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La ferrovia degli antichi Sapori

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Itinerario enogastronomico lungo la linea ferroviaria Avellino - Rocchetta Sant'Antonio

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LA FERROVIA DEGLI ANTICHI SAPORI

Con le sue ricchezze storiche, paesaggistiche ed ambientali l’Irpinia rappresenta un patrimoniounico, che vogliamo valorizzare attraverso una serie di interventi mirati: dal potenziamento delleinfrastrutture, all’adeguamento dei servizi turistici, dalla riqualificazione degli insediamentirurali, al rilancio dell’enogastronomia locale, fino a uno sfruttamento più intelligente degliattrattori già presenti.In coordinamento con i partner istituzionali locali, abbiamo, inoltre, avviato alcuni programmidi promozione del territorio e del ricchissimo paniere dei prodotti tipici irpini. È in questo contesto che si inserisce il progetto di rivitalizzazione, a fini turistici e gastronomi-ci, dell’antica tratta ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio. Una ferrovia che attraversa unterritorio straordinario, caratterizzato da secolari tradizioni agroalimentari e bellezze naturali-stiche, unite a un ricco patrimonio storico-artistico che vogliamo riportare alla luce anche gra-zie a questo progetto. Un’iniziativa che permetterebbe di dar vita anche ad azioni di gemellaggio tra l’Irpinia e altriterritori nazionali dalle caratteristiche simili come la Sila, le Crete Senesi o il Trentino. È sui tre assi del paesaggio, della natura e del gusto, dunque, che si gioca la partita del rilancioturistico dell’Irpinia e delle altre zone interne della Campania. Puntando sulla straordinaria offerta di questi territori, e allo stesso tempo potenziandola, riusci-remo a farne ancora di più una delle principali attrattive della nostra regione, meta di un turi-smo alternativo e di qualità.

Andrea CozzolinoAssessore Regionale all’Agricoltura

e alle Attività Produttive

Page 3: La ferrovia degli antichi Sapori

Editore, direttore editoriale e artisticoMariano Grieco

Direttore responsabileDario Coviello

Relazioni esterneErsilia Ambrosino

TestiPatrizia GiordanoSimona Mandato

FotoAlfio GiannottiArchivio AltrastampaArchivio STAPA CePICA di Avellino

Progetto grafico Altrastampa

Si ringrazianoMichele Bianco, Maria Passari,Maurizio Cinque, Raffaela Rizzo,Italo SantangeloconAntonio Ansanelli, Giorgio Franco,Ferdinando Gandolfi, Michele Manzo,Carlo SardoeSTAPA CePICA di Avellino,in particolareLuca Branca, Angelo Di Milia,Gabriele Marano, Alfonso Tartaglia

e inoltreFerrovie dello StatoDirezione Relazioni con i MediaNucleo Operativo Territoriale Campania

AvvertenzaNei testi sono citate unicamente aziendeche hanno aderito al sistemadi certificazione del marchio regionaleSapore di Campania

CAMPANIA FELIX®Direzione, redazione,amministrazione e pubblicità:Postiglione (SA)www.campaniafelixonline.it

Periodico registrato presso il Tribunale di Napoli n. 5281 del 18.2.2002R.O.C. iscrizione n. 4394 anno VIII, n. 24/2006

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© 2006 ALTRASTAMPA Edizioni s.r.l.84026 Postiglione (SA)cell. 338.7133797www.altrastampa.comwww.campaniafelixonline.italtrastampa@libero.itRiproduzione vietata con qualsiasi mezzoCampania Felix è un marchio registrato

StampaGangiano Grafica Napoli

La ferrovia degli antichi saporiItinerario slow nella terra irpina 6

Terra di grandi vini18

I buoni frutti della terra28

L’oro bianco dei pascoli36

Come dai forni antichi46

Montagna VivaProgramma di sviluppo locale per i territori montani della Campania 4

S o m m a r i OS o m m a r i O

Edizione specialeItinerario

enogastronomicolungo la linea ferroviaria

Avellino-Rocchetta Sant’Antonio

In questo numero parliamo di...prodotti tipici irpini

Itinerarioenogastronomico

lungo la linea ferroviariaAvellino-Rocchetta Sant’Antonio

Page 4: La ferrovia degli antichi Sapori

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sostegno dello sviluppo locale dellearee rurali, quali:• l’integrazione tra enti, strutture,risorse e settori produttivi• l’individuazione di temi strategicidi sviluppo• la creazione di partenariati a curadei vari soggetti interessati all’inter-vento comprese le istituzioni locali• la concertazione della programma-zione e degli interventi su base loca-le.Tra gli obiettivi strategici del pro-gramma vi è anche quello di contri-buire ad accrescere l’offerta turisticae gastronomica dei territori montani,esaltando i principali attrattori pre-senti: ambientali, paesaggistici, sto-rici, archeologici e religiosi.Senza dimenticare la valorizzazionedelle produzioni tipiche di montagnae delle altre risorse agricole del ter-ritorio, con un occhio attento alleforme di tutela della biodiversitàlocale ed allo sviluppo dell’utilizza-zione di tecnologie volte alla produ-zione di energia rinnovabile. Le areedove si concentreranno le primeazioni pilota sono: gli Alburni-CaloreSalernitano, il Titerno-Alto Tammaro,il Terminio Cervialto-Alta Irpinia,l’Ufita, il Matese. In ciascuna dellearee si svilupperanno azioni e strate-gie diverse secondo un criterio d’i-deazione delle singole proposte cheterrà conto soprattutto delle preesi-stenze sul territorio che dovrannodar luogo a temi catalizzatori da svi-luppare. La Regione pone solo alcunivincoli in sede di progettazione delleazioni per la propria compartecipa-zione finanziaria. I principali sono:

• il carattere innovativo delle propo-ste• la compartecipazione di soggettied enti territoriali diversi• la prelazione di tematiche di gros-so impatto per lo sviluppo e la pro-mozione del territorio• il coinvolgimento delle impreseaderenti al marchio regionale Saporedi Campania.Le prime azioni pilota già program-mate sono relative ai territori delTerminio Cervialto-Alta Irpinia edegli Alburni-Calore Salernitano. Nella prima area sarà sviluppato unprogetto integrato di turismo ruraleche ha come obiettivo di lungoperiodo la rivitalizzazione dell’anticatratta ferroviaria Avellino-RocchettaSant’Antonio, che potrebbe, oppor-tunamente ristrutturata, diventareelemento attrattore per lo sviluppodi un turismo alternativo per l’interaarea irpina.Il progetto, che si attua di concertocon diversi partner (Trenitalia, GALVerde Irpinia, Provincia di Avellino,Comunità Montane Terminio-Cer-vialto e Alta Irpinia nonché alcunicomuni locali) prevede la realizza-zione di itinerari turistici per cittadi-ni-consumatori presso le localitàservite dalla tratta ferroviaria.Percorsi guidati che partendo dalcaratteristico viaggio in trenino con-durranno i visitatori in antichi centristorici, in botteghe ed osterie tipi-che, in imprese agricole certificate(spesa in fattoria), in antichi casali. Iltema della rivitalizzazione a finituristici di alcune tratte ferroviariepotrà offrire spunti per nuovi pro-

getti anche per le aree interessatedalle linee cosiddette secondarie.Il progetto per gli Alburni, denomi-nato La rivincita della Statale 19,punta alla sperimentazione applica-tiva di un convincente sistema inte-grato di sviluppo locale, al fine dimigliorare l’offerta dei servizi localidi ristorazione, commercio ed acco-glienza turistica in un’area che lacontigua autostrada Salerno-ReggioCalabria ha col tempo declassato emarginalizzato economicamente.La ristrutturazione dell’autostradaA3 che prevederà svincoli più funzio-nali e adatti ad un turismo alternati-vo, costituisce un’occasione imperdi-bile per rivitalizzare le imprese loca-li, sempre che vi sia un convinto sup-porto degli enti territoriali presenti,creando così un processo di integra-zione virtuoso tra servizi, imprese eterritorio.Anche per l’area Titerno-Alto Tam-maro è in via di elaborazione unaproposta progettuale che punta alrecupero dei vecchi casali agricoli,già ristrutturati, con l’obiettivo dioffrire ad un target giovanile di con-sumatori la possibilità di fruire diforme di ristorazione e divertimentoalternative a quelle ormai fortemen-te omologate composte dal binomiopub-discoteca. Il progetto, in parti-colare, sperimenta modelli organiz-zativi e gestionali per le imprese chetroveranno applicazione nel nuovoPSR 2007-2013 (multifunzionalitàdelle imprese e diversificazione pro-duttiva).

*Regione Campania, Settore SIRCA, Napoli

Invertire la tendenza che sta portan-do al declino socio-economico e allospopolamento delle aree interne èuno degli impegni prioritari chel’Amministrazione regionale si è datoper la corrente legislatura.Attraverso i nuovi strumenti dellaprogrammazione integrata, dei fondieuropei e delle politiche di coesionesono già stati posti in essere innu-merevoli interventi nel campo dellosviluppo economico sostenibile. Tra questi, le iniziative che sicura-mente più delle altre potranno forni-re risultati strutturali e di ampioimpatto sociale sono quelle cheattengono alla valorizzazione delleproduzioni tipiche locali e dellevocazioni naturali, soprattutto quel-le che prevedono:• il rafforzamento delle logiche dicooperazione e di integrazione tra leimprese • la gestione sostenibile delle risorse• l’esaltazione a fini turistici delleemergenze ambientali e paesaggisti-che.Anche l’Assessorato Regionale al-l’Agricoltura e alle Attività Produt-tive della Campania ha voluto inve-stire le proprie migliori energie nelcampo dello sviluppo locale integra-to, atteso che proprio per i territorirurali i nuovi strumenti della pro-grammazione hanno conseguito imigliori successi, come hanno dimo-strato il POR 2000-2006 e i vari pro-grammi LEADER che si sono succe-duti nell’ultimo decennio. Nuove altre tipologie e strategie diintervento nel campo dello svilupporurale integrato sono andate affer-

mandosi e nuove modalità organiz-zative sono state recepite, nell’obiet-tivo di avviare percorsi virtuosi checonsentano di poter impiegare cor-rettamente le risorse comunitarie enazionali messe a disposizione.Nel campo della promozione e speri-mentazione di nuovi modelli orga-nizzativi e di nuove strategie, l’As-sessorato, attraverso la strutturaspecialistica del SeSIRCA, ha volutoanticipare i tempi della riforma deglistrumenti di programmazione inte-grata in ambito locale avviandoalcuni progetti speciali, varati conriferimento a specifici territori, fer-mamente convinto della funzionalitàdi tale nuovo tipo di intervento e delruolo fondamentale che anche i ser-vizi di sviluppo agricolo regionalipossono recitare. Costiera dei fiori è stato il primoprogramma che ha impegnato lastruttura regionale in tale campo diattività ed oggi si può dire che abbiaraggiunto livelli assoluti di notorietàe reputazione in tutti i territori lito-ranei della Campania. Anche Terreantiche del nocciolo, che si attua suun ampio territorio connotato dallapresenza caratterizzante di tale col-tura, ha assunto una sua veste defi-nitiva che fonda la sua mission nelporre “a sistema” imprese, istituzio-ni, produzioni agricole, giacimenti dicultura e tradizione rurale. Il programma Prodotti di pregio e svi-luppo dei sistemi locali trova la suaprincipale caratterizzazione nell’averdefinito e varato il sistema di certifi-cazione del marchio regionaleSapore di Campania, già finora

adottato da centinaia di impreseagricole, botteghe ed osterie disse-minate in tutte le aree rurali dellaregione.Nella consapevolezza di doverimmaginare anche un interventospecifico per il territorio montano,l’area cioè che più necessita di inter-venti di sviluppo integrato, si è rite-nuto utile promuovere un nuovomacrocontenitore programmatico,denominato Montagna viva, chenasce appunto da uno slogan chevuole affermare l’assoluta vitalità ditale territorio, in cui sussistonostraordinarie potenzialità ancorainespresse. Il programma è anche larisultanza delle tante sollecitazioniespresse da enti locali, imprese edaltri attori sul territorio per porre inessere azioni a forte contenuto inno-vativo ma ad alto impatto operativoe strategico per conseguire risultatitangibili nel campo della valorizza-zione delle risorse locali di pregio edel marketing territoriale.Al centro è posto il recupero funzio-nale del territorio montano, oggi for-temente minacciato da fenomenicome lo spopolamento e la desertifi-cazione produttiva. Montagna viva non si candida certoa risolvere problematiche strutturali,in una situazione congiunturalecomplessiva peraltro di difficile con-testo, ma può incentivare i soggettipubblici e privati che insistono in taliaree a ricercare modelli di sviluppolocale a forte coesione ed integra-zione. La strategia del programma siispira infatti ad alcuni dei nuoviprincipi dell’intervento regionale a

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Montagna VivaProgramma di sviluppo locale

per i territori montani della Campaniatesto: Michele Bianco* e Italo Santangelo* • foto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

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In alto,Castelfrancivista dal treno.In basso,il lago SanPietro pressoConza dellaCampania.

Sarà per quei terreni fertili, genero-si, che in nessuna stagione dell’annosmettono di dare frutti di ogni colo-re e sapore. Sarà che qui le botti divino sono sempre piene e continua-no a regalare sorrisi con improvviso,profumato “brio”. Oppure, è perquell’inesauribile scorta di aneddotie leggende che ruotano tutti attornoalle viscere infuocate della terra, aisuoi patimenti e capovolgimenti, eche animano ogni cena in buonacompagnia. Ma ciò che rimane di unweekend in Alta Irpinia non è solo

una sequenza di luoghi di straordi-naria bellezza, piuttosto è anche uninsieme di volti, storie, di usanze efatiche quotidiane che si scompon-gono in mille rivoli e ti restituisconodi colpo la suggestione e la ruvidapoesia dei paesi di là dai monti.Immagini dai tratti, a volte, frugali,incisivi, essenziali, i colori intensi, iprofumi pregnanti, che appartengo-no ad un mondo ancora autentico,dalla robusta cultura contadina, incui i gesti dell’uomo sono antichicome la terra che lavora.

Questa è terra di millenni, etruscaprima e greca poi, talmente ricca egravida d’acqua da non lasciareindifferenti neppure i suoi primi abi-tanti: gli Hirpini, i Dauni, i Sanniti,gli Apuli. Un vasto territorio, inca-stonato nella parte nord orientaledella regione, che dalla dorsale delPartenio e il Vallone Matrunolo, siprotende verso est, al confine con laPuglia e la Lucania. Passaggio obbli-gato, un tempo, tra il Tirreno el’Adriatico, percorso da tratturi etratturelli lunghi centinaia di chilo-

metri (quelli per la Capitanata prin-cipalmente, dove andavano a sver-nare le greggi), vecchie vie consola-ri che favorirono gli incontri con ipopoli dei due versanti, in un pae-saggio dalla natura ancora aspra,selvaggia, a volte ritrosa, contesacom’è tra monti, valli e fiumi, super-ba di vigneti ed uliveti, di boschi diquerce e castagni, temibile per legrotte e gli improvvisi calanchi pro-vocati dall’erosione delle acque,battuta da una profonda temperiespirituale che trova le sue “cuspidi”

di pietra in monasteri e santuaridella religiosità popolare, veri e pro-pri gioielli d’architettura d’altritempi.Un angolo di regione dai tanti volti ele innumerevoli sfumature, che sem-bra avere pochi vicini di casa, perquei confini densi, quasi “murati”dall’Alta Valle del Sabato, del Caloreirpino ed i monti Picentini: il Tuoro,il Terminio, il Cervialto, le cimedell’Accellica, il Montagnone diNusco, la piana carsica del Dragone,lo splendido altipiano del Laceno.

