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LA QUESTIONE DELLA TRASPOSIZIONENELLA TEORIA ANTROPOGENETICA DI PETER SLOTERDIJK Vincenzo Cuomo Chi non si è accorto che la “casa dell’essere” sta scomparendo sotto le impalcature! Peter Sloterdijk 1. L’immunologia simbolica e la sua provincializzazione Ritengo che il saggio La domesticazione dell’essere (2000) contenga in buona sostanza il progetto filosofico che Sloterdijk ha sviluppato tra il 1998 (anno di pubblicazione di Sfere I) e il 2009 (anno in cui esce Devi cambiare la tua vita). Quel che cercherò di argomentare tiene conto dell’elaborazione filosofica di questi anni cruciali e soprattutto di questi testi, nonostante le continue aggiunte, le continue riformulazioni e i continui (a volte provocatori) riposizionamenti cui Sloterdijk ha abituato i suoi lettori. Nel saggio del 2000 quasi tutti i temi delle riflessioni di quegli anni trovano infatti, a mio avviso, una chiara sintesi concettuale, in particolare la teoria dei “meccanismi antropo-genetici”, cioè di quei meccanismi bio-ambientali che, nel loro contingente incrociarsi e vicendevole rafforzarsi, hanno reso possibile l’emergere del mondo umano così come lo conosciamo. I meccanismi antropogenetici, sostiene Sloterdijk in questo saggio, sarebbero quattro: il meccanismo dell’insulazione, quello della liberazione dai limiti corporei, quello della neotenia e quello della trasposizione. Come cercherò di mostrare, è proprio quest’ultimo che pone un problema teorico, forse “il” problema fondamentale su cui ha lavorato filosoficamente Sloterdijk. Che cosa siano questi meccanismi antropogenetici è nozione che per i lettori del pensatore tedesco può essere data per scontata. Ciò nonostante, per delineare e delimitare la questione teorica

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LA QUESTIONE DELLA “TRASPOSIZIONE” NELLA TEORIA ANTROPOGENETICA DI PETER SLOTERDIJK

Vincenzo Cuomo

Chi non si è accorto che la “casa dell’essere” sta scomparendo sotto le impalcature!

Peter Sloterdijk 1. L’immunologia simbolica e la sua provincializzazione Ritengo che il saggio La domesticazione dell’essere (2000) contenga in buona sostanza il progetto filosofico che Sloterdijk ha sviluppato tra il 1998 (anno di pubblicazione di Sfere I) e il 2009 (anno in cui esce Devi cambiare la tua vita). Quel che cercherò di argomentare tiene conto dell’elaborazione filosofica di questi anni cruciali e soprattutto di questi testi, nonostante le continue aggiunte, le continue riformulazioni e i continui (a volte provocatori) riposizionamenti cui Sloterdijk ha abituato i suoi lettori. Nel saggio del 2000 quasi tutti i temi delle riflessioni di quegli anni trovano infatti, a mio avviso, una chiara sintesi concettuale, in particolare la teoria dei “meccanismi antropo-genetici”, cioè di quei meccanismi bio-ambientali che, nel loro contingente incrociarsi e vicendevole rafforzarsi, hanno reso possibile l’emergere del mondo umano così come lo conosciamo.

I meccanismi antropogenetici, sostiene Sloterdijk in questo saggio, sarebbero quattro: il meccanismo dell’insulazione, quello della liberazione dai limiti corporei, quello della neotenia e quello della trasposizione. Come cercherò di mostrare, è proprio quest’ultimo che pone un problema teorico, forse “il” problema fondamentale su cui ha lavorato filosoficamente Sloterdijk.

Che cosa siano questi meccanismi antropogenetici è nozione che per i lettori del pensatore tedesco può essere data per scontata. Ciò nonostante, per delineare e delimitare la questione teorica

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relativa alla particolarità del quarto di essi, è opportuno ricordarne le definizioni generali.

Come è noto, Sloterdijk rivede e rielabora la teoria dell’antropogenesi all’interno del terzo volume di Sfere, ripensandola in una prospettiva sferologica generale e proponen-done un’articolazione in nove strati o dimensioni (chirotopo, fonotopo, uterotopo, termotopo, erototopo, ergotopo, alelotopo, tanatotopo e nomotopo)1. Tuttavia ritengo che sia preferibile discutere avendo presente la partizione proposta nel saggio del 2000, in particolare perché risulta concettualmente più chiara, tanto è vero che la successiva suddivisione in nove dimensioni finisce, necessaria-mente, per essere un incrocio multiplo tra i quattro meccanismi che, per quanto giustificato all’interno dell’argomentazione sferologica generale, introduce qualche confusione di troppo sul piano della teoria.

Prima di sintetizzare le caratteristiche dei quattro meccanismi antropogenici, credo sia utile riportare un passo del saggio, in cui, in modo limpido, Sloterdijk enuncia la tesi di fondo della questione dell’antropogenesi:

Non è sufficiente far scendere giù le scimmie dagli alberi – egli scrive –, per poi far discendere a sua volta l’uomo da queste scimmie che sono scese. Anche il ritorno alla protoscimmia scomparsa, benché sia significativo per la paleontologia, non può migliorare la situazione dal punto di vista filosofico. La versione ontologica del romanzo genealogico deve guardare piuttosto sia al divenire uomo dei preominidi, sia al divenire mondo del premondo; tale pensiero non era pensabile, fino a quando si rimaneva fissati alle idee precostruttiviste dell’essere unico e dell’unica verità. L’elemento decisivo in questo arrangement consiste nel prestare attenzione al fatto che in nessun caso si può presupporre “l’uomo” per poi ritrovarlo in qualche modo negli stadi pre-umani. È difficile supporre che ci sia un mondo aperto e istituito per l’uomo […]. [È] impossibile che l’uomo, come se stesse facendo una passeggiata nel bosco, d’improvviso entri in una Lichtung che stava aspettando soltanto lui. Piuttosto è la Lichtung

1 P. Sloterdijk, Sfere III. Schiume, Cortina, Milano 2015, pp. 337-474.

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stessa a fare sì che qualcosa di preumano si apra verso l’uomo. […] In questo caso Lichtung e divenire uomo sarebbero due espressioni per dire la stessa cosa. […] L’operazione che era stata attribuita a un creatore e protettore divino, deve venire assunta ora da un meccanismo che de-animalizza l’animale e lo rende così mostruoso (ungeheuer) da trasformarlo in quell’esistente (Da-Seiende) che si trova nella Lichtung2.

Si tratta, quindi, di spiegare la contingente genesi della radura umana (la Lichtung, secondo il lessico heideggeriano utilizzato da Sloterdijk), senza pre-supporre alcun dio creatore o una qualche insostenibile teleologia evolutiva, ma assumendo anche l’ipotesi che, per ragioni anch’esse contingenti, quella radura possa scomparire o comunque drasticamente rimpicciolirsi, sia nel caso che la specie umana scompaia per catastrofi bio-ambientali, sia nel caso che essa continui a vivere, ma senza mondo (cioè in un “ambiente” privo o quanto meno povero di mondo). Ritornerò dopo su tale opzione. Per ora è importante tenere presente che quando si parla di meccanismi antropogenetici non bisogna presupporre l’umanità, che, invece, è emersa dal loro contingente incrocio.

Ma, in estrema sintesi, in che modo egli definisce i quattro meccanismi? Il primo meccanismo, quello dell’insulazione, a suo avviso il più “antico”, trova origine, secondo Sloterdijk – che riprende, su questo punto, attraverso Dieter Claessens, le ricerche di Hugh Miller3 – «nella storia degli animali sociali che vivono in comunità, fino al mondo delle piante»4.

Tale effetto riposa essenzialmente – egli scrive – sul fatto che gli esemplari che vivono preferibilmente ai margini delle comunità

2 Id., La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Id., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004, pp. 113-184, in part. pp. 123-127. 3 H. Miller, Progress and Decline: The Group in Evolution, Pergamon Press, Oxford 1964; invece il testo di Dieter Claessens fondamentale per Sloterdijk è Das Konkrete und das Abstrakte: soziologische Skizzen zur Anthropologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 19932. 4 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 139.

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producono, con il loro soggiornare fisico alle periferie della propria comunità, l’effetto di una parete vivente, al cui lato interno si crea un vantaggio climatico per gli individui del gruppo che abitualmente soggiorna al centro. Di questo effetto serra di primo grado approfittano in particolare, tra gli animali da gregge e da branco, le madri e i loro piccoli5.

Quindi si tratta di un meccanismo bio-ambientale che la specie umana non solo ha in comune con altre specie animali, ma anche con le specie vegetali e che consente l’aggiramento (e la relativa “sospensione”) delle leggi evolutive del fitness selettivo.

Il secondo meccanismo, quello della liberazione dai limiti corporei – espressione che Sloterdijk riprende da Paul Alsberg6 –, «dipende da una specifica attivazione della mano […] in una sequenza di atti, nel corso dei quali il preominide afferra una pietra»7. È l’età della pietra che dà forma all’uomo e l’evoluzione umana è l’evoluzione del complesso corpo umano-protesi tecniche.

La pietra non esprime l’uomo – egli scrive – ma gli dà una chance di giungere alla Lichtung. Già i primi strumenti portano con sé primitivi valori di verità, e cioè i successi e gli insuccessi del loro impiego. […] Il preominide produce i primi buchi e strappi nell’anello dell’ambiente nel momento in cui diviene autore, attraverso colpi e lanci, di una tecnica della distanza, che produce effetti retroattivi anche su di lui. L’uomo non dipende né dalla scimmia (singe) […] né dal segno (signe) […]; egli discende piuttosto dalla pietra8.

