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dott. Gabriele Positano Giudice del Tribunale di Lecce Roma, 12-16 dicembre 2011, Corso di Riconversione alle funzioni civili. La liquidazione del danno alla persona PREMESSA La materia del danno alla persona ha visto la giurisprudenza impegnata a rispondere alle crescenti istanze di tutela che provengono dalla società, con esiti spesso limitati ad un mero riconoscimento della sussistenza di un danno alla persona, non accompagnato da un adeguato sforzo sistematico e di qualificazione giuridica del danno. In primo luogo, con riferimento alle voci “classiche” di danno appare necessario tentare una ricognizione ed un confronto sullo stato attuale degli orientamenti. In secondo luogo appare imprescindibile il tentativo di giungere ad una prima sintesi dei problemi posti dalla ridefinizione dei contenuti del danno non patrimoniale alla luce della lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.2059 cc. “il pregiudizio del valore persona” nelle sue varie dimensioni quale risulta anche dalle recenti decisioni giurisprudenziali della Cassazione e della Corte Costituzionale Occorre considerare, poi, che le ricadute nuova categoria del danno non patrimoniale incidono anche sui settori di contenzioso diversi dall’infortunistica. Così, in tema di responsabilità dovrà prendersi atto dell’estensione del novero dei legittimati ad agire per il risarcimento dei danni. Le recenti sentenze della Cassazione hanno consolidato la tutela risarcitoria dei congiunti anche nei casi di eventi di danno che non cagionano la morte del paziente, ma causano lesioni non necessariamente di elevatissima gravità. Si tratta di un dato che incide enormemente sul contenzioso della responsabilità medica L’estensione del sistema risarcitorio non ha riguardato solo il novero dei legittimati attivi all’azione, bensì anche i danni risarcibili: così, ad esempio, i parenti della vittima primaria non si trovano più nella necessità di “prospettare” una propria malattia psichica per conseguire un risarcimento del danno non patrimoniale (danno biologo iure proprio da morte), ma potranno usufruire di nuove categorie di danno, quale ad esempio il danno da lesione del rapporto famigliare/parentale (o sofferenza esistenziale). Un’attenzione particolare va riferita al cd principio di armonizzazione delle regole sul risarcimento del danno non patrimoniale, che costituisce, ormai, un’esigenza unanimemente sentita come non rinunciabile anche in ambito europeo, per fronteggiare il rischio di anarchia interna ai sistemi nazionali e per consentire una razionalizzazione dei criteri tabellari di liquidazione del danno (in tal senso, si vedano le conclusioni dei lavori del Convegno Europeo sulle Prospettive di razionalizzazione del risarcimento del danno non economico del giugno 2000). Uniformità pecuniaria di base, perché il valore umano, l’integrità psicofisica, è uguale per tutti gli esseri umani; flessibilità nel caso concreto, perché una stessa menomazione può avere una maggiore o minore incidenza a secondo della persona che la subisce. Come è noto, però, alla generale accettazione del predetto principio ha fatto riscontro una certa eterogeneità, sia nella configurabilità di singole voci di danno, sia nella liquidazione delle varie categorie di danno presso i diversi Tribunali, con effetti talvolta pregiudizievoli, come ad esempio, il fenomeno del c.d. “forum shopping”, in base al quale la richiesta risarcitoria è dirottata nelle sedi giudiziarie che adottano parametri più elevati. E questo senza considerare le inquietanti prospettive che si aprono dopo le importanti pronunce della Cassazione che richiederanno di approfondire il delicato rapporto fra il danno non patrimoniale ed il danno da sofferenza morale.

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Roma, 12-16 dicembre 2011, Corso di Riconversione alle funzioni civili. La liquidazione del danno alla persona

PREMESSA La materia del danno alla persona ha visto la giurisprudenza impegnata a rispondere alle crescenti istanze di tutela che provengono dalla società, con esiti spesso limitati ad un mero riconoscimento della sussistenza di un danno alla persona, non accompagnato da un adeguato sforzo sistematico e di qualificazione giuridica del danno. In primo luogo, con riferimento alle voci “classiche” di danno appare necessario tentare una ricognizione ed un confronto sullo stato attuale degli orientamenti. In secondo luogo appare imprescindibile il tentativo di giungere ad una prima sintesi dei problemi posti dalla ridefinizione dei contenuti del danno non patrimoniale alla luce della lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.2059 cc. “il pregiudizio del valore persona” nelle sue varie dimensioni quale risulta anche dalle recenti decisioni giurisprudenziali della Cassazione e della Corte Costituzionale Occorre considerare, poi, che le ricadute nuova categoria del danno non patrimoniale incidono anche sui settori di contenzioso diversi dall’infortunistica. Così, in tema di responsabilità dovrà prendersi atto dell’estensione del novero dei legittimati ad agire per il risarcimento dei danni. Le recenti sentenze della Cassazione hanno consolidato la tutela risarcitoria dei congiunti anche nei casi di eventi di danno che non cagionano la morte del paziente, ma causano lesioni non necessariamente di elevatissima gravità. Si tratta di un dato che incide enormemente sul contenzioso della responsabilità medica L’estensione del sistema risarcitorio non ha riguardato solo il novero dei legittimati attivi all’azione, bensì anche i danni risarcibili: così, ad esempio, i parenti della vittima primaria non si trovano più nella necessità di “prospettare” una propria malattia psichica per conseguire un risarcimento del danno non patrimoniale (danno biologo iure proprio da morte), ma potranno usufruire di nuove categorie di danno, quale ad esempio il danno da lesione del rapporto famigliare/parentale (o sofferenza esistenziale). Un’attenzione particolare va riferita al cd principio di armonizzazione delle regole sul risarcimento del danno non patrimoniale, che costituisce, ormai, un’esigenza unanimemente sentita come non rinunciabile anche in ambito europeo, per fronteggiare il rischio di anarchia interna ai sistemi nazionali e per consentire una razionalizzazione dei criteri tabellari di liquidazione del danno (in tal senso, si vedano le conclusioni dei lavori del Convegno Europeo sulle Prospettive di razionalizzazione del risarcimento del danno non economico del giugno 2000). Uniformità pecuniaria di base, perché il valore umano, l’integrità psicofisica, è uguale per tutti gli esseri umani; flessibilità nel caso concreto, perché una stessa menomazione può avere una maggiore o minore incidenza a secondo della persona che la subisce. Come è noto, però, alla generale accettazione del predetto principio ha fatto riscontro una certa eterogeneità, sia nella configurabilità di singole voci di danno, sia nella liquidazione delle varie categorie di danno presso i diversi Tribunali, con effetti talvolta pregiudizievoli, come ad esempio, il fenomeno del c.d. “forum shopping”, in base al quale la richiesta risarcitoria è dirottata nelle sedi giudiziarie che adottano parametri più elevati. E questo senza considerare le inquietanti prospettive che si aprono dopo le importanti pronunce della Cassazione che richiederanno di approfondire il delicato rapporto fra il danno non patrimoniale ed il danno da sofferenza morale.

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L’ESIGENZA DI MISURARE IL DANNO ALLA PERSONA La risarcibilità del danno alla persona in genere e di quello biologico in particolare ha posto, sin dal suo affermarsi, il problema della individuazione dei parametri di monetizzazione del danno. Poiché la norma di riferimento era quella dettata dall’art. 1226 c.c. sulla base del richiamo operato dagli artt. 2056 e 2057 c.c., un criterio equitativo puro avrebbe rischiato di spostare la valutazione del giudice dal campo della discrezionalità a quello dell’arbitrio. Poiché il danno biologico attiene al duplice profilo della menomazione funzionale (statico) e delle conseguenti ripercussioni sull’integrità psicofisica in sé e per sé considerata, ed a quello dinamico riguardante le abitudini di vita, le attività extralavorative sociali e familiari, è evidente che per la corretta valutazione dell’esistenza ed intensità dell’aspetto statico del danno biologico, si rende necessario l’apporto del medico legale, mentre nella determinazione dell’incidenza della menomazione sulla vita quotidiana del danneggiato, è indispensabile la prova in ordine a ciò che era la vita del danneggiato prima del fatto illecito, così da poter determinare la perdita eventuale di attività, rapporti sociali, attitudine al lavoro in generale, chances lavorative etc., dopo il fatto stesso. La Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 184 del 1986 ha affermato la necessità di un criterio uniforme di determinazione del danno al fine di limitare ingiuste sperequazioni. A ciò, però, si deve accompagnare un’elasticità di giudizio da parte del giudice che deve adeguare la liquidazione al caso concreto, in relazione al grado di incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana nelle quali si manifesta l’efficienza psicofisica del soggetto. Il problema dell’uniformità dei parametri di valutazione del danno attiene, pertanto, a due diversi profili: quello della corretta valutazione medico - legale che il consulente dovrà fornire sulla base di apposite tabelle, nelle quali a ciascuna menomazione corrisponde una specifica percentuale invalidante e quello dei criteri da adottare per monetizzare equitativamente ogni valutazione medico - legale fornita dal consulente. Le c.d. tabelle o barèmes medico - legali sono i mezzi attraverso i quali la medicina legale realizza una tendenziale uniformità nella valutazione delle medesime menomazioni, rappresentando parametri oggettivi elaborati sulla base del confronto di numerose esperienze e di un’ampia casistica pratica. Nelle tabelle mediche l’integrità psicofisica di ogni soggetto viene individuata con una percentuale di efficienza pari al 100%, mentre la lesione fisica subita determinerà una diminuzione dell'efficienza psicofisica espressa in termini percentuali di riduzione di quella originaria. La valutazione medica è agevolata dall’elencazione di menomazioni che interessano i diversi apparati, ai quali corrispondono percentuali minime e massime da adattare al caso concreto, soprattutto se il fatto illecito abbia determinato più menomazioni o menomazioni non indicate nelle tabelle, così da ottenere un giudizio medico della riduzione dell'efficienza psicofisica del soggetto complessivamente considerato. La prima tabella redatta in Italia si deve al Cazzaniga, nel 1928, con riferimento all'incidenza delle menomazioni sulla “generica capacità lavorativa”. Anche le tabelle successive e più recenti hanno fatto sempre riferimento, nella valutazione dei postumi permanenti, al concetto di capacità lavorativa generica, sino alla fine degli anni Ottanta (così, ad esempio, le tabelle “Luvoni – Bernardi – Mangili del 1970, Baltieri del 1982 e Mainenti del 1985). L’introduzione ad opera della giurisprudenza della nozione di danno biologico ha comportato inevitabilmente una parziale modifica delle tabelle. Spostando, infatti, il momento valutativo dall’aspetto patrimoniale a quello squisitamente soggettivo dell'incidenza della menomazione sull’efficienza personale, riferita alle attività quotidiane diverse dalla capacità lavorativa specifica e dalle altre attività connesse alla capacità di guadagno, le tabelle così come erano state fino ad allora strutturate, risultavano inadeguate.

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L’assenza di una tabella medica unica e di riferimento, comporta che menomazioni identiche possono essere considerate differentemente a seconda dei diversi consulenti medico - legali incaricati di determinare il danno effettivamente subito dall’infortunato. Queste riflessioni inducono a ritenere che tali strumenti - certamente di grande utilità - debbano essere adoperati con prudenza, utilizzati più come guide che come tariffari, spettando comunque al consulente la valutazione definitiva sulla base della peculiarità del caso concreto. E’ evidente, infatti, che la stessa menomazione risulterà più o meno lesiva in considerazione dell’età, del sesso, delle condizioni psicofisiche preesistenti, delle condizioni ambientali e delle abitudini di vita del periziando. Profili questi ultimi che saranno valutati dal giudice, e prima ancora dal consulente, soltanto se l’attore riuscirà a dimostrare quali erano le precedenti condizioni di vita che in conseguenza del fatto illecito risultano gravemente limitate (ad esempio, sarà irrilevante accertare in sede medico - legale che l’evento lesivo ha limitato le attività sportive e di svago se, in corso di causa, non si provvederà a dimostrare che l’attore giocava abitualmente a tennis, amava il cinema o frequentava un corso universitario). I METODI DI LIQUIDAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO La Corte costituzionale, nella sentenza n. 184 del 1986, ha individuato i principi guida per la liquidazione del danno biologico ispirati al raggiungimento di posizioni di equità senza trascurare, al tempo stesso, la specificità del danneggiato. Sulla base di tali indicazioni, la giurisprudenza di merito, in linea con quella costituzionale, ha elaborato un sistema tabellare finalizzato a garantire, da un lato, l’uniformità di base nella valutazione e, dall’altro, la possibilità di personalizzare il risarcimento, consentendo al giudice di adeguare il criterio astratto al caso concreto. Ciò ha determinato, però, una proliferazione sia di criteri di liquidazione sia, all’interno di questi, di vere e proprie tabelle alle quali ciascun organo giudicante ha ritenuto di fare riferimento. Da ciò ne è scaturita, come meglio si vedrà in seguito, una disparità di trattamento in situazioni analoghe, che ha finito per negare quel criterio di “uniformità pecuniaria di base” auspicato dalla Consulta. La prassi giudiziaria vedeva una coesistenza di quattro tipologie di liquidazione del danno biologico. Un primo criterio è quello della "liquidazione puramente equitativa" che lascia al giudice il potere di determinare, in modo assolutamente discrezionale, l'ammontare del danno subito ai sensi dell'art. 1226 del c.c.; il metodo ha trovato il conforto di numerose pronunzie di merito soprattutto negli anni Ottanta e primi anni Novanta . Nonostante l'orientamento della Corte di Cassazione non abbia mai avallato il criterio della equità pura, tale parametro di liquidazione era utilizzato da circa il 15% dei Giudici di merito . Il metodo della liquidazione equitativa pura lascia campo aperto a comportamenti arbitrari del giudice ed a ingiustificate disparità di trattamento tra casi analoghi, rappresentando, certamente, la prassi che meno tutela i criteri di necessaria uniformità di base menzionati dalla Consulta. La liquidazione del danno secondo il metodo del triplo della pensione sociale costituisce il c.d. “modello genovese” inaugurato dal Tribunale di Genova sulla base di un parametro fisso indicato dall'art. 4 del D.L. 23 dicembre 1976, n. 857, convertito nella legge 26 febbraio 1977, n. 39. Questo sistema liquidativo ha recentemente incontrato un sempre minor consenso da parte dei Giudici di merito passando dal 1992 al 1997 da una quota del 40% circa ad una pari al 13%, sino a giungere al suo definitivo superamento da parte dello stesso Tribunale che ne aveva determinato la creazione . Il Tribunale di Genova, sin dal 1974, ha definito il danno biologico come pregiudizio subito da qualsiasi soggetto e sempre risarcibile nel caso di condotta illecita indipendentemente dalla capacità lavorativa del soggetto leso. Poiché la liquidazione del danno non varia in considerazione del soggetto leso, ma solo in funzione del periodo di tempo durante il quale la menomazione dovrà essere sopportata da questi, e quindi sulla base dell'età e del sesso del soggetto, appare corretto fare

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riferimento ai criteri individuati dal legislatore con la legge n. 39 del 1977. L’attuale normativa prevede parametri diversi da quello patrimoniale lì dove indica il triplo della pensione sociale quale valore minimo risarcibile. Il danno biologico era così liquidato sulla base del parametro costituito dall'ammontare annuo del triplo della pensione sociale, come previsto dall'art. 4, comma 3, della legge n. 39 del 1977, comprensivo dell'indennità integrativa speciale e capitalizzato sulla base di criteri attuariali. In concreto, i giudici genovesi avevano creato la seguente formula: TPS x C x Y % Dove TPS è il triplo della pensione sociale, C è il coefficiente di capitalizzazione relativo all'età ed al sesso del soggetto leso e Y % è il grado percentuale dei postumi permanenti come indicati dal consulente medico d'ufficio. Per determinare la capitalizzazione del risarcimento si fa riferimento alla tabella contenuta nel R.D. del 9 ottobre 1922, n. 1403, che fissa per ogni anno di età del danneggiato un coefficiente di capitalizzazione della rendita che la normativa dell'epoca prevedeva a fini previdenziali. Va precisato che il coefficiente di capitalizzazione veniva determinato sulla base dei parametri di sopravvivenza utilizzati per l'emanazione di quel R.D. ed in particolare i censimenti del 1910 e del 1911 e le statistiche mortuarie dei tre anni successivi al 1910. E' evidente, pertanto, che i criteri del R.D. n. 1403 si riferiscono ad una vita media ben inferiore rispetto a quella attuale. La liquidazione del danno biologico è operata sulla base della tabella dell'anno in cui si è verificato il sinistro e la somma è così rivalutata sulla base degli indici ISTAT per il periodo intercorrente tra la data del fatto e quella della decisione, con l'applicazione degli interessi nella misura legale calcolati sugli importi risultanti dalla rivalutazione annuale della somma dovuta dalla data del fatto a quella del pagamento - come previsto dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 1712 del 17 febbraio 1995. In concreto, immaginando le lesioni subite da un soggetto di 45 anni a seguito di un incidente stradale verificatosi nel 2006 al quale il consulente d'ufficio abbia riconosciuto una percentuale invalidante pari al 30%, occorre moltiplicare per tre l'importo della pensione sociale del 2006.Sulla base della tabella contenuta nel R.D. n. 1403 si individua il coefficiente di capitalizzazione della rendita relativo ad un soggetto di 45 anni di sesso maschile. Moltiplicando l'importo pari al triplo della pensione sociale per il coefficiente di capitalizzazione e per la percentuale di invalidità si perviene, ad esempio, all'importo di lire 50.000 che dovrà essere rivalutato dalla data del sinistro (ad esempio gennaio 2006) fino alla data della decisione, con applicazione degli interessi sulla somma, via via, rivalutata. Il meccanismo inaugurato dai Giudici di Genova ha trovato larga applicazione presso la magistratura di merito, sebbene di volta in volta i diversi Tribunali abbiano apportato delle varianti al sistema base, ritenendolo eccessivamente rigido. In effetti, è stato evidenziato che tale sistema è eccessivo per il risarcimento delle lesioni micropermanenti. Lo stesso criterio veniva, poi, utilizzato per individuare l'importo da corrispondere a titolo di invalidità temporanea che equivale al triplo della pensione sociale diviso il numero dei giorni (365) e moltiplicato per il numero dei giorni di invalidità temporanea attribuiti in concreto dal C.T.U. L’eccessiva rigidità del meccanismo ideato dalla Corte di Genova, che esclude la valutazione di profili diversi dall'età e dal sesso del danneggiato, ha determinato un progressivo allontanamento, sin dai primi anni Novanta, da parte dei giudici di merito che, anzi, contestando il richiamo dell'art. 4 della legge n. 39 del1977, lo hanno ritenuto riferibile alla determinazione del solo danno da lucro cessante. Da ultimo, lo stesso Tribunale di Genova, con la sentenza del 28 settembre 1998, n. 2270 - preso atto della mancanza, in tale criterio, della elasticità e flessibilità che permettono di adeguare la liquidazione del danno alla effettiva incidenza sulla menomazione della qualità della vita - hanno ritenuto inadeguato anche il metodo della liquidazione equitativa pura, scegliendo come preferibile il criterio della "liquidazione a punto di invalidità".