Spingendosi più ad oriente, le mas-sicciate di verde di Quercetadell’Incoronata, i boschi di Guardia,Andretta e Castiglione, i cupi riflessibluastri del lago artificiale di Conza,le anse dell’Osento con il gloriosoceleste del lago San Pietro. Infine, adelimitare un confine che è solo unriferimento, un orizzonte, l’Alta Valledell’Ofanto: l’antico Aufidus, navi-gabile in epoca storica al punto darendere possibili porti fluviali comequello dell’antica Compsa, che èqualcosa di più di un sito archeolo-

La ferrovia degli antichi saporiItinerario slow nella terra irpina

testo: Patrizia Giordanofoto: Alfio Giannotti e Archivio Altrastampa

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più preziosi del rosso, corposo e pro-fumato “Taurasi” Docg e che si tro-vano tra l’omonimo comune,Paternopoli, Fontanarosa e Monte-marano, o comunque in tutta quel-l’area di paesi e campagne “protetti”dalle pendici del Terminio. Ma nonsolo, questa è anche la “ferrovia deipresepi”, come raccontano i locali,con quel pizzico di orgoglio di chiappartiene all’osso “duro” dell’Ap-pennino. D’inverno fa buio presto equando le condizioni climaticheavverse isolano queste terre e laneve blocca le strade, il treno diven-ta, in realtà, l’unico mezzo per spo-starsi e quello che si vede dai fine-strini - facile immaginarlo - è unospettacolo unico: il paesaggio inne-vato, i paesini arroccati sulle monta-gne, le luci che sembrano stellefilanti, il fumo che esce dai comi-gnoli delle case. Si coglie tutto ilfascino e la poesia della naturaarcadica, che da queste parti ti ine-bria e ti blandisce con la “dovizia”dei suoi stimoli. Ecco perché il trenoha ispirato, per secoli, poeti, scritto-

ri, cantastorie e letterati, diventandol’inconfondibile protagonista dellanostra storia.Il problema è che la linea Avellino-Rocchetta Sant’Antonio, come tuttequelle a scarso traffico, non ha maiavuto vita facile; a battersi per lasua realizzazione, uno spirito indo-mito della nostra letteratura:Francesco De Sanctis, nativo diMorra, un “gentil” paesotto dell’en-troterra irpino ”dove è bello stare”,come lo definiva lo scrittore al qualegli enti locali hanno dedicato nel2000 l’omonimo “parco letterario”,una delle attrattive del territorio.Il progetto, varato alla fine del 1888da una commissione parlamentarecui faceva parte lo stesso (neodepu-tato) De Sanctis, aveva lo scopo dicollegare tra di loro - attraverso levalli del Sabato, del Calore edell’Ofanto - le province di Avellino,Foggia e Potenza, agevolando così,in mancanza di viabilità interna, iltraffico di viaggiatori e merci. Anchela scelta del capolinea nel foggiano- l’allora Ponte Santa Venere - in unluogo abbastanza isolato (l’odiernaRocchetta dista 14 chilometri dallastazione) fu dettata dalla vicinanzaall’alveo dell’Ofanto per il riforni-mento delle locomotive a vapore.Un’unità geografica ed economica,dunque, costruita non dall’automo-bile e nemmeno dall’autostrada,bensì da una rete di ferro, incardina-ta con una rotaia, ancora oggi, abinario unico non elettrificato e ches’insinua come un serpentello in unodei paesaggi rurali più suggestividella Campania, in cui ogni paese, avolte ogni zona, si caratterizzanoproprio per la tipicità dei prodotti.Veri “giacimenti” del gusto cheintroducono tanto il viaggiatoreoccasionale quanto il buongustaioin una dimensione che è ancheconoscenza artistica e culturale del

gico, è un simbolo: quello dellatenace volontà di un popolo di rima-nere avvinghiato, finché fu possibile,alle proprie radici, al proprio mondo.Insomma, abbiamo davanti un teso-ro immenso e nemmeno lo sappia-mo, in cui la bellezza ha incontratola storia, lasciandosi dietro i segniindelebili del suo passaggio tra areenaturalistiche, ambientali e monu-mentali dal fascino insospettato, traantichi borghi e paesi che respiranoancora di memorie, di gesti e ritua-lità di vita agreste. Questa è l’AltaIrpinia, uno spazio aperto ai pensie-ri, fuori del tempo “ordinario”, unluogo dove si può ancora allenare lacapacità di stupirsi, “esercizio” cosìraro ai nostri tempi. Come entrare inuna “cattedrale”, che non ha egualiper l’intricato e misterioso disegno amosaico del suo pavimento, che vaassaporato a tutto tondo, a ritmolento, consumando suole di scarpe emagari, qualche goccia di sudore inpiù, nel rispetto della natura e dellagente, fiera e onesta, come pochevolte se ne incontrano.

Del resto Giustino Fortunato “tuttal’Irpinia girò pedestre”, forte dellasua iscrizione all’appena fondata -era il 1872 - sezione di Napoli delClub Alpino Italiano. Forse è così, apiedi o in bicicletta, sebbene all’au-to nessuno rinuncia. Eppure l’idealeper un weekend o per un’eco-vacan-za, sarebbe quello di voltare le spal-le alle consuetudini, lasciare auto-strade e percorsi consueti e adope-rare un “mezzo” antico, quanto lan-ciato verso il futuro: il treno, chepuò ridarci perlomeno il senso e lalentezza del tragitto (anche sugge-stivo, visto che arriva là dove a voltele auto non possono).In Alta Irpinia, non c’è nulla di piùleggendario ed insolito della storicaferrovia Avellino-Rocchetta Sant’-Antonio (un tempo, Ponte SantaVenere, primitiva denominazione diquesta stazioncina del foggiano),una delle più antiche linee ferrovia-rie della Campania, per conoscere ivolti di questa terra e la storia deisuoi borghi compresi negli anelliferroviari delle stazioni di Avellino,

Luogosano-San Mango sul Calore,Castelfranci, Montemarano, CassanoIrpino, Montella, Bagnoli Irpino,Nusco, Lioni, Morra De Sanctis-Teora, Conza-Andretta–Cairano, Ca-litri-Pescopagano, Rapone-Ruvo-San Fele, infine Rocchetta Sant’-Antonio-Lacedonia. Un percorso lungo circa 118 chilo-metri, che si macina in due ore emezza, tra civiltà rurale e raffinatez-ze d’arte. Sin dalla sua costruzione,alla fine dell’Ottocento, la ferroviaha svolto un ruolo primario nei col-legamenti tra le zone più internedell’Irpinia. Almeno sino a quando iltrasporto su gomma non ha preso ilsopravvento, riducendo a “rami sec-chi” molte linee minori delMeridione. Già il nome è una leg-genda. Venne, infatti, soprannomi-nata la “ferrovia del vino”: ci tra-sportavano grosse cisterne piene diquell’oro biondo e rosso che oggisboccia nei calici di mezzo mondo esegna la fortuna di una regione. Lalinea ferroviaria s’inoltra in quellacampagna dove crescono i vitigni

In questa pagina.Ponte Principe di

Piemonte tra Lapio e

Taurasi.Pagina successiva.

In alto,paesaggio presso

Bagnoli Irpino.Al centro,

ritrattodi FrancescoDe Sanctis.

In basso,il fiume Calore.

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dalla stazione di Avellino: vi consi-gliamo di dedicare un giorno allavisita di questa cittadina che negliultimi anni ha riacquistato il suoantico splendore di borgo medievale.Accoccolata in una splendida concaverde, bagnata da due affluenti delSabato e protetta dalle cime delPartenio, è erede di quell’anticaAbellinum romana (II sec. a.C.–I sec.d.C.), che sorge a circa tre chilome-tri dall’abitato. L’omaggio alla cittàvi ripagherà con alcune “chicche”d’arte come il palazzo della Dogana,con facciata barocca di CosimoFanzago, molto attivo nel capoluogoirpino per volontà dei Caracciolo,autore anche dell’obelisco, con lastatua in bronzo di Carlo IId’Asburgo, bambino di appena setteanni. La suggestiva torre dell’orolo-gio, eseguita nel 1647, probabil-mente su disegno del Fanzago, daGiovan Battista Nauclerio e che unavolta suonava a martello in caso dipericolo ed era visibile da ognipunto della città. Altre testimonian-ze d’epoca sono il carcere borbonico,a pianta stellare, voluto daFerdinando II nel 1824 e trasforma-to oggi in spazio espositivo dellaPinacoteca Provinciale; i ruderi delcastello medievale costruito daiLongobardi tra il IX ed il X secolo,come baluardo difensivo della città;la cattedrale dell’Assunta, risalenteal XII secolo, che si staglia maestosanel cuore del centro storico. A crocelatina e tre navate, conserva all’in-terno numerose opere d’arte a parti-re da un coro ligneo della secondametà del Cinquecento, realizzato daClemente Bonavita, appartenente aquella cerchia di maestri intagliato-ri che produrranno in Irpinia - a par-tire dal XVI al XIX secolo - manufat-ti artistici di grande pregio. Elegantela torre campanaria, cui si accede daun cortile interno, il cui basamento ècomposto dal riutilizzo di marmiprovenienti dall’antica Abellinum.Sotto la cattedrale, la chiesetta, diimpianto romanico, di Santa Mariadei Sette Dolori ricavata nelSeicento da modifiche della primiti-va cripta, che è quanto rimane dellafabbrica del XII secolo. Meritano diessere visitate anche la chiesa-con-vento dei Cappuccini che vanta unaDeposizione dipinta da SilvestroBuono alla metà del Cinquecento, lachiesa di San Generoso, delle Oblatee quella della Santissima Trinità incui operò nel 1672 Angelo Solimena,allievo di Francesco Guarino, il piùgrande artista dell’Irpinia. Una visitaal Museo Irpino nel quale sono con-servati reperti preistorici, romani emedievali dell’intera provincia con-cluderà l’itinerario avellinese.

territorio. Tra i primi tratti ferroviariad essere messi in esercizio alla finedell’Ottocento, ci fu quello, adesempio, che collega i comuni diCastelfranci e Montemarano, giàallora rinomate località per la pro-duzione di vino pregiato e in segui-to, i comuni di Montella, Nusco,Bagnoli Irpino e Lioni, dove il com-mercio di castagne, nocciole elegname - assieme al tartufo nero,sempre di Montella ed i funghi por-cini di Bagnoli - sono tuttora unodei fattori economici trainanti del-l’intera area. Fu solo nell’ottobre del1895 che la linea venne inauguratain tutto il suo tragitto; una decina dianni dopo, passò sotto l’egida delleFerrovie dello Stato. Una grandeimpresa, per una piccola “geografia”fatta di binari, di stazioni - molteancora sprofondate nel cuore dellacampagna - di gallerie e ponti, il cuinumero è impressionante. Ben tren-ta viadotti, lunghi più di duemilametri e una ventina di gallerie, maipiù brevi di un chilometro. Mal’Irpinia è così, ricca e mutevole,aspra e accogliente, intensa e profu-mata, proprio come il buon vino cheproduce. E nel rincorrere la storialungo una strada ferrata, fu neglianni Trenta che sulla linea entraronoin servizio le prime “littorine”, lemitiche Aln56, che funzionavano adiesel, la prima vera soluzione italia-na per gestire economicamente lelinee minori a scarso traffico. Belledavvero le littorine, belle da guarda-re, tanto da entrare a pieno titolonel paesaggio nazionale come la

Topolino e la Cinquecento. Solodurante la guerra, per supplire allacarenza di carburante e far frontealle sanzioni economiche, si tornòalla trazione a vapore.Il declino dell’Avellino-RocchettaSant’Antonio cominciò alla finedegli anni Settanta con la costruzio-ne della diga artificiale di Conzadella Campania che sostituì il trattotortuoso lungo il fiume Ofanto - chetoccava i paesini di Aquilonia eMonteverde - con un percorso piùveloce e agevole, posizionato più amonte, verso il Potentino, tra Ruvodel Monte e San Fele. Nell’occasionevenne inaugurata anche la nuovastazione ferroviaria di Conza-Andretta-Cairano (in sostituzionedella vecchia stazione di Conza-Andretta e della fermata di Cairanondr). Purtroppo già allora i viaggia-tori scarseggiavano - avanzava ilglobale e intanto si prosciugavano lelinee minori - così il numero di trenicominciò a diminuire (sino alla finedegli anni Settanta le corse eranoben 9 in ciascun senso). A fare ilresto ci pensò il sisma dell’Ottanta,che causò danni ingenti a tantissimestazioni; un decennio dopo, lacostruzione della statale Ofantinafavorì ulteriormente i collegamentitra le diverse province.In principio le stazioni o fermate deltreno erano 31 più i due capolinea,oggi la ferrovia è attiva solo neigiorni feriali e viene chiusa nelperiodo estivo. Riprende a pienoritmo il 4 settembre con l’aperturadelle scuole e va avanti sino al 29

giugno. I treni sono ridotti a tre, ilprimo diretto a RocchettaSant’Antonio è quello delle ore 6.42con arrivo alle ore 9.14, gli altri duealle ore 12.05 e alle ore 16.06 silimitano al tratto Avellino-Lioni.Da più parti, dalle Amministrazionilocali e regionali alle associazioniambientaliste, se ne auspica datempo un rilancio; si parla anchedell’ipotesi di una destinazioned’uso di questo treno come “ferroviaturistica”, magari affidata ad asso-ciazioni ambientaliste, sull’esempiodi quanto fatto per la Ferrovia di Vald’Orcia, ai piedi del monte Amiata,in Toscana, riaperta due anni fa,dopo un decennio di chiusura, ed ilcui servizio è garantito da littorined’epoca appositamente restauratecon volontari che illustrano leattrattive del territorio. Insomma leidee ci sono e anche i progetti.Nel frattempo pendolari e turisti siaccontentano di ciò che ancoraruota attorno al mito e alla leggen-da dell’Avellino-Rocchetta Sant’An-tonio in attesa che qualcuno dalassù si accorga del problema.Del resto è troppo bello il luogo,troppo grande il patrimonio archeo-logico e culturale dell’Alta Irpiniache sarebbe un torto alla storia ealle umane “gesta” non poterlovedere e conoscere riutilizzandoproprio ferrovie cosiddette “minori”che percorrono zone non urbanizza-te, rivestendo per questo un impor-tante ruolo di recupero naturalisticoed ambientale. La partenza in treno è d’obbligo

In questa pagina.Ponte

ottocentesconei pressi diSalza Irpina.

Pagina successiva.Dall’alto,

il trenonella stazione

di Avellino,palazzo de

Conciliis,la fontana

di Bellerofonte,la statua di

Carlo II,l’ara Zingarelli

e la statuadi Niobe

nel Museo Irpinodi Avellino.

