lavoro ha l’obbligo di specifi care nella comuni-cazione ex art. 4, 9° comma, legge 223/1991, le sue modalità applicative, in modo che essa rag-giunga quel livello di adeguatezza suffi ciente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità ovvero del licenzia-mento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsi-va, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori – e non lui – avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o licenziati (Cass. 8 novembre 2007, n. 23275).

9.30 Ipotesi di invalidità del licenziamento

La recente L. 92/2012 ha apportato sostanziali modifi che all’art. 5, co. 3, della L. 223/1991

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Licenziamenti individuali e collettivi

fi nalizzate ad adeguare le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti illegittimi o ineffi caci – intimati ai singoli lavoratori all’esito della procedura di licenziamento collettivo – al nuovo testo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale è oggetto di specifi ca trattazione nel successivo capitolo 11.

Al riguardo vengono contemplate più ipotesi. Qualora il recesso sia intimato senza l’osservanza della forma scritta si applica il regime

sanzionatorio di cui al primo comma del rinnovellato articolo 18, consistente nella tutela reale, ovvero nella reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno integrale e, dunque, senza limitazioni, come previsto nella analoga ipotesi di licenziamento individuale dichiarato ineffi cace perché intimato in forma orale.

Qualora, invece, il recesso sia intimato senza il rispetto della procedura sindacale pre-vista dall’articolo 4 della L. 223/1991, si applica la tutela prevista per i licenziamenti eco-nomici dal nuovo testo dell’articolo 18, co. 7, S.L., ovvero un’indennità risarcitoria deter-minata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Qualora, infi ne, il recesso sia intimato violando i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, come elencati dall’articolo 5 della L. 223/1991, si applica la tutela reale prevista per i casi più gravi di licenziamenti disciplinari illegittimi dal nuovo testo dell’articolo 18, co. 4, S.L., ovvero la reintegra nel posto di lavoro oltre a un’indennità risarcitoria non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.

Viene previsto, inoltre, che in tutte le ipotesi, ai fi ni dell’impugnazione dei licenziamenti, trovino applicazione le disposizioni di cui all’articolo 6 della L. 604/1966 (il quale, nel testo da ultimo modifi cato dalla L. 4.11.2010, n. 183, prevede che il licenziamento debba essere impu-gnato con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare la volontà del lavo-ratore, entro 60 giorni dalla sua comunicazione per iscritto, e che nei successivi 270 giorni – ora 180 giorni, in forza dell’articolo 1, co. 38, della L. 92/2012 – debba essere depositato il ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o debba essere comu-nicata alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione).

9.30.1 Condotta antisindacale

Sotto altro profi lo, la violazione della procedura può comportare, anche nell’ambito del li-cenziamento collettivo, la condanna del datore di lavoro per condotta antisindacale. In linea generale, si può dire che sussista la condotta antisindacale dell’imprenditore tutte le volte che sia confi gurabile un comportamento del datore di lavoro diretto ad ostacolare o impedire il li-bero esercizio dell’attività sindacale (Cass. 29.7.1986, n. 4858). Certo è che l’omissione di qual-siasi comunicazione o l’esistenza di vizi inerenti il contenuto delle comunicazioni previste dal-la legge in commento alle organizzazioni sindacali integra una vera e propria ipotesi di condotta antisindacale.

Costituisce altresì condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro che fornisca alle organizzazioni sindacali informazioni insuffi cienti e generiche e non manifesti reale disponi-bilità all’esame congiunto (Pret. Milano, 25.3.1994; più recentemente, Trib. Milano, 13.5.2006).

9.30.2 Vizi della procedura e datori di lavoro non imprenditori

Secondo quanto previsto dal D.Lgs. 8.4.2004, n. 110, al datore di lavoro non imprenditore che non svolge attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, religione o culto trova appli-cazione l’art. 5, co. 3 della L. 223/1991. Inoltre, il datore di lavoro non di «tendenza» è tenuto ad

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Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo

Licenziamenti individuali e collettivi

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esperire nuovamente la procedura di mobilità nel caso di ineffi cacia dei licenziamenti intimati per violazione della procedura, mentre nel caso di accertata illegittimità dei licenziamenti dovuta alla violazione dei criteri di scelta può procedere al licenziamento di un numero equivalente di lavora-tori reintegrati, previa comunicazione alle organizzazioni sindacali, ma senza necessità di dover esperire nuovamente la procedura di mobilità, come previsto dall’art. 17, L. 223/1991.

Differenti regole valgono, invece, per i datori di lavoro c.d. di «tendenza» in relazione ai quali il D.Lgs. 110/2004 esclude espressamente l’applicazione dell’art. 18 S. L. Per i licen-ziamenti intimati da tale tipologia di datori di lavoro trova, pertanto, applicazione la L. 15.7.1966, n. 604, con la conseguenza che laddove i licenziamenti vengano impugnati e rite-nuti ineffi caci per violazione della forma scritta o della procedura di mobilità il datore di la-voro di «tendenza» non deve procedere ad esperire nuovamente la procedura poiché non è prevista alcuna reintegrazione quale sanzione per l’invalidità del licenziamento operato.

Sul punto si segnala una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la quale stabilisce che si applica la disciplina sui licenziamenti collettivi qualora l’ente datore di lavoro, pur non essendo un imprenditore, svolga nel caso concreto attività di carattere imprenditoriale, caratterizzata dai due requisiti della economicità e della autonomia, gestionale, fi nanziaria e contabile, e non operi invece come organizzazione di tendenza. L’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attività in con-creto esercitata da qualsiasi ente pubblico non economico è riservato al giudice di merito e, come tale, censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. 15.6.2011, n. 13093).

9.31 Particolari categorie di lavoratori

Avviati obbligatori L’art. 10, co. 4, L. 12.3.1999, n. 68, relativa alla riforma del collocamento obbligatorio prevede che il recesso attuato nei confronti di un avviato obbligatorio a seguito di licenziamento collettivo è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3 della legge citata. La giurisprudenza di merito ha ritenuto che tale tutela sia applicabile anche al lavoratore divenuto invalido nel corso del rapporto ed incluso successiva-mente nella quota di riserva (Trib. Milano, 12.7.2006).

Lavoratrici madriAi sensi dell’art. 54, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151, la lavoratrice non può essere collocata in mo-

bilità dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino.Fa eccezione l’ipotesi di licenziamento collettivo determinato dalla cessazione totale

dell’attività produttiva dell’imprenditore. Il licenziamento intimato in contrasto con la disposi-zione citata è nullo.

Lavoratrici che contraggono matrimonioAnche per il licenziamento collettivo valgono le disposizioni che sanciscono la nullità del

licenziamento effettuato nei confronti della lavoratrice che ha contratto matrimonio ai sensi del D.Lgs. 11.4.2006, n. 198. Il divieto di licenziamento decorre dal giorno delle pubblicazioni sino ad un anno dopo la celebrazione del matrimonio (C. Cost. 10.2.1993, n. 46).

Manodopera femminile e divieto di cui all’art. 5, co. 2, L. 223/1991L’art. 5, co. 2, L. n. 223/1991, ispirandosi ai princìpi di non discriminazione, stabilisce che

l’impresa non può collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in con-siderazione.

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Licenziamenti individuali e collettivi

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Capitolo 10

LA PREVIGENTE DISCIPLINA SANZIONATORIA

La L. 28.6.2012, n. 92, ha superato la dicotomia tutela reale-tutela obbligatoria che sino alla sua promulgazione ha caratterizzato il regime sanzionatorio del licenziamento invalido, prevedendo una tutela di carattere risarcitorio anche nell’ambito del campo di applicazione del “nuovo” art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Ciò nonostante, è opportuno esaminare la disciplina sanzionatoria previgente, vuoi perché il novellato art. 18 S.L. trova applicazione nei soli confronti dei licenziamenti intimati succes-sivamente all’entrata in vigore della L. 28.6.2012, n. 92, vuoi perché molte delle problematiche sollevate da tale norma statutaria sono riferibili anche alla nuova disposizione.

10.1 Tutela reale

La cd. tutela reale del posto di lavoro, come prevista ed assicurata dal “vecchio” art. 18 S.L., stabilisce che il datore di lavoro che abbia intimato un licenziamento invalido è obbligato a rein-tegrare il lavoratore nel posto di lavoro ed a corrispondergli un’indennità a titolo di risarcimento del danno commisurata alle retribuzioni non percepite (ed in misura comunque non inferiore a cinque mensilità) dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. L’appli-cabilità di tale regime sanzionatorio presuppone la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggetti-vi previsti al riguardo dal legislatore, il primo dei quali attiene alla dimensione dell’impresa che abbia proceduto al licenziamento, determinata dal numero dei dipendenti impiegati.

10.1.1 Requisito numerico per l’applicabilità della tutela reale

Al riguardo, la norma in esame - che peraltro ha subìto sul punto modifi che puramente formali ad opera della L. 28.6.2012, n. 92 - dispone espressamente la propria applicazione al «datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, fi liale, uffi cio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipenden-ze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo» non-ché ai «datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territo-riale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro».

È assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il qua-le il numero dei lavoratori impiegati dall’impresa debba essere accertato tenendo conto del criterio della normale occupazione e non invece facendo riferimento al numero dei lavoratori occupati alla data di intimazione del licenziamento.

La Suprema Corte ha precisato che con tale criterio devono intendersi i lavoratori in servi-zio alla stregua delle medie e normali esigenze produttive dell’azienda, in riferimento anche

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Licenziamenti individuali e collettivi

ad un periodo antecedente alla data del licenziamento, dovendosi tenere conto non tanto della consistenza occupazionale a tale data, quanto piuttosto di una consistenza normale, correlata non ad un momento transeunte ma ad un periodo di tempo congruo e signifi cativo (Cass. 14.10.2011, n. 21280).

Siffatto orientamento è motivato dall’evidente fi nalità di evitare che una transitoria riduzio-ne del personale occupato dall’impresa al di sotto dei limiti numerici fi ssati dall’art. 18 Stat. Lav., verifi catasi alla data di intimazione del licenziamento - eventualmente anche a causa di atti posti fraudolentemente in essere dal datore di lavoro a tale scopo - determini l’inapplica-bilità delle disposizioni dettate dalla norma stessa.

È opportuno segnalare che in alcune pronunce la Suprema Corte ha fornito un’indicazione temporale più circostanziata del periodo da prendere in considerazione al fi ne del computo della normale occupazione dell’impresa pari, ora, a tre mesi precedenti la data del licenzia-mento (Cass. 22.4.1997, n. 3450), ora a sei mesi (Cass. 12.11.1999, n. 12592), ora ancora al più lungo periodo annuale (Cass. 30.12.1974, n. 4394).

Inoltre, nel computo dei dipendenti deve tenersi conto non solo dei lavoratori occupati all’interno dell’impresa ma anche di quelli esterni che, adibiti a lavori da svolgersi fuori dell’u-nità produttiva, ad essa facciano necessariamente capo per riceverne direttive e controlli e per rendere conto della attività da loro svolta, nonché dei dipendenti assenti per malattia, servizio militare od altra causa, con esclusione dei lavoratori temporaneamente impiegati in sostitu-zione di quelli assenti (Cass. 21.6.1980, n. 3922).

CRITERI DI COMPUTO DEI LAVORATORI

Contratti di inserimento Il D.Lgs. n. 276/2003 (artt. 54-59bis) ha introdotto la fattispecie contrat-tuale in esame con cui ha sostituito i contratti di formazione. Ai fi ni del computo dei lavoratori, l’art. 59, co. 2, del menzionato decreto legislativo dispone che «fatte salve specifi che previsioni di contratto collettivo, i la-voratori assunti con contratto di inserimento sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti».

Apprendistato L’art. 21, co. 7, L. 28.2.1987, n. 56, prevedeva testualmente che «i lavorato-ri assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limi-ti numerici previsti da leggi e contratti collettivi di lavoro per l’applicazione di particolari normative ed istituti». Su tale materia è successivamente intervenuto l’art. 53, co. 2, D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, il quale ha espressa-mente ribadito che «fatte salve specifi che previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti».

Lavoratori part-time L’art. 6, co. 1, D.Lgs. 61/2000, come modifi cato dall’art. 1, co. 1, D.Lgs. 100/2001, stabilisce espressamente che «in tutte le ipotesi in cui, per disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessario l’ac-certamento della consistenza dell’organico, i lavoratori a tempo parzia-le sono computati nel complesso del numero dei lavoratori dipendenti in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno», dovendosi con quest’ultima locuzione intendersi, ai sensi di quanto previsto dall’art. 3, D.Lgs. 8.4.2003, n. 66, l’orario normale di 40 ore settimanali o il minor ora-rio normale indicato dalla contrattazione collettiva, eventualmente riferito «alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superio-re all’anno».

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Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

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- segue - CRITERI DI COMPUTO DEI LAVORATORI

Con la circolare 30.4.2001, n. 46 del Ministero del lavoro ha precisato che, dopo aver sommato le frazioni di orario svolto dai lavoratori part-time impiegati nell’impresa, l’arrotondamento fi nale opera per eccesso all’unità superiore se la frazione ottenuta da tale operazione risulta su-periore alla metà dell’orario a tempo pieno; in caso contrario, l’arroton-damento avviene per difetto all’unità inferiore.Quanto sopra riportato trova espressa conferma anche nel novella-to art. 18 S.L., ove si prevede che ai fi ni del computo dei dipenden-ti dell’impresa «si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità la-vorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collet-tiva del settore».

Lavoratori con contratto a tempo determinato

I lavoratori assunti con contratto a termine, indipendentemente dal-la circostanza che il contratto stesso sia a tempo pieno o part-time, sono computabili ai fi ni dell’applicazione dell’art. 18 S.L. secondo il già esaminato criterio della «normale occupazione» dell’impresa ovvero quando sono inseriti nell’ordinario ciclo produttivo e non qualora siano stati assunti per far fronte a necessità produttive ed organizzative tran-sitorie ed eccezionali.In particolare, secondo la giurisprudenza, nell’ipotesi in cui l’impresa ab-bia proceduto ad assunzioni a termine per sostituire lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro, si deve tenere conto dei di-pendenti assenti per malattia, servizio militare od altra causa, con esclu-sione dei lavoratori temporaneamente impiegati in sostituzione di quelli assenti (Cass. 20.10.1983, n. 6165).

Lavoratori a domicilio Ai fi ni della computabilità nei limiti numerici dei lavoratori a domicilio val-gono in generale i medesimi princìpi esaminati con riguardo ai lavoratori assunti a tempo determinato.Pertanto, i lavoratori a domicilio sono computabili ai fi ni dell’applica-zione dell’art. 18 S.L. secondo il criterio della normale occupazione dell’impresa, cioè quando risultano concretamente inseriti nel ciclo produttivo dell’impresa. Secondo la Suprema Corte, tale requisito si realizza ogniqualvolta il lavoratore a domicilio esegua lavorazioni ana-loghe ovvero complementari a quelle eseguite all’interno dell’azienda sotto le direttive dell’imprenditore, le quali non devono necessaria-mente essere specifi che e reiterate, essendo suffi ciente che esse si-ano inizialmente impartite una volta per tutte, mentre i controlli pos-sono anche limitarsi alla verifi ca della buona riuscita della lavorazione (Cass. 23.9.1998, n. 9516).

Coniuge e parenti del datore di lavoro

Il previgente art. 18, co. 2, S.L. esclude dal computo del numero dei lavoratori occupati «il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale». Tale dispo-sizione è stata confermata nel novellato art. 18 introdotto dalla L. 28.6.2012, n. 92.Risulta evidente dalla disposizione in esame che tale esclusione opera esclusivamente nei confronti del datore di lavoro che sia una persona fi sica, atteso che non è possibile confi gurare un rapporto di parentela nei confronti di una società di capitali o di una società di persone.

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Licenziamenti individuali e collettivi

- segue - CRITERI DI COMPUTO DEI LAVORATORI

Problema della rilevanza del gruppo societario

La Suprema Corte è assolutamente costante nel ribadire il principio se-condo cui il collegamento economico-funzionale fra imprese gestite da società di un unico gruppo non è di per sé solo suffi ciente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmen-te intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisa-re – anche all’eventuale fi ne della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l’applicabilità della c.d. tutela reale del lavoratore licenziato – un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del col-legamento economico-funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formal-mente da quei soggetti, che deve rivelare l’esistenza dei seguenti requisiti:- unicità della struttura organizzativa e produttiva; - integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il

correlativo interesse comune; - coordinamento tecnico e amministrativo-fi nanziario tale da individua-

re un unico soggetto direttivo che faccia confl uire le diverse attività del-le singole imprese verso uno scopo comune;

- utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte del-le varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (Cass. 10.1.2012, n. 88).

FATTISPECIE PARTICOLARI

Lavoratori esterni Nei limiti numerici previsti dall’art. 18 S.L. devono essere computati anche i lavoratori subordinati che normalmente espletano la loro attività al di fuori della sede dell’impresa, quali ad esempio i piazzisti, i propagandisti e gli informatori medico-scientifi ci. Tali lavoratori devono essere calcolati nell’organico dell’unità produttiva cui fanno riferimento per ricevere le di-rettive operative e per rendere conto dell’attività svolta.

Soci lavoratori di cooperativa

L’art. 1, co. 3, della L. 142/2001 ha profondamente modifi cato la disciplina del rapporto di lavoro nelle cooperative prevedendo la posizione tipica del socio lavoratore, che è unica ma risulta composta da due distinti rapporti, quello associativo ed «un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordina-ta o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di colla-borazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali».Nell’ipotesi in cui al rapporto associativo si affi anchi un rapporto di lavoro subordinato, ai sensi del successivo articolo 2, «ai soci lavoratori di coope-rativa (...) si applica la L. n. 300/1970, con esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo».Pertanto, nella riferita ipotesi di sussistenza tanto del rapporto associativo quanto di quello di lavoro subordinato, il socio lavoratore è computabile ai fi ni del calcolo del requisito numerico dell’impresa previsto dall’art. 18 S.L.

Somministrazione di lavoro

L’art. 22, co. 5, D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, stabilisce espressamente che «in caso di contratto di somministrazione, il prestatore di lavoro non é computa-to nell’organico dell’utilizzatore ai fi ni dell’applicazione di normative di leg-ge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla materia dell’igiene e della sicurezza sul lavoro».

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Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

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10.1.1.1 Onere della prova della sussistenza del requisito numerico

Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno stabilito che in tema di riparto dell’onere proba-torio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’at-tività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusiva-mente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18, L. 300/1970, costituiscono, insie-me al giustifi cato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro (Cass. 18.11.2010, n. 23302). Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra - ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 c.c. - che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecu-niario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue la fi na-lità di non rendere troppo diffi cile l’esercizio del diritto da parte del lavoratore il quale, a differen-za del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa (Cass., Sez. Un., 10.1.2006, n. 141).

Rilevabilità d’uffi cio del requisito dimensionale dell’impresa

Peraltro, la Suprema Corte è costante nell’affermare che il requisito dimensionale dell’impresa è un fatto costitutivo dell’azione di reintegrazione nel posto di lavoro a norma dell’art. 18, L. 300/1970 e, quindi, il difetto di detto requisito non costituisce oggetto di un’eccezione in senso sostanziale ma può essere rilevato anche d’ufficio dal giudice.

Eccezione relativa alla sussistenza di un fatto risolutivo del rapporto diverso dal licenziamento

Nella diversa ipotesi in cui il lavoratore assuma di essere stato licenziato, mentre il datore di lavoro sostenga che il rapporto di lavoro è cessato per dimissioni del lavoratore o per risoluzione con-sensuale, la controdeduzione del datore di lavoro costituisce un’eccezione in senso stretto (come tale non rilevabile d’ufficio e soggetta alle preclusioni previste dagli artt. 416 e 437 c.p.c.), il cui onere probatorio incombe su quest’ultimo in applicazione del principio dettato dall’art. 2697 c.c, c. 2 (Cass. 27.8.2007, n. 18087).

10.1.2 Unità produttiva10.1.2.1 Nozione

Secondo la giurisprudenza, agli effetti della tutela reintegratoria del lavoratore ingiusta-mente licenziato per unità produttiva deve intendersi non ogni sede, stabilimento, fi liale, uffi -cio o reparto dell’impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale che even-tualmente articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune, si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essen-ziale dell’attività produttiva aziendale; ne consegue che deve escludersi la confi gurabilità di un’unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausi-liarie sia rispetto ai generali fi ni dell’impresa, sia rispetto ad una frazione dell’attività produt-tiva della stessa (Cass. 3.11.2008, n. 26376).

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Licenziamenti individuali e collettivi

Pertanto, è possibile confi gurare un’unità produttiva soltanto ogniqualvolta si sia in presen-za di un’articolazione dell’impresa dotata di autonomia operativa e funzionale, nella quale si esaurisca l’intero ciclo produttivo o una frazione dello stesso.

10.1.2.2 Luogo del licenziamento

Ai sensi dell’art. 18 S.L., il luogo del licenziamento va identifi cato con la «sede, stabilimento, fi liale, uffi cio o reparto autonomo» in cui ha avuto luogo l’estinzione del rapporto di lavoro, ovve-ro l’unità produttiva alla quale il lavoratore licenziato era addetto all’epoca del licenziamento.

10.1.3 Requisito soggettivo per l’applicabilità della tutela reale

La riforma dell’art. 18 S.L. operata dalla L. 108/1990 ha esteso il regime della stabilità reale del rapporto di lavoro anche nei confronti del datore di lavoro non imprenditore confermando, tuttavia, l’eccezione rappresentata dal datore di lavoro non imprenditore che svolga «senza fi ni di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione e di culto», secondo la defi nizione della cd. organizzazione di tendenza prevista dall’art. 4, L. 108/1990.