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In motivazione si legge che tale criterio “la cui applicabilità non è mai stata messa in discussione dalla Corte di Cassazione, risulta tenere adeguatamente conto di entrambe le esigenze: di quella di uniformità, perché il valore del punto a parità di invalidità è tendenzialmente uguale; di quella di elasticità perché non solo fa salvi gli eventuali correttivi del caso concreto (si pensi al caso dell'incidenza della perdita di un dito sulla qualità della vita rispettivamente di un comune cittadino e di un appassionato, ma dilettante, pianista), ma perché - contrariamente al metodo che fa ricorso al triplo della pensione sociale - attribuisce un diverso valore ai singoli punti di invalidità. Mentre il metodo genovese attribuisce ad ogni punto di invalidità da 1 a 100 un pari valore, quello del punto tabellare attribuisce un valore progressivamente crescente ai singoli punti di invalidità”. Il meccanismo di liquidazione del c.d. punto tabellare è stato elaborato dal Tribunale di Milano nel 1995 e poi aggiornato con le opportune varianti l'anno successivo, via via, sino ad aprile 2011. Nella tabella il valore monetario del punto percentuale di invalidità viene fatto variare in relazione all'età del danneggiato e alla gravità della menomazione. Il principio base è quello secondo il quale il valore da attribuirsi ad ogni punto di invalidità per lesioni più lievi deve essere inferiore a quello da assegnarsi quando la percentuale di invalidità è più elevata. In tal modo, da una parte, la percentuale di invalidità fa aumentare il valore monetario del singolo punto di invalidità in relazione alla gravità della menomazione, dall'altra, l'età della vittima fa diminuire proporzionalmente il complessivo importo risarcibile (in maniera più che proporzionale crescente in funzione dell’aumento della menomazione e in maniera decrescente fissa, in funzione dell’aumentare dell’età). Così, ad esempio, utilizzando le tabelle del Tribunale di Milano del 1997, una percentuale invalidante pari al 10% che interessa un ragazzo di 20 anni determina un risarcimento di lire 27.150.000 alla data del 1° gennaio '97, importo al quale si perviene moltiplicando il valore del punto percentuale per il demoltiplicatore riferito all'età (0,905 corrispondente all'età di 20 anni) per la percentuale invalidante (10%). Il nuovo metodo di liquidazione ha trovato immediati consensi presso buona parte dei Tribunali d'Italia i quali hanno creato delle proprie tabelle di liquidazione basate su coefficienti differenti, ma utilizzando i medesimi principi. Anche presso altri Tribunali, per superare il rischio di cristallizzazione delle modalità di liquidazione, è stato ribadito che i criteri tabellari rappresentano solo parametri generali di riferimento elaborati sulla base di situazioni prive di elementi peculiari, fermo restando il potere-dovere del giudice di procedere ad una liquidazione libera in considerazione di tutte le condizioni e le particolarità del caso concreto. E' evidente che se la proliferazione delle tabelle ha costituito lo sforzo di rendere omogenea, nell'ambito dei diversi circondari, la liquidazione del danno biologico, contemporaneamente ha reso meno uniforme, a livello nazionale, il risarcimento del danno alla persona. Così, la rilevante disparità nelle liquidazioni del danno alla salute ha indotto, talvolta, i difensori dei danneggiati a scegliere tra più fori facoltativi, laddove sia possibile, quello che, in relazione alla specifica lesione subita, sia in grado di garantire un maggiore risarcimento. Anche il sistema di liquidazione denominato “metodo pisano” prescindeva completamente da parametri di liquidazione del danno patrimoniale e si contrappone a quello elaborato dalla scuola genovese, basandosi esclusivamente sul "valore punto". Muovendo dalla nozione di danno alla salute (inteso sia sotto il profilo statico che dinamico: il primo quale diminuzione del bene primario all'integrità psicofisica e il secondo quale compromissione della salute nelle espressioni quotidiane inerenti tanto l'attività lavorativa che quella extralavorativa), i giudici di Pisa hanno mirato alla uniformità del risarcimento (lo stesso tipo di lesione deve essere liquidato in maniera eguale) ed alla flessibilità della liquidazione da adeguarsi al caso concreto, in ragione delle attività della vita quotidiana attraverso le quali si manifesta l'efficienza psicofisica del soggetto danneggiato .

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L'indagine dei giudici di Pisa ha avuto ad oggetto i precedenti giurisprudenziali delle liquidazioni delle micro-invalidità (invalidità inferiori al 10%), di casi nei quali il danno aveva incidenza solo sul danno alla salute senza conseguenze di natura patrimoniale. Si ottenne, pertanto, l'importo medio in denaro che veniva assegnato per ciascun punto di invalidità accertata che corrispondeva, per l'anno 1997, ad una somma compresa tra lire 1.000.000 e lire 1.500.000. Detto importo, comunque suscettibile di un aumento predeterminato nella misura del 50% per i casi più gravi, veniva moltiplicato per la percentuale invalidante concretamente riscontrata dal consulente medico. Il danno biologico da invalidità temporanea veniva liquidato unitamente a quello permanente, oppure individuando in via equitativa una somma per ogni giorno di invalidità temporanea. Il modello pisano, inaugurato nel 1979, ha avuto come quello genovese una notevole diffusione anche presso altri Tribunali, rappresentando in quegli anni Ottanta l'alternativa ai parametri del Tribunale di Genova . Nel 1995 l'impostazione dei Giudici di Pisa è stata avallata anche dalla Corte di Cassazione la quale ha osservato che "con il criterio equitativo differenziato del valore del punto, l'entità del danno alla salute è determinata sulla base del valore medio del punto di invalidità calcolato sulla media dei precedenti giudiziari concernenti invalidità inferiori al 10% (micro-invalidità) che - proprio in ragione della loro modesta entità - lasciano ragionevolmente presumere la non incidenza sulla capacità di produrre reddito e, quindi, l'inerenza all'ambito tipico del danno alla salute. Siffatto valore medio è, peraltro, considerato suscettibile di aumento sino al 50% in modo da consentire al giudice di rapportare la liquidazione alle accertate peculiarità della fattispecie concreta. Il valore così ottenuto si moltiplica poi per il grado di invalidità accertato in concreto". In concreto, la liquidazione del danno si ottiene moltiplicando il grado percentuale di invalidità permanente accertata, per un importo fisso predeterminato sulla base della formula che segue: VP x Y% dove VP è il valore monetario del punto attribuito dal giudice e Y% è il grado percentuale dei postumi permanenti individuato dal C.T.U. Nonostante l'autorevole intervento della Corte di Cassazione, la giurisprudenza di merito ha continuato a fare ricorso a criteri alternativi in considerazione del fatto che anche questo sistema liquidativo non sfugge al rischio di decisioni arbitrarie da parte del giudice che è chiamato a determinare il valore del punto senza, poi, tenere in conto altri parametri, certamente non meno importanti, quali l'età, il sesso, la gravità della lesione e l'intensità della sofferenza del danneggiato. I limiti propri di questo sistema liquidativo hanno portato, nella seconda metà degli anni Novanta, la giurisprudenza di merito ad accogliere con sempre maggiore favore il sistema del punto variabile, o punto tabellare, inaugurato dal Tribunale di Milano nel 1995 che, pur utilizzando i medesimi principi posti al base del metodo pisano li completano inserendo variabili relative all'età e alla gravità della menomazione, così da adeguare il risarcimento alla fattispecie concreta. Ma, come si è visto, anche il sistema del punto tabellare presenta l'inconveniente di una frammentazione presso i diversi Tribunali d'Italia dei parametri liquidativi dovuti ad una vera e propria proliferazione di tabelle locali. LA PERSONALIZZAZIONE DEL DANNO L'obiettivo di una tendenziale uniformità di liquidazione del danno incontra nella prassi giudiziaria una serie di ostacoli che vanno dalla frammentazione dei metodi di monetizzazione della percentuale invalidante individuata dal medico legale - con le problematiche sopra evidenziate - alla difficoltà per gli stessi C.T.U. di utilizzare tabelle mediche omogenee, per giungere ai problemi propri del meccanismo di adeguamento al caso concreto che impone al giudice di valutare le effettive potenzialità e capacità del danneggiato. Sotto tale profilo, infatti, la sola valutazione

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espressa in termini percentuali dal C.T.U. è insufficiente, poiché si ha riguardo alla personalità dell'uomo medio e si considerano solo quelle attività proprie di tutti gli individui (le attività motorie elementari, la cura del corpo, la lettura, le necessità alimentari, etc.). Al contrario, esiste tutta una serie di attività che differenziano un soggetto dall'altro e che assumono un valore specifico per la vita del danneggiato (ad esempio, lo svolgimento di intensa attività sportiva, di attività di studio, ricerca, il fatto di coltivare particolari interessi, svolgere attività politica e sociale). Il giudice, quindi, per ben operare, dovrà necessariamente personalizzare il risarcimento per la necessità, costantemente ribadita dal giudice di legittimità e dalla Consulta, di adeguare la liquidazione alle specifiche circostanze del caso. Tale valutazione non dovrà essere limitata al profilo della gravità delle lesioni, della durata della malattia, dell'età, ma dovrà comportare una ponderazione delle attività espletate, delle condizioni sociali, di quelle familiari e di tutto ciò che riguarda la vita sociale e di relazione in genere, precedente all'infortunio. Lo sforzo della giurisprudenza di merito di rendere uniforme e prevedibile la liquidazione del danno ha anche una importante finalità conciliativa. L’obiettivo può dirsi raggiunto, soprattutto, in materia di infortunistica stradale in cui le tabelle locali hanno contribuito in maniera rilevante alla definizione anche stragiudiziale delle liti. Laddove è stata adìta la via giudiziale, analogamente, la lite è stata transatta, facendo ricorso allo strumento delle tabelle proprio perché queste permettono, da una parte, al danneggiato, di conoscere almeno l'importo minino della propria pretesa e, dall’altra, alle imprese di assicurazione, di formulare previsioni di spesa limitando i costi sociali rappresentati dai premi assicurativi. Risultati analoghi o ancora migliori riguardano i giudizi relativi a sinistri mortali nei quali i parametri di determinazione del danno morale da liquidare agli eredi costituiscono un punto di riferimento importante per le parti e per il giudice. La frammentazione tabellare ha suggerito più di uno studio comparativo delle determinazioni del danno biologico da parte dei vari Tribunali per la rilevante disparità tra gli importi liquidati (in un lavoro menzionato anche nella motivazione della sentenza n. 2270 del 1998 del Tribunale di Genova si evidenziava che per un uomo dell'età di 40 anni l'invalidità permanente dava luogo, nel 1996, a liquidazioni del danno biologico notevolmente differenti) . La differenziazione dei risultati deriva non solo dall'utilizzo da parte del giudice di merito di differenti metodologie di liquidazione, ma anche nel caso in cui siano i consulenti medici legali del medesimo Tribunale ad utilizzare differenti valori di riferimento, oppure laddove sia lo stesso giudice a qualificare giuridicamente la nozione di danno biologico con le sue varie componenti in maniera diversa. Sotto il primo profilo, infatti, elemento fondamentale di liquidazione del danno è l’indicazione in termini percentuali della lesione fisica e conseguente compromissione dell'integrità psicofisica del danneggiato. Tale operazione va correttamente affidata ad un esperto medico legale il quale potrà fare riferimento ad una delle tabelle mediche o baremès, eseguendo a sua volta gli opportuni adattamenti per il caso concreto. Poiché talvolta le tabelle mediche stimano diversamente medesime malformazioni, è necessario che nell'elaborato peritale il professionista faccia menzione della tabella utilizzata, precisando se i valori indicati siano stati applicati in maniera rigida o sottoposti a correttivi. Il giudice, pertanto, potrà usufruire di maggiori elementi di valutazione nell’attribuire a quei valori percentuali i corrispondenti importi monetari. Alcune precisazioni: la capacità lavorativa generica ed il danno estetico Sotto un secondo profilo, l'omogeneità della liquidazione non può prescindere da una unitarietà della nozione di danno biologico. Va preliminarmente chiarito in che ambito collocare il concetto di incapacità lavorativa generica ed il conseguente criterio di liquidazione. Poi, occorrerà individuare i parametri oggettivi per la monetizzazione di quelle voci di danno che consentono una maggiore discrezionalità del giudice, come il danno estetico, quello alla vita di relazione ed alla vita sessuale.

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La medicina legale definisce lesione alla capacità lavorativa generica quella menomazione alla capacità produttiva che si manifesta nei riflessi della lesione sullo svolgimento di un qualsiasi lavoro economicamente remunerativo. Anche secondo la dottrina, il concetto coincideva con quello di attitudine al lavoro definito dall'art. 74 del vecchio D.P.R. n. 1124 del 1965 (TU Infortuni sul lavoro). Come si è visto, non vi è ancora uniformità di vedute sulla capacità lavorativa generica, in quanto i giudici di merito fanno rientrare tale concetto talvolta nel danno patrimoniale, richiedendo la prova della contrazione del reddito, altre volte in quello biologico, ritenendola risarcibile quando la percentuale invalidante superi una certa misura. Come è noto, la nozione di lesione della capacità lavorativa generica è stata ideata dalla giurisprudenza al fine di ampliare l'area del danno risarcibile in assenza del concetto di danno biologico che rilevasse al di fuori della compromissione del reddito. Agganciando tale concetto al disposto dell'art. 74 l'attitudine al lavoro consiste nella possibilità di esercitare una qualsiasi attività lavorativa suscettibile di utilità economica, indipendentemente dagli effetti che la menomazione determina sulla capacità lavorativa specifica. In sostanza, si tratta di un danno che interessa l'integrità psicofisica del soggetto limitandone la capacità di svolgere in futuro un qualsiasi lavoro, indipendentemente dal fatto che al momento in cui si è verificato il danno il soggetto svolga o meno un'attività. E' evidente che rispetto a tale nozione, quella di danno biologico risulta più ampia in quanto la lesione all'integrità psicofisica che si traduce nella limitazione dello svolgimento in futuro di ogni attività lavorativa o non lavorativa comprende il concetto di incapacità lavorativa generica. Tali concetti sono stati riconosciuti anche dalla Cassazione la quale ha ribadito che “la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine del soggetto all'attività lavorativa, indipendentemente dalla produzione di un reddito, è risarcibile quale danno biologico”. Con riferimento alle voci che definiscono il concetto onnicomprensivo di danno biologico, mentre non vi sono dubbi sul loro inquadramento, è opportuno evidenziare le problematiche relative al metodo da adottare per la loro concreta liquidazione. Così, ad esempio, il danno estetico, per lo più, sfugge ad una determinazione da parte del medico legale trattandosi di lesioni generalmente ben visibili e che possono essere apprezzate ictu oculi, dal giudicante. In tal caso, se oltre al danno estetico, come generalmente avviene, l'attore abbia subito anche altre menomazioni determinate in termini percentuali dal C.T.U., occorre fare attenzione al metodo di liquidazione utilizzato. Ad esempio, se il giudice fa propria la indicazione del medico legale che stima nel 10% i postumi permanenti relativi al danno biologico in senso stretto e determina, a parte, nella misura del 3% il danno estetico, con liquidazione autonoma ed equitativa, applicando i valori tabellari (ad esempio quelli del Tribunale di Lecce) si perviene a risultati diversi a secondo che si consideri complessivamente una invalidità del 13% oppure separatamente una invalidità del 10% ed una del 3% operando, poi, la somma degli importi corrispondenti a tali postumi invalidanti. La differenza tra i due risultati dipende dal fatto che il valore del punto tabellare aumenta in modo più che proporzionale con il progredire della invalidità permanente. Così, nell'esempio fatto, mentre il valore in denaro della percentuale invalidante del 10% è eguale in entrambi i casi, la liquidazione del danno estetico (3%) è ben diversa se la percentuale invalidante si considera autonomamente o se va sommata a quella già riscontrata dal C.T.U. Ed è proprio tale ultima operazione quella corretta che impone al giudice di considerare complessivamente il danno biologico sommando “la percentuale per i postumi permanenti per il danno funzionale a quella per il danno estetico”. LE MICROPERMANENTI

dott. Gabriele Positano – Giudice del Tribunale di Lecce

Per micropermanenti si intendevano generalmente quelle menomazioni che, per la loro modestia, non influiscono sulla capacità lavorativa del danneggiato né tanto meno sui suoi guadagni. Si tratta di una nozione ormai accolta dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti e che interessa il profilo qualitativo delle lesioni, mentre, dal punto di vista quantitativo, vi è stata minore concordia sul punto. Infatti, secondo l’opinione prevalente in giurisprudenza, le micropermanenti erano individuate in quelle modeste invalidità valutate, in sede medico legale, con una incidenza non superiore al 10%. Il limite del 10% trovava una sua giustificazione normativa nella disciplina della rendita vitalizia corrisposta dall’INAIL al lavoratore per le lesioni superiori al 10%. L’art. 74 del D.P.R. n. 1124 del 1965 stabiliva che al di sotto dell’11% la lesione rientrava nella franchigia. Sotto il profilo medico legale, la distinzione si fondava sul fatto che tali lesioni lievi non incidevano in modo permanente sulla capacità lavorativa generica tutelata dal D.P.R. del 1965. Facendo riferimento alla nozione classica di micropermanenti, rientrano in tale ambito tutta una serie di patologie non secondarie (ad esempio, le tabelle medico-legali prevedono una invalidità dell’8% per la perdita del dito mignolo o di quello medio, del 10% per la perdita della milza o del 5% per la perdita dell’olfatto o del gusto) tra le quali hanno acquisito di gran lunga maggiore importanza quelle da “distorsione del rachide cervicale” conseguente al c.d. “colpo di frusta”. Se consideriamo che le controversie di infortunistica stradale costituiscono circa il 40% delle cause civili e che all’interno di queste i danni da "colpo di frusta" rappresentano circa il 45-50% delle lesioni riscontrate, si comprende l’importanza delle problematiche connesse a tali patologie . L’altra caratteristica rilevante delle lesioni da "colpo di frusta" è che si tratta, generalmente, di sintomatologie meramente soggettive, difficilmente verificabili sulla base degli accertamenti medici disposti prima dall’assicuratore e poi dal giudice. Nelle aule dei Tribunali (e soprattutto in quelle dei Giudici di Pace, ormai competenti per “materia” per gli incidenti di minore gravità) la posizione dell’attore è quella di chi si duole della distorsione del rachide cervicale affermando la riconducibilità del danno al sinistro stradale, lamentando, però, sintomi meramente soggettivi. Al convenuto non resta che contestare l’esistenza del nesso eziologico sostenendo la incompatibilità causale tra le modalità del sinistro indicate in citazione e l’entità delle lesioni subite. Poiché il "colpo di frusta", secondo la medicina legale, è il movimento rapido e violento della colonna vertebrale generalmente provocato da un tamponamento ed idoneo a compromettere la funzionalità del rachide cervicale, l’indagine del giudice, e prima di questi del C.T.U., si deve fondare, oltre che sulle dichiarazioni del danneggiato, anche sulla base di esami oggettivi e documentazione medica così da collocare temporalmente la lesione in un momento immediatamente successivo al sinistro, attestandone eventualmente la continuazione della patologia anche per i giorni successivi (come potrebbe desumersi, ad esempio, dalle prescrizioni mediche relative a trattamenti farmacologici). Nell’ipotesi di presunta lesione conseguente al "colpo di frusta", infatti, si verifica nella pratica il maggior numerosi di ipotesi di simulazione del danno. Con ciò si fa riferimento a tutti quei casi in cui la malattia, la menomazione o il disturbo non esistono, ma il simulatore ne allega falsamente la esistenza oppure esistono, ma il danneggiato ne fa apparire più rilevanti o duraturi nel tempo gli effetti. Il problema può essere affrontato da un punto di vista medico trattandosi di problemi di semeiotica medica, relativi, cioè, a quella disciplina che individua ed interpreta i segni delle malattie. Generalmente la sintomatologia soggettiva che caratterizza il "colpo di frusta" riguarda la semeiotica fisica, poiché oltre ai sintomi della malattia, e cioè le anormalità rilevabili oggettivamente dal medico, rilevano i sintomi veri e propri, e quindi i disturbi lamentati dal danneggiato. I segni della malattia impongono l’esame obiettivo del paziente, mentre i sintomi