Prima di passare a descrivere gli altri due meccanismi, è

5 Ivi, pp. 139-140. 6 P. Alsberg, L’enigma dell’umano. Per una soluzione biologica, Inschibboleth, Roma 2020; su Alsberg cfr. M. Pavanini, “Non siamo mai stati carenti. La tecnicità costitutiva dell’esistenza umana secondo Paul Alsberg”, in S&F_, 19, 2018, pp. 144-154. 7 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 142. 8 Ivi, pp. 142-143. Ovviamente dietro le argomentazioni di Sloterdijk su questo secondo meccanismo antropogenetico c’è anche il riferimento al classico studio paleontologico di A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, 2 voll., Einaudi, Torino 1977.

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importante sottolineare come Sloterdijk fondi sul meccanismo della liberazione tecnica dall’ambiente biologico anche il principio della verità come corrispondenza corretta tra l’azione (il lancio) e l’effetto (il bersaglio colpito)9, distinguendolo e autonomizzandolo da quello della verità simbolica che invece, per definizione, non colpisce il bersaglio. C’è quindi una dimensione della Lichtung che sembra prescindere dalla dimensione dell’alétheia nel senso di Heidegger10. E c’è, di conseguenza, una funzione del linguaggio11 – che, prescindendo dal lessico di Sloterdijk, potremmo chiamare “segnica” – che si differenzia da quella simbolico-traspositiva. Ma ritorniamo alla partizione dei meccanismi antropogenetici. Ce ne sono altri due, infatti.

Il terzo meccanismo è quello della neotenia – che Sloterdijk riprende sia da Louis Bolk12 che da Adolf Portmann13 –, che si caratterizza nel mantenimento e nel potenziamento, negli individui adulti, di tratti infantili:

9 «Il preominide, come colui che lancia, colpisce e taglia, rappresenta, dunque, se non l’unico produttore, almeno il cooperatore della Lichtung» (P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 145). 10 Come si sa, la riflessione filosofica di Sloterdijk è una continua Auseinandersetzung con quella di Heidegger, che, benché a volte parodiata, resta a mio avviso imprescindibile per comprendere la teoria del pensatore di Karlsruhe. Anche questa distinzione tra una verità tecno-pragmatica come corrispondenza esatta tra azione (il lancio della pietra che consente al pre-ominide di rompere la sua Umwelt) e l’effetto (il bersaglio colpito al di là del cerchio bio-ambientale) e la verità come alétheia che, per definizione, non colpisce il bersaglio ma disvela nascondendo, è di derivazione heideggeriana. Cfr. M. Heidegger, Alétheia (Eraclito, frammento 16), in Id., Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 176-192. 11 «In questa prospettiva il linguaggio non è nient’altro che un medium per la rappresentazione e la presentazione dei successi, dunque è una forma che, da un lato, restituisce i successi ripetendoli, e dall’altro è essa stessa il puro compimento di un successo discorsivo» (P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 147). 12 L. Bolk, Il problema dell’ominazione, DeriveApprodi, Roma 2006. 13 A. Portmann, Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia, Adelphi, Milano 1989. Sulla questione della neotenia cfr. anche l’importante contributo di S.J. Gould, Ontogenesi e filogenesi, Mimesis, Milano 2013.

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Nella serra del gruppo non sopravvive il più robusto – spiega Sloterdijk – ma il più avvantaggiato, nel senso di chi trae vantaggio dal clima e dallo sfruttamento delle opportunità interne alla serra. […] Gli esseri sapiens manifestano, come la ricerca paleo-anatomica ha mostrato in modo incontrovertibile, una serie di caratteri che si possono comprendere solo come la conservazione di forme giovanili, e addirittura fetali, nell’essere ormai divenuto adulto14.

Per quanto anche la neotenia sia una caratteristica biologica che non è affatto esclusiva della specie umana – in quanto è osservabile in moltissime specie viventi – è di sicuro presente in essa come meccanismo fondamentale, che il progresso tecnico e i processi di insulazione, potentemente sviluppatisi durante l’epoca della sedentarizzazione neolitica, hanno addirittura rafforzato.

In tal modo la casa – e la casa, in questa prospettiva, è innanzitutto il gruppo umano che protegge i piccoli – acquista sin dall’inizio la caratteristica di un «utero esterno predisposto tecnicamente, in cui i nati, per tutto l’arco della vita, godono dei privilegi dei feti»15.

Questo meccanismo, incrociandosi con quello dell’insulazione, risulta fondamentale per due ragioni: da un lato, come abbiamo già intuito, anch’esso appare in grado di funzionare indipendente-mente da rivestimenti simbolici (la casa come “sfera simbiotica” si distingue in linea di principio dalle patrie simboliche16), dall’altro, innanzitutto e per lo più, è risultato storicamente rafforzato e rivestito da istituzioni simboliche. Sloterdijk, a tal proposito, anche nel saggio del 2000, sottolinea – con riferimento alla famosa metafora di Heidegger – che il linguaggio sia solo la “seconda” casa dell’essere, che presuppone un abitare insulato e neotenico – il

14 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., pp. 148-149. 15 Ibid. 16 In Sfere III, cit., p. 494, Sloterdijk cita a tal proposito una frase di Vilém Flusser: «Si considera la patria come il luogo relativamente permanente, l’abitazione come il luogo intercambiabile e trasferibile. È vero il contrario: è possibile cambiare patria o non averla, ma bisogna sempre abitare da qualche parte, poco importa dove. I clochards parigini abitano sotto i ponti [...] e, per quanto spaventoso possa apparire si abitava ad Auschwitz».

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«buon Ge-Stell», come scrive17. Egli ritorna spesso sulla tesi dell’autonomia dei primi tre

meccanismi antropogenetici in riferimento non solo al quarto meccanismo, quello della trasposizione di cui ora parleremo, ma anche, più in generale, nei confronti degli ordinamenti simbolici. In una pagina di un libro pubblicato sedici anni dopo, nel 2016, e intitolato Che cosa è successo nel XX secolo?18, sostiene una tesi a mio avviso molto interessante sul meccanismo della neotenia. Anche se esso è una conseguenza del fatto che l’essere umano, nascendo immaturo e prematuro (nonostante la sua ricchezza bio-genetica)19, abbia bisogno di compensazioni «grazie all’ausilio di sistemi di guida simbolica, che sostituiscono autorevolmente gli istinti»20 (è una nota tesi di Arnold Gehlen), a ben guardare esso ci dice innanzitutto un’altra cosa: «grazie alla neotenologia, diviene evidente che la pedagogia arriva sempre troppo tardi, perché un neonato umano, come risultato della sua nascita precoce, non ha bisogno subito di educazione, ma ha diritto a una prosecuzione della gestazione con mezzi extrauterini»21. Per tale motivo «gli esseri umani non possono mai essere educati abbastanza, perché il loro ingresso nella casa degli ordinamenti simbolici rimane per sempre un’operazione precaria soggetta a disturbo»22. E, aggiungo, la prosecuzione della gestazione con mezzi extrauterini può trovare soluzioni tecnologiche (potremmo dire neotenico-tecniche) – indipendentemente se questo output possa essere valutato

17 «Ne deriva che il linguaggio è solo la seconda casa dell’essere, una casa all’interno di una dimensione che promuove ed esige le case, e che qui chiamiamo, con diverse accezioni, il buon Ge-Stell, l’insieme delle abitazioni (Ge-Häuse), la serra, l’incubatrice, l’antroposfera, e talvolta, semplicemente, la sfera» (Id., La domesticazione dell’essere, cit., p. 155). 18 Id., Che cosa è successo nel XX secolo?, ebook, Bollati Boringhieri, Milano 2017. 19 Per una critica di Sloterdijk a Gehlen e alla sua teoria dell’essere umano “carente” vedi Sfere III, cit., pp. 663-676. 20 Id., Che cosa è successo nel XX secolo?, cit., posizione 670. 21 Ivi, posizione 677. 22 Ivi, posizione 680. Sulla questione della fondamentale difficoltà di accesso al simbolico Sloterdijk consente di fare un passo avanti rispetto alla corretta ma ristretta visione psicoanalitica che la interpreta esclusivamente attraverso la nozione di “forclusione (psicotica) del simbolico”.

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positivamente o negativamente dal punto di vista etico – anche fuori dal sostegno simbolico. Tornerò dopo su queste tesi, perché ora è il momento di riprendere il discorso generale sui meccanismi antropogenetici, avendo acquisito quantomeno un dubbio sulla posizione dell’ultimo meccanismo rispetto agli altri tre.

In che cosa consiste questo quarto meccanismo, quello della trasposizione? Esso, in prima battuta, ha a che fare, scrive Sloterdijk, con le differenze tra il “dentro” e il “fuori”:

Anche i gruppi che vivono in un’insulazione di alto grado sono ampiamente sottomessi alla pressione esterna e anzi, proprio a causa del loro grado di raffinamento interno, creano un tale differenziale tra interno ed esterno che, nelle situazioni d’emergenza, finiscono per subire una tensione supplementare. Le irruzioni del mondo circostante negli involucri dei gruppi preumani-umani raggiungono ben presto una drammaticità fatale. Quando nei gruppi di uomini sapiens i cacciatori ridiventano cacciati, quando le catastrofi naturali superano la protezione dell’insulazione, quando poteri esterni in forma umana o animale, penetrano fino allo spazio madre-bambino, quando i nemici devastano gli accampamenti, interi gruppi vengono colpiti e scompaiono, è allora che nascono le situazioni in cui gli esseri umani pagano il prezzo più alto per il loro affinamento biologico e la loro estasi ontologica […] Ora gli uomini sono nudi, nei molteplici sensi della parola, in balia delle devastazioni che provengono dall’esterno. […] Appaiono così all’orizzonte un’immunologia simbolica e la psicosemantica della rigenera-zione, senza le quali non è pensabile l’esistenza dell’homo sapiens all’interno delle sofferenze croniche che costituiscono la sua storia23.