10.1.4 Effetti giuridici della reintegrazione

Il provvedimento giudiziale di reintegrazione determina quale proprio effetto la ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro invalidamente risolto, che deve considerarsi dunque privo di solu-zione di continuità. Si tratta di un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di le-gittimità, secondo cui qualora il datore di lavoro non ottemperi alla sentenza contenente l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro, il rapporto di la-voro deve considerarsi come mai interrotto e persistente anche nel periodo successivo al licen-ziamento; permangono, quindi, l’obbligo della retribuzione come pure quello della ricostruzione della posizione contributiva ed il periodo non lavorato deve essere considerato utile ai fi ni dell’an-zianità di servizio computabile per il trattamento di fi ne rapporto e gli scatti di anzianità.

Come precisato dalla Corte di Cassazione, inoltre, la continuità e la permanenza del rapporto di lavoro giustifi cano l’intimazione di un secondo licenziamento per giusta causa o giustifi cato mo-tivo fondato su fatti diversi da quelli posti a base del precedente provvedimento di recesso, che produrrà i suoi effetti solo qualora il precedente recesso venga dichiarato illegittimo (Cass. 14.9.2009, n. 19770).

10.1.5 Immediata esecutorietà ed ammissibilità dell’esecuzione in forma specifi ca

L’ordine di reintegrazione - per espressa previsione dell’art. 18 S.L., che sul punto ha anti-cipato il principio generale introdotto dall’art. 431 c.p.c. della esecutorietà delle sentenze di primo grado di condanna del datore di lavoro al pagamento dei crediti del lavoratore - è imme-diatamente esecutivo, e ciò vale sia in relazione al contenuto ricognitivo della continuità del rapporto di lavoro sia a quello inibitorio, consistente nell’obbligo del datore di lavoro di cessa-re l’estromissione del lavoratore dal suo posto di lavoro.

La Suprema Corte, al pari della giurisprudenza di merito, ha affermato l’inammissibilità del-la richiesta di sospensione ex art. 431 c.p.c. della provvisoria esecutorietà dell’ordine di reinte-grazione, in quanto l’immediata eseguibilità di questa trae origine da una valutazione legale tipi-ca (art. 18, L. 300/1970) connessa alla ritenuta necessità di assicurare una tutela urgente in via provvisoria, che esclude l’applicabilità della normale disciplina codicistica attinente alla genera-le previsione normativa in materia di obbligazioni da rapporto di lavoro (Cass. 26.7.1984, n. 4424).

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Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

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Alla immediata esecutorietà dell’ordine di reintegrazione, tuttavia, non corrisponde anche la possibilità di esecuzione in forma specifi ca dell’ordine stesso.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale sul punto, condiviso pressoché unani-memente dalla dottrina, l’impossibilità dell’esecuzione in forma specifi ca deriva dalla circo-stanza che la reintegrazione nel posto di lavoro implica necessariamente l’adozione di un comportamento infungibile di carattere organizzativo-funzionale da parte del datore di lavoro, il quale deve impartire le opportune direttive al lavoratore.

10.1.6 Ripresa del servizio

A seguito della pronuncia giudiziale dell’ordine di reintegrazione il lavoratore illegittima-mente licenziato non ha alcun onere di offrire la propria prestazione lavorativa al datore di lavoro né di dichiarare la propria disponibilità al riguardo, incombendo invece sul datore di lavoro l’onere di formulare l’invito a riprendere servizio.

Per espressa previsione dell’art. 18 S.L., infatti, grava sul datore di lavoro l’onere di invitare il lavoratore a riprendere servizio entro il termine di 30 giorni dalla pronuncia dell’ordine di reintegrazione; tale onere deve essere adempiuto anche nell’ipotesi in cui nel frattempo il pre-statore di lavoro abbia rinvenuto una nuova occupazione, a meno che non risulti da elementi inequivocabili che è venuto meno l’interesse del lavoratore alla reintegrazione stessa oppure che quest’ultimo abbia rinunciato, implicitamente o esplicitamente, all’originario posto di lavoro

Tale invito, che costituisce un tipico atto recettizio (che in quanto tale si presume conosciu-to quando giunge al domicilio del lavoratore), non deve tuttavia limitarsi ad una generica offer-ta di un posto di lavoro all’interno dell’organizzazione aziendale, ma deve consistere in un in-vito concreto e specifi co a riprendere servizio nel luogo e nelle mansioni originarie ovvero in altre diverse, purché ricorrano i presupposti previsti dall’art. 2103 c.c.

Dal punto di vista formale, l’invito a riprendere servizio non deve rivestire alcuna forma specifi ca; infatti l’art. 18, L. 20.5.1970, n. 300, non prevede alcuna particolare forma né per la formulazione dell’invito a riprendere servizio - rivolto dal datore di lavoro al lavoratore licen-ziato - né per la manifestazione della volontà dello stesso datore di profi ttare dell’automatica risoluzione del rapporto derivante ipso iure dalla mancata presentazione del dipendente entro il termine di trenta giorni al riguardo previsto.

Conseguenze del man-cato invito

Il datore di lavoro che non provveda ad invitare il lavoratore a riprende-re il servizio è tenuto a corrispondere a quest’ultimo le retribuzioni, e ciò anche nell’ipotesi in cui il prestatore di lavoro abbia rinvenuto una nuova occupazione, atteso che questa può essere sempre lasciata per aderire all’invito stesso.

Rifi uto a riprendere ser-vizio

Nella diversa ipotesi in cui il datore di lavoro abbia formulato l’invito a ripren-dere servizio ma il lavoratore, entro 30 giorni dalla data di ricezione dello stesso, non vi ottemperi, per espressa previsione dell’art. 18 S.L. «il rapporto di lavoro si intende risolto» ipso iure, cioè senza necessità di uno specifi co atto di recesso di alcuna delle parti, con conseguente cessazione dell’ob-bligo retributivo a carico del datore di lavoro. La previsione dell’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione da esercitarsi entro il medesimo termine da parte del lavoratore che non può o non vuole riprendere servizio rende assai improbabile l’ipotesi che tale termine decorra senza che il pre-statore di lavoro abbia ripreso servizio oppure optato per l’indennità stessa.

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102 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

Lavoratore impossibili-tato a riprendere servizio

Laddove il lavoratore sia impossibilitato a riprendere servizio a causa di una malattia, l’invio del certifi cato medico è stato considerato dalla giurispruden-za di legittimità un’idonea adesione per fatti concludenti all’invito formulato dal datore di lavoro, determinando il normale effetto sospensivo della pre-stazione lavorativa che si verifi ca in costanza di rapporto di lavoro subordi-nato.

10.1.7 Situazioni che non consentono la reintegrazione

L’inottemperanza del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione del dipendente illegitti-mamente licenziato può dipendere dall’impossibilità oggettiva di procedere a tale reintegra-zione, come accade nell’ipotesi in cui sia cessata l’attività aziendale svolta dal datore di lavoro. In questa fattispecie, la giurisprudenza di legittimità giustifi ca la mancata reintegrazione del lavoratore, fermo restando il diritto di quest’ultimo di percepire l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 18 S.L.

10.1.8 Responsabilità penale per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione

L’affermata incoercibilità dell’ordine di reintegrazione ha quale importante corollario, se-condo la dottrina maggioritaria, quello della inconfi gurabilità a carico del datore di lavoro del reato di mancata esecuzione dolosa «di un provvedimento del giudice civile che (...) prescrive misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito» previsto e disciplinato dall’art. 388, co. 2, c.p.

Nella giurisprudenza, tuttavia, si assiste ad un orientamento assolutamente ondivago.Infatti, sebbene la Suprema Corte e, con essa, parte della giurisprudenza di merito concor-

dino con le riportate conclusioni, altra parte della giurisprudenza di merito afferma invece che è illecito il comportamento datoriale consistente nel rifi uto della fi sica riammissione in azien-da del lavoratore reintegrato, che confi gura l’elusione di una misura cautelare a difesa del credito, punibile ai sensi dell’art. 388 cpv. c.p. (Pret. Catanzaro, 19.3.1999).

La medesima incertezza giurisprudenziale si registra anche con riferimento all’ipotesi di reato di cui al co. 1 dell’art. 388 c.p., nel quale incorre «chiunque, per sottrarsi all’adempimen-to degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna (...) compie (...) atti simulati o fraudolenti».

Deve invece escludersi la sussistenza della contravvenzione ex art. 650 c.p. a carico del datore di lavoro che si rifi uti di riammettere in azienda il lavoratore reintegrato, procedendo ad erogargli la retribuzione spettante.

10.1.9 Luogo della reintegrazione e trasferimento del lavoratore reintegrato

In linea generale, a seguito dell’ordine di reintegrazione del lavoratore il datore deve in via prioritaria riammettere il dipendente nel posto di lavoro nel luogo in cui si era precedente-mente svolto il rapporto. Ove però la reintegrazione non possa avvenire nell’originario posto di lavoro perché tutta l’unità produttiva alla quale era addetto il lavoratore licenziato è stata sop-pressa, la reintegrazione ex art. 18 L. 300/1970 non può che essere riferita genericamente all’azienda del datore di lavoro, non potendo il giudice individuare una sede di lavoro alterna-tiva a quella originaria, rientrando nelle scelte datoriali l’assegnazione del dipendente ad una nuova sede di lavoro (Cass. 3.5.2004, n. 8364).

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è assolutamente costante nel ritenere che il da-tore di lavoro, in presenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive con-

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Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

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template dall’art. 2103 c.c., possa disporre il trasferimento del lavoratore reintegrato nel posto di lavoro. Infatti per la Corte di Cassazione 7.1.1998, n. 77, l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro emanato dal giudice nel sanzionare un licenziamento illegittimo esige che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel posto di lavoro da ultimo occupato, salva la facoltà del datore di lavoro di disporne con successivo provvedimento il trasferimento ad altra sede nel concorso delle circostanze di cui all’art. 2103 c.c. (più recentemente, Cass. 26.1.2012, n. 1107). La causa giustifi catrice del trasferimento può essere rinvenuta anche nella incompatibilità del lavoratore reintegrato con i lavoratori rimasti in servizio ovvero nelle tensioni di carattere personale che possono sorgere a seguito della riammissione nel-la originaria unità produttiva, tali da poter pregiudicare il regolare funzionamento dell’orga-nizzazione aziendale.

Il trasferimento del lavoratore reintegrato non può invece essere giustifi cato dalla circo-stanza che l’originario posto di lavoro sia stato assegnato medio tempore ad un altro dipen-dente; infatti, l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione, ricostituendo de iure il rapporto - da considerare, quindi, come mai risolto - ne ripristinano integralmente l’originario contenuto obbligatorio, comprendente an-che il diritto del lavoratore a riassumere le abituali mansioni nel posto di lavoro occupato an-teriormente.

Pertanto, l’eventuale attribuzione del suddetto posto ad altro dipendente in sostituzione del lavoratore licenziato - che abbia impugnato l’atto di recesso - deve essere considerata provvi-soria perché condizionata alla defi nitiva reiezione giudiziale della suddetta impugnativa; ne consegue che, sopravvenuto l’ordine di reintegrazione, il datore di lavoro, quali che siano gli impegni assunti nei confronti del sostituto, deve in via prioritaria riammettere il lavoratore li-cenziato nel suo originario posto di lavoro e non può allegare l’avvenuta sostituzione come esigenza organizzativa per trasferire in altra sede di lavoro il dipendente reintegrato (Cass. 14.10.2000, n. 13727).

10.1.10 Indennità risarcitoria

L’art. 18, co. 4, S.L., nella versione anteriore alle modifi che introdotte dalla L. 28.6.2012, n. 92, stabilisce che «il giudice con la sentenza di cui al 1° co. condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’i-neffi cacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effet-tiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto».

Natura giuridica Secondo una parte della dottrina, la qualifi cazione della somma do-vuta dal datore di lavoro quale «indennità» induce a concludere che la commisurazione della stessa «alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione» non introduce una presunzione assoluta in ordine al quantum, bensì una presunzione semplice, con la conseguenza che il datore di lavoro (pur essendo intangibile la misura minima delle cinque mensilità di retribuzione) può eccepire nei confronti del prestatore di lavoro tanto l’aliunde perceptum quanto l’aliunde percipiendum.

– continua –

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Licenziamenti individuali e collettivi

Aliunde perceptum La Suprema Corte è costante nell’affermare che con la locuzione «aliunde perceptum» non deve intendersi qualsiasi reddito di lavoro percepito dal lavoratore successivamente al licenziamento, ma solo quello conseguito espletando attività lavorativa in un’occupazione oggettivamente equiva-lente a quella perduta per effetto del licenziamento stesso. Naturalmente, l’onere di provare che il danno subìto dal lavoratore sia inferiore a quanto presunto dalla legge è a carico del datore di lavoro, il quale deve dimo-strare non solo che il lavoratore licenziato ha assunto nel frattempo una nuova occupazione ma anche quanto con essa percepito (aliunde percep-tum), essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (Cass. 29.8.2000, n. 11341; Cass. 9.4.2003, n. 5532 e Cass. 5.4.2004, n. 6668). È invece oggetto di contrasto giurisprudenziale il problema della computabi-lità, quale aliunde perceptum, dell’indennità di disoccupazione percepita dal lavoratore licenziato e successivamente reintegrato. A tale riguardo, è stato recentemente affermato che il risarcimento del danno spettante a norma dell’art. 18 della L. n. 300/1970, commisurato all’importo delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere dimi-nuito degli importi eventualmente ricevuti a titolo di indennità di mobilità, che si sottraggono alla regola della compensatio lucri cum damno in quanto tali somme, percepite ad altro titolo dall’istituto previdenziale, con l’annulla-mento del licenziamento perdono il titolo giustifi cativo e devono essere re-stituite a richiesta dell’ente previdenziale, con la conseguenza che non rea-lizzano un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore (Cass. 28.4.2010, n. 10164; più recentemente, nel merito, Trib. Ascoli Piceno, 17.12.2010).

Aliunde percipiendum Quanto, poi, ai danni che il lavoratore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (il cd. aliunde percipiendum), la Suprema Corte ha precisato al riguardo che poiché il co. 2 dell’art. 1227 c.c., nell’e-scludere che il creditore possa avere diritto al risarcimento dei danni che lo stesso avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, e nel porre, quindi, sul suddetto creditore il dovere di non aggravare con il fatto proprio e con la propria condotta il pregiudizio subìto, fa esplicito riferimento all’elemento della colpa, il giudice deve prendere in con-siderazione non ogni comportamento che astrattamente possa aggra-vare il danno, ma solamente quel comportamento che eccede i limiti dell’ordinaria diligenza (Cass. 14.6.1994, n. 5766).Con riferimento alla rilevanza dell’aliunde percipiendum ai fi ni della quan-tifi cazione dell’indennità di cui all’art. 18 S.L. può assumere rilievo anche la mancata iscrizione nelle liste di collocamento, non come circostanza di per sé suffi ciente a ridurre il danno risarcibile, bensì come circostanza valutabile nell’ambito dell’intera condotta del lavoratore, tenendosi conto altresì delle effettive e concrete possibilità di nuova occupazione (Cass. 16.3.2002, n. 3904).

Retribuzione globale di fatto

Il parametro di calcolo dell’indennità prevista dall’art. 18 S.L. è rappre-sentata dalla retribuzione globale di fatto mensile percepita dal lavora-tore o che questi avrebbe dovuto percepire in base alla qualifi ca a lui spettante. La giurisprudenza di legittimità ha recentemente statuito che la nozione di “retribuzione globale di fatto” quale parametro di computo sia del risarci-mento del danno conseguente alla declaratoria di invalidità del licenzia-mento nell’ambito della c.d. tutela reale sia per la determinazione dell’in-dennità sostitutiva della reintegrazione ex art. 18, co. 5, S.L., deve essere riferita non solo alla retribuzione base ma anche a ogni compenso di carat-tere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento, tra le quali devono essere ovviamente inclusi anche i ratei delle mensilità aggiuntive annualmente corrisposte.

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Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

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Indennità sostitutiva delle ferie non godute

Non è invece dovuta al lavoratore invalidamente licenziato l’indennità sostitutiva delle ferie non godute dal giorno del recesso a quello della effettiva reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte di Cassazione, con sentenza 5.5.2000, n. 5624, ha sottolineato che in caso di licenzia-mento dichiarato illegittimo, l’attribuzione al lavoratore delle retribuzioni non percepite dalla data di intimazione del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione nel posto di lavoro non comprende l’attribuzione dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute nel periodo di sospensione verificatosi a seguito del licenziamento dichiarato illegittimo, atteso che detta in-dennità ha natura risarcitoria e non retributiva, e che la sospensione del rapporto di lavoro, sia pure per fatto illegittimo del datore di lavoro, facendo venire meno la prestazione lavorativa esclude quella esigenza di recupero delle energie psicofisiche che il diritto alle ferie è inteso a soddisfare.

10.1.10.1 Opzione in sostituzione della reintegrazione

Ai sensi del “vecchio” art. 18, co. 5, S.L., «fermo restando il diritto al risarcimento del dan-no (...) al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto».

La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che il diritto del lavoratore illegit-timamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dal citato co. 5 confi gura un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore (Cass. 16.10.1998, n. 10283; Cass. 26.8.2003, n. 12514; Trib. Roma, 10.1.2006). Da ciò consegue che con l’esercizio da parte del lavoratore della scelta a favore dell’indennità sosti-tutiva si risolve il rapporto di lavoro e viene altresì meno l’obbligo del datore di lavoro di rein-tegrare il lavoratore medesimo, cui si sostituisce quello di pagare la suddetta indennità, il cui ritardo nell’adempimento determina le normali conseguenze della mora debendi ex art. 429, co. 3, c.p.c. (cioè interessi e rivalutazione monetaria). Inoltre, con il pagamento da parte del datore di lavoro dell’indennità sostitutiva si estingue, ai sensi dell’art. 1285 c.c., l’obbligazione alternativa.

Il previgente art. 18, co. 4, S.L. prevede la risoluzione del rapporto di lavoro nel caso in cui il lavoratore non abbia optato per il pagamento dell’indennità sostitutiva entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, ovvero non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dal ricevimento dell’invito formulato in tal senso dal datore di lavoro.

10.1.11 Profi li previdenziali e assicurativi della reintegrazione

Per espressa previsione dell’art. 18 S.L., per effetto della sentenza che ordina la reinte-grazione del lavoratore invalidamente licenziato il datore di lavoro è obbligato a ricostituire a favore del medesimo la posizione assicurativa, versando ai competenti enti i contributi relativi al periodo in cui il prestatore di lavoro è rimasto estromesso dal proprio posto di la-voro.

I contributi previdenziali sono dovuti indipendentemente dall’erogazione della retribuzione e vanno commisurati a quella che sarebbe stata la normale retribuzione nell’intero periodo, anche se non coincidente con l’importo del danno liquidato in applicazione dei criteri di risar-cimento fi ssati dalla legge (Cass, SS.UU., 5.7.2007, n. 15143).

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Licenziamenti individuali e collettivi

Assoggettabilità a contribuzione delle somme liquidate al lavoratore

Dalla circostanza che il licenziamento invalidamente irrogato nell’area della tutela reale non è ido-neo a interrompere il rapporto di lavoro consegue l’importante corollario che nel periodo intercor-rente tra il licenziamento e il provvedimento di reintegra permane l’obbligo contributivo del datore di lavoro; pertanto, alle somme liquidate al lavoratore deve essere riconosciuta - per l’anzidetto periodo - natura non solo risarcitoria ma anche retributiva, con la conseguenza che l’attribuzione patrimoniale, sopravvivendo il rapporto di lavoro e quello assicurativo, è assoggettabile alla contri-buzione previdenziale, a norma dell’art. 12, L. 30.4.1969, n. 153 (Cass. 13.1.2012, n. 402; conf. Cass. 12.12.2007, n. 26078).

Funzione «risarcitoria» dell’indennità

Peraltro, nella particolare ipotesi di licenziamento del lavoratore che rinvenga immediatamente una nuova occupazione presso altro datore di lavoro in guisa tale che fra il rapporto cessato e quello così iniziato non si verifi chi soluzione di continuità, l’indennità alla quale il primo datore di lavoro sia stato condannato, ai sensi dell’art. 18, L. 20.5.1970, n. 300, per l’illegittimità del suo recesso, ha funzione esclusivamente risarcitoria - anche se subito dopo l’inizio della nuova occupazione so-pravvenga un provvedimento di collocamento del lavoratore in cassa integrazione - e, conseguen-temente, si sottrae alla contribuzione previdenziale (Cass. 24.4.1992, n. 4957).

Restituzione dell’importo del TFR

Naturalmente, nel caso in cui il lavoratore venga reintegrato nel posto di lavoro, questi è tenuto a restituire l’importo ricevuto a titolo di trattamento di fi ne rapporto, maggiorato degli interessi legali (ma non della rivalutazione monetaria) dalla data della domanda di restituzione.

10.2 Tutela obbligatoria

Il regime della cd. tutela obbligatoria del rapporto di lavoro è previsto e disciplinato dall’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604 (come modifi cato dall’art. 2, L. 11.5.1990, n. 108), ai sensi del quale «quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustifi cato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribu-zione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle con-dizioni delle parti.

La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fi no a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fi no a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro». Il contenuto peculiare di tale regime consi-ste, pertanto, nella circostanza di attribuire al datore di lavoro l’alternativa tra la riassunzio-ne del lavoratore invalidamente licenziato e la corresponsione al medesimo di una indennità risarcitoria.