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vengono rilevati in sede di anamnesi. Da ciò discende che la relazione peritale deve essere completa nella rilevazione e descrizione sia dei sintomi che dei segni oggettivamente rilevabili. Infatti, oltre al giudice, anche il C.T.U. non può attenersi semplicemente ai sintomi dichiarati dal danneggiato, ma deve fare riferimento a tutte quelle metodiche che prescindono dalla collaborazione del periziando, come ad esempio la c.d. diagnostica per immagini o il supporto documentale relativo alla persistenza della patologia dopo il primo certificato (solitamente rilasciato dal Pronto Soccorso ospedaliero) e le cure cui si è sottoposto il danneggiato. In particolare, il consulente dovrà precisare se determinati disturbi riferiti dal danneggiato hanno trovato riscontro nelle verifiche strumentali o, in caso negativo, dovrà illustrare le ragioni medico-legali per le quali ritiene, comunque, riconducibile al sinistro la patologia eventualmente lamentata. Così, nel caso assai ricorrente di sintomi soggettivi non obiettivabili strumentalmente, il C.T.U. dovrà porre in essere tutte quelle metodiche che consentono all’esaminatore di discernere tra la simulazione e la verità oggettiva (osservazione del paziente al di fuori dell’esame obiettivo, manovre articolari specifiche in caso di dolori lamentati alle articolazioni, eventualmente controlli ripetuti e verifiche a sorpresa da effettuare – comunque – nel contraddittorio tecnico). Nel caso in cui i disturbi riferiti dal danneggiato non abbiano trovato alcun riscontro oggettivo il giudice potrà rigettare la richiesta di danni . In altri casi, i giudici di merito hanno ritenuto non necessaria la sussistenza della prova certa del rapporto causale accontentandosi di un giudizio di “probabilità” sulla base del principio dell’id quod plerumque accidit . Analoghi sono i problemi nel caso di danno neurologico da trauma cranico encefalico che, generalmente, viene lamentato anche quando sia conseguenza di una lesione lievissima o apparentemente insignificante. In questo caso, si ripete, la difficoltà risiede nella valutazione degli effetti reali della lesione rispetto a quelli simulati: il danneggiato lamenta, infatti, una serie di sintomi (insonnia, cefalea, vertigini, scarsa concentrazione ecc.) meramente soggettivi che sfuggono ad ogni indagine strumentale. L’unico punto di riferimento è la documentazione medica relativa al periodo immediatamente successivo al trauma ed alle settimane che hanno seguito l’incidente per l’accertamento dell’effettiva entità del danno. Esaminando il problema dal punto di vista della liquidazione del danno è interessante verificare se, nella prassi giudiziaria, esista una tendenziale omogeneità di valutazione dell’incidenza delle lesioni conseguenti al c.d. "colpo di frusta". Uno studio interessante, condotto su un campione di 122 decisioni di merito, ha preso in esame le diverse valutazioni percentuali espresse dai consulenti medici di ufficio e le conseguenti liquidazioni adottate dai Tribunali in ipotesi di lesioni cervicali singole . E’ stata riscontrata una distribuzione delle valutazioni percentuali espresse dai CTU relativamente ampia, passando da giudizi di sostanziale irrilevanza delle lesioni (in decisioni isolate l’esistenza di una lesione permanente è stata esclusa dal medico legale) a valutazioni decisamente più significative (sino all’8% di I.P.). Limitando l’indagine alle decisioni numericamente più rilevanti, emerge che nella maggior parte dei casi (96 su 122) il danno è stato stimato in una misura oscillante tra il 2% ed il 5% e che la media assoluta delle valutazioni si assesta intorno al 4%. Ciò significa che l’attore che lamenti e dimostri di avere subito una lesione cervicale (isolata) da "colpo di frusta" ha, sostanzialmente, una buona possibilità di vedersi riconoscere dal CTU una invalidità permanente (I.P.) pari al 4%. La frantumazione dei parametri di liquidazione del danno biologico, determinata dalla proliferazione delle tabelle in uso presso i diversi Tribunali, comporta - anche in questa materia - una ulteriore sperequazione nella concreta liquidazione del danno da parte del giudice, che si aggiunge a quella conseguente alla già rilevata oscillazione delle valutazioni espresse dai CTU. Così, anche a parità di percentuali di invalidità (accertate dal CTU), le decisioni di merito evidenziano un sensibile divario liquidativo per menomazioni verosimilmente assimilabili.

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Ciò è, in parte, assolutamente legittimo se si considera la necessaria incidenza che alcuni fattori devono avere sul meccanismo di liquidazione del danno (l’età, il sesso, la struttura morfologica del danneggiato), ma non giustifica del tutto la rilevante sperequazione esistente tra i diversi Tribunali (o, più spesso, tra i diversi Uffici del Giudice di Pace, generalmente competenti per valore nel caso di lesioni da colpo di frusta). L’INTERVENTO DEL LEGISLATORE Omettendo ogni ulteriore riferimento alla travagliata storia della attività normativa tesa a disciplinare il danno alla persona, deve essere certamente richiamato il contenuto degli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni private che, dopo aver fornito la definizione di danno biologico separano il concetto di pregiudizio di lieve entità, da quello di non lieve entità. Ai sensi della prima disposizione il danno biologico consiste nella lesione temporanea e permanente alla integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale che esplica una incidenza negativa sull'attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita delle danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito. Il danno biologico è di lieve entità nell'ipotesi di menomazione permanente inferiore a 10 punti percentuali poiché si presume che una siffatta lesione non incida sulla capacità lavorativa del soggetto. La linea di demarcazione tra le 2 tipologie di danno consente anche di individuare i differenti parametri di liquidazione. Infatti, la tabella unica per le micro permanenti è già operativa da anni (dal DM 3.7.2003), mentre quella relativa al danno biologico o di non lieve entità non è stata ancora emanata, sicché continuano ad applicarsi le tabelle in uso presso i tribunali. Il Codice delle Assicurazioni prevede in maniera esplicita la personalizzazione del danno biologico, poiché l'articolo 138 prevede che nel caso in cui la menomazione accertata incide in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico relazionali personali, l'ammontare del danno determinato sulla base della tabella unica nazionale può essere aumentato dal giudice sino al 30%, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. La possibilità di modificare fino al 30% l'importo riguarda le menomazioni non lievi. L'articolo 139, invece, consente di aumentare l'ammontare del danno biologico liquidato ai sensi del primo comma in misura non superiore ad un quinto, quindi nella misura del 20%, con il medesimo apprezzamento e poi motivato sulla base delle condizioni soggettive del danneggiato. In questi casi l'onere probatorio di allegazione del pregiudizio ulteriore è a carico dell'attore dovrà dimostrare elementi di fatto idonei a indurre il giudice ad appesantire il punto di invalidità. L'articolo 137 fornisce indicazioni con riferimento al danno patrimoniale e alla determinazione del reddito del danneggiato ai fini delle risarcimento dei danni. Pertanto, nell'ipotesi di danno alla persona che incida sul reddito di lavoro, è previsto che tale reddito si determina, per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro, maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni delle ritenute di legge, che risulta il più elevato tra quelli degli ultimi tre anni. Per il lavoro autonomo, sulla base della reddito netto che risulta il più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche negli ultimi tre anni oppure, nei casi previsti dalla legge, da una apposita certificazione rilasciata dal datore di lavoro ai sensi delle norme di legge. E comunque ammessa la prova contraria, ma quando dalla stessa emerga che il reddito è superiore di oltre un quinto rispetto a quello risultante dagli atti indicati al primo comma, il giudice deve segnalare la circostanza all'ufficio dell’Agenzia delle Entrate. In ogni caso diverso da quelli precedenti il reddito di riferimento non può essere inferiore al triplo della pensione sociale. La norma stabilisce soltanto i criteri di determinazione della reddito ma non anche un automatismo risarcitorio per cui è sempre necessario che l'attore fornisca la dimostrazione del pregiudizio subito

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consistente nella perdita di reddito oppure la perdita di capacità di produrre reddito. Infatti, il danno patrimoniale consiste nella diminuita capacità di produrre reddito specifica e personale derivante dal pregiudizio alla persona con la conseguenza che se l'attore non prova l'esistenza del danno, tale dimostrazione non può essere sostituita da altri elementi. LE TABELLE DI LIQUIDAZIONE DEL DANNO ALLA PERSONA Si riporta quanto illustrato nella nota illustrativa alle tabelle distrettuali di liquidazione del danno biologico e morale, redatta dall’Ufficio del Referente per la formazione civile dei magistrati del Distretto della Corte d’Appello di Lecce. La funzione di dette tabelle è la ricerca di un principio di uniformità di liquidazione del danno, e ciò sia per favorire un accordo stragiudiziale sia per consentire - su parametri concreti - una conciliazione giudiziale della lite, nella forme e nei tempi previsti dal codice di rito. L’armonizzazione delle regole sul risarcimento del danno non patrimoniale, d’altra parte, costituisce ormai un’esigenza unanimemente sentita come non rinunciabile anche in ambito europeo, per fronteggiare il rischio di anarchia interna ai sistemi nazionali e per consentire una razionalizzazione dei criteri tabellari di liquidazione del danno. Tale esigenza è stata recepita dal legislatore, dapprima con la L. 57/01, relativa solo alla lesioni di lieve entità (inferiori al 10%), che contiene una tabella di liquidazione per dette lesioni, e poi nel c.d. Codice delle Assicurazioni private, in vigore del 1° gennaio 2006, con il quale (v. art. 138) si impegna il Governo a redigere una specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubblica, relativa sia alle menomazioni all’integrità psicofisica comprese tra il dieci ed il cento per cento (per quelle inferiori al 10% esisteva già il D.M. 3-7-03), sia al valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità compreso tra il 10 ed 100% (anche in tal caso per le invalidità inferiori al 10% già esisteva una tabella di liquidazione ex L. 57/2001, ora aggiornata ex art. 139 cod. delle assicurazioni private). In questi termini le tabelle di liquidazione del danno alla persona possono costituire un idoneo criterio di riferimento sino alla definitiva predisposizione della tabella unica nazionale da parte delle Commissioni Ministeriali preposte. Il danno alla persona non può essere provato nel suo ammontare, sicché, alla stregua degli artt. 1226 c.c. e 2056 c.c., esso deve essere valutato equitativamente e sempre tenendo presente la funzione consolatoria del risarcimento di tale tipo di danno. Il principio cui attenersi è senz’altro ancora quello suggerito dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 184/86, e cioè quello di un’uniformità pecuniaria di base, con una certa flessibilità, in modo da adeguare detta uniformità al caso concreto in esame. Uniformità pecuniaria di base perché il valore umano, l’integrità psicofisica, è uguale per tutti gli esseri umani; flessibilità nel caso concreto, perché una stessa menomazione può avere una maggiore o minore incidenza a secondo della persona che la subisce. E’ evidente, infatti, che una menomazione permanente provoca un pregiudizio più intenso per taluni soggetti (ad esempio in conseguenza dell’età) che per altri; un pregiudizio più intenso ad un soggetto dedito ad attività sportiva che ad un soggetto dedito alla vita sedentaria; non solo, ma, a secondo del soggetto, la medesima menomazione può incidere, in maniera diversa da persona a persona, sull’efficienza psicofisica della stessa, sulla sua capacità di intrattenere rapporti sociali o sulla fatica nell’espletamento del lavoro. Alla generale accettazione del predetto principio ha fatto però riscontro una certa eterogeneità nella liquidazione delle varie voci di danno presso i diversi Tribunali, determinando talvolta effetti assolutamente da evitare, quale ad esempio, il fenomeno del c.d. “forum shopping”, in base al quale la richiesta risarcitoria viene dirottata nelle sede giudiziaria che adotta parametri più elevati.

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Di conseguenza appare ancora assai utile predisporre, per le finalità di cui sopra, delle tabelle di liquidazione del danno, estendendo la “validità” delle stesse in un ambito territoriale più vasto, quale il distretto di Corte d’Appello, ed utilizzando, nella predisposizione delle stesse, da una parte, i precedenti di ciascun circondario, e, dall’altra, i valori di risarcimento previsti dalla legge per le micropermanenti. In ogni caso, va ribadito come i valori tabellari non possono costituire un rigido ed immutabile criterio di valutazione, trattandosi di importi indicativi, assunti dal Giudice come valori di riferimento da armonizzare con la necessità, costantemente ribadita dal giudice di legittimità, di personalizzare il risarcimento in considerazione delle circostanze specifiche del caso concreto, quali la gravità delle lesioni, la durata della malattia, l’età, le attività espletate, le condizioni sociali e familiari ecc., così come peraltro espressamente previsto dagli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni (limitatamente alla misura, rispettivamente, del 30% e del 20% per le lesioni non lievi e per quelle lievi). Dopo le decisione adottate dalle Sezioni Unite l'11 novembre 2008 (cd sentenze di San Martino) il dibattito sui criteri di determinazione del punto tabellare presso diversi uffici si è nuovamente incrementato. Il Tribunale di Milano è l'ufficio che per primo ha adottato un criterio tabellare uniforme ed al quale la maggior parte degli uffici giudiziari nazionali fa riferimento, ed ha utilizzato il criterio del ”punto pesante", nel senso di liquidare nel punto tabellare sia i valori relativi al danno biologico che quelli relativi alla precedente figura del danno morale. L'Osservatorio della Giustizia Civile di Milano, nel maggio 2009, ha modificato le tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale proponendo una liquidazione congiunta del pregiudizio non patrimoniale, inteso quale lesione all'integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale, sia nell'aspetto statico, cioè la lesione in sé e per sé considerata, sia nell'aspetto dinamico, consistente nei risvolti funzionali e relazionali del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di sofferenza soggettiva (la vecchia nozione di danno morale in senso stretto di Dell’Andro, relatore della storica decisione della Consulta del 1986). Pertanto, è prevista una liquidazione unitaria per una serie di voci precedentemente valutate autonomamente e riferibili alla macro area del danno biologico (comprensivo di quello estetico, alla vita di relazione, alla capacità lavorativa generica) del danno esistenziale elaborato dalla scuola di Trieste e del danno morale in senso stretto di Dell’Andro. Il vantaggio delle nuove tabelle di Milano è certamente quello della maggiore prevedibilità della futura entità del risarcimento ai fini transattivi, mentre i rilievi riguardano l'eccessivo automatismo nella determinazione del danno (sebbene la nota illustrativa le tabelle consenta e favorisca la personalizzazione) e la impossibilità per i giudici del lavoro di utilizzare tali parametri onnicomprensivi ai fini dello scorporo delle due voci del danno biologico e di quello morale nell’ipotesi in cui ciò risulti necessario in relazione alla misura del danno subito dal lavoratore (entro o oltre il 6%). Un altro rilievo mosso alle tabelle di Milano è rappresentato dal fatto che inserire anche il danno morale all'interno del punto tabellare pone dei problemi di carattere pratico e giuridico, anche per il giudice civile. Dal punto di vista pratico lo spazio per la personalizzazione del danno è limitato. Infatti, se si vuole comunque favorire la personalizzazione allora l'inserimento della voce della sofferenza temporanea all'interno del punto tabellare diventa sostanzialmente inutile. Diversamente se si ritiene sufficientemente vincolante il parametro medio indicato dalle tabelle, allora vi è necessariamente una limitazione della personalizzazione. Dal punto di vista giuridico la natura del danno biologico è quella di un danno permanente, mentre la natura del danno morale è essenzialmente transitoria (anche se tali categorie sono divenute molto meno chiare dopo le decisioni delle Sezioni Unite del 2008, che hanno evidenziato serie perplessità sulla natura “transeunte” della sofferenza morale).