In tal modo e per tali ragioni (l’irruzione del “fuori” nel “dentro”24) gli uomini si creano un orizzonte simbolico-immuno-

23 Id., La domesticazione dell’essere, cit., p. 163. 24 Questo meccanismo funziona anche rispetto alla violenza endogena che è dapprima espulsa immaginariamente nel fuori-umano per poi essere trattata in modo simile alla violenza esogena. Cfr., ad esempio, la descrizione delle antisfere infernali in Id., Sfere II. Globi, Cortina, Milano 2014, pp. 543-612.

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logico all’interno del quale nascono le “religioni riparatorie”25. È il meccanismo della trasposizione che, sottolinea Sloterdijk, fa diventare “domestico” il fuori inumano: in estrema sintesi, la violenza catastrofica (esogena ed endogena) e la morte. È in base a tale meccanismo che, per usare il lessico di Heidegger, il mondo umano (die Welt) è in grado di differenziarsi e difendersi dalla selva (die Wildnis) inospitale e violenta: assumendola, sopportandola (finché è possibile) dentro di sé, attraverso i riti sacrificali, le religioni riparatorie, le grandi narrazioni metafisiche.

Sloterdijk a questo punto sostiene che «quando Heidegger chiamò il linguaggio la “casa dell’essere”, stava preparando una meditazione sul linguaggio come organon generale della trasposi-zione»26 e, ripetendo a suo modo la tesi heideggeriana contenuta in una famosa conferenza del 1946 (Wozu Dichter?)27, specifica: «Ciò che è decisivo è che il linguaggio “avvicina” l’estraneo e lo spaesante includendoli in una sfera abitabile, comprensibile, foderata di empatia […]; il linguaggio è già sempre la poesia della vicinanza»28.

Ciò significa che il linguaggio, in quanto “casa dell’essere” e “organo generale della trasposizione” non coincide affatto con il linguaggio “segnico”, di cui, come abbiamo visto, Sloterdijk si occupa all’interno delle sue riflessioni sul meccanismo della “liberazione dai limiti corporei”. Per quanto confuse nella pratica quotidiana, egli sembra ritenere che si tratti di due distinguibili funzioni del linguaggio, quella appunto “segnica” (oppure “assegnica”, nel senso che “colpisce il segno” o bersaglio) e quella che è più giusto definire “simbolica” in senso proprio, o meglio “traspositiva”, secondo la sua scelta lessicale. La prima funzione linguistica – che supporta la concezione della verità pragmatica

25 Id., La domesticazione dell’essere, cit., p. 163. Sull’origine delle religioni dai riti sacrificali cfr. C. Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri, Milano 2012, pp. 132-189. 26 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 165. 27 M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 247-297. 28 P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., p. 165; cfr. anche Id., Sfere I. Bolle, Meltemi, Roma 2009.

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come raggiungimento di un obiettivo-bersaglio29 – si attiva ogniqualvolta si utilizza un segno linguistico (un universale logico) al posto di una cosa assente, ma che è stata empiricamente (o immaginativamente) presente o che potrebbe divenire (o ridiventare) empiricamente (o immaginativamente) presente. La seconda funzione linguistica, quella simbolico-traspositiva, si attiva quando il segno (diventando propriamente simbolo) sta per qualcosa di impercepibile, inimmaginabile e impensabile: in ultima istanza la morte e il ni-ente (inteso come l’abisso del nulla-di-mondo) cui il simbolo rimanda senza darne propriamente accesso, mantenendolo a distanza nella vicinanza (si pensi alla funzione dei riti religiosi nelle società primitive e in quelle premoderne)30. Quando Hegel sosteneva che la vita dello spirito dovesse essere considerata come una vita che sopporta (erträgt) la morte e che in essa si mantiene (erhält)31, diceva la stessa cosa: «Lo spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare sé stesso nella disgregazione assoluta»32. Come si vede, la paradossalità della funzione simbolica consiste nel fatto che, per suo tramite, ciò che è simbolizzato sia il non-simbolizzabile. Per tale ragione il simbolo non è un segno che “presentifica” ma un segno che mantiene a distanza, che protegge creando, come nei riti arcaici, un recinto dove contenere la violenza e il ni-ente. Ed è per tale ragione che gli ordini simbolici, oltre a introdurre ordine partitorio nelle società umane, attivano in esse il senso33.

29 Cfr. Id., Sfere III, cit., pp. 405-407. 30 Chiediamoci, tuttavia, se la differenziazione tra la funzione “segnica” e la funzione “simbolica” non sia un prodotto tardo della storia della specie umana. Domandiamoci se, andando oltre le riflessioni di Sloterdijk, non sia possibile pensare a un’originaria funzione “simbolico-traspositiva” dello stesso linguaggio segnico, come si potrebbe sostenere a partire dalle riflessioni di Christoph Türcke sull’origine del nome dal pronome e, in ultima istanza, dal grido di terrore. Cfr. La società eccitata, cit., pp. 171-182, e Id., Philosophy of Dreams, Yale University Press, New Haven-London 2013, pp. 154 sgg. 31 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2015, p. 87. 32 Ibid. 33 Bisognerebbe distinguere qui tra il senso che deriva dal simbolico e la sua trasformazione immaginaria. Tra simbolico e immaginario c’è innanzitutto una differenza: mentre il primo dà accesso alla violenza per depotenziarla e

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Nel terzo volume della trilogia Sfere, Sloterdijk ritorna sulla questione della trasposizione all’interno del paragrafo dedicato al tanatotopo (l’isola umana in quanto sfera di visitazione dei defunti). Qui Sloterdijk riflette sulla pericolosa presenza, all’interno delle culture umane, dell’al di là e di ciò che chiama i trascendenti, specifi-cando che ciò che è considerato (e temuto) come appartenente a un al di là del mondo umano è riconducibile a «due fonti completamente diverse»34: l’ignoto, che topologicamente è situato «verso l’alto, verso il basso e verso l’esterno»35 e «si estende quasi all’infinito»36, da un lato, e i morti (gli spettri degli antenati che ritornano) dall’altro. Lo spazio umano, nelle culture primitive, antiche e premoderne, si caratterizza quindi anche come uno spazio di visitazione, di infestazione, spazio di possibili “invasioni” di potenze catastrofiche (il ritorno dei morti; le catastrofi naturali; le nuove scoperte che fanno irrompere l’ignoto nel noto)37. Rispetto a esse si attiva il meccanismo della trasposizione simbolica: «Dato che lo spazio umano, nonostante il suo arrotondamento in sé, resta inevitabilmente anche uno spazio di invasione, esso assume i tratti

addomesticarla (trasponendola, quindi, nel “dentro” umano), l’immaginario la fa vedere solo coprendola e velandola. Ciò non sottintende alcuna presa di posizione morale a favore del simbolico contro l’immaginario, ma solo una constatazione storico-culturale. Ciò che Sloterdijk mostra, in particolare nel secondo volume di Sfere, è la progressiva “immaginarizzazione” del meccanismo traspositivo. Anche se dedica solo poche pagine alle culture primitive, in particolare paleolitiche, egli ha ben chiare le differenze tra una trasposizione della violenza che immunizza il gruppo attraverso una reale, benché rituale, assunzione depotenziata della stessa violenza, e la progressiva trasformazione psico-immunologica del meccanismo, già in epoca antica, attraverso l’immaginario mitologico e poi metafisico. La narrazione metafisica alla fine crolla sia in ragione delle sue aporie strutturali (cfr. ad esempio la fenomenale analisi sloterdijkiana delle irrisolvibili contraddizioni tra metafisica aristotelica geocentrica e metafisica platonica teocentrica in Sfere II, cit., pp. 421-541) sia in ragione della sua progressiva incapacità di fronteggiare immunologicamente l’estraneità e il fuori. 34 Id., Sfere III, cit., p. 417. 35 Ibid. 36 Ibid. 37 Ivi, p. 423.

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di un sistema immunitario culturale»38. Eppure, a un certo punto della storia della civilizzazione

umana, innanzitutto occidentale, qualcosa è accaduto: il mecca-nismo della trasposizione sembra essere stato messo a un certo punto fuori gioco o comunque sembra essere entrato in una crisi che pare irreversibile. Facendo riferimento, nel saggio del 2000, solo a una delle cause di questo evento, cioè allo sviluppo della tecnoscienza, egli scrive:

Viviamo in un’epoca in cui l’apocalisse dell’uomo è qualcosa di quotidiano. […] Chi non si è accorto che la “casa dell’essere” sta scomparendo sotto le impalcature! […]. Dal punto di vista della storia dello spirito e della tecnica, il carattere dell’attuale situazione mondiale che più colpisce è il fatto che la cultura della tecnica produce un nuovo stato di aggregazione di linguaggio e scrittura, che ha poco in comune con le sue interpretazioni tradizionali religiose, metafisiche e umanistiche. La vecchia “casa dell’essere” si mostra come qualcosa in cui non è quasi più possibile un soggiorno. […] Parlare e scrivere nell’epoca del codice digitale e delle trascrizioni genetiche, non ha più in alcun modo un senso addomesticante. I principi della tecnica si sviluppano al di fuori della trasposizione in ciò che è familiare di ciò che è sconosciuto, e non provocano nessun effetto di amicizia con l’esteriorità; al contrario accrescono l’estensione di ciò che è estraneo e inassimilabile. La provincia del linguaggio si restringe39.