Tale regime trova applicazione residuale rispetto all’ambito di operatività dell’art. 18 S.L., nel senso che la disposizione in esame si applica a tutti i rapporti di lavoro esclusi dall’area di applicazione della tutela cd. reale e per i quali non operi il regime eccezionale della libera re-cedibilità.

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Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria

Licenziamenti individuali e collettivi

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Natura ed effi cacia Ove trovi applicazione il regime della cosiddetta tutela obbligatoria, il licenziamento, seppure illegittimo, interrompe comunque il rapporto. Conseguentemente, l’offerta del datore di lavoro di riassumere il la-voratore equivale ad una vera e propria nuova proposta contrattuale, che deve essere accettata da quest’ultimo secondo i princìpi generali in tema di conclusione dei contratti.

Termine per la riassun-zione

Quanto al termine di tre giorni entro il quale il datore di lavoro deve for-mulare tale offerta, la migliore dottrina pronunciatasi sul punto ritiene che siffatto termine non abbia carattere perentorio.

Rapporto tra riassunzio-ne e pagamento dell’in-dennità

L’obbligo di riassumere il lavoratore licenziato per giusta causa o giusti-fi cato motivo, posto dall’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604, è alternativo rispetto a quello di risarcirgli il danno mediante il versamento dell’indennità fi s-sata dalla suddetta norma, con la conseguenza che il dipendente ille-gittimamente licenziato che, invitato dal datore di lavoro a riprendere servizio, rifi uti di farlo, non ha diritto ad alcun risarcimento del danno (Cass. 12.6.1995, n. 6620).

10.2.1 Indennità risarcitoria

Al di là del criterio oggettivo rappresentato dall’anzianità di servizio del lavoratore licenzia-to, la norma in esame prevede quali ulteriori requisiti il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa (che secondo la dottrina consente di prendere in considerazione an-che altri elementi oltre a quello occupazionale, ad esempio il fatturato), le condizioni delle parti (ad esempio la situazione di crisi dell’impresa o lo stato di disoccupazione del lavoratore), il comportamento delle parti (da intendersi quale comportamento processuale, con particola-re riferimento alla fase conciliativa della controversia). In materia è intervenuto il Legislatore, stabilendo all’art. 30, co. 3, della L. 4.11.2010, n. 183, che «nel defi nire le conseguenze da ri-connettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della L. 15.7.1966, n. 604, e successive modifi cazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e parametri fi ssati dai predetti contratti» - ovverosia dai «contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamen-te più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certifi cazione» - «e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro loca-le, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento».

Analogamente a quanto previsto dall’art. 18 S.L., la base di calcolo dell’indennità risarcito-ria ex art. 8, L. 604/1966, è costituita dalla «mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto». La dottrina ha sollevato numerose perplessità con riguardo alla circostanza che il parametro fi ssato dal legislatore sia quello dell’ultima retribuzione e non invece della media delle retri-buzioni percepite in un diverso e più ampio arco temporale.

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Capitolo 11

LA NUOVA DISCIPLINA SANZIONATORIA PREVISTA DALL’ART. 18 S.L

Punto nodale della riforma del mercato del lavoro introdotta dalla L. 28.6.2012, n. 92, è certamente stata la modifi ca dell’articolo 18 della L. 20.5.1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori): vediamo più nel dettaglio quali sono le principali novità.

Va subito anticipato che nulla viene a modifi carsi per il licenziamento c.d. ad nutum (ipo-tesi che riguarda tipicamente i dirigenti e i collaboratori domestici, cfr. supra Capitolo 2) né per il licenziamento assistito dalla tutela c.d. obbligatoria prevista dalla L. 604/1966 (cfr. il pre-cedente Capitolo 10).

Nella sua defi nitiva formulazione, la riforma individua in sostanza tre differenti regimi sanzionatori applicabili a seconda che si tratti di licenziamento “discriminatorio” (o per “mo-tivo illecito determinante”), “disciplinare”, ovvero “per motivi economici”, introducendo per la prima volta una tutela a carattere risarcitorio nel campo della c.d. tutela reale che, fi n dall’in-troduzione dello Statuto dei Lavoratori, si presentava sino ad oggi come un monoblocco, ga-rantendo nelle imprese con più di 15 lavoratori in ciascuna unità produttiva, o 60 a livello na-zionale, una tutela in forma specifi ca quale la reintegrazione nel posto di lavoro, arricchita nel tempo dall’opzione indennitaria introdotta dalla L. 108/1990.

La riforma non si ferma ai soli licenziamenti individuali, introducendo forme di tutela risar-citoria anche nel campo dei licenziamenti collettivi.

Ma veniamo ad analizzare in concreto cosa è cambiato rispetto al passato.

11.1. La nullità del recesso nel nuovo articolo 18

L’art. 1, co. 42, L. 28.6.2012, n. 92, si propone di disciplinare in modo organico gli effetti del licenziamento nullo, in parte richiamando disposizioni di legge già in vigore nel nostro ordina-mento e in parte recependo princìpi elaborati dalla giurisprudenza: si rimanda ai Capitoli 1 e 8 per una più diffusa trattazione del recesso, rispettivamente, ineffi cace e nullo.

11.1.1 Il licenziamento discriminatorio

Venendo qui ad esaminare il solo aspetto sanzionatorio oggi previsto dal co. 1 del nuovo art. 18 S.L., valga osservare come la norma identifi chi, innanzitutto, i casi di nullità del licenzia-mento, primo fra tutti il recesso intimato per motivi discriminatori, cioè a dire determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa o razziali, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla semplice partecipazione ad attività sindacali, ovvero ancora da ragioni di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

In tema di licenziamento discriminatorio, peraltro, la norma in esame non presenta alcun carattere innovativo. Infatti, sin dall’entrata in vigore della L. 11.5.1990, n. 108 - ultimo inter-vento legislativo di carattere generale in tema di licenziamenti individuali -, il licenziamento discriminatorio era affetto da nullità (nullità già a suo tempo prevista dalla L. 15.7.1966, n. 604

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110 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L

Licenziamenti individuali e collettivi

e dallo Statuto dei Lavoratori ma senza ricomprendervi i dirigenti), con applicazione della san-zione della reintegrazione e del risarcimento del danno subìto dal lavoratore.

11.1.2 Il licenziamento a causa di matrimonio

Il co. 1 dell’art. 18 citato, come modifi cato dal co. 42, art. 1, L. 28.6.2012, n. 92, richiama, in secondo luogo, i casi di recesso datoriale nullo perché intimato a causa di matrimonio ovvero in violazione dei divieti di licenziamento di cui alla normativa in materia di tutela della mater-nità e paternità.

La prima di tali fattispecie è oggi prevista dall’articolo 35, D.Lgs. 11.4.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), in cui il Legislatore ha disposto che il licenziamento della dipendente si presume essere avvenuto a causa di matrimonio laddove sia stato intimato nel periodo intercorrente «dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa».

In proposito, risulta di particolare interesse ricordare la previsione del settimo comma del cita-to articolo 35, ai sensi del quale la lavoratrice che, invitata a riassumere servizio a seguito della dichiarazione di nullità del licenziamento, dichiari di recedere dal contratto, «ha diritto al tratta-mento previsto per le dimissioni per giusta causa», ovvero all’indennità sostitutiva del preavviso. Tale disposizione, infatti, va ora coordinata con quella del “nuovo” articolo 18 dello Statuto dei La-voratori, in base al quale la lavoratrice, oltre al diritto di ricevere le retribuzioni sin lì perdute e da oggi anche la reintegrazione nel posto di lavoro, ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in so-stituzione della reintegrazione, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro. Trattasi, a parere di chi scrive, di disposizioni inconciliabili e quindi si dovrà ritenere implicitamente abrogato il settimo comma dell’art. 35 sopra riportato, a meno di ritenerla una tutela aggiuntiva per l’ipotesi in cui, in occasio-ne del licenziamento, non sia stato corrisposto alcunché a titolo di preavviso. Ma un’ipotesi di tute-la così “rafforzata” non convince sia sotto il profi lo sistematico sia alla luce della giurisprudenza sin qui registrata in tema di preavviso e tutela reale (cfr., tra le tante, Cass. 8.6.2006, n. 13380).

11.1.3 Il licenziamento a causa di maternità/paternità

La seconda di tali fattispecie riguarda il recesso intimato alla lavoratrice madre nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino, il licen-ziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice o del lavoratore, o intimato al lavoratore padre per la durata del conge-do di paternità e sino al compimento di un anno del fi glio o, infi ne, in caso di adozione o affi da-mento (ai sensi dell’articolo 54, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).

La norma di legge in commento, inoltre, dispone la nullità del recesso del datore di lavoro qualora esso sia riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge (ad esempio, a causa della domanda di fruizione di congedi per eventi e cause particolari, congedi per formazione e per la formazione continua di cui alla L. 8.3.2000, n. 53; oppure in frode alla legge, come ad esempio in caso di licenziamento intimato prima del trasferimento d’azienda e seguito da im-mediata riassunzione del lavoratore da parte dell’acquirente, al fi ne di aggirare le disposizioni dell’articolo 2112 del codice civile).

11.1.4 Il licenziamento nullo per motivo illecito e determinante o ineffi cace

È possibile altresì che il licenziamento sia nullo per motivo illecito determinante, ai sensi dell’articolo 1345 del Codice Civile. La giurisprudenza, ancorché non recente, ha ritenuto tale

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Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L

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l’ipotesi del recesso ritorsivo, che consiste nel recesso datoriale quale ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore. Più recentemente, il licenziamento per ritorsione è stato assimilato dalla giurisprudenza al recesso per ragioni discriminatorie.

Infi ne, in base al nuovo dettato normativo, le conseguenze del licenziamento nullo si appli-cano anche al licenziamento dichiarato ineffi cace perché intimato in forma orale (di cui al Capitolo 1). Sul punto il regime sanzionatorio introdotto si caratterizza per un’importante no-vità: infatti, in caso di tutela obbligatoria sotto i 15 dipendenti la tutela accordata sin qui al li-cenziamento orale era di tipo esclusivamente ripristinatorio in ossequio al principio civilistico dell’impossibilità di produrre alcun effetto giuridico dell’atto considerato ineffi cace. Ora, di contro, anche sotto la soglia dei quindici dipendenti viene assicurata la reintegrazione “piena” garantita dall’art. 18, co. 1, S.L., ovvero risarcimento integrale del danno e reintegrazione nel posto di lavoro, in tutti i casi di licenziamento orale.

Oltre a ciò, il nuovo art. 18 introduce tre ulteriori forme di “ineffi cacia” del licenziamento: la violazione dell’obbligo di contestuale motivazione della lettera di licenziamento (art. 2, co. 2, L. 604/1966, novellato dall’art. 1, co. 37, L. 28.6.2012, n. 92); la violazione della procedura dell’art. 7 S.L. o della violazione della procedura preventiva oggi introdotta dal novellato art. 7, L. 604/1966.

Ebbene, in tutte le tre ipotesi di ineffi cacia del recesso datoriale sopra riportate la sanzione ipotizzata non è quella tipica del diritto civile bensì una tutela che, in accordo alle liability rules oggi introdotte nel campo della tutela reale, risponde a logiche risarcitorie anziché ripristina-torie dello status quo ante, ovvero un’indennità risarcitoria da sei a dodici mesi dell’ultima re-tribuzione globale di fatto, salvo che, prescrive la norma (art. 18, co. 6), il giudice non accerti che vi è anche un difetto di giustifi cazione “più grave”, nel qual caso si applicano i regimi sanzionatori propri del difetto riscontrato: in altre parole, l’ineffi cacia in queste tre ipotesi vie-ne sanzionata di per sé, quale vizio “minore” (procedurale o formale) di un atto che, sotto il profi lo causale, viene riconosciuto come legittimo ricorrendone i presupposti richiesti dalla norma.

11.1.5 La sanzione: reintegrazione e risarcimento

In relazione a tutti i motivi di licenziamento sopra esposti, la sanzione è quella della nullità dell’atto - che è tale indipendentemente dalle ragioni formalmente addotte dal datore di lavo-ro a giustifi cazione del proprio recesso - dalla quale consegue innanzitutto ed invariabilmente il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro e dalla qualifi ca del lavoratore (la disposizione, infatti, si applica anche ai dirigenti), già prevista in passato almeno per la fattispecie discriminatoria in senso stretto (art. 3, L. 108/1990 e art. 15 S.L.).

Un primo pregio, indubitabile, della novella introdotta sul punto è certamente quello di unifi care il regime sanzionatorio del licenziamento nullo che, soprattutto per la fattispecie del licenziamento intimato a causa di matrimonio, e con qualche incertezza giurisprudenziale su quella della lavoratrice madre, prevedeva il rimedio civilistico della nullità dell’atto (tamquam non esset), con diritto alla ricostituzione del rapporto in quanto mai risolto e alle retribuzioni nel frattempo maturate tra la data del licenziamento, dichiarato nullo, e la sentenza.

Il/la lavoratore/lavoratrice, dunque, in tutte le ipotesi ipotizzate ed ipotizzabili di licenzia-mento nullo riceverà identica tutela, ovvero il datore di lavoro sarà sempre condannabile alla reintegrazione, oltre ad un’indennità risarcitoria (commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto percepita dallo/a stesso/a) pari alle mensilità perdute dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione con un minimo di cinque: di fatto la tutela reale sin qui conosciuta.

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11.1.6 L’aliunde perceptum

Di particolare interesse, al riguardo, risulta la novità introdotta dalla previsione in base alla quale da tale indennità deve essere dedotto il c.d. aliunde perceptum, vale a dire quanto perce-pito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (siano esse di carattere subordinato o autonomo).

Vero è che tale espressa disposizione, pur costituendo recepimento del pressoché unanime orientamento della giurisprudenza e della dottrina, imporrà al giudice una più attenta e pun-tuale indagine delle attività svolte e delle somme percepite dal lavoratore dopo il licenziamen-to.

È noto, infatti, che, attualmente, l’onere della prova dell’aliunde perceptum è a carico del datore di lavoro il quale, tuttavia, stante la normativa sulla protezione dei dati personali, non può accedere direttamente ad informazioni afferenti l’ex-dipendente e le attività lavorative da esso svolte. Sin qui l’imprenditore poteva solo limitarsi a presentare al giudice istanze istrut-torie – raramente accolte - volte ad ottenere l’ordine di esibizione dei documenti comprovanti l’aliunde perceptum. Sicché è altamente auspicabile che la nuova disposizione di legge introdu-ca un’inversione di tendenza.

11.1.7 L’opzione alla reintegrazione

Da ultimo, valga ricordare che il lavoratore per il quale sia stato stabilito il diritto alla rein-tegrazione ha facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione di tale reintegrazione, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro e che, per espressa previsione normativa, non è assoggettata a contribuzione previdenziale (art. 18, co. 3).

La richiesta di tale indennità, che non fa venir meno il diritto al risarcimento del danno subìto dal lavoratore, deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione della pubbli-cazione della sentenza che dichiara la nullità del licenziamento ovvero dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Ci sia consentita una considerazione conclusiva in tema di discriminatorietà del recesso datoriale: appare evidente che, a fronte di una tutela piena ed assoluta (c.d. “tutela reale”, non a caso) riservata al licenziamento discriminatorio rispetto a quella (inferiore, o comunque soggetta alla discrezionalità del giudice, di cui si dirà infra) prevista per le altre tipologie di recesso, è facilmente prevedibile un sensibile incremento del contenzioso giuslavoristico im-prontato all’accertamento di - vere o presunte - ragioni discriminatorie alla base della cessa-zione del rapporto di lavoro.

Con ogni probabilità, dunque, i nostri giudici, ancora poco avvezzi a districarsi nei meandri di un concetto dai contorni spesso sfuggenti come quello della discriminazione (soprattutto se indiretta), saranno giocoforza costretti a confrontarsi con una serie di problematiche tipiche del mondo anglosassone: l’onere della prova in ogni caso sarà interamente in capo al lavora-tore, seppur aiutato in alcuni casi da disposizioni a carattere presuntivo o di inversione dell’o-nere probatorio.

11.2 La disciplina sanzionatoria nel licenziamento disciplinare

Diverso il discorso sanzionatorio per il licenziamento “disciplinare”: per una trattazione compiuta della fattispecie occorre rimandare a quanto scritto nel Capitolo 3, quanto al proce-dimento disciplinare, e ai Capitoli 4 e 5 per le fattispecie di giusta causa e giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento.

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Nella fattispecie in esame, ovvero il licenziamento motivato da mancanze più o meno gravi del lavoratore (appunto, giusta causa o giustifi cato motivo soggettivo), il giudice avrà per la prima vol-ta la possibilità di graduare la sanzione, a seconda dei casi, tra la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro o un’indennità risarcitoria compresa tra 12 e 24 mensilità di retribuzione.

11.2.1 La reintegrazione

In particolare l’art. 18, co. 4, S.L., come modifi cato dalla L. 28.6.2012, n. 92, dispone che il giu-dice, laddove accerti la “non giustifi cazione” del licenziamento per l’inesistenza del fatto imputato al lavoratore ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulli il licenziamento e disponga la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonché il risarcimen-to in suo favore del danno retributivo e contributivo patito, entro il massimo di 12 mensilità di retri-buzione (per quanto riguarda il danno retributivo, quello contributivo deve essere risarcito integral-mente, sia pure maggiorato dei soli interessi legali e senza applicazione di sanzione per omessa o ritardata contribuzione), dedotto quanto percepito o percepibile dal medesimo nel periodo inter-corso tra la data di licenziamento e quella di reintegrazione (c.d. aliunde perceptum et percipien-dum: cfr. Capitolo 10). In ogni caso, il lavoratore continuerà ad avere facoltà di optare per un’inden-nità pari a 15 mensilità di retribuzione in luogo della reintegrazione. Non è previsto in questo caso il minimo di cinque mensilità in precedenza sempre accordato dalla norma.

Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assi-stenziali dal giorno del licenziamento fi no a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata con-tribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accredi-tata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.

Dunque, in caso di inesistenza dell’addebito o di sproporzionalità “assoluta” perché conclamata dalle fonti indicate dalla norma tra fatto contestato e sanzione irrogata, il giudice necessariamente dovrà condannare il datore alla sanzione reintegratoria già prevista in passato, sì che è lecito con-cludere che per tali due profi li di illegittimità la disciplina sanzionatoria è rimasta del tutto immuta-ta. Nota di merito, attesa la proverbiale lungaggine dei tempi della giustizia italiana anche del lavo-ro, il contenimento in dodici mesi del massimo dell’indennità risarcitoria per il periodo intercorso tra licenziamento e reintegrazione: correttivo accettato dalle parti sociali nel lungo confronto in sede ministeriale, che ben si coniuga con la nuova disciplina processuale (di cui infra al Capitolo 12), no-vità senza le quali il processo del lavoro in caso di licenziamento rischiava di rimanere una cambia-le in bianco o una sorta di rendita a favore del lavoratore in caso di soccombenza datoriale.

11.2.2 L’indennità risarcitoria

Diversamente, nelle “altre ipotesi” di accertata illegittimità del licenziamento disciplinare, il giudice non potrà disporre la reintegrazione bensì, dichiarato comunque risolto il rapporto di lavoro, condannerà il datore di lavoro alla corresponsione di un’indennità risarcitoria deter-minata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di retribuzione sulla base di “vari parametri”, individuati nell’anzianità del lavoratore, nel numero dei dipendenti occupati, nelle dimensioni dell’attività economica, nel comportamento e nelle condizioni delle parti, con one-re di specifi ca motivazione a tale riguardo (art. 18, co. 5).

V’è da chiedersi quali siano le altre ipotesi cui fa riferimento la norma. Un’interpretazione sistematica che voglia dare un qualche signifi cato alla portata innovativa della norma non può che partire dal dato letterale della stessa.

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Se così è, pare lecito concludere che, laddove l’addebito contestato risulti accertato come esistente (quantomeno a livello processuale) e le norme applicabili al rapporto di lavoro risol-to non contengano previsioni circa la necessaria “proporzionalità” della sanzione in ispecie concretamente irrogata, e cioè laddove la contrattazione collettiva (se applicabile) non abbia alcuna previsione disciplinare e si sia in assenza di codici disciplinari vigenti in azienda, il giu-dice potrà solo condannare il datore di lavoro ad una somma risarcitoria: diversamente, non è dato comprendere quali possano essere le “altre ipotesi” menzionate dalla norma.

Appare evidente, pertanto, la portata “storica” della norma: pur con i dovuti distinguo, so-prattutto relativamente alla forcella tra minimo e massimo dell’indennità risarcitoria, la tutela reale sin qui garantita in caso di licenziamento non assistito da giusta causa e giustifi cato motivo soggettivo viene meno, venendo introdotta anche per i datori di lavoro oltre la soglia fatidica dei 15 dipendenti una tutela obbligatoria che richiama quanto previsto dal 1966 dalla L. 604: coerentemente con quella impostazione, la dichiarazione giudiziale di avvenuta risolu-zione in ogni caso del rapporto conferma la validità del recesso dal rapporto. Il licenziamento in questo caso, da annullabile come in precedenza ritenuto, diventa atto giuridico valido a tutti gli effetti. Il che certamente comporterà nel breve la necessità di verifi care ogni volta le concrete disposizioni della contrattazione collettiva di settore e/o aziendale o l’esistenza di codici disciplinari applicati nell’unità produttiva.