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L'altro ufficio importante, quello di Roma, ha adottato il principio precedente lasciando invariato il punto di invalidità che riguarda soltanto il danno biologico e consentendo al potere equitativo del giudice di personalizzare il danno e liquidare quello morale. Va richiamata in questa sede l'opinione della giurisprudenza di legittimità che ha censurato la prassi delle corti di merito di appiattimento del risarcimento sui criteri tabellari, criticando anche la regola, contenuta in molte tabelle dei tribunali, di liquidare il danno morale in una percentuale di quello biologico (da ultimo, Tribunale L'Aquila, 5 marzo 2010), nell'ipotesi in cui questo determini un rinvio acritico al parametro tabellare. La Cassazione ha affermato, al contrario, che il giudice deve procedere, comunque, alla necessaria personalizzazione (Cassazione, 19 gennaio 2010, n. 702). Un altro esempio interessante è quello del Tribunale di Venezia che nel luglio 2009 ha predisposto le Tabelle indicative della liquidazione del danno non patrimoniale ai sensi dell'articolo 139 della decreto legislativo 209 del 2005. Con riferimento all’invalidità permanente, i valori tabellari di Venezia riguardano, sia il profilo statico della menomazione, che quello relazionale. I valori sono possono essere incrementati in percentuale in funzione del caso concreto ovvero in funzione della particolare incidenza sulla capacità lavorativa generica. In particolare, sotto il primo profilo rileva l'eventuale incidenza della lesione sugli aspetti relazionali superando i comuni riflessi negativi sulla possibilità di svolgere le attività quotidiane, sportive o ricreative. Sotto secondo profilo viene valorizzata quella lesione che determini un ricorso incrementale alle energie lavorative con conseguente accelerazione dell'usura lavorativa. Anche il Tribunale di Venezia si è posto il problema se il concetto di danno morale, cioè il profilo della sofferenza, consente di modificare i parametri previsti dall'articolo 139 del Codice delle Assicurazioni ritenendo che questo non sia possibile. Il risultato è quello di una tabella che prevede dei gradini liquidatori suscettibili di attenuazione a seguito di eventuali successive modifiche. Con riferimento al danno morale il Tribunale di Venezia, come quello di Roma è rimasto sulle posizioni tradizionali non inserendo il pregiudizio morale nell'ambito del punto tabellare. Nel caso specifico si è ritenuto comunque di adeguare il valore monetario relativo al danno biologico separando le lesioni lievi, da quelle gravi. In particolare per le micro permanenti la percentuale di incremento per la componente relativa alla vecchia figura del danno morale è fino al 20%, salva la possibilità di adeguare al caso concreto sulla base dei dati oggettivi e delle risultanze della CTU. Per le menomazioni superiori la componente sofferenza è incrementabile sino al 100%, sulla base di specifiche allegazioni. Si richiede quindi al consulente di ufficio una indicazione ulteriore relativa al livello di sofferenza raggiunto in termini di intensità e durata valorizzando anche altri parametri che riguardano l’art. 133 c.p. e cioè la intensità dell'elemento psicologico, essendo logico che il dolo non equivale alla colpa; la riprovevole causa della condotta del danneggiante; la gravità del fatto, l'obiettivo illecito avuto di mira, ecc. La Cassazione, per esempio, ha precisato di recente che con riferimento agli atti illeciti che provochino una lesione lieve ma un danno psichico elevato, come nel caso di molestie sessuali occorre prendere in esame anche il criterio della odiosità della condotte lesiva nei confronti della persona posta in posizione di soggezione (nel caso di specie una lavoratrice: Cassazione, 19 gennaio 2010, numero 702). Dal punto di vista pratico il risultato ottenuto dall'approccio di Venezia è quello di limitare la prevedibilità delle decisioni, risultando tali tabelle meno “deflattive” rispetto a quelle di Milano, non fornendo dei parametri oggettivi e favorendo il rischio del passaggio dalla discrezionalità al libero arbitrio del giudice in sede di liquidazione.

dott. Gabriele Positano – Giudice del Tribunale di Lecce

Con riferimento alla danno da morte, e in particolare al pregiudizio derivante da perdita di congiunto, cioè il danno morale iure proprio causato dall'illecito altrui, i parametri indicati sono suscettibili di incremento fino al 100%, in relazione ai consueti criteri di valutazione degli effetti del danno, come l'età della vittima, la condizione del sopravvissuto, la convivenza o meno e l’estensione del nucleo familiare. Si tratta di criteri che normalmente vengono posti a base delle tabelle in uso presso i tribunali essendo logico che, con riferimento all'età della vittima, tanto maggiore sarà l'età, tanto minore sarà il periodo di tempo per il quale verosimilmente si protrarrà l'anticipata sofferenza del congiunto sopravvissuto. Anche il giudice potrà operare una valutazione opposta tenendo conto del caso concreto. Nello stesso modo un significato rilevante assume il vincolo familiare, quello di coabitazione, l’esistenza di un giudizio di separazione e tutto quello che riguarda le relazioni tra le parti, eventualmente non formalizzate, come nel caso della convivenza more uxorio (è logico che la prova del “brindisi” tra l’ex marito e la nuova compagna, alla notizia del decesso della moglie del primo, non rappresenta una circostanza irrilevante). Le tabelle di Venezia, come ad esempio quelle distrettuali di Lecce (che lo prevedono sin dal 1997) risultano sensibili rispetto alla risarcibilità del danno tanatologico, cioè quello da decesso intervenuto dopo un apprezzabile lasso di tempo, che appartiene alla categoria del danno jure hereditatis capitalizzato in capo alla vittima primaria dell'illecito e trasferito agli eredi sulla base delle norme del codice civile. La Cassazione ha progressivamente ridotto la distanza di tempo tra le lesioni personali e il decesso, per esempio riconoscendo il risarcimento nella misura consistente di euro 90.000 in favore dei familiari in operaio rimasto folgorato, ma sopravvissuto per mezz'ora (Cassazione 8 aprile 2010, numero 8360) oppure per la sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine (Cassazione 7 giugno 2010, numero 13672) riguardo alla estrazione dalle macerie di un lavoratore a seguito della sua richiesta di aiuto. LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO PATRIMONIALE Il danno patrimoniale, come è noto, consiste nel danno emergente (spese sopportate) e nel lucro cessante (mancato guadagno). In ordine al danno emergente va evidenziato che le spese sopportate (es. danno al veicolo, fermo tecnico, spese mediche) devono essere provate, e che lo stesso può anche essere futuro (es. alcune visite mediche devono essere rinnovate dopo la liquidazione; certe protesi debbono essere periodicamente rimodellate o rifatte ex novo: se detta necessità viene accertata -di regola attraverso una CTU-, devono essere riconosciute e liquidate anche dette spese future). In ordine al lucro cessante è opportuno distinguere tra lucro cessante da inabilità temporanea (totale: ITT, e parziale: ITP) e lucro cessante da inabilità permanente (I.P.). Il primo (lucro cessante da inabilità temporanea) consiste nel guadagno perduto durante il periodo di malattia determinato dalla lesione; deve essere provata sia l’attività lavorativa in concreto svolta sia il relativo reddito (v., al proposito, art. 137 cod. assicuraz.); nel caso di esito positivo di detta prova, il detto danno deve essere riconosciuto e liquidato dividendo il reddito annuo per 365 gg e poi moltiplicando il risultato per i gg di inabilità accertati dal CTU o comunque documentati; nell’ipotesi di inabilità temporanea parziale (periodo di tempo in cui il soggetto può svolgere solo in parte es. 50%- la sua attività lavorativa), il mancato guadagno giornaliero va diminuito a secondo della percentuale es. 50%- con la quale il soggetto svolge l’attività lavorativa. Si presume insussistente per il lavoratore dipendente, che, invero, ordinariamente, anche in caso di malattia continua a percepire la propria retribuzione. Il secondo (lucro cessante da inabilità permanente) consiste nel mancato guadagno provocato da postumi permanenti conseguenti ad una lesione (la lesione, invero, può incidere sull’attività

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lavorativa del soggetto, non consentendogli più, per il futuro, di lavorare con la stessa intensità, sì da determinare una diminuzione del reddito). Anche in tal caso, ovviamente, deve essere provata sia l’attività lavorativa sia il reddito; la percentuale di invalidità va, di regola, accertata tramite CTU; in caso di inabilità inferiore al 10% si presume (giurisprudenza costante; v. per tutte, Cass. 3868/04) che la stessa non incida sull’attività lavorativa specifica svolta dal danneggiato, e quindi non abbia conseguenze sul reddito; presunzione ovviamente iuris tantum, che quindi può essere superata dalla prova contraria. In caso di esito positivo della prova, il risarcimento va riconosciuto e liquidato secondo la formula: R (reddito annuo secondo i criteri di cui all’art. 137 cod. assicurazioni) per P (percentuale di inabilità) per C (coefficiente di capitalizzazione relativo all’età, di cui alla tariffa per la costituzione delle rendite vitalizie immediate -estratto dal R.D. 9-10-1922 n. 1403 che approva le tariffe della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali); quindi R per P per C. Nel caso in cui viene provato che il soggetto svolga attività lavorativa e non viene, invece, provato il suo effettivo reddito, si ritiene che il soggetto abbia un reddito pari al triplo della pensione sociale (oggi assegno sociale: v. L. 355/999), per cui, nella su riportata formula, al reddito annuo (R) va sostituita la voce Triplo annuo della Pensione Sociale (T.P.S.); quindi: TPS per P per C. In relazione al lucro cessante da inabilità permanente, e, comunque, in genere, al danno patrimoniale, si ritiene opportuno segnalare, come ipotesi particolari e problematiche, quelle della casalinga e dello studente. In ordine alla lesione subita dalla casalinga, la S.C. è ormai uniformemente orientata a ritenere l’attività domestica svolta dalla casalinga (intesa non solo come espletamento delle faccende domestiche ma, più in generale, come coordinamento della vita familiare: v. Cass. 9-2-2005 n. 2639), come attività che, benché non produttiva di reddito monetizzato, è comunque suscettibile di valutazione economica; di conseguenza, il relativo danno è risarcibile come danno patrimoniale, e nella liquidazione, si può tenere conto o del reddito di una collaboratrice domestica “con gli opportuni adattamenti dettati dalla maggiore ampiezza dei compiti espletati dalla casalinga” o del suppletivo criterio del triplo della pensione sociale (Cass. 8970/98; 19387/04; 15823/05; 2639/05; 26080/05; Cass. 20324/05 evidenzia anche il fondamento costituzionale di tale diritto, individuandolo più che nell’art. 32 negli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione, che tutelano la scelta di qualsiasi forma di lavoro ed i diritti del lavoratore e della donna lavoratrice); per una esaustiva ricostruzione della problematica e dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di danno alla casalinga, va segnalata Cass. 3-3-2005 n. 4657, che ribadisce il su descritto orientamento giurisprudenziale ma riporta anche la critica a detto filone portata da parte della dottrina, secondo cui non si può parlare di capacità lavorativa specifica della casalinga perché l’attitudine al lavoro domestico non si riconnette ad un vero e proprio rapporto di lavoro (retribuito) e quindi non può dar luogo ad un guadagno suscettibile di essere perduto ovvero diminuito; secondo tale critica, pertanto, la ritenuta risarcibilità del danno in questione comporterebbe delle duplicazioni risarcitorie in quanto la perdita della capacità lavorativa generica è già considerata nell’ambito della liquidazione del danno biologico. Va poi segnalata la questione del risarcimento del danno da morte della casalinga, affrontato dalla giurisprudenza, da ultimo con Cass. 17977/07, secondo cui in caso di morte della casalinga, i congiunti conviventi hanno diritto al risarcimento del danno subito per la perdita delle prestazioni attinenti alla cura ed all’assistenza domestica, atteso che dette prestazioni, benché non produttive di reddito, sono valutabili economicamente; pregiudizio che può ritenersi esistente (eventualmente in misura ridotta) anche in presenza di collaboratori domestici, perché i compiti della casalinga (o, ovviamente, del casalingo) sono più ampi e più intensi e con maggiori responsabilità di quelli espletabili da un prestatore d’opera dipendente. In ordine alle lesioni subite dallo studente (ma il discorso può essere allargato a tutte le ipotesi di soggetti non percettori di reddito al momento della lesione) la S.C. ha escluso, in tali casi, il danno

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da inabilità temporanea (per l’ovvia considerazione della mancanza di reddito) ma non il danno futuro collegato all’inabilità permanente che, secondo la S.C. , verrà ad incidere, con ragionevole certezza, in conseguenza della grave menomazione subita, sulla capacità di guadagno della vittima, allorquando inizierà a svolgere un’attività remunerata (Cass. 26081/05); in tal caso, la liquidazione può essere operata anche mediante presunzioni, accertando il tipo di attività che il soggetto svolgerà in futuro secondo un criterio probabilistico, tenendo conto delle possibili scelte ed occasioni che, secondo l’id quod plerumque accidit, si offrono in relazione al livello di studio conseguito ed all’ambiente familiare e sociale di riferimento (Cass. 564/05), e salvo il caso che si tratti di disoccupazione volontaria o di consapevole rifiuto di attività lavorativa (Cass. 18945/03). Va, infine, risarcito anche il danno patrimoniale in favore dei congiunti di persona deceduta in seguito a fatto illecito commesso da terzi, dimostrando che “verosimilmente il soggetto infortunato avrebbe contribuito ai bisogni della famiglia” (Cass. 18177/2007). LA LEGITTIMAZIONE NEL DANNO PATRIMONIALE DA MORTE L’evento lesivo “morte” determina una diminuzione patrimoniale, economicamente valutabile, che interessa i componenti del nucleo familiare che abbiano mantenuto con il defunto rapporti significativi. Il danno patrimoniale dei congiunti, nel caso di morte della vittima primaria, si può definire come quella perdita del contributo economici che il de cuius avrebbe erogato in favore dei componenti del nucleo familiare durante l’arco della vita. Il primo problema che si pone in materia di danno patrimoniale da morte è quello della individuazione dei soggetti che vantano una legittimazione attiva e se tale pretesa possa essere azionata iure proprio o iure hereditario. Tradizionalmente il presupposto per il riconoscimento della legittimazione attiva a richiedere il risarcimento del danno è stato individuato nella lesione del credito alimentare. Tale posizione di vantaggio nei confronti della vittima ha attribuito la legittimazione ad agire ai soli congiunti titolari di un diritto agli alimenti ai sensi dell’art. 433 cc. La rigorosa opinione della dottrina e della giurisprudenza muove dalla preoccupazione di impedire un eccessivo allargamento dell’area risarcibile negando, come vedremo in seguito, la tutela aquiliana del diritto di credito alle ipotesi di diritto relativo. In tale ottica il danno risarcibile è solo quello che costituisce una lesione di un diritto alimentare, attuale e concreto. Le decisioni più risalenti hanno puntualizzato che “il semplice fatto della parentela non basta a dar luogo ad una azione di danni e che il diritto agli alimenti deve essere non soltanto potenziale, ma accertato, concreto ed attuale”. Non è stato ritenuto sufficiente, pertanto, il soccorso volontario e non obbligatorio ai bisogni dei parenti. L’attualità e la concretezza del diritto alimentare hanno escluso le fattispecie nelle quali vi fossero altri obbligati in grado di subentrare alla vittima nel dovere di corrispondere gli alimenti al congiunto. In sostanza, l’orientamento rigoroso richiedeva la prova da parte dei superstiti che con il decesso del congiunto gli stessi versassero in una situazione economica di grave difficoltà. La cerchia dei legittimati attivi all’azione di risarcimento dei danni sul presupposto di una lesione concreta del diritto agli alimenti e di quello al mantenimento erano il coniuge, i figli, i genitori, i generi e le nuore, i suoceri, i fratelli e le sorelle, ai sensi dell’art. 433 cc. (il coniuge e i figli lo erano anche ai sensi degli artt. 143 e 147 cc. quali titolari del diritto di mantenimento). In un secondo momento la giurisprudenza ha ampliato l’area della legittimazione attiva ricomprendendo, oltre ai congiunti, anche i parenti meno prossimi e non titolari di un diritto agli alimenti purché fosse dimostrato in giudizio che, a seguito del fatto illecito, erano venute a mancare “quelle sovvenzioni che, corrisposte in modo costante e durevole, costituiscono un concreto beneficio economico” .

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Alcune decisioni degli anni Sessanta hanno permesso di allargare ancor più l’area di risarcibilità del danno patrimoniale inserendo tra i legittimati tutti coloro che risultavano privati di legittime aspettative a futuri benefici economici che la vittima avrebbe presumibilmente corrisposto loro se fosse rimasta in vita. Così, dalla prova della effettiva corresponsione continuativa di somme, a titolo di alimenti o di mantenimento si giunge a considerare anche la mera prognosi positiva di una contribuzione economica. La Cassazione, negli anni Settanta, afferma che “il venir meno delle legittime aspettative di un futuro contributo economico a loro favore … che possa desumersi dagli elementi acquisiti al processo con caratteri di probabilità e verosimiglianza, quale conseguenza logica possibile di essi, alla stregua del criterio di normalità” . Perciò, legittimati all’azione non sono più solo i congiunti di cui agli artt. 433, 143 e 147 cc., ma i familiari che di fatto beneficiano già o in futuro avrebbero verosimilmente beneficiato di aiuti economici da parte del congiunto deceduto. Appare evidente come, in questi termini, il problema della legittimazione attiva perde di chiarezza: l’ambito soggettivo diviene meno rigido e sempre più influenzato da situazioni di fatto e non da vincoli giuridicamente rilevanti. L’unico punto fermo risiede nella circostanza che la giurisprudenza continua a riferirsi ai “congiunti” più o meno “prossimi”. A coloro spetterà di dimostrare di avere beneficiato di sovvenzioni durevoli e costanti da parte del defunto anche se a tali benefici economici la vittima non fosse tenuta per un obbligo di alimenti o di mantenimento . Si nota come la terminologia utilizzata nelle decisioni (congiunti, stretti o prossimi, familiari) non sia precisa, inducendo, così, la dottrina a riproporre una più rigida limitazione - propria dell’orientamento più risalente - escludendo i soggetti non titolari del diritto agli alimenti di cui all’art. 433 cc . Maggiore chiarezza si rinviene sulla questione della qualificazione “iure proprio” o “iure hereditatis” del diritto al risarcimento vantato dai superstiti. La dottrina e la giurisprudenza maggioritaria riconoscono in capo ai congiunti un diritto autonomo (iure proprio) rispetto a quello della vittima primaria dell’illecito . Tuttavia, se nel corso del giudizio di risarcimento danni per lesione personale, l’attore muoia per una causa autonoma rispetto al fatto illecito attribuito al convenuto, la pretesa vantata dai congiunti non sarà iure proprio ma iure hereditatis e la liquidazione del danno patrimoniale sarà calcolata sul periodo di sopravvivenza effettivo e non attraverso i parametri tabellari per la vita media . I congiunti, cioè, non potranno vantare un diritto al risarcimento iure proprio giacché il fatto che ha determinato la morte non è riferibile alla condotta del convenuto. Se, al contrario, il decesso avvenga in corso di causa ed in conseguenza del fatto illecito, ai congiunti spetterà anche il risarcimento dei danni iure proprio oltre a quelli iure hereditatis relativamente al periodo precedente la morte. Si adotteranno i medesimi parametri di liquidazione riferiti al periodo di tempo intercorso tra la lesione e la morte . Sempre con riferimento alle vicende che possono intervenire nelle more del giudizio, la Cassazione ha affermato che nel caso in cui la vittima prima del decesso abbia concluso una transazione e, successivamente, sia intervenuta la morte quale conseguenza diretta del fatto illecito, l’eventuale accordo raggiunto non è opponibile ai congiunti attesa la diversità del diritto oggetto della transazione che non è operativa nei confronti di soggetti diversi dalle parti contraenti. Il principio trova fondamento nel fatto che l’azione promossa dai parenti “è rivolta a tutela a di un diritto proprio dei parenti medesimi e non di un diritto del congiunto, trasmesso a titolo ereditario”, sul presupposto, però, che si tratti di danno jure proprio e che vi sia un nesso causale tra la lesione e la morte . LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO DA UCCISIONE