Ecco che il problema teorico relativo al meccanismo della trasposizione si pone in tutta la sua evidenza: se anch’esso deve essere considerato come un “meccanismo antropogenetico”, al pari degli altri tre (insulazione, liberazione tecnica dai limiti corporei, neotenia), come è possibile che sia storicamente entrato in una crisi così profonda? Se il meccanismo simbolico-traspositivo può crollare o entrare in crisi allora o non è un meccanismo antropogenetico oppure si tratta di un meccanismo del tutto sui generis che bisognerà comprendere, poiché è l’unico che sembra che possa disattivarsi.

38 Ivi, p. 424. 39 Id., La domesticazione dell’essere, cit., p. 167 (corsivo nostro).

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Per evitare equivoci, tuttavia, è necessario innanzitutto distinguere analiticamente tale meccanismo all’interno della più ampia funzione simbolica. Infatti, una cosa è l’ordinamento simbolico partitorio che ha la funzione di ridurre e governare la violenza endogena caratteristica dei gruppi umani nomadi e seminomadi, ma ancora di più dei gruppi umani sedentarizzati – ordinamento simbolico che funziona innanzitutto come macchina significante di trasformazione degli “istinti” in “pulsioni”, per dirla con la teoria psicoanalitica; un’altra cosa è l’umanizzazione (culturalizzazione) antropotecnica degli altri meccanismi antropo-genetici elementari; altro, infine, è il meccanismo della trasposizione, così come lo pensa e lo definisce Sloterdijk. Prima di tornare a riflettere sulla specificità di quest’ultimo, vorrei chiarire ulteriormente la questione attraverso un riferimento all’impianto generale della trilogia Sfere.

Se, infatti, in estrema sintesi, volessimo tratteggiare la tesi di fondo di tale imponente e complessa opera, potremmo affermare che il primo volume (Bolle) sia uno studio delle relazioni diadiche intime (le “relazioni di vicinanza”), che vanno dalla condizione “noggettuale” – cioè né soggettiva né oggettiva – intrauterina, in cui il feto vive in rapporto simbiotico con l’ambiente placentare e la voce materna, fino alle relazioni diadiche tra il bambino e la madre e alle relazioni visuali intime tra i volti umani. Il secondo volume (Globi) potrebbe essere inteso, invece, proprio come un ampio e articolato studio storico-filosofico sulla progressiva trasformazione immaginaria del meccanismo della trasposizione dapprima nel racconto mitologico, poi nella narrazione metafisica; questo volume appare, quindi, uno studio sulla creazione dei mondi immaginari che hanno funzionato come progressivo ampliamento delle sfere diadiche elementari. Detto altrimenti, il volume sulle sfere simbolico-immaginarie ha come oggetto le modalità attraverso le quali la casa diadica elementare si trasforma in mondo storico. I mondi umani vengono così descritti come il risultato di un ampliamento immaginario della casa e dell’essere a casa40 che consenta l’abitare il fuori.

40 Nella trilogia Sfere, pur con qualche oscillazione, Sloterdijk sostiene una

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Ora, Globi è anche la descrizione della progressiva crisi di questi mondi umani e dei loro antichi centri simbolici: «Il corso del mon-do, anche senza la filosofia, ha sbalzato in modo imprevedibile gli esseri umani lontano dal centro»41, come egli scrive in una delle pagine conclusive del volume.

E così il tema generale del terzo volume (Schiume) assume le caratteristiche di una descrizione del mondo umano a partire dalla crisi dei “mondi simbolico-immaginari”. Ragion per cui Sloterdijk ritorna sostanzialmente a parlare dei primi tre meccanismi – anche se non lo fa secondo la partizione proposta nel saggio sulla Domesticazione dell’essere – mostrando come il precario legame sociale nelle società contemporanee si mantenga grazie alla forza dei legami simbiotici, anche parassitari (nel senso di Michel Serres)42, e tecnologici, o meglio neotenico-tecnologici.

Sloterdijk assume una posizione esplicitamente ancipite nei confronti della società schiumosa. Accetta in qualche modo la sfida psicosociologica, ma anche filosofica, della schiuma, entrando analiticamente nei suoi meccanismi, nei suoi anfratti, nelle sue fragilità, nei suoi rischi, così come nelle sue problematiche apertu-re al futuro.

Da un lato, infatti, sostiene che «la schiuma non mette niente al mondo, […] non crea alcuna successione. Senza speranza di vita né generazione a venire, essa conosce solo la fuga in avanti verso la propria esplosione43. Dall’altro scrive: «L’afrologia – dal greco aphros, schiuma – è la teoria dei sistemi toccati (collegati) da una co-fragilità. Se si riuscisse a dimostrare che ciò che ha la foggia

distinzione tra le relazioni simbiotiche elementari – che sono relazioni reali e fantasmatiche a un tempo e non implicano partizione simbolica – da un lato e, dall’altro, le costruzioni culturali (religioni, miti, metafisiche) simbolico-immaginarie che storicamente hanno avuto una funzione immunologico-traspositiva in senso proprio, ma anche una funzione di rivestimento culturale degli altri tre meccanismi antropogenetici. 41 «L’unità degli esseri umani, nel loro genere disperso – scrive Sloterdijk – si basa ora sul fatto che tutti quanti, nelle rispettive regioni e nelle rispettive storie, sono diventati sincronizzati, colpiti e umiliati da lontano, lacerati, collegati e oppressi da pretese eccessive» (Id., Sfere II, cit., p. 922). 42 Id., Sfere III, cit., pp. 464-465; cfr. M. Serres, Le parasite, Fayard, Paris 2014. 43 P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 23.

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della schiuma può allo stesso tempo essere ciò che porta in sé il futuro, e che a certe condizioni è capace di procreare, si sottrarrebbe terreno al pregiudizio sostanzialistico»44.

Ciò che Sloterdijk sembra discutere, sia in Schiume che in Devi cambiare la tua vita45 – che, non a caso, è un saggio sulle “antropo-tecniche” – è, in estrema sintesi, la seguente questione: in che modo è possibile pensare un “mondo umano” dopo la crisi, irreversibile, non solo degli ordini simbolici ma dello stesso meccanismo della trasposizione?

Ma quali sono le ragioni della crisi di quest’ultimo meccanismo nelle società contemporanee su cui Sloterdijk riflette? Potremmo rispondere, schematicamente, che esse sono quelle stesse che hanno messo in crisi innanzitutto gli ordinamenti simbolici e stanno mettendo a dura prova le medesime antropotecniche ascetiche: la progressiva immaginarizzazione del simbolico, che è al centro del volume Globi, e la sua proliferazione mediale contemporanea; la potenza della tecnologia macchinica46 – che è il tema centrale dei saggi raccolti in Non siamo ancora salvati e di molte pagine di Schiume; e, infine, la mondializzazione capitalistica (che include il “consumismo” e la “finanziarizzazione” dell’economia)47 – di cui si occupa in particolare Il mondo dentro il capitale48.

Il risultato, certo poco edificante, è quello di un mondo che appare senza senso (traspositivo) e senza ordine (simbolico). Il mondo descritto da Sloterdijk in Schiume si manifesta infatti

44 Ivi, p. 31. Sulle cause della crisi degli ordinamenti simbolici cfr. anche il mio Una cartografia della tecno-arte. Il campo del non simbolico, Cronopio, Napoli 2017, in particolare il capitolo secondo. 45 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Cortina, Milano 2010. 46 Attraverso la potenza della tecno-scienza «s’impongono a noi le visioni che si sono aperte a partire dal secolo XVII, mediante microscopi e telescopi […]. Penso inoltre alla fenomenizzazione dei funghi atomici, dei nuclei di cellule e delle vedute interne prodotte dalle macchine, alle radiografie e alle tomografie computerizzate: a un universo diffuso di visioni al cui emergere nella visibilità nessun occhio umano (più prudentemente: degli umani di oggi) poteva essere preparato» (Id., Sfere III, cit., p. 72). 47 Cfr. ivi, pp. 746-762. 48 Cfr. Id., Il mondo dentro il capitale, Meltemi, Roma 2006, volume che è un ampliamento dell’ultima sezione di Globi (L’ultima sfera).

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innanzitutto come un mondo in cui i meccanismi antropogenetici appaiono messi a nudo come un Gestell in grado di funzionare anche senza rivestimenti simbolici49; ma anche come un mondo in cui la ricerca del senso assume tratti anonimi, impersonali, nascosti e soprattutto rischiosi e violenti, come il migliore cinema degli ultimi trent’anni ci racconta; un mondo in cui la macchina del significante, per dirla con Jacques Lacan, è messa fuori gioco dal proliferare immaginario delle possibili partizioni simboliche, nonché dalla loro formalizzazione, che non è altro che il loro dis-ancoraggio dalle gerarchie sociali tradizionali50.