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E adesso in carrozza! La linea ferro-viaria (ci informano) parte dalla sta-zione di Avellino ad una quota chesupera i trecento metri sul livello delmare, ma l’altitudine cambierà pertutto il tragitto per via dei diversivalichi che si dovranno attraversare.Il locomotore, un Aln688 1800, inservizio dagli anni Ottanta, si inoltranella dolce e struggente campagnaavellinese, avvolta dai dorati coloridella terra, disseminata di borghi,frazioni e masserie che non hanno

perso la loro vocazione agricola, mache si caratterizzano sempre per unadimora, una chiesa, un palazzo dacui si dipartono storie antiche edincredibili.Ad appena una decina di chilometridal capoluogo, il treno supera laprima stazione, Salza Irpina; la fer-mata è stata soppressa un paio dianni fa, forse per la scarsa frequen-tazione. Il borgo, appollaiato su uncolle degradante verso la vallataattraversata dal Salzola, sorse attor-

no ad un casino di campagna, cir-condato da torri, costruito, pare, daTroiano Caracciolo che l’usava per lacaccia. Nel centro storico, ci sonodiversi palazzi gentilizi, come palaz-zo Capozzi, posto all’ingresso delpaese, un bell’esempio di casafortecon due cortili e due torri angolarida datare al XIV secolo, riattatonell’Ottocento.Interessante il polittico (attribuito alTolentino) conservato nella chieset-ta cinquecentesca di San Sebastia-no, che affianca altre tavole coeve discuola campana.A proposito di memorie antiche, adun balzo di chilometri da qui, c’è ilsuggestivo borgo di San PotitoUltra. Sino al Medioevo il nome era“Radicozzo”, poco più di un casaledella vicina Candida. Dopo l’Unità diItalia, nel 1860, venne aggiunto aSan Potito (patrono del paese), quel“Ultra”, tanto per ricordare l’appar-tenenza al Principato Ulteriore (o“Ultra”). Incantevoli le stradine delcentro storico, con i portali in pietra,i balconcini in ferro battuto, gli arti-stici porticati con il solaio a “travi”,il pittoresco lavatoio pubblico. Quic’è il trionfo della pietra, sopravvis-suta al cemento e che tiene permano il visitatore accompagnandolosino alla contrada Ramiera, dove siconserva intatto il segreto dellalavorazione del rame, un’arte tantoantica quanto ormai perduta. Nellebotteghe, i mastri “ramari” lavoranoancora seduti al “muiale” con “maz-

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zole” e martelli - alcuni ancora inlegno di ulivo e fabbricati in proprio- ereditati da generazioni, battendo,riparando, creando, sia pur per pochicommittenti, pentole, pentoloni,come l’antica “caurara” per la pro-duzione del formaggio.Il treno ha superato anche la stazio-ne di Parolise, la fermata è stataabolita negli anni Sessanta, a causadella sua infelice posizione che l’haresa poco frequentata. È situata inuna vallata fra due declivi: da unlato, c’è il comune di Candida, dal-l’altro, appunto, Parolise (dal termi-ne napoletano ”padula”, fonetica-mente ”parula”, cioè campagna col-tivata). Il borgo – che fu feudo deiBerio e dei Filangieri - è diventatouno dei quartieri residenziali dellavicina Avellino, immerso in una foltavegetazione dove le vigne cresconodappertutto: nei campi, negli ortidelle case, ai lati delle strade. E inautunno ogni famiglia fa la suabuona vendemmia. Battendo quindii vigneti della zona e con un po’ difortuna, potete portarvi a casa sem-pre un gran vino, di buon invecchia-mento. Da Parolise, la linea cominciaa salire lungo la dorsale del Partenio,superando un primo valico con lagalleria di Montefalcione, la piùlunga di tutte, quasi due chilometrie mezzo. Il paesaggio che si vedeuscendo dal tunnel è un susseguirsidi colline prima dolci poi più aspre,in alto, boschi di castagni, querce eginepri che si alternano a coltivazio-

ni di ulivi, viti ed alberi da frutto.Ed ecco la stazione di Montefal-cione, ubicata fuori dal paesino,accoccolato a più di 500 metri dialtezza su una collina-spartiacquetra il fiume Sabato e Calore. La suaforma a falce (volgarmente ”faucio-ne”) giustifica il nome. Sino all’annoscorso la fermata risultava attiva, daquest’anno, cancellata.Eppure Montefalcione merita, per lesue antiche tradizioni popolari e leraffinatezze d’arte. Famosa la festadi metà Quaresima, “sega la vec-chia”, un fantoccio esposto e fatto apezzi dinanzi alle porte delle case.L’inverno è finito, si attende la pri-mavera per la fioritura. Grande festaanche in onore del patronoSant’Antonio (nell’ultima domenicadi agosto) in una fantasmagoria difuochi pirotecnici, esportati, untempo, anche in Canada dove c’èuna numerosa comunità di monte-falcionesi. Il gioiello del paese è ilsantuario di Santa Maria del Loreto,fondato alla metà del Cinquecentodal marchese Giovanni AntonioPoderico e la moglie Lucrezia: all’in-terno, una sorta di piccolo museodel XVII e XVIII secolo: dalle colonnemonolitiche, al fonte battesimale inmarmo, al bel Sepolcro di Lucrezia diPoderico opera del lombardoTommaso Malvito. Accanto al san-tuario, l’annesso convento deiVerginiani: interessante il chiostrocon un pozzo del 1741 ed il refetto-rio con un seggio abbaziale scolpito

alla metà del Settecento.Il nostro trenino (la lunghezza mas-sima del convoglio su questo percor-so è di circa 270 metri per ragioni disicurezza agli incroci) macina chilo-metri attraverso un paesaggio oraricco, ora austero, ora di selvaggia enaturale bellezza. Dietro massicciatedi verdi faggete, di secolari boschi diquerce e castagni, fanno capolino lecime dei monti del Partenio (ilmonte sacro della greca Partenope,

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In alto, vedutadi Sorbo Serpico

e Salza Irpina.In basso,

centro storicodi Parolise.

In alto a sinistra,centro storicodi Parolise.A destra,santuario di SantaMaria del Loretoa Montefalcione.Sotto,veduta diMontefalcione.In basso,santuariodi Sant’Antonioa Montefalcione.

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squadrata. All’interno, un bel pozzorinascimentale decorato da stemmie scudi. Infine lo sfarzoso salonedelle feste con affreschi cinquecen-teschi. Ma il cuore di Lapio è altro-ve, nella chiesa della Madonna dellaNeve, gioiello d’architettura d’altritempi, che custodisce 85 statue dicartapesta di fine Settecento agrandezza naturale, raffiguranti “Imisteri del Nuovo Testamento” e chevanno in scena, ogni anno, il VenerdìSanto, nel solco di una tradizioneultracentenaria, lungo le vie delpaese. Una sorta di “teatro” a cieloaperto, con tanti che seguono il cor-teo vestiti del saio o dell’abito dellaMadonna. Una mappa per immaginisul tema arcaico della morte e dellaresurrezione. All’uscita dalla stazio-ne, ecco che il treno dopo pochi chi-lometri attraversa uno dei ponti piùbelli e lunghi della linea Avellino-Rocchetta Sant’Antonio: il ponteLapio detto anche ponte “Principe”per la sua maestosità; il viadotto,lungo circa 300 metri, ha una trava-tura - raccontano gli esperti - chepoggia su due arcate così che ogniluce è di circa 95 metri. Sospesocome d’incanto sulle sponde delCalore - la vallata sotto è a circa 40metri - fu realizzato nel 1893 e rap-presenta tuttora (nonostante i dannisubiti durante la seconda guerramondiale), una delle opere più avve-niristiche ed importanti dell’inge-gneria civile dell’epoca. Venne inau-gurato in coincidenza con l’apertura

Lapio,i riti dellaSettimanaSanta.Paginaprecedente.Montemiletto,le “Zeze”di carnevale,il castello eil centro storico.

“... un vecchio nido della gente Osca”come raccontava Giustino Fortu-nato), considerato da sempre “portadi accesso” a molti paesi della pro-vincia.Passiamo davanti anche alla stazio-ne di Montemiletto, posta fuori delpaese, nella vallata sottostante. Lafermata, è stata cancellata neldicembre scorso: scarsi i viaggiatoried il traffico merci. Un vero peccatoperché Montemiletto (dal latinomons militum, monte dei soldati chefa pensare ad un luogo di difesa), èuno dei cento e più paesi dove sifesteggiano i tradizionali carnevaliirpini. Eventi collettivi, ritualizzati,rimasti antichi. Sono i carnevalidelle “Zeze”, che rappresentano lafigura di un anno passato che si rin-nova, dei “pali d’amore”, delle“maschierate”, delle tarantelle for-sennate e dei balli ad intreccio; della“glorificazione” ancora carica disimboli arcaici di un grasso e grossocarnevale che da tempo immemora-bile si tramanda in questo paese nelperiodo che precede la Quaresima.Animando le stradine acciottolatedel borgo antico, con edifici dagliartistici portali ed esplodendo in unapassione corale, di schietta allegria,nell’ampia piazza, dove, a dominiodelle valli del Sabato e del Calore,c’è il poderoso castello dei principidi Tocco. Rimaneggiato in epocatardo-rinascimentale, il castello,ormai palazzo residenziale, è unadelle attrattive turistiche del paeseassieme alla chiesetta di Sant’Anna(voluta dai di Tocco nel XVII), dallavolta incannucciata ed i preziosiaffreschi, l’altare marmoreo delSettecento di Pietro Ghetti, la can-toria lignea ad intarsio ed il portalecon lo stemma dell’illustre casata.Dalla dorsale del Partenio, la lineaferroviaria inizia a scendere, quicambia l’altitudine, siamo in direzio-ne di Lapio (in realtà la stazione hasempre svolto un ruolo di semplicefermata del treno, per giunta sop-pressa nel 1987), ubicata fuori dalpaese, nella vallata sottostante,attraversata dal Calore, dovesopravvivono ancora i ruderi di unantico ponte romano detto del“Diavolo” o di “Annibale”, attestantile origini remote del paesino. Feudodei Filangieri sin dall’epoca norman-na. Dell’illustre casata, il castello,trasformato nel corso del Cinque-cento, come molte altre difese mili-tari della zona, in residenza signori-le. Dell’originaria struttura, riman-gono l’alta torre quadrangolare, ilmonumentale portale, sormontatodallo stemma in marmo della casa-ta, che introduce in una corte lastri-cata con originali lastroni di pietra

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palazzo de Angelis, palazzo Capano,palazzo Caracciolo e palazzo de’Indaco.La seconda tappa è al castellomedievale, di origine longobarda.Poderosa fortezza, trasformata nelCinquecento in un bel palazzosignorile, con annessa cappella instile barocco. Elementi architettoni-ci ed opere d’arte ne fanno un veromuseo, nonché prossima sededell’Enoteca Regionale dei vinid’Irpinia. Un premio al paese maanche a questa provincia che hainvestito negli ultimi anni in un’a-gricoltura di grande ricchezza equalità.Se amate il trekking e l’aria pura, viconsigliamo le vicine sorgenti natu-rali di “Fontana Lardo” e “Giardino”ricche di grotte ed anfratti e l’areafluviale del Calore dove faggi, lecci,olmi e castagni accompagnano ilcammino. Il panorama vi ripagheràdella fatica.

Continua a pag. 20

del primo tratto ferroviario fraAvellino e Paternopoli.Il treno continua la sua discesa sinoai 243 metri sul livello del mare.L’aria già spuma di buon vino, siamonei pressi di Taurasi: la fermata instazione è stata annullata una deci-na di anni fa in conseguenza deidanni del sisma dell’Ottanta.L’occhio se la gode lo stesso con gliimmensi vigneti destinati a diventa-re il prezioso e profumato “Taurasi”,uno dei rossi più blasonati delmondo. Antichissime le origini dellacittadina, pare che si tratti di quella“Taurasia” sannitica messa a ferro efuoco dai Romani e sorta su unluogo abitato sin dalla preistoria.Due le tappe per la visita del paese:il borgo medievale che si raggiungeattraverso porta Maggiore da cui sidiramano stradette lastricate, connumerosi edifici privati, seicenteschie settecenteschi, con gli artisticiportali in pietra. Da non perdere

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In alto, vigneto aTaurasi.

In basso,il castello di

Taurasi.Pagina successiva.Cantine a Taurasi.

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Le produzioni vinicole hanno finora riservato all’Irpinia, senzaombra di dubbio, il maggior prestigio in campo enogastronomi-co. Alcuni viticoltori hanno avuto la grande capacità di valoriz-zare appieno i vitigni autoctoni, senza indugiare sull’opportuni-tà di fare investimenti anche consistenti per disporre delle tec-nologie più avanzate. In qualche decina d’anni i produttori divini irpini sono riusciti a raggiungere la ragguardevole cifra ditre Docg e una Doc, punto di vanto non solo per la provincia, maper la regione tutta.I maggiori enologi italiani hanno sottoposto queste uve dallegrandi potenzialità a diverse ricerche, dando il loro contributoal perfezionamento delle tecniche di vinificazione, e fondamen-tale è stato l’apporto della Scuola Enologica di Avellino, istitui-ta da Francesco De Sanctis alla fine dell’Ottocento. Ulterioreimpulso daranno all’enologia irpina, e più generalmente a quel-la campana, il corso di laurea in viticoltura ed enologia diAvellino e il centro di ricerca in vitienologia di Fontanarosa.

Presto partirà anche ilprogetto dell’EnotecaRegionale, che avrà ilcompito di promuovere iprodotti enologici irpinie campani.Partendo da Avellino,attraversiamo un terri-torio baciato dal dioBacco, dove dorati aciniovali luccicano dai filaridei vigneti, in un’areache si estende da Forinoe Monteforte Irpino finoalla propaggine di Lapio:collante di questo terri-torio è il Fiano di Avel-lino, un vino che per lesue eccellenti qualitàgià dal 1978 era una

Doc, e che nel 2003 ha ottenuto il più prestigioso dei riconosci-menti, la Denominazione d’Origine Controllata e Garantita.L’uva di cui si compone all’85% è l’Apiana: secondo Plinio eColumella il suo nome antico derivava dal fatto che fosse facil-

mente preda delle api; né sono riusciti gli ampelografi d’epochepiù moderne a trovare un accordo sulla vera genesi del nome. Tutti però, sono sempre stati concordi nel ritenere che da que-sto vitigno si ricava un vino “dilicato e ricco di aroma”. Mela,banana, tiglio, rosa, menta, nocciola, mandorla, miele sono tra iprofumi che uno studio ha di recente riconosciuto al Fiano: inrealtà questo vino può averne molti di più, dipende dal tempodi invecchiamento. Ebbene sì, un bianco che migliora man manoche passa il tempo, dote generalmente riservata ai rossi, piace-volissima eccezione che conferma la regola. I migliori enologiritengono inoltre, che il Fiano di Avellino abbia la rara capacitàdi accostarsi alle ostriche, proprio perché è un vino elegante edalla singolare personalità.Ma la qualità, si sa, non è mai a buon mercato: quest’uva neces-sita per vinificare di una tecnica delicata e difficile, una fer-mentazione lenta, scevra da alterazioni termiche che ne com-prometterebbero il complesso equilibrio aromatico. Mai come inquesto caso, il pro-duttore di Fiano deveriservare al suo vino,come ad un figlio,attenzione e amore-voli cure.Siamo solo alla pri-ma perla enologicadel trittico irpino.Dal gruppo delle vitiAminee importatedalla Tessaglia, chetrovarono il loro mi-gliore terroir alle fal-de del Vesuvio, deri-va il Greco. Le cantòVirgilio, le descrisse-ro Plinio e Columel-la; e nel Cinquecentoil Greco era vendutoin tutta l’Europa, sino a Costantinopoli. Agli inizi del XX secolo,però, i terreni coltivati a questo vitigno erano quasi scomparsidalle pendici del vulcano pompeiano, e se ne ritrovavano inIrpinia.