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Nell’ipotesi di morte di un soggetto produttore di reddito il danno patrimoniale in favore dei figli o del coniuge è costituito dalla perdita di quelle sovvenzioni economiche delle quali questi avrebbero beneficiato se non fosse intervenuto il fatto illecito. Poiché l’accertamento delle condizioni che legano, i soggetti legittimati ad agire, al de cuius riguardano circostanze concrete da dimostrare in corso di causa il giudice e le parti dovranno fare riferimento, generalmente, al fatto notorio o alle presunzioni semplici, atteso che altri mezzi di prova costituiranno, al più, semplici indizi. L’indagine dovrà riguardare alcuni elementi come l’età di ciascun familiare, l’eventuale occupazione o attività lavorativa espletata o da espletare, le esigenze di educazione, istruzione, assistenza sanitaria e il tenore di vita in genere della famiglia. Va precisato, sin da ora, che l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli non cessa con il raggiungimento della maggiore età ma si protrae fino a che il figlio sia in grado di provvedere alle proprie esigenze. Alla raggiunta autonomia economica è parificata anche l’ipotesi in cui si provi che il figlio, per condotta negligente, non si è posto nella condizione di svolgere un’attività lavorativa oppure si è rifiutato di espletarla (sostanzialmente i medesimi parametri utilizzati in materia di famiglia per individuare in 25-30 anni il limite massimo per l’assegno di mantenimento in favore dei figli maggiorenni non autonomi). Il meccanismo di valutazione del danno patrimoniale mira a determinare il valore attuale di quei benefici economici che la vittima avrebbe presumibilmente corrisposto in futuro ai congiunti. I benefici futuri che interessano la posizione dei congiunti sono connessi al reddito lavorativo del defunto in ciò considerando anche il reddito da capitali, da rendite o da altre fonti. Generalmente, comunque, il reddito lavorativo è rappresentato dai guadagni derivanti dal lavoro, che costituiscono il profilo più rilevante per la liquidazione del danno, atteso che i redditi da capitale possono con la morte della vittima, essere trasferiti ai congiunti con gli ordinari meccanismi di successione senza determinare alcun pregiudizio patrimoniale. Nella prassi giudiziaria si fa riferimento presuntivamente ad un beneficio in favore del coniuge superstite pari ad una quota del 50% del reddito della vittima e si presume che l’intero nucleo familiare beneficiasse di una quota pari ai 2/3 del reddito del de cuius (padre o madre), sulla base della massima di esperienza secondo cui maggiore è il numero dei componenti il nucleo familiare, minore sarà la quota che il capo famiglia utilizzerà per sé. Nella determinazione del “reddito utile” vi sono elementi concreti che vanno presi in considerazione per stabilire per quanti anni i congiunti avrebbero beneficiato del reddito sulla base di quelle che sono le caratteristiche della famiglia, l’età del danneggiato e quella dei superstiti. Infatti, ad esempio, nel caso di morte del capofamiglia si ritiene generalmente che il coniuge avrebbe continuato a godere di una quota del reddito del de cuius fino al termine della vita di questo o fino al termine della attività lavorativa. Sulla base delle tavole di sopravvivenza elaborate dall’Ufficio Centrale di Statistica sarà possibile, con le modalità che saranno poi meglio indicate, stabilire il numero di anni durante i quali il coniuge superstite avrebbe continuato a beneficiare di una quota del reddito. Nel caso, invece, di morte del figlio, i genitori avrebbero beneficiato di una quota del suo reddito, verosimilmente fino a quando questi non si fosse sposato o comunque reso autonomo rispetto al nucleo familiare. Anche in questo caso l’età va stabilita con approssimazione sulla base delle circostanze concrete (particolarmente l’ambiente sociale, l’attività lavorativa eventualmente espletata e l’esistenza di un rapporto affettivo) in modo da determinare il numero di anni che il danneggiato avrebbe vissuto in famiglia. Dopo aver computato il periodo di contribuzione virtuale del de cuius in favore dei superstiti, occorrerà capitalizzare la quota di reddito per il numero di anni in concreto determinati per ottenere il valore attuale della rendita corrispondente alla perdita annua subita dal danneggiato.

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L’operazione viene effettuata facendo riferimento alle tariffe della Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali approvate con R.D. del 9 ottobre 1922 n.1403 che forniscono per ogni età un coefficiente che tiene conto della vita media probabile. Per ciascuno degli aventi diritto il calcolo del danno patrimoniale dovrà essere effettuato secondo la seguente formula: (R x 100% x C): 100 - S dove R indica la quota di reddito che il defunto destinava al proprio congiunto (reddito utile ), 100% indica la percentuale massima di invalidità convenzionalmente pari al 100%, C è il coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età del defunto sulla base delle tariffe delle rendite vitalizie di cui al R.D. n.1403/22, S è lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Tale scarto non va applicato nel caso in cui il soggetto venuto a mancare risulti più giovane degli aventi diritto al risarcimento del danno patrimoniale, atteso che in questa ipotesi i congiunti verrebbero verosimilmente a morire nel corso degli anni prima che si raggiunga, per il defunto, l’età che segna la differenza fra la vita fisica e quella lavorativa. Negli altri casi lo scarto va compreso tra il 10% e il 35% e si assesta, secondo la prassi giurisprudenziale, intorno al 20%, tranne per i casi in cui la vittima è molto giovane o, al contrario, in età particolarmente avanzata. Sulla base di tali considerazioni, immaginando di dover calcolare il danno patrimoniale subito da una persona di quarant’anni per la morte del coniuge di quarantacinque anni, il cui reddito lavorativo ammontava a 90.000 euro, ritenendo che di tale importo la vittima, non avendo figli utilizzasse ben il 50% per le proprie necessità e che il coniuge avrebbe verosimilmente beneficiato della quota restante per tutto il tempo di vita probabile del congiunto, si eseguono le seguenti operazioni: - reddito annuo della vittima: 90 mila euro - quota parte utilizzata dal defunto: 45 mila euro - reddito utile per il congiunto: 45 mila euro - coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima (quarantacinque anni) sulla base delle tabelle della Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali: 15,165 - risarcimento dovuto al coniuge: ( 45.000x100x15,165) : 100 - 20% = 545.940 euro Nella detta ipotesi esemplificativa si è decurtato lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa presupponendo che la vita fisica sia maggiore di quella lavorativa in considerazione del tipo di attività espletata. Naturalmente il coefficiente corrispondente all’età del defunto può essere preso in considerazione solo nel caso in cui il de cuius aveva un’età superiore a quella del coniuge superstite. In caso contrario, se il coniuge è più anziano di quello deceduto, il coefficiente di capitalizzazione da prendere in esame va riferito al coniuge sopravvissuto, presumendosi che il coniuge più anziano avrebbe beneficiato del reddito di quello più giovane fino al termine della propria vita. Per tale motivo, nell’esempio, si è precisato che il coniuge sopravvissuto aveva l’età di quarant’anni e quello deceduto di quarantacinque. Invertendo, invece, l’età dei 2 coniugi (ipotizzando la morte di quello di quarant’anni e la richiesta di danni avanzata da quello di quarantacinque anni) il calcolo sarebbe eguale poiché il coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età sarebbe stato rapportato a quella del congiunto in vita (quarantacinque anni). La schematizzazione riportata non tiene conto del fatto che talvolta i vantaggi economici connessi alla vita della vita della vittima non si producono per tutto l’arco della vita del congiunto sopravvissuto ma si interrompono dopo un certo numero di anni.

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In questo caso non si possono applicare i coefficienti della Cassa Nazionale poiché questi si riferiscono alla capitalizzazione vitalizia rapportata all’intera vita probabile della vittima. Così, ad esempio, per valutare il danno risarcibile a favore di ciascuno dei figli della persona deceduta occorre considerare che, secondo un criterio di normalità, i figli avrebbero cessato di godere dell’apporto economico paterno con l’inizio della propria attività lavorativa che può essere indicata in un’età che tenga conto delle condizioni sociali, familiari, dell’educazione ed del titolo di studio dell’attore e in genere, del contesto economico nel quale la famiglia gravita. Dunque, il danno va risarcito calcolando la perdita di reddito con riferimento al periodo che intercorre fra l’età del superstite al momento della morte del padre e l’età corrispondente all’inizio dell’attività lavorativa del figlio. In questo caso i figli avranno subito una perdita di guadagno pari al reddito annuo del padre moltiplicato per gli anni residui fino all’inizio di una ipotetica attività economica autonoma. Trovano applicazione, pertanto, i coefficienti di capitalizzazione temporanea che forniscono il valore attuale di una rendita unitaria ai vari tassi di interesse per in determinato numero di anni. Nella prassi giudiziaria si calcola l’interesse del 4,5% o 5% (vedi appendice). Immaginando di dover valutare il danno conseguente alla perdita dei benefici economici subiti da un minore di 6 anni ed indicando nell’età di 23 anni il momento in cui, in considerazione del contesto socio-economico-familiare, l’attore avrà raggiunto una autonomia reddituale, occorre determinare il reddito utile per il minore. Si supponga che sia venuto a mancare un coniuge di 45 anni che ha lascito la moglie di 40 anni ed un figlio di 6 anni e che il reddito annuo del de cuius era sempre di euro 90.000. Immaginando che il capofamiglia avrebbe utilizzato 1/3 del reddito per le proprie spese e diviso in parti uguali la quota residua tra il coniuge ed il figlio, il calcolo del reddito spettante al figlio minore sarà il seguente: - euro 30.000, pari alla quota di reddito utilizzata dal defunto - euro 30.000, pari al reddito utile in favore del coniuge - euro 30.000, pari al reddito utile in favore del minore. Ipotizzando che il minore (di 6 anni) raggiungerà l’autonomia reddituale a 23 anni, il beneficio reddituale interesserà 17 anni (23-6) che corrispondono al coefficiente 11,27. Il risarcimento spettante al minore corrisponde alla formula: R.M. x C.T. R.M. indica il reddito annuo destinato al minore e C.T. il coefficiente relativo agli anni restanti prima del raggiungimento dell’autonomia economica. Sulla base dei dati ipotizzati il calcolo è il seguente: 30.000 x 11,27 che comporta un danno patrimoniale pari a euro 338.100. In altri casi sarà necessario considerare la perdita dei benefici economici non esistenti alla data del decesso ma che sarebbero verosimilmente maturati in una data futura: è il caso di danno subito dai genitori per la perdita di un figlio che, verosimilmente avrebbe iniziato a svolgere attività lavorativa dopo un certo periodo di tempo percependo un reddito annuo pari, ad esempio, a euro 30.000. Naturalmente i genitori avrebbero beneficiato di tale reddito fino a che il figlio non si fosse creato una propria famiglia. Se si ipotizza che il figlio avesse iniziato a percepire guadagni cinque anni dopo la data del decesso e che i genitori ne avessero beneficiato per dieci anni, occorrerà calcolare per prima cosa, il capitale corrispondente alla rendita temporanea ( moltiplicandi l’ammontare della rendita per il coefficiente di capitalizzazione corrispondente al numero di anni di durata della rendita stessa : 10 anni , che equivale ad un coefficiente pari a 7,721). L’operazione da eseguire è: 30.000 x 7,721 = 231.630; poiché, però, nel caso ipotizzato il figlio avrebbe iniziato a percepire quel reddito solo fra cinque anni, mentre l’importo sopra indicato esprime il valore che avrà la rendita tra cinque anni, è

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necessario rendere attuale questo importo, devalutandolo alla data odierna, con l’applicazione un coefficiente di rivalutazione che tenga conto del periodo di cinque anni. Si perverrà, naturalmente, ad un importo inferiore in considerazione del numero di anni e del tasso percentuale che convenzionalmente il giudice intenderà applicare. Nel caso in cui l’attività retribuita derivi dall’esercizio di arti o professioni espletate in maniera abituale, si verte nell’ambito del lavoro autonomo. Saranno ricompresi, ai fini del calcolo, tutti i redditi da rapporti di collaborazione, derivanti dalla qualifica di amministratore o sindaco di società, la partecipazione ad associazioni in qualità di associato ed ogni altra forma di collaborazione continuativa. Il reddito netto è dato dalla differenza tra l’insieme dei corrispettivi percepiti e la somma dei costi relativi all’espletamento dell’attività lavorativa autonoma. In sostanza dal reddito lordo vanno detratti gli oneri deducibili, a tale importo, che costituisce il reddito imponibile, dovrà essere sottratta la differenza tra l’imposta lorda e le detrazioni d’imposta. Quindi, RU = RL - OD - ( IL - DI ) In alcune ipotesi il reddito da lavoro autonomo o da impresa impone una indagine aderente al caso concreto in quanto il reddito utile va determinato in termini di risparmio di spesa. Così, nel caso di decesso del capofamiglia che amministrava di fatto l’impresa familiare, il parametro di riferimento non potrà essere il reddito d’impresa, atteso che l’azienda continuerà a produrre un certo reddito. Occorrerà, di volta in volta, verificare in concreto l’eventuale flessione nella produttività (nel caso in cui l’attività della vittima poteva essere facilmente compensata da quella degli altri familiari) oppure valorizzare l’apporto del congiunto deceduto calcolando la spesa necessaria per gli emolumenti da corrispondere ad un dirigente verosimilmente assunto per evitare la cessazione dell’azienda. In molti casi il reddito iniziale sarà certamente inferiore a quello raggiunto in età matura. L’orientamento tradizionale della giurisprudenza non tiene conto di siffatta considerazione, trattandosi di una valutazione aleatoria, cosicché la mancanza di obiettività nei parametri di riferimento ha, inizialmente, impedito alla Cassazione di valutare profili diversi dal reddito attuale . Negli anni Settanta l’orientamento è mutato prendendo in esame quelle modifiche reddituali legate a fattori sufficientemente certi come l’anzianità di servizio, i benefici connessi alla stipulazione di contratti collettivi nazionali o i miglioramenti di carriera prevedibili . L’orientamento più recente della giurisprudenza è giunto a ritenere che “nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto, che con certezza o con rilevante grado di probabilità avrebbe continuato ad elargire ai superstiti durevoli e costanti sovvenzioni, il giudice deve tener conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti, per gli impiegati, ad eventuali immissioni in ruolo, allo sviluppo della carriera e ad altri consimili eventi che, con prudente apprezzamento e sulla base dell’id quod plerumque accidit si sarebbero verificati” . Con riferimento, invece, al reddito da lavoro autonomo, e particolarmente a quello da libera professione, la giurisprudenza ha escluso la sussistenza di parametri di certezza o rilevante grado di probabilità “potendo i relativi aumenti anche difettare col passare degli anni e, in ogni caso, essendo per la loro aleatorietà solo eventuali, a differenza di quanto avviene nel rapporto di lavoro dipendente” . Nel rapporto tra coniugi, naturalmente, assume rilevanza la circostanza che quel superstite abbia o meno redditi propri. Connesso a tale problema è quello che si pone nel caso in cui il superstite contragga nuove nozze. La questione si prospetta diversamente a secondo che tale evento si verifichi dopo la corresponsione del risarcimento dei danni o prima di tale momento. Mentre non vi sono problemi nel primo caso, poiché la nuova unione coniugale non produrrà effetti sugli importi già liquidati, non poche

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questioni sorgono se le nuove nozze del coniuge superstite intervengano prima che il danno sia stato liquidato giudizialmente, con sentenza o in via stragiudiziale con atto di transizione. Una decisione assai risalente della Cassazione aveva escluso che le seconde nozze della vedova potessero avere rilevanza ai fini del risarcimento spettantele per la morte del primo marito . La maggiore sensibilità della giurisprudenza di merito alle vicende relative alla posizione del superstite, le sue qualità personali ed al reddito dallo stesso prodotto o di cui lo stesso beneficiava ha comportato un progressivo mutamento di indirizzo; la Cassazione ha stabilito che ai fini della liquidazione “se è certamente irrilevante sotto il profilo della compensatio lucri cum damno, non essendo i vantaggi patrimoniali acquisiti dal danneggiato attraverso il successivo matrimonio, conseguenza diretta ed immediata del fatto illecito, deve essere tuttavia valutata dal giudice al fine di accertare in quali effettivi limiti il pregiudizio scaturito da tale illecito sia stato concretamente leso dalle nuove nozze” . Il principio è rimasto sostanzialmente immutato anche nelle decisioni più recenti che, ribadendo la mera occasionalità tra il nuovo matrimonio e la morte del coniuge, hanno comunque posto l’accento sulle seconde nozze quale evento che “deve essere valutato in concreto al fine di accertare in quali effettivi limiti il pregiudizio derivato da fatto illecito sia stato eliminato”. Diversamente è da valutarsi la posizione dei figli, per i quali è da escludersi una minore tutela in conseguenza delle seconde nozze atteso che secondo la giurisprudenza “nessuna rilevanza potranno, comunque, avere in relazione all’ammontare del risarcimento in favore dei figli” . LA STORIA DEL DANNO NON PATRIMONIALE La posizione tradizionale della dottrina precedente al codice civile del 1942 muoveva dal disposto dell’art. 1151 del codice del 1865 e, ancor prima, dall’art. 1382 del codice napoleonico, ancorando il presupposto della responsabilità aquiliana al principio del neminem ledere, fondato su una valutazione soggettiva della condotta dell’agente, nella quale l’ingiustizia del danno coincideva con l’illiceità della condotta. L’attenzione dell’interprete era rivolta esclusivamente alla posizione del danneggiante ed alla sua condotta, con la conseguenza che l’indagine non riguardava l’ingiustizia del danno, ma l’attività dell’uomo che dava origine alla produzione del danno. Al centro della responsabilità aquiliana precodicistica vi era soltanto il concetto di fatto ingiusto (cioè la condotta illecita). Il codice del 1942 ha apportato una rilevante innovazione, prevedendo all’art. 2043 c.c. che “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto …”. Sebbene la norma si riferisca chiaramente al danno ingiusto (e non al fatto ingiusto), diversamente dal testo dell’art. 1151 del c.c. del 1865, la dottrina degli anni quaranta e cinquanta ha continuato a leggere l’art. 2043 c.c. come se il riferimento fosse alla “ingiustizia del fatto”. Soltanto negli anni sessanta Scognamiglio (1960) e Schlesinger (1969) affermano che il fatto è rilevante, non perché è lesivo del principio del neminem ledere, ma perché determina un danno ingiusto. Il fulcro dell’indagine diviene finalmente il concetto di ingiustizia del danno, che viene inquadrato nelle categorie: • Danno non iure e cioè danno prodotto da una condotta non giustificata dall’ordinamento; • Danno contra ius e cioè lesivo di posizioni di diritto soggettivo (inizialmente solo assoluto, sino al 1972, e dopo il noto caso cd Meroni, anche relativo) Negli anni settanta dottrina e giurisprudenza hanno progressivamente allargato l’ambito di risarcibilità, ritenendo tutelabile oltre al diritto assoluto, anche quello relativo, le cd perdite di changes sino ai cd interessi alla integrità del patrimonio. Il limite insuperabile era costituto da uno dei 2 presupposti del concetto di ingiustizia del danno: il carattere contra ius del danno, che lasciava inesorabilmente fuori la risarcibilità degli interessi legittimi.