49 Mi si permetta il rimando al mio “Meccanismi antropogenetici messi a nudo. La questione ecologica all’epoca del Gestell”, in Quadranti. Rivista Internazionale di Filosofia Contemporanea, 4, I-II, 2016, pp. 124-142. 50 Su questo passaggio, a mio avviso essenziale per comprendere la crisi degli ordinamenti simbolico-neolitici, non posso dilungarmi in questo saggio. Tuttavia, per evitare fraintendimenti, è bene chiarire che i processi di formalizzazione e di proliferazione delle “partizioni simboliche” (pensiamo, ad esempio, a quella tra “uomo” e “donna” con cui, come ricordava Lacan, ci si trova a fare i conti ancora ogniqualvolta ad esempio si entra in una toilette di una stazione ferroviaria; cfr. Scritti, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 494) sono processi che ormai appaiono irreversibili e che sono uno dei segnali culturali più importanti della fuoriuscita dall’epoca neolitica (perché, quando si parla di “società tradizionale”, bisogna intendere “società contadina”, altrimenti gli equivoci sono sempre dietro l’angolo). Le “partizioni simboliche” sono state in grado di sostenersi fino a quando uno dei due termini dell’opposizione (secondo l’esempio di prima: “uomo”) ha rispecchiato un dominio reale, prima e oltre che simbolico-culturale, all’interno della società; cioè fino a quando la partizione simbolica è restata radicata storicamente in una supremazia reale (quasi sempre violenta) di uno dei due termini di riferimento empirico dell’opposizione binaria. È questa la ragione per cui Freud ha quasi sempre utilizzato il concetto di “fallo” come sinonimo di “pene”, esprimendo quest’ultimo (per sineddoche) un dominio di fatto, ancora patriarcale-contadino, del maschio/uomo sulla femmina/donna. Insomma, ciò che intendo sostenere è che le partizioni simboliche funzionano solo quando sono radicate su un asimmetrico dominio di un termine sull’altro. Ora, tutto questo viene progressivamente meno a partire dalla tarda modernità e deflagra all’interno della cosiddetta cultura postmoderna, poiché quest’ultima è pensabile solo a partire dalla “formalizzazione” delle partizioni simboliche, cioè a partire dalla progressiva e inesorabile erosione della plausibilità culturale di partizioni che sostengano asimmetrie psicosociali. Questo processo di erosione formalizzante e proliferante – che nasce con la critica illuministica – sembra aver trasformato le

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2. Riepilogo e rilancio (del problema) Cerco ora di ricapitolare e chiarire la mia proposta ermeneutica relativa alla questione della “crisi del simbolico” nella prospettiva elaborata da Sloterdijk. Come ho detto, ritengo che, in modo esplicito e implicito, egli abbia analizzato tale crisi descrivendo tre distinguibili (benché intrecciati) processi storico-culturali: a) la crisi degli ordinamenti simbolici; b) la crisi dell’umanizzazione dei meccanismi antropogenetici (vale a dire la crisi delle “antropo-tecniche”); c) la crisi del meccanismo della trasposizione in senso proprio. Volendo raggruppare tale triplice processo in un’immagine complessiva dovremmo parlare della crisi dell’intera civilizzazione neolitica51 che si manifesta contemporaneamente secondo tre diverse, ma anch’esse intrecciate, traiettorie.

Egli descrive innanzitutto la crisi delle sfere simboliche, che non solo hanno rivestito la funzione di ordinamenti simbolico-culturali e politici delle comunità umane, ma hanno consentito agli agglomerati umani sedentarizzati del Neolitico di contenere gli eccessi di violenza endogena provocata in particolare, a suo avviso, dall’invidia e dalla rivalità tra i “viziati” che devono necessariamente spartirsi le cure materne – laddove, per cure materne Sloterdijk intende non solo quelle delle madri empiriche reali, ma soprattutto quelle elargite dai gruppi sociali allargati e, in ultima istanza, dagli Stati:

Il mysterium iniquitatis – egli scrive – irrompe in ogni famiglia prolifica; a prescindere dalle sue intenzioni, il risentimento dei fratelli si sviluppa fino a diventare una potenza mondiale di sfondo. Ne consegue che, nelle famiglie del Neolitico con molti figli, viene inventato quell’inconscio che fa muovere la storia delle civilizzazioni così come noi la conosciamo: il suo primo ed eterno contenuto è l’invidia insopportabile nei confronti dei suoi rivali del

partizioni simboliche in puro gioco immaginario. Ne è un sintomo evidente il proliferare delle “scelte sessuali” che oggi ammontano pare a varie decine. 51 Sulla crisi irreversibile della civilizzazione neolitica cfr. T. Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, New York 2016.

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vizio, i fratelli e le sorelle, il suo motore è la richiesta inestinguibile di giustizia – ciò significa la distribuzione impossibile della ricchezza materna. Qui non ci si batte per un privilegio edipico – come non si stanca di ripetere una certa psicoanalisi poco informata sul piano della storia culturale. Ciò per cui ci si batte a partire da questo periodo, come se si trattasse di qualcosa di irraggiungibile, sono le cure materne estensive assolutamente normali, ma divenute un’eccezione52.

Le invidie tra i rivali in vizio e gli odi nei confronti di coloro che detengono il potere di “de-cidere” (il potere del “taglio simbolico” per dirla, invece, con Lacan) sono stati contenuti e moderati, nel corso dei millenni neolitici, dagli ordinamenti simbolici ai quali gli individui erano educati (allevati) a sottostare53. Tuttavia, ciò che nelle società tradizionali e premoderne era culturalmente accettato, vale a dire la sottomissione a regole psicosociali di convivenza che facevano tutt’uno con la sottomissione a un ordine sociale manifestamente patriarcale ma celatamente matriarcale, è stato progressivamente demolito, tanto da apparire oggi del tutto inaccettabile. Ciò è accaduto innanzitutto nelle società occidentali post-illuministiche a capitalismo avanzato. La critica illuministica demolitrice e demistificatrice dei “valori” tradizionali, accompa-gnata dalla progressiva affermazione e ampliamento dei diritti individuali – tanto avversati dalle destre reattive in ogni angolo del nostro mondo –, la deflagrazione del capitalismo dei consumi54, la

rivoluzione informatica, che ha trasformato radicalmente i rapporti di produzione (per dirla con Marx), sono state le potenze che hanno corroso dall’interno e fatto implodere gli ordini simbolici neolitici, con un effetto “antigravitazionale” e sempre più singolarizzato e disordinato di slancio lussureggiante.

[Il] campo sociale modernizzato – scrive Sloterdijk – nel suo complesso va descritto come una sorta di sistema multicamerale di

52 P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 730. 53 Cfr. la questione del katekon nella teologia politica cristiano-europea, M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013. 54 Cfr. P. Sloterdijk, Sfere III, cit., pp. 746-759.

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cellule di slancio verso l’alto […] nel quale i simbionti profittano di effetti antigravitazionali grazie ai mezzi di de-appesantimento a loro disposizione. Gli spazi simbiotici sono co-confrontabili, co-frivoli, co-deliranti, co-umoristici e, spesso, anche co-ipocriti e co-isterici. Non sono perciò al sicuro dal contagio della peste mimetica e dallo scoppio di epidemie paranoiche55.

La cultura postmoderna e consumistica, che è chiaramente evocata in queste frasi, è quindi solo una delle due facce della società delle schiume diadiche, perché tale società è anche quella dove il crollo delle istituzioni simboliche neolitiche ha prodotto non solo un aumento esponenziale dell’irritazione psicosociale e delle possibilità di soddisfazione consumistica di desideri, ma anche il dilagare di una violenza anonima e senza volto, sia perché questi desideri sono sempre più cupamente mimetici e produttivi di crescente insoddisfazione e di esplosioni di risentimento sociale di massa56, sia perché il meccanismo traspositivo – in ciò consiste la sua specifica crisi – si è trasformato radicalmente, diventando sotterra-neo, irriconoscibile, anonimo, singolarizzato e violento. Detto diversamente, la società schiumosa post-neolitica descritta da Sloterdijk appare una società che non è più in grado di dare accesso simbolico, quindi socialmente ritualizzato, alla violenza57. Ci sono alcune pagine che egli dedica alla crisi della casa neolitica che mi sembrano del tutto esemplari per chiarire questo punto.

55 Ivi, p. 687. 56 Parlando dello Stato contemporaneo Sloterdijk scrive: «Attraverso i suoi compiti complessi – Stato dell’educazione, Stato del comfort, termo-stato, Stato terapeutico, fornitore onniresponsabile di infrastrutture, sicurezze di fondo e illusioni distributive riscaldanti –, dà a tutti ciò che ha e ciò che può, l’apparato politico della “società” dell’abbondanza suscita in molti individui divenuti passivo-aggressivi la sensazione che, in tutta questa pienezza, e a prescindere dalla cleptocrazia universalizzata, a loro non spetti abbastanza» (ivi, p. 762); cfr. anche quanto egli scrive nel Mondo dentro il capitale, cit., pp. 281-290. 57 Cfr. su questo argomento J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2007, e Id., Le strategie fatali, SE, Milano 2007.

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3. Case inospitali58 All’interno del terzo volume della trilogia Sfere, Sloterdijk ha magistralmente analizzato la crisi contemporanea dell’abitare, comparando la casa contadina neolitica con le abitazioni contemporanee.

Dopo che in Europa e negli Stati Uniti la parte di umanità interessata per prima dalla “rivoluzione” industriale è uscita dalla condizione agraria e si è convertita a un modus vivendi multilocale e seminomade – egli scrive –, si rende evidente quanto fosse carica di premesse l’antica modalità dell’abitare nel villaggio e negli antichi domini di epoca agraria. Tutto il sapere che abbiamo in noi circa le abitazioni e le abitudini, proveniente dai fondi antichi, riflette un habitus dello statuto di abitante su terre natali, in patrie e regioni, habitus elaborato nel corso di diecimila anni di trionfale sedentarietà59.

Insomma, solo ora che ne siamo usciti, siamo in grado di comprendere che cosa abbia significato la “sedentarietà” in epoca Neolitica. Il nostro abitare (housing) ha assunto infatti, a suo parere, la modalità della “sosta protetta” in una “sala d’attesa” per viaggiatori senza una coincidenza immediata.

La casa dell’uomo neolitico – egli sostiene – è una sala d’aspetto in cui gli occupanti rimangono finché, nei campi ai margini del villaggio, non giunge l’istante in attesa del quale ci si è dati la pena di restare in un dato luogo – l’istante in cui i vegetali piantati sono idonei a essere consumati, stoccati e seminati. [...] Le case sono stazioni per la vita trattenuta60.