È proprio da qui che, dagli anni ’50 il Greco di Tufo ha comin-ciato a riscuotere successi e riconoscimenti, fino all’ultimo, ilpiù prestigioso, la Docg attribuitagli a partire dalla vendemmia2003, riportando in auge la fama del Greco. È un vitigno chepredilige i terreni d’origine vulcanica, ricchi di sostanze azotatee fosforate e di sotterranee venature sulfuree: tutto questo ilGreco lo ritrovò in Irpinia quando dové rinunciare al Vesuvio. Ilnome Tufo è d’altronde chiara indicazione sull’origine geologi-ca del terreno su cui sorge la cittadina, e se ne era già a cono-scenza se nel 1860 furono ritrovati dei giacimeni di zolfo: daltreno - questa volta dalla linea che da Avellino arriva aBenevento - si vede l’entrata della miniera, monumentale testi-monianza d’archeologia industriale.Il piccolissimo terroir del Greco, che da Altavilla Irpina arriva aiconfini con la provincia di Benevento, è in gran parte definitodalle sue vigne. A chi vi si aggira, non risulterà difficile ricono-scerne i grappoli, ognuno accompagnato dal suo doppio, fratel-lanza che fu all’origine dell’antico nome Aminea gemella. Lacomposizione di questo vino ribelle, primitivo e incomparabile èad assoluta prevalenza di Greco (almeno l’85%), con un assag-gio di Coda di volpe bianca. L’abbondanza di tannino consentedi accostarlo non solo al pesce, ma anche ai risotti, ai funghiporcini secchi e ai cannelloni al forno: ecco perché gli enologilo definiscono “il più rosso dei bianchi”!Rientriamo da quest’altra irrinunciabile deviazione alla ricercadi Tufo e dei suoi vini per dirigerci verso Lapio, terra in cui s’in-trecciano due delle nostre tre perle: siamo nel terroir del Fianodi Avellino (le tre api nello stemma della cittadina rimandanoall’uva Apiana), ma anche in quello del mitico Taurasi, il primorosso irpino ad essere stato insignito della Docg, già dieci anniprima dei due conterranei bianchi.Fra Lapio e Taurasi il nostro treno passa su un bellissimo pontedi metallo che risale alla costruzione della linea ferroviaria difine Ottocento; tutto intorno sono dolci colline, culla che acco-glie e protegge le preziosissime uve di Aglianico d’antichissimaascendenza. Molti ampelografi ritengono derivino dalla vitishellenica: Aglianico sarebbe infatti una corruzione di hellenico,e anche in questo caso si tratterebbe di un vitigno importatodagli esuli d’Ellade. I Romani ne ricavavano il Falernum, di granlunga il loro vino più amato: fu celebrato da Plinio, Orazio eCicerone, ma pare che anche Cleopatra fosse a conoscenza del

suo influsso benefico, se fra le armi per sedurre Cesare usòquella di versargli “un Falerno puro e resistentissimo”.L’Aglianico non è coltivato soltanto in Irpinia, ma è qui che dàvita all’unica Docg rossa della Campania. L’Alta Valle del Caloreè il terroir del Taurasi, che si sviluppa attorno all’omonimocomune, in un’area cinta da Mirabella Eclano, Montemarano, ea nord da Montefalcione e Pietradefusi. L’Aglianico necessita dienormi cure, tanto in vigna (l’uva deve essere raccolta alla suapiena maturazione) quanto in cantina, se si vuole che raggiun-ga il massimo risultato del Taurasi. L’invecchiamento dura almeno tre anni; per la Riserva sono pre-visti quattro anni minimo, in parte da trascorrere in botti dirovere o castagno. È uno dei rossi italiani più adatti ai lunghis-simi invecchiamenti. L’intenso colore rubino tendente al grana-to richiama ancestrali riferimenti sanguigni; le narici s’inebria-no di profumi intensi e speziati, di sentori di tabacco, chiodi digarofano, pepe nero e petali di rosa secchi. “All’assaggio miesalto (...) per il saporepieno, completo, autori-tario; (...) per la stoffapiena ed elegante”: pa-rola di Veronelli! Tutte le uve consigliateper la provincia irpina,ossia Aglianico, Coda divolpe, Falanghina, Fiano,Greco, Piedirosso e Scia-scinoso, vengono impie-gate per produrre l’Irpi-nia, un vino che, sianella versione monova-rietale che nelle tipolo-gie bianco, rosso e rosa-to, è prodotto nell’interaprovincia e che dal 2005è una Doc.Terre Irpine a Sturno, laCantina Giardino e Tre Colli ad Ariano Irpino, Manimurci aPaternopoli, Elmi a Montemarano, Colli di Castelfranci e laCantina Castel dei Franci di Castelfranci sono i produttori di viniirpini che aderiscono al marchio Sapore di Campania.

Terra di grandi viniFiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi, Irpinia

testo: Simona Mandatofoto: Archivio Altrastampa

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la chiesa ed il convento deiCappuccini facendosi ritrarre nelfamoso quadro del perdono, com-missionato al pittore di famiglia,Giovanni Balducci. Pittoresco il cen-tro storico che, dopo il sismadell’Ottanta, pietra dopo pietra, haripreso vita ad ogni angolo dell’abi-tato. Merita una visita il Cappellone,del XVII secolo, il monumentogesualdino di maggiore interessearchitettonico e religioso, un temposedile della nobiltà, poi adibitodall’Ottocento a luogo di culto.Saltando epoche ed ambienti, aduna manciata di chilometri, c’è ilparco archeologico di MirabellaEclano, uno dei più singolari comu-ni della provincia dove ogni annonella terza domenica di settembre sisvolge la tradizionale “festa delcarro”, un grosso obelisco di paglia,issato su un carro in onore dellaSantissima Addolorata e trasportatoper le vie del paese. Apoteosi di riticontadini che esorcizzano paurelegate al ciclo delle stagioni. Grandefesta di sapore pagano, allegra,colorata, che attira ogni annomigliaia di visitatori. Nell’areaarcheologica, la suggestiva necropo-li neolitica (simile a quella delGaudo nei pressi di Paestum) inlocalità Madonna delle Grazie e gliscavi di Aeclanum (città sanniticatra le più importanti, saccheggiata edistrutta da Silla nell’89 a.C.), pressoil Passo Mirabella con i resti diTerme, del Foro, di botteghe ed abi-tazioni private, un lungo tratto dimura, i resti di una basilica paleocri-stiana che ci restituiscono un densoquadro di vita. Diversi repertiarcheologici come arredi, affreschi emosaici sono oggi raccolti nelMuseo Irpino di Avellino. Nel cuoredel paese, la collegiata di SantaMaria Maggiore conserva, tra le pre-ziosissime opere restaurate, quelCrocefisso in legno intagliato e poli-

Ma adesso riprendiamo il nostroviaggio: arriviamo a Luogosano-SanMango sul Calore, prima fermatadel treno. La stazione è situata nellavallata fra i due paesini e ha semprevissuto un discreto traffico di viag-giatori, non a caso i vagoni del trenosi affollano di studenti e pendolariche percorrono il loro quotidianoavanti e dietro; il loro percorso nonsupera mai i cinquanta chilometri eil treno rimarrebbe ancora il mezzopiù economico e sicuro rispettoall’auto. Il tiepido sole mattutinoaccompagna ed asseconda lo splen-dido panorama sull’Alta Valle delCalore che fa da sfondo all’areaarcheologica di Luogosano, lungo ilcorso del fiume, con reperti dell’etàdel bronzo, ma anche ad un “cordo-ne” di paesini arroccati sulle alture,incastonati in “fazzoletti” di verde,che si possono raggiungere con uncomodo servizio di autobus dal cen-tro del paese. Dalla caratteristicaFontanarosa, dove ogni anno aFerragosto, in onore della Madonna,un carro trainato da buoi porta ingiro per tutte le frazioni del borgoun grosso obelisco rivestito di paglialavorata dalle donne del posto. Sirinnovano così, riti agresti, a metàtra sacro e profano, celebrando laterra e la benevolenza mariana. Allavicina Gesualdo, dominata dalcastello medievale, possente, son-tuoso con le sue torri cilindriche,appartenente a quel Carlo Gesualdo,principe di Venosa, passato alla sto-ria per aver assassinato la moglieMaria d’Avalos ed il suo amante,Fabrizio Carafa Pignatelli, nellestanze di palazzo Sansevero aNapoli. Ad espiazione della suacolpa (ma fu presto perdonato dallalegge), il principe-madrigalista, nonsolo si rintanò nel torvo maniero,diventato nel XVI secolo residenzaprincipesca, ma fece costruire anche

In alto a sinistra,ritrattodi CarloGesualdo.A destra,MirabellaEclano, il carrodi grano e l’areaarcheologica.Paginaprecedente.In alto,Fontanarosa,il carro di grano.In basso,Gesualdo, il volodell’angelo eveduta delcastello.

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transito merci. Alle antiche tradizio-ni contadine ed artigianali del paese,è dedicato il Museo Etnografico che,tra le testimonianze storiche raccol-te (dagli antichi utensili per i lavorinei campi, agli oggetti adoperati perle faccende quotidiane), espone ipittoreschi costumi femminili cherievocano l’abbigliamento del Set-tecento e dell’Ottocento. Un modoper contribuire a mantenere vivol’interesse verso una cultura sempli-ce ma laboriosa che si nutriva delrapporto con il lavoro e con la terra.Il treno s’inoltra in una delle zonepiù belle dell’Alta Valle del Calore,ricca di acque sorgive: una sorta diterrazza naturale dalle mille chiazzedi colori. Eccezionale l’Aglianico chesi produce nelle contrade di CasaleSant’Andrea, di Matina e Pescocupo,di Fornaci e Chiarino che si prestanoanche a visite ed escursioni. È unvino rosso, intenso, corposo, che, adetta degli enologi, meriterebbe benpiù di un riconoscimento. Come ognivino assomiglia a chi lo produce, alterritorio da cui “sgorga”. Si com-prende come la natura qui determi-ni l’atmosfera dei luoghi e il caratte-re della gente. Fiera, volitiva che hauno strano rapporto con il tempo,prende tutto con calma.Superiamo anche Castelvetere sulCalore, la stazione, in realtà, non hamai avuto vita, vista la distanza dalpaese, tant’è che la fermata è stataannullata alla fine degli anni No-vanta. Ma il paesino, a 750 metri dialtitudine, è bellissimo: splendidi ipanorami, simpatica la passeggiataal centro storico seguendo il sugge-stivo itinerario del vicolo SantaMaria, attraverso antiche edicolevotive, palazzi gentilizi e numerosechiese. Leggendaria la “festa delpane miracoloso” che si vive ognianno, il 28 aprile, ad inizio di prima-vera e di raccolto. Le donne delpaese preparano i “tortani”, pane aforma di ciambelle, messi in grandiceste sull’altare della chiesa, inomaggio alla Madonna delle Grazieper la benedizione. Le ceste sono poiconsegnate alle “sponsiatrici”, gio-vani fanciulle vestite di bianco,come da tradizione, che danno inizioalla processione per le vie del borgo.Ma non sono sole, ognuna è seguitada un parente, il “padrino”, armatodi un bastone che le protegge daeventuali aggressioni. Le fanciulleportano indosso non solo i migliorigioielli di famiglia ma anche tuttol’oro del paese che è stato loro affi-dato, perciò vanno salvaguardate. Altermine del percorso, ognuna distri-buisce il pane casa per casa, insegno di prosperità e protezione.Si viaggia fra leggenda e tradizione,

cromo, di circa 2.33 metri, opera diignoto della metà del XII secolo, unodei massimi esempi di scultura diquel periodo, molto vicino ad analo-ghi esempi di scultura romanicafrancese. Insomma un capolavoro.Ma i tesori non finiscono qui: l’emo-zione continua, si inerpica su perantiche strade, viottoli e chiassi,rimbalzando tra valli e colline contanto di occhi sgranati dal finestrinodi un treno.Ci lasciamo alle spalle la stazioncinadi Paternopoli, noto borgo agricolo,il cui nome, nell’etimo latino-greco,significa la “città del padre”. Nientefermata, soppressa con l’orario diquest’anno. Pochi i viaggiatori ed il

Mirabella Eclano,collegiata di Santa

Maria Maggiore,scena dei Misteri

in cartapesta,antico fregio dicarro del grano

e il Cristo ligneodel XII secolo.

Castelvetere sul Calore,momenti dellafesta del panemiracoloso.

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arriva alla stazione di CassanoIrpino, alle pendici del Terminio edel Cervialto, dove c’è chi scende ec’è chi sale, soprattutto studentidiretti agli istituti superiori di Lioni.Qui siamo nella “terra delle acque”,per l’abbondanza di sorgenti presen-ti nel territorio (tra cui “Acqua delPrete”, Bagno, Pollentina e Peschie-ra) che, per mezzo di una lunga gal-leria, alimentano gli acquedottidell’Alto Calore e quello Pugliese. Ilcentro storico della cittadina (in ori-gine un castrum carissanum roma-no), mantiene la tipica struttura diborgo medievale con strette viuzze,quasi fossero tagliate dalla lama diun coltello, tetti di cotto, scale, sca-lette e portali in pietra. Segni dirispetto ed attenzione, anche nellachiesa di Santa Maria delle Grazie,risalente al XV secolo; all’interno,nell’abside, una serie di affreschiquattrocenteschi, da cui emerge lamagnifica figura di un CristoPantocrator, ed un pregevole tritticodella prima metà del Cinquecento.Adesso saliamo verso le seduzionidella montagna, dove la vista spaziasulla vallata del Calore, su una seriedi piccoli casali sparsi sulle pendicidei colli e sulla piana, su quinteboscose di faggi e castagni, aceri epioppi che ondeggiano come uncapriccioso mare verde spruzzato dirivoli dorati. L’aria profuma di cal-darroste, di focacce farcite, di noc-ciole tostate, ma sì eccola Montella,(dal latino mons e munio, cioè collefortificato), “perla” della profonda everde Irpinia, aria buona e cibogenuino, coccolata dalle cime delTerminio, cinta dall’altopiano diVerteglia, fresca e odorosa radura, a1230 metri, vestita di bianco ininverno e colorata d’estate.La stazione ferroviaria è ubicatanella parte bassa del paese, unodegli scali ferroviari più frequentatinella storia dell’Avellino-RocchettaSant’Antonio. Da qui partivano cari-chi di legname e castagne diretti intutta la regione. Adesso è un’altrastoria. Spesso schiva agli occhi delvisitatore, altre volte solenne o soloopulenta, Montella va frugata inogni angolo, assieme ai suoi panora-mi mozzafiato, la beltà dei suoiboschi (Costa del Caprio, Costa delCervo, le aree del Sassetano, delFelascosa), i suoi scorci, le sueimprovvise aperture pianeggianti, lesue “chicche” d’arte. In cima ad uncolle, tra folti castagneti, ancora iruderi dell’antica cittadella fortifica-ta in epoca longobarda e quelli diuna rocca detta “Rocca del Monte”di cui restano solo la cortina esternaed il bastione centrale. Feudo dei diCapua, dei d’Aquino, dei Cavaniglia

attraverso un paesaggio che purverdissimo comincia a farsi solitario,immerso in una quiete idilliaca, illu-minato da chiazze di luce brumosa,da cui affiorano qua e là viottoli cheserpeggiano fra vecchi casali e mas-serie ed eccoci a Castelfranci,seconda fermata del treno: la sta-zione è situata alla periferia di que-sto borgo di origine Franca, da cuiprobabilmente il nome. Benché dan-neggiato dal terremoto dell’Ottanta,il centro storico ha recuperato l’au-ra di un tempo. Belli i portali di pie-tra, spesso riccamente decorati edalcuni edifici privati come palazzoCelli, Juliani e palazzo Vittoli, dallafacciata in leggero stile liberty.Maestosa la chiesa parrocchiale diSanta Maria del Soccorso, nell’omo-nima piazza, le cui origini si fannorisalire ad una cappelletta delTrecento, dedicata alla Vergine delSoccorso, apparsa in sogno, pare, aduna donna del posto. All’interno, unquadro della “effigie” miracolosadatabile al XIV secolo, quando daqueste parti si aggirava la scuolafrancese. E ancora, un’acquasantieradel XIV-XV secolo ed alcune statuelignee dell’Ottocento. Di remote ori-gini anche la chiesetta di SanNicola: sull’altare maggiore, scultu-re e fregi marmorei del Cinquecentoed un pregevole tabernacolo sor-montato al centro da due angeli conla colomba. Ma il borgo di Castel-franci si racconta oltre le sue mura,nella suggestione della campagna,con il mormorio del Calore che fa dasottofondo. Tra le curiosità, le trecappellette rurali di Sant’Antonio aVallicelli, del Santissimo Salvatore aBraiole e dell’Angelo Custode aBaiano, mete di fedeli e turisti, e itre antichi mulini, orgoglio di tutti icastellesi, che spuntano come d’in-canto sulle rive del fiume, in un’oasidi verde.