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Nel 1999 le Sezioni Unite della Cassazione, recependo le nuove spinte comunitarie di tutela di posizioni diverse dal diritto soggettivo (la distinzione interessi legittimi-diritti soggettivi, non esiste nell’ordinamento comunitario) hanno emesso la storica sentenza n. 500 che afferma il principio della irrilevanza del presupposto del “contra ius”e quindi, della lesione di un diritto soggettivo assoluto o relativo. Elementi necessari è sufficienti dopo il 1999 sono divenuti: • l’ingiustizia del danno; • la lesione di una posizione costituzionalmente garantita, eventualmente diversa dall’art. 32 in tema di tutela della salute. In materia di risarcimento del danno alla persona si apre la strada alla tutela costituzionale dei diritti diversi dalla salute attraverso gli strumenti di rango ordinario previsti dal codice civile. Nasce il problema dell’ammissibilità e della tutelabilità del danno esistenziale. L’art. 2043 c.c. ha definitivamente perso il doppio criterio selettivo (non iure e contra ius) per il danno aquiliano risarcibile, basato sul danno ingiusto e sul danno patrimoniale. Residua soltanto il danno ingiusto che non era in grado di filtrare niente, poiché la compromissione di qualsiasi diritto inviolabile costituisce sempre una lesione meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. La conseguenza di questo processo di allargamento dell’area del danno risarcibile alla persona è che la funzione del risarcimento del danno secondo l’art. 2043 c.c., che era tradizionalmente compensativa della diminuzione di un patrimonio, diventa solidaristica e satisfattiva, data la ridotta importanza della patrimonialità dovuta alla configurabilità di un danno aquiliano in re ipsa o dell’ampliamento della nozione di patrimonialità. Infatti, rendendo giuridicamente significativa ogni ipotesi di mancanza di utilità, e classificandola come danno patrimoniale, si amplia la categoria della patrimonialità al punto da farne perdere l’origine storica. L’antecedente logico è rappresentato dall’impossibilità di ragionare nei termini di lesione di un diritto patrimoniale, cui segue un danno patrimoniale, e di lesione di un diritto non patrimoniale, cui segue un danno non patrimoniale. La dottrina iniziava a prendere atto che interpretando tradizionalmente l’art. 2059 c.c., un siffatto ragionamento è inconcludente, “poiché soltanto qualora il diritto non patrimoniale avesse trovato una norma, espressamente ammissiva del danno non patrimoniale, la responsabilità civile avrebbe potuto operare”. E’ necessaria una nuova lettura del rinvio dell’art. 2059 c.c. all’art. 185 c.c. ed a tutte le altre norme che nel corso del tempo presentavano le stesse caratteristiche. Come • l’art. 89 c.p.c., che attribuisce al giudice civile il potere di ordinare la cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive, impiegate in discorsi ed in scritti difensivi, non pertinenti all’oggetto del processo, e di condannare il responsabile al risarcimento del danno, anche non patrimoniale; • l’art. 2, comma 1º, l. 13 aprile 1988, n. 117, il quale prevede che «chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino dalla privazione della libertà personale»; • l’art. 29, ult. comma, l. 31 dicembre 1996, n. 675, il quale stabilisce che «il danno non patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione dell’art. 9» (modalità di raccolta ed indica i requisiti dei dati personali); • l’art. 44, comma 7º, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (t.u. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il quale dispone che «con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale»;

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• l’art. 2 l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), rubricato «diritto all’equa riparazione», secondo cui «chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad un’equa riparazione». IL SUPERAMENTO DELLA CATEGORIA DEL DANNO BIOLOGICO La giurisprudenza di merito, accogliendo le istanze della dottrina più attenta, ha preso atto dell’incapacità delle categorie del danno biologico e di quello morale ad esaurire e tutelare tutte le posizioni soggettive potette da norme di rango costituzionale. L'esigenza era di superare definitivamente l’impostazione che vede il danno biologico come categoria capace di assorbire ogni ipotesi di lesione alla persona, e ciò in quanto, come ribadito dalla Corte Costituzionale, il danno biologico presenta il limite insuperabile della tutelabilità del solo diritto alla salute nel quale, anche con un’interpretazione estensiva, non possono, comunque, rientrare gli altri diritti e libertà previsti dalla Carta Costituzionale. Ancora più angusta appariva, poi, la sfera di operatività dell’art. 2059 c.c. e del danno morale correttamente inteso, quale danno morale soggettivo, privo, in quanto tale, di tutela costituzionale. Dottrina Diversamente dalla giurisprudenza, la dottrina è da tempo in una fase di intensa elaborazione della nozione di danno esistenziale allo scopo di definire una categoria caratterizzata da una propria sistematicità che consenta una selezione dei danni risarcibili e, più in generale, una verifica del sistema risarcitorio. Movendo, infatti, dal presupposto della insufficienza delle categorie tradizionali del danno biologico e di quello morale a tutelare i diritti costituzionali al di fuori dell’art. 32 Cost., essa prospetta diverse soluzioni, accomunate dal riconoscimento di un’autonoma rilevanza alla categoria del danno esistenziale. Altra parte della dottrina, inoltre, non riconosce alla categoria del danno esistenziale alcuna valenza autonoma. 1. Una prima impostazione (che fa capo alla suola Triestina) ritiene risarcibili, a titolo di danno esistenziale, tutti quei pregiudizi provocati da lesioni di diritti costituzionalmente protetti (o qualificati, come danno biologico, attraverso una lettura estensiva della categoria del danno alla salute) ai sensi dell’art. 2043 c.c. “senza che si applichi alcuna limitazione al risarcimento” . Non viene prospettato un allargamento dei confini del danno biologico ma, al contrario, tale figura viene inserita nell’ambito di una categoria più ampia: il danno esistenziale. In questa ottica, permane la tradizionale tripartizione del sistema risarcitorio (danno patrimoniale, morale e biologico), ma la terza voce viene sostituita da quella del danno esistenziale. Pertanto, le tre categorie saranno rappresentate dal danno patrimoniale, dal danno morale e dal danno esistenziale. All’interno di quest’ultima, saranno individuabili le sottocategorie del danno biologico di natura fisica (accertabile attraverso consulenza medica sulla base delle lesioni subite), del danno psichico (come delineato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 372/94) e le altre ipotesi risarcitorie che costituivano la zona intermedia del risarcimento del danno alla persona e delle quali la giurisprudenza di merito in più occasioni si è occupata. Quando la modificazione psichica negativa non discenda da una lesione organica (cd “lesione psichica pura”) è necessario individuare la categoria giuridica alla quale fare riferimento, in particolare tra danno psichico o biologico, danno morale e la recente figura del danno esistenziale. 2. Una seconda impostazione ha autorevolmente evidenziato la difficoltà di una ricostruzione organica che riconduca il danno biologico all’interno del danno esistenziale a causa del carattere prettamente medico-legale delle lesioni che riguardano la prima e mai la seconda categoria. Il

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sostanza, il danno biologico di natura fisica, come pure quello psichico, non potrebbero essere accomunati a quello esistenziale, in quanto solo i primi possono essere oggetto di consulenza medico-legale. Si è ritenuto più corretto, quindi, introdurre una quarta categoria risarcitoria da affiancare a quella del danno biologico per la tutela dei diritti costituzionali diversi da quello alla salute. Ed è proprio all’interno del contesto familiare che il problema del danno esistenziale ha ricevuto maggiore attenzione da parte della dottrina, a causa della difficoltà di rendere compatibile una categoria che ha una matrice ripristinatoria e sanzionatoria, con i rapporti familiari caratterizzati, invece, dalla logica della gratuità e non della corrispettività. Il danno esistenziale è stato definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, perdita non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica . In astratto si differenzia agevolmente dalle tre categorie tradizionali di danno che la Consulta ha delineato in quanto, rispetto al danno biologico, sussiste indipendentemente da una lesione fisica o psichica; rispetto al morale, non consiste in una sofferenza (la quale può rappresentare un’ulteriore conseguenza, ma non si identifica con essa), ma nella rinuncia ad un'attività concreta. Diversamente dal danno patrimoniale prescinde da una riduzione dalla capacità reddituale. Da quanto precede il dato caratterizzante il danno esistenziale sotto il profilo empirico è sostanzialmente un elemento negativo: il danno esistenziale è soprattutto rinuncia, una rinuncia forzosa ad attività che rappresentano fonte di benessere della vita. Il presupposto positivo, invece, è che il pregiudizio non deve essere provocato da una lesione fisica o psichica. Si tratta di concetti che necessariamente si avvicinano a quelli tradizionali del danno biologico e morale, a che consentono di operare alcune puntualizzazioni. Il danno biologico, quale danno all’integrità psico-fisica, va esaminato con riferimento ai 2 aspetti che lo compongono: quello fisico e quello psichico. Il danno biologico fisico consiste in un pregiudizio provocato da lesioni fisiche generalmente accertabili oggettivamente attraverso esami strumentali e consulenza medica (ad esempio, lesioni permanenti agli arti, conseguenza di un sinistro stradale); Il danno biologico psichico è danno da lesioni psichiche, accertabili attraverso una consulenza medica (ad esempio, malattia psichica, accertata attraverso CTU medica, costituente danno biologico da morte iure proprio che interessa il coniuge della vittima primaria di una sinistro stradale e che si atteggia quale incapacità di elaborare l’evento luttuoso); Nell’ambito di tale categoria è possibile esaminare quattro tipologie specifiche: • Danno psichico la lesione psichica provocata da lesione fisica propria (ad esempio, demenza conseguente ad un trauma fisico provocato da un sinistro stradale); • Danno psichico da lesione psichica provocato la lesione fisica altrui (ad esempio, il caso già esaminato di danno biologico da morte iure proprio, nel quale la lesione psichica è conseguenza della lesione fisica subita dalla vittima primaria dell’illecito, che ne ha determinato anche il decesso); • Danno psichico da lesione psichica non prodotta da lesioni, ma che ha determinato comunque lesioni fisiche o psichiche (ad esempio, le ipotesi di somatizzazione di una patologia psichica, che determina conseguenze empiricamente rilevabili in termini di lesione fisica o psichica); • Danno psichico la lesione psichica non prodotta da lesioni e che non si estrinseca in lesioni oggettivamente riscontrabili. Si tratta della categoria del cd danno psichico puro o inorganico, alla quale appartengono, ad esempio, i danni all’integrità familiare, alcune ipotesi di mobbing, il danno da immissioni intollerabili ecc.

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Nella categoria del danno esistenziale quale forzosa rinuncia ad attività che costituiscono fonte di benessere della vita, la giurisprudenza di merito ha fatto rientrare generalmente, oltre ad una serie di ipotesi piuttosto particolari e discutibili , anche fattispecie risarcitorie difficilmente inquadrabili nell’ambito della figura classica del danno biologico: il danno da immissioni acustiche e sgradevoli intollerabili, il danno da mobbing, il danno da nascita del bambino indesiderato o con malformazioni ed il danno da compromissione dell’integrità o dell’unità familiare. E’ evidente che ricorre il rischio reale di una sovrapposizione con le 2 categorie classiche del danno biologico e di quello morale. LE NOVITÀ DELLA CD “CINQUINA” DEL 2003 La Cassazione, con cinque sentenze del maggio 2003 e la Corte Costituzionale, con la decisione n. 233/2003 hanno ampliato il risarcimento dei danni non patrimoniali ai casi non costituenti reato attraverso una interpretazione adeguatrice alla Costituzione dell’art. 2059 c.c. In particolare, Cass. Civ., Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828 affronta tre problematiche: • la definizione di danno esistenziale e la sua tutela che viene ricondotta all’art. 2059 c.c., • la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. nei casi non previsti dalla legge (e cioè diversi dal fatto-reato ex art. 185 c.p. ed altre ipotesi di danno morale risarcibile) • il danno da morte subito dai congiunti quale danno-conseguenza. Iniziamo dai fatti: si trattava di un sinistro stradale sottoposto alla cognizione del Tribunale di Brescia: il dante causa degli attori era deceduto dopo un apprezzabile lasso di tempo (74 giorni) a seguito di incidente stradale. La madre, la moglie, la figlia e i fratelli avevano convenuto davanti al Tribunale di Brescia il responsabile e l’assicuratore. Il Tribunale, con sentenza dell’8.10.1998, aveva affermato la colpa esclusiva del convenuto e condannandolo, in solido con l’assicuratore, al risarcimento del danno morale iure proprio; accolta la domanda per il risarcimento del danno biologico da morte iure hereditatis (in misura molto ridotta) rigettando, invece, la domanda di risarcimento iure hereditatis del danno morale sofferto dalla vittima, e quella di risarcimento del danno biologico patito iure proprio dai congiunti. La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza del 2 gennaio 2001, accoglieva parzialmente l’appello e incrementava la misura del danno biologico subito dalla vittima, richiesto iure successionis dalla erede e riconosceva il danno morale sofferto dalla vittima tra il giorno dell’investimento e quello della morte, e lo liquidava in lire 25.000.000, in favore della unica erede; Inoltre riconosceva la sussistenza, in capo ai congiunti della vittima, del danno biologico iure proprio, sotto il profilo del danno esistenziale, consistente nella permanente alterazione dell’equilibrio del nucleo familiare (sul modello del danno alla serenità familiare) qualificandolo come danno-evento (cioè è in re ipsa la prova del pregiudizio). La Cassazione ha ritenuto corretto il risarcimento del danno subito dai congiunti e diverso da quello morale soggettivo (pretium doloris) ma ha ritenuto errata la sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui ha accolto quella domanda di risarcimento, sotto il profilo esistenziale, nella parte i cui non ritiene necessaria la prova della sussistenza di una situazione patologica e cioè nella parte in cui qualifica quel pregiudizio come danno-evento. L’ammissione a risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella perdita del rapporto parentale (con tale espressione sinteticamente lo designa una ormai cospicua giurisprudenza di merito, che lo inserisce nell’ambito del cosiddetto danno esistenziale ) è condivisa dalla Corte, anche se con alcune precisazioni. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. ("Danni non patrimoniali" secondo cui: "Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge"). All’epoca dell’emanazione del codice civile (1942) l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 del c.p. del 1930.

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Secondo la Cassazione la tradizionale restrittiva lettura dell’art. 2059, in relazione all’art. 185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza) , non può essere ulteriormente condivisa. Vi è un primo importante obiter dictum. In un passaggio della sentenza la Cassazione osserva che, tradizionalmente, la tutela risarcitoria del danno biologico è ricondotta al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost., e non all’art. 2059, quale danno non patrimoniale, e ciò per evitare che il risarcimento del danno biologico (danno non patrimoniale) subisca gli angusti limiti dell’art. 2059 (norma nel cui ambito la sentenza della Corte costituzionale 372/94, ha ricondotto il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria). Ma anche tale orientamento non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di essere rimeditato. Secondo obiter dictum: secondo il S.C. è inutile ritagliare all’interno di una generale categoria delle specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento, in riferimento all’art. 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica. Il primo rilievo è importantissimo: superato (per quanto si dirà) il limite del 2059 c.c. che subordina la risarcibilità alla fattispecie dell’illecito penale (e superato, con altra decisione dello stesso giorno, il principio di irrisarcibilità del danno morale provato sulla base di presunzioni) non ci sono ragioni per costruire una nozione di danno biologico riferita all'art. 2043 c.c. e non alla norma generale in tema di danni non patrimoniali in senso lato: il 2059 c.c. ricostituzionalizzato e sganciato da ogni limite al risarcimento. La questione riguardava la risarcibilità e la tutela del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente nella definitiva perdita del rapporto parentale (con tale espressione sinteticamente lo designa una ormai cospicua giurisprudenza di merito, che lo inserisce nell’ambito del c.d. danno esistenziale ). Come si è detto tale danno riguarda l’incisione di un interesse giuridico: - diverso sia dal bene salute, del quale è titolare, la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l’integrità biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico; - sia dall’interesse all’integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata un’ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo. Nella figura del nuovo danno esistenziale da morte del congiunto (la vecchia ipotesi di danno alla integrità e serenità familiare ex art. 29 Cost) l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito (Cass. S.U. 23.7.1999 n. 500, in Danno e resp., 1999, 965, con note di Carbone, Monateri, Pardolesi, Ponzanelli e Roppo) della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost. Definita la nozione e la classificazione giuridica si passa alla individuazione delle norme relative alla liquidazione, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, questa dovrà avvenire in base a valutazione equitativa (artt. 1226 e 2056 c.c.), tenuto conto: • dell’intensità del vincolo familiare, • della situazione di convivenza, • la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, • le abitudini di vita, • l’età della vittima e • dei singoli superstiti.

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Naturalmente il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, in quanto ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, può essere riconosciuto a favore dei congiunti unitamente a quest’ultimo, senza che possa ravvisarsi una duplicazione di risarcimento. Però il rischio di duplicazioni esiste. Infatti, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, dovrà considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli va riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe concreto il rischio di duplicazione del risarcimento. In altri termini, dovrà il giudice assicurare che sia raggiunto un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento. E’interessante notare sempre in tema di danno esistenziale che l’importante decisione della Corte dei Conti, Sezioni Riunite , di quegli stessi giorni abbia espresso principi assolutamente differenti rispetto a quello delle decisioni della Cassazione Civile. Le SU si occupano del danno all’immagine di una pubblica amministrazione che viene fatto rientrare nella più generale figura del danno esistenziale e diversamente da quanto stabilito da Cass. n. 8828 del 31 maggio 2003, le SU della Corte dei Conti affermano che il danno all’immagine quale danno esistenziale deve essere individuato nell’ambito dei danni non patrimoniali, come danno-evento (e non come danno–conseguenza) e risarcibile ex art. 2043 c.c. e non ex art. 2059 c.c. e può ritenersi provato sulla base di presunzioni semplici. LA SELEZIONE OPERATA DALLA COSTITUZIONALIZZAZIONE In sostanza, la bipolarità del sistema riproposta dalla giurisprudenza del 2003 prevede: • i danni patrimoniali, risarcibili ex art. 2043 c.c. in quanto frutto di lesione ingiusta di un interesse tutelato dall’ordinamento da una parte, • e dall’altra i danni non patrimoniali tutelati dall’art. 2059 c.c. Tali danni sono risarcibili solo se lesivi di diritti inviolabili della persona umana (art. 2 della Costituzione) oppure nel caso in cui riguardino situazioni che siano state lese in occasione di fatti costituenti reato. 1. Dal punto di vista del contenuto, la categoria generale del danno non patrimoniale si compone cioè del pregiudizio ai diritti della persona e del (vecchio) danno morale soggettivo, inteso quale trauma temporaneo derivato dalla lesione (patema d’animo o pretium doloris). La Cassazione ha affermato che anche il danno biologico ha natura non patrimoniale e rientra (rectius, rientrerà) nella più ampia categoria sopra evidenziata. 2. A riguardo le sentenze della c.d. cinquina hanno precisato che il rinvio contenuto nell’art. 2059 c.c. ai casi “determinati dalla legge” ben può essere riferito anche alle previsioni della Costituzione ed in particolare all’art. 2 che, nel riconoscere i diritti inviolabili inerenti alla persona, non aventi natura economica, implicitamente ne esige la tutela costituendo proprio uno di quei casi determinati dalla legge. Legge che, in questo caso, è rappresentata dalla norma costituzionale. 3. Una terza conseguenza della nuova impostazione della Cassazione è il superamento della tendenza a ritenere sufficiente la mera qualificazione esistenziale del danno allo scopo di giustificare il risarcimento (impostazione che riduceva o affievoliva l’onere che grava sul Giudice di esplicitare le argomentazioni poste alla base della liquidazione del danno ). Si afferma, invece, il diverso principio secondo cui il risarcimento da lesione dell’interesse non patrimoniale non costituisce conseguenza automatica: la perdita non patrimoniale dovrà essere provata specificamente, attraverso l’allegazione delle circostanze concrete idonee a far presumere una spesa rilevante e non irrisoria dell’interesse protetto.