11.2.3 Violazione della procedura disciplinare

Infi ne, il giudice potrà disporre la condanna al pagamento di una differente indennità risar-citoria, compresa tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione, laddove rilevi, nell’ambito del licenziamento disciplinare, un mero vizio formale o l’inosservanza della procedura disciplinare di cui all’art. 7 S.L. (per la procedura, cfr. supra Capitolo 3). La stessa indennità si applica anche per i casi di violazione dell’obbligo di motivazione contestuale nella lettera di recesso nonché in caso di violazione della procedura preventiva prevista per il licen-ziamento per giustifi cato motivo oggettivo: in tutte le tre fattispecie sopra ricordate viene fatta salva l’ipotesi che il recesso sia viziato anche da difetti di giustifi cazione sostanziale, nel qual caso si applicherà la disciplina propria prevista per questi ultimi.

ALCUNI DUBBI INTERPRETATIVI

Non può non sottolinearsi come il sistema di tutele delineato relativamente al licenziamento disci-plinare appaia, allo stato, foriero di numerosi dubbi interpretativi, nonché di probabili problemati-che applicative.Non è chiaro, in primo luogo e principalmente, quale dovrebbe essere la linea di demarcazione che separa le diverse fattispecie di annullabilità del licenziamento disciplinare, ovvero quali siano in concreto “le altre ipotesi” di illegittimità del licenziamento disciplinare, oltre a quelle dell’infonda-tezza e della sproporzionalità “assoluta” (da intendersi quella in contrasto con disposizioni specifi -che derivanti da contrattazione collettiva o codice disciplinare): per la loro capacità omnicompren-siva dei possibili difetti di giustifi cazione, queste due categorie appaiono esaustive dell’annullabilità del recesso per colpa del lavoratore.L’interpretazione surriferita circa la riferibilità delle ipotesi in cui il giudice debba condannare alla sola indennità risarcitoria in caso di sproporzionalità “relativa” (ovvero in assenza di disposizioni disciplinari specifi che da parte delle fonti eteronome richiamate dall’art. 18, co. 4) appare l’unica in grado di ricollegare una qualche utilità applicativa alla disposizione in commento.Inoltre, non è dato comprendere in che modo debba essere interpretato il concetto di “inesistenza” del fatto contestato al lavoratore, se esso presupponga l’assoluta insussistenza del fatto o, invece, corrisponda (come sembra più probabile) alla mancata prova in giudizio da parte del datore di lavo-ro dell’addebitabilità di tale fatto al lavoratore licenziato.

– continua –

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- segue - ALCUNI DUBBI INTERPRETATIVI

Peraltro, il rinvio alle “tipizzazioni” di giusta causa e giustifi cato motivo di licenziamento eventual-mente previste dalla contrattazione collettiva non appare sempre idoneo a fornire un parametro oggettivo profi cuamente utilizzabile dal giudice ai fi ni della valutazione della legittimità del licen-ziamento. Sino ad oggi, infatti, le tipizzazioni contenute nei contratti collettivi sono state sempre considerate una mera esemplifi cazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti, senza carattere di esau-stività né pretesa di tassatività o cogenza, essendo il giudice libero di avvalersi, o meno, delle indi-cazioni della contrattazione collettiva quale possibile criterio di riferimento nelle fattispecie poste al suo vaglio decisorio.Al contrario, se il giudice – come sembra - dovesse necessariamente rimettere la sua valutazione alle disposizioni del contratto collettivo, non si comprende come dovrebbe comportarsi laddove dovesse far riferimento ad un contratto collettivo che non individua, nemmeno in via esemplifi ca-tiva, alcuna condotta disciplinarmente rilevante, se non ritenendo che in un caso possa esservi la sanzione della reintegrazione mentre nell’altro la condanna possa essere solo di tipo risarcitorio.Siffatta soluzione, peraltro, potrebbe comportare gravi disparità di trattamento nel caso in cui con-tratti collettivi diversi prevedano sanzioni differenti in relazione alla medesima condotta del lavo-ratore.È verosimile, dunque, che al fi ne di circoscrivere l’alea “sanzionatoria” sottesa ai licenziamenti di-sciplinari, la tendenza futura – quantomeno delle OO.SS. e delle relative RSA/RSU – potrebbe esse-re quella di “arricchire” la contrattazione integrativa aziendale al fi ne di individuare puntualmente le condotte illecite del lavoratore e le relative conseguenze, contrattazione collettiva aziendale che, complice la previsione dell’art. 8, L. 148/2011 (in ipotesi applicabile sub specie “qualità dei contratti di lavoro”), potrebbe rendere tali disposizioni effi caci erga omnes. Va ricordato, infatti, che la nor-ma, riferendosi alla contrattazione collettiva e ai codici disciplinari “applicabili” al rapporto, mette in gioco tutte le note problematiche in tema di effi cacia soggettiva del contratto collettivo. Tuttavia, per ragioni di segno opposto, è altresì possibile che in assenza di contrattazione collettiva applica-bile o in caso di mancata previsione di disposizioni disciplinari, da parte datoriale ci si voglia ben guardare dall’ipotizzare di introdurre una sezione “disciplinare” ad hoc.Sotto diverso profi lo, non può essere trascurato il fatto che i giudici del lavoro sono stati sino ad oggi abituati a ragionare esclusivamente in termini di reintegrazione ed è, quindi, assai probabile che le soluzioni “alternative” di tipo risarcitorio ipotizzate non troveranno facile applicazione, quanto meno nel breve periodo.

11.3 Il giustifi cato motivo oggettivo: fl essibilità in uscita?

Con riferimento al licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo – quello per intendersi determinato, ai sensi dell’art. 3, L. 604/1966, «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’or-ganizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» - la L. 28.6.2012, n. 92, sulla ri-forma del mercato del lavoro fa sorgere non poche perplessità, soprattutto se il fi ne era quel-lo di introdurre una «disciplina in tema di fl essibilità in uscita (…)», come è intitolato il Capo III della legge citata.

Procedura preventiva di comunicazione del g.m.o.E ciò innanzitutto avuto riguardo all’art. 1, co. 40, che prevede - nell’ambito delle aziende

che occupino alle loro dipendenze più di quindici dipendenti - l’obbligo di una comunicazione e di una procedura preventiva rispetto al recesso, della quale francamente non si sentiva la ne-cessità e che ricorda l’(appena) abrogato tentativo obbligatorio di conciliazione, che già aveva dato di sé una pessima prova.

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Va ricordato a tale riguardo che la violazione di tale procedura comporta la condanna all’in-dennità risarcitoria vista poc’anzi, da un minimo di sei ad un massimo di dodici mensilità, salvo difetto o vizio più grave.

Ma vediamo che cosa potrebbe accadere una volta irrogato il licenziamento.

Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità o superamento del periodo di comportoLa norma, per la prima volta, espressamente riconduce al c.d. giustifi cato motivo oggettivo

la fattispecie del recesso per superamento del periodo di comporto che la dottrina e la giuri-sprudenza concordi sin qui avevano escluso dal novero del g.m.o., considerando tale recesso autonomo e distinto (“sui generis”) rispetto al triplice schema di giusta causa, giustifi cato mo-tivo soggettivo e oggettivo.

Infatti, ai sensi dell’art. 1, co. 42, laddove il giudice accerti “il difetto di giustifi cazione” in un licenziamento intimato sia «per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fi sica o psichica del lavoratore», ivi compresi i casi di dipendenti divenuti inabili a causa di infortunio o malattia (art. 4, co. 4, L. 68/1999) o di lavoratori avviati obbligatoriamente (art. 10, co. 3, L. 68 cit.), sia prima che sia stato superato il periodo di conservazione del posto di lavoro (c.d. comporto) per malattia o infortunio, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla medesima sanzione (art. 18, co. 4) prevista per il caso dei licenziamenti disciplinari per insussistenza dell’addebito o per sproporzionalità “assoluta” (di cui supra). Ovvero: alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ma che, in ogni caso, non potrà essere superiore a dodici mensilità (viene meno il limite minimo di cinque), deducendo sia il cd. aliunde perceptum che il cd. aliunde percipiendum: previsione, questa, che recepisce la consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità sul punto, e che dovrebbe comportare – come già osservato - una modifi ca degli oneri probatori attualmente in capo al datore di lavoro; il datore viene condannato altresì «al versamento dei contributi pre-videnziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fi no a quello della effettiva reintegrazio-ne».

Sin qui, la norma risulta abbastanza chiara.

La sanzione per la “manifesta insussistenza” del g.m.o.Il comma prosegue disponendo che il giudice “può” altresì applicare la predetta disciplina

(ovvero quella del quarto comma, cioé la reintegrazione nel posto di lavoro, con le caratteristi-che appena riferite) nell’ipotesi in cui accerti «la manifesta insussistenza del fatto» posto a base del licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo.

Sí che per tale via l’ipotizzato (talvolta strumentalizzato) venir meno del rimedio della rein-tegrazione nei licenziamenti per ragioni economiche risulta per ció stesso smentito, come sarà smentito nei licenziamenti collettivi.

Non ci si nasconde che la lettera della norma parla di “manifesta” insussistenza, quindi qualcosa di più e di diverso dalla semplice insussistenza delle ragioni economiche, organizza-tive e/o produttive indicate dall’art. 3, L. 604/1966: verrebbe da dire ictu oculi inesistente, vuoi perché contrario a risultanze documentali vuoi perché radicalmente smentito da circostanze di fatto di immediata percezione.

L’assoluta discrezionalità ricollegata sia alla fattispecie che alla sanzioneVero è che, laddove la distinzione introdotta è tra “manifestamente” o semplicemente in-

sussistente, la discrezionalità del giudice giocherà un ruolo non secondario nell’accordare la sanzione reintegratoria (che si voleva espungere dal quadro normativo di riferimento per i li-

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cenziamenti “economici”) ogni qual volta il licenziamento intimato per g.m.o. dovesse presen-tare profi li di annullabilità per la ritenuta insussistenza delle ragioni causali addotte.

Non solo. Sarà inoltre tutta da verificare la concreta applicazione della norma da parte della giurisprudenza non solo sotto il profilo della valutazione della «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» ma anche della sanzione da ri-collegarsi perché in effetti la norma sembra aprire ad una discrezionalità assoluta del giudice nella scelta tra reintegrazione e indennità risarcitoria (che non é obbligatoria ma discrezionale senza onere di motivazione espresso), discrezionalità che sicuramente in-trodurrà ulteriori elementi di incertezza, con il rischio che la medesima fattispecie trovi soluzioni radicalmente differenti all’interno della medesima Sezione Lavoro di uno stes-so Tribunale.

La sanzione per il g.m.o. semplicemente insussistente o “non ricorrente”La norma, quindi, prosegue disponendo che «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ri-

corrono gli estremi del predetto giustifi cato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma» (recesso valido per gli effetti risolutivi, indennità risarcitoria da 12 a 24 men-silità dell’ultima retribuzione di fatto): appare evidente che la norma, dopo aver introdotto una forte discrezionalità valutativa nella parte precedente, risente qui di poca chiarezza riferendo-si a non meglio specifi cate «altre ipotesi» (art. 18, co. 7, come modifi cato dall’art. 1, co. 42, L. 28.6.2012, n. 92). Ai fi ni della determinazione dell’indennità tra minimo e massimo, oltre i criteri di cui al quinto comma dell’art. 18 novellato (ovvero l’anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizio-ni delle parti, con onere di specifi ca motivazione), il giudice dovrà tenere conto delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione nonché del comportamento tenuto dalle parti nella procedura preventiva (di cui al Capitolo 6) presso la Direzione del Lavo-ro territorialmente competente.

Vero è che la norma, almeno inizialmente, doveva prevedere solo questa ipotesi sanziona-toria per il licenziamento intimato per giustifi cato motivo oggettivo: sennonché, come noto, pressioni ricevute dalle OO.SS. e da alcune componenti politiche del Parlamento hanno fatto sì che si sia persa l’originaria chiarezza e coerenza legislativa.

Sì che oggi, a fronte di una possibile insussistenza del motivo oggettivo posto a base del licen-ziamento impugnato, la norma consente un’assoluta discrezionalità valutativa del giudice non solo nel ritenere più o meno “manifesta” l’insussistenza del g.m.o. ma anche nel potervi ricolle-gare, alternativamente, la sanzione della reintegrazione oppure la sanzione indennitaria.

Col riferirsi ad altre ipotesi rispetto alla “manifesta insussistenza”, riteniamo che la norma abbia voluto introdurre una distinzione tra “manifesta” insussistenza e mera insussistenza, un’insussistenza quest’ultima, come dire, “discutibile”, il cui accertamento sia avvenuto a se-guito quantomeno di un’istruttoria e non sia stata rilevata dal giudice ictu oculi.

La norma conclude prevedendo che «qualora, nel corso del giudizio, sulla base della do-manda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminato-rie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo».

Una precisazione forse ridondante ma, di certo, la parte della norma più chiara e per la quale non appaiono necessarie modifi che future.

Interessante riferire anche della modifi ca apportata all’art 30, co. 1, L. 183/2010 (c.d. Col-legato lavoro) dall’art. 1, co. 43, della L. 28.6.2012, n. 92. Il “Collegato lavoro” nella norma ci-tata ha introdotto un espresso limite per il giudice circa la possibilità di sindacare nel merito le scelte economiche, produttive ed organizzative dell’imprenditore poste alla base di eventua-li licenziamenti individuali o collettivi.

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Licenziamenti individuali e collettivi

Recuperando, peraltro, un orientamento pressoché univoco della giurisprudenza di legitti-mità, la norma aggiunge oggi che l’inosservanza da parte del giudice dei limiti postigli in ma-teria di sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive di competenza del datore di lavoro, “costituiscono motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto”: come dire, la Corte di Cassazione viene chiamata direttamente in causa in caso di atteggia-menti valutativi debordanti e non rispettosi delle reciproche competenze e ruoli da parte dei giudici di merito.

11.4 I licenziamenti collettivi

La L. 28.6.2012, n. 92, prevede, infi ne, una serie di modifi che anche alla disciplina sanzio-natoria dei licenziamenti collettivi contenuta nella L. 23.7.1991, n. 223.

Come noto, la comunicazione di avvio della procedura di mobilità deve avere forma scritta e deve contenere una serie di puntuali e specifi che indicazioni precisate dettagliatamente dal-la legge (ovvero, i motivi che hanno determinato l’eccedenza di personale, quelli per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione, numero, collocazione aziendale e profi li professionali del personale eccedente e di quello abitualmente impiegato, tempi di attuazione del programma di mobilità, eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma, metodo di cal-colo delle attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legge e dalla contratta-zione collettiva).

11.4.1 Vizi della comunicazione di apertura della procedura di mobilità

Sul punto, si segnala la prima novità prevista dall’art. 1, co. 45, L. 28.6.2012, n. 92: modifi -cando l’art. 4, co. 12, L. 223/1991, viene previsto che gli eventuali “vizi” afferenti la comunica-zione di avvio della procedura (quali, appunto, l’insuffi ciente specifi cità o completezza o, anco-ra, la poca trasparenza delle indicazioni richieste dalla legge) possono essere sanati dall’accordo sindacale eventualmente raggiunto nel corso della procedura. Ciò signifi ca che tali vizi non solo non potranno più essere, come avveniva in passato, motivo di ineffi cacia dei recessi intimati all’esito della procedura ma, tantomeno, motivo di impugnazione da parte dei singoli lavoratori nonostante la presenza di un accordo sindacale a chiusura della procedura. Il che dovrebbe determinare un quadro di maggiore stabilità e certezza nelle operazioni di ri-strutturazione aziendale.

11.4.2 Termine per la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità

La seconda rilevante novità introdotta (art. 1, co. 44, L. 28.6.2012, n. 92 riguarda il termine entro il quale la comunicazione fi nale contenente l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, i loro dati anagrafi ci e professionali e le modalità di applicazione dei criteri di scelta deve esse-re effettuata all’uffi cio del lavoro competente ed alle associazioni di categoria.

In base alla disciplina previgente, tale comunicazione doveva essere trasmessa “conte-stualmente” all’intimazione di recessi: il co. 44 dell’art. 1 citato prevede, invece, che essa deb-ba esser effettuata entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi, con ciò sgombrando il cam-po da ogni possibile dubbio applicativo relativo al (poco chiaro e origine di incertezze operative) concetto di “contestualità”. Anche questa novità dovrebbe garantire maggiore certezza e sere-

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Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L

Licenziamenti individuali e collettivi

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nità operativa quando i licenziamenti intimati raggiungono numeri considerevoli e la sin qui prevista necessaria “contestualità” della norma poteva costituire, laddove mancasse, motivo di ineffi cacia del licenziamento con conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art. 18 S.L.

11.4.3 Il regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi

Quanto alle conseguenze previste in ipotesi di dichiarazione giudiziale di illegittimità del licenziamento (a seguito, anche qui, di impugnazione da parte del lavoratore nel termine de-cadenziale di 60 giorni), la norma citata prevede l’applicazione dello stesso regime sanziona-torio relativo al licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo.

Vizio di forma e violazione dei criteri di scelta: la reintegrazionePertanto, nel caso in cui all’esito della sopra cennata procedura di mobilità, il licenziamento

venga individualmente intimato senza l’osservanza della forma scritta, il giudice – come avvenu-to sino ad oggi - continuerà a condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed alla corresponsione in favore del medesimo di un’indennità risarcitoria pari alle retribuzioni non percepite dal recesso sino alla reintegrazione (art. 1, co. 46, L. 28.6.2012, n. 92, che modifi ca in tal senso l’art. 5, co. 3, L. 223/91, introducendo un espresso richiamo all’art. 18, co. 1, S.L.).

Analogamente, la reintegrazione continuerà a essere l’unica sanzione possibile in ipotesi di licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta previsti dall’eventuale accordo sinda-cale di chiusura della procedura di mobilità o, in via residuale, di quelli previsti dall’art. 5 della L. 223/1991. Ciò che cambia è l’entità di tale indennità risarcitoria, che sino ad oggi doveva essere “almeno pari” a 5 mensilità, senza previsione di alcun limite massimo: in base all’art. 18, co. 4 (nuovo testo) espressamente richiamato, invece, essa non sarà soggetta ad alcun li-mite minimo, mentre non potrà comunque eccedere il limite massimo delle 12 mensilità. Vie-ne altresì espressamente previsto che da tale indennità dovrà essere dedotto quanto il lavora-tore abbia percepito - o avrebbe potuto percepire, dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione - nel corso del periodo di “estromissione” dal servizio.

Per completezza si segnala che, rispetto alla prima versione del Disegno di Legge pre-sentata dall’Esecutivo, nel corso dell’esame parlamentare è stata espunta la facoltà del giu-dice di disporre la reintegrazione del lavoratore nell’ipotesi di “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento (per giustifi cato motivo oggettivo), contenuta nel secon-do periodo del settimo comma del “nuovo” articolo 18, L. 300/1970. L’ipotesi di manifesta insussistenza delle ragioni economiche, produttive od organizzative, effettivamente, mal si attagliava alla fattispecie complessa, ed oggettivamente rilevante, dei licenziamenti per ri-duzione di personale.

Violazione della procedura di mobilità: l’indennità risarcitoriaIl regime sanzionatorio applicabile in ipotesi di violazione della procedura di licenziamento

collettivo è quello previsto dal “terzo periodo del settimo comma” del novellato articolo 18, L. 300/1970: in base a tale norma, qualora venga accertato giudizialmente che “non ricorrono gli estremi” di un giustifi cato motivo oggettivo di licenziamento, il datore di lavoro sarà condan-nato esclusivamente alla corresponsione, in favore del lavoratore illegittimamente licenziato, di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura variabile tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità, da determinarsi in considerazione dell’anzianità anagrafi ca del lavo-ratore, del numero di dipendenti occupati dall’impresa, delle dimensioni dell’attività economi-ca, nonché del comportamento e delle condizioni delle parti.

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Licenziamenti individuali e collettivi

Al riguardo, è presumibile che a fronte della lesione di un interesse latu sensu “generale”, come nel caso di vizi formali della procedura sindacale, il giudice propenderà per la quantifi -cazione di tale indennità in misura massima o, comunque, comparativamente più alta rispetto ad analoghe fattispecie di licenziamento individuale.

La modifi ca innovativa è comunque assai rilevante: sino ad oggi, infatti, i licenziamenti inti-mati senza l’osservanza delle prescrizioni procedurali di cui all’art. 4, L. 223/1991 erano da ritenersi ineffi caci, con conseguente automatica reintegrazione del lavoratore nel posto di la-voro e risarcimento integrale del danno.

Procedimento per condotta antisindacale e violazione della procedura di mobilitàÈ possibile, inoltre, che - soprattutto qualora non venga raggiunto l’accordo sindacale nel

corso della procedura - il nuovo impianto normativo delineato dalla riforma possa indurre le Organizzazioni Sindacali ad un ricorrente e sistematico utilizzo del procedimento sommario previsto dall’art. 28, L. 300/1970 in caso di comportamento antisindacale, ritenuto preferibile all’azione individuale promossa dal lavoratore: relativamente ai licenziamenti collettivi, tale tutela è stata ritenuta esperibile dalla giurisprudenza in molteplici ipotesi, quali, ad esempio, il mancato coinvolgimento di alcune delle sigle sindacali individuate dalla legge come destina-tarie della comunicazione di avvio della procedura, ovvero l’incompleta e/o generica indicazio-ne delle circostanze che hanno determinato la situazione di eccedenza di personale, ecc.