Quindi, anche nelle case contadine si attendeva. Solo che l’attesa, per quanto lunga, non era fine a sé stessa. Era attesa di un evento

58 Il seguente paragrafo è in parte una ripresa e una rielaborazione di alcune pagine contenute nel mio saggio “Global (post) media warming”, in Kaiak. A Philosophical Journey, 5, 2018. 59 P. Sloterdijk, Sfere III, cit., pp. 479-480. 60 Ivi, p. 481.

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che, anno per anno, si ripeteva ciclicamente; si tratta dell’evento del raccolto, parte del quale sarebbe stato consumato, parte conservato nei granai, per fare fronte all’inverno, ma anche, aggiungerei, affinché le scorte potessero essere distrutte proprio quando stavano per scarseggiare. Quest’ultima è una caratteristica cui gli antropologi non sempre hanno dato il giusto peso: affinché la “madre terra” potesse risorgere dal letargo invernale, si consumavano festosamente (e pericolosamente) le ultime scorte di cibo61. La vita e la morte umane animali e vegetali, l’economia ristretta e l’economia allargata, le tecniche, i simboli e i luoghi di sedentarietà erano così intrecciati secondo un intreccio chiasmatico.

L’anno contadino è un avvento agrario. Il suo risultato psichico è l’esperienza religiosa del tempo: in quel pensiero che ha la forma della semina e del raccolto si esercita questa ingiunzione del venire e del venire-incontro alla quale si ricollega tutto il pensiero tipologico, con la sua dualità di premessa e compimento […]. Quando si accetta di aspettare le piante, bisogna collocarsi in una gabbia in cui la lentezza è al potere. La prima casa è, di conseguenza, una macchina per una sistemazione di lunga durata e per la relativa noia. […] L’imperativo categorico dell’ontologia agraria “Impegnati nel raccolto!” può essere rispettato finché esiste una tensione sensata tra la previdenza e la realizzazione. Di conseguenza, la casa dei primi contadini potrebbe essere un orologio abitato. È il luogo di nascita di due tipi di temporalità – il tempo che si dirige verso un avvenimento e il tempo che, come se girasse su sé stesso, serve all’eterno ritorno dell’uguale62.

È stata la rivoluzione industriale a rompere definitivamente il legame tra l’attesa e il raccolto, quindi a distruggere la concezione neolitico-religiosa del tempo, aprendo, secondo Sloterdijk, l’abisso psicosociale della disoccupazione “antropologica”, vale a dire del “non avere niente da fare”. La perdita del “mondo” (non c’è altro mondo che quello “agrario”, potremmo aggiungere) da un lato

61 Cfr. su tali questioni E. de Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 214-259. 62 P. Sloterdijk, Sfere III, cit., pp. 484-486.

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distrugge la “casa simbolica”, dall’altro spalanca il baratro della noia profonda. Si tratta di due conseguenze su cui vale la pena riflettere.

La crisi dell’abitare neolitico è la fine della “casa contadina”, cioè della casa simbolica, ma non dell’abitare in quanto tale. Infatti, proprio tale crisi rivela, nel senso che mette a nudo, il meccanismo elementare dell’insulazione, che consiste nella pulsione a proteggere la propria vita dal “fuori” inospitale, ma in “modalità non simbolica” dovremmo aggiungere, vale a dire secondo la funzione già svolta dalla “capanna preistorica”, afferma Sloterdijk. Quest’ultima è inclusa nella casa contadina, ma non è vero il contrario: nella capanna preistorica non c’è la casa contadina, non c’è (ancora) la “casa simbolico-neolitica”:

Grazie alla loro appartenenza al […] complesso semina-raccolto, le case [contadine] si distinguono dalle capanne con le quali per molto tempo sono state strettamente imparentate, e con le quali conservano sempre, almeno dal punto di vista formale, una similitudine ingannevole. La casa [contadina] contiene senz’altro la capanna preistorica, che essa assorbe e rimpiazza nella misura in cui ne riprende le funzioni: riparare il sonno, proteggere dal clima e dai parassiti, mettere a disposizione una sfera in cui potersi ritirare per l’attività sessuale e una sfera di comfort per le situazioni di digestione pigra. Al contrario, la capanna non può mai contenere la casa [contadina] poiché non progetta un raccolto e si limita, giorno dopo giorno, al fatto di offrire un tetto. (Da qui l’attrattiva che l’esistenza in capanna esercita sui civilizzati consumati dai progetti, i quali, durante le loro vacanze, si sistemano in tende e caravan)63.

La crisi dell’abitare neolitico ha quindi portato alla luce il meccanismo “elementare” insulante (e neotenico) dell’abitare, quello della protezione del vivente dall’inospitalità del fuori. Questo meccanismo, così come lo descrive Sloterdijk, ha una valenza psicocorporea che può essere meglio chiarita come concomitanza di due impulsi elementari: quello volto a proteggere

63 Ivi, p. 486.

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il proprio corpo, in particolare nelle situazioni di massima vulnerabilità (come il periodo del sonno), da un lato, e quello volto a ricreare spasmodicamente relazioni simbiotiche con una parte, anche minima, dell’ambiente di vita (ambiente di vita che include, dovremmo aggiungere, enti inorganici e esseri viventi, non necessariamente “umani”), dall’altro. Come è evidente, questo secondo impulso, quello simbiotico, è un meccanismo psico-corporeo di difesa e protezione “elementare”, non solo perché residuale rispetto al crollo del mondo simbolico neolitico, ma anche perché comune a tutte le specie viventi (animali e vegetali).

L’altra importante conseguenza psicosociale messa in evidenza da Sloterdijk consiste nella rottura tra il tempo dell’attesa e quello del raccolto, rottura che è la ragione della diffusa comparsa nelle società occidentali post-agricole di quella “situazione emotiva” – diversamente alquanto misteriosa – che è stata chiamata noia profonda o anche angoscia (ma quest’ultima nel senso heideggeriano del tedium vitae)64 e che nelle culture neolitiche era tuttalpiù un’emozione appannaggio di sofisticati letterati cittadini. Come è noto, quella della noia è stata una questione cruciale nella tarda modernità (Heidegger, Benjamin, Fenichel, Beckett65…). Ebbene, in base a quanto prima argomentato, la noia profonda appare un importante indice della crisi irreversibile dell’epoca agraria. La noia profonda, prima che rivelare l’insensatezza dell’essere-nel-mondo66, manifesterebbe invece quello “svuotamento” dell’attesa che avrebbe avuto luogo con la crisi dell’abitare contadino. Se l’attendere diviene vuoto e senza più senso (senza quel senso derivante dal raccolto), allora esso diventa spasmodico, perché oscillante tra depressione (che è il termine psichiatrico più vicino alla

64 Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il melangolo, Genova 1992, e Id., Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, § 40, pp. 231-239. 65 Rinvio al mio articolo “Esser-ci o non esser-ci. Noia profonda, flânerie, fumisme”, in Co-incidences, 17, 2015, pp. 101-111; cfr. anche O. Fenichel, Sulla psicologia della noia, in Noia, Grenelle, Potenza 2017, pp. 11-35; nello stesso volume vedasi anche il saggio di Bruno Moroncini dal titolo Tempo della ripetizione e tempo dell’arresto, ivi, pp. 77-114. 66 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 40, pp. 231-239.

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“noia profonda”) e improvvisa eccitazione. L’attendere divenuto vuoto e senza fondamento simbolico non per questo, infatti, smette di essere un attendere. Solo che diviene sempre più ansioso. Nelle nostre capanne hi-tech contemporanee continuiamo ad attendere qualcosa, qualsiasi cosa, spesso una telefonata, un’email, un messaggio all’interno del nostro profilo social. Non solo messaggi di amici, perché, ancora più graditi, perché inaspettati, sono quelli degli sconosciuti, messaggi che ci riempiono di euforia. Attraverso i nostri profili social non attendiamo in fondo che qualche sconosciuto ci riempia la vita e ponga termine alla nostra noia. Per dirla con Heidegger (lo fa anche Sloterdijk) aspettiamo sempre e comunque “un dio che possa salvarci”. Ma il dio in questione potrebbe essere un pericolo mortale, un rischio assoluto. Non è un caso che la (dissimulata) fascinazione contemporanea per il terrorismo faccia il paio con il (sovranistico) rifiuto del migrante, e questo ben al di là delle piccole e troppo ragionevoli questioni “economiche” delle anime belle benpensanti: con la crisi dell’abitare agrario, infatti, entra in crisi anche l’istituzione simbolica dell’ospitalità67, tanto che a un certo punto l’ospite ha smesso di essere inserito in un ordine di senso.

L’ospitalità al contrario ha rivestito un carattere fondamentale nella casa contadina. Dal momento che quest’ultima, in quanto “stazione di vita trattenuta” (Sloterdijk), è (stata) povera di eccitazione – dal momento che la temporalità agrario-religiosa, come abbiamo visto, è strutturalmente ripetitiva – i riti dell’ospitalità hanno svolto il compito di assicurare una quota di imprevedibilità e di eccitazione, necessario complemento, potremmo dire, della stessa concezione religiosa del tempo; il divino, infatti, in tutte le religioni ha un duplice aspetto: protegge e incute timore, è benevolo e sconvolgente68. Ebbene, come è noto, l’istituzione simbolica dell’ospitalità, quasi un micro-rito sacrificale “domestico”, è stata per millenni in grado di tenere insieme

67 Vedi E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 voll., Einaudi, Torino 1976, vol. 1, pp. 64-75; cfr. su tale questione M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 105-130. 68 Sull’ambivalenza del “divino” cfr. C. Türcke, La società eccitata, cit., pp. 146-182.

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(almeno nei tempi di pace, o tra una guerra e l’altra69) i due lati del divino, quello protettivo e quello sconvolgente.