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4. L’interpretazione adeguatrice alla costituzione del sistema della responsabilità civile bipolare ha posto un ulteriore problema richiedendo all’interprete di optare: • tra la tesi secondo cui (tutti) i danni non patrimoniali devono ritenersi costituzionalizzati e • quella secondo cui il risarcimento va limitato solo ai diritti fondamentali della persona la cui lesione produca un danno non patrimoniale. Va osservato che la Carta Costituzionale non tutela il “danno” ma protegge interessi e diritti. Così dalla lesione del diritto al libero svolgimento della personalità deriva la pretesa al risarcimento del danno esistenziale. Secondo la prima impostazione, ogni ipotesi di danno di rango costituzionale determina il diritto al risarcimento della lesione indipendentemente dall’interesse coinvolto. Riconoscendo tutela a ogni interesse previsto dalla Costituzione si attribuisce tutela privilegiata a qualsiasi interesse, anche patrimoniale o, comunque non rientrante tra i diritti fondamentali ex art. 2 della Costituzione. Inoltre, si rischia di vanificare il presupposto dell’ingiustizia del danno atteso che, ad esempio, la semplice lesione del diritto allo sviluppo della personalità consente di configurare, di per sé, un danno esistenziale rendendo inutile la prova dell’offesa di un ulteriore interesse giuridicamente rilevante. La Cassazione, al contrario, sembra aver optato per la seconda impostazione. Nella decisione n. 8828 del S.C. e nella sentenza n. 233/03 della Consulta, si rileva che per il risarcimento del danno è necessaria la lesione ingiusta di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona e cioè di un diritto inviolabile della persona non avente natura economica. In sostanza, non si deve trattare solo di interessi di rango costituzionale, ma di diritti che non tollerano aggressioni, né da parte di soggetti pubblici, né di privati: si tratta di diritti inviolabili della persona la cui protezione è posta alla base della stessa democrazia. Sono seguite, tra le più significative, le sentenze della Cassazione civile 19 agosto 2003 n. 12124 e 7 novembre 2003 n. 16716, nonché della Cassazione penale 22 gennaio 2004 n. 2050. Peraltro, soltanto con la sentenza a SS.UU. del 24 marzo 2006 n. 6752 il giudice di legittimità -chiamato a pronunciarsi sul danno subito dal lavoratore per il demansionamento o la dequalificazione, quindi in un caso di illecito contrattuale- ha riconosciuto autonomo rilievo alla figura di danno espressamente qualificato come danno esistenziale, definito come “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare aredittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. La qualificazione in termini di danno esistenziale e la definizione di pregiudizio sul “fare areddituale del soggetto” sono state riprese -in ipotesi, invece, di illecito extracontrattuale- da Cass. Sez. III, 12 giugno 2006 n. 13546, la quale sembra spostare l’attenzione dalla “ingiusta violazione di valori essenziali costituzionalmente tutelati della persona”, che pure richiama, al danno in sé considerato, inteso, secondo quanto sopra, come danno al “fare areddituale del soggetto”, alle sue abitudini di vita ed ai suoi programmi, che, perciò soltanto, assurge al rango di danno risarcibile; sembra, cioè, che la rilevanza costituzionale si sposti dall’evento al danno. Nello stesso senso si sono espresse anche Cass. 19 maggio 2006 n. 11761 e, di recente, Cass. 6 febbraio 2007 n. 2546. A dimostrazione che la questione non è soltanto “nominalistica”, ma comporti una scelta interpretativa in ordine alla selezione dei danni non patrimoniali risarcibili, vanno richiamate, in senso contrario (e più coerente con le sentenze “gemelle” del maggio 2003), Cass. Sez. III, 15 luglio 2005 n. 15022 e Cass. Sez. III, 9 novembre 2006 n. 23918 (del medesimo estensore): entrambe si soffermano sulla tipicità del danno non patrimoniale, nel presupposto che non si possa fare

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riferimento “ad una generica categoria di danno esistenziale”, in quanto, fatti salvi i casi previsti dalla legge, “occorre la lesione di specifici valori della persona umana costituzionalmente garantiti”. L’indirizzo è confermato, tra le più recenti, da Cass. 14 giugno 2007 n. 13953 ed, in parte della motivazione, anche da Cass. 8 ottobre 2007 n. 20987. Se questo è l’approdo attuale dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, le questioni meritevoli di approfondimento e sulle quali si sollecitava il dibattito erano numerose. La Cassazione Sez III civile, con sentenza 25 febbraio 2008, n. 4712 ha investito le Sezioni Unite di una serie di questioni, che possono così sintetizzarsi: 1) Rispetto alla tripartizione delle categorie del danno non patrimoniale operata dalla Corte costituzionale nel 2003, è lecito ed attuale discorrere, a fianco del danno morale soggettivo e del danno biologico, di un danno esistenziale, con esso intendendosi il danno derivante dalla lesione di valori/interessi costituzionalmente garantiti, e consistente nella lesione al fare a-reddituale del soggetto, diverso sia dal danno biologico (cui imprescindibile presupposto resta l'accertamento di una lesione medicalmente accertabile) sia dal danno morale soggettivo (che attiene alla sfera dell'intimo sentire)? 2) I caratteri morfologici del danno "esistenziale" così rettamente inteso consistono nella gravità dell'offesa, del diritto costituzionalmente protetto (come pur postulato da autorevole dottrina), ovvero nella gravità e durevolezza delle conseguenze dannose scaturenti dal comportamento illecito? 3) Va dato seguito alla teoria che distingue tra una presunta "atipicità dell'illecito patrimoniale" rispetto ad una presunta "tipicità del danno non patrimoniale" (Cass. 15022/2005, secondo la quale, come si è già avuto modo di ricordare in precedenza, mentre per il risarcimento del danno patrimoniale, con il solo riferimento al danno ingiusto, la clausola generale e primaria dell'art. 2043 c.c. comporta un'atipicità dell'illecito, eguale principio di atipicità non può essere affermato in tema di danno non patrimoniale risarcibile che sarebbe, dunque, tipico in quanto la struttura dell'art. 2059 c.c. limita il risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge"), o va piuttosto precisato che quello della atipicità dell'illecito - di cui alla Generalklausel dell'art. 2043 - è concetto riferibile all'evento di danno, inteso (secondo la migliore dottrina che si occupa dell'argomento fin dagli anni 60) come lesione di una situazione soggettiva giuridicamente tutelata, e giammai come conseguenza dannosa dell'illecito, sì che il parallelismo con la (pretesa, ma non dimostrata) "tipicità del danno non patrimoniale" parrebbe confondere, anche rispetto a tale ultima fattispecie, il concetto di evento di danno con quello di conseguenza dannosa dell'evento? 4) Deve, ancora, darsi seguito all'orientamento, espresso da Cass. n. 23918 del novembre 2006, secondo il quale il dictum di cui alla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte del precedente mese di marzo doveva intendersi limitato, quanto al riconosciuto danno esistenziale, al solo ambito contrattuale, ovvero affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell'illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano? 5) A quale tavola di valori/interessi costituzionalmente garantita pare corretto riferirsi, oggi, per fondare una legittima richiesta risarcitoria a titolo di danno esistenziale? In particolare, un danno che non abbia riscontro nell'accertamento medico, ma incida tuttavia nella sfera del diritto alla salute inteso in una ben più ampia accezione (come pur postulato e predicato in sede sovranazionale) di "stato di completo benessere psico-fisico" può dirsi o meno risarcibile sotto una autonoma voce di danno esistenziale da lesione del diritto alla salute di tipo non biologico dacché non fondato su lesione medicalmente accertabile? (la questione trova una sua possibile, concreta applicazione, tra le altre, nella vicenda dell'uccisione dell'animale di affezione, di cui sopra si è dato cenno); 6) Quali sono i criteri risarcitori cui ancorare l'eventuale liquidazione di questo tertium genus di danno onde evitare illegittime duplicazioni di poste risarcitorie? Possono all'uopo soccorrere, in

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parte qua (come accade per il danno morale soggettivo) le tabelle utilizzate per la liquidazione del danno biologico, ovvero è necessario provvedere all'elaborazione di nuove ed autonome tabelle? 7) Quid iuris, ancora, in ordine a quella peculiare categoria di danno cd. "tanatologico" {o da morte immediata), la cui risarcibilità è stata costantemente esclusa dalla giurisprudenza tanto costituzionale quanto di legittimità, ma che pare aver ricevuto un primo, espresso riconoscimento, sia pur a livello di mero obiter dictum, con la sentenza n. 15760 del 2006 della III sezione di questa Corte? 8) Quali sono, in concreto, gli oneri probatori e gli oneri di allegazione posti a carico del danneggiato che, in giudizio, invochi il risarcimento del danno esistenziale (il problema si è posto in tutta la sua rilevanza in fattispecie quali quella dell'uccisione di un figlio minore: la relativa domanda risarcitoria è stata, difatti, negata, con riferimento al caso di specie, da Cass 20987/2007, proprio in relazione ad una vicenda di uccisione di una giovanissima figlia, per insufficiente allegazione e prova, da parte dei genitori/attori, della relativa situazione di danno, diversa da quella relativa al danno morale soggettivo e da quella psicofisica di danno biologico). GLI EFFETTI DELLE SENTENZE DELLE SSUU DI SAN MARTINO Le decisioni adottate dalla Cassazione a Sezioni Unite (decisioni nn. 26972-3-4-5 dell’11.11.08) riguardo alla categoria del danno alla persona confermano la nozione di danno biologico, come danno conseguenza la lesione del diritto inviolabile alla salute secondo la definizione contenuta negli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni ponendosi, per il resto, sulla scia dei principi già affermati dalle sentenze della cinquina o sentenze gemelle del 2003 che avevano precisato che all'interno della categoria generale del danno non patrimoniale non era utile specificare le singole figure di danno trattandosi di una esigenza soltanto descrittiva. Le Sezioni Unite del 2008 hanno ritenuto sostanzialmente inadeguata la nozione di danno morale soggettivo temporaneo introdotta dalla Corte costituzionale nel 1986 trattandosi di una categoria non autonoma ma che descrive tra i possibili pregiudizi quello rappresentato dalla sofferenza soggettiva provocata dal reato, in sé considerata. Lo stesso approccio riguarda il concetto di danno esistenziale, che non costituisce una voce autonoma di danno non patrimoniale, mentre sopravvive il riferimento ai pregiudizi esistenziali che rientrano nella nuova grande categoria del danno non patrimoniale che, secondo la definizione della Corte, comprende anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare e, sostanzialmente anche nella sofferenza morale provocata dalla consapevolezza di non poter fare. Questo tipo di pregiudizio esistenziale viene ritenuto risarcibile quale lesione di un interesse giuridicamente protetto sul presupposto del requisito dell’ingiustizia del danno (il presupposto del “non iure” delle SSUU n. 500/99) di cui all'articolo 2043 c.c.. Si tratta di un danno che rientra nell'ambito dell'articolo 2059 e, necessariamente, nella elencazione fornita da tale norma e cioè l'ipotesi di reato, uno degli altri casi determinati in maniera esplicita dalla legge, o ogni lesione di un diritto inviolabile della persona. In questa categoria (diritti inviolabili della persona) che trova una riferimento prioritario nei principi costituzionali, rientra il danno conseguente alla perdita della rapporto parentale trattandosi di pregiudizio che riguarda la esistenza della persona. Pur non parlando di autonoma categoria di danno, le ipotesi di lesione di un diritto inviolabile della persona che trovano una riferimento costituzionale degli articoli 2, 29, in tema di famiglia e 30, costituiscono pregiudizi di tipo esistenziale. Quanto alla sofferenza soggettiva, le SSUU accolgono il riferimento di Cendòn alla “finzione di omogeneità” del danno morale. Secondo tale dottrina, albergano nella nozione comune di danno morale almeno tre categorie diverse: quella tradizionale del dolore da lesione, cioè il danno cd

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transeunte, il pretium doloris; quella del dolore da reato e quella (durevole) del dolore da morte del congiunto. Anche secondo le SSUU, bisogna distinguere la sofferenza in sé considerata, come nel caso di danno provocato da una condotta che non produca anche una lesione (per esempio, nell'ipotesi di diffamazione), dal caso in cui la sofferenza soggettiva costituisca una semplice componente di un più ampio danno non patrimoniale. In questo caso, se vi sono delle menomazioni, quello che rileva sarà il danno biologico secondo la definizione prevista dal Codice delle Assicurazioni con la conseguenza che si determinerebbe una duplicazione di risarcimento per caso di riconoscimento del danno biologico e anche del danno morale, inteso quale componente del pregiudizio più ampio di tipo non patrimoniale, di rilevanza fisiche e psichica. Le Sezioni Unite della Cassazione, naturalmente, non hanno affermato la non risarcibilità delle sofferenze morali, in presenza di un danno biologico, ma hanno richiesto i giudici di merito di astenersi da automatismi tabellari, rilevando che la sofferenza morale è necessariamente una parte di un più complesso pregiudizio non patrimoniale, con la conseguenza che le voci di danno che prima del 2008 venivano definite danno esistenziale e danno morale, trovano già un riconoscimento in altre voci di pregiudizio. In sostanza il danno non patrimoniale derivante dalla consapevolezza di non poter fare (danno esistenziale) e quello derivante dalla sofferenza morale (danno morale) sono anche componenti del danno biologico secondo la definizione del Codice delle Assicurazioni. Se è vero che le sofferenze fisiche e morali connesse al danno biologico vanno liquidate unitamente al danno biologico, ciò non significa anche che il punto percentuale stabilito nelle tabelle dei singoli tribunali per la liquidazione del danno biologico comprenda automaticamente anche tali ulteriori voci di danno. D'altra parte una siffatta impostazione sarebbe irragionevole poiché tutte le tabelle di liquidazione del danno in uso presso gli uffici giudiziari sono precedenti ai principi espressi dalle Sezioni Unite nel 2008. E proprio su questo aspetto le successive decisioni della Cassazione hanno ribadito la residua autonomia della voce di danno del pregiudizio esistenziale e la necessità di individuare parametri tabellari che valutino anche tale profilo. Così, ad esempio, meritano menzione alcune decisioni recentissime della Cassazione che attribuiscono autonomia ontologica, seppure non necessariamente risarcitoria, alla vecchia categoria del danno esistenziale. La Corte ha esaminato il caso del danno subito dalle vittime secondarie dell'illecito che aveva riguardato l'unico figlio da poco maggiorenne (danno riflesso dei congiunti del macroleso). Il dato pacifico risultante dal processo è quello della esistenza di una danno esistenziale rappresentato dallo sconvolgimento della esistenza dei genitori, accertabile in conseguenza della alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell'ambito della vita comune di relazione. Si tratta di un pregiudizio che pur non assumendo il carattere del danno biologico iure proprio da morte, cioè la patologia medicalmente accertabile, si atteggia come alterazione della personalità, tale da indurre la vittima secondaria dell'illecito a scelte di vita diverse, in conseguenza della perdita della rapporto parentale. La Cassazione ha sostanzialmente affermato che tale pregiudizio, che per comodità classificazione possiamo definire danno esistenziale, non necessariamente è assorbito negli aspetti relazionali presi in esame in sede di liquidazione del danno (biologico). Al contrario, secondo la Corte (ma la Cassazione l'anno precedente aveva affermato il principio opposto) occorre verificare se il giudice, in sede di liquidazione, ha concretamente attribuito rilievo al radicale cambiamento di vita del soggetto. Il danno esistenziale o danno da rottura del rapporto parentale, secondo la Cassazione, consiste nei radicali e fondamentali cambiamenti dello stile di vita, cioè nell’adozione di scelte di vita diverse e