Tra frutteti, uliveti e campi incasto-nati fra i boschi, la prossima ferma-ta è Ponteromito, frazione delcomune di Montemarano, il paesedel carnevale e della tarantella piùtravolgente dell’Irpinia. Qui il carne-vale (un uomo fantoccio) lo celebra-no pure da morto, nella domenicasuccessiva alle Ceneri, con tanto difunerale e “conzuolo”, che si snodadai vicoli e le stradine del paese,movendosi tra cortei in maschera,processioni guidate dal “caporabal-lo”, con il tradizionale lancio di con-fetti e biscotti, in segno di buonaugurio per la primavera che si avvi-cina, “paranze” di suoni (castagnet-te, fisarmoniche, tamburi e clarinet-ti) in un crescendo di fuochi d’artifi-cio, balli e danze frenetiche, al ritmodella “tarantella montemaranese”, lapiù originale e complessa che ci sia.Tanto da aver varcato per fama iconfini della regione. Uno spettaco-lo che miscela, in un gioco di asso-nanze, divertimento ed affabulazio-ne, teatro e scenografia, musica etradizione, di questo paesino abbar-bicato sulla cima di un poggio dimonti che corrono veloci alla sini-stra del Calore, sorto in epoca lon-gobarda attorno al suo maniero,messo a guardia di un tratturo chemenava da una parte a Benevento edall’altra, alla piana del Dragone.Immancabile la cattedrale dell’As-sunta che serba ancora le antichecolonne romaniche in pietra; all’in-terno, un pregevole reliquario del1624, una tela del Reni e quel mobi-le (unico nel suo genere) che è lasedia pieghevole del Quattrocento;nella cripta medievale, recentirestauri hanno restituito al lorosplendore colonne, capitelli e buonaparte degli affreschi parietali, data-bili tra XI e XII secolo. E ancora, ilMuseo dei Parati Sacri, allestito nel-l’ex chiesa del Purgatorio (splendidianche qui gli affreschi sulle pareti):un patrimonio raro di paramenti evestiture realizzati in seta, damaschie lampassi, con ricami in oro riccioed argento, che vanno dal XVI al XIXsecolo. Nelle botteghe del paese,potete fare incetta di formaggi elatticini, non dimenticate il mieled’acacia e se battete i vignaioli dellazona, troverete sempre dei vini bian-chi e rossi di tutto rispetto. Del restosono i “sortilegi” palpabili di questaterra che “affattura” ad ogni angolodi paese, ad ogni curva, ad ogniscorcio di panorama.Il treno rulla, macina chilometri,percorre gallerie e qualche ponte suun torrente: gruppi di alberi da unlato, fitti boschi dall’altro, un grumodi case petrigne tra i pendii, unaradura, qualche viottolo sterrato e si

In alto,Montemarano,veduta e unmomento delcarnevale.Sotto,Cassano Irpino,la corte delcastelloe vedutadel paese.Paginaprecedente.Castelfranci,tratto del fiumeCalore,antico mulinoe un momentodel carnevale.

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chiesetta di Santa Maria del Monte,della metà del Cinquecento, checustodisce all’interno, una tavoladella Madonna dell’Umiltà, delicatapittura trecentesca e poi i pannellilignei con storie di Sant’Antonio daPadova e San Giacomo della Marca,scolpite a rilievo da un seguace diGiovanni da Nola. Tra i luoghi piùcari ai montellesi, il santuario delSalvatore, che domina dall’alto deisuoi 950 metri la valle del Calore edi monti Picentini. Qui c’era, dallaseconda metà del XV secolo, unacappellina dedicata alla SantissimaTrinità che ospitò, quasi un secolodopo, una miracolosa statua delSalvatore, cambiando perciò l’intito-lazione e divenendo meta di pelle-grinaggi da tutta la regione. AlSalvatore fu attribuita la fine dellasiccità del 1779 e da allora se neampliò la chiesa, corredandola di unmagnifico altare maggiore. Ma unadelle attrattive turistiche di Mon-tella e di tutta la Comunità Mon-tana del Terminio-Cervialto, è ilcomplesso monumentale di SanFrancesco a Folloni, ad una mancia-ta di chilometri dal centro del paese.Risalente al XIII secolo, fondato pertradizione dallo stesso San Fran-cesco che nel 1221 vi pose la primapietra, il complesso conta su unvasto corredo artistico che vede nelsepolcro di Diego Cavaniglia, conte

di Montella, opera di Jacopo dellaPila, una delle migliori espressionidel secondo Quattrocento napoleta-no. Nell’interno della chiesa, altarimarmorei, pavimenti maiolicati estucchi del XVIII secolo (mirabili gliintarsi degli armadi della sacrestia,dei montellesi Giovanni e Costan-tino Moscariello). Mentre nei localidell’antico monastero (refettorio echiostri), un laboratorio di restauro(vera e propria fucina di giovanitalenti) e un museo di opere d’arteprovenienti da chiese ed edifici dan-neggiati dal sisma dell’Ottanta.

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e dei Doria, Montella si raccontaattraverso la magnificenza dei por-tali dei suoi palazzi (Abiosi, Bruni,Coscia Capone), nei cospicui corrediartistici delle sue chiese. Nella colle-giata di Santa Maria del Pianto, unapregevole porta lignea della fine delXVI secolo, uno dei capolavori del-l’intaglio di quel periodo, riferita amaestri napoletani o al locale Giu-seppe Iodi. Agli stessi anni, risalgonogli armadi ed il sediale della sacre-stia che fanno pensare a lavori dialtri intagliatori della zona o dellavicina Bagnoli Irpino. Come il pulpi-to, denso di intagli barocchi e condue angeli al centro, della primametà del Seicento. Modesta perdimensioni, semplice nell’impianto,ma non per questo meno bella, la

Montella,panorama,

il complessomonumentale

di San Francescoa Folloni,

esternoed il chiostro.

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Montella,i ruderi delcastello,la chiesa diSanta Mariadella Liberae il santuariodel Salvatore.

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I buoni frutti della terra Funghi porcini, tartufi, castagne di Montella, nocciole,

mele limoncelle, ciliegie maiatiche, olio extravergine di olivatesto: Simona Mandato

foto: Alfio Giannotti e Archivio STAPA CePICA di Avellino

Il Partenio è la dorsale montuosa che si sviluppa in direzionenord-ovest da Avellino partendo dalla vicina Punta diMercogliano, a due passi dal venerato Monte Vergine. Le pendi-ci settentrionali del gruppo montuoso sono ricoperte da verdifaggete e ombrosi querceti; ai loro piedi in estate crescono lam-poni, fragole, more; in autunno, dopo le prime piogge della sta-gione, un intenso odore di terra bagnata pervade il sottobosco,nel suo prolifico ventre si svolgono le rituali passeggiate di chiva a caccia di funghi, ingredienti basilari di profumatissimipranzi. Fra i tanti tipi, i porcini sono senza alcun dubbio i piùricercati, signori di infiniti piatti della cucina irpina.Accompagnano tagliatelle, lagane, maccheroni o zuppe, maanche tanti secondi di carne, cui imprimono l’inconfondibile eineguagliabile fragranza di quell’humus di foglie sul terreno chescricchiolano sotto i piedi.

Tutto ciò che la montagna offriva di commestibile o d’utile, èstato per millenni raccolto e sapientemente utilizzato, dallalegna per ardere ai prodotti silvicoli, perpetuando fino ad oggiquel rapporto con il bosco, radicato nella mente e nello spiritoirpino. Un altro pregiato prodotto si forma in queste selve, crea-tura spontanea di madre terra che lascia all’uomo l’unica faticadi andarli a cercare. I tartufi genericamente identificati con l’a-rea di Bagnoli Irpino, si formano in realtà in gran parte del ter-ritorio avellinese. Sulle radici di faggi e pini neri, nei periodidelle maggiori piogge, cresce il frutto di un fungo ipogeo: unascorza nera e rugosa ricopre il tartufo di Bagnoli e la sua polpagrigiastra, scrigno prezioso di tutti i profumi del bosco, quintes-senza e prova dell’esistenza delle antiche divinità silvestri. Neicentri del bagnolese si grattugia fresco sulle pietanze, si con-serva in acqua e sale o sott’olio, o ancora si riduce in meravi-gliosa pasta da spalmare.

Altri boschi lambiti dalla nostra linea ferroviaria sono quelli delTerminio-Cervialto. Passando per Montella e Bagnoli, il quadroin movimento del finestrino ci restituisce un paesaggio di fitti eampi boschi: a formarli sono i castagni di una varietà che lagente qui ha sempre chiamato “Palummina” per la forma che ilsuo frutto rammenta, la colomba, immagine dalle implicite evo-cazioni, in dialetto ‘a palomma.Il nome di Montella è conosciuto ben oltre i confini dell’Irpiniae della Campania. Il piccolo centro, che dai margini del ParcoRegionale dei Monti Picentini domina la valle del Calore, devela fama alle sue castagne, che da diversi anni sono state insi-gnite dell’Indicazione Geografica Protetta.Il riconoscimento di prestigio, d’altronde, non nasceva dal nulla.Il rapporto simbiotico fra Montella e i castagni risale a oltre2500 anni fa: le genti di questo territorio si sono sempre servi-te del suo legno per costruire le loro case e per riscaldarsi; nelMedioevo la farina di castagna era considerata fondamentaleper la capacità di conservarsi a lungo, alleato irrinunciabile inoccasione di lunghi assedi a città e castelli, o per sopravvivereagli inverni più rigidi. Il clima e il tipo di terreno di quest’area sono particolarmenteadatti alla cultivar, ma è anche grazie alla milllenaria sapienza,trasmessa di padre in figlio da immemorabili generazioni, se siè riusciti a individuare il modo più efficace per curare questepiante e ricavarne un frutto di qualità. Lo conferma l’ampiaesportazione (il 75% del raccolto!) della castagna di Montella,che un sapore gradevolmente dolce, ma anche la pezzaturamedio-piccola e la faciltà con cui si presta ad essere pelata,rendono particolarmente pregiata, ideale per la trasformazionein marrons glacés. Altri impieghi meno nobili le hanno viste per secoli protagoni-ste in cucina: la squisita minestra di fagioli e castagne fornivail giusto sostentamento a chi doveva affrontare rigidi inverni eduro lavoro nei campi; la pasta e il pane fatti con la farina dimarroni sono molto aromatici, e ancora oggi apprezzati prodot-ti tipici delle aree della castanicoltura.

Quale tavola natalizia della Campania può fare a meno delleprelibate castagne del prete a conclusione del turbinìo di pie-tanze consumate, senza esitazione, per accogliere degnamentela venuta di Dio sulla terra? La migliore tradizione irpina cono-sce un metodo unico al mondo per conservare i suoi marroni,tant’è che è stato richiesto un riconoscimento di IGP specifico. Purtroppo, molte delle costruzioni rurali in pietra, un tempospecificamente adibite all’affumicatura delle castagne, sonoandate distrutte con il terremoto del 1980; le moderne struttu-re sono state però modellate sulle antiche, prototipi insuperabi-li nella loro funzionalità.Una quindicina di giorni sono necessari per plasmare le casta-gne ai fumi, che solo dalla legna arsa del loro stesso albero,padre che ai suoi figli sacrifica una parte di sé, traggono l’aro-ma migliore. Dai fuochi che ardono al piano inferiore, salgono ifumi attraverso i graticci dove, pazienti, giacciono le castagnein attesa di assumere quel sapore che le renderà uniche e ricer-cate. Poi la tostatura e infine un bagno che le reidrata. Ne ven-gono fuori morbidi bocconi, cui la lunga affumicatura ha dona-to un gusto lievemente caramellato, piacevole conclusione deipranzi più abbondanti. Le castagne del prete di Malerba o diGigliola Perrotta a Montella, ma anche quelle del DAR a Lauro,sono prodotte da aziende aderenti al progetto regionale Saporedi Campania per la valorizzazione delle produzioni locali.Se da un lato in Irpinia è forte il legame con la cultura gastro-nomica tradizionale, dall’altro è pur vero che negli ultimi decen-ni molte aziende si sono adeguate alle moderne tecniche di pro-duzione e trasformazione, raggiungendo in alcuni casi - èsoprattutto quello dei produttori di vini e di alcuni ristoratoricitati nelle più celebrate guide internazionali di cucina - risul-tati di grande successo, che premiano l’impegno sia economicoche di lavoro e ricerca profuso.

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Accanto ai grandi nomi, la Regione Campania promuove unaserie di imprese di piccole dimensioni che stanno dimostrandonotevoli capacità di adeguarsi ad un mercato estremamenteesigente. Con il progetto Sapore di Campania, l’Assessoratoall’Agricoltura e alle Attività Produttive intende valorizzare leimprese agricole che aderiscono ad un sistema certificato, stru-mento di garanzia di qualità al consumatore.

Gran parte del territorio intorno ad Avellino è piantata a noc-cioli; in estate, prima che i frutti siano maturi, i noccioleti assu-mono il loro aspetto più bello, con il terreno ai loro piedi rastrel-lato per facilitare la raccolta. In antichità, il sapore fresco edolce portava ovunque la fama della nocciola abellana, che siproduceva nell’area dell’odierna Avella.Il frutto avellinese si adatta in modo ideale alla tostatura, pre-standosi così ad essere un ottimo ingrediente in pasticceria enell’industria dolciaria. Nelle feste dell’autunno, gioia di grandie piccini sono le ‘ndrite, collane di nocciole tostate, infilate amo’ di perle.La tradizione irpina le ha sempre usate per produrre i suoi cele-brati torroni, che oggi alimentano una delle principali industriedi trasformazione di prodotti agricoli della provincia. Laboriositorronifici artigianali si trovano ancora in tutto l’avellinese, inparticolare a Ospedaletto d’Alpinolo e a Dentecane. La ricettatradizionale batte per almeno tre ore i bianchi d’uovo con ilmiele – oggi sostituito dallo sciroppo di glucosio – e vi aggiun-ge nocciole e spezie: qui in Irpinia il torrone è il dolce tipicodelle feste natalizie, che mette alla prova la resistenza dei dentidi chi ne assaggia.Le produzioni moderne ne hanno inventate numerose varianti,

fra cui forse la più apprezzata è il pantorrone, che invita conuno strato esterno di cioccolato, e seduce con il suo cuore dipandispagna bagnato nel liquore dolce. Nell’area del Terminio-Cervialto, territorio della castagna di Montella, si produce iltorrone di castagne, variante che propone una farcia di casta-gne, candite o in pasta: un modo per valorizzare tanto i prodot-ti silvicoli di Montella quanto la più dolce tradizione del torro-ne irpino.