L’istituzione dell’ospitalità – scrive infatti Sloterdijk –, codificata in chiave religiosa in alcune culture, è legata alla possibilità di ricevere nella propria casa l’invitato come segno dell’insolito, se non, quantomeno in maniera indiretta, come un “messaggero della divinità che ci fa cenni”. Un nuovo venuto insignificante non si è trasformato, un giorno, in questo redentore annunciato? Ma visto che gli ospiti non possono soddisfare l’appetito di cenni, numerosi sistemi mantici offrono loro servizi per equipaggiare la vita con il necessario surplus di segni. Quanto meno i sedentari fanno esperienza di segni, tanto più i miracoli servono loro da nutrimento di prima necessità. L’uomo non vive solo di pane, ma anche di indizi qualsiasi del fatto che, altrove, succede qualcosa di interessante. Se, un giorno, i segni dell’aldilà diventassero inaccettabili, verrebbero rimpiazzati dai comunicati stampa, dalle nuove pubblicazioni e dai segni del tempo70.

Venendo meno la temporalità agrario-religiosa anche l’istituto dell’ospitalità svanisce. Allora, nel luogo vuoto dell’ospite (nella sua doppia connotazione simbolica di hospes-hostis), si impongono, senza alcun chiasma simbolico, le figure collettive (e anonime) degli amici-rivali – che appaiono sempre troppo simili tra loro perché non scatti l’invidia e il conflitto comparativo71 –, dei “migranti”– che appaiono sempre “troppi” e fuori-posto nell’immaginario populistico –, e degli anonimi “terroristi”– siano essi terroristi politico-religiosi oppure “tranquilli” vicini di casa che si trasformano inaspettatamente in furibondi assassini.

Le capanne hi-tech contemporanee, come dicevamo, hanno

69 La civiltà neolitica, come è noto, non è stata affatto una civiltà della “pace”, e non solo per le continue guerre tra le bande aristocratico-guerriere o per le continue scorrerie subite dalle masse contadine (più dell’ottanta per cento della popolazione mondiale per millenni, volendo dare una stima generica), ma anche per la violenza interna al mondo contadino stesso, violenza mai del tutto “ritualizzata”. 70 P. Sloterdijk, Sfere III, cit., p. 493. 71 Cfr. ivi, pp. 759 sgg.; sul conflitto comparativo, cfr. E. de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano 2012.

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ormai solo la funzione di proteggere la vita, sempre più singolarizzata, dal fuori inospitale da cui potrebbe giungere il dio che ci salverà oppure il nostro assassino, entrambi per noi nelle sembianze del perfetto sconosciuto.

Le nostre case assomigliano quindi sempre più, per dirla ancora con Sloterdijk, a delle “stazioni spaziali”: cellule di protezione biopsichica e snodi di tele-comunicazione. Ma sono anche, con ciò stesso, i luoghi minimi di “schermo” dalle ondate di eccitazione che, proprio attraverso gli stessi schermi digitalizzati, hanno reso sempre più eccitata ed eccitabile la nostra esistenza.

Tuttavia sono diventati luoghi paradossalmente in-ospitali. Non certo nel senso in cui è inospitale la Wildnis, il fuori selvatico privo di Welten, privo di mondi umani, in cui il cosmo stesso da tempo si è trasformato, ma nel senso dell’assenza di ospiti o meglio dell’assenza dell’istituzione simbolico-neolitica dell’ospitalità, istituzione in cui il meccanismo traspositivo si esprimeva in una delle sue manifestazioni e funzioni psicosociali fondamentali.

Eppure, come anticipavo, Sloterdijk non descrive solo la crisi degli ordinamenti simbolici o quella del meccanismo traspositivo (come abbiamo visto intrecciate), ma anche quella delle stesse antropotecniche. 4. Trasposizione e umanizzazione Torniamo per un momento alla tesi generale sui meccanismi antropogenetici per sottolineare come essi non siano qualcosa che stia, in un lontano passato, “alle spalle” dell’umano bensì siano meccanismi che, in quanto originari, si ripetono. Ciò che è originario, infatti, non è qualcosa né di effimero né di irripetibile (nonostante la sua contingenza), ma è ciò che si ripete e che non è possibile ridurre a qualcosa di più elementare. È ciò che non smette di iscriversi nella storia umana. Essi innanzitutto si ripetono poiché la neotenia continua a essere una costante biologica; perché l’insulazione continua a essere una condizione biologica necessaria per la protezione e la fioritura di esseri neotenici; perché, infine, l’evoluzione biologica della nostra specie continua a essere

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strutturalmente biotecnica. Ciò nonostante, questi tre meccanismi si ripetono anche grazie alla loro tendenza autoplastica. Se interpretiamo correttamente ciò che Sloterdijk ha inteso mostrare, essi infatti si ripetono anche attraverso la loro trasformazione in antropotecniche. Al di là della loro distinzione concettuale, tra la nozione di antropogenesi e quella di antropotecnica c’è un legame strutturale e necessario. Producendo l’uomo a partire dal loro contingente incrocio, i meccanismi antropogenetici continuano a produrlo ripetendosi in quanto antropotecniche. Quindi essi si ripetono in un duplice senso: da un lato si ripetono in quanto meccanismi bio-ambientali e impersonali comuni a più specie viventi; dall’altro, essendo la contingente origine dell’umano essi non smettono di produrlo attivando e rinforzando una tendenza autoplastica che spesso ha fatto pensare a una sorta di eccezionale auto-nomia dell’umano in grado di prodursi da sé e da solo, come gli umanismi di ogni tipo non fanno che ripetere fino alla noia.

Ciò ha due conseguenze. La prima è che i meccanismi elementari possono prescindere dalle antropotecniche, perché, per quanto queste ultime siano una ripetizione autoplastica dei primi, questi, in quanto meccanismi bio-ambientali a-specifici funzionano indipendentemente dalla loro trasformazione in antropotecniche. La seconda conseguenza è che anche le antropotecniche, in quanto ripetizioni auto-plasmanti dei meccanismi antropogenetici elementari, sono in grado di sopravvivere, rafforzarsi o indebolirsi, indipendentemente dalla crisi del meccanismo della trasposizione. Lasciando sullo sfondo la prima di tali conseguenze72, vorrei soffermarmi sulla seconda.

Come dicevo, le antropotecniche ripetono e rafforzano i meccanismi antropogenetici. Prima ho utilizzato il termine

72 L’autonomia dei primi tre meccanismi si manifesta nella possibilità che essi si attivino in modalità non simbolica, in particolare nelle situazioni di emergenza socio-ambientale che oggi sembrano moltiplicarsi per molte ragioni. Quando tali meccanismi si attivano al di fuori dei rivestimenti simbolici (siano questi gli ordini significanti oppure le antropotecniche oppure le trasposizioni) aprono paradossalmente (spesso rischiosamente) la specie umana a condizioni comuni a molte altre specie viventi, quindi, per così dire, s-fondano il recinto antropologico.

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umanizzazione proprio per indicare tale processo di ripetizione autoplastica che consiste nella progressiva internalizzazione di specie di meccanismi in origine trans-specifici. Forzando un poco il famoso concetto hegeliano, potremmo definire questa umanizzazione un’Aufhebung, vale a dire un processo di superamento e ripetizione di processi bio-ambientali trans-specifici che li “assorbe”, li “affina” e li “internalizza” nella specie, che in una parola li spiritualizza. Sloterdijk lo ribadisce in modo lucido e nietzschianamente radicale: l’uomo è il prodotto di un’educazione che equivale a un addomesticamento, un allevamento. Ciò significa che le antropotecniche hanno sia la funzione “superiorizzante” di innalzare l’uomo – in quanto animale linguistico – al di sopra degli altri animali e specie viventi, che la funzione normalizzante e addomesticante di riduzione dello stress esogeno ed endogeno che le società umane devono continuamente affrontare, intrecciandosi (ma anche mantenendosi indipendenti) con gli ordinamenti simbolico-neolitici di cui ho parlato prima. Seguendo il suo pensiero dovremmo convenire sul fatto che l’uomo sia anche fondamentalmente un animale ascetico, cioè un animale in grado di auto-plasmarsi, autoaddomesticarsi ripetendo e affinando/spiritualizzando i meccanismi elementari da cui è emerso in quanto specie. Ciò significa che, se viene meno o comunque entra in crisi il meccanismo della trasposizione, potrebbe rimanere intatto il virtuosismo ascetico (sia nella versione occidentale del tour de force che in quella orientale dell’affinamento per decantazione73, dovremmo aggiungere).

73 Molti studiosi hanno riflettuto sulle differenze tra le culture occidentali anglo-latine (come diceva Jacques Derrida) e le culture orientali, opponendo, ad esempio, l’olismo e il gradualismo orientale alle distinzioni partitorie occidentali; cfr. F. Jullien, Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità, Cortina, Milano 2006, e Id., Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2016.

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5. La de-spiritualizzazione dell’ascesi In base alle analisi storico-antropologiche di Sloterdijk, dovremmo convenire sul fatto che nelle società primitive e antiche, nonché in quelle premoderne, la trasposizione e l’umanizzazione appaiono quasi sempre intrecciate tra loro e con gli ordinamenti simbolico-neolitici. E ciò è accaduto fino a quando le culture umane sono rimaste fondamentalmente legate alle istituzioni religiose. Il mondo moderno si è caratterizzato, invece, per la progressiva autonomizzazione della cultura (il mondo della Bildung su cui lungamente riflette Hegel nella Fenomenologia dello spirito74) dalle “religioni riparatorie”, quindi, seguendo la partizione prima proposta, per il progressivo distanziamento tra il meccanismo della trasposizione in quanto tale e la semplice umanizzazione antropo-tecnica degli altri.