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tale profilo richiede una specifica prova, che nel caso di specie non era stata fornita (Cassazione 13 maggio 2011, numero 10527). Lo stesso principio viene ribadito dal medesimo relatore in una decisione successiva (Cassazione, 30 giugno 2011, numero 14402) precisando che nel danno di lesioni gravissime, prossime all'85%, il danno relativo agli aspetti relazionali deve trovare riconoscimento e, nel caso in cui vengano utilizzate le Tabelle di Milano, occorrerà verificare se i parametri recati dalle tabelle tengono effettivamente conto anche di tale danno sotto un profilo dell’alterazione o del cambiamento della personalità del soggetto che si manifesti in uno sconvolgimento dell'esistenza. Principio ribadito anche nella successiva decisione del 12 settembre 2011 n. 18641 che ha chiarito che gli aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale, inteso come danno esistenziale, devono essere ristorati e che è necessario verificare se la tabella utilizzata valuti anche di tali aspetti. In quel caso il giudice di merito prendendo atto di una lesione relazionale eccezionale (danno da responsabilità medica, subito dal minore e determinato nella misura del 100% dal ctu) che aveva investito la vita del minore tetraplegico, aveva utilizzato come criterio equitativa di riferimento quello del danno biologico nella misura dell'80%, con ciò liquidando il pregiudizio esistenziale. Sulla base dei principi affermati dalle SSUU nel 2008 e di queste ultime valutazioni, presso alcuni uffici giudiziari sono stati sottoposti a verifica i criteri posti a fondamento delle tabelle giurisprudenziali. Come si è detto, questo ha riguardato l'Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano, che ha predisposto le nuove tabelle 2011 per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della integrità psicofisica e per la perdita o grave lesione della rapporto parentale (si veda la nota di trasmissione delle Tabelle da parte del Presidente di quel tribunale in data 13.4.11). I giudici di Milano hanno previsto un parametro di liquidazione del danno non patrimoniale medio o standard (nelle Tabelle è definito “minimo”) e un valore massimo per ciascun punto percentuale. Il parametro medio corrisponde ad una lesione che abbia effetti standard, cioè produca una limitazione degli aspetti funzionali, anatomici e relazionali prevedibile e normale. Tale valutazione viene operata dal giudice sulla base, principalmente della consulenza medica, che consente che consentirà di verificare se la lesione abbia inciso sulle attività quotidiane ordinarie, come fatto di vestirsi, camminare, lavarsi, leggere ecc riferendo tali attività all'età e al sesso del soggetto danneggiato. Sulla parte, poi, graverà l'onere di allegare e provare, soprattutto mediante presunzioni, tali conseguenze funzionali e relazionali e di sofferenza soggettiva. Nel caso invece in cui la parte dimostrerà la esistenza di particolari condizioni soggettive del danneggiato e cioè particolari significativi pregiudizi relazionali connessi alla tipologia della lesione o della malattia che abbia prodotto effetti, per esempio fortemente dolorosi o prolungati, in questo caso il giudice potrà operare la personalizzazione utilizzando parametri prossimi al valore massimo per ciascun punto percentuale. L’Osservatorio ha modificato i parametri in due operazioni: la prima è consistita nell’accorpamento dell’ex biologico e morale, nel valore del punto standard; la seconda nell’adeguamento al caso specifico in misura decrescente rispetto alla percentuale invalidante. Per la prima operazione, con riferimento alle micro permanenti, l'Osservatorio di Milano aveva verificato che generalmente il danno morale, in assenza di particolari prove, veniva liquidato nella misura del 25% di quello biologico mentre per le lesioni con invalidità permanente superiore la percentuale cresceva sino al 50% per invalidità superiore al 34%. Sulla base di questi criteri si è stabilito di rivalutare nella misura del 25% il punto percentuale per le micro permanenti e prevedere un aumento percentuale, via via incrementato, dal 26% al 50% per le invalidità superiori al 10%, fino ad 34 punti percentuali con un incremento costante sino al 100% di invalidità. Il valore di

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arrivo di questo procedimento ha costituito il punto tabellare di partenza (quello standard),ma è possibile aumentare ulteriormente tale parametro per personalizzare il danno (e questo costituisce il secondo passaggio). In sostanza il giudice provvede alla liquidazione utilizzando il parametro tabellare, in difetto di una specifica allegazione, mentre nel caso di prova specifica tale valore potrà essere aumentato. Una particolarità del secondo adeguamento risiede nel fatto che l'aumento è previsto in misura minore per le macro permanenti (fino al 50%) e in misura maggiore per le micro permanenti (sino al 75%) risultando nella pratica più frequente che il danno da a sofferenza risulti in proporzione più elevato in conseguenza di lesioni di lieve entità, mentre per le invalidità superiori al 34% le condizioni di vita del soggetto sono generalmente già in buona parte compromesse per cui l'incidenza proporzionale della sofferenza è inferiore. Ragionamento, questo, diametralmente opposto rispetto, ad esempio, alle tabelle di Venezia. Questo tipo di soluzione ha consentito, da un lato di superare le tesi sostenute dalle compagnie di assicurazione, secondo cui dopo le decisioni delle Sezioni Unite il danno morale ha cessato di rappresentare una voce di danno, dall'altro di evitare attività istruttoria complessa, ritenendo sufficiente la prova per presunzioni che interviene, comunque, su una base liquidatoria congrua e comprensiva anche delle soffenze morali. AMBITO DI APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 138 -139 COD.ASS. Il problema che si è posto per le disposizioni del Codice delle Assicurazioni è lo stesso che la giurisprudenza ha affrontato dopo l’introduzione dell'articolo cinque della legge numero 57 del 2001, e cioè se le ipotesi di danno da micro permanente ivi disciplinate possono trovare applicazione anche al di fuori della materia dell’infortunistica stradale, sia per ciò che riguarda la definizione, che per quanto attiene ai parametri di liquidazione. Prima questione: l’art. 139 si applica al di fuori della RCA? In realtà, l’articolo 139 del Codice delle Assicurazioni prevede espressamente che il risarcimento del danno biologico si riferisce ai sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli, mentre nessuna disposizione sul punto riguarda l'articolo 138 che lo precede che si occupa del danno biologico per lesione di non lieve entità. Appare, però, ragionevole ritenere che le disposizioni, inserite nello stesso corpo normativo, si riferiscono allo stesso ambito di applicazione e cioè alla liquidazione del danno biologico conseguente ai sinistri disciplinati dal codice delle assicurazioni. Poiché non sono state ancora approvate le tabelle uniche previste all'articolo 138 che riguardano l'invalidità permanente tra 10 e 100 punti, l'unica disciplina immediatamente applicabile è quella dell'articolo 139 per il danno biologico per lesioni di lieve entità. A causa della sequenza cronologica delle norme in materia il giudice civile è vincolato, per i sinistri successivi al 4 aprile 2001, data di entrata in vigore della legge n. 57 del 2001, ad applicare i criteri di liquidazione previsti originariamente da tale norma (DM 3.7.2003) e successivamente dal Codice delle Assicurazioni. La giurisprudenza di merito è divisa sulla questione: si passa dall’applicazione analogica, a quella equitativa sino alla non applicazione. Vi sono pronunzie secondo le quali il danno da micropermanente descritto dal Codice delle Assicurazioni può trovare applicazione analogica alle fattispecie diverse dall’infortunistica stradale, come al caso di danno da responsabilità medica (Tribunale Modena, 10 maggio 2011); secondo altra impostazione i valori monetari previsti all'articolo 139 non possono applicarsi alle ipotesi nelle quali il Codice delle Assicurazioni non trovi applicazione. Per esempio, è stato affermato che non appare corretto applicare anche per le micropermanenti i valori contenuti nelle tabelle di liquidazione predisposte dalla giurisprudenza, ove tali parametri si discostino, eventualmente in senso migliorativo rispetto alla tabella legale (Corte d’Appello di Milano numero 397 del 2011). Secondo altre decisioni, la tabella normativa costituisce un criterio di equità applicabile anche al di fuori del proprio ambito, ma non per un’estensione diretta della disciplina (per analogia), ma quale parametro congruo ed equo.

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L'altro problema: il 139 include anche il danno morale? La questione è se la tabella normativa prevista dall'articolo 139 prevede anche la liquidazione di quella voce di danno riguardante la sofferenza psichica, cioè la vecchia figura del danno morale soggettivo. Nel caso in cui si dovesse ritenere che la tabella legale non comprenda anche la vecchia categoria del danno morale, si pone l'ulteriore problema di procedere a una liquidazione separata, sostanzialmente disattendendo i principi affermati dalle Sezioni Unite in tema di unitarietà del danno non patrimoniale. In questo caso il giudice dovrebbe liquidare, unitamente ai valori monetari previsti dalla legge, una somma ulteriore per garantire l'integrale risarcimento del danno alla salute (in questo senso Tribunale Milano, n. 2334 del 2009). La questione è stata anche posta all’attenzione della Corte costituzionale poiché il dato letterale dell'articolo 139 non consentirebbe al giudice la possibilità di adeguare la liquidazione del danno alla fattispecie concreta a causa dell’individuazione di un limite invalicabile al risarcimento. La Cassazione si è recentemente espressa (Cass. N. 19816/10) affermando che la tabella normativa non prevede la liquidazione del danno morale ed accogliendo il ricorso. La questione riguardava il precedente articolo 5 della legge n. 57 del 2001, precisando che il legislatore in quell'occasione si è limitato a dettare i criteri di liquidazione del danno biologico, senza escludere che il giudice di merito possa integrare quella liquidazione per risarcire anche le sofferenze morali subite dal danneggiato. Però, sulla stessa questione, Cass. 7.6.2011 n. 12408 ha affermato che quando trova applicazione l'articolo 139 del Codice delle Assicurazioni il danno va liquidato nei termini previsti dalla legge con possibilità, di aumento, in misura non superiore al 20% trattandosi di micro permanenti. Secondo l'opinione della Corte tale norma è imperativa e sarebbe preclusa la possibilità di una liquidazione del danno da sofferenza, anche con aumento dell'importo base in misura superiore al 20%. La sentenza numero 12408 del 2011 sembra affermare il principio secondo cui la liquidazione e soltanto quella prevista all'articolo 139 poiché la tabella normativa non aveva previsto la liquidazione del danno dà sofferenza. Secondo altra impostazione, che trova conferma nella precedente sentenza della Cassazione n. 19816 del 2010 e in una serie di decisione di merito, nel caso di liquidazione del danno ai sensi dell'articolo 139, la sofferenza morale, se sussistente, può essere risarcita appesantendo il punto di risarcimento biologico in relazione alla concreta sofferenza patita e tale modifica in aumento può superare i limiti previsti dall'articolo 138 e 139, che si riferiscono alla diversa personalizzazione dell'aspetto dinamico e relazionale del danno biologico, ma non anche al danno non patrimoniale, inteso come categoria generale (Tribunale Piacenza, 11 ottobre 2010 e altre). Nell'ipotesi in cui invece il danno alla salute e conseguenza di fattispecie non disciplinata dall'articolo 139 troveranno applicazione le tabelle di Milano con la possibilità di determinare il pregiudizio relativo alla sofferenza morale nella misura indicata nelle tabelle. La recente decisione della Corte di Cassazione (2011) sembra contrastare l'orientamento della giurisprudenza di merito che applicava, anche alle fattispecie diverse dal Codice delle Assicurazioni, i parametri della tabella normativa facendo riferimento all’analogia o al criterio equitativo. Così, più di recente e dopo la decisione n. 12408/11, il Tribunale di Macerata (sentenza del 14 giugno 2011) nell'ambito di una materia diversa da quella disciplinata dal Codice delle Assicurazioni, ha applicato in via equitativa l'articolo 139 modificando, però, i parametri di legge con adeguamento personalizzato superiore a quello previsto dalla norma. Il passaggio interessante è quello secondo cui il limite del 20% previsto dalla disposizione riguarda solo la voce del danno

dott. Gabriele Positano – Giudice del Tribunale di Lecce

biologico personalizzato, ma non anche il danno dà sofferenza morale e ciò sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata. In sostanza, il legislatore del 2005 non poteva conoscere l'orientamento delle Sezioni Unite del 2008. Il Tribunale ha utilizzato la motivazione già sperimentata del riferimento ai parametri dell'articolo 139, non come applicazione analogica ma come valore equo del danno non patrimoniale, contestando i principi affermati dalla recente decisione della Cassazione numero 12408 del 2011 nella parte in cui la Corte esclude l’applicazione analogica dell'articolo 139 in considerazione della finalità della legge. Il Codice delle Assicurazioni, in sostanza, secondo la Corte ha ad oggetto il problema della liquidazione del danno biologico al fine del contenimento dei premi assicurativi e per tale ragione, non sarebbe applicabile in via analogica. Al contrario il giudice di merito ha ritenuto non ragionevole tale principio perché determinerebbe un trattamento risarcitorio differenziato al cospetto della medesima lesione all’integrità psicofisica, risultando del tutto irrilevante se la menomazione stata determinata da un veicolo a seguito di incidente stradale o, come nel caso di specie, da colpa medica. Con sentenza del 7 giugno 2011, n. 12408, la Cassazione ha affermato che per le micropermanenti conseguenza di fatti diversi dalla circolazione dei veicoli, il parametro di liquidazione non è quello previsto dalla legge, ma i valori indicati nelle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano. I valori di riferimento di tale Tribunale devono ritenersi equi e cioè in grado di garantire la parità di trattamento e possono essere applicati in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l’entità. La Cassazione ha anche affermato un principio processuale precisando che nel caso in cui il giudice di secondo grado abbia liquidato il danno in base a tabelle diverse da quelle milanesi, tale circostanza non consente, in ogni caso, la ricorribilità in Cassazione per violazione di legge (dove la norma violata è naturalmente l’art. 1226 c.c. in tema di liquidazione equitativa del danno), poiché sarà necessario l'ulteriore presupposto della deduzione della questione in maniera specifica davanti al giudice di merito. Secondo la Cassazione il principio dell'equità non costituisce soltanto la regola del caso concreto, ma anche lo strumento di uguaglianza attraverso il quale si garantisce la parità di trattamento per casi analoghi. Per assicurare l'equità dei risarcimenti, il parametro di valutazione può/deve essere costituito dai valori tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano, da modularsi secondo le circostanze del caso concreto, evidenziando l’intollerabilità e la mancata rispondenza ai criteri di equità delle liquidazioni diverse presso i tribunali nonostante l’identità di lesioni subite. È evidente che la decisione della Cassazione ha sollevato un vespaio di critiche e apprezzamenti. Certamente la Corte ha condiviso l'aggiornamento operato dall'Osservatorio per la giustizia civile di Milano a seguito dei principi enunciati dalle Sezioni Unite modificando non solo la denominazione delle tabelle, che oggi si riferiscono al danno non patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psicofisica, e non più dal danno biologico e che esprimono una vocazione nazionale poiché seguita dalla maggioranza dei tribunali della nazione. La Cassazione ha sostanzialmente affermato che nell'ipotesi di micro permanenti non conseguenti a incidente stradale la tabella di Milano deve trovare applicazione. Dopo la decisione della Corte risulta maggiormente evidente il profilo di possibile incostituzionalità dell'articolo 139. La questione era stata sollevata dal Giudice di Pace di Torino con ordinanza del 26 novembre 2009. La Consulta, con ordinanza numero 157 del 2011 ha dichiarato l’inammissibilità della questione per difetto di prova della rilevanza della questione.

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Il giudice onorario ha riproposto la questione con ordinanza del 21 ottobre 2011 e la Consulta non si è ancora pronunziata. Un’ulteriore e non secondaria conseguenza della sentenza numero 12408 riguarda il contenzioso che potrà confluire in Cassazione. Infatti, la Corte ha precisato che la mancata applicazione della tabella del Tribunale di Milano nel giudizio di appello non comporta automaticamente la possibilità di ricorrere in Cassazione per violazione di legge per il solo fatto che la Corte territoriale abbia liquidato importi inferiori rispetto a quelli milanesi. È richiesto oltre alla prospettata inadeguatezza della liquidazione, anche che la questione sia stata sollevata davanti al giudice di merito. La Cassazione, poi richiede un ulteriore elemento e cioè che la parte, quindi il difensore, abbia allegato materialmente le tabelle di Milano. In sostanza i presupposti per il ricorso in Cassazione divengono:

1. l’inadeguatezza della liquidazione operata dal giudice di merito rispetto alle tabelle di Milano;

2. che la questione sia stata posta in maniera esplicita nel giudizio di merito, 3. che le tabelle di Milano siano state versate in atti.

Registrando il polso della situazione attraverso un'analisi degli interventi sulle ml dei civilisti deve prendersi atto che, la decisione adottata a giugno dalla Cassazione non viene percepita dai magistrati che si occupano di tali problematiche come un mutamento definitivo della Cassazione in tema di uniformità dei criteri di liquidazione e questo al di là dei campanilismi tabellari. D'altra parte nello stesso periodo (giorno) la Corte ha emesso una sentenza che ha affermato un principio differente (Cassazione, 7 giugno 2011, numero 12273) precisando, sulla medesima questione della denunzia di violazione di legge per mancata applicazione delle tabelle di Milano, che il motivo era infondato, rientrando nell'assoluta discrezione del giudice di merito applicare o meno le tabelle in uso presso i singoli distretti di Corte d’Appello distribuiti sul territorio nazionale. PREVISIONI NORMATIVE In data 24 ottobre 2011 la Camera dei Deputati si è pronunziata sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica relativo alla Nuova Tabella delle Menomazioni alla Integrità Psicofisica, comprese fra 10 e 100 punti d’invalidità e del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto, ai sensi dell'articolo 138 del Codice delle Assicurazioni. Il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 3 agosto 2011 aveva approvato (subito dopo l’eco di Cass. n. 12408/11), su proposta del Ministro della Salute, tale schema di DPR. L'entrata in vigore di tale norma avrebbe determinato l'applicazione vincolante per tutti i giudici e, eventualmente (l'articolo 138 non contiene l’indicazione relativa ai sinistri stradali) in ogni contenzioso pendente al momento dell'entrata in vigore del provvedimento, della nuova disciplina, poiché lo schema di decreto non prevedeva una disciplina transitoria. Dall'esame dei parametri emerge un a riduzione media del 40% o 50% della misura del risarcimento del danno alla persona in caso di sinistro stradale rispetto ai parametri previsti dai maggiori uffici giudiziari. In data 17 settembre 2011 l’Organismo Unitario dell'Avvocatura aveva approvato una delibera che richiedeva al Governo di ritirare il provvedimento osservando l’anomala tempestività dell’adozione di tale strumento normativo subito dopo la decisione numero 12408 del 2011 della Corte di Cassazione. Il ministero della salute ha richiesto un parere al Consiglio di Stato il quale in data 17 novembre 2011 ha espresso una serie di rilievi critici allo schema di DPR relativo alla liquidazione delle macro lesioni. Il Consiglio di Stato ha evidenziato che mentre il regolamento, anche nella sua intitolazione, fa espresso riferimento alla disciplina delle macro lesioni in attuazione dell'articolo 138 del Codice

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delle Assicurazioni, nelle tabelle allegate compaiono anche gli importi relativi alle lesioni lievi, cioè quelle da uno a nove punti percentuali, già disciplinate da altro strumento attuativo della diversa disposizione dell'articolo 139. Ciò avrebbe determinato una inammissibile sovrapposizione di poste. Inoltre, secondo il Consiglio di Stato il significativo effetto calmieratore introdotto dalle nuove tabelle, con un abbattimento di circa il 50% del valore precedentemente riconosciuto, risulterebbe in contrasto con l'articolo 138 del Codice delle Assicurazioni che richiede che il criterio risarcitorio cresca in misura più che proporzionale rispetto all'aumento dei punti d’invalidità. Nel caso di mancata applicazione dell'articolo 138 alle lesioni diverse da quelle conseguenti alla circolazione stradale, il macro leso generico, liquidato sulla base delle tabelle giurisprudenziali dei tribunali, beneficerebbe di un risarcimento molto più generoso rispetto al suo sfortunato omologo, coinvolto in un sinistro stradale con un’aspettativa di risarcimento pari alla metà dell'altro danneggiato. La Camera dei Deputati, nella seduta del 24 ottobre 2011, ha impegnato il Governo a disporre in tempi rapidi il ritiro del pacchetto.

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