Nelle radure ai margini dei boschi del Partenio e dei montiPicentini, il paesaggio è formato da coltivazioni di ulivi, viti,ciliegi e meli, alternati a pascoli e orti. Spesso qui l’arte agrariaviene perpetuata in minuscoli appezzamenti, piccole realtàfamiliari legate ai vecchi metodi e poco inclini a grossi e velocicambiamenti. Le mele limoncelle, un tempo diffusissime intutto il Meridione e soprattutto in Campania, si trovano da que-ste parti in qualche singolo albero, per la sola gioia di chi le pro-duce. Quel sapore antico e unico è oramai raro da trovare, unaghiottoneria ricercata dagli intenditori. Sotto la tipica bucciagiallo-verde, si cela una polpa succosa, leggermente acidula eparticolarmente aromatica, da cui un tempo si ricavava un buonsidro. Mala Orcula la chiamò Plinio nella sua Naturalis Historia; daallora, ha superato epoche di storia e storie, pervenendo inden-ne a noi, con il solo nome mutato nel dialettale annurca. E chinon le riconosce, distese ancora verdi su enormi letti di pagliaad arrossare! Dall’aspetto la mela annurca non è molto invitan-te, ma la sua consistenza croccante, il succo ricco e aromatico,

e anche la capacità di conservarsi per mesi pressoché inaltera-ta ne hanno fatto uno dei prodotti ortofrutticoli di maggiorvanto della Campania.Nell’agro di Taurasi il paesaggio dei pascoli è spesso punteggia-to da isolati ciliegi, che talvolta si vedono emergere anche tra ivigneti: la ciliegia maiatica è tipica di questa ristretta area, lasua buccia rossa nasconde una polpa bianca, morbida e succo-sa. Le ciliegie maiatiche si trovano anche alla Cooperativa LaValle e da Tre Colli ad Ariano Irpino, che produce anche meleannurche, entrambe aderenti al marchio Sapore di Campania.

Rispetto al nostro percorso su rotaie siamo di tanto in tantocostretti ad allontanarci brevemente, l’esigenza di andare aritrovare i sapori più antichi e più intensi di questa terra ci indu-ce a più o meno lunghe deviazioni. Come quella che facciamoalla ricerca del miglior olio extravergine d’oliva irpino.Arriviamo nella valle dell’Ufita che fra le sue coltivazioni ha dasecoli quelle dedicate agli ulivi, regolari paesaggi che produco-no la Ravece, l’oliva più pregiata d’Irpinia.L’antica tradizione olivicola di queste contrade chiede oggi diessere equamente valorizzata: si attende la Denominazioned’Origine Protetta per l’olio extravergine di oliva Irpinia-Colline dell’Ufita. Da un’oliva dalle caratteristiche organoletti-che pregiate come la Ravece non può che sortire un prodottoelevato, il suo profumo fruttato si associa ad un gusto funam-bolo tra l’amaro e il piccante. I sistemi di coltura sono quellidella tradizione, ma s’ispirano, nel contempo, alle moderne tec-niche, tutte concentrate ad evitare alti tassi di acidità nell’olio.L’area di produzione si estende, oltre che all’Ufita, ancheall’Arianese e alla Media Valle del Calore.Tra le aziende produttrici di olio extravergine d’oliva, quelleaderenti al progetto regionale Sapore di Campania sono: Il vec-chio uliveto di Grottaminarda, Minieri di Carife, Petrilli e Serradei Lupi a Flumeri, FAM di Taurasi, Montuori di Villamaina, el’Oleificio Fina di Montemiletto.Cosa si condisce con l’olio irpino? I sughi di coniglio paesano oi ragù di carne che, in occasione delle feste più importanti oquando ci sono ospiti a pranzo, inondano cicatielli, orecchieprevete, trofie, cavatielli, lagane, ma soprattutto fusilli, i più

amati. Con gesti veloci ma precisi, da secoli qui le donne for-giano lo stesso semplicissimo impasto, farina di grano duro eacqua, e a seconda delle forme impresse ai tocchetti di pasta,ne vengono fuori le diverse fogge. Per fare i fusilli, un abilemovimento delle mani avvolge le brevi striscioline di pastaattorno ad un filo di ferro, senza aggiunta di ulteriore farina,trasformandole in una sottile spirale cava al centro. Sui pianori dell’Irpinia in primavera è tutto uno sbocciare dicardi, cicorie, borragine, biete. Probabilmente, a insegnare aicontadini a utilizzare le erbe di campo sono stati gli Irpini, ilpopolo d’origine sannitica che per primo abitò queste pendici,non stanziale e propenso più alla caccia e alla pastorizia cheall’agricoltura. Ancora oggi gli occhi più esperti non mancano diriconoscerle, e chi le conosce non può rinunciare a farne rac-colta da portare a casa per ricavarne una menesta: sagge nonnehanno insegnato a figlie e nipoti a prepararle carpendone tuttala fragranza della montagna più selvatica. Nelle occasioni difesta, poi, le zuppe si arricchivano dell’“odore di carne”, ossiadegli umori rilasciati dall’osso di prosciutto o da qualche pezzodi cotica: “maritandosi” alla verdura, davano luogo alla mene-sta mmaretata, un piatto che alcuni preparano ancora, sebbe-ne in una versione nobilitata, fatta di numerosi tipi di verdura edi parti di carne più pregiate, meraviglia dell’odierna opulenza.Ancora più povera è l’origine del pancotto dei foresi, il paneraffermo che i pastori irpini portavano con sé nei mesi di lunghispostamenti: l’ammorbidivano nell’acqua cotta nel callaruloassieme a diverse verdure selvatiche.L’origine bucolica del panu cuotto r’ li furisi è tutta racchiusa nelsuo nome: i furisi erano quelli che stanno fuori, all’aria aperta,ovvero i pastori transumanti.

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in cui l’arte irpina dell’intaglio, allametà del Seicento, raggiunge risul-tati altissimi. Un fitto ricamo vege-tale, nel quale convivono putti,uccelli, esseri fantastici; negli schie-nali, scene della vita di Cristo, men-tre nelle colonnine che li separano,episodi del Vecchio Testamento.Grande pienezza decorativa che sideve ai maestri locali, ScipioneInfante, Domenico Vecchia e JacopoBonavita, figlio di quel Clemente cheoperò nella cattedrale di Avellino.Suggestione anche per il coro ligneointagliato della chiesa di SanDomenico, ricostruita nel Seicentosu un precedente impianto, con unporticato a quattro arcate, una torrecampanaria ottagonale ed un civet-tuolo chiostro rinascimentale; nelsoffitto a cassettoni della chiesa,una tavola del 1576, opera di MarcoPino, racchiusa da una originale cor-nice dorata, intagliata, della stessaepoca. Se amate camminare, vi con-sigliamo la passeggiata alla Grottadi Caliendo, sulla strada del piano diLaceno, zeppa di stalattiti, stalagmi-ti e piccole cascate sorgive.Torniamo al nostro trenino chesenza tanti scossoni riprende a sali-re, attraversando un secondo valico,ci dirigiamo questa volta verso ilMontagnone di Nusco, sulla sommi-tà della catena appenninica chesepara il versante Tirrenico da quel-lo Adriatico. Due zone della stessaregione, in realtà diverse, via via checi si avvicina al confine apulo-luca-no, dove paeselli e borghi diventanopiù rari, più piccoli, caratterizzatiper secoli dall’annoso isolamento edalla forzata emigrazione che negli

anni Sessanta fu da esodo biblico. Esiamo nella stazione di Nusco, a piùdi 670 metri di altezza, anche que-sto uno degli scali ferroviari più“rinomati” nella storia dell’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio. Almenosino al sisma dell’Ottanta che fececrollare mezzo paese, compreso lastazione. Cittadina meglio notacome il “balcone dell’Irpinia”, è ilcomune più alto e panoramico dellaprovincia avellinese. Andate suglispalti del suo castello diruto (a 914metri di altezza), sorto in epoca lon-gobarda per opera di quel Sant’A-mato - primo vescovo e patrono delpaese - e vi godrete un panorama

mozzafiato che va dai Picentini, alMatese, al Taburno, alle acquedell’Ofanto. Una meraviglia perchéqui la natura la trovi dietro il vicolo.Senza strappi né troppe lacerazioni,Nusco (che significa “muschio”) èrisorta come una farfalla, dopo ildisastro di 25 anni fa. Stradine puli-tissime, portoncini e “merletti” diringhiera tirati a lucido, che richia-mano l’antica lavorazione del “ferrobattuto”, palazzotti gentilizi (comepalazzo Barbone, Ciciretti, Cala-brese, D’Aversa, De Donatis), intona-cati da vivaci pitture colorate chedanno risalto a fregi, stemmi e por-tali. Piazze e slarghi che si aprono

Riprendiamo il nostro viaggio, ameno di dieci minuti da Montella siarriva a Bagnoli Irpino, la stazioneferroviaria in passato ha sempresvolto un ruolo importante nel traf-fico di merci e viaggiatori, soprat-tutto perché qui siamo ad un tiro dischioppo dallo splendido altopianodel Laceno, gettonatissima stazionesciistica in inverno (con tanto diimpianti di risalita sino ai 1700metri del Cervialto) e pittoresco lagonel resto dell’anno, che si potrebberaggiungere con un adeguato colle-gamento ferroviario che rappresen-terebbe un’occasione di maggioresviluppo turistico per una delle zonepiù belle della Campania, immersanella vegetazione delle falde setten-trionali dei monti Picentini, traboschi, grotte naturali ed acque tor-rentizie. Un paesaggio che muta adogni stagione e che segna il trendturistico più che positivo di questaparte di regione. Tant’è che Bagnoli(dal latino baniolum, che sta a sot-tolineare la ricchezza delle acque), èconosciuto più fuori provincia - pro-prio per il turismo che ruota attornoal “lago” nutrito dalla sorgenteTronola - che nella stessa Irpinia. Ilpaesino si fa amare comunque per isuoi saporitissimi funghi, i ricercatitartufi neri, per la lavorazione dellalana e soprattutto per la celebre fio-ritura di intagliatori, artisti che dallegno evocano ancora plasticità diforme e suggestioni di immagini.Come l’eccezionale coro ligneo nellacollegiata dell’Assunta (XVIII secolo)dove lungo le pareti dell’abside sidispongono i nove stalli di quest’o-pera di intensa ricchezza decorativa,

Bagnoli Irpino,veduta della

valle, particolaredel coro ligneo

ed esterno dellacollegiata

dell’Assunta.

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In alto,il lago Laceno.Sotto, Nusco,monumentodedicato aSant’Amato.

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nale, esportata persino in SolLevante. Dalla cittadina si possonoraggiungere una serie di localitàcome la sorgente Mefite, nella valledel fiume Ansanto, ricordata nell’E-neide da Virgilio, che vi pose l’entra-ta agli Inferi. In realtà la zona, riccadi verdi vallate e aree boschive, èsoggetta ad un fenomeno di vulca-nesimo con acque sulfuree in ebolli-zione ed esalazioni mefitiche; nel-l’antichità, era un luogo sacro alladea Giunone Mefitide, a cui vennededicato un tempio. Dell’anticastruttura, rinvenuti diversi reperticome statuine di terracotta e inlegno, per lo più ex voto, monete,collane di ambra con graffiti di voltiumani, una scultura lignea dall’im-magine asessuata, senza tempo,attualmente conservati nel MuseoIrpino di Avellino. In età cristiana, iltempio divenne una chiesa dedicataa Santa Felicita, martire assieme aisuoi sette figli per aver rifiutato divenerare l’imperatore Antonino Pio.La chiesa, oggi santuario, dove èconservata l’effigie cinquecentescadella santa ripresa dinanzi al suoboia, è il gioiello del borgo di RoccaSan Felice, uno dei pochi esempi dipaesino medievale, strutturato arampe che scendono dai resti delcastello sino alla piazza.Dirigendosi verso il Vallone delToppiello e delimitata a sud dalleacque dell’Ofanto, la cittadella mo-nastica di San Gugliemo al Goleto,uno dei maggiori complessi religiosi

dell’Italia Meridionale, fondata daSan Guglielmo da Vercelli intorno al1135. Fu un gran monastero persacre vergini, molte delle qualiappartenenti alle famiglie dellamigliore aristocrazia campana, tracui i Caracciolo, i Morra, i Gesualdo,i Balvano; per fede ed architettural’abbazia riuscì persino ad eclissare(come racconta Giustino Fortunato)le badie benedettine di San Lorenzoin Tufara, fuori Pescopagano, Sant’-Ippolito di Monticchio, sul Vulture.L’edificio domina superbo la valledell’Ofanto e nonostante le razzie edi numerosi terremoti ha preservatostili e conservato testimonianze.Come la mole architettonica intattanella forma perimetrale. Bellissimo èil chiostro, splendido l’aspetto rea-lizzato interamente in pietra, conarchi e spazi interni, l’ingresso a trearchi, il portale della chiesa superio-re, costruita nel 1255 da Melchiorreda Montalbano, architetto di Fede-rico II, sormontato da un arco asesto acuto ed un piccolo rosone asei luci. Ed ancora, il giardino conl’alta torre Febronia, fatta erigere, ascopo difensivo, dall’omonima ba-dessa nel 1152, a ridosso della pri-mitiva chiesa del Salvatore (1180),utilizzando pietre, panoplie e iscri-zioni provenienti dal mausoleo delcenturione Marco Marcello. Il com-plesso, che ha tutta l’aria di uncastello o di un “borgo” fortificato,decadde nel XV secolo perdendoimportanza sino a scomparire del

tutto nel Cinquecento. Le suore tor-narono due secoli dopo, affidandoall’architetto Domenico AntonioVaccaro la costruzione della chiesagrande (1735-1745), oggi privadella copertura. Ancora riconoscibilela pianta a croce greca. All’internosono sopravvissuti alcuni stucchi edil pavimento in tutta la sua bellezza.Dopo la soppressione fatta daBonaparte nel 1807, il convento havissuto periodi di decadenza, trafu-gamenti e razzie.Recenti restauri e l’affido ad unapiccola comunità Verginiana, fannodell’ex abbazia uno dei poli turistici-culturali più interessanti ed invero-simili dell’Irpinia.

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d’incanto in un dedalo di viuzzelastricate. Un paese in cui la sereni-tà è di casa e con una storia legatapiù alla Chiesa che al potere feuda-le. Ben 67 i presuli che si sono suc-ceduti sulla sua cattedra episcopale.A testimoniarlo il settecentescopalazzo vescovile, enorme edificiocon biblioteca ed archivio. Nellamonumentale cattedrale, dedicata aSant’Amato, dell’XI secolo e restau-rata più volte, uno straordinario per-gamo ligneo intagliato, un settecen-tesco trono vescovile e la cripta convolte a crociera che conserva ancorala struttura originaria. Quasi decen-trata dal centro del paese, la chie-setta della Santissima Trinità, risa-

lente al XIV secolo, con un affrescotardo medievale di scuola giottesca,raffigurante un Cristo benedicenteed un’Annunciazione. Da non perde-re la visita all’abbazia di SantaMaria di Fontigliano, distante dalcentro, ma notevole per l’architettu-ra e l’annesso Antiquarium condiversi reperti archeologici di etàromana.Si riprende il viaggio; dopo una fer-mata a Campo di Nusco, piccola fra-zione agricola, si prosegue versoSant’Angelo dei Lombardi, la fer-mata è stata soppressa alla finedegli anni Novanta, la stazione erapoco frequentata. Ma il paesino diorigine longobarda, lo dice già ilnome, a ridosso del torrente Fre-dane, merita una tappa; dopo i gravidanni del terremoto, ha ripreso l’a-spetto di borgo medievale. Bello ilcastello, del X secolo, ampliato neisecoli successivi e trasformato inpalazzo residenziale, dove i lavori direstauro hanno portato alla luce lapavimentazione di un cortile dell’XIsecolo assieme ad un’antica chiesadalla possente torre campanaria edun loggiato seicentesco. Nelle pic-cole botteghe artigiane si continua alavorare il legno: ninnoli di arredo,ornamenti, souvenir, ma soprattuttopresepi, grandi, piccoli, mignon,vanto dell’antica tradizione artigia-

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Il complessomonumentaledi San Guglielmoal Goleto aSant’Angelo deiLombardie la cripta.Paginaprecedente.In senso orario,centro storicodi Nusco, criptadella cattedrale,veduta di RoccaSan Felice,la Mefite,cripta dellacattedraledi Nusco.

