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Io, Europa © 2010 Daniele Gatti

Io, Europa

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Le vicende di due giovani viaggiatori indipendenti alle prime armi, armati di zaini e sacchi a pelo, in tre viaggi Interrail attraverso varie zone dell'Europa. Avventure e disavventure raccontate nei dettagli, con intensità e senso dell'umorismo, tra situazioni improbabili, meravigliosi paesaggi e strani incontri, senza mai perdere di vista lo scopo del viaggio: entrare in contatto con realtà che non sono le nostre e imparare sempre qualcosa di importante da ogni nuova esperienza. Disponibile su www.lulu.com

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Io, Europa

© 2010 Daniele Gatti

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Indice

Nota dell’autore 3

Estate 2008. Norvegia Svezia Finlandia 4

Estate 2009. Francia Belgio Paesi Bassi 104

Estate 2010. Islanda 182

Tabelle di marcia di ciascun viaggio 259

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Nota dell’autoreIl momento in cui inizia la preparazione di un viaggio è cruciale. Un giorno scatta la scintilla, si consulta la carta geografica e si dice: questa sarà la mia meta, stavolta. E così, animati da una nuova forza, si comincia a informarsi, a procurarsi tutto ciò che serve, a consultare le guide turistiche, fantasticando su quello che si troverà all’arrivo. Poco alla volta il viaggio prende forma, e non si sta più nella pelle dalla voglia di partire, di conoscere e di scoprire un angolo di mondo mai battuto. Dopo un’estenuante e febbrile attesa, arriva finalmente il momento di partire. L’esaltazione è ai massimi livelli, ma dopo pochi giorni iniziano i problemi. Stanchezza cronica, spostamenti difficoltosi, situazioni spesso disagevoli, meteo implacabile. Sempre in giro con lo zaino in spalla, pesante e ingombrante; sempre attenti a non perdere il treno per non sballare la tabella di marcia; sempre qualche piccolo malanno in agguato. Ci si stanzia in un luogo e dopo un giorno o due è già ora di ripartire: non si dorme mai abbastanza, si mangia male, ci si deve arrangiare come si può, perché si è soli. La domanda che prima o poi tutti i viaggiatori indipendenti si fanno è “Ma chi me l’ha fatto fare?”.Infine, dopo un periodo che inizialmente pareva lunghissimo e interminabile, giunge inaspettato il momento di tornare a casa. Ed è qui che il viaggio inizia a vivere veramente: ricordando tutto ciò che si è passato, riguardando le fotografie, metabolizzando le esperienze, rileggendo gli appunti scritti su un vecchio e logoro taccuino. E improvvisamente ci si rende conto che è stato sì difficile, ma ne valeva assolutamente la pena. Tutte le fatiche sono state ripagate da esperienze indimenticabili e luoghi meravigliosi.E qualche volta si decide di trasformare quegli appunti, frettolosi e incerti, in un vero e proprio racconto, per poter rivivere i viaggi ogni volta che si desidera, e per non permettere ai ricordi di perdersi nell’oblio. Ora avete capito come è nato questo libro, e per quale scopo: raccontare le esperienze di due giovani viaggiatori alle prime armi con il mondo esterno, con semplicità e schiettezza. E magari infondere a qualcun altro la voglia di riprendere in mano l’atlante e cominciare a programmare un nuovo viaggio. Buona lettura e buon divertimento!

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Estate 2008Norvegia – Svezia – Finlandia

Partenza il 28/07/2008 – Ritorno il 19/08/200823 giorni totali di viaggio

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Sogno nordicoIl Grande Nord è terra di leggende. Chi non ha mai sentito parlare delle epiche battaglie combattute dai Vichinghi, abili navigatori e mercanti oltre che spietate macchine da guerra? Chi non è rimasto affascinato ascoltando le storie dei mostruosi Kraken marini, mastodontici esseri capaci di sbriciolare ed affondare in un attimo qualsiasi nave con la forza dei loro devastanti tentacoli? Chi non ha visto una minacciosa profezia nel Fimbulwinter, il lunghissimo inverno che presagisce al Ragnarök, l'ultima battaglia degli Dei che porrà la parola fine al mondo terreno? Oltre il circolo polare, per alcuni mesi l’anno il sole non tramonta mai, risalendo beffardo prima di toccare l’orizzonte ed illuminando costantemente rocce che si tuffano vertiginosamente in mare, scavate dall’acqua nel corso dei millenni. Ma nei mesi più freddi il volubile astro cambia idea e decide di non mostrarsi mai, preferendo rimanere nascosto sotto l’orizzonte, inviando solo qualche flebile raggio di luce come messaggero. E chissà quante altre sorprese è pronto a riservarci il Grande Nord, ora che muniti di biglietto Interrail stiamo per intraprendere un viaggio che lo esplorerà da cima a fondo. A lungo abbiamo atteso la possibilità di vedere queste terre, ed ora che ne abbiamo la reale possibilità stentiamo a credere che un desiderio possa a volte diventare realtà così facilmente.Fuori dalle ampie finestre possiamo scorgere le centinaia, forse migliaia di automobili parcheggiate poco fa dai viaggiatori, i quali stanno ora trascinando i loro bagagli su pratici carrellini a rotelle, mettendoli poi ad uno ad uno su un nastro trasportatore che li inghiotte inesorabilmente dietro delle bande di plastica flessibile. Mi sento legato a loro da un invisibile ma potente filo conduttore. Insieme a loro, stiamo lasciando la sicurezza della vita ordinaria al fine di metterci in qualche modo in gioco, scegliendo ognuno la propria sfida personale da vincere. Mi diverto ad osservare le persone che mi passano davanti indaffarate come formiche, cercando di immaginarmi cosa celino in quel bagaglio così ingombrante che non passa dal check – in ordinario e deve essere incanalato nel trasporto apposito, oppure in quella borsa così piccola che sembra poter contenere al massimo i vestiti per due giorni. Nonostante le diverse ore di attesa che abbiamo ancora davanti, non ho voglia di mettermi a passeggiare per i saloni

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dell'aeroporto. Preferisco rimanere stravaccato sulla poltroncina, aspettando che il luogo mi fornisca qualche stimolo per alzarmi. Per scaramanzia, non voglio immaginarmi nulla della nostra prima destinazione. Le domande che mi frullano in testa su ciò che troverò una volta arrivato vengono temporaneamente accantonate, lasciando spazio ad una marcata ansia che mi prende ogni volta che devo salire su un mezzo volante. Una tensione generale che decido di curare da solo, basandomi unicamente sulle mie forze e senza affidarmi a pericolosi sedativi, che non si sa mai quali strani effetti possano sortire. La sensazione è altalenante: per qualche minuto credo di essermi tranquillizzato definitivamente, per poi sentire all'improvviso una lieve fitta all'epigastrio che mi ricorda inesorabilmente di essere ancora a terra. Tuttavia, senza che abbia il tempo di accorgermene, già dopo qualche ora siamo in volo a svariati chilometri di altitudine. La metropoli milanese si è fatta sempre più piccola fino a diventare quasi indistinguibile dal paesaggio, e ora la visuale esterna comincia ad annebbiarsi a intermittenza mentre l’aereo attraversa numerosi banchi di minutissime goccioline sospese. Nel momento del passaggio oltre le nuvole, saettano velocissimi alcuni lampi di condensa lattiginosa, scomparendo dopo pochi centesimi di secondo, finché emergiamo dallo strato di nubi e arriviamo nell’aria pura, dove la visuale si riapre. Il pavimento sottostante è ora costituito esclusivamente da nuvole. Ormai dubbi e pentimenti non hanno più senso, vengono inghiottiti dal veloce sfrecciare dell'aereo che ci porta sempre più lontano da casa, alla velocità di ottocento chilometri orari. Dopo aver sorvolato le maestose Alpi, gli innumerevoli campi coltivati francesi e lo splendido stretto della Manica, inizia la discesa verso Londra per effettuare il primo scalo.

HeathrowL’enorme aeroporto londinese è affollatissimo e vivacizzato ovunque da pannelli luminosi di un giallo sgargiante. Ogni angolo ospita boutique e negozi, tanto da farlo sembrare più un centro commerciale che un aeroporto. La scena di poche ore fa si ripete, ma con qualche lieve differenza: la tensione che mi attanagliava le viscere ora è completamente svanita, e mi sento praticamente già arrivato a destinazione. Quasi non penso al secondo aereo che mi

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aspetta di qui a poco. Se sono sopravvissuto al primo, non potrà più succedere nulla di male. Pigramente seduti su una panchina di legno, inganniamo il tempo osservando un padre che rincorre lentamente il figlioletto di pochi anni, il quale si nasconde continuamente dietro le colonne, ingenuamente convinto di non esser visto. Padre e figlio paiono proprio divertirsi e non si curano di nulla di ciò che hanno attorno, né di noi che li fissiamo, né delle donne delle pulizie che a pochi passi stanno svuotando i cestini della spazzatura, né degli altri passeggeri che a volte devono scansarsi leggermente per non essere investiti dal vivace marmocchio. Sto cominciando a ciondolare di lato con la testa. La soporifera attesa, unita alla monotonia dell'atmosfera aeroportuale, mi sta leggermente snervando, ma mi distraggo nuovamente ascoltando un po' di musica. Le rabbiose ed intense melodie di chitarra che scaturiscono dagli auricolari accelerano notevolmente il trascorrere del tempo, e presto siamo nuovamente allacciati alle poltrone di un aereo. Accelerando vertiginosamente e librandoci ancora una volta nell'aria, puntiamo infine alla Norvegia.Gli utili schermi di bordo tracciano la posizione dell’aereo minuto per minuto, mentre due fantastici tramezzini farciti di ogni leccornia condiscono il viaggio nel migliore dei modi. Presto iniziano ad essere visibili i primi accenni della frastagliata costa norvegese. Osservandoli, si ha l’impressione che qualcuno si sia divertito a sbriciolare un’enorme torta di terra, lasciando i rimasugli sul bordo a formare una cortina che avvolge la costa rimasta intera. Tantissime minuscole isolette, intervallate ad altre più estese, non lasciano nemmeno un pezzettino di litorale diritto e regolare. Osservarle è un piacere, mentre l'aereo scende al ritmo di dieci metri al secondo, definendo sempre più i particolari alla nostra vista. Intravedendo i primi sprazzi di città, la curiosità sale. Ora è tempo di farmi la domanda che a Malpensa ho temporaneamente accantonato. Come si presenterà Oslo? Sarà una meraviglia di architettura nordica da togliere il fiato, oppure un'ordinaria città europea senza arte né parte?

Prime impressioniLe sorprese non mancano in questa città, a cominciare dall'aeroporto. La prima cosa che colpisce la nostra attenzione è un

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interminabile corridoio, stretto nella morsa di un calore asfissiante. La mancanza di ricambio d'aria e gli energici raggi del sole, che da parecchie ore trafiggono implacabilmente i vetri, hanno creato un ambiente infernale. Nelle poche centinaia di metri che ci separano dall'ambiente climatizzato, cominciamo subito a sudare abbondantemente sotto le nostre felpe pesanti. Arrivati a un passo dall’uscita, i problemi non sono però finiti: nella fila ci precede una popolosa famiglia di colore, e l’impiegato addetto al check – out deve chiamare tutti i membri per nome, tra tentativi esilaranti. Quando infine, dopo parecchi minuti, termina la conta degli impronunciabili nomi, possiamo finalmente uscire all’aria aperta. Non abbiamo quasi il tempo di ossigenarci il sangue come vorremmo, poiché ci tocca già correre per prendere il primo treno, istituito per fare spola tra l'aeroporto e la città. Non abbiamo nessuna intenzione di perdere già il primo treno, avendo programmato un percorso composto in gran parte da spostamenti su binari. Corriamo dunque a perdifiato, ricominciando a sudare profusamente. La fortuna è dalla nostra parte: un attimo prima che le porte si chiudano, poggiamo i piedi sul pavimento della carrozza. Ce l’abbiamo fatta. Una prima occhiata veloce al nostro mezzo è sufficiente per inquadrare il livello di civiltà di questa nazione: la carrozza è spaziosa, vetri e sedili sono perfettamente puliti, le indicazioni sono chiarissime. Non c'è possibilità di sbagliare nemmeno volendo, poiché ogni fermata è segnalata sia a voce sia a video in più lingue, e sugli schermi scorrono continuamente informazioni supplementari. Faticosamente incastrati i nostri ingombranti bagagli tra i sedili, quasi tutti vuoti, riprendiamo fiato e possiamo finalmente rilassarci un po’, godendoci dal finestrino il primo accenno del panorama norvegese. Campi brulli e sterminati, qualche rara casetta rossa sperduta in cima ad una collinetta, mandrie di mucche che pascolano liberamente con il sole che accenna appena un tramonto sull'orizzonte. Un primo momento di serafica curiosità e contatto con la natura che ci ristora un po' dalla stancante trasvolata ed eleva notevolmente il tono dell’umore. Osservo curiosamente tutto ciò che appare dal finestrino: voglio assimilare fin da subito il più possibile della Norvegia, stampandomi in mente le prime decisive immagini, che saranno quelle che ricorderò in modo particolare quando sarò tornato a casa.

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Non appena usciamo dall’ordinata e pulitissima stazione centrale di Oslo, la città ci colpisce con impressioni contrastanti. Ad una prima occhiata superficiale, non pare molto diversa da una normale capitale europea. Sono poche le costruzioni di fattura chiaramente nordica, e la maggior parte degli edifici è squadrata ed ordinaria. Gli ubiquitari cantieri, coronati da buche aperte e montagne di ghiaia, rendono un po’ difficoltoso percorrere le strade e ci costringono spesso a noiose deviazioni. Vicino ad uno di questi cantieri, un uomo più morto che vivo è appena finito dentro un cassonetto e la polizia sta cercando di tirarlo fuori con vani tentativi, fermandosi spesso per valutare le sue condizioni psicofisiche. Non ti curar di loro, ma guarda e continua a cercare l’ostello. Il nostro primo dormitorio si rivela abbastanza spartano, ma accogliente. I nostri compagni di stanza sono tre viaggiatori indipendenti come noi: un cipriota, un indiano e un tedesco. Il cipriota, dai capelli molto corti e dall’espressione curiosa, si rivela subito molto cordiale e loquace, perciò iniziamo subito a raccontarci un po’ le nostre aspettative, scoprendo molte analogie tra i nostri programmi di viaggio. Chiacchierando con lui il tempo passa in fretta, e ormai sono quasi le undici di sera. Ci sorprendiamo non poco quando leggiamo il quadrante dell’orologio, poiché il cielo è ancora chiaro come se fosse giorno. Se Oslo finora c'è sembrata una normalissima città, questa è la prima reale prova che siamo arrivati nel Grande Nord. La stanchezza è tuttavia notevole, dunque non facciamo fatica a prendere sonno nonostante l’eccesso di luce, filtrata a malapena dalle tende quasi trasparenti.