Ebbene, in tali ipotesi, l’eventuale provvedimento giudiziale di accoglimento del ricorso ex art. 28 S.L. comporterà necessariamente la “rimozione degli effetti” della condotta antisinda-cale e, dunque, l’annullamento dei licenziamenti eventualmente già intimati all’esito della pro-cedura viziata, con conseguente riammissione in servizio dei lavoratori illegittimamente licen-ziati e la corresponsione in loro favore delle retribuzioni non percepite dall’intimazione del recesso sino alla riammissione.

Pertanto, attraverso il procedimento per comportamento antisindacale i lavoratori estro-messi illegittimamente potrebbero “ritrovare” quella ricostituzione del rapporto di lavoro che la riforma dell’art. 18 ha voluto espungere dai rimedi previsti - per quanto riguarda la fattispe-cie qui in esame - nel caso di violazione della procedura di licenziamento collettivo.

In altre parole, in virtù del procedimento previsto dall’art. 28 citato i lavoratori potrebbero ottenere la ricostituzione del rapporto di lavoro, nonostante l’art. 1, co. 46, L. 28.6.2012, n. 92, abbia inteso circoscrivere tale rimedio ai soli casi di licenziamento intimato “senza l’osservan-za della forma scritta” o “in caso di violazione dei criteri di scelta”.

Senza dimenticare che, a seguito di una declaratoria di antisindacalità, il datore di lavoro sarebbe costretto ad avviare una nuova procedura di licenziamento collettivo, con i relativi ri-schi ed oneri ad essa connessi, per poter effettivamente attuare la necessaria riduzione di personale.

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LicenziamentI individualI e collettivI

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Capitolo 12

IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO E RITO SPECIALE PER LE RELATIVE CONTROVERSIE

12.1 Natura giuridica e forma dell’impugnazione

L’impugnazione del licenziamento, disciplinata dall’art. 6, L. 604/1966 (anche a seguito del-le novità introdotte dalla L. 4.11.2010, n. 183 e, recentissimamente, dalla L. 92/2012) consiste in un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam e che può consi-stere in un qualsiasi atto scritto giudiziale o stragiudiziale con cui il prestatore di lavoro manifesti la sua volontà di contestare la legittimità del licenziamento.

In base al tenore letterale della disposizione in commento, la Corte di Cassazione, in un primo momento, aveva optato per la natura recettizia dell’atto di impugnazione del licenzia-mento, con la conseguente applicazione dell’art. 1334 c.c. quanto all’effi cacia dello stesso, che doveva quindi pervenire al destinatario entro il termine di decadenza in essa previsto (Cass. S.U. 18.10.1982, n. 5935; successivamente, Cass. 13.12.2000, n. 15969; Cass. 13.7.2001, n. 9554; Cass. 21.6.2001, n. 8765; Cass. 21.4.2004, n. 7625).

Tuttavia, un orientamento giurisprudenziale più recente sostiene che l’impugnazione del li-cenziamento, laddove effettuata dal lavoratore tramite lettera raccomandata, deve ritenersi tempestiva allorché tale lettera sia consegnata all’uffi cio postale entro il termine previsto di sessanta giorni, nonostante il recapito al destinatario sopraggiunga dopo la scadenza del ter-mine stesso (Cass. SS. UU. 14.4.2010, n. 8830; più recentemente Cass. 11.7.2011, n. 15158).

12.2 Impugnazione stragiudiziale

Sono state considerate dalla giurisprudenza valide impugnazioni stragiudiziali:- il telegramma dettato per telefono dal lavoratore sempre che il medesimo fornisca la prova

della provenienza da sé del telegramma stesso con ogni mezzo, e anche tramite elementi indiziari, precisi e concordanti, intesi a delineare presunzioni in tal senso, quali la coinci-denza tra il soggetto cui nel testo sia attribuita la dichiarazione e il titolare dell’abbona-mento relativo all’apparecchio telefonico da cui proviene la chiamata, il possesso della co-pia del telegramma da parte dell’abbonato-mittente, l’utilizzazione esclusiva dell’apparecchio dal quale proviene la richiesta di dettatura (Cass. 23.12.2003, n. 19682);

- la notifi cazione (entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento) al datore di lavoro di un ricorso proposto al giudice amministrativo, seppur carente di giurisdizione in materia (Cass. 2.6.1982, n. 3370);

- il ricorso introduttivo di una procedura cautelare che, pur se affetto da nullità e come tale inidoneo ad instaurare un valido processo, può tuttavia valere quale impugnazione del li-cenziamento se risulta certa in tale senso la volontà del lavoratore a seguito del rilascio di procura al difensore che ha sottoscritto il ricorso stesso, e sempre che tale atto sia stato portato a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento (Cass. 18.4.1995, n. 4337).

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LicenziamentI individualI e collettivI

12.3 Impugnazione giudiziale

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, l’impugnazione giudiziale del licenziamento richiede la notifi ca al datore di lavoro del ricorso ex art. 414 c.p.c. e del decreto di fi ssazione dell’udienza entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento.

V’è da ritenere che la medesima conclusione debba valere anche con riferimento ai ricorsi presentati in via d’urgenza ai sensi dell’art. 1, co. 48, della L. 92/2012 di recentissima promul-gazione, di cui si dirà meglio infra.

La Suprema Corte, in una fattispecie particolare posta alla sua attenzione, in conformità a tale indirizzo interpretativo ha sostenuto che l’impugnazione del licenziamento costituisce un atto recettizio che produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza della controparte; pertanto, ove detta impugnazione sia proposta dal lavoratore (convenuto nel giudizio promosso dal datore di lavoro per l’accertamento della legittimità del licenziamento) con domanda riconvenzionale contenuta nella memoria difensiva, ai fi ni dell’osservanza del termine di decadenza di cui all’art. 6, L. 604/1966, non è suffi ciente il deposito in can-celleria dell’atto, occorrendo altresì che prima della scadenza di detto termine l’atto stesso sia portato a conoscenza della controparte; la decadenza dall’impugnazione non è d’altro canto impedita dall’esistenza della res litigiosa dipendente dall’azione promossa dal datore di lavoro, dalla quale non può dedursi la volontà del dipendente di impugnare il licenziamento (Cass. 29.1.1994, n. 899).

12.4 Le novità introdotte dalla L. 183/2010 e, successivamente, dalla L. 92/2012

L’art. 32 della L. 4.11.2010, n. 183, entrata in vigore il 24.11.2010, introduce una nuova di-sciplina in tema di impugnazione del licenziamento e termini decadenziali. Infatti, il primo ed il secondo co. dell’articolo 6 della L. 15.7.1966, n. 604, sono sostituti dalla seguente previsione: «il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla rice-zione della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavorato-re anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenzia-mento stesso». Tale disposizione, in realtà, non introduce alcuna modifi ca, essendosi il Legi-slatore limitato a riformulare le norme sostituite.

La novità si rinviene piuttosto nel prosieguo della disposizione in commento che dispone: «l’impugnazione è ineffi cace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni (che l’art. 1, co. 38, della L. 92/2012 ha ridotto a centottanta giorni in relazione ai licen-ziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore di tale legge, ndr), dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibi-lità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifi utati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo esple-tamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifi uto o dal mancato accordo».

La nuova disposizione accelera, dunque, i tempi di defi nizione giudiziale del licenziamento, condizionando l’effi cacia dell’impugnazione al deposito del ricorso giudiziale entro 270 giorni

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Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

LicenziamentI individualI e collettivI

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(180 a seguito della modifi ca introdotta dall’art. 1, co. 38, della L. 28.6.2012, N. 92) dall’impu-gnazione stessa ovvero alla comunicazione - da inviare alla controparte - della richiesta di tentativo di conciliazione (diventato facoltativo ai sensi dell’art. 31 della L. 183/2010) o di arbi-trato, da effettuarsi entrambi entro il medesimo termine. Il Legislatore fi ssa inoltre un ulterio-re termine di decadenza di 60 giorni per il deposito del ricorso «qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifi utati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo esple-tamento». L’obiettivo sotteso all’intervento legislativo è quello di garantire una maggiore cer-tezza nei rapporti giuridici e patrimoniali tra le parti.

Inoltre, l’inserimento del termine per l’instaurazione della controversia sembrerebbe, da un lato, avere un’implicita fi nalità defl attiva del contenzioso e, dall’altro, comporta certamente la riduzione del rischio economico per quelle aziende rientranti nell’ambito di applicazione della cosiddetta tutela reale, venendo tale rischio da oggi in poi legato sostanzialmente alla durata del processo e non più all’inerzia del lavoratore che godeva del termine prescrizionale di ben cinque anni. Infatti, nel regime fi nora vigente il lavoratore era onerato a impugnare il licenziamento entro il termine di 60 giorni ma era poi libero di proporre ricorso nel termine prescrizionale di cinque anni, potendo incidere in tal modo sulla determinazione della misura della retribuzione maturata medio tempore dal licenziamento fi no all’eventuale sentenza di reintegrazione.

Si deve ritenere, peraltro, che il mancato rispetto dei termini fi ssati per l’impugnazione del licenziamento non possa essere rilevato d’uffi cio dal giudice ma debba essere eccepito dal datore di lavoro all’atto della sua costituzione in giudizio (come già stabilito dalla giurispru-denza in relazione all’art. 6, L. 604/1966).

V’è altresì da sottolineare che la disposizione in esame, al co. 2, sancisce che i termini di decadenza sopra richiamati «si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento» e, quindi ed innanzitutto, anche al licenziamento nullo (ad esempio, perché intimato nel perio-do di interdizione per matrimonio o maternità, ovvero per motivo illecito o discriminatorio); infatti, argomentando in base alla teoria generale del contratto, se è vero che le fattispecie di nullità sino ad oggi sono state ritenute dalla giurisprudenza di legittimità sottratte al regime decadenziale dettato dall’art. 6, L. 604/1966, è altrettanto vero che la categoria dell’invalidità sussume anche quella della nullità.

Nell’art. 32 in esame è stato invece eliminato il riferimento ai casi di ineffi cacia del licen-ziamento, ragion per cui deve ritenersi escluso dall’ambito di applicazione di tale disposizione il licenziamento orale.

Inoltre, i nuovi termini decadenziali si applicano ad una serie assai eterogenea di fattispe-cie, solo in parte assimilabili al licenziamento, ovverosia, ai sensi del co. 3, «a) ai licenziamen-ti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualifi cazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; b) al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all’articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile; c) al trasferimento ai sensi dell’arti-colo 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento; d) all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e successive modifi cazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo».

Occorre sottolineare che l’art. 1, co. 11, della L. 92/2012 ha abrogato la lettera d) dell’art. 32, co. 3, L. 183/2010, e sostituito come segue la lettera a) del medesimo comma: «a) ai licen-ziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualifi cazione del rappor-to di lavoro ovvero alla nullita` del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli artico-li 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e successive modifi cazioni. Laddove si faccia questione della nullita` del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del

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124 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

LicenziamentI individualI e collettivI

predetto articolo 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fi ssato in cento-venti giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo arti-colo 6 e` fi ssato in centottanta giorni».

Ai sensi del successivo co. 4 dell’art. 32, gli stessi termini si applicano altresì «a) ai contrat-ti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9. 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge; c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’artico-lo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento; d) in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo 10.9. 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diver-so dal titolare del contratto».

L’art. 1, co. 11, della L. 92/2012 di recentissima promulgazione – al fi ne di assicurare una maggior tutela al lavoratore che, assunto reiteratamente con contratti a tempo determinato, si trovi di fronte alla diffi cile alternativa tra l’impugnazione dell’ultimo contratto cessato e l’at-tesa di vedersi proporre una nuova assunzione a termine dal medesimo datore di lavoro – sta-bilisce che, «laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto», il ter-mine decadenziale per l’impugnazione è fi ssato in 120 giorni a decorrere «dalla cessazione del medesimo contratto».

Tale nuova disposizione troverà applicazione «in relazione alle cessazioni di contratti a tempo determinato verifi catesi a decorrere dalL’1 gennaio 2013».

12.5 Rinunzia o revoca dell’impugnazione

La giurisprudenza ha affermato che il diritto del lavoratore di contestare o di accettare il licenziamento è un diritto disponibile e rinunciabile, al contrario del diritto a che il recesso venga attuato dal datore di lavoro solo nelle ipotesi previste dalla legge o dai contratti o dagli accordi collettivi e con le modalità ivi stabilite.

Occorre però che la rinuncia sia esplicita e faccia univoco riferimento alla cessazione del vincolo lavorativo.

Il lavoratore può rinunciare all’impugnazione del licenziamento o revocare l’impugnazione proposta anche mediante comportamenti concludenti. Sul punto, diverse sono le fattispecie esaminate dalla giurisprudenza.

Per quanto riguarda la quietanza a saldo o liberatoria che il lavoratore sottoscriva a segui-to della risoluzione del rapporto nel riscuotere le indennità di fi ne rapporto, la Suprema Corte ritiene che si tratti di una mera dichiarazione di scienza priva di effetti negoziali, a meno che non concorrano circostanze idonee a dimostrare la sicura volontà del lavoratore di accettare incondizionatamente la risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 18.9.2007, n. 19344).

Con riferimento alla mera accettazione del trattamento di fi ne rapporto ancorché non ac-compagnata da alcuna riserva, la Suprema Corte ha ritenuto che non possa essere interpreta-ta, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento, non sussistendo alcuna incompatibilità logica e giuridica tra l’accettazione di detto trattamento e la volontà di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento al fi ne di conseguire l’ulteriore diritto alla riassunzione o al risarcimento del danno (Cass. 21.3.2000, n. 3345).

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Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

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Occorre sottolineare come il co. 10 del novellato art. 18 S.L. ad opera della L. 92/2012 in-troduca una signifi cativa novità, stabilendo che «nell’ipotesi di revoca del licenziamento, pur-ché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’im-pugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo».

12.6 Effetti dell’impugnazione

Nel vigore della precedente disciplina dettata dall’art. 6, L. 604/1966, la valida impugnazio-ne del licenziamento impediva la decadenza e, in conformità ai principi generali ex art. 2967 c.c., il diritto del lavoratore rimaneva soggetto ai normali termini di prescrizione.

In particolare, l’azione di annullamento del licenziamento illegittimo si prescriveva in cin-que anni ex art. 1442 c.c.

A seguito della promulgazione della L. 183/2010, i princìpi appena esposti restano validi nei soli confronti dei licenziamenti esclusi dall’ambito di applicazione del citato art. 6, nella nuova formulazione; per tutti gli altri, invece, l’effetto dell’impugnazione di impedire la decadenza di cui all’art. 6, L. 604/1966, resta effi cace soltanto se tale atto è seguito «entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentati-vo di conciliazione o arbitrato… Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifi utati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve es-sere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifi uto o dal mancato accordo».

Peraltro, l’art. 1, commi 38 e 39, della L. 92/2012 è intervenuto ulteriormente sull’art. 6 in esame, ridudendo il citato termine decadenziale da 270 giorni a 180 giorni con riferimento «ai licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della presente legge».

12.7 I problemi applicativi introdotti dalla L. 10/2011

A pochi mesi dalla promulgazione della L. 183/2010, che aveva determinato una vera e propria “corsa” alle impugnazioni entro il termine decadenziale del 24.1.2011 da parte di colo-ro i cui rapporti fossero cessati anteriormente al 24.11.2010, il Legislatore è intervenuto con la L. 26.2.2011, n. 10 (di conversione del cd. Decreto Milleproroghe, entrato in vigore il 27.2.2011) nel tentativo di rimettere in termini quanti non fossero riusciti ad impugnare per tempo.

Infatti, l’art. 2, co. 54, di tale novella ha aggiunto il co. 1-bis all’art. 32 della L. 183/2010, ai sensi del quale «in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’art. 6, co. 1, della L. 15.7.1966, n. 604, come modifi cato dal co. 1 del presente articolo, relative al termine di ses-santa giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano effi cacia a decorrere dal 31 dicembre 2011».

Come condivisibilmente rilevato dalla maggioranza degli Autori, tuttavia, un’interpretazio-ne sistematica delle disposizioni in esame, in uno con quanto dettato inequivocabilmente dall’art. 11 delle preleggi – «la legge non dispone che per l’avvenire» – dovrebbe condurre alla conclusione secondo cui il citato art. 1-bis non sarebbe in alcun modo idoneo a sanare la decadenza nei confronti di quanti non abbiano proceduto all’impugnazione entro il già riferito termine decadenziale introdotto dalla L. 183/2010.

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126 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

LicenziamentI individualI e collettivI

A tale orientamento hanno aderito alcuni Giudici del Tribunale di Milano con le sentenze nn. 4404, 4880 e 4815 del 2011 (depositate rispettivamente il 29.9., 19.10.e 20.10.2011), mentre altri Giudici dello stesso Tribunale se ne sono discostati, affermando che «con l’intervento di cui al DL n. 225/2010 (convertito successivamente nella L. 10/2011, ndr) il legislatore ha volu-to posticipare l’effi cacia del termine decadenziale introdotto con la L. 183/2010, facendo così salvi i diritti di quanti, alla data del 24.1.2011, non avessero ancora provveduto alle impugna-zioni ivi disciplinate» (così Trib. Milano 4.8.2011, n. 3914).

Oggi il problema è stato “di fatto” superato a causa del passare del tempo, ma rimane cer-tamente un vulnus nella tecnica legislativa e nel raccordo cronologico fra le norme.

12.8 Legittimazione ad impugnare il licenziamento

L’art. 6, L. 604/1966 (anche nella formulazione attuale) indica, come soggetti legittimati ad impugnare il licenziamento, il prestatore di lavoro e l’associazione sindacale cui esso aderisca, attribuendo così a quest’ultima un potere di rappresentanza ex lege, con esclusione della neces-sità di qualsivoglia atto formale preventivo di rappresentanza, valendo a tal fi ne il semplice man-dato che il lavoratore abbia conferito al sindacato per la tutela in via generale dei propri diritti.

La Suprema Corte ha escluso che possa integrare una valida ipotesi di impugnazione stragiudiziale l’invio al datore di lavoro, entro il termine decadenziale, dell’avviso di convo-cazione dell’Uffi cio provinciale del lavoro per l’esperimento del tentativo di conciliazione, in quanto tale avviso è un atto dell’uffi cio del lavoro, ancorché promosso e sollecitato dal lavora-tore, e non costituisce pertanto l’atto scritto di impugnativa, di valore negoziale dispositivo e formale, dalla legge riservato unicamente al lavoratore medesimo ed all’associazione sinda-cale cui aderisca (Cass. 19.6.2006, n. 14087).

12.9 Impugnazione del licenziamento proposta dal solo legale del lavoratore

Una tematica particolarmente dibattuta in giurisprudenza è stata quella relativa all’impugna-zione del licenziamento proposta mediante lettera sottoscritta dal solo legale del lavoratore.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno innanzitutto confermato la validità dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento mediante lettera del difensore solo se munito di procura scritta rilasciata prima del termine di decadenza e hanno stabilito, per l’ipotesi di difetto di procura, la possibilità di ratifi ca da parte del lavoratore, purché tale ratifi ca richiami in modo specifi co l’atto compiuto dal falsus procurator e sia fatta per iscritto (Cass. Sez. Unite 2.3. 1987, n. 2180).

La Suprema Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare come la natura decadenziale del termine impedisca che possano rilevare le condizioni soggettive del destinatario della co-municazione dell’atto di impugnazione, ed in particolare la sua capacità di intendere e di volere, salva la tutela nei limiti dell’art. 428 c.c. (Cass. 1.12.1989, n. 5279).

12.10 Decorrenza del termine di impugnazione

L’art. 6, L. 604/1966 prevede che il termine di impugnazione del licenziamento decorra

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Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

LicenziamentI individualI e collettivI

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dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi, ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento.

A tale ultimo proposito la Suprema Corte ha precisato come, ove il lavoratore abbia impu-gnato il licenziamento prima di aver ricevuto la comunicazione dei motivi, ciò non comporti l’ineffi cacia dell’impugnazione del licenziamento e non implichi, quindi, che, ricevuta la comu-nicazione di essi, il lavoratore debba procedere ad una nuova ed autonoma impugnazione del licenziamento (Cass. 4.4.1990, n. 2785).

Peraltro, l’art. 1, co. 37, della L. 92/2012 ha sostituito il co. 2 dell’art. 2, L. 15.7.1966, n. 604, stabilendo che «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specifi cazione dei motivi che lo hanno determinato»; in prospettiva, pertanto, tale problematica risulterà superata.

Quanto alla decorrenza del termine di impugnazione, la Suprema Corte ha rilevato che poiché gli atti ricettizi in forma scritta, come la dichiarazione di licenziamento ex art. 2, L. 604/1966, si considerano conosciuti dal destinatario, a norma dell’art. 1335 c.c., il termine perentorio fi ssato per l’impugnazione del licenziamento, ai sensi dell’art. 6 legge cit., decorre dal momento in cui la dichiarazione di licenziamento è pervenuta all’indirizzo del lavoratore, salva la dimostrazione, da parte del medesimo, che egli, senza sua colpa, fosse impossibilita-to ad avere conoscenza della lettera di licenziamento (Cass. 23.4.1992, n. 4878). Dalla giurispru-denza citata (e dallo stesso tenore letterale dell’art. 1335 c.c.) emerge quindi che incombe al dipendente licenziato fornire la prova rigorosa di non aver avuto conoscenza del licenziamento fornendo la dimostrazione dell’esistenza di un evento estraneo alla sua volontà, quale la for-zata lontananza dal domicilio (ad esempio, per una grave malattia), tale da non consentire il collegamento (neanche telefonico o epistolare) dell’interessato con il proprio domicilio, luogo di destinazione dell’intimazione del licenziamento. Per quanto riguarda poi la decorrenza del termine per impugnare il licenziamento con preavviso, si deve aver riguardo alla comunicazio-ne del licenziamento stesso e non alla data effettiva di cessazione del rapporto.