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La cultura pastorale degli antichi Irpini è radicata su questimonti, gli zoccoli delle pecore ne hanno modellato le rocce, neisecoli mandrie di mucche hanno macinato, alimentandole, leerbe e i foraggi di pianori e creste montane; frattanto gli uomi-ni vivevano del loro latte e del formaggio che ne ricavavano, eai dì di festa consacravano le loro carni. La tradizione caseariaè ancora oggi molto forte in questa regione, i modi di lavorareil latte sono in verità spesso simili fra loro, la differenza è piut-tosto nell’origine del latte, nei luoghi in cui si sono alimentatigli animali, nella pazienza dei pastori di condurli per mesi su peri monti alla ricerca dei pascoli più profumati.Il nostro treno attraversa la boscosa valle del Calore, accompa-gnando il fiume per un lungo tratto in direzione della sua sor-gente, fino a Bagnoli Irpino: un nome che evoca raccolte di tar-tufi e di castagne, ma anche nobili formaggi, tanto vacciniquanto ovini. La pecora bagnolese, ‘a malevizza come si chiamain dialetto, è una razza autoctona ancora presente in unmigliaio di capi nel territorio che circonda la valle del Calore: èpiuttosto grande di taglia e porta il suo segno di riconoscimen-to sul muso, alcune macchie nere che gradevolmente contra-stano con il vello bianco. Grandi sono anche le forme del peco-rino bagnolese, che si modellano nelle fuscelle - un tempo diginestra - dal diametro di circa mezzo metro!In realtà sono piccoli allevamenti a conduzione familiare adassicurare ancora la produzione del bagnolese, a dedicarsi allasua cura fin già dall’alimentazione delle pecore portandole abrucare sul pianoro del Laceno, un pascolo che in primavera hai mille profumi della stagione più odorosa.Persistenti, le essenze s’intrufolano fra gli atomi del latte, perpoi riemergere in tutta la loro potenza dal pecorino e dallaricotta. Gli antichi insegnamenti dei pastori casari indicavanoche la lavorazione avvenisse in un caccavo di rame stagnato, diquelli provenienti dalla contrada Ramiera di San Potito Ultra;oggi le norme sanitarie impongono strumenti di lavoro d’altrotipo, certamente più sicuri dal punto di vista della profilassi, ma,ahimé, meno “tipici”.Al latte riscaldato viene aggiunto il caglio naturale, ossia lostomaco dell’agnello con il latte materno parzialmente elabora-to, che viene essiccato e ridotto in polvere. Da questo momen-to in poi ci si rimette al paziente lavoro degli enzimi che tra-sformano il latte in meraviglia della natura, incantevole miste-ro per l’uomo, che ogni volta rinnova il suo stupore, segna unacroce sulla cagliata e ringrazia.È de l’Italia in mezzo / e de’ suoi monti una famosa valle, / che

d’Amsanto si dice. Ha quinci e quindi / oscure selve, e tra le selveun fiume / che per gran sassi rumoreggia e cade, / e sí rode le ripee le scoscende, / che fa spelonca orribile e vorago, / onde spiraAcheronte, e Dite esala. Il paesaggio della valle d’Ansanto è inparte ancora boscoso come lo descrisse Virgilio nell’Eneide, inparte è oggi agricolo. Vi s’intravede una ferita bianca nel terre-no, al centro un laghetto di fango grigio in cui ribollono soffio-ni dall’olezzo forte di zolfo; nei pressi del laghetto, in un lettodi rocce annerite dall’acqua sulfurea, scorre un ruscello che altermine della vallata affonda nel terreno: nel coesistere inpoche centinaia di metri di tanti elementi naturali densi dimistero, prima ancora che Virgilio vi ambientasse il fiume checonduce all’aldilà, gli Irpini videro il varco aperto sugli Inferi.Qui venivano per interrogare e propiziarsi Mefite, dea dellasalute ma anche della sorgente, delle pecore, dei campi e dellafecondità.

Le esalazioni sulfuree che promanano da quella vallata sonoall’origine del particolare aroma del pecorino Carmasciano:l’erba e l’acqua di quest’area prossima alla “Mefite” - come èchiamata per estensione la zona dei fenomeni vulcanici - tra-sferiscono nel latte fragranze uniche. Il formaggio profuma dierba e latte ed ha un lieve “retrodore” (il corrispettivo olfattivodel retrogusto!) difficilmente individuabile in qualsiasi altropecorino. Il territorio del Carmasciano è molto circoscritto, rac-

chiuso com’è fra le valli dell’Ufita, dell’Ofanto e d’Ansanto, ed èla località omonima, situata fra Rocca San Felice e Guardia deiLombardi, ad attribuirgli il nome.La sua lavorazione è del tutto simile a quella del bagnolese,segno della croce inclusa. Entrambi sono ottimi formaggi datavola dopo una breve stagionatura che, se viene prolungata neiclassici locali freschi e ventilati, regala un sapore piccante di cuisono avidi i sughi tradizionali irpini e campani! Sia nella produ-zione di bagnolese che del Carmasciano non si butta via il siero,che ancora nasconde potenzialità straordinarie: i casari sannoche, riscaldandolo ad alte temperature, vedranno affiorare ifiocchi di ricotta. Altre fuscelle ospitano questa delizia che saràspalmata fresca sul pane per approdare in bocca dolce e legge-ra, oppure verrà salata ed essiccata, ottima assieme ai salumiirpini dall’intenso sapore.I casu r’ pecura e la ricotta, garantiti dal marchio Sapore diCampania, si trovano da D’Apolito a Sant’Angelo dei Lombardi,da Raduazzo a Flumeri e da Carmine Nigro a Bagnoli Irpino.

L’oro bianco dei pascoli Pecorino bagnolese, pecorino Carmasciano, ricotta, caciocavallo irpino,

caciocavallo podolico, caciocavallo silano Dop, manteca e ... le carnitesto: Simona Mandato

foto: Alfio Giannotti e Archivio STAPA CePICA di Avellino

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Oltre all’allevamento ovino e caprino, anche quello dei bovini hauna lunga tradizione in Irpinia, testimone ne è la consolidataproduzione di formaggi a pasta filata. Le mandrie della provin-cia avellinese sono composte in prevalenza da vacche Frisone eBrune: dal loro latte misto si produce, soprattutto nella zona

dell’Alta Irpinia e dell’Ufita, il caciocavallo Irpino.Dalle più rare mucche Podoliche si ricava invece un caciocaval-lo “speciale”, fatto esclusivamente con il latte di questa razzabovina autoctona dell’Appennino meridionale. Ai piedi deimonti Picentini, fra Montella e Bagnoli Irpino, e oltre fino all’al-topiano di Laceno, le mandrie sparpagliate al pascolo fannoparte dello scenario del pianoro, in inverno rinomata stazionesciistica, e in estate meta di gite fuori porta. Facilmente si rico-

noscono le Podoliche: agili come capre anche perché vengonoallevate allo stato semibrado. Il particolare sapore deriva a que-sto caciocavallo “di razza” in buona parte dall’esser pregno degliaromi di arbusti del sottobosco, sulla, avena, trifoglio, strappatinei pascoli erbosi su cui le Podoliche si nutrono per molti mesiall’anno. Questi pendii hanno visto per secoli viavai di uomini che inestate conducevano i loro animali sui monti, alla ricerca di zonefresche, ricche di pianori verdeggianti e abbondanti di erbe aro-matiche: si spostavano per centinaia di chilometri, arrivandodalla Puglia fino in Abruzzo, per poi transumare nuovamente alprimo freddo verso valle, a caccia di temperature più calde. Ilunghissimi spostamenti avvenivano lungo i cosiddetti tratturi,i sentieri che solcavano valli e montagne, attraversavano campi,incrociavano chiesette rurali e borghi; di tanto in tanto una sta-zione di posta offriva ristoro ai transumanti, una vita adattataalle esigenze degli animali, nomade e solitaria.Qualche allevatore irpino di Podoliche ancora mette in attol’impegnativo trasferimento: anche per questo, oltre che per ilpregio insito nel latte di questa razza bovina, i formaggi hannoun sapore particolare.

Sapienti mani e forti braccia sono quelle che forgiano il cacio-cavallo podolico: quando la cagliata si è fatta elastica nel suostesso siero riscaldato, il “cordone” di pasta è lavorato e avvol-to più volte su se stesso. Il casaro s’arresta nel faticoso plasma-re quando l’esterno rimane liscio, privo di pericolose pieghe, el’interno libero da vuoti. Dopo la salamoia, gli ovali di formag-gio vengono legati a coppie con un cordoncino e appesi a caval-lo di una pertica di legno, laddove finalmente acquisiscono ilnome di “cacio-cavallo”. Chi apre, con l’aiuto di un coltello, unpodolico stagionato alcuni mesi, lo fa nell’attesa che le suenarici siano invase da quell’odore intenso di latte e fieno, con lagioia di ammirarne le occhiature all’interno e l’euforia di assa-porarne la pasta, leggermente granulosa e piccante (se si èusato caglio di agnello o capretto), che i contadini sagacemen-te accompagnano con le castagne arrostite o i funghi porcini. Il caciocavallo silano Dop si differenzia dal podolico essenzial-mente nel latte utilizzato per produrlo – tra cui è anche quellodi Podolica! -, e ben poco nel procedimento. Questa è la versio-ne di caciocavallo più diffusa in Irpinia, ma anche nelle altre

province della Campania e in gran parte delle regioni meridio-nali. Il nome “silano” è mutuato, infatti, dall’altopiano della Sila,da cui proviene l’antica tradizione. Il disciplinare della Dopcaciocavallo silano prevede una stagionatura che arriva fino ai18 mesi. Alcuni produttori la protraggono ancor più per qualchesingolo esemplare destinato al consumo in famiglia, scrigno disegreti che solo in pochi avranno il piacere di scoprire. Nelle aree anticamente dedite alla transumanza, dal latte bovi-no si produce ancora oggi un particolare tipo di formaggio, natoin tempi lontani dall’esigenza di conservare il burro: il suo nomemanteca, detta anche palla di burro, pare derivi dallo spagnolo

mantequilla, burro appunto. La lavorazione, antica e complessa,parte dalla prima ricotta che affiora - il cosiddetto “fiore” - cheviene raccolta in un panno di cotone. Dopo essere rimasta ungiorno e una notte a spurgare, la manipolazione in acqua fred-da consente di separare il grasso: è questo il cuore, il burro cheera necessario conservare al riparo di un involucro di pasta fila-ta. All’aspetto esterno si direbbe un piccolo caciocavallo, maaprendo la manteca viene fuori il nucleo di pasta cremosa, unsapore dolce e aromatico che, spalmato su fette di pane tosta-to, sprigiona tutto il suo profumo!Con il marchio Sapore di Campania i caciocavalli di Maricondaa Vallata, Caputo a Villamaina, La Follonella a Montella e lamanteca della Cooperativa Mon. Latte a Montella e di Del Sordia Vallata.

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Le carniA chi ramingo procede per i centri irpini, in particolar modo didomenica, non sfugge ad un angolo di strada l’aroma dolciastrodi bistecche alla griglia, o in un vicolo un meraviglioso profumodi spezzatino di vitello con i funghi o le papaine, i tradizionalipeperoni sottaceto. Molto probabilmente, le esperte cuocheirpine stanno preparando, ognuna a proprio modo, carne divitellone bianco.Quello allevato nei pascoli dell’Irpinia appartiene alla razzaMarchigiana, che deriva dall’incrocio fra la Chianina e laRomagnola di cui condivide il patrimonio genetico di ascenden-za Podolica. Per le caratteristiche somatiche comuni, le tre spe-cie vengono ricondotte ad un’unica denominazione di vitellonebianco dell’Appennino Centrale, che nel 1998 è stato insignitodel riconoscimento di Igp. La qualità della carne è indiscutibile.Le bistecche di vitellone bianco alla brace arrivano sotto i denticon tutta la loro consistenza soda e al tempo stesso elastica;cucinata in padella la carne è sempre tenera e gustosa e riccadi contenuti nutritivi. Antonio Corso di Casalbore è, tra gli alle-vatori di vitellone bianco dell’Appennino Centrale, quello cheaderisce al marchio Sapore di Campania.

Quella dell’affumicatura è una tecnica molto antica, saggezzadelle popolazioni montane che l’utilizzavano per conservare iprodotti alimentari. I contadini irpini non l’applicavano soltan-to alle castagne: nei solai o in soffitte ben areate appendevanosoppressate, salsicce e pancette, e per 4 o 5 giorni le esponeva-

no a fumi, in quel simbiotico convivere di uomini, animali e con-serve, tutti insieme a riscaldarsi l’un l’altro. In questo modoperò, i salumi duravano tutto l’inverno, e acquisivano al tempostesso un particolare aroma, la legna bruciata lasciava negliinsaccati un’indelebile impronta profumata. Ancora oggi,seguendo gli arcaici dettami della tradizione, si produce artigia-nalmente la soppressata irpina: il nome, ma anche la sua pecu-liare forma schiaccia-ta, sono conseguenzadella fase in cui l’in-saccato viene tenutosotto il peso di grossepietre; il sapore decisoinvece, è frutto dellecarni scelte, dell’affu-micatura al fuoco dilegna di quercia e dellasuccessiva stagionatu-ra. Tra le aziende cheproducono le soppres-sate secondo l’anticoprocedimento locale,Biancaniello a Torelladei Lombardi aderisceal marchio Sapore diCampania.All’affumicatura vienesottoposta anche la‘nnoglia, prodotta congli scarti del maiale, stomaco e intestino: la tradizione irpinanon consentiva che mancasse sulle tavole pasquali, aggiunta apezzi nella minestra di cicoria selvatica. Non si creda però, chesolo “del maiale non si buttava via niente”. I mugliatielli sonoinvoltini di budelline d’agnello farciti con animelle, fegato,aglio, prezzemolo e menta e legati con la zeppa, la rete cheavvolge il fegato: inventati per sfamarsi con la miseria, oggisono una ricercata leccornia.Proprio alle erbe si era spesso costretti a ricorrere per immette-re profumo e sapore nelle pietanze povere: menta puleggio,finocchietto, ortica, prezzemolo, aglio, sedano, erano tutteusate per illudersi di mangiare un piatto importante. Così comepovere erano le zuppe a base di erbe spontanee, ancora oggipietre miliari della cucina avellinese.

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portale in pietra e una corte internatrasformata in patio - il castellomedievale, sorto in epoca longobar-da, detto anche dei principi Biondi-Morra. Ma anche per comprare unottimo olio extravergine d’oliva, for-maggi freschi e stagionati, per man-giare carne saporita e sana e farsicoccolare dalla gente del posto chenon nega mai un sorriso. Ecco per-ché bisogna arrivare qui leggeri perpoi ripartire con le sporte piene. Ilposto poi - situato nei pressi dellasorgente dell’Ofanto, il Sele e ilCalore - si presta a passeggiate edescursioni. Nelle vicinanze, duelaghetti artificiali, le acque dell’Isca,del Sant’Angelo e del Bocca Nuova,circondati da faggete e rigogliosiboschi di querce e castagni. Unpanorama sulla natura che il paeseha imparato da tempo a valorizzare.Il treno segue dolcemente il corsodelle acque del fiume Ofanto peravviarsi a percorrere la cosiddetta“variante” di Conza, quasi otto chi-lometri su sette viadotti e tre galle-rie (da batticuore), un’opera colos-sale, che ha permesso lo spostamen-to più a monte della linea ferrovia-ria, nel tratto che lambiva il lagoartificiale di Conza. Una grossa digaartificiale, costruita alla fine deglianni Settanta, non solo per ragionienergetiche - ci spiegano - masoprattutto per sbarrare il flussodelle acque del fiume che, in caso diinnalzamento, avrebbero potuto tra-

volgere la ferrovia. Ci si inoltra inuna delle zone più belle dell’AltaIrpinia, grazie alle sei aree naturali-stiche ed ambientali (l’Alta Valledell’Ofanto, i Boschi di Guardia,Andretta e Castiglione, il lago diConza, Querceta dell’Incoronata, ilLago San Pietro) che ne fanno unadelle realtà più vivaci in Campaniadal punto di vista del “turismoverde”. Qui è facile perdersi a con-tatto con una natura fortunatamen-te ancora intatta dove nidificano gliaironi rosa, le gru, i falchi pellegrini,le poiane. Ma la variante di Conza

ha significato anche tagliar fuori dalpercorso della ferrovia un “rosario”di paesini aggrappati alle alturedell’Alta Valle dell’Ofanto, dovepotrà accadervi (se ci andate) direstare stupiti. Perché questa è lasorte di chi si imbatte in questi luo-ghi, come Aquilonia (lo scalo ferro-viario è stato soppresso alla metàdegli anni Novanta), arroccata suun’altura della valle dell’Osento cheguarda solitaria al Tavoliere; rico-struita dopo il tragico terremoto del1930. I resti dell’originario abitatodetto Aquilonia vecchia si trovano a

E siamo nella stazione ferroviaria diLioni, che costituisce uno degli scalipiù battuti dell’intera linea Avellino-Rocchetta Sant’Antonio, non soloperché è nel centro del paese, maanche perché qui ci sono gran partedegli istituti scolastici superiori fre-quentati dagli studenti dei paesinitoccati dalla ferrovia. Dopo il sismadell’Ottanta, la cittadina è statarestaurata e abbellita. Accogliente,pittoresca, aggrappata ad un collelambito dalle acque dell’Ofanto,strade pulite e traffico ordinato.Anticamente era denominata terraleonum e proprio due leoni rampan-ti compaiono sullo stemma comuna-le. Interessante la parte archeologi-ca, in località Oppido Vetere, conresti di mura ciclopiche (che fannopensare ai tipici villaggi-fortezzasannitici) e il vicino santuario diSanta Maria del Pianto, costruito nelXIV secolo su un antico tempiopagano. Nel centro storico, la chiesaparrocchiale di Santa Maria As-sunta, con una bella torre campana-ria del Quattrocento; all’interno, unSan Michele Arcangelo della botte-ga di Giovanni da Nola, della primametà del Cinquecento. Destanoammirazione, le statue di mano diPietro Nittoli, scultore settecente-sco, nativo di Lioni, tra cui, un SanMichele Arcangelo, ritenuto il suo

capolavoro. Immancabile la visita alfamoso santuario di San GerardoMaiella, a Materdomini, una dellemete del turismo religioso in AltaIrpinia, distante dal paese una deci-na di chilometri, ma raggiungibilecon un comodo servizio di bus.Ci lasciamo alle spalle questo tesorod’arte e cultura.Direzione? Morra De Sanctis-Teora,una delle stazioni ferroviarie piùimportanti nella storia dell’Avellino-Rocchetta Sant’Antonio. Fu sede dipartenza di quel “Viaggio elettorale”

(propaganda diventata poi libro) cheFrancesco De Sanctis effettuò nel1875 nei paesi del suo comprensorioelettorale. Quel viaggio ha regalatoai suoi compaesani una coscienzacivile molto forte tant’è da mutarepersino la denominazione del paese(in origine, Morra Irpino, damor/mur che significa cumulo dipietre). Chi viene da questa parti lofa per vedere la casa natale dell’illu-stre letterato – un palazzotto delXVII secolo rimaneggiato nell’Ot-tocento che si presenta con un bel

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In alto, il lagoSan Pietro pressoAquilonia.Sotto,Aquilonia vecchia.Pagina seguente.In alto, vedutadi Monteverde.Al centro, areaarcheologicadi Compsa.Sotto, vedutadi Andretta.Pagina successiva.Il lago di Conza,il Museo Etnograficodi Aquiloniae veduta di Cairano.

In alto, Lioni,chiesa di

Santa MariaAssunta,

statue ligneeseicentesche.

Sotto,lapide

commemorativa di Francesco

De Sanctisa Morra

De Sanctis.

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boschi e valloncelli, non perdetevi lepasseggiate ai torrenti Sarda, Muli-no e Orata, sino alla zona boschivadi “Ripaspaccata”. Immancabile la visita al santuariodella Stella Mattutina, ad un chilo-

metro dal paese, un complesso reli-gioso cistercense, meta plurigetto-nata della “festa della mattinella”che si tiene nell’ultimo sabato edomenica di maggio.

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un paio di chilometri dal paese ecostituiscono uno dei tesori dellacittadina. L’altro è il MuseoEtnografico, forse uno dei più vastidell’Alta Irpinia: 50 stand su 1500metri quadri di percorso per ripro-durre e custodire i gusti, gli aspetti,le quotidianità della vita di untempo. Non da meno la vicinaMonteverde (la fermata? cancellatauna decina di anni fa), su un colleche segna il confine con laBasilicata, nota per il glorioso cele-ste del lago artificiale di San Pietro,lungo la vallata scavata dall’Osento,area attrezzata per la pesca sportivaed i picnic. È il doppio spettacoloche offre questo borgo dal caratteri-stico impianto medievale, a piantatriangolare, con le case petrigne dis-poste a gradoni che cedono il passosolo alla quiete della natura, dell’ac-qua e del vento.E arriviamo nella stazione di Conza-Andretta-Cairano, una delle ferma-te più affollate, al servizio di tre cit-tadine, di antichissime origini, tuttemeritevoli di una visita. A partire dalParco Archeologico di Conza, a 600metri di altezza, su un poggio affac-ciato su un’ansa dell’Ofanto (l’odier-no abitato è più a valle, a Piano delleBriglie), dove ci sono i resti dell’an-tica Compsa, conquistata da Anni-bale nel 216 a.C., riconquistata,dopo due anni, da Fabio Massimo,contesa tra Romani e Cartaginesi,per soccombere poi sotto la spadadei Longobardi. Tra i reperti, un sar-cofago riutilizzato come vasca diuna fontana monumentale, fattorisalire al IV secolo a.C., i resti didomus del III-II secolo, i locali di unanfiteatro, parte di un impianto ter-male. Ma non solo: anche un lastri-cato calcareo con canaletta per ildeflusso delle acque, una vera “chic-ca” dell’ingegneria idraulica deiRomani. Nel parco, presenti anche lerovine di Conza vecchia, mirabileesempio di struttura medievale conparte dei ruderi del castello, situatial margine nord delle mura, nellazona detta Giardino, e della catte-drale di Santa Maria Assunta, del Xsecolo, distrutta da diversi terremotie oggetto di lavori di restauro; nellacripta (non ancora fruibile per ilavori) erano conservate le reliquiedi San Erberto, patrono di Conza.Oggi custodite nella cattedrale“provvisoria” dell’odierna cittadina,assieme alle “Virtù” a rilievo, operamarmorea della prima metà del XVIsecolo, poste nell’altare maggiore eduno splendido sarcofago di SanErberto, del IX-X secolo. Se vi recatepoi nella vicina Andretta, caratteri-stico borgo medievale (in origine, un“castello” di Conza), sprofondato tra

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Passando per Fontanarosa e Mirabella Eclano, vedremo i lorocampi dorati che in estate ondulano al vento insieme alle infin-te spighe di grano. Sul tramontare della bella stagione gli stes-si campi, da poco rasati, sono punteggiati di balle di paglia:molte saranno aperte e utilizzate per costruire i carri che pos-senti buoi traineranno per le contrade campestri. 25 metri eoltre di archi, colonne tortili e capitelli saranno il risultato diinterminabili intrecci di paglia, creati da mani esperte per la“festa del carro”, il ringraziamento per il raccolto, in originerivolto a Cerere, dea delle messi, trasfigurato in cristianissimafesta in onore dell’Addolorata.

Lasciata Bagnoli Irpino, il treno si avvia verso la valledell’Ofanto, e nella piana di Lioni comincia a seguirne il corso. Iricordi di Francesco De Sanctis, critico letterario ma ancheimpegnato uomo politico, toccarono fra gli altri il suo paesenatìo, Morra, che dal treno si vede, un po’ a distanza, poco dopoLioni: “Morra di sera è un bello vedere, massime chi lo guardi dalungi e dall’alto, come fec’io venendo da Guardia.(…) Dunqueuna costa in pendio avvallata è Morra (…) Non ci è quasi casa,che non abbia il suo bello sguardo, e non c’è quasi alcun mor-rese, che non possa dire: io posseggo con l’occhio vasti spazii diterra”. Si passa davanti allo splendido lago di Conza e agli infi-niti campi di grano, cereali e foraggio. In autunno, la terra dis-sodata dopo il raccolto, assume al sole e all’ombra delle nuvo-le, le mille sfumature del marrone e del beige. La terra argillosadi Cairano, Calitri e fin su a Monteverde, è quella che ha origi-nato l’antichissima tradizione della ceramica: fogge semplici,ciascuna con una sua funzione specifica legata alle attivitàrustiche di questo popolo. Cairano prima, e successivamenteCalitri compaiono sotto la nebbia mattutina, la punta dei lorocampanili e i tetti dei borghi svettano e la perforano descriven-do un’atmosfera surreale. “Calitri la nebbiosa” l’aveva sopran-nominata Francesco De Sanctis nel suo “Viaggio elettorale”. Dalle ampie colture di grano adiacenti, la tradizione gastrono-mica di questo piccolo centro si è specializzata nei prodotti delforno. Il pane di Calitri ha superato di fama i confini di questemontagne: le sue forme tonde sono enormi, le cosiddette “ruotedi carro” arrivano anche a sei chili. Segreto svelato della lavo-razione è ancora oggi il criscento. Un residuo dell’impasto vieneavvolto in panni di lana e lasciato a fermentare: tradizional-mente si riponeva in particolari vasetti di ceramica, quelli diCalitri dalle forme e i colori di agreste sobrietà, decorati con unpesciolino stilizzato, simbolo che rimandava al Cristo di cui siinvocava la benedizione sul pane quotidiano. Il giorno dopo ecco trasformato quel residuo in lievito naturale,

che aggiunto all’impasto di farina di grano duro - o tenero -farà crescere il nuovo amalgama nella maniera più genuina edequilibrata. L’aroma del pane di Calitri appena sfornato è uninvito irresistibile, con quella sua crosta scura e croccante ini-mitabile opera del forno a legna, e la mollica consistente e mor-bida, frutto del prezioso criscento. Lo stesso sistema di lievitazione viene adoperato per il pane diiurmano, che però ha nell’impasto un terzo di farina di segale(il dialettale iurmano è il nome del cereale): alla necessità diconservare più a lungo il pane nell’Alta Valle del Calore si eradata questa soluzione, anche perché i campi del Laceno e i pia-nori adiacenti ben si prestavano alla coltivazione della segale,più capace di altri di resistere al clima invernale.I forni irpini racchiudono, oltre a quelli del pane, anche i segre-

ti di più ricche pietanze tradizionali: per la preparazione dellapizza chiena si usa l’impasto del pane casereccio e lo si imbot-tisce di ogni bendiddio: salsiccia piccante, scamorza, scamorzo-ne e altro formaggio bovino, e poi pezzi di lardo che aggiungo-no morbidezza e condimento all’impasto, come tradizione co-manda. La pizza con le biete si tramanda nei pressi dei pianoriabbondanti di erbe selvatiche; mentre la versione di pizzaimbottita elaborata nei luoghi della ricotta di pecora e di vacca,è la pizza di ricotta: l’ingrediente principale viene raccolto,assieme a uova e pezzi di salsiccia o prosciutto, nell’impastofatto di farina e sugna. SPAM a Montella, che le produce anco-ra oggi nel forno a legna, aderisce al progetto Sapore diCampania, insieme al Molino De Furia di Montecalvo Irpino,produttore di farine.

testo: Simona Mandatofoto: Alfio Giannotti e Archivio STAPA CePICA di Avellino

Come dai forni antichi Il pane, le pizze

Page 26: La ferrovia degli antichi Sapori

Il treno si avvia verso le ultime sta-zioni, conserviamo negli occhi il bludel cielo che bacia l’azzurro ceruleodelle acque della diga di Conza elungo la valle dell’Ofanto (antica-mente chiamata “piana della batta-glia” visti gli scontri di armi e di col-telli che ci son stati) si giunge allastazione di Calitri-Pescopagano, unadelle ultime fermate del treno, ubi-cata in una frazione del paese, neipressi della statale Ofantina.Geograficamente le due cittadinetracciano insieme a Sant’Andrea diConza, Cairano, Andretta, Bisaccia epoi San Fele, Ruvo del Monte eRapone, una sorta di “ottagono”irregolare conteso tra l’Alta Irpinia,la Lucania ed il salernitano. Puntofisso è proprio Calitri che FrancescoDe Sanctis si divertì a definire la“nebbiosa” nel corso del suo“Viaggio elettorale”. In verità il pae-sino è bello da togliere il fiato senzanulla togliere ai dintorni: dal Bosco

di Castiglione al suggestivo laghettodelle Canne. Antichissime le originidel borgo, risalenti addirittura alNeolitico con diversi utensili in selcelevigata rinvenuti ed oggi nel MuseoIrpino di Avellino. Altri ritrovamenti,dalle tombe alle sepolture, ai fram-menti di vasellame in argilla del IV-III secolo, confermano insediamentidall’Età del Ferro al periodo dellaMagna Grecia.Da percorrere, palmo a palmo, ilcentro storico, dal caratteristicoimpianto medievale a pianta trian-golare, costellato di dimore nobiliaricon simpatiche loggette e portali inpietra, quasi tutti del XVIII secolo.Nella chiesa dell’Annunziata, diarchitettura cinquecentesca, un belportale rinascimentale; all’interno,nell’abside, è conservata una paladell’Annunciazione in cui si fondonoelementi fiamminghi e ispano-moreschi ed una Deposizione diCristo eseguita probabilmente da

Paolo De Matteis. L’eco di tanta artelo si ritrova nel Museo dellaCeramica (da cui si gode uno straor-dinario panorama sulla valle sotto-stante); un luogo della memoria sul-l’antica civiltà della ceramica diCalitri: dalla preistoria al Medioevo,all’Ottocento sino alle splendideceramiche contemporanee (che tro-verete nei tanti laboratori) in cui ilbianco ed il blu, il rosso ed il verdesono i colori dominanti. I colori diquesta terra che vale la pena diconoscere, almeno una volta.Un’esperienza unica per gli occhi e ...se ne vorrete una per il gusto, traqualche tempo potrete fare unatappa anche alla FormaggiotecaRegionale, di prossima istituzione,vera e propria sancta sanctorumdell’arte casearia campana.Il treno corre verso il Tavoliere.Ultima fermata, e siamo in terra diPuglia: Rocchetta Sant’Antonio,con il sole già alto in cielo.

In alto,veduta di Calitri.Sotto, ceramicacalitrese, antico

contenitoreper il criscentoe il treno nella

stazione diRocchetta

Sant’Antonio.

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