Come dicevo, non è un caso che Sloterdijk faccia seguire alla trilogia Sfere il suo Devi cambiare la tua vita, il cui sottotitolo è appunto Sull’antropotecnica. Questo libro mostra, tuttavia, come anche nell’ambito delle pratiche ascetiche nella tarda modernità sia accaduta una trasformazione radicale. Esse si sono de-spiritualizzate. Mentre gli esercizi ascetici tradizionali erano rivolti quasi esclusivamente alla cultura dello “spirito”, vale a dire all’affinamento e all’educazione di ciò che aristotelicamente chiameremmo l’anima desiderativa e l’anima razionale75, a partire dalla fine dell’Ottocento accade qualcosa di apparentemente semplice, banale, finanche pop: l’affermazione su scala planetaria dello sport a partire dal movimento olimpico di Pierre de Coubertin. Tale affermazione assume agli occhi di Sloterdijk, che anche in questo caso sembra incline a darne un’interpretazione ancipite e ambivalente, il valore aggiunto di un’ascesi post-nichilistica: «Ritengo che la de-spiritualizzazione delle pratiche ascetiche – egli scrive – sia, nell’attuale storia spirituale dell’umanità, l’evento più vasto, il più difficile da vedere a causa

74 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 771 sgg. 75 Cfr. Aristotele, L’anima, Bompiani, Milano 2001, e Id., Etica nicomachea, Rusconi, Milano 1994.

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del suo maxiformato, e tuttavia il più avvertibile e il più influente sull’atmosfera generale»76. Sloterdijk sembra pesare le parole. Parla dell’evento più vasto dell’attuale storia spirituale dell'umanità, tanto vasto e pervasivo da risultare il più difficile da tematizzare.

Nietzsche viene convocato da Sloterdijk quale “testimone” di tale evento. Il problema nietzschiano fu, infatti, quello di pensare una verticalità senza Dio. Come intendere questa ripresa che Sloterdijk fa della domanda di Nietzsche? Possiamo trasformarla in quest’altra: è possibile una verticalità senza il “senso” che deriva dalla trasposizione? È possibile una verticalità puramente atletica, che trova il senso nella sua mancanza di senso77?

Se Rinascimento atletico e somatico significa che le pratiche ascetiche de-spiritualizzate sono nuovamente possibili, auspicabili ed essenzialmente plausibili, – sostiene Sloterdijk in un passo assolutamente centrale del suo libro – allora riusciamo a rispondere serenamente all’esaltata domanda che Nietzsche pone alla fine di Genealogia della morale: verso che cosa possa ancora orientarsi la vita umana dopo il crepuscolo degli dèi. La vitalità, intesa in senso sia somatico sia spirituale, è essa stessa il medium che contiene un divario tra più e meno. Essa porta dunque in sé stessa l’elemento verticale, quello che orienta le ascensioni, e non ha bisogno di attrattori aggiuntivi, esterni o metafisici. In questo contesto, non c’importa che Dio sia morto. Con o senza Dio, ciascuno di noi avanza solamente nella misura in cui la propria forma o condizione atletica glielo consente78.

“Trascendere, ma verso dove?”, “Ascendere, ma a che altitudine?” sono le domande che si pose Nietzsche. Le risposte devono essere ancora trovate, ci dice Sloterdijk. È tuttavia indubbio che egli, pur comparando apparentemente il rinascimento atletico con l’atletismo olimpico greco, ne registri anche una differenza radicale. I giochi olimpici greci avevano un significato politico-sociale non utopistico, come invece è caratteristica del movimento

76 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 47. 77 Cfr. J.-L. Nancy, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997. 78 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 48.

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olimpico di de Coubertin, ma una forte connotazione religiosa, ed erano una delle tante istituzioni culturali condivise attraverso le quali un mondo culturale estremamente conflittuale, ma fortemente identitario, era in grado di sostenersi e immunizzarsi dai barbari. Insomma le olimpiadi greche non avevano il carattere illusoriamente e utopisticamente universalistico che pretendono avere i giochi olimpici contemporanei. D’altro canto erano espressione di una cultura in cui l’aristocrazia guerriera aveva ancora un ruolo sociale riconosciuto, nonostante i veementi attacchi dell’élite dei filosofi che si batteva per ribaltare le tradizionali tavole dei valori (mi riferisco a Socrate e Platone, e non certo ai filosofi cinici79). Proprio per tali ragioni l’atletismo greco, per quanto possa essere concepito come anti-spirituale, se inteso come ciò che la nuova spiritualità filosofica rifiutava, non potrebbe essere identificato o confuso con il rinascimento atletico di de Coubertin. Quando Sloterdijk parla, a tale proposito, di ri-somatizzazione delle pratiche ascetiche, nonostante alcune oscillazioni valutative sugli eroi sportivi, egli registra uno dei mutamenti antropologici del nostro tempo: quella della de-umanizzazione delle ascesi, quindi della loro ri-animalizzazione. Senza volere dare una valutazione negativa o positiva di tale tendenza, bisogna registrare che essa sta progressivamente trasformando le stesse pratiche sportive in esercizi sempre più spinti e tecno-morfi di enhancement corporeo. Ciò che conta nello sport non è che cosa possa fare un corpo umano ma cosa possa fare un corpo in generale80 per superare i limiti precedentemente raggiunti da altri corpi.

Nel suo libro del 2009 Sloterdijk registra questa tendenza assieme a un’altra, che è quella della “mistica informale” delle nuove sette “psico-tecniche”, il cui paradigma è la chiesa di Scientology, fondata da Ron Hubbard81. Quindi ci invita a non isolare l’una dall’altra e a pensarle assieme: da un lato un corpo

79 Cfr. Id., Critica della ragion cinica, Cortina, Milano 2013. 80 Penso che Gilles Deleuze parlando di corpo intendesse proprio un corpo in generale e non il corpo umanizzato. 81 Id., Devi cambiare la tua vita, cit., pp. 103 sgg.

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senza anima, dall’altro un’anima senza corpo, potremmo schematizzare, giocando un po’ su due termini della tradizione filosofica e spirituale occidentale. Si tratta di due tendenze che registrano una scissione tra ascesi somatiche e ascesi spirituali e che mettono nei fatti in crisi gli stessi processi di umanizzazione ai quali ci riferivamo prima. Crisi pericolosa quanto quella del meccanismo della trasposizione, dando per sufficientemente scontata la crisi degli ordinamenti simbolico-neolitici.

Non è un caso allora che nel saggio del 2000 sulla Domesticazione dell’essere da cui siamo partiti, Sloterdijk abbia lucidamente espresso l’esigenza inderogabile di un cambio di prospettiva teorica per comprendere ciò che è successo e l’abbia riconosciuto nella nuova logica e nella nuova ontologia inaugurata dalla cibernetica e dalle teorie ecologiche. Con riferimento a Gottard Günther, innanzitutto, ma anche a Niklas Luhmann, Heinz von Foerster, Michel Serres e Bruno Latour, egli scrive: «Tutti gli oggetti culturali sono, secondo la loro costituzione, degli ibridi con una “componente” spirituale e una materiale, e ogni tentativo di dire che cosa essi siano “propriamente”, nell’ambito di una logica bivalente e di una ontologia monovalente, finisce in riduzioni prive di prospettive e in semplificazioni distruttive»82.

Riprendendo e chiarendo ulteriormente tali tesi, in Schiume egli aggiunge: «L’organon del mostruoso si è costruito nel corso del XX secolo sotto forma di ecologia – accanto alla cibernetica essa costituisce l’unico vero novum nel panorama cognitivo del nostro tempo. Si tratta del compimento del mostruoso sotto forma di scienza degli equilibri e dei disequilibri nei processi vitali, al di là delle prospettive umane»83. E la stessa biologia, per essere all’altezza del suo compito teorico, è oggi concepibile solo come bio-tanatologia, egli sostiene84.

Stiamo riparlando del meccanismo della trasposizione e forse stiamo per giungere a individuare la risposta di Sloterdijk alla

82 Id., La domesticazione dell’essere, cit., p. 170. 83 Id., Sfere III, cit., p. 441. 84 Ibid.

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domanda che ci siamo fatti all’inizio: che fine ha fatto tale meccanismo?

Prima abbiamo cominciato a enunciare solo una parte della risposta. Abbiamo detto che il meccanismo traspositivo non è scomparso ma si è inabissato per così dire, si è singolarizzato e sopravvive in modalità (para)rituali oscure. Si pensi ai rave oppure alle sempre risorgenti mode giovanili di riattivazione di sempre più improbabili e violenti riti di passaggio, apparentemente rifiutati dalla cultura condivisa dalle medesime diadi-individuali che segretamente le praticano.

Ma si tratta solo di una parte della risposta, poiché l’altra ragione della sua crisi e disattivazione è l’irruzione del fuori nel sempre più ristretto mondo umano, irruzione che si manifesta sia negli sconvolgimenti ecosistemici, sia nella potenza della tecnologia, e che è stata storicamente anticipata dalla demolizione prima teologica e poi scientifica di ogni idea di finitudine cosmologica delle sfere85. Nel primo volume della sua trilogia Sloterdijk annota infatti:

L’uomo è da ogni parte sormontato da mostruose esteriorità che fanno soffiare su di lui il gelo delle stelle e una complessità extra umana. La vecchia natura dell’homo sapiens non è capace di far fronte a queste provocazioni lanciate dall’esterno. La ricerca e la presa di coscienza hanno trasformato l’essere umano in un idiota del Cosmo86.

La trasposizione di questo fuori in-umano nel dentro delle sfere umane, sembra dirci Sloterdijk, non è più possibile. Bisognerà inventare nuove strategie di sopravvivenza della storia umana alla mostruosità del fuori. Strategie che non siano reattive e, quindi, illusorie.

85 Id., Sfere II, cit., pp. 502 sgg.; cfr. A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1988. 86 P. Sloterdijk, Sfere I, cit., p. 77.

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