Anche nell’ipotesi di licenziamento intimato al lavoratore in stato di malattia, il termine per l’impugnazione decorre dal giorno in cui il lavoratore ha conoscenza del licenziamento e dei relativi motivi, e non può essere differito alla cessazione della malattia (Cass. 11.10.1997, n. 9934).

12.11 Sede in cui recapitare l’atto di impugnazione

Qualora il datore di lavoro sia una persona giuridica occorre far riferimento alla sede lega-le della stessa, quale risulta dall’atto costitutivo, oppure alla sede effettiva, che si identifi ca con il luogo dove si svolge l’attività direttiva ed amministrativa dell’impresa.

È stata, però, ritenuta rituale la notifi ca dell’impugnazione del licenziamento effettuata presso lo stabilimento dalla cui direzione è pervenuto il licenziamento, nonché quella effet-tuata presso una sede secondaria della società (Pret. Foggia, 6.11.1989).

12.12 Prova dell’impugnazione

La prova dell’avvenuta impugnazione nel termine di legge, quale fatto impeditivo della de-cadenza, incombe sul lavoratore licenziato, il quale ha l’onere di allegare quando ha ricevuto la comunicazione del licenziamento e quando lo ha impugnato (Cass. 8.2.1999, n. 1076).

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128 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

LicenziamentI individualI e collettivI

Atteso che l’impugnazione del licenziamento ha natura di atto negoziale unilaterale, per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, l’impugnazione del licenziamento non può essere provata attraverso il ricorso alla prova testimoniale (Cass. 24.8.2000, 11059).

12.13 Effetti della mancata impugnazione

Ai sensi della disciplina introdotta dalla L. 183/2010, la mancata impugnazione del licenzia-mento entro il termine di 60 giorni indicato dall’art. 6, L. 604/1966, ovvero il mancato deposito del ricorso giudiziale o la mancata comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato entro il successivo termine di 270 giorni (ridotto a 180 giorni dall’art. 1, commi 38 e 39, della L. 92/2012 con riferimento «ai licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore della presente legge»), comporta rispettivamente la decadenza dall’impugnazione medesima ovvero l’ineffi cacia dell’impugnazione tempestivamente propo-sta, ossia preclude al lavoratore licenziato la possibilità di richiedere il riconoscimento delle tutele introdotte dal novellato art. 18 S.L., così come di quelle previste dall’art. 8, L. 604/1966.

Tuttavia, tali conseguenze non precludono l’esercizio della normale azione risarcitoria per danni conseguenti all’illegittimo licenziamento ove ne ricorrano (e siano dal lavoratore allega-ti) i relativi presupposti, o anche solo per ottenere l’indennità di mancato preavviso. Infatti, la mancata impugnazione da parte del lavoratore del licenziamento, che sia illegittimo ai sensi della L. 604/1966, non preclude l’azione risarcitoria in base ai principi generali, la quale non può non comprendere anche il danno costituito dalla perdita dell’indennità della cassa inte-grazione guadagni che il lavoratore avrebbe percepito ove non fosse stato illegittimamente li-cenziato (Cass. 5.2.1985, n. 817).

Con riferimento ai presupposti dell’azione risarcitoria di diritto comune, l’orientamento giuri-sprudenziale prevalente ritiene che il lavoratore decaduto dall’impugnazione del licen-ziamen-to possa esperire tale azione sulla base di ulteriori e distinti fatti ingiusti, atteso che la decadenza dall’impugnazione, precludendo al giudice l’accertamento dell’illegittimità del re-cesso, impedisce altresì di poter considerare tale illegittimità quale elemento costitutivo della pretesa risarcitoria ex art. 1218 c.c. (Cass. 21.8.2006, n. 18216; Cass. 12.10.2006, n. 21833; Cass. 10.1.2007, n. 245 e Cass. 14.5.2007, n. 11035).

In altre parole, il lavoratore potrà esperire l’ordinaria azione risarcitoria di diritto comune sulla base di circostanze, diverse ed ulteriori rispetto alla semplice illegittimità del licenzia-mento, che costituiscano di per sé un fatto ingiusto ovvero un inadempimento contrattuale (si pensi, a titolo di esempio, al licenziamento ingiurioso e al licenziamento quale atto fi nale di una condotta mobbizzante).

La decadenza dall’impugnazione non può essere rilevata d’uffi cio dal giudice ex art. 2969 c.c., ma dà luogo ad un’eccezione in senso stretto (Cass. 2.2.1991, n. 1035). In particolare, tale eccezione del datore di lavoro è soggetta alla disciplina contenuta nell’art. 416 c.p.c. e, pertanto, deve essere sollevata nella memoria difensiva da depositarsi almeno dieci giorni prima dell’udienza di discussione, ovvero nell’atto di costituzione da depositare nell’ambito del procedimento d’urgenza introdotto dall’art. 1, co. 48 e seguenti, della L. 92/2012 con riferimento alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti rientranti nell’ambito di applicazione del novellato art. 18 S.L. (cfr. infra). Conseguentemente tale eccezione, se proposta nel prosieguo del giudizio, è inammissibile, salva la facoltà del giudi-ce prevista dall’art. 420 c.p.c., co. 1, di autorizzare la modifi ca delle difese delle parti (Cass. 19.12.1985, n. 6514).

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Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

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12.14 Impugnazione del licenziamento e contratti di lavoro a termine

Una delle principali novità introdotte dalla L. 183/2010 consiste nell’estensione del regime decadenziale di cui al novellato art. 6, L. 604/1966 anche al rapporto di lavoro a termine.

Infatti, l’art. 32, co. 3, L. 183/2010 (come modifi cato dall’art. 1, co. 11, della L. 92/2012) – rubrica-to peraltro “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato” - preve-de che «le disposizioni di cui all’articolo 6 della L. 15.7.1966, n. 604, come modifi cato dal co. 1 del presente articolo, si applicano inoltre: a) ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di que-stioni relative … alla legittimità del termine apposto al contratto; … d) all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e successive modifi cazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo».

Il successivo co. 4 precisa che le medesime disposizioni si applicano «a) ai contratti di la-voro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di di-sposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigo-re della presente legge».

Quanto alla giurisprudenza formatasi anteriormente alla promulgazione della L. 183/2010, è stata controversa l’applicabilità della normativa sull’impugnazione del licenziamento all’azione di accertamento dell’illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro subordinato, sino all’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., Sez. Un., 6.7.1991, n. 7471) ed al suc-cessivo consolidato orientamento giurisprudenziale, che aveva escluso la suddetta applicabilità.

In particolare era stato ritenuto che, in caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, non sussistesse per il lavoratore cessato dal servizio l’onere di impugnazione nel ter-mine di sessanta giorni- previsto a pena di decadenza dall’art. 6, L. 604/1966, che presuppone un licenziamento -

atteso che il rapporto cessa per l’apparente operatività del termine stesso in ragione dell’e-secuzione che le parti danno alla clausola nulla, con conseguente applicabilità della disci-plina in tema di nullità, sicché in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l’illegittimità del termine e chiedere l’accertamento della perdurante sussistenza del rapporto e la con-danna del datore di lavoro a riattivarlo riammettendolo al lavoro, salvo che il protrarsi del-la mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda ed il suo prolungato di-sinteresse alla prosecuzione del rapporto esprimano, come comportamento tacito concludente, la volontà di risoluzione consensuale del rapporto stesso (Cass. 19.1.2010, n. 839; Cass. 5.11.2009, n. 23520) e sempre che il rapporto (apparentemente) a termine non si sia risolto per effetto di uno specifi co atto di recesso del datore di lavoro (licenziamento) che si sia sovrapposto alla mera operatività del termine con applicazione, in tale ultimo caso, sia del termine di decadenza di cui all’art. 6 cit., sia della disciplina della giusta causa e del giustifi cato motivo di licenziamento (Cass. 8.3. 2000, n. 2647; Cass. 4.6.2003, n. 8893).

12.15 Il rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti introdotto dalla L. 92/2012

Una delle principali novità introdotte dalla L. 92/2012 consiste nella corsia preferenziale che è stata strutturata – nei co. da 47 a 68 dell’articolo 1 – per le controversie giudiziali in tema

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di impugnazione dei licenziamenti rientranti nell’ambito di applicazione del novellato art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Il nuovo rito si applica «alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge», e per la trattazione delle stesse «devono essere riservati particolari giorni nel calendario delle udienze».

La prima impressione che si ricava dalla lettura delle disposizioni in commento è che il Legislatore, dopo aver previsto con la L. 183/2010 (Collegato Lavoro) un rigido regime deca-denziale con un preciso intento defl attivo del contenzioso, voglia oggi affi ancarvi un rito pro-cessuale speciale caratterizzato da particolare celerità.

Per quanto riguarda più in dettaglio la nuova disciplina processuale, possono accedere al nuovo rito per le controversie in tema di licenziamenti non soltanto le dispute «aventi ad og-getto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18», bensì anche quelle che comportino – in uno con il recesso – la necessità di risolvere «questioni relative alla qualifi cazione del rapporto di lavoro» (si pensi in particolare ai rapporti intercorrenti con titolari di partita IVA o alle collaborazioni “autonome” o senza progetto, dissimulanti in realtà rapporti di lavoro subordinato) (così l’art. 1, co. 47, L. 92/2012).

Lo svolgimento del processo, poi, è improntato alla massima urgenza (come ripetutamente chiesto anche in sede comunitaria al fi ne di invogliare gli investimenti nel nostro Paese).

E’ stata, infatti, prevista al co. 48 una fase di tutela urgente, che si propone «con ricorso al Tribunale in funzione di giudice del lavoro».

Viene meno, tuttavia, la necessità di dimostrare la sussistenza dei tradizionali requisiti dell’urgen-za di cui all’art. 700 c.p.c. (fumus boni juris e periculum in mora), in quanto «il ricorso deve avere i requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile»: vale a dire, oltre all’identifi cazione dell’uffi cio giudiziario, delle parti e dei rispettivi procuratori, «l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni». Poiché la norma richiama gli elementi comuni a tutti gli atti giudiziari, è da pensare che proprio nell’estrema semplifi cazione di questo rito si potrà verifi care l’effettiva idoneità del nuovo procedimento nel determinare in tempi rapidissimi la legittimità o meno del recesso.

Fissata l’udienza «non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso», il relativo decreto deve essere notifi cato alla controparte unitamente al ricorso nel termine assegnato dal giudice, che deve essere «non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza», e nell’ulteriore termine «non inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza» il resistente è tenuto a costituirsi in giudizio.

Viene precisato che la notifi ca può essere effettuata dal ricorrente «anche a mezzo di posta elettronica certifi cata» - un mezzo, questo, ripetutamente richiamato nella riforma – e che «qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi devono essere depositati presso la cancelle-ria in duplice copia».

All’udienza di comparizione delle parti «il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’uffi cio, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’acco-glimento o al rigetto della domanda» (art. 1, co. 49, L. 92/2012).

Ai sensi del successivo co. 51, avverso il provvedimento che decide il giudizio – la cui effi cacia «non può essere sospesa o revocata fi no alla pronuncia della sentenza con cui il giudice defi -nisce il giudizio instaurato ai sensi dei co. da 51 a 57» - è prevista la possibilità di «opposizione», nei modi e nelle forme tipiche del rito del lavoro dettate dall’art. 414 c.p.c., con ricorso «da de-positare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, en-tro trenta giorni dalla notifi cazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore».

La disposizione specifi ca che «con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al co. 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o

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Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie

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siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende esse-re garantiti. Il giudice fi ssa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi sessanta giorni, assegnando all’opposto termine per costituirsi fi no a dieci giorni prima dell’udienza».

Effettuata la notifi ca del ricorso e del decreto di fi ssazione dell’udienza (anche a mezzo di posta elettronica certifi cata), costituitosi il convenuto «mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’articolo 416 del codice di procedura civile», anche in relazione alla chiamata di terzo (disciplinata dai co. 54 e 55 dell’articolo in esame), e separate eventuali questioni proposte in via riconvenzionale laddove non fondate «su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale» (co. 56), si tiene l’udienza di discussione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso, ma la prima udienza potrebbe slittare di non più di 60 giorni proprio in ipotesi di chiamata in causa di terzo.

In occasione dell’udienza disciplinata al co. 57 «il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d’uffi cio … e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fi no a dieci giorni prima dell’udienza di discussione». Sempre nell’ottica di celerità del procedimento di cui abbiamo già detto, la sen-tenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’u-dienza di discussione, ha effi cacia provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizio-ne di ipoteca giudiziale.

Ai successivi commi da 58 a 63 il legislatore ha ovviamente disciplinato anche gli ulterio-ri gradi del giudizio di impugnazione della sentenza avanti la competente Corte d’Appello ovvero la Corte Suprema di Cassazione: gradi processuali ispirati sempre alla massima (e auspicata) celerità.

Quanto al primo, da proporre a pena di decadenza «entro trenta giorni dalla comunicazio-ne» della sentenza «o dalla notifi cazione se anteriore», viene mantenuto il divieto di ammet-tere «nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d’uffi cio, li ritenga indi-spensabili ai fi ni della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile».

Fissata «l’udienza di discussione nei successivi sessanta giorni», fermi «i termini previ-sti dai co. 51, 52 e 53», «alla prima udienza, la corte può sospendere l’effi cacia della senten-za reclamata se ricorrono gravi motivi».

Dopo di che il Collegio «sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contrad-dittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note difensive fi no a dieci giorni prima dell’udienza di discussione». Anche in questo grado di giudizio la sentenza, completa di motivazione, deve essere deposita-ta in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.

Da segnalare che la sospensione dell’effi cacia della sentenza pronunciata in tale sede deve essere chiesta alla stessa Corte d’appello «che provvede a norma del co. 60»: essendo francamente diffi cile pensare che la Corte possa accogliere siffatta istanza relativa ad un pro-prio provvedimento, è evidente che diverrà ancor più stringente, da parte di chi la solleverà, la prova dei «gravi motivi» che sottendono alla stessa.

Con riferimento, infi ne, all’impugnazione avanti la Corte di legittimità, il relativo ricorso «deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione» della sentenza pronunciata in grado di appello «o dalla notifi cazione se anteriore», e «la Corte fi ssa l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso», termine quest’ultimo che, se fosse rispettato, darebbe una forte accelerazione alla conclusione defi ni-tiva delle controversie giudiziali.

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Licenziamenti individuali e collettivi

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Capitolo 13

LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE D’AZIENDA E DI ALTRE CATEGORIE PARTICOLARI DI LAVORATORI

13.1 Il dirigente d’azienda

L’art. 10, L. 15.7.1966, n. 604, esclude dal proprio ambito di applicazione i dirigenti d’azien-da, il cui rapporto di lavoro non gode né della c.d. tutela reale né di quella obbligatoria, ma è assoggettato al regime della libera recedibilità, con conseguente applicazione della disci-plina legale dettata dagli artt. 2118 e 2119 c.c.

Tale esclusione è stata dichiarata costituzionalmente legittima in ragione dell’impossibilità di equiparare il dirigente agli altri lavoratori subordinati, attesa la peculiare collocazione del primo all’interno dell’organizzazione aziendale e del particolare atteggiarsi del vincolo fi ducia-rio che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale.

La questione dell’illegittimità costituzionale della norma in esame è stata ritenuta manife-stamente infondata, per le medesime ragioni sopra esposte, anche successivamente alla pro-mulgazione della L. 108/1990, che ha introdotto due disposizioni che riguardano (anche) il li-cenziamento del dirigente: la prescrizione della forma scritta del recesso e la disciplina sanzionatoria del licenziamento discriminatorio.

Tuttavia, la contrattazione collettiva è da tempo intervenuta al fi ne di limitare convenzionalmen-te l’esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro; infatti, la maggior parte dei con-tratti collettivi di categoria prevede la «giustifi catezza» quale presupposto di legittimità contrat-tuale del licenziamento irrogato, la cui assenza determina - di contro - il diritto del dirigente alla corresponsione di un’indennità supplementare, istituto di natura esclusivamente pattizia.

Valga osservare sul punto che, come sottolineato dalla giurisprudenza, sebbene la discipli-na limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi 604/1966 e 300/1970 non sia applica-bile, ai sensi dell›art. 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali (quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali che di dirigenti medi o minori), essa trova tuttavia applicazione in caso di licenziamento di pseudo-dirigenti, «vale a dire coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente» (Cass. 13.12.2010, n. 25145).

Occorre, infi ne, ricordare che il nuovo rito speciale per le controversie in tema di licenzia-menti introdotto dalla L. 92/2012 (cfr. Capitolo 12) non si applica in caso di cessazione del rapporto dirigenziale, in virtù dell’espressa previsione dell’art. 1, co. 47, della legge men-zionata, in base alla quale le relative disposizioni «si applicano alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della L. 20.5.1970, n. 300, e successive modifi cazioni».

13.2 Licenziamento disciplinare

Il licenziamento disciplinare del dirigente è stato oggetto di vivace dibattito nel corso degli

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Licenziamenti individuali e collettivi

ultimi quindici anni. Fino al 1995, infatti, i giudici ritenevano inapplicabili al dirigente le garan-zie procedimentali di cui all’art. 7 S.L. (Cass. SS.UU. 29.5.1995, n. 6041).

In seguito, il principio enunciato dalle Sezioni Unite è stato superato da successive pronun-ce della giurisprudenza di legittimità, le quali avevano ritenuto non applicabili le garanzie procedimentali previste dall’art. 7 S.L. esclusivamente nei confronti dei dirigenti c.d. «di vertice», dovendosi invece ritenere applicabili nei confronti dei cd. «pseudo-dirigenti» o «dirigenti convenzionali» ovvero del personale della media e bassa dirigenza che sia legal-mente ascrivibile alla categoria del personale direttivo (Cass. 28.4.2003, n. 6606; Cass. 18.7.2001, n. 9715; Cass. 25.7.2000, n. 9766; Cass. 26.2.2000, n. 2192).

Da ultimo l’orientamento della giurisprudenza è ulteriormente mutato superando la distin-zione tra dirigente apicale e non. Secondo tale nuova interpretazione, le garanzie procedimen-tali di cui all’art. 7 S.L. sono, pertanto, applicabili a tutti i dirigenti «a prescindere dalla spe-cifi ca posizione da loro ricoperta nell’organizzazione dell’impresa» (Cass. SS.UU. 30.3. 2007, n. 7880; Cass. 17.1.2011, n. 897; Cass. 27.12.2010, n. 28967).

13.3 Giusta causa

Il particolare ruolo rivestito dal dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale com-porta una peculiare connotazione della giusta causa di licenziamento prevista dall’art. 2119 c.c.; infatti, secondo la Suprema Corte può legittimamente ricorrersi al licenziamento per giusta causa del dirigente in presenza di qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fi ducia con il datore; ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante, o una importante de-viazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extra-lavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fi duciario e quindi giustifi carne il licen-ziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso (Cass. 11.6.2008, n. 15496; Cass. 1.2.2012, n. 1424).

13.4 Giustifi catezza

Quanto invece al signifi cato da attribuire alla nozione pattizia di «giustifi catezza», può dirsi pacifi camente accolto nella giurisprudenza tanto di merito che di legittimità il principio secon-do cui tale nozione non coincide con quella legale dettata dall’art. 3, L. 604/1966 per il giustifi -cato motivo, atteso che il precetto legislativo attiene a ragioni ben individuate (o individuabili) sia soggettivamente che oggettivamente, mentre il licenziamento del dirigente non soffre di tali limitazioni, ben potendo essere attuato per qualsiasi motivo purché giustifi cato, ossia og-getto di una decisione datoriale coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto.

Pertanto, condotte del lavoratore non integrabili una giusta causa o un giustifi cato motivo di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato possono comunque rien-trare nella nozione di «giustifi catezza» ai fi ni del licenziamento del dirigente, con conseguente disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva, allorché tali condotte risultino tali da ledere il carattere fi duciario tipico del rapporto di lavoro dirigenziale. Il parametro valutativo su cui verifi care l›esistenza della «giustifi catezza» è dato dal rispetto da parte del datore di lavoro dei generali princìpi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del

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contratto (art. 1375 c.c.) e del divieto di licenziamento discriminatorio ex art. 3, L. 108/1990, o per motivo illecito e nei casi in cui ci si trovi di fronte a condotte d’inesatto o parziale adempimento anche dei generali criteri codicistici di cui all’art. 1453 e segg. c.c. In altre parole, affi nché il li-cenziamento del dirigente possa essere considerato «giustifi cato» non è necessaria la ricorren-za delle causali previste dalla L. 604/1966 per gli altri lavoratori subordinati, potendo il diri-gente essere legittimamente licenziato per motivi diversi, meno gravi ed anche non riconducibili ai concetti ed alle nozioni di cui alla citata legge (dal cui ambito di applicazione i dirigenti sono inequivocabilmente esclusi), purché gli stessi non appaiano connotati da caratte-ri di arbitrarietà o, addirittura, di discriminazione (Cass. 19.9.2011, n. 19074).

In tal senso si è espressa la Suprema Corte affermando che la giustifi catezza può fondarsi sia su ragioni soggettive ascrivibili al dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non devono necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale, tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede – che costituisce, come accennato, il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento – deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 della Costituzione (Cass. 15.7.2009, n. 16498).

13.5 Conseguenze del licenziamento

Sotto il profi lo strettamente legale, in materia di licenziamento del dirigente trova applica-zione la disciplina dettata dagli artt. 2118 e 2119 c.c.