OsloDopo aver dormito ben poco a causa del nostro compagno di stanza tedesco, che ha russato allegramente tutta la notte, ci vestiamo e usciamo all’aria aperta, curiosi di esplorare la città. Nella zona del porto si erge una strana costruzione, interamente rivestita di blocchi di granito bianco e lucente: si tratta del prestigioso Teatro dell'Opera, l’unico edificio che colpisce seriamente il nostro sguardo. Le rampe esterne dell’eccentrica costruzione sono percorse da gradini dalle forme volutamente irregolari. L’intera costruzione domina fieramente la scena marittima, arricchita nella sua spettacolarità da numerosi promontori naturali e rientranze create

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dall’irregolare costa. Il sole è cocente: i suoi raggi, seppur leggermente più inclinati a causa del cambio di latitudine, sono ugualmente molto carichi di energia. Dall’alto del teatro si vede bene la città e la sua organizzazione: le strade sono ben fornite di piste ciclabili munite di semaforo regolatore, sottopassaggi e sovrapassaggi, e il tutto ha un'aria di funzionalità e di sicurezza. Il traffico è perfettamente scorrevole e non ci sono ingorghi di alcun tipo; i semafori per l'attraversamento pedonale sono tutti muniti di segnale acustico per i non vedenti; non c'è automobilista che non si fermi per lasciarci passare sulle strisce zebrate. Non uno. Abituati agli attraversamenti pedonali “all’italiana”, non riusciamo quasi a credere a ciò che vediamo, vale a dire automobilisti che rallentano e si arrestano prontamente, quando diamo anche solo l’impressione di voler tentare un attraversamento. Quando li ringraziamo, agitando la mano ed affrettando il passo come siamo abituati a fare in Italia, notiamo una certa sorpresa nelle loro espressioni. Probabilmente pensano: “Perché mi stanno ringraziando, quando ho solo fatto il mio dovere?”. Domanda legittima per chi non è mai stato in Italia.La prima delle numerose mete culturali che abbiamo programmato di vedere è un museo che ospita residuati bellici. Una lunga fila di cannoni e bombarde, ancora inquietanti nonostante non sparino più da parecchi decenni, campeggia in bella vista nel cortile dell’entrata. Queste possenti armi fanno da contorno a due impressionanti carri armati, un po’ arrugginiti ma ancora integri, pesanti quasi cinquanta tonnellate l'uno. All'interno del museo invece c'è ogni tipo d'arma da guerra esistente, dalle umili baionette fino ai potenti siluri da sottomarino, uno dei quali misura oltre sette metri di lunghezza per trecento chilogrammi di peso. Un mostro di latta grigiastra e liscia dalla potenza distruttiva grande quanto la sua insensatezza e la scelleratezza di chi l'ha progettato e costruito. Le armi non possono non lasciare un vago senso di malessere, per quanto dismesse e inattive siano. Le armi servono per uccidere. Si cambia decisamente registro con un castello di epoca medioevale dagli enormi e luminosi saloni e dalle suggestive viuzze lastricate. Sul lato rivolto verso il centro cittadino si stagliano fieramente altri cannoni, di colore verdognolo, che sembrano puntare direttamente al porto per distruggerlo. L'effetto è molto realistico, nonostante le vetuste armi siano ovviamente solo ornamentali. Dopo aver camminato su ogni bastione e visitato tutto questo gioiello

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architettonico da cima a fondo, possiamo darci all'ozio in una delle numerose panchine nelle vicinanze, trovando anche un po’ di ombra stabile. Siamo appena all'inizio delle scarpinate che ci attendono, tuttavia i nostri piedi, fin troppo lisci e disabituati alle camminate, iniziano già a soffrire. Le vesciche stanno solamente aspettando il momento giusto per comparire e rovinarci le giornate. Escogito subito un sistema molto artigianale per eliminare il problema: il cerotto di tela bianca rimastomi nelle tasche dopo l'ultimo tirocinio in ospedale si rivela eccezionale per ridurre gli attriti sulle parti più sensibili della pianta del piede e risolvere quasi radicalmente il problema. Devo però stare attento a sistemarlo senza formare pieghe, o le grinze potrebbero peggiorare gli strofinii e causare lesioni anche più fastidiose. Ma faccio un lavoro perfetto, da vero infermiere. Presto il problema è dimenticato e siamo nuovamente pronti per affrontare lunghe camminate, che nelle prossime settimane non mancheranno di certo.Passeggiando per il lungomare, troviamo lo squadrato ed altissimo municipio di mattoni rossi, e poco più in là il palazzo dove avviene la consegna del premio Nobèl per la pace. Il viale è decorato da lunghe file di fiori colorati, mentre qualche barca a vela ormeggiata mostra i suoi alberi maestri spogli da vele. Presto ci troviamo a camminare sul conosciuto Karl Johans Gate, il principale viale della città, nel quale si trovano la gran parte degli edifici storici: il Palazzo Reale e l’Università, entrambi ottocenteschi, e qualche centinaio di metri più avanti il Parlamento, molto sfarzoso e barocco. Il vialone è lungo in totale più di un chilometro e mezzo, e la vista dall'estremità in rilievo è semplicemente splendida. Sul lato destro, quasi del tutto sgombro da edifici e palazzine, vi sono fontane dalle forme bizzarre, aiuole di fiori variopinti e statue intervallate da chioschi gastronomici, che vendono piatti tipici con ottimi profitti. Se non fossero così costosi ne prenderemmo qualcuno anche noi. Il viavai di persone è continuo e la strada non si svuota mai, anche perché è l’ora di punta. I numerosi alberi e le panchine disposte strategicamente sotto di essi ci riservano un po’ di ombra e riposo, necessari periodicamente per riportarci in temperatura, visto che il sole che si sta facendo sempre più implacabile. La gente che si incontra passeggiando per questo brulicante viale appartiene a tutte le etnie: i norvegesi si riconoscono subito dai capelli biondissimi e dalla corporatura piuttosto robusta, ma sono numerose anche le

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persone di carnagione scura, musulmani in quantità, frotte di giapponesi e soprattutto di italiani. Come una maledizione strisciante, infatti, sentiamo parlare il nostro idioma da qualunque parte ci giriamo. La nostra nazionalità non ci permette di lamentarci, ma arrivare in un posto distante diverse migliaia di chilometri da casa e sentire ancora parlare nella propria lingua può essere veramente seccante. In ogni caso gli italiani all’estero sono l'ultimo dei problemi: le voci dei nostri connazionali passano progressivamente in secondo piano, mentre percorriamo questo ricchissimo viale lungo il quale ad ogni metro c'è una sorpresa nuova.Dopo tutto questo sole e quest’incessante camminare, abbiamo proprio voglia di fermarci, ma non c’è nessun posto che non appaia costosissimo. Ad un passo dal vaneggiamento, mentre giungiamo in una confluenza con densità di passanti e di venditori ambulanti elevatissima, scorgiamo per miracolo un fast food nel quale ci fermiamo per un'oretta. Non sarà la soluzione più sana, ma è certamente la più economica, e il nostro budget non ci permette molto di più. Riempito lo stomaco, ripartiamo cercando il Munch Museum, dedicato al grande pittore nato a Løten, nel sud della Norvegia. Tale museo, tuttavia, contiene solo le copie dei dipinti più famosi, come l'Urlo e la Madonna. I veri dipinti sono in un altro museo di Oslo. Non essendo un grande appassionato d'arte, i musei non sono il mio pane, ma non possiamo tralasciare una delle attrazioni più famose della città. La visita passa veloce, tra i miei sguardi distratti e sfuggenti che si soffermano solo su ciò che appare straordinario a prima vista, contrapposti a quelli più attenti e prolungati del mio compagno, maggiormente avvezzo ai musei pittorici e ben più ferrato di me in materia artistica. Esauriti i quadri da ammirare, passiamo il resto del pomeriggio stesi sull'erba del parchetto appena lì fuori, a respirare aria pulita sotto qualche frondoso albero, giocando a briscola per ingannare il tempo. Obblighi e doveri sono temporaneamente inesistenti. Una condizione che nella vita moderna è ormai riscontrabile solo di rado.Pochi minuti dopo il nostro ritorno all’ovile, il tedesco varca la soglia della camera con fare gongolante, declamando in inglese "Sono ubriaco e felice!". Subito dopo, inizia a discutere animatamente con il mite cipriota: sembra che l’amico etilista abbia

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qualcosa da ridire sul nostro compagno di stanza indiano, che lascia sempre tutte le finestre chiuse e con le tende alzate quando esce per ultimo dalla camera. Come ci si poteva aspettare, nel corso dell’infuocato pomeriggio la stanza si è trasformata in un forno crematorio. La battuta del tedesco è esilarante: "Ma dove abita questo, all'Inferno?". Dopo una grassa risata generale, ognuno riprende ad occuparsi dei fatti suoi e dopo una mezz’oretta ci troviamo a chiacchierare con il cipriota a proposito della politica italiana. Vuole sapere qualcosa di questa famosa Mafia, che tipo di organizzazione è, dove stanno le mele marce in Italia, quante ce ne sono. Pare incredulo, quando gli raccontiamo le cose come stanno, ma purtroppo non inventiamo niente. All’estero facciamo inevitabilmente una figura poco onorevole, con la nostra tradizione corrotta e mafiosa. Tuttavia, l’amico cipriota è sufficientemente intelligente per capire che italiano non significa necessariamente corrotto e mafioso, così come islamico non significa necessariamente terrorista e americano non significa necessariamente ignorante. Dopo cena, è doverosa un’altra camminata nell'arteria principale della città, stavolta dotata di un'atmosfera tutta particolare. In cielo dominano dei nuvoloni neri, solcati da qualche raro fulmine, ma non cade una sola goccia di pioggia. La luce è quasi irreale: sembra un'alba, ma senza sole. Seduti di spalle al Palazzo dei Congressi, con tutto il viale illuminato che si estende a perdita d'occhio dinanzi a noi, rimaniamo fermi ad osservare senza pronunciar parola, affascinati da quest’atmosfera. Tuttavia, un tuono un po’ troppo forte ci spinge a muoverci per tornare al coperto, ma ci perdiamo nelle intricate vie del centro proprio mentre inizia ad infuriare un acquazzone, che ci infradicia impietosamente nonostante gli ombrelli. Ritrovata la via giusta, rientriamo bagnati come pulcini e altrettanto sudati, crollando sui letti vergognosamente sfatti. Nessuno ha voglia di sistemarli, dovranno rimanere così solo per poco ancora…

Opere d’arteIn un orario imprecisato oltre la mezzanotte, vorrei seriamente alzarmi per soffocare nel sonno il tedesco. Ha addirittura raddoppiato l’intensità del russamento rispetto a ieri notte. Fargli il

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classico “pissi pissi” non serve a nulla, anzi peggiora la situazione. Di conseguenza, passo un’altra notte disturbata. Per fortuna è l’ultima volta che ci dormo assieme: il tempo per il check – out è ormai agli sgoccioli e dobbiamo sloggiare dall’ostello. Il cipriota ci saluta amichevolmente declamando "Italian Mafia is leaving!”. Ricambiamo il saluto, divertiti, e riprendiamo la via per la stazione. Una volta depositati i bagagli nei lockers della stazione, prendiamo la strada per un altro importante museo d'arte, una delle ultime tappe programmate per sfruttare appieno la giornata che rimane. In questo museo si trova il vero Urlo di Munch, recuperato per l'ennesima volta dopo l'ennesimo furto. In effetti, non dev’essere stato troppo difficile rubarlo, poiché apparentemente non è protetto da alcun sistema di sicurezza. È semplicemente appeso come tutti gli altri quadri, solo in una posizione un po’ più appartata. Trovarmi davanti a questo quadro così famoso, presente su tutti i libri d’arte del mondo, non mi riempie di particolare ammirazione, ma in compenso non posso fare a meno di esaltarmi trovando casualmente su una parete l’enorme Caccia Selvaggia di Odino, quadro cui si è ispirato il musicista svedese Quorthon per la copertina di uno degli album cardine della discografia metal nordica. L’orda divina rappresentata trasuda epicità da ogni pennellata, la stessa epicità che impregna ogni composizione artistica partorita in queste terre. In particolare, essa è evidente in una serie di quadri naturalistici che raffigurano paesaggi più o meno inventati dell'estremo Nord. Saranno un preludio di ciò che ci aspetta, oppure semplice fantasia degli artisti? Dovremo attendere solo qualche giorno per scoprirlo, quando aumenteremo ancora la nostra distanza dall’Equatore.

Il villaggioFiniti i quadri, è tempo di un deciso cambiamento di programma: poco distante c’è un antico villaggio rurale, ora riadattato a museo. Casette di legno a tetto spiovente, verniciate con colori che spaziano dal giallo al rosso vivo fino all'azzurrino; piccoli cortili circondati da bianche staccionate; minuscole finestrelle munite di tripli vetri, per isolare meglio dalle rigide temperature dei mesi invernali; interni così angusti e raccolti da lasciare a malapena lo spazio per muoversi. Questi ambientini fanno venire una voglia incredibile di abitarci, per

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la loro atmosfera così antica e suggestiva e gli spazi così piccoli che ispirano protezione e riservatezza. Così vivevano i norvegesi un tempo, e nonostante si tratti di comuni abitazioni non si può non notarne il carattere fiabesco. Una bambina vestita in abiti tradizionali sta preparando un caffè in una delle stamberghe, con la madre che stende i panni fuori, anch’essa vestita come una donna vichinga. Nei loro occhi chiari si legge la fierezza e l'attaccamento alla propria cultura. La riproduzione del villaggio è organizzata ed inscenata alla perfezione: c’è da domandarsi se queste persone non vivano davvero qui tutto l’anno. Proseguendo, camminiamo in mezzo a capanne su palafitte, dalle strane forme oblunghe o irregolari, costruite in legno scuro e non verniciato. Alcune di esse hanno l'erba che cresce sul tetto e sembrano emerse direttamente dal bosco selvaggio. D’altra parte, questa piccola bizzarria ha un risvolto ecologico non indifferente: se tutte le case al mondo avessero l’erba che cresce sul tetto, chissà quanta anidride carbonica in meno ci sarebbe nell’atmosfera! Proseguendo ancora oltre, le casette si fanno sempre più povere e somiglianti a stalle, finché troviamo le stalle vere, con tanto di maiali che grufolano e si rotolano allegramente nel fango. Un socievole gatto si avvicina a noi e si lascia accarezzare fiducioso, strusciandosi sulle nostre gambe come fanno tutti i gatti per salutare gli esseri umani di cui ritengono di potersi fidare. Le nostre gambe stanno iniziando a dare segni di cedimento dopo tutto questo camminare senza soste, perciò ci fermiamo all’ombra di qualche albero per mettere qualcosa sotto i denti, osservando nel contempo alcuni bambini alle prese con i loro trampoli. Rimaniamo pigramente seduti in panchina per circa un’ora, prima di partire per la prossima ed ultima attrazione, il museo delle navi vichinghe. In realtà, più che un museo è uno stanzone spoglio nel quale si trovano tre relitti di drakkar. La loro caratteristica prua a spirale è talvolta modellata per assumere la forma d'animali mostruosi come serpenti marini e draghi, necessari per incutere timore al nemico e proteggersi dalla malvagità delle mitiche creature marittime. Pur belle che siano le navi, nel piccolo museo non c'è altro, perciò usciamo presto per darci nuovamente al relax sull'erba, lasciando ancora una volta alla musica il compito di creare degli spettacolari ricordi di questi minuti.

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Non ce ne siamo nemmeno accorti, ma è già ora di ripartire. Verso tarda sera ci aspetta il treno per Stavanger, qualche centinaio di chilometri più ad ovest. Mancano cinque ore prima della partenza del treno notturno, e ormai non abbiamo più un posto dove andare. La nostra casa è la stazione ferroviaria. Per far trascorrere un po’ più in fretta il tempo, risaliamo in cima al Teatro d'Opera, rischiando costantemente di inciampare negli insidiosi gradini. Dalla piattaforma superiore ci godiamo un nuvoloso tramonto, che infiamma debolmente il cielo. Presto però cade qualche goccia di pioggia e la lieve brezza si fa sempre più tesa. È meglio ripararsi al caldo, prima di farci sorprendere da un altro temporale mostruoso.

Prima notte in trenoLa notte da passare in treno mi preoccupa, viste le grosse difficoltà che ho nel dormire seduto. Non mi riesce assolutamente di addormentarmi in quella posizione, nemmeno dopo ore di tentativi. L’ho già sperimentato in passato e so già cosa mi aspetta. In ogni caso, i treni notturni ci sono molto utili e non possiamo lesinare su di essi. Il risparmio che ci garantiscono in termini di tempo e soldi è notevole. Sui nostri sedili, reclinabili ma non troppo, gli inservienti hanno gentilmente lasciato una mascherina per gli occhi, una coperta e due paia di tappi per le orecchie. I regalini per la notte potrebbero aiutarmi a prendere sonno, ma so che saranno comunque inutili. Ma forse non dovrei lamentarmi, poiché poteva andarmi molto peggio: nei posti immediatamente dietro di noi, gli schienali dei sedili non si possono abbassare nemmeno di un millimetro, essendo a contrasto direttamente con la parete posteriore della cabina. Lì sarei sicuro al cento per cento di non chiudere occhio, qui mi rimane qualche flebile possibilità. Il controllore passa tra i sedili subito dopo la partenza, cercando eventuali passeggeri abusivi, ma non ne trova nessuno. Tutti sanno che qui non si scherza e le multe per i furbi sono molto pesanti. Una volta finito il giro di controllo, le luci vengono abbassate notevolmente per permettere ai viaggiatori di prendere sonno. Mi sento escluso dal resto dei passeggeri: dopo due ore dalla partenza, infatti, sono ancora al punto di partenza. Ho molto sonno, ma non posso dormire se non mi sdraio. Continuo a rigirarmi nel sedile in cerca di una posizione comoda per addormentarmi, ma senza il

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benché minimo risultato. Il massimo che riesco ad ottenere è distruggermi qualche vertebra del collo, per aver tenuto la testa piegata di lato per troppo tempo senza accorgermene. Comincio ad irritarmi per la mia incapacità di addormentarmi, ma purtroppo non ci posso fare niente. A volte non si può fare altro che lasciar passare il tempo. Il mio compagno si è già addormentato da un pezzo, fortunato lui. Io mi rassegno a passare la notte in bianco, ma non tutto il male viene per nuocere. Guardando fuori dal finestrino, infatti, posso intravedere la luce del sole sotto l'orizzonte. Considerato che sono quasi le tre di notte, posso ritenermi fortunato ad essere sveglio per ammirare questo spettacolo. Di colpo la situazione si ribalta. Ora non voglio più dormire, ma solo gustarmi quest'insolito fenomeno che la natura norvegese mi sta regalando. La nostra stella si nasconde bene dietro le montagne, ma non è poi così lontana come potrebbe sembrare. I tenui e appena accennati raggi creano un’aura di colori sbiaditi attorno alle creste delle montagne, mentre il treno prosegue indifferente la sua corsa. Un’esperienza quasi metafisica. Mentre mi perdo nei meditabondi meandri della mia mente, stimolata da questi paesaggi così surreali, comincia a farsi mattina. Il sonno mi torna e si fa sempre più violento, ma non c’è verso che mi addormenti. La posizione semiseduta rovina tutti i miei sforzi. Riesco solo a cadere in uno stato di trance che potrei definire dormiveglia profondo, ma che non diventa mai sonno vero se non per pochissimi ed insignificanti minuti, dei quali non ho memoria né certezza. Il tempo è lento ma non si ferma mai, e so che anche questa notte prima o poi finirà, così come finiscono le lunghe ed apparentemente interminabili notti di turno in ospedale. Alle sette di mattina l’agonia termina definitivamente, e il sole stavolta sorge per davvero. Siamo arrivati a Stavanger.

StavangerScendiamo dal treno assonnati e rimbecilliti, ma l’aria frizzante della mattina norvegese ci ringalluzzisce e ci fa riacquistare un filo di lucidità mentale. Ci troviamo in una cittadina che conta oltre centomila abitanti ed è famosa per la fiorente industria petrolifera che ospita, ma che non offre alcuna attrazione turistica di rilievo. L’unica cosa che ha una parvenza artistica è un simpatico laghetto

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circolare, posto proprio di fronte all’uscita della stazione. Una fontanella al centro del laghetto spruzza costantemente acqua in ogni direzione, ma non abbiamo tempo di osservarla. Dobbiamo muoverci e trovare in fretta un ufficio informazioni. Solo lì, infatti, ci potranno dire dove si trova l’ostello e soprattutto come dobbiamo fare per effettuare il trekking sul Preikestolen. Questo nome significa “Roccia Pulpito”, e identifica una mastodontica roccia a forma di parallelepipedo, situata lungo un fiordo e strapiombante per seicento metri sull’oceano Atlantico. Una meraviglia d'architettura naturale, ed una tappa irrinunciabile per qualsiasi viaggiatore che approda in Norvegia. La febbre della conquista brucia in noi, ansiosi come siamo di raggiungere questa succulenta meta, ma le cose iniziano ad andare storte. Orientarsi a Stavanger non è facile e il tempo a nostra disposizione è molto scarso. Non abbiamo assolutamente intenzione di tentare la salita alla Roccia con gli zaini pesanti sulle spalle, nemmeno nel più sconsiderato impeto di spirito d'avventura estrema: probabilmente non arriveremmo in cima vivi. Dobbiamo perciò depositare i bagagli in ostello, o in alternativa nelle casseforti della stazione dei traghetti, della quale però ignoriamo l’ubicazione. Calcolando male i rischi, optiamo per il deposito in ostello, molto lontano e irraggiungibile a piedi dalla stazione. Per arrivarci bisogna prendere uno dei numerosi bus urbani che servono il paese in ogni angolo, per poi riprendere lo stesso bus e tornare indietro. Un piano azzardato, visto il poco tempo a nostra disposizione, ma presi dall’impeto decidiamo di provarci ugualmente. Con l’aiuto dell’ufficio informazioni e di un autista di pullman, riusciamo infine a trovare la fermata giusta dove aspettare il nostro autobus. Qui incontriamo una signora che parla italiano! Ella è infatti originaria di Chiasso, cittadina vicinissima al confine svizzero e a due passi da casa nostra. Il mondo è davvero piccolo! Dopo averci parlato dei suoi parenti che abitano all'isola d'Elba, la signora ci aiuta nella nostra ricerca, spiegandoci dove dobbiamo scendere. La ringraziamo moltissimo per il vitale aiuto e scendiamo alla fermata da lei indicata, mentre il tempo inizia già a stringere. Il problema è che di quest'ostello non v'è nemmeno l'ombra. Nei dintorni c’è solo un campeggio, coperto in ogni centimetro quadrato da tende e roulotte. Edifici, quasi nessuno. La reception è chiusa e aprirà tra cinque minuti, stando a ciò che recita il cartello

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affisso sull’entrata. Ci sono un po’ di persone che stanno aspettando fuori, con aria seccata. Staranno anche loro cercando l’ostello? Questa sarà veramente la reception? Non possiamo saperlo finché non apre, e il tempo utile per prendere il traghetto è sempre più scarso. Non sappiamo assolutamente cosa fare e ci sta prendendo una spiacevole ansia. È meglio rimanere ad aspettare, oppure conviene tornare immediatamente indietro, sperando di trovare un deposito bagagli nella stazione dei traghetti? Tentiamo la fortuna scegliendo la soluzione più immediata, cioè ripartire subito. Il bus dal quale siamo scesi poco prima tarda solo qualche minuto ad arrivare, ma quei minuti potrebbero fare la differenza tra il salire sul traghetto e il vederselo passare davanti. Quando finalmente scorgiamo l’autobus che percorre senza troppa fretta le curve in cima alla strada, dirigendosi verso di noi col motore che ansima e borbotta, saliamo e ritroviamo la stessa signora di prima. È strano, pensavamo fosse già scesa da un pezzo. Vedendoci in evidente difficoltà, la donna si offre di portarci i bagagli nell’albergo dove lavora. L’offerta è allettante, ma uno sguardo diffidente di Davide mi convince che per quanto l'anziana signora si mostri gentile e disponibile ad aiutarci, non possiamo lasciare in mano i nostri bagagli a quella che è pur sempre un'estranea. Rifiutiamo dunque gentilmente la proposta. Una volta scesi dal bus, iniziamo una corsa folle per raggiungere la stazione navale, fortunatamente poco distante da quella ferroviaria. La raggiungiamo in un lampo. Stocchiamo i bagagli in fretta e furia, contando le monetine necessarie con le mani che quasi tremano, dopodiché ripartiamo a razzo verso la biglietteria. Siamo già convinti di essere arrivati troppo tardi, ma c’è ancora una piccola speranza... ed ecco la sorpresa! Il nostro traghetto arriverà tra ben tre quarti d'ora, e non tra pochi minuti. Il traghetto che parte alle nove in punto appartiene ad un'altra compagnia navale. Accidenti alle informazioni sbagliate! Tanta fatica e apprensione per nulla, ma almeno possiamo tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, e nondimeno fare colazione. Purtroppo, il succo di frutta che abbiamo comprato si rivela disgustoso, e dopo qualche sorso finisce allegramente nel cestino. Rimpiango il cibo italiano, universalmente conosciuto ed apprezzato, ma si sa, in viaggio occorre fare qualche rinuncia.

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Consumata anche questa poco appetibile colazione, sono finalmente arrivate le nove e tre quarti ed è tempo di partire per la Roccia. Il sole picchia forte anche oggi, ed è una bellissima giornata, ideale per un itinerario di trekking avventuroso. L’energia è salita di nuovo a livelli stellari e siamo pronti ad affrontare le due ore e mezzo di salita, necessarie per posare i piedi sulla rude roccia granitica che regna incontrastata sul Lysefjord.

L’ascesaArmati di scarpe da trekking e di spirito di conquista, iniziamo ad inerpicarci su questo sentiero, che sembra ben tracciato e livellato. Presumiamo che sarà una salita tranquilla e panoramica, nella quale fare affidamento soltanto sul fiato e sulla buona volontà di arrivare presto in cima, ma non abbiamo un’idea precisa di quale sia la reale natura di questo percorso. Alla nostra destra possiamo scorgere gli ultimi lembi di oceano, che sono penetrati fino a qui serpeggiando in mezzo alle montagne, ed è veramente paradossale vedere il mare confinare direttamente con esse. Dobbiamo ancora abituare gli occhi a quest’insolito paesaggio. Nei primi dieci minuti di camminata, tutto fila liscio come l’olio, ma il nostro ottimismo è presto intaccato da una poco incoraggiante rivelazione: il sentiero ha mutato radicalmente la sua morfologia ed ora consiste quasi interamente in massi e rocce irregolari, che tappezzano completamente la strada. Tutte le rocce vanno ovviamente scavalcate o aggirate, poggiando il piede nel posto giusto, stando attenti a non sbilanciarsi e a non caricare il peso su una lastra instabile, e soprattutto a non causarsi qualche fatale distorsione alla caviglia. I piedi iniziano subito a soffrire per via del sentiero, così aspro ed irregolare; il fiato per fortuna non ci manca, ma la natura della strada ci rende la vita difficile. Come se non bastasse, il percorso è popolato da centinaia di persone che intralciano il passaggio, così come noi lo intralciamo a loro, ma la convivenza non crea troppi problemi, poiché siamo tutti concentrati solo nel mettere un piede davanti all’altro. Alterniamo momenti d'accelerazioni furiose a testa bassa, stufi di non vedere mai un punto d'arrivo, ad altri di camminata enormemente rallentata a causa di un colpo di fatica. Ogni crinale roccioso sembra l'ultimo, ma poi si scopre che ce n'è ancora un

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altro identico da raggiungere prima di arrivare in cima. La montagna sa essere atroce! La strada, inoltre, non è una salita uniforme, bensì un continuo ed imprevedibile saliscendi che mette a dura prova i piedi, costretti prima a volgersi in un senso e poi nell'altro, senza mai potersi abituare ad un'andatura regolare. Passo dopo passo, un'imprecazione dietro l'altra, il tremendo sentiero pietroso finalmente finisce. Ora non c'è più nemmeno un vero e proprio sentiero, bensì solo delle rocce larghissime e piatte dalle quali bisogna continuamente scendere e salire. Tali lastre sono quasi tutte irregolari ed inclinate, cosicché il piede non si trova mai dritto, ma si flette costantemente, ora a destra ora a sinistra. Il rischio di distorsioni è molto alto, e se non ci pensano le distorsioni a rovinarci la festa, di sicuro ci pensa il dolore alle caviglie, irritate dal basso bordo della scarpa. Avrei dovuto scegliere una calzatura dal bordo più alto!Nessuno attorno ha un'idea precisa di dove sia il sentiero giusto, e la massa di persone si apre a ventaglio per cercare la via più facile. L'intera scena montana è condita da limpidi laghetti, nei quali alcuni temerari stanno facendo dei rigeneranti pediluvi alla temperatura di forse tre o quattro gradi centigradi. Sulle montagne circostanti, altri isolati specchi d’acqua sono circondati su ogni lato dalle foreste di pini, che paiono delle minacciose squadre d’assalto, armate di spine e frasche. L’insolito paesaggio contribuisce a lenire un po’ la fatica dell'ascesa, esacerbata dalla scarsità d'acqua che ci costringe ad un razionamento severo. Passiamo continuamente da vaste zone completamente in ombra, nelle quali si patisce un freddo intenso, a zone esposte al sole cocente, quasi per nulla ostacolato da un cielo terso e pennellato solo qua e là da qualche cirro isolato. La faccenda inizia a farsi stressante e ci stiamo preoccupando seriamente sulla distanza che ci rimane da percorrere: ogni volta che troviamo un cartello indicativo scopriamo di essere ben più indietro del previsto, traditi dall’ingannevole morfologia del percorso. Tutt’ad un tratto, passiamo sul fianco della montagna, dove ci sono tanti ponticelli di legno collegati tra loro ed intervallati a rocce sporgenti, nelle quali si incastonano magistralmente. Da qui si inizia ad intravedere in lontananza la fine della montagna, e questa visione ci dà nuova forza per continuare. Non possiamo mollare, ora che siamo così vicini!

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Dopo altri trenta minuti di scarpinata, coi piedi sempre più doloranti e macerati nel sudore, raggiungiamo senza quasi accorgercene il primo punto in cui la montagna dà a picco sul mare. Impossibile esprimere a parole la magnificenza del luogo. Lo strettissimo sentiero è ora fiancheggiato da roccia solo da una parte, mentre dall’altra cade un vertiginoso strapiombo, protetto solo da qualche ciuffo d’erba che funge da ciglio. Stranamente, la paura di ruzzolare di sotto non mi sfiora nemmeno per un istante, così come non accuso vertigini. La bellezza del panorama e l'emozione di essere qui sovrastano qualsiasi paura e sensazione fisica sgradevole. La stanchezza e i dolori ai piedi hanno cessato di esistere, come temporaneamente svaniti. Rallentiamo il passo per goderci meglio questi spettacolari paesaggi e per assaporare fino in fondo il brivido dell’emozione. Distogliendo lo sguardo dall’oceano sottostante e rivolgendo gli occhi verso l’orizzonte, le catene montuose del fiordo si estendono a perdita d’occhio, magnificate da un’atmosfera secca e limpida. Man mano che ci avviciniamo alla meta vera e propria, distante ormai solo poche decine di metri, gli strapiombi si fanno sempre più netti e paurosi. Improvvisamente, il sentiero si appiattisce e ci rendiamo conto di essere arrivati sullo spiazzo finale, un quadrato roccioso di circa venti metri di lato. La Roccia Pulpito è finalmente conquistata.

Sulla RocciaCi fermiamo per qualche secondo, tentando di digerire questa strana e quasi irreale situazione. Siamo in piedi su un blocco di granito, quasi perfettamente liscio e verticale, che si getta a precipizio in quello che sembra un grosso fiume, ma che in realtà è l’Oceano Atlantico. Le sue acque serpeggiano tra le due catene montuose che si fronteggiano fieramente, dividendole in due e riempiendo le vallate, che migliaia o forse milioni d'anni fa erano completamente asciutte. Le pareti laterali della Roccia sono del tutto sgombre da vegetazione, e alcuni irregolari contrafforti rocciosi contornano il monolite. Un limite nettissimo divide la fine della montagna dall’inizio dell’acqua, ben seicento metri più in basso, limite al quale è bene avvicinarsi sdraiati bocconi onde evitare una fatale sincope. Qualche solitario traghetto carico di turisti solca lentamente le acque, lasciando un'appena visibile scia di schiuma bianca dietro di

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sé. Sembra così piccolo a guardarlo da così in alto, e anche il resto del mondo sembra così infimo ed insignificante. Sporgendo la testa dal bordo della Roccia, l’emozione raggiunge il climax. La mancanza assoluta di protezioni e la visuale diretta sul fiordo lasciano sensazioni indescrivibili. Può tutto questo essere unicamente un effetto dell'erosione dell'acqua scioltasi nei ghiacciai, la quale è poi andata a riempire le vallate sottostanti, millennio dopo millennio? Si stenta a crederlo, pare invece che sia tutta opera di pazienti scalpellini umani che per lo stesso lasso di tempo hanno modellato e plasmato questo colosso. Le persone attorno a noi non fanno che vociare concitatamente in tutte le lingue possibili e immaginabili, ma non c’è tempo per badare a cosa fanno gli altri né per lamentarsi della loro rumorosità. Mi siedo sul bordo laterale della Roccia, ammirando uno dei pietrosi contrafforti che mi sovrastano sulla destra e lasciandomi cullare dai riflessi del sole sull’acqua. In certi punti, la luce forma strane figure, che sembrano veri e propri disegni impressi sulla superficie dell’oceano. Guardando giù mi sento come invulnerabile: io sono qui e il resto del mondo è lì in basso.

La discesaIn mezzo al quadrato roccioso consumiamo uno spuntino molto spartano, condito da qualche barretta energetica per affrontare al meglio la discesa, che immaginiamo non sarà più semplice della salita. Rifare al contrario tutti quegli improbabili sentieri, con la stanchezza accumulata e non del tutto smaltita dal breve riposo, non si prospetta un gioco da ragazzi. Diverse persone si stanno togliendo le calze per mettere i cerotti antivescica sulle piante dei piedi, esattamente come ho fatto io prima di partire. Per chi ha i piedi che tendono a ferirsi e vescicarsi facilmente, il sentiero non perdona. Oltretutto, l’acqua è agli sgoccioli e dobbiamo usarla con parsimonia, per evitare di trovarci a metà sentiero con la gola arsa e poche inservibili gocce sul fondo della bottiglietta. Cominciamo a scendere con un passo molto lento, tastando prudentemente ogni roccia per evitare di esacerbare l'ingravescente dolore ai lati del piede. Ora che non c’è più febbre della conquista a infiammarci, sopportare fatiche e dolori è meno facile. Ripercorriamo lo stesso sentiero al contrario, fermandoci spesso per bere, e constatiamo che

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probabilmente l’acqua non basterà fino alla fine. In un tratto boscoso, dove la sete è di nuovo incoercibile, ci consultiamo per un attimo su cosa sia meglio fare: vuotare subito quel che rimane della bottiglia, facendo durare il più possibile gli ultimi sorsi, o tenere il fondo per emergenza? La mente direbbe di scegliere la seconda opzione, ma il corpo non è d’accordo e così scegliamo la prima. Vuotiamo la bottiglietta in pochi sorsi, e da questo momento in poi non parliamo più per risparmiare le energie e non far inaridire la gola, respiriamo solo col naso e soffriamo in silenzio sulle rocce aguzze. Il silenzio è rotto solo da qualche rara imprecazione, proferita dopo essere incappati nel classico masso traditore che fa cadere col sedere per terra. Per scendere impieghiamo quasi lo stesso tempo che abbiamo speso per salire. Ci aiuta la consapevolezza che ogni passo ci porta più vicino alla salvezza, ma ad un certo punto daremmo tutto quello che possediamo pur di essere già in fondo al percorso. Dopo qualche ora di dolori, tastiamo di nuovo con i piedi il suolo asfaltato. Completamente senza forze, e con le caviglie ormai distrutte, ci stravacchiamo sui sedili dell’autobus e vorremmo rimanere lì in eterno. Ma in fondo siamo indescrivibilmente felici per ciò che siamo appena riusciti a compiere, trovando anche una giornata perfetta che ci ha permesso di ammirare appieno uno spettacolo che la natura regala solo di rado.Nel traghetto disponiamo finalmente di un sedile abbastanza comodo, e badando a non sprecare altre energie sistemiamo come possibile zaini e scarpe. Togliendole, scopro un piede semidistrutto e che nelle parti più massacrate mi duole solo al tocco. Davide cede al sonno e si addormenta ancora seduto dritto, mentre io resto sveglio, ma sono così rallentato e privo di forze che potrei cascare a terra da un momento all'altro, semplicemente scivolando giù dal sedile. La forza di volontà, così necessaria sull’aspro sentiero, è ora svanita completamente, e mi rimane giusto quella necessaria per continuare a respirare. Rimaniamo in questo stato di dormiveglia apatico fino alla fine dell’ora di traversata, recuperando appena quel briciolo di energia che ci servirà per raggiungere l’ostello, dove potremo finalmente recuperare tutte le forze perdute con una sana dormita, che ormai manca da troppe ore.

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Con il solito autobus, arriviamo nella già conosciuta zona campeggio, sperando di trovare finalmente il fantomatico ostello. Non c’è nessuno in giro, tranne una ragazza che sta pitturando con molta solerzia e pazienza la facciata di un bungalow. Nel vederla ci rinfranchiamo, pensando che deve per forza essere una dipendente del campeggio. Grazie al suo aiuto, finalmente troviamo l’ostello, seminascosto dietro alcune frondose piante. Ecco perché stamattina non l’abbiamo nemmeno visto, ma forse hanno giocato a nostro sfavore anche la fretta e l’adrenalina accumulata. Dopo le solite formalità burocratiche, accogliamo con enorme gioia la nostra camera doppia. Una camerata sarebbe stata più economica, ma ora come ora i soldi sono l’ultimo problema, e la priorità è riposare tranquilli senza avere a che fare con nessuno. Non appena recuperiamo sufficienti forze per avventurarci al supermercato, lo saccheggiamo (in senso metaforico). I nostri stomaci, e soprattutto i muscoli, reclamano cibo a volontà per riparare tutti i microtraumi prodotti dalla salita e soprattutto dalla discesa, per non parlare dei piedi, profondamente segnati di rosso nelle zone corrispondenti agli attriti con la parte dura delle scarpe. Ripensando a cosa abbiamo appena passato sul duro sentiero, ci sentiamo veramente dei pascià in riposo serale. Dopo quaranta ore ininterrotte di veglia, finalmente posso dormire come si deve, in conclusione di una giornata passata sognando ad occhi aperti.

BergenLa mattina ripartiamo di buon’ora. La Norvegia ci regala un’altra esperienza panoramica indimenticabile: per raggiungere Bergen percorriamo un tratto della spettacolare Strada Atlantica, macinata per metà in autobus e per metà in traghetto. Ma noi non scendiamo mai dal pullman: esso, semplicemente, sale sulla nave e viene trasportato per qualche chilometro, poi ridiscende e ricomincia a camminare per conto suo, in un continuo intercambiarsi. Ad ovest appare direttamente l’immenso oceano, e stavolta non è seicento metri più in basso, ma a pochi passi. L’autobus supera numerosi ponti a campana e costoni rocciosi che delimitano le strade serpeggianti sull’acqua, cespugli di fiori viola intenso che danno un tocco di colore al fiabesco paesaggio, mandrie di mucche e pecore che pascolano tranquille sapendo che nessuno

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le disturberà. Ancora una volta, la musica stuzzica la fantasia e rende molto coinvolgente il susseguirsi dei paesaggi. Un fraseggio di chitarra impetuoso corrisponde ad una violenta discesa, un arpeggio più delicato invece si sposa con una curva stretta lambita dalle acque tranquille. Il sole ci regala anche oggi tutta la potenza dei suoi raggi, illuminando scogli solitari ed acque increspate da una lieve brezza. Per ore non facciamo che passare da un'isoletta all'altra, in una strada complicata e tortuosa, costantemente sospesa fra la terra e l'acqua.Nel primo pomeriggio raggiungiamo finalmente Bergen, importante città portuale. Un laghetto ci dà il benvenuto non appena usciamo dalla stazione centrale, proprio come a Stavanger. Alcune curiose fontane, situate proprio in mezzo allo specchio d’acqua, zampillano incessantemente formando nubi di goccioline ed onde, che non permettono mai all’acqua di riposarsi. Alcune sculture di legno, raffiguranti triangoli impossibili, decorano il viale che costeggia il lago, e percorrendo tale strada raggiungiamo subito il cuore della città, direttamente affacciato sulla baia di Vagen. Qui si trova il famoso quartiere di Bryggen. Caratteristica attrazione di questa città, è classificato dall'organo dell’Unesco come patrimonio dell'umanità. Si tratta di un intero villaggio di ben 280 casette di legno, quasi tutte uguali, ma verniciate con colori differenti. Le strette finestrelle sono sviluppate in verticale più che in orizzontale e sembrano derivate dall’architettura gotica. Queste casette sono attaccate l'una all'altra come delle villette a schiera, e la fine di ciascun tetto coincide con l’inizio del successivo. Mi chiedo cosa succeda in inverno: la neve andrà ad accumularsi tutta nelle concavità? I canali di drenaggio dove sono? Non riusciamo a capirlo, ma di sicuro gli abitanti sanno il fatto loro e sono attrezzati con l’occorrente per tutte le eventualità climatiche. Indispensabile essere preparati quando si abita oltre una certa latitudine, e soprattutto qui a Bergen, dove le precipitazioni sono tra le più abbondanti d’Europa. Le casette del Bryggen sono ormai in buona parte riadattate a negozi di souvenir, ristoranti e musei, sempre in grande attività data l’ingente mole di turisti che visita ogni anno la città. Bergen è molto più nordica di Oslo: si nota dovunque il classico stile di costruzione locale, con i tetti molto spioventi. Finalmente ci sentiamo davvero ospiti di una città nordica. Non mancano i soliti mercatini del pesce, intervallati a tanti pittoreschi e strettissimi viottoli che sfociano al

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molo. La baia è letteralmente invasa da barche, in massima parte pescherecci, costantemente all'opera per pescare il merluzzo che da sempre fa la fortuna economica di questa nazione.La città appare fin da subito ricca di fascino e di sorprese, ma siamo comunque piuttosto stanchi, e prima di perderci a visitarla dobbiamo trovare un ostello per tranquillizzarci sulla nostra sistemazione e poterci organizzare al meglio. Stavolta, però, non abbiamo prenotato niente e dobbiamo basarci un po’ sulla fortuna. Uno dopo l’altro troviamo gli alloggi tutti già occupati, ma fortunatamente le ben informate ragazze dell'ufficio turistico ci parlano di un dormitorio non lontano da noi e che non figura in nessuna guida o carta ostelli di cui disponiamo. È la nostra salvezza: ha giusto due posti liberi per stanotte, ma poi ci dovremo arrangiare e cercare un’altra sistemazione poiché per le notti successive è tutto prenotato. Per ora va bene così, poteva andare molto peggio. La camera è un dormitorio da otto posti, molto spartano e minimale. I letti a castello, dalla sottilissima struttura, sono verniciati di nero e hanno un aspetto veramente povero. La prima persona con cui veniamo in contatto nella camera è un inquietante rastafariano di colore, con le classiche treccine e lo sguardo truce, che sta dormicchiando sul letto a castello proprio di fronte alla porta. Dopo un primo e biascicato “What’s up?”, cui rispondiamo farfugliando timidamente qualcosa, ci chiede con una voce da oltretomba la nostra nazionalità, senza nemmeno girare la testa. Una volta che l’ha scoperta emette un laconico verso di intendimento, smettendo definitivamente di parlare. Si limiterà successivamente a squadrarci con sguardi obliqui, che eviteremo il più possibile. Questa volta la compagnia non è il massimo: il resto dei vicini di dormitorio è costituito in buona parte da debosciati puzzolenti ed alcolisti, che per fortuna ci ignorano. Le porte della camera si aprono con le inaffidabili chiavi magnetiche, che tendono a guastarsi e smagnetizzarsi con estrema facilità. Più volte dobbiamo litigare con le chiavi per entrare in camera. L'armadio nel quale dovremmo chiudere a chiave i nostri bagagli è difettoso, completamente scardinato nella parte inferiore. Lo chiudiamo solo dopo non pochi sforzi e imprecazioni, producendo molto rumore che potrebbe turbare i sonni dei nostri inquietanti vicini di letto con chissà quali conseguenze…ma nessuno si sveglia. Dopo aver riposato qualche minuto, partiamo finalmente con l’esplorazione

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della città, nuovamente carichi di energie e felici di abbandonare la camera, invasa dalla puzza di piedi mai lavati.Il centro di Bergen è un fermento d'attività, popolato da numerosissime bancarelle che vendono ogni bene possibile e immaginabile. Gli immancabili negozi italiani offrono gelati alla panna cotta e al lampone, mentre i bar locali servono birra a quasi otto euro al boccale. Otto! Un prezzo proibitivo, al quale non cediamo, nonostante la tentazione di farci una birretta al tramonto sia forte. Dalla piazza si nota anche la funivia panoramica che percorre la montagna sopra di noi. I viottoli della cittadina sono una goduria da esplorare: ce ne sono alcuni così stretti e pittoreschi da sembrare di essere in una favola. Le case sono tutte di colori diversissimi tra loro, anche se il bianco predomina; alcune abitazioni hanno perfino l'asta per la bandiera incorporata nell'architettura. Non ci sono costruzioni particolarmente alte nel quartiere residenziale: predomina l'architettura tipica, che è bassa, squadrata e spigolosa. Camminando per uno dei vicoli, notiamo un inflessibile vigile che sta multando un'automobile parcheggiata appena fuori dal limite delle strisce, di fronte ad una chiesa dalle porte pesantemente serrate. Viene da sorridere, pensando a certi parcheggi selvaggi in terza fila che si vedono a casa nostra, totalmente impuniti. A furia di girare per le strade, si è ormai fatto tardi e optiamo per il ritorno alla base. Sulla strada del ritorno intercettiamo però un’esercitazione di canto che si sta tenendo in una chiesa. Incuriositi, facciamo una piccola deviazione. Il coro intona serie di note sempre più complesse e articolate, ma non inizia mai a cantare sul serio. Lo spettacolo inizierà solo dopo diverse ore, come apprendiamo da un cartello affisso al muro, perciò dopo qualche minuto accantoniamo il proposito di assistervi e ce ne andiamo a dormire.

Musei e acquarioLe mete di oggi sono il castello di re Hakon, l’edificio laico più grande dell’intera Norvegia, e successivamente il museo della pesca, situato vicino al quartiere industriale. L'interno del castello è realmente angosciante, e in modo particolare lo sono i sotterranei, che anticamente erano delle prigioni. Le finestre sono minuscole e claustrofobiche, così come le stanze, grandi quel tanto che basta per

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sopravvivere ma non di più. Scale e porte sono estremamente strette, e talvolta quasi ci incastriamo per passare, nonostante le nostre dimensioni “ridotte”. In compenso, la sala cerimoniale è enorme. Non c’è quasi niente al suo interno, solo il pavimento in legno un po’ scricchiolante e un tavolo ricoperto da un decoratissimo arazzo giallo. Si respira aria di medioevo, specialmente visitando i bastioni e i punti più alti di questo mostro di pietra, dai quali si ha una visuale della città veramente notevole. Il biglietto d’entrata ci dà diritto ad un caffè gratuito nel vicino bar, e approfittiamo volentieri di quest'insperato e corroborante spuntino, poiché qualsiasi cosa venga offerta in viaggio è sempre una manna dal cielo. I soldi non bastano mai, e il cibo è una di quelle cose che bisogna sfruttare al massimo per risparmiare. Riprendiamo quindi la strada per il museo della pesca, che ospita una carrellata di tutti gli arnesi del mestiere. Gli enormi arpioni usati per la caccia alle balene sono lunghi diversi metri e terribilmente potenti: con un colpo solo squarterebbero un essere umano e lo ridurrebbero in mille brandelli di carne sanguinante. Non vorrei certo essere al posto delle sventurate balene, che la Norvegia caccia ancora, indifferente alle pressioni internazionali. L'atmosfera del museo mi ricorda molto Capitani Coraggiosi, un libro sempreverde riletto infinite volte. Non riusciamo nemmeno ad immaginare a cosa serva la gran parte degli utensili esposti, e anche le reti da pesca costituiscono una rivelazione: grazie ad alcune riproduzioni in scala, scopriamo che vengono posizionate sott'acqua a grande profondità, enormemente di più di quello che pensavamo, così da catturare la maggior quantità possibile di prede in una singola pescata. Come doveva essere difficile fare il pescatore qualche secolo fa, senza le moderne navi accessoriate con ogni comfort e dotate di tutti gli attrezzi da pesca intensiva e automatizzata!Dopo aver visitato il museo della pesca, siamo costretti a cambiare ostello. È una necessità tremendamente noiosa ma indispensabile. Lasciamo dunque un dormitorio da otto persone, per approdare in uno da dodici. Anche qui le porte si aprono con la tessera magnetica, e funzionano malissimo, bloccandosi ed inceppandosi ogni due per tre. Gli inservienti stanno disinfettando le stanze, passando insistentemente lo straccio sotto i letti dopo averlo imbevuto e strizzato nel secchio della candeggina. Non c’è nessuno nelle camere e non ci sono nemmeno le lenzuola posate sui

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materassi. Sembra che per ora siamo gli unici occupanti. Capiamo però che dobbiamo levarci dalle scatole, per non intralciare le operazioni di pulizia. Dopo aver lasciato gli zaini in camera, ci dirigiamo a visitare l’antica Bergen, un villaggio ora tramutato in esposizione. Superando ciò che assomiglia vagamente ad un arco di trionfo romano, entriamo in questo piccolo agglomerato di casette a punta, sviluppato lungo una forte pendenza. Ormai iniziamo a conoscere l'architettura delle case norvegesi, dunque non c’è più molto di nuovo da vedere, a parte alcuni sentieri davvero piacevoli, inaugurati da staccionate bianche disposte a ventaglio e muniti di siepi che li costeggiano da ogni lato. A fianco del piccolo laghetto centrale c’è uno stormo misto di piccioni, gabbiani e anatre, che coesistono pacificamente camminando gli uni in mezzo agli altri, senza mai battibeccare per accaparrarsi le briciole di pane lasciate dai visitatori. Non avevamo mai visto tutti questi uccelli di specie diverse andare così d’accordo! Vederli mangiare ci ricorda che anche il nostro stomaco va riempito, così troviamo un posto riparato per consumare il nostro fugace pranzo, proprio mentre comincia a piovere. Le pietanze sono penose ma sazianti. Al ritorno optiamo per qualcosa da vedere al chiuso, evitando così la pioggia, che sta diventando sempre più fitta ed insistente. La scelta cade sull'acquario, raggiungibile a piedi dal centro. Tornati al porto, assistiamo ad una scenetta davvero comica: un tale si è lanciato in acqua, avvolto da capo a piedi in una rete da pesca imbottita all'inverosimile di pop corn. Ora sta lentamente nuotando verso la riva, gettando a manciate i pop corn, che vengono prontamente raccolti dagli uccelli. Chiede anche a tutti i curiosi ammassati a riva, tra cui noi due, se ne vogliano qualcuno, con un'espressione gioviale ed evidentemente compiaciuta dalla sua eccentrica prestazione. Dopo averlo osservato per un po’ mentre cerca di togliersi di dosso l’ingombrante rete, passiamo oltre verso la nostra destinazione. Ce n’è di gente strana in giro…Nell'acquario troviamo ogni genere d'animale pensabile, tranne i pesci di taglia enorme. Nelle vasche all'aperto ci sono i pinguini, esserini curiosamente bassi che paiono avere perennemente freddo da come tengono le pinne raccolte attorno al corpo. I maschi sono impegnati nella cova delle uova, e le femmine zampettano

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lentamente, con la loro caratteristica andatura incerta e goffa. Da dietro i vetri mi diverto un po’ a far impazzire uno sventurato esemplare, sventolandogli velocemente la macchina fotografica di fronte al becco, ed osservando la sua reazione mentre tenta freneticamente di seguirne il movimento. Poi è il turno d'alcune grasse foche, un po’ pigre ma molto simpatiche. All'interno invece, in un afoso clima tropicale riprodotto artificialmente, abitano i coccodrilli, i varani e tutti gli animali amazzonici. I coccodrilli sono molto pigri ed è difficile convincerli a fare qualcosa, tanto meno a farsi fotografare. Alcune piccolissime scimmiette, dagli occhi curiosi e attenti, sono chiuse in gabbia assieme ad un'iguana abilissima nel mimetizzarsi sui rami. Nella zona delle vaschette c’è un’altra serie impressionante di pesci diversi, inclusi ragni e stelle marine, ognuno con relativo commento scritto e proiettato su un video. Alcuni hanno forme davvero curiose che attirano l’attenzione, altri si nascondono timorosi di essere visti.

Vita cittadinaRientriamo velocemente, facendo tappa ad ogni panchina pubblica per far riposare le gambe, ampiamente massacrate da tutto il tempo passato in piedi. Nel nuovo dormitorio conosciamo un po’ di gente nuova: i primi sono due inquietanti signori giapponesi, uno dei quali si siede per terra proprio di fianco al mio letto a tagliarsi le unghie dei piedi, spargendone i pezzi in giro, sotto il nostro sguardo un po’ divertito e un po’ infastidito. Poi un gruppo di nordici biondissimi, e infine due ragazze bolognesi della nostra età, anche loro munite di biglietto Interrail, ma che si limiteranno ad una vacanza di sedici giorni. Una di loro è abbastanza simpatica, ma l’altra è più ritrosa e non si dimostra molto loquace. Chiacchierando un po’, scopriamo che hanno intenzione di esplorare la Norvegia da cima a fondo, incluse le tappe di Tromsø e Capo Nord, che noi invece salteremo per motivi di tempistica. Purtroppo, non siamo riusciti ad estendere il viaggio d'altri due giorni, che sarebbero serviti per includere anche quelle due tappe, ma ci siamo presto consolati, quando una nostra amica ci ha assicurato che non sono posti irrinunciabili. Scambiamo un po’ di opinioni con loro a proposito di programmi di viaggio e ostelli visitati, dopodiché si mettono a programmare le loro faccende, così le salutiamo e usciamo nuovamente.

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Stavolta siamo fermamente intenzionati a provare qualche piatto tipico norvegese, poiché è scandaloso mangiare sempre cibo in scatola. Passando per la solita viuzza che conduce al centro, ci giunge dal cielo l'ispirazione: un chioschetto poco lontano dal porto sta vendendo degli hot dog con la carne di renna! È semplicemente squisita: ha un sapore indefinibile se confrontato alla carne d'altri animali. Finalmente soddisfatti dal punto di vista alimentare, riprendiamo a girare in maniera molto disimpegnata per i negozi della zona, specialmente all'alimentari, nel quale contiamo di rifornirci. Una volta che abbiamo provveduto ai generi di prima necessità, la nostra attenzione si rivolge ai frigoriferi che stoccano la birra. Ce n'è di ogni tipo, da quella che si trova in qualsiasi supermercato europeo fino a quella tipicamente nordica, riconoscibile dalle effigi vichinghe che reca sull'alluminio. Il prezzo è circa tre euro per una lattina da mezzo litro, molto economico. Mentre stiamo valutando se sia il caso di comprarla o no, allungando la mano per aprire il frigorifero così da guardare meglio, Davide si accorge tutt'ad un tratto che la maniglia è legata strettamente con un robusto fazzoletto di cotone bianco, e quindi è impossibile da aprire. Tentiamo dunque col secondo frigorifero, pensando che il primo sia guasto o chiuso temporaneamente, ma dopo aver guardato meglio le nostre speranze crollano: tutti i quattro frigoriferi sono chiusi col lucchetto! In Norvegia, infatti, il commercio dell’alcool è soggetto a severe limitazioni, essendo il suo abuso un problema di rilevante gravità sociale. Si possono comprare alcolici solo una volta raggiunta la maggiore età, obbligatoriamente esibendo un documento d'identità, e l’età da raggiungere è direttamente proporzionale alla gradazione. Ci sono pochi negozi, tutti di monopolio statale, dedicati alle bevande alcoliche, ma anch'essi sono soggetti a limitazioni, e il limite di legge d'alcolemia alla guida è tale che con nemmeno mezzo bicchiere di vino si è già quasi certamente fuorilegge. Essere sorpresi ubriachi al volante significa come minimo beccarsi ventuno giorni di carcere senza condizionale, oltre ad una salatissima multa! La legge norvegese è molto severa e non concede scappatoie. A noi potrà sembrare esagerato, ma sono sicuro che ciò diminuisce significativamente le morti su strada causate dall’alcool. Oltretutto, gli alcolici comprati in bottiglia sono

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gravati da una tassa supplementare, che verrà restituita solo riportando il vuoto al negozio. Non abbiamo voglia di trafficare con documenti d’identità per berci una misera lattina di birra, né abbiamo voglia di tornare poi a riportare il vuoto, dunque rinunciamo al nostro proposito. Tuttavia, non resisto alla tentazione di comprare delle caramelle, che però si rivelano così disgustose da doverle sputare subito in preda alla nausea. Hanno un sapore terribile, un misto tra salato e dolce. Che robaccia!Tornati in centro, un vento insistente inizia a spirare con parecchia forza, perciò ci mettiamo addosso anche i kee-way. Quel che rimane della serata lo passiamo su una panchina, osservando un bellissimo tramonto che tinge di rosso e giallino le numerosissime nuvole all'orizzonte. Le persone abbandonano pian piano le loro barche, ma le strade invece di svuotarsi si riempiono sempre di più di gente che adora la vita notturna. Noi però sappiamo di doverci alzare presto l’indomani, quindi non tiriamo troppo la corda e ritorniamo al nostro ovile. Se stessimo sempre nella stessa città potremmo anche stare fuori più a lungo, ma spostandoci continuamente non possiamo dedicare troppe energie ad un singolo posto, o non ne rimarrebbero più per i successivi. In ostello ci irritiamo non poco, poiché le nostre tessere magnetiche non funzionano più e la porta non si apre. Praticamente siamo chiusi fuori e nessuno risponde al campanello. Rimaniamo bloccati all’esterno per una decina di minuti, e possiamo finalmente entrare solo grazie ad altri occupanti che ci salvano con la loro tessera. Una volta dentro, i problemi non sono però finiti: la porta della camera si blocca automaticamente qualche minuto dopo che è stata chiusa dall’interno, costringendoci a rimanere sempre almeno in uno in stanza per aprire all'altro che è rimasto fuori. Per rendere più vivace la serata, uno dei giapponesi si addormenta con il computer portatile acceso, e dalle sue cuffie si sente costantemente una fastidiosissima musica da film, sempre uguale, tremolante ed ossessiva. L’insopportabile litania dura tutta la notte. Commento rumorosamente questo fracassone, sicuro di non essere capito, finché dopo diverse ore non cedo al sonno. Quando poi ci svegliamo la mattina seguente, il giapponese è ancora nella stessa

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posizione, con le cuffie ancora sulle orecchie, e la musica è ancora identica.

Sulla FlåmsbanaLa giornata di oggi è dedicata all’esplorazione della natura delle zone limitrofe. Dalla stazione centrale parte un treno diretto a Myrdal, piccola cittadina dalla quale ha inizio (o fine) la linea Flåmsbana, descritta come il più bel tratto ferroviario panoramico dell’intera nazione. Questa breve ferrovia collega Myrdal con il minuscolo villaggio di Flåm, dal quale si può prendere il traghetto ed effettuare una crociera lungo il fiordo, riapprodando poi a Bergen. Il viaggio in treno si compie in poco meno di un'ora, superando un dislivello di quasi novecento metri in soli venti chilometri di binari. Si tratta della linea ferroviaria più ripida d’Europa che non faccia uso della cremagliera, e un indiscusso capolavoro d'ingegneria, con tutte le sue curve incastonate perfettamente nel coriaceo granito. Il nostro treno arriva ancora una volta in orario, com'è la regola per i treni nordici, e attraversiamo velocemente le nude montagne, sovrastate da un debole sole. Giungiamo a Myrdal in poco più di tre quarti d’ora. Abbiamo scelto di partire da qui e di percorrere la linea in discesa, per poterci godere un panorama più ampio ed una pendenza vertiginosa. Un’altra volta dopo quasi settant’anni di onorato e ininterrotto servizio, il treno parte dalla minuscola stazione e comincia la discesa, tenendo i freni sempre tirati data la notevole ripidezza dei binari. Siamo circondati da cascate su ogni lato: dalle alte montagne che ci sovrastano scendono in numerosi punti dei rivoli d’acqua a strapiombo, disposti quasi regolarmente sulle creste rocciose. Dividono in più parti le montagne come una riga tirata a pennarello. Sembra l’opera di un geometra. La prospettiva dalla quale li osserviamo li fa sembrare ancora più alti e minacciosi: l’acqua scende velocissima e sembra che sia in grado di tagliare in due qualsiasi ostacolo si presenti lungo il suo percorso. I freni di questo vecchio treno stridono in modo lancinante, a volte quasi assordandoci, mentre la locomotiva incespica e contrasta a fatica l’imperiosa forza di gravità che tende a trascinare i vagoni verso il basso. In alcuni punti vi sono delle gallerie scavate nella montagna e si aprono delle finestre naturali in mezzo ad esse, rinforzate da travi di legno incrociate a mo’ di grata. Passandoci in

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mezzo, sembra quasi di essere imprigionati dentro la roccia. Dopo qualche minuto, raggiungiamo una piccola piattaforma panoramica in legno, davanti alla quale il treno si ferma del tutto e lascia scendere i passeggeri, per permettere loro di ammirare la solenne cascata di Kjosfossen. Essa sgorga furibonda da un crinale distante meno di un centinaio di metri da noi, ed è una vera cascata, molto più larga degli altri rivoli. Un vero e proprio fiume in piena che scende impetuoso, cambiando più volte direzione quando incontra gli scogli indifferenti. Di per sé è già emozionante vedere così da vicino quest’enorme massa d’acqua in movimento, ma l’emozione aumenta ancora quando, da alcuni altoparlanti abilmente nascosti dietro le rocce, si sprigiona una musica molto evocativa e celestiale, sulla quale ballano due biondissime ragazze, apparse dal nulla in mezzo ai sassi. Indossano vesti tradizionali vichinghe e danzano leggiadramente tra un masso e l’altro, appena davanti alla cascata, avvolte dalle nubi di spruzzi e dal fragoroso rumore dell'acqua, che si frange in migliaia di flutti e scivola sulle rocce, erodendole nel corso dei secoli con leggendaria perseveranza. Nessuno si aspettava un simile spettacolo, e rimaniamo tutti a bocca aperta. Quando la musica finisce, le danzatrici spariscono improvvisamente, lasciandosi cadere apparentemente a peso morto al di là di un masso. Prima di poter dire qualcosa, l’imperioso fischio del ferroviere rompe la magia e ci richiama sulle carrozze: il viaggio deve proseguire. Siamo finalmente riemersi dalla stretta gola rocciosa ed ora possiamo vedere molto meglio la ripida vallata sotto di noi. Gli stretti fiumi d’acqua in caduta libera si raccolgono a valle scavando una conca, che va poi a formare degli eleganti laghetti. Alcune fattorie, quasi appese sulle montagne, fanno da contorno al magico scenario. In men che non si dica siamo a Flåm, un minuscolo borgo portuale e commerciale dal quale presto partirà il battello che solcherà tutti i quaranta chilometri del Sognefjord, il maggiore della Norvegia.

Sul SognefjordIn attesa del traghetto, che arriverà solo tra qualche ora, camminiamo spassionatamente attorno alle poche costruzioni portuali, circondate sui tre lati da montagne dal vago aspetto

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dolomitico. Non mancano le zone per sedersi, ma preferiamo camminare un po’ per sgranchirci le gambe. Le montagne del versante opposto a quello del porto sono molto vicine a noi, e si gettano quasi a perpendicolo in acqua. Sembra che ne manchi la parte inferiore, come se fosse stata tagliata di netto. In realtà, tale parte è semplicemente sommersa dall’acqua oceanica, che si è insinuata fino a questo punto dell’entroterra. Mentre aspettiamo, seduti in riva al golfo in una consueta pausa meditativa, due bambine norvegesi bionde come il sole e munite solo di costume leggero si tuffano in acqua, che deve essere gelida, senza provare il minimo brivido o collasso. Rimaniamo allibiti: se ci provassimo noi probabilmente andremmo a fondo privi di sensi. Anche le persone che incrociamo sono spesso coperte solo da magliette a maniche corte, al massimo da giacchette leggere, mentre noi abbiamo freddo pur con addosso vari strati di indumenti pesanti. Guardiamo con crescente irritazione questi individui quasi insensibili al freddo, a mano a mano che se ne presentano altri. Com’è possibile che loro non soffrano minimamente, mentre noi non possiamo tirare giù la cerniera della giacca senza congelare dopo pochi minuti? Forza dell'abitudine a vivere in paesi freddi e a passarvi i mesi invernali, nei quali il sole sorge per pochi minuti al giorno, o addirittura non sorge affatto. Il cielo, discretamente nuvoloso fino a poco fa, inizia ora a scurirsi e a coprirsi di nuvole nerastre. Non passerà molto tempo, prima che si metta a piovere. Riusciamo a mangiare tranquilli su una panchina le nostre poco invitanti cibarie, e non appena finito iniziano a cadere i primi goccioloni. Riparatici in qualche modo, dopo mezzora arriva il nostro battello a prelevarci. La traversata dura circa quattro ore, ed è un vero peccato che il tempo sia così brutto, ma la gita si rivela comunque piacevole: i fiordi hanno il loro fascino anche se avvolti da nuvole e nebbia. Nell'ultima parte, però, diventano un po’ monotoni: dopo qualche ora l'occhio si è abituato al paesaggio e non reagisce più, se non nei punti in cui veramente è impossibile non stupirsi delle curve formate dall’acqua e dalle montagne insieme. Poco prima del ritorno a Bergen, il comandante supera se stesso con un divertente annuncio: "Vi ringraziamo per essere stati a bordo con noi. Tra poco saremo arrivati e potrete scendere. Ma se

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le ragazze vorranno trattenersi di più, saranno ben accette!". Tra le risate generali, la piccola nave si ormeggia lentamente nel porto, e non appena scendiamo a terra puntiamo spediti verso l’ostello. Anche se oggi non è stata una giornata molto faticosa, non abbiamo voglia di fare altro che dormire.

Ape assassinaLa mattina lasciamo il dormitorio, mentre stanno ancora quasi tutti ronfando beatamente. Abbiamo così voglia di andarcene e ripartire che non facciamo nemmeno colazione. Buttiamo in qualche modo le lenzuola sporche in fondo al sacco di recupero e abbandoniamo il campo senza far rumore. In questa fredda mattinata finiamo di visitare Bergen, iniziando con la chiesa di San Giovanni, rossa e fiera costruzione in pietra che si staglia in fondo ad un viale in pendenza. Lungo la ripida strada sono parcheggiate numerose automobili, talmente inclinate da stupirsi che non rotolino giù per la forza di gravità. La chiesa è altissima, di forma appuntita, con le guglie verdi e l'onnipresente arco a sesto acuto, richiamante dinamismo ed incisività. Purtroppo è il suo giorno settimanale di chiusura. Dopo questa piccola interruzione nella nostra fortunata serie, ci facciamo un altro giretto nella zona più elevata della città, per fermarci poi di fronte ad uno stagno pieno d'anatre e ninfee, divertendoci ad osservarle mentre galleggiano beate in acqua senza alcuna preoccupazione. Loro non devono pensare a dove dormire, né ai posti da prenotare in ostello, né alle coincidenze perse, tutte cose con cui noi abbiamo a che fare quasi quotidianamente da una settimana, abbastanza stressanti perché non finiscono mai, ma allo stesso momento piacevoli e coinvolgenti. Tutto ciò trasuda un fantastico spirito d'avventura e di piacevole precarietà. Ormai il tempo è agli sgoccioli, da cui lasciamo quest'affascinante città e ritorniamo alla stazione ad attendere il treno che ci riporterà ad Oslo, dove poi prenderemo la coincidenza per Trondheim. Purtroppo, non c’è un treno diretto che colleghi le due città. L’alternativa più rapida sarebbe il traghetto, che però costa troppo. Ci sediamo sulle non troppo comode panchine di legno della stazione, in paziente attesa. Ognuno è immerso nei propri pensieri. La gente si muove senza sosta da una piattaforma all'altra, e tutti posano una parte della loro vita sulle fredde pietre del pavimento

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della stazione, erodendo impercettibilmente questo suolo così vissuto. Anche noi ora siamo parte di tutto questo, orgogliosi di poter dare il nostro contributo a questo eterno viavai. L’attesa stimola la fantasia e aiuta a riflettere su come il tempo pian piano stia passando e stia divorando una tappa dietro l'altra, lasciandoci interdetti per la sua velocità. Sembra così lungo un viaggio, quando è appena cominciato, e poi un giorno improvvisamente è già tutto finito. Ci pensa un'ape a risvegliarci dai nostri pensieri e a riportarci nel mondo reale: il temerario insetto, infatti, ha appena punto l'orecchio di Davide, nonostante lui non abbia fatto il benché minimo movimento che potesse anche solo lontanamente innervosirla. Sappiamo che è un'ape e non una vespa, poiché il pungiglione, ancora infisso nella carne molle del padiglione auricolare, si è trascinato dietro anche le interiora del temerario insetto. La zona offesa diventa subito gonfia e dolorante, e ci vorrebbe del ghiaccio per lenire gli effetti spiacevoli, ma non abbiamo granché sottomano. L’unica idea che mi viene è di mettere sulla parte offesa la confezione metallica degli sgombri al pomodoro, così da dare un po’ di refrigerio. Non è propriamente un metodo scientifico, ma funziona. Facciamo quattro passi per calmare le acque, agitate dalla spiacevole puntura, e per rinfrescare la parte dolorante con un po’ di vento, passando per alcune vie cittadine non ancora battute, che però non rivelano nulla di interessante. Poco prima che il treno si presenti al capolinea, recuperiamo i bagagli dagli indistruttibili cassetti metallici e ci troviamo a lottare ancora una volta con la massiccia presenza di vespe assassine. Sembra proprio che ce l'abbiano con noi e noi soltanto. Riusciamo a scacciarle solo dopo numerose sventolate di berretti e di mani. Forse i nostri movimenti non fanno altro che innervosirle di più, ma ormai la guerra è ingaggiata e non può interrompersi, finché finalmente il treno arriva e ci libera dalla presenza dei molesti insetti.

Seconda notte in trenoCi aspettano sedici ore complessive da passare in carrozza, spezzate solo dal breve cambio che ci aspetta prima di mezzanotte. Lungo la strada vediamo ancora tante impetuose cascate e assistiamo ad un violento temporale, seguito da uno stupendo arcobaleno che taglia

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in due le montagne rocciose ed irregolari. Un altro regalo di una natura veramente generosa nei nostri confronti. Forse è segretamente sensibile al nostro desiderio di vedere le meraviglie che riesce a creare gratuitamente, ed è disposta a regalarci un po’ della sua ricchezza. La vista dell’arcobaleno ci fa dimenticare per un attimo di tutti i problemi, della dolorosa puntura e della noia del lungo viaggio. Siamo tuttavia un po’ preoccupati per la coincidenza che dovremo prendere ad Oslo, dato che il treno è in leggero ritardo e abbiamo poco margine, ma ancora una volta non abbiamo ragione di angustiarci troppo. Sfrecciando velocemente e senza mai fermarsi, la scatola di latta semovente recupera totalmente i minuti perduti, e presto teniamo saldamente in pugno i biglietti per Trondheim. Tuttavia, grazie ad un provvidenziale scrupolo di pignoleria di Davide, ci accorgiamo che segnano un orario sbagliato! Tra le mille scuse del gentile commesso, ci vengono cambiati immediatamente, e per fortuna che ce ne siamo accorti in tempo. Mai dare niente per scontato! Saliamo sul treno con una certa fretta, che come si sa è una cattiva consigliera: infatti sbagliamo la carrozza, entrando in quella dei vagoni cuccetta. Purtroppo, per raggiungere la carrozza giusta dobbiamo obbligatoriamente ritornare da dove siamo venuti, e dobbiamo quindi scavalcare tutte le persone e i bagagli che nel frattempo si sono ammucchiati tra noi e l’uscita. Dopo non pochi sforzi e contorsioni negli stretti passaggi dei vagoni, ci liberiamo dalla folla e dalle borse, guadagnando finalmente il possesso dei nostri posti. I gentili regali per aiutarci a dormire meglio ci sono anche stavolta. Dopo la precedente esperienza, mi sono preparato al peggio: stavolta non voglio nemmeno tentare di addormentarmi, vada come vada. Se mi addormenterò sarà tanto di guadagnato, altrimenti preferisco rimanere sveglio. Tollererei di più una notte completamente in bianco, piuttosto di una dormita pochissimo e malissimo. Effettivamente, le cose non vanno molto bene nemmeno stavolta. Dormo complessivamente solo un'ora. Già meglio di niente, in ogni caso. Inoltre, restare sveglio mi offre ancora una volta una cospicua ricompensa: intorno alle cinque e mezza, mentre il mio compagno è tranquillamente appisolato, assisto ad una spettacolare alba che mi meraviglia ancora una volta per le incredibili sfumature di colore che riesce a creare.

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TrondheimCi risvegliamo pochi minuti prima dell’arrivo a Trondheim. Siamo piuttosto rimbecilliti e abbiamo ben poca voglia di passare un'altra giornata a girare per una città, ma dobbiamo farcela lo stesso. A Trondheim contiamo di dedicare solo una giornata, prima di ripartire alla volta di Bodø. Arriviamo in stazione verso le sette e mezza, con la luce del sole ormai piuttosto forte. Il clima è ora molto più rigido ed è assolutamente necessario mettersi anche il secondo maglione e la giacca. Frugando nello zaino, mi accorgo che il boccettone di sapone liquido si è rotto e sta impiastricciando tutto. Fortunatamente, non ha rovinato niente di importante. Imprecando, butto via il traditore e mi libero di un buon mezzo chilo di peso. Non abbiamo molta fretta di gettarci nell’esplorazione della città, quindi individuo subito una panchina libera e mi sdraio, tentando di dormire ancora un po’. Il mio tentativo, tuttavia, non va a buon fine: la panca è troppo rigida e i miei ritmi sono troppo scombussolati per riuscire a prendere sonno, e anche se ci riuscissi probabilmente dormirei solo pochi minuti, svegliandomi ancora più imbesuito. Consumiamo una spartana colazione con quel che è rimasto dei biscotti e del succo di frutta, poi rimaniamo un po’ seduti, in attesa di riscuoterci dalla momentanea mancanza di energie e lucidità mentale. Quando finalmente ci decidiamo ad uscire, puntiamo subito alla stupenda cattedrale Nidarosdomen, la più grande della nazione. Lo stile è un misto tra il romanico e il gotico, le dimensioni sono enormi. All’esterno, le sue svettanti guglie e le decine di statue ci osservano dall'alto, e l’interno è ancor più magnificente, con il suo rosone di vetro sapientemente colorato da mani esperte e devote. Costruire questo mostro di pietra avrà richiesto un lavoro titanico, coronato da decenni di sudore e tenacia. Impossibile non provare un senso di riverenza per chi ha dedicato la sua vita alla costruzione di questo colossale monumento, che ora crea meraviglia in chi lo osserva. E chissà quante persone hanno perso la vita durante la sua costruzione, persone di cui ormai non si ricorda più nessuno.All’interno c’è addirittura un set cinematografico: apprendiamo presto che si sta preparando una grande recita tradizionale in nome di una ricorrenza storica della città che cade proprio oggi. Due attori

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vestiti in abiti tradizionali stanno incrociando le loro spade di legno con disinvoltura, provando e riprovando finché le loro mosse non saranno perfette. Dopo averli osservati per un po’, scopriamo che la recita inizierà solo in tarda serata, dunque usciamo dalla cattedrale per una giusta pausa di riposo atta a rifocillarci. Siamo assediati dalla fame, ma soprattutto dalle vespe, che non ne vogliono proprio sapere di lasciarci in pace. Sembra che ci abbiano innaffiato di resina concentrata, da come le attiriamo. Dopo uno spuntino veloce e approssimativo, durante il quale passiamo più tempo a scacciare le vespe che a mangiare, raggiungiamo il centro. L’attrazione della giornata è una fiera medioevale, popolata da suonatori ambulanti di viola e perfino da un giovane fabbro, che sta dando una dimostrazione di come si forgia una spada. La batte infinite volte col suo martello, per rimuovere più impurità possibili, mettendo poi la punta incandescente a raffreddare in acqua e producendo la classica fumata bianca. Quando la punta tocca una superficie con troppa violenza, centinaia di piccole scintille esplodono come fuochi d’artificio e vanno a spegnersi spontaneamente nell’aria, senza più lasciare traccia. Pura tradizione che si assimila attraverso i sensi, col clangore ossessionante del martello che stanca le delicate ossa dell’orecchio, l'odore del pesce fresco che stuzzica insistentemente i recettori olfattivi, i colori sgargianti degli abiti tradizionali che colpiscono subito l’occhio.Dopo esserci persi in quest’atmosfera festaiola, ci incamminiamo verso la fortezza, che dalla sua posizione sopraelevata domina tutto il paesaggio sottostante. Uno stretto sentiero, che si snoda in mezzo a verdi boschetti, ci porta in uno spiazzo erboso molto ampio, che circonda il vecchio castello. Entro le spesse mura, troviamo ancora cannoni ornamentali, ammassi di roccia non meglio identificabili, strapiombi senza protezioni e qualche panchina su cui sedersi ad ammirare l’intera città dall’alto, con il mare e le onnipresenti montagne sullo sfondo. Acqua e montagne, qui, vanno sempre a braccetto. Tornando indietro, in fondo ad una discesa notiamo un congegno a dir poco insolito: sembra una specie di binario metallico che percorre tutto il dislivello. Scopriamo subito dal cartello indicativo di cosa si tratta: è un montacarichi per le biciclette! Le medesime vanno semplicemente incastrate nei supporti, e il macchinario le porta in un attimo fino in cima alla salita, per non

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doversela fare in sella a morire di fatica. Un ottimo aiuto per i ciclisti più pigri, ma specialmente per gli anziani!Ritornando indietro, passiamo attraverso il quartiere pescatori, molto simile al Bryggen. Esso conta due file di case bianche, rosse, azzurre, gialle e verdi che si estendono a perdita d’occhio, separate da un serpente d’acqua che si insinua sotto le case, rigorosamente erte su palafitte. Un’altra scena difficilmente visibile a casa nostra. Dopo quest’ultima perla, Trondheim non offre più nulla da vedere, perciò ci ritiriamo in stazione, stanchissimi ma soddisfatti. Aspettiamo con fiducia il treno per Bodø, località che ha costruito la sua fortuna sul sole di mezzanotte, curioso e spettacolare scherzo della natura che si dice causi anche molti suicidi e malattie mentali. Bodø è situato in una delle posizioni migliori per assistere allo spettacolo, ma con nostro grande rammarico noi non potremo vederlo: la stagione è già troppo inoltrata. Non ci fermeremo dunque in città: ci passeremo solo per prendere il traghetto per le celebri isole Lofoten, universalmente descritte come un piccolo paradiso naturale.

Terza notte in trenoOrmai si sta facendo sera e presto arriverà il nostro treno. Mi attende un'altra notte in bianco? Questa volta no. Nonostante non ci diano coperte né mascherine né tappi per le orecchie, dormo quasi bene, poiché il sedile si può reclinare all’indietro fino a renderlo quasi orizzontale. Non mi sono perso, tuttavia, l’ormai consueto spettacolo dell’alone solare visibile anche in piena notte, intravisto in un momento di temporanea veglia. Sono le nubi nottilucenti, che riflettono la luce solare e creano l’illusione di essere ancora in un crepuscolo inoltrato. Sono questi i momenti in cui non mi pento di aver voluto venire qua. La mattina ci destiamo con largo anticipo, per essere pronti a scattare verso il porto non appena messo piede a terra. Gli altri passeggeri dormono ancora tutti. Estesi boschi circondano la ferrovia da ambo le parti, nascondendo ogni cosa, e la luce è già forte, nonostante siano solo le sei e mezza. Il treno supera silenziosamente il limite del Circolo Polare Artico, senza che ciò venga annunciato da alcun altoparlante, rispettoso del sonno dei viaggiatori. Siamo ora nella magica terra del sole di mezzanotte e della notte polare, e superare questo confine invisibile

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non può non riempirci di soggezione. Essere oltre un Circolo Polare è un po’ come superare una linea di demarcazione mistica. Qui si trovano alcuni tra gli ultimi avamposti umani prima delle gelide terre polari, e poterli raggiungere è una fantastica opportunità che siamo più che grati di avere ricevuto. Tuttavia, non siamo ancora arrivati a Bodø e non c’è ancora nulla di certo, perciò ci conviene non farci trasportare troppo dal romanticismo. Non conosciamo nulla di questa città, né dell'ubicazione della sua stazione navale, e andiamo praticamente alla cieca, sperando di avere fortuna e di trovare il traghetto della mattina. In caso contrario, ci toccherà quello del primo pomeriggio, che ci farebbe perdere un sacco di tempo inutilmente. Oltretutto, siamo in ritardo di quasi un’ora rispetto agli orari previsti, e stavolta il treno non ha recuperato il tempo perduto. Ciò significa che arriviamo a Bodø proprio in coincidenza con l’orario di partenza del traghetto. Mentre il treno si sta lentamente arrestando al capolinea assoluto delle ferrovie norvegesi, noi siamo già in piedi con gli zaini in spalla, allacciati sotto la vita per scaricare meglio il peso sui muscoli lombari. L'adrenalina è già in corpo a dosi massicce, sapendo che abbiamo solo pochi minuti a disposizione.

BodøAppena scesi, non perdiamo un secondo. Chiediamo il più velocemente possibile alcune informazioni alla bigliettaia della stazione, dopodiché ci dirigiamo speditamente nella direzione da lei indicata. Non sentiamo nemmeno il freddo pungente della mattina artica. Intravedo in lontananza dell'acqua e deduco che da quella parte ci deve essere il porto. Una volta arrivati in zona, però, non vediamo in giro anima viva. C'è soltanto un singolo traghetto attraccato, che sembra in procinto di partire, ma non ha scritto niente sulle sue fiancate o da altre parti, da cui non possiamo sapere dove sia diretto. Per giunta non c'è nemmeno l'accenno di una biglietteria. La brutta sensazione di essere rimasti a terra si impadronisce di noi, ma non demordiamo. Rischiando di farci investire dalle automobili che passano veloci lungo il curvone, attraversiamo la strada e troviamo casualmente due ragazzi in motocicletta, fermi davanti al traghetto. Sono gli unici esseri umani rintracciabili nel raggio di un

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chilometro quadrato. Gli chiediamo dove possiamo fare i biglietti, e loro rispondono indicandoci vagamente una costruzione distante circa cento metri. Corriamo ancora più veloci per fare questi fantomatici biglietti, ma la mia cintura non tiene e i pantaloni quasi mi cadono a terra. Devo rallentare per sistemarla, perdendo altro tempo. Arriviamo trafelati in questo complesso di baracche bianche con il tetto grigio, adibite a bar e servizi igienici, ma di biglietterie non c’è nemmeno un’ombra sbiadita. Ormai disperati, torniamo altrettanto velocemente al traghetto ormeggiato, sperando di poter fare i biglietti direttamente a bordo. Questo, ovviamente, ammettendo che tale nave sia effettivamente diretta a Moskenes, il paesino a sud dell’arcipelago Lofoten. Magari il nostro traghetto è già partito da un pezzo e stiamo correndo per niente. La moto dei due ragazzi si è appena accesa e sta entrando nel vano veicoli, mentre il controllore sta per chiudere il passaggio. Riusciamo ad entrare nel traghetto per un pelo e a comprare i due biglietti direttamente dal controllore, dopo aver ricevuto la conferma che la destinazione è quella che cerchiamo. Mentre stiamo ancora cercando le monetine di calibro più piccolo per pagare esattamente la cifra dovuta, la piattaforma di metallo si rialza velocemente e chiude l'entrata a qualsiasi veicolo o persona che volesse salire.

Isole LofotenAncora totalmente increduli per essere veramente riusciti a salire sul traghetto, individuiamo i primi posti a sedere disponibili e ci lasciamo cadere quasi a peso morto sulla morbida tela violacea che li ricopre, con gli zaini ancora allacciati in ogni punto. Col fiatone, ci guardiamo con aria stralunata ma indescrivibilmente felice. Non so come avremmo potuto reagire, vedendo il traghetto partire proprio sotto i nostri occhi e condannandoci a cinque ore di inutile attesa. Il computer di bordo sopra le nostre teste ci informa che la traversata durerà in totale un paio d'ore. Sul piccolo schermo appare di tutto: la velocità della nave, quella del vento e la direzione in cui spira, la posizione geografica che stiamo occupando, la forma dell'itinerario percorso. Anche qui c’è la striscia colorata che si allunga a mano a mano che la nave prosegue nella sua traversata.

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Inizialmente non mi accorgo nemmeno che siamo in movimento, poiché sono troppo concentrato sul colpo di fortuna assurdo che c'è appena capitato. Quando Davide esce per fare delle riprese con la videocamera, io non ho nemmeno la forza di alzarmi per seguirlo: preferisco rimanere seduto a lasciar scaricare l'adrenalina, con le gambe che mi tremano ancora leggermente. Un po’ di succo di frutta toglie l'aridità della gola e la barretta di cioccolato mi dona nuova forza, e dopo qualche minuto mi avventuro fuori anch’io. Solo ora, dopo parecchi minuti, mi accorgo che Bodø si sta allontanando e le creste rocciose delle Lofoten si avvicinano. Il forte vento mi convince a rientrare presto: per ora ho solo voglia di starmene tranquillo e rilassato in un ambiente caldo, finché non mi sarò completamente rimesso in sesto. Quando però le isole sono molto vicine, non posso esimermi dal tornar fuori a vederle. Può anche tirare un vento gioviano, ma non posso perdermi lo spettacolo. Già da lontano, si nota che le montagne dell’arcipelago hanno qualcosa di strano. Sembrano dei grossi denti che spuntano direttamente dall'acqua, in gran parte irregolarmente frastagliati e aguzzi, e quasi tutti piegati in un’unica direzione. Sembra che vi sia un dente del giudizio che li costringe a spostarsi lateralmente, accalcandoli gli uni contro gli altri. Oppure potrebbe essere merito di una strana forza invisibile che aleggia sopra l'isola e attira irresistibilmente le cime delle montagne tutte da una parte. Ci avviciniamo sempre di più al punto d'attracco, osservando molto intensamente queste strane rocce e il paesino che sta ai loro piedi. La curiosità sale a mille.

Å i LofotenIl villaggio di Moskenes, situato nella punta meridionale dell’arcipelago, è il nostro primo punto d'arrivo. Non appena messo piede a terra, lo sbalordimento non fa che aumentare: le montagne sono quasi identiche alle nostre Dolomiti, vale a dire rocciose e totalmente spoglie di vegetazione arborea o arbustiva, ma la differenza è che si stagliano direttamente sull'oceano, quasi senza soluzione di continuità, e sono tutte così curiosamente inclinate. Moskenes è un borgo piccolissimo ed insignificante, ma ha un ottimo ufficio turistico: per il sostentamento di queste isolette

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dimenticate dal mondo, la pesca e il turismo significano tutto. Apprendiamo che presto passerà un pullman che ci porterà ad Å i Lofoten, il paese monolettera che è un po’ il punto di riferimento delle Lofoten meridionali. Ancora con gli occhi non abituati a questo ben poco comune panorama insulare, ci sediamo pazientemente ad aspettare questo fantomatico bus, ma non si vede nulla arrivare. Siamo in pochissimi e la zona è di un silenzio quasi totale. Alcune automobili sono ferme e aspettano di entrare nel prossimo traghetto, ma nulla si muove. Dopo qualche minuto, arriva da lontano un anonimo furgoncino che supera la piccola chiesetta bianca del paese, passa oltre a noi senza fermarsi e parcheggia dietro il centro informazioni, sparendo dalla nostra vista. Non ci facciamo molto caso, finché Davide avanza un'ipotesi audace. Non sarà mica quello il nostro pullman? Presi dalla curiosità andiamo a controllare, e l’intuizione si rivela azzeccata: grande poco più di un furgoncino dei gelati, conta solo quattordici posti a sedere. Questo è il mezzo che ci porterà fino ad Å i Lofoten. Saliamo divertiti su questo trabiccolo e ci godiamo dieci minuti di strada assolutamente indimenticabili: lo spettacolo che offrono queste isolette è impareggiabile. Ovunque ci giriamo ci sono baie, casette rosse su palafitte, piccole costruzioni incastrate in mezzo alle rocce costiere. Su tali rocce cresce solo della fragile erbetta o qualche raro arbusto abbarbicato su se stesso e piantato saldamente nella poca terra presente. Ci sono innumerevoli barchette da pesca ormeggiate sotto le case, cespugli di fiori circondati da piccoli laghetti, golfi che penetrano fin nei villaggi grazie a strettissime aperture nelle coste rocciose, montagne di nuda roccia appuntite e arzigogolate che ci sovrastano incastonandosi perfettamente con la geometria dei villaggi e strapiombando sull'oceano immenso. Un paesaggio che sembra uscito dalla penna del più fantasioso scrittore di favole mai esistito a questo mondo. Mentre il furgoncino borbotta e sbuffa lungo le strette stradine, ci viene quasi il torcicollo a furia di girarci indietro e voltare la testa di qua e di là, irrimediabilmente rapiti dal meraviglioso panorama. I quadri nel museo di Oslo non erano semplice fantasia. Il villaggio di Å i Lofoten è altrettanto splendido: ci vive meno di un centinaio di persone, ed è quanto di più appartato e rustico si possa

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pensare. Questo vecchio e fiero borgo di casette rosse, abitate da pescatori e da innumerevoli gabbiani, resiste al passare del tempo senza abbandonare le sue tradizioni né un briciolo della sua piccola ma significativa storia. Ciò non toglie che gli abitanti si concedano qualche modernità: l’accesso a Internet è arrivato anche in questo paesino sperduto, tuttavia nessuno ha appeso al chiodo le reti da pesca.Ogni singolo angolo di strada è veramente pittoresco. C'è un unico negozio di cibarie, dotato di registratore di cassa manuale e di etichette sulle quali segnare i prezzi delle merci, come si faceva una volta. Un solitario ristorante si affaccia direttamente sul mare in una posizione strategica, circondato da baracche di legno che fungono da officine attrezzi, ormai trasformate in musei. Il tutto è condito da innumerevoli tralicci di legno, usati da secoli per appendere gli stoccafissi a seccare durante i mesi primaverili e per far asciugare le reti da pesca al sole. Ancora piacevolmente frastornati dall'impatto con questo ridente paesino, troviamo immediatamente l'ostello: l’autobus ci ha lasciato esattamente di fronte ad esso, ma in ogni caso il luogo è così piccolo che è impossibile avere problemi di orientamento. All'ufficio turistico, anche qui presente ed efficiente, non ci danno la piantina del paese, bensì direttamente una fotografia scattata da poche decine di metri d'altezza, sufficiente a comprendere in un colpo solo tutto quello che c'è da vedere. Alloggiamo in un carinissimo rettangolino di legno con quattro letti, finestrelle quadrate, stufa elettrica per le evenienze e pochissima polvere. Un ottimo regalo per noi allergici agli acari. La camera è ancora completamente libera, ma dovremo aspettare la sera per scoprire se avremo compagnia. Ci concediamo un'ottima birra comprata all'alimentari, questa volta senza limitazioni d'alcun genere, gustandocene ogni sorso come simbolo di ritrovata libertà.Duecento chilometri a nord del Circolo Polare Artico, ora siamo proprio in un altro mondo.

Le bottegheNon possiamo non esplorare ogni angolo del paese, e cominciamo subito dopo aver bevuto l’ultimo sorso di birra. Una mezz’oretta prima che chiudano, riusciamo a visitare tutti i musei del posto, se

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così si possono chiamare, viste le loro dimensioni. Ognuno in passato era adibito ad una funzione diversa. La casa del pescatore è talmente piccola che si fa fatica a muoversi. Le scale sono conformate nel modo usuale, ma sono talmente ripide da risultare quasi verticali, come una scala a pioli. I soffitti sono bassissimi per una persona di normale statura, figuriamoci per i nordici che sono notoriamente più alti di noi. Tutto rispecchia pienamente la dura vita dei pescatori, abituati alle poche comodità e al lavoro pesante. Su ogni comodino si trovano soprammobili di porcellana, vecchissimi vasi di ceramica e molte fotografie ricordo delle famiglie del paese; sul tavolo della minuscola cucina sono allineate diverse bottiglie di vino, molto impolverate, che si possono solamente annusare. La tentazione di rimanere ad abitare per un po’ in questi piccoli gioiellini dismessi e provare com'era la vita dei pescatori è veramente forte, ma dobbiamo accontentarci della camera del nostro ostello, che tuttavia non è molto diversa. La prossima stamberga è la rimessa delle imbarcazioni e degli attrezzi da pesca, tutti abbondantemente arrugginiti. Sempre qui si trovano delle impressionanti e autentiche ossa d'animali acquatici, in particolare una vertebra di balena. È identica nella forma a quelle umane, ma è grossa come un televisore. Impressionante! Sapevo che la balenottera azzurra può raggiungere i trenta metri di lunghezza, ma vedere di persona una sua parte, grossa almeno cinquanta volte la corrispondente umana, è tutta un’altra cosa.Tocca ora alla fabbrica di olio di fegato di merluzzo, la più antica dell'intera Europa. Le capsule che ingoiamo oggi per ridurre il colesterolo arrivano da posti come questo. A pensarci bene, è strano: ciò fa capire come tutto il mondo sia collegato insieme da una rete invisibile, di cui purtroppo spesso non ci rendiamo nemmeno conto, credendo di bastare a noi stessi e di non aver bisogno di nient'altro, di nessun'altra cultura diversa dalla nostra, mentre ogni singola parte del mondo è importante per dare il suo contributo al massiccio e poliedrico ingranaggio della vita. Poco distante c'è la vecchia fucina del fabbro, con le sue morse arrugginite ma ancora funzionanti e i suoi utensili di ogni forma e dimensione. Qui si fabbricavano gli strani coltelli per sventrare i pesci, oltre alle lampade ad olio necessarie per illuminare le abitazioni nei duri mesi invernali.

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Infine, chiude il cerchio il panificio, col suo enorme forno annerito. Ora è freddo da anni, ma chissà in passato quanti sacchi di farina sono finiti in quella piccola grotta rovente. Questa era la vita che si faceva ad Å: semplice, tranquilla, di pochissime pretese e altrettante poche aspettative, atta solo a guadagnarsi da vivere onestamente senza dare fastidio a nessuno, e soprattutto senza distruggere l'ambiente. Una vita che può apparire invidiabile o detestabile, ma indiscutibilmente autentica. Se penso che anche questi gioiellini di isolette sono state coinvolte loro malgrado nella seconda guerra mondiale, in cui l'unico obiettivo era distruggere il più possibile per accaparrarsi una supremazia territoriale ed economica, mi chiedo veramente a che livello possa arrivare l'idiozia d'alcuni esseri umani, sempre che si possano definire propriamente tali. Come coronamento finale, tentiamo anche di visitare il museo dello stoccafisso, vero motore dell'economia locale. Il famoso pesce delle Lofoten viene periodicamente esportato nel Vicentino, grazie ad un gemellaggio collettivo che garantisce continui scambi sia commerciali sia culturali. In quel di Vicenza, lo stoccafisso viene poi cucinato con la ricetta locale, alla Festa del Baccalà. Come per confermare questa lunga e fruttuosa collaborazione, sulla porta troneggia un cartello che recita orgogliosamente "Noi parliamo italiano!". Purtroppo, prima di riuscire ad entrare veniamo bloccati dal gestore, il quale ci comunica in perfetto italiano che il museo è in chiusura. Non abbiamo nemmeno aperto bocca: sa solo lui come abbia fatto a capire che siamo italiani. Per caso ce l’abbiamo scritto in fronte?

OceanoEsaurita la parte culturale, è il momento di dedicarsi alla natura, che non ha orari di chiusura. La baia del paese è una porta aperta sull’immenso Oceano Atlantico. Seduto sull’ultimo spruzzo di roccia prima del mare, osservo l’orizzonte in uno stato di pace mentale assoluta. Il mare, piatto quasi come una tavola, elimina qualsiasi brutto pensiero. Guardando il cielo sgombro mentre si fonde con l’oceano all’orizzonte, mi sento quasi trasportato in quella zona con la mente, mentre il corpo rimane fermo seduto sulla roccia. Il ritmico alternarsi delle debolissime onde amplifica questa sensazione e provo una forte attrazione per quella sconfinata distesa

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d’acqua, nonostante non sappia nemmeno nuotare. Non un rumore, né tanto meno quello delle nostre voci, che stanno perfettamente zitte lasciandoci ascoltare l’assordante silenzio della natura. Quando ci siamo lasciati sufficientemente ipnotizzare dalle onde, è tempo di cercare nuove visuali: dalle collinette di sassi e muschio che sovrastano il borgo si può godere di una vista davvero emozionante. Di fronte a noi il minuscolo paese, alla nostra sinistra le imponenti montagne che lasciano in ombra buona parte della zona, mentre sulla destra è appena visibile un campeggio in riva al mare. Dietro di noi c’è un verdognolo lago circondato da montagne, e sulle cui rive due persone stanno campeggiando liberamente, non senza suscitarci una punta d'invidia.

PavelTorniamo in ostello già rimpiangendo gli stupendi momenti appena vissuti, e facciamo conoscenza con il nostro nuovo compagno di stanza, un ventiseienne israeliano di nome Pavel. Si rivela subito estremamente loquace, a volte perfino invadente. Non la smette nemmeno per un secondo di farci domande di ogni tipo. Dopo un po’ scopriamo che s’è intrufolato in ostello senza pagare, e per giunta sta usando il sacco a pelo, che è severamente proibito onde evitare infestazioni di pidocchi. Facciamo finta di niente e aspettiamo che esca per riguadagnare qualche minuto di tranquillità, ma dopo poco il richiamo serale di Å i Lofoten si fa sentire anche per noi. Non possiamo certo perderci l’atmosfera di questo piccolo capolavoro, mentre il sole inizia lentamente a scendere sotto l’orizzonte. Solo un mese fa non sarebbe tramontato affatto.Appena usciti dall’edificio, ritroviamo subito il nostro compare. È molto difficile non incontrarsi in un paese abitato più da gabbiani che da esseri umani. Pavel formalmente ci invita a fare una passeggiata, ma praticamente ci costringe ad andare con lui. Inizia dunque a raccontarci le sue imprese di free climber, indicandoci la montagna di fronte a noi e sostenendo di essere in grado di scalarla in venti minuti senza aiuti d'