Pertanto, il dirigente può essere innanzitutto licenziato senza preavviso nel caso in cui ricorra una giusta causa di recesso.

Diversamente, troverà applicazione quanto previsto dall’art. 2118 c.c., in base al quale nel caso di recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato il datore di lavoro è tenuto a con-cedere al lavoratore il termine di preavviso, nella misura prevista dal contratto collettivo appli-cato al rapporto di lavoro, ovvero a corrispondere al medesimo la relativa indennità sostitutiva.

13.6 Periodo di preavviso previsto dai principali CCNL in caso di recesso da parte del datore di lavoro

ISTITUTO CONTRATTUALE

CCNL INDUSTRIA

CCNL COMMERCIO

CCNL CREDITO

CCNL SPEDIZIONI

Preavviso 8 mesi, sino a 2 anni di anzianità di servizio;un ulteriore mez-zo mese per ogni successivo anno di anzianità, fi no ad un preavviso mas-simo di 12 mesi

6 mesi, sino a 4 anni di anzianità di servizio; 8 mesi da 4 a 8 anni di servizio; 10 mesi da 8 a 12 anni di servizio;12 mesi oltre 12 anni di servizio

5 mesi, sino a 2 anni di anzianità di servizio un ulterio-re mezzo mese per ogni successivo anno di anzianità, fi no ad un preav-viso massimo di 12 mesi

6 mesi, sino a 4 anni di anzianità di servizio;8 mesi da 4 a 8 anni di servizio;10 mesi da 8 a 12 anni di servizio;12 mesi oltre 12 anni di servizio

Oltre a ciò, la contrattazione collettiva relativa ai dirigenti, ove applicabile, generalmente

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stabilisce a carico del datore di lavoro e a favore del dirigente licenziato, in caso di ritenuta ingiustifi catezza del recesso, un’indennità supplementare determinata in base a criteri fi ssati contrattualmente tra un minimo e un massimo.

13.7 Indennità supplementare prevista dai principali CCNL per i dirigenti

ISTITUTO CONTRATTUALE

CCNL INDUSTRIA

CCNL COMMERCIO

CCNL CREDITO

CCNL SPEDIZIONI

Indennitàsupplementare

- un minimo pari alle mensilità di preavviso, mag- giorato di 2 men-silità;

- un massimo pari a 20 mesi di pre-avviso

- un minimo pari alle mensilità di preavviso;

- un massimo pari a 18 mesi di pre-avviso

- un minimo pari a 7 mensilità di preavviso;

- un massimo pari a 22 mesi di pre-avviso

- un minimo pari alle mensilità di preavviso;

- un massimo pari al doppio delle mensilità di pre-avviso

Inoltre, alcuni CCNL dispongono che l’indennità supplementare venga automaticamente aumentata in relazione all’età del dirigente licenziato.

13.8 Incremento automatico dell’indennità supplementare per i dirigenti previsto da alcuni CCNL

ISTITUTO CONTRATTUALE

CCNL INDUSTRIA

CCNL COMMERCIO

CCNL CREDITO

CCNL SPEDIZIONI

Indennità aggiuntiva

− 7 mensilità in cor-rispondenza del 54° e 55° anno compiu-to;− 6 mensilità in cor-rispondenza del 53° e 56° anno compiu-to;− 5 mensilità in cor-rispondenza del 52° e 57° anno compiu-to;− 4 mensilità in cor-rispondenza del 51° e 58° anno compiu-to;− 3 mensilità in cor-rispondenza del 50° e 59° anno compiuto

(a condizione che il dirigente abbia una anzianità di servizio prestato in azienda, in qualsiasi quali-fi ca, superiore a 10 anni)− 9 mensilità per coloro che hanno un’età tra i 50 e 52 anni compiuti;− 8 mensilità in corrispondenza del 53° e 54° anno com-piuto;− 7 mensilità in corrispondenza del 55° e 56° anno com-piuto;

(a condizione che il dirigente abbia una anzianità di servizio prestato in azien-da o nel gruppo, in qualsiasi qualifi ca, superiore a 10 anni)− 7 mensilità in corrispondenza del 51° anno compiuto;− 6 mensilità in corrispondenza del 50° e 52° anno com-piuto;− 5 mensilità in corrispondenza del 49° e 53° anno com-piuto;

(a condizione che il dirigente abbia una anzianità di servizio prestato in azienda, in qualsiasi quali-fi ca superiore a 10 anni)− 9 mensilità per coloro che hanno un’età tra i 50 e 52 anni compiuti;− 8 mensilità in corrispondenza del 53° e 54° anno com-piuto;− 7 mensilità in corrispondenza del 55° e 56° anno com-piuto;

– continua –

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Indennità aggiuntiva

− 6 mensilità in corrispondenza del 57° e 58° anno com-piuto;− 5 mensilità in corrispondenza del 59° e 60° anno com-piuto;− 4 mensilità per coloro che hanno un’età anagrafi ca compresa tra i 61 e i 64 anni compiuti

− 4 mensilità in corrispondenza del 48° e 54° anno com-piuto;− 3 mensilità in corrispondenza del 47° e 55° anno com-piuto;− 2 mensilità in corrispondenza del 46° e 56° anno com-piuto

− 6 mensilità in corrispondenza del 57° e 58° anno com-piuto;− 5 mensilità in corrispondenza del 59° e 60° anno com-piuto;− 4 mensilità per coloro che hanno un’età anagrafi ca compresa tra i 61 e i 64 anni compiuti

13.9 Trattamento contributivo e fi scale dell’indennità supplementare

Sotto la vigenza del D.P.R. 597/1973, la giurisprudenza di legittimità era costante nell’affer-mare che l’indennità prevista dal contratto collettivo dei dirigenti di aziende industriali per l’i-potesi di licenziamento ingiustifi cato non rientrasse tra i redditi soggetti a tassazione separata ex art. 12, D.P.R. 29.9.1973, n. 597, e non fosse, quindi, assoggettabile a ritenuta d’acconto.

Tuttavia, con la riforma introdotta dal D.P.R. 917/1986 il concetto di reddito di lavoro dipen-dente risponde ad un concetto di onnicomprensività. Infatti, in base all’art. 51 del vigente d.p.r. 917/1986, come successivamente sostituito dall’art. 3, L. 314/1997, «il reddito di lavoro dipen-dente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel perio-do d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».

Inoltre, l’art. 6, co. 2, del citato D.P.R. 917/1986 dispone che «i proventi conseguiti in sosti-tuzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di reddi-ti, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti».

Infi ne, il successivo art. 17 stabilisce che «l’imposta si applica separatamente ai seguenti redditi: a. trattamento di fi ne rapporto (...) e indennità equipollenti, comunque denominate, commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente (...); altre indennità e somme perce-pite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese l’indennità di preavviso (...)». Alla luce di tali disposizioni, la Suprema Corte ha mutato il proprio prece-dente orientamento per affermare che tutti gli emolumenti corrisposti al lavoratore dipenden-te per reintegrare e/o sostituire un mancato guadagno, quale è l’indennità supplementare in esame, sono soggetti a tassazione secondo il criterio della tassazione separata di cui al ripor-tato art. 17, D.P.R. 917/1986.

Più specifi camente la Corte di Cassazione ha precisato che le somme percepite da un diri-gente ingiustamente licenziato a titolo risarcitorio costituiscono reddito imponibile se destina-te a coprire un danno consistito nella perdita di redditi (c.d. lucro cessante), cioè se le somme sono corrisposte in luogo delle retribuzioni che sarebbero state percepite nell’ipotesi di prose-cuzione del rapporto di lavoro (Cass. 5.8.2002, n. 11687; Cass. 30.1.2003, n. 1431). Più recente-mente, Cass. 25.5.2007, n. 12301, ha ritenuto che «per escludere l’assoggettabilità ad irpef di un’erogazione economica al prestatore da parte di un datore di lavoro - i cui rapporti di credito e debito trovano normalmente la loro causa diretta nel rapporto di subordinazione o nella ri-

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soluzione di questo - è necessario accertare che l’erogazione stessa non trovi la sua causa (ovverosia la fonte della sua obbligatorietà) nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positiva-mente escluso, che l’erogazione stessa, in base all’interpretazione della concreta volontà ma-nifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà né in redditi sostituiti, né nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri ma, al contrario, nella volontà di risarcire «l’illegittima perdita di prestigio e chances professionali per il dipendente» o, addirit-tura, un danno biologico».

13.10 Lavoratore in prova

Ai sensi dell’art. 2096 c.c. il contratto di lavoro può prevedere un periodo di prova durante il quale ciascuna delle parti può recedere senza obbligo di preavviso, e al termine del quale l’as-sunzione diviene defi nitiva ed il servizio prestato deve essere computato nell’anzianità di ser-vizio del prestatore di lavoro. La funzione del patto di prova, per quanto riguarda il datore di lavoro, è quella di verifi care sia le qualità professionali, sia il comportamento e la personalità complessiva del prestatore di lavoro in relazione all’adempimento della prestazione, prima che il vincolo contrattuale divenga defi nitivo.

La forma di stipulazione del patto deve essere quella dell’atto scritto, richiesta ad substan-tiam, vale a dire a pena di nullità del patto stesso con conseguente assunzione defi nitiva del prestatore di lavoro, e la sua sottoscrizione deve necessariamente avvenire anteriormente o, quantomeno, contestualmente alla data di instaurazione del rapporto di lavoro, senza possibi-lità di equipollenti o sanatorie.

Oltre alla forma scritta, l’ordinamento impone la predeterminazione della durata massima della prova che, di norma, è stabilita dai contratti collettivi. In ogni caso, ai sensi dell’art. 10, L. 15.7.1966, n. 604, il limite massimo di durata della prova è di sei mesi decorsi i quali il rap-porto di lavoro acquisterà comunque una stabilità trovando applicazione la disciplina ordi-naria dei licenziamenti individuali.

Quanto al recesso, l’art. 2096, co. 3, c.c. prevede che durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal rapporto di lavoro anche in mancanza di giusta causa ovvero di giustifi cato motivo di licenziamento e senza l’obbligo del preavviso. Questa previsione normativa trova con-ferma nel disposto del summenzionato art. 10 della L. 604/1966 che ha escluso l’applicabilità del recesso causale ai lavoratori in prova fi no ad un periodo non superiore ai sei mesi: tale esclusione permane tuttora atteso che lo stesso art. 10 non è stato modifi cato dalla L. 108/1990.

Dunque, proprio per il fatto che la L. 604/1966 ha lasciato fuori dal proprio ambito applica-tivo il lavoro in prova, il recesso datoriale da tale rapporto non richiede particolari formalità: infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, non solo il datore di lavoro non deve comunicare i motivi del recesso (Cass. 5.11.2007, n. 23061) ma addirittura lo stesso re-cesso non è assoggettato alla forma scritta (Cass. 16.8.2000, n. 10834; Cass. 20.5.1991, n. 5634). Tuttavia, qualora le parti abbiano stabilito una durata minima per la prova, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del previsto termine. In caso contrario, vale a dire in caso di licenziamento del prestatore di lavoro prima dell’ultimazione del periodo di prova, la declaratoria di illegittimità del recesso non comporta che il contratto di lavoro debba considerarsi come stabilmente costituito, ma implica esclusivamente il diritto del prestatore di lavoro di terminare la prova fi no alla scadenza del termine prefi ssato ovvero, in alternativa, al risarcimento del danno (Cass. 18.11.1995, n. 11934).

Il regime di libera recedibilità che caratterizza il rapporto di lavoro durante la prova non esclude che il prestatore di lavoro possa contestare, in via giudiziale, la legittimità del recesso

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del datore di lavoro. In tal caso il lavoratore ha l’onere di provare, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in prova si sia svolto con tempi e modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto (Cass., Sez. Un., 2.8.2002, n. 11633; Cass. 4.8.1998, n. 7644). L’impugnazione da parte del prestatore di la-voro del licenziamento intimato per esito negativo della prova non soggiace al termine di ses-santa giorni previsto dall’art. 6 della L. 604/1966, atteso che tale recesso viene ad essere prospettato dallo stesso datore di lavoro come non soggetto a contestazione (Cass. 18.3. 1997, n. 2359; Cass. 25.10.1993, n. 10587; Cass. 12.8.1991, n. 8796).

13.11 Licenziamento della lavoratrice madre in prova

Come già ampiamente descritto, ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 26.3. 2001, n. 151, il licen-ziamento della lavoratrice madre è vietato dall’inizio del periodo di gravidanza fi no al termine dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III di tale decreto, nonché fi no al compi-mento di un anno di età del bambino. Tuttavia, sempre ai sensi dell’art. 54, co. 3, lettera d, qualora la lavoratrice madre venga assunta con patto di prova il ricordato divieto di licenzia-mento non si applica nel caso di esito negativo della prova, fermo restando, in ogni caso, il divieto di discriminazione di cui agli artt. 25 e 27 del d.lgs. 11.4.2006, n. 198.

13.12 Licenziamento del lavoratore in prova assunto obbligatoriamente

Il rapporto del prestatore di lavoro invalido assunto per collocamento obbligatorio presenta una problematica peculiare relativa alla apponibilità, o meno, del patto di prova a tale rappor-to ed al licenziamento al termine del periodo di prova.

In relazione all’apposizione del patto di prova, la giurisprudenza di legittimità ne ha affer-mato la legittimità a condizione che le mansioni affi date siano compatibili con lo stato dell’in-valido e che la valutazione del suo esito prescinda da ogni considerazione sullo stato medesi-mo, nel senso che il datore di lavoro può validamente recedere dal rapporto per esito negativo della prova soltanto se l’esperimento abbia dimostrato l’inidoneità del lavoratore ad esercitare le mansioni affi dategli o altre reperibili nell’assetto occupazionale dell’azienda in base alla ridotta capacità lavorativa posseduta, senza peraltro effettuare alcun confronto tra il rendi-mento del soggetto protetto e il rendimento medio del lavoratore valido (Cass. 14.10.2000, n. 13726). In ogni caso il recesso del datore di lavoro può essere sottoposto a verifi ca da parte del giudice al fi ne di accertare l’eventuale discriminazione e di evitare che l’esito dell’esperimento possa essere determinato o infl uenzato dalle condizioni minorate dell’invalido (Cass. 8.6.1998, n. 5639; Cass. 9.4.1998, n. 3689; Cass. 4.6.1992, n. 6810).

13.13 Lavoratore a termine

L’ordinamento giuridico ha per lungo tempo valutato con sfavore il contratto di lavoro su-bordinato a tempo determinato, considerando «normale» quello a tempo indeterminato.

Tuttavia, l’evoluzione del mondo del lavoro nonché la crescente necessità di fl essibilità e di nuova occupazione hanno condotto ad una progressiva attenuazione dell’originario «sfavore» sino all’emanazione del D.Lgs. 6.9.2001, n. 368, che ha dato attuazione alla direttiva 99/70/CE

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relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, e ha abrogato la precedente disci-plina del contratto di lavoro a tempo determinato di cui alla L. 18.4.1962, n. 230.

Il contratto di lavoro a tempo determinato si risolve, naturalmente, alla scadenza del ter-mine contrattualmente previsto dalle parti. Il problema del licenziamento nell’ambito di tale rapporto, dunque, si pone qualora il recesso del datore di lavoro avvenga ante tempus, vale a dire prima della scadenza naturale del contratto.

Purtroppo, il legislatore non ha ritenuto di affrontare la questione del recesso ante tempus neppure con il D.Lgs. 368/2001, lasciando così incolmata una lacuna già presente nella L. 230/1962. Pertanto, nel silenzio della legge, sulla base dei princìpi generali si ritiene che il recesso anticipato nel rapporto di lavoro a tempo determinato sia illegittimo, fatta salva la sussistenza di una giusta causa di licenziamento. In proposito, la Corte di Cassazione ha chia-rito che il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., può essere risolto anticipatamente non già per un giustifi cato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. 604/1966, ma soltanto in presenza delle ipotesi di riso-luzione del contratto previste dagli artt. 1453 e ss. c.c. Ne consegue che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato (Cass. 10.2.2009, n. 3276).

Pertanto, secondo la giurisprudenza di legittimità, qualora il datore di lavoro receda anti-cipatamente dal contratto di lavoro a termine senza che tale recesso sia assistito da giusta causa, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno commisurato all’entità dei compen-si retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso fi no alla prevista sca-denza del contratto (Cass. 1.6.2005, n. 11692; Cass. 1.7.2004, n. 12092). Tuttavia, nel quantifi -care il risarcimento il giudice può detrarre da tale importo i proventi che il lavoratore si sia procurato dopo la cessazione del rapporto, ovvero quelli che avrebbe potuto conseguire, attra-verso un’altra occupazione, usando l’ordinaria diligenza.

13.14 Apprendistato

Nel rapporto di apprendistato il datore di lavoro conserva la facoltà di recedere liberamen-te col solo obbligo del preavviso allo scadere del previsto periodo di tirocinio del lavoratore, venendo a cessare la causa negoziale di tale speciale rapporto, cosicché non è richiesta in tale particolare recesso la sussistenza di una giusta causa ovvero di un giustifi cato motivo ai fi ni della sua legittimità. Ciò non esclude, in ogni caso, che durante il rapporto e prima del compi-mento di tale termine siano applicabili tutte le norme sul lavoro subordinato, ivi comprese quelle in materia di licenziamenti disciplinari.

Il D.Lgs. 14.9.2011, n. 167 (Testo unico dell’apprendistato) ha previsto che «la disciplina del contratto di apprendistato è rimessa ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale (…) nel rispetto dei seguenti princìpi: (…) l) divieto per le parti di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di giusta causa o di giustifi cato motivo. In caso di licenziamento privo di giustifi cazione trovano applicazione le sanzioni previste dalla norma vigente; m) possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione ai sensi di quanto disposto dall’articolo 2118 del codice civile; nel periodo di preavviso continua a trovare appli-cazione la disciplina del contratto di apprendistato. Se nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato» (art. 2, co. 1, lettere l) e m), D.Lgs. 167/2011).

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Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

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13.15 Lavoratore domestico

L’art. 4 della L. 11.5.1990, n. 108, individua due specifi che ipotesi di rapporto di lavoro an-cora assoggettate al regime della libera recedibilità (art. 2118 c.c.): quella dei lavoratori do-mestici e quella dei lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici.

Al rapporto di lavoro domestico, dunque, non sono applicabili per espressa previsione nor-mativa né l’art. 1 né l’art. 2 della citata L. 108/1990 e, quindi, né la tutela obbligatoria e nep-pure quella reale, atteso il carattere spiccatamente fi duciario del rapporto medesimo.

Peraltro, sebbene la L. 2.4.1958, n. 339, richiamata dalla disposizione in esame, non si ri-ferisca a tutti i prestatori di lavoro domestico ma solamente a coloro i quali prestino la loro attività per almeno quattro ore giornaliere presso il medesimo datore di lavoro, si deve ritene-re che anche quei prestatori di lavoro che osservino un orario inferiore siano esclusi dalla tu-tela obbligatoria ovvero reale e ricadano nel regime della libera recedibilità.

13.16 Lavoratrici madri e lavoro domestico

A fronte di numerosi dubbi interpretativi da più parti sollevati, la Corte di Cassazione ha infi ne affermato la sussistenza del divieto di licenziamento anche per le lavoratrici domestiche (Cass. 22.6.1998, n. 6199).

Secondo la Suprema Corte, infatti, un’aprioristica esclusione dell’applicabilità al lavoro dome-stico delle norme poste a tutela della maternità e paternità non è più sostenibile rispetto a valo-ri preminenti come quelli garantiti dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, nonché agli impegni in-ternazionali assunti dall’Italia attraverso la Convenzione n. 103 della Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), ratifi cata con L. 19.10.1970, n. 864 e la Carta sociale europea, rati-fi cata con L. 3.7.1965, n. 929, le quali prevedono senza eccezioni - e anzi la prima con esplicito rife-rimento al “lavoro domestico salariato effettuato in case private” (art. 1, co. 3, lettera h) - un con-gedo obbligatorio della lavoratrice correlato con il divieto di licenziamento durante tale periodo.

Soltanto riguardo alla durata del periodo garantito, la Corte di Cassazione si discosta dal citato art. 54 del D.Lgs. 26.3. 2001, n. 151, per applicare gli artt. 2110 e 2239 c.c., in quanto il divieto operante fi no al compimento di un anno di età del bambino presupporrebbe un’organiz-zazione aziendale e risulterebbe quindi eccessivamente oneroso rispetto alla convivenza fami-liare.

E’ garantito pertanto alla lavoratrice domestica il diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo la cui durata dev’essere stabilita dai contratti collettivi o, in mancan-za, determinata dal giudice secondo equità (art. 2110 c.c.).

Al riguardo, il Contratto Collettivo di categoria sottoscritto dalle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori domestici in data 16.2.2007, all’art. 24, ha stabilito la durata del divieto di licenziamento a partire dall’inizio della gravidanza, purché intervenuta nel corso del rappor-to di lavoro, fi no al termine del congedo di maternità, salva ovviamente la sussistenza di una giusta causa di licenziamento.

13.17 Lavoratore a domicilio

Il rapporto di lavoro a domicilio costituisce una forma di decentramento produttivo, disci-plinato dalla L. 18.12.1973, n. 877, successivamente modifi cata dalla L. 16.12.1980, n. 858. In

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Licenziamenti individuali e collettivi

linea generale, la giurisprudenza di legittimità ritiene che nell’ambito di tale rapporto di lavoro trovino applicazione le norme sul licenziamento causale (ovvero giusta causa o giustifi cato motivo di cui alla L. 604/1966) a condizione però che ricorrano i requisiti indicati dall’art. 1, L. 877/1973, come modifi cato dall’art. 2, L. 858/1980, e cioè che: - il lavoratore esegua il lavoro nel proprio domicilio e in locale di cui abbia la disponibilità;- il lavoro sia eseguito dal lavoratore personalmente, o anche con l’aiuto accessorio di mem-

bri della sua famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata o di apprendisti;

- il lavoratore sia tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di ese-cuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere, nella esecuzione parziale, nel completamento o nella intera lavorazione di prodotti oggetto dell’attività del committente.

13.18 Telelavoro

Il 9.6.2004 è stato fi rmato tra Confi ndustria, Organizzazioni Sindacali ed altre 19 associa-zioni imprenditoriali l’Accordo Interconfederale per il recepimento dell’Accordo Quadro Euro-peo sul telelavoro concluso il 16.7.2002. In base a tale accordo il telelavoro viene identifi cato come «una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavora-tiva, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa». L’Accordo precisa (art. 2, co. 5) che il telelavoro implica unica-mente l’adozione di una particolare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che non incide, di per sé, sullo status giuridico del telelavoratore. Pertanto, il telelavoro non costituisce una specifi ca tipologia contrattuale da affi ancare alle tradizionali categorie di lavo-ro, subordinato o autonomo, ma piuttosto una modalità, fl essibile, di esecuzione della presta-zione lavorativa.

13.19 Lavoratore in possesso dei requisiti pensionistici

Le riforme pensionistiche succedutesi sin dagli anni ‘90 hanno profondamente modifi cato i requisiti di maturazione del diritto alle relative prestazioni previdenziali e, di conseguenza, anche la disciplina del licenziamento (individuale) dei lavoratori e delle lavoratrici ultrases-santenni per i quali l’art. 4 della L. 108/1990 prevede la libera recedibilità dal rapporto di lavo-ro. Anche il recente decreto L. 6.12.2011, n. 201, convertito con modifi cazioni in L. 22.12.2011, n. 214, è intervenuto in materia.

Ciò premesso, risulta opportuno ripercorrere brevemente la disciplina antecedente la sua entrata in vigore (1.1.2012) per fornire un quadro completo della normativa, prima di passare alla descrizione del sistema attuale.

La disciplina sino al 31.12.2011Le riforme pensionistiche succedutesi negli anni ‘90 (L. 407/1990, D.Lgs. 503/1992 e L.

335/1995) avevano progressivamente elevato a 65 anni e a 60 anni l’età anagrafi ca fi no alla quale, rispettivamente, il lavoratore e la lavoratrice potevano proseguire l’attività lavorativa anche qualora avessero maturato l’anzianità contributiva massima, godendo della tutela con-

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Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

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tro il licenziamento ingiustifi cato.Per effetto di tali riforme, pertanto, risultava assolutamente residuale la particolare fatti-

specie collegata all’esercizio da parte del lavoratore dell’opzione per la prosecuzione del rap-porto di lavoro non oltre il compimento dei 65 anni di età, prevista dall’art. 6 della L. 54/1982.

Sino al 31.12.2011, infatti, il regime della stabilità obbligatoria o reale si applicava ai lavo-ratori e alle lavoratrici in possesso dell’anzianità minima contributiva richiesta per il pensio-namento di vecchiaia (20 anni di contribuzione), rispettivamente, fi no al compimento del ses-santacinquesimo ovvero del sessantesimo anno di età; successivamente, il datore di lavoro poteva liberamente recedere dal rapporto con il solo onere di riconoscere il preavviso ovvero la relativa indennità sostitutiva.

Lo stesso regime di stabilità (reale o obbligatoria) del rapporto e successiva libera recedi-bilità, in deroga a quanto previsto dall’art. 11 della L. 604/1966, valeva per le donne lavoratrici che si avvalevano della facoltà, prevista dall’art. 4 della L. 903/1977, di proseguire il rapporto di lavoro sino al limite di età previsto per gli uomini, vale a dire fi no ai sessantacinque anni di età, per incrementare la loro posizione contributiva, con l’onere a carico del datore di lavoro del preavviso o della relativa indennità in caso di licenziamento.

Nell’ipotesi (residuale) in cui, invece, la donna lavoratrice, almeno 6 mesi prima del rag-giungimento dei 60 anni di età, esercitava ai sensi dell’art. 6 della L. 54/1982 l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro al fi ne di conseguire la massima anzianità contributiva, la cessazione del rapporto prolungato (fi no al massimo dei 5 anni ai sensi dell’art. 1, c. 2, del D.Lgs. 30.12.1992, n. 503) si confi gurava «per avvenuto raggiungimento del requisito di anzia-nità contributiva» senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti (art. 6, co. 6, L. 26.2.1982, n. 54); in tale ipotesi, infatti, il rapporto di lavoro cessava automaticamente perché era stato raggiunto il requisito di anzianità contributiva che la lavoratrice stessa aveva prescelto come obiettivo attraverso l’esercizio dell’opzione.

Per completezza è opportuno evidenziare che, in difetto dei requisiti di anzianità contribu-tiva richiesti per la maturazione della pensione di vecchiaia, il rapporto di lavoro continuava comunque ad essere assistito dal regime di stabilità che gli era proprio (reale oppure obbliga-toria) sino a quando fosse maturata la contribuzione minima (20 anni di contribuzione), indi-pendentemente dall’età anagrafi ca del lavoratore.

Inoltre, l’art. 6, co. 2-bis, del D.L. 31.12.2007, n. 248, introdotto in sede di conversione nella L. 28.2.2008, n. 31, stabiliva che «l’effi cacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della L. 20.5.1970, n. 300, e successive modifi cazioni, nei confronti del prestatore di lavoro nelle condi-zioni previste dall’articolo 4, co. 2, della L. 11.5.1990, n. 108, è comunque prorogata fi no al momento della decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia spettante al prestatore medesimo».

Occorre tuttavia sottolineare che il mero raggiungimento dell’età pensionabile non com-portava la risoluzione automatica del rapporto di lavoro, determinando solo la recedibilità ad nutum dal rapporto (Cass. 16.6.2000, 8215; Cass. 13.5.2000, 6175; Cass. 28.7.1999, n. 8188; Cass. 24.7.1999, n. 8061).

Nel vigore della precedente disciplina – ma lo stesso principio trova applicazione anche ora – è stato affermato dalla giurisprudenza che al contratto collettivo di diritto comune non è consentito di regolare un rapporto di lavoro subordinato privato a tempo indeterminato in modo da snaturarne il tipo legale mediante la previsione della sua cessazione automatica, senza bisogno di recesso, al verifi carsi della massima anzianità contributiva (Cass. 26.9.2006, n. 20808; Cass. 30.12.1999, 14763).

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144 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

La disciplina dal 1.1.2012Come accennato, il D.L. 201/2011, convertito nella L. 214/2011, ha introdotto un’importante

riforma in materia di trattamenti pensionistici.In particolare, e per quanto di interesse ai fi ni della presente trattazione, l’art. 24 del decre-

to legge summenzionato ha disposto l’innalzamento dell’età anagrafi ca minima per il conse-guimento della pensione di vecchiaia a 66 anni per gli uomini e a 62 anni per le donne, con la precisazione che entro il 2018 anche le lavoratrici matureranno il diritto alla pensione di vecchiaia solo al compimento del sessantaseiesimo anno di età. Sul punto si osserva che, in virtù dell’adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita, l’età anagrafi ca suddetta risulterà ulteriormente e gradualmente innalzata di alcuni mesi. Resta fermo il requisito dell’anzianità minima contributiva di 20 anni.

Alla luce di quanto precede, ne consegue che i lavoratori oggi possono proseguire l’attività lavorativa continuando a godere della tutela contro il licenziamento ingiustifi cato che gli è proprio sino al sessantaseiesimo anno per gli uomini e al sessantaduesimo per le donne (ma, come detto, entro il 2018 si raggiungerà un’assoluta parità anagrafi ca), purché a tale data in possesso del requisito contributivo minimo sopra richiamato.

Ulteriore conseguenza dell’innalzamento dell’età pensionabile è che i regimi previgenti ri-sultano, di fatto, pressoché superati e che una volta raggiunta la parità del requisito anagrafi -co tra uomini e donne il “sistema” delle opzioni per la prosecuzione dell’attività delle lavora-trici risulterà implicitamente abrogata.

Valga, tuttavia, osservare che la disciplina ora descritta sembrerebbe applicarsi esclusivamen-te a coloro che benefi ciano della c.d. tutela obbligatoria contro il licenziamento. Di contro, per quei lavoratori che godono del regime di c.d. tutela reale (sopra i 15 dipendenti) vigono regole diverse.

Infatti, il quarto comma dell’art. 24 prevede che il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare di coeffi cienti di trasformazione calcolati fi no all’età di 70 anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita e che «nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’effi cacia delle disposizioni di cui all’art. 18 della L. n. 300 del 20.5.1970, e successive modifi cazioni, opera fi no al conseguimento del predetto limite massimo di fl essibilità», termine oltre il quale trova applicazione il regime della libera recedibilità.

La norma, seppur di non immediata e perspicua interpretazione, sembrerebbe indicare che per i lavoratori al cui rapporto trova applicazione l’art. 18 S.L., tale tutela continui a trovare applicazione contro il recesso ingiustifi cato sino all’età di 70 anni. Solo dopo tale termine il datore di lavoro potrà licenziare ad nutum il dipendente. In proposito, dal dato letterale della norma in esame, sembrerebbe potersi dedurre che il lavoratore che, pur avendo raggiunto i requisiti minimi per la pensione di vecchiaia (ossia 66 o 62 anni di età e 20 anni di contributi), voglia continuare l’attività lavorativa sino al settantesimo anno di età non sia tenuto ad eserci-tare alcuna opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Occorre infi ne notare che, al pari del rapporto di lavoro domestico, per i lavoratori in pos-sesso dei requisiti pensionistici non trova applicazione neppure l’art. 2 della L. n. 604/1966 sulla forma scritta del licenziamento. Al contrario, è fatta salva l’ordinaria disciplina del li-cenziamento discriminatorio di cui all’art. 3 della L. n. 108/1990.

13.20 Lavoratore assunto obbligatoriamente

La L. 12.3. 1999, n. 68, prevede una speciale tutela nei confronti degli invalidi e di altre ca-

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Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

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tegorie protette per quanto riguarda esclusivamente l’avviamento al lavoro.Pertanto il datore di lavoro, una volta adempiute le procedure di assunzione di cui alla L.

68/1999, non ha alcun particolare obbligo nei confronti dei lavoratori appartenenti alle catego-rie protette, fatti salvi trattamenti di miglior favore previsti dalla contrattazione collettiva. Da ciò consegue che tali lavoratori possono essere licenziati, al pari di tutti gli altri prestatori di lavoro, secondo le comuni regole in materia di licenziamento.

Occorre altresì segnalare che il licenziamento del lavoratore invalido avviato obbligatoria-mente è legittimo, ai sensi dell’art. 10 della legge in esame, qualora sia stata accertata, da parte della commissione medica di cui all’art. 4 della L. 104/1992, la defi nitiva impossibilità di reinserimento del disabile all’interno dell’azienda in seguito al riscontro dell’aggrava-mento della salute del lavoratore invalido, incompatibile con la continuazione dell’attività lavorativa, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro (Cass. 29.1.1993, n. 1092).

Inoltre, il licenziamento è legittimo qualora il datore di lavoro provi che non gli sia stato possibile inserire l’invalido, in relazione alla sua residua capacità lavorativa, nella propria or-ganizzazione produttiva, fermo restando che tale possibilità di inserimento esige che il posto di lavoro adatto alla residua capacità del lavoratore invalido sia non solo esistente ma anche disponibile, e l’assunto obbligatoriamente non si rifi uti di occuparlo.

Di contro, valga osservare che il recesso di cui all’art. 4, co. 9, della L. 223/1991, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustifi cato motivo oggettivo esercitato nei con-fronti del lavoratore occupato obbligatoriamente è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente in azienda sia inferiore alla quota di riserva prevista dalla L. 68/1999.

13.21 Lavoro nautico

I ripetuti interventi della Corte Costituzionale hanno ricondotto il lavoro nautico nell’alveo del regime di stabilità, reale ovvero obbligatoria, del rapporto. In particolare, con la senten-za n. 96 del 1987 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, L. 604/1966, oltre che dell’art. 18 S.L., nella parte in cui esclude il personale marittimo navi-gante delle imprese di navigazione dalla disciplina protettiva contro il licenziamento. In epo-ca successiva, poi, la Corte costituzionale ha altresì dichiarato l’illegittimità del medesimo art. 10 nella parte in cui non prevede l’applicabilità della L. 604/1966 e dell’art. 18 S.L. al personale navigante delle imprese di navigazione aerea (Corte Cost. 31.1.1991, n. 41).

13.22 Lavoro sportivo

Per il rapporto di lavoro sportivo, regolato dalla L. 23.3. 1981, n. 91, vige il regime della libera recedibilità, atteso che l’art. 4, co. 8, di tale L. prevede espressamente l’e-sclusione dell’applicabilità a tale rapporto di lavoro della disciplina limitativa dei licen-ziamenti individuali. Questo regime è rimasto invariato anche dopo l’entrata in vigore della L. 108/1990.

Occorre tuttavia far presente che l’art. 2118 c.c. è applicabile sempre che si tratti di un rapporto di lavoro subordinato e non già autonomo, secondo il criterio distintivo espressamen-te previsto dall’art. 3, L. 91/1981.

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146 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

13.23 Job sharing

Il D.Lgs. 276/2003 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il contratto di lavoro ripar-tito o job sharing, defi nito quale «uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavora-tori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa».

In tale fattispecie due dipendenti (la norma non prevede la possibilità che i lavoratori siano più di due) si obbligano in via solidale ad eseguire, a favore dello stesso datore di lavoro, una prestazione corrispondente ad un rapporto di lavoro (sia esso part-time o full-time), con facol-tà dei medesimi - «fatte salve diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o accordi collettivi» - di ripartire l’impegno contrattualmente assunto e di gestire la «misura» delle reciproche presenze in maniera del tutto autonoma e discrezionale (artt. 41, co. 3, e 43, co. 2).

Anteriormente alla promulgazione della cd. Riforma Biagi, il Ministero del Lavoro, con la propria circolare del 7.4.1998, n. 43, aveva già attribuito piena legittimità nel nostro ordina-mento giuridico allo job sharing, precisando che «in mancanza di una auspicabile regolamen-tazione della fattispecie da parte della contrattazione collettiva nazionale e aziendale, la disci-plina del lavoro ripartito sarà dunque rimessa all’autonomia negoziale delle parti, ferma restando in ogni caso l’applicabilità della normativa generale del rapporto di lavoro subordina-to, per quanto non incompatibile con la particolare natura del rapporto de quo».

Con specifi co riferimento al tema del licenziamento di uno dei lavoratori co-obbligati, l’art. 41, co. 5, del D.Lgs. 276/2003 stabilisce che, fatta salva una diversa disciplina prevista nel con-tratto individuale di lavoro ripartito, il recesso attuato nei confronti di un lavoratore risolve ex lege ed automaticamente anche il rapporto di lavoro con il secondo dipendente co-obbligato.

Tale disposizione non trova applicazione nell’ipotesi in cui quest’ultimo, su richiesta del datore di lavoro, si renda disponibile ad adempiere, in tutto o in parte, anche l’obbligazione lavorativa relativa al lavoratore licenziato, nel qual caso il contratto di lavoro ripartito si tra-sforma in un normale contratto di lavoro subordinato.

13.24 Job on call

Il D.Lgs. 276/2003 ha altresì introdotto il lavoro intermittente o job on call (art. 33, co. 1), cui può farsi ricorso «per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale».

Per quanto riguarda la disciplina del recesso, occorre in primo luogo osservare come «il contratto di lavoro intermittente può essere stipulato anche a tempo determinato» (art. 33, co. 2); in questo caso, pertanto, le conseguenze del licenziamento intimato ante tempus saran-no le medesime già esposte con riferimento al contratto di lavoro a termine.

Nella diversa ipotesi di contratto di lavoro intermittente stipulato a tempo indeterminato, in difetto di una specifi ca previsione da parte della novella legislativa, pare lecito ritenere che la disciplina del licenziamento e delle sue conseguenze debba essere identica a quella generale prevista per il recesso dal rapporto di lavoro subordinato.

Peraltro, il D.Lgs. 276/2003 disciplina in maniera peculiare l’ipotesi in cui il lavoratore, con la sottoscrizione del contratto in esame, si sia obbligato a rispondere alla chiamata del datore di lavoro, percependo a fronte dell’assunzione di tale obbligo l’indennità di disponibilità: «il rifi uto ingiustifi cato di rispondere alla chiamata può comportare la risoluzione del contratto, la

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Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

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restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all’ingiustifi -cato rifi uto, nonché un congruo risarcimento del danno nella misura fi ssata dai contratti col-lettivi o, in mancanza, dal contratto di lavoro» (art. 36, co. 6).

13.25 Socio lavoratore di cooperativa

L’art. 9, lettera a, della legge delega 14.2.2003, n. 30, ha modifi cato l’art. 1, co. 3, L. 142/2001 (che, nella precedente formulazione, stabiliva che «il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulte-riore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra for-ma»), sopprimendo le parole «e distinto».

Secondo alcuni Autori, con tale intervento il legislatore avrebbe inteso ricondurre ad un unicum giuridico il rapporto che lega il socio lavoratore con la cooperativa - superando la dif-ferenziazione, originariamente prevista dalla L. 142/2001, tra il rapporto associativo e, per quanto interessa in questa sede, il rapporto di lavoro subordinato - uniformandosi al prevalen-te orientamento giurisprudenziale secondo cui il socio cooperatore che conferisce, nell’ambi-to di un rapporto associativo non simulato, la propria attività lavorativa per il raggiungimento e nell’ambito dello scopo sociale, non può per ciò solo considerarsi lavoratore subordinato della cooperativa, in difetto di un ulteriore rapporto di lavoro subordinato.

Tuttavia, appare preferibile la diversa tesi dottrinale secondo cui la norma in esame, aven-do mantenuto la previsione di un rapporto di lavoro «ulteriore» rispetto a quello associativo da instaurare tra cooperativa e socio sia al momento della costituzione del vincolo societario sia in un tempo successivo, ha confermato l’autonomia intercorrente tra i due rapporti e la loro differenziata vita giuridica.

Infatti, il rapporto di lavoro subordinato «ulteriore» non solo deriva da un atto giuridico diver-so dal patto societario ma conserva la sua tipicità e, conseguentemente, la sua disciplina, seb-bene la presenza simultanea di due distinte situazioni giuridiche postula l’esistenza tra le stesse di un collegamento funzionale; in altre parole, il rapporto di lavoro subordinato, laddove costitu-ito, è fi nalizzato al raggiungimento dello scopo sociale che trae origine dal patto associativo.

Ciò premesso, l’art. 2, co. 1, L. 142/2001, rimasto immutato nella sua formulazione, stabi-lisce che «ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la L. 20.5.1970, n. 300, con esclusione dell’art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo». Pertanto, qualora la cooperativa non risolva il rapporto associativo ma soltanto quello di lavoro subordinato, tale ultima risoluzione è soggetta alle previsioni contenute nell’art. 18 S.L., laddove naturalmente ricorrano i necessari requisiti di-mensionali: in caso contrario, troverà applicazione la disciplina dettata dalla L. n. 604/1966.

Nella diversa ipotesi in cui, invece, la cooperativa risolva tanto il rapporto di lavoro subor-dinato quanto quello associativo in relazione all’art. 9, L. 30/2003, troverà applicazione quanto previsto dall’art. 2527 c.c., ed in caso di esclusione illegittima del socio potrà sussistere in capo alla cooperativa una responsabilità esclusivamente risarcitoria.

13.26 Lavoratore assunto con contratto di inserimento

Il D.Lgs. n. 276/2003 aveva introdotto nel nostro ordinamento giuridico il contratto di inse-rimento, che era «diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle

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148 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori

Licenziamenti individuali e collettivi

competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro» delle categorie di soggetti espressamente in-dicati dalla disposizione medesima (art. 54). Il contratto di inserimento si confi gurava come un rapporto di lavoro a tempo determinato, di «durata non inferiore a nove mesi e non ... superio-re ai diciotto mesi», estendibile fi no a trentasei mesi nel caso in cui l’assunzione riguardasse lavoratori portatori di un grave handicap fi sico, mentale o psichico.

Inoltre, il citato decreto legislativo stabiliva che «il contratto di inserimento non è rinnova-bile tra le stesse parti. Eventuali proroghe del contratto sono ammesse» entro i limiti di durata massima appena riportati (art. 57). Ne consegue che la disciplina del recesso da tale tipologia contrattuale, in assenza di specifi che norme al riguardo, non poteva che essere quel-la già esposta con riferimento al contratto di lavoro a termine.

In proposito occorre rilevare che l’art. 1, co. 14, della L. 92/2012, ha abrogato gli articoli 54, 55, 56, 57, 58 e 59 del D.Lgs. 276/2003, che disciplinavano tutti gli aspetti del contratto di inserimento, con la precisazione, tuttavia, che «nei confronti delle assunzioni effettuate fi no al 31.12.2012 continuano ad applicarsi le disposizioni abrogate ai sensi del co. 14, nella for-mulazione vigente anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge».

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meRcato del lavoRo: FleSSiBilitÀ in uScita

1LICENZIAMENTI

INDIVIDUALI E COLLETTIVI

a cura di

Angelo Zambelli

IN COLLABORAZIONE CONI manuali del Sole 24 ORE Settimanale N. 1/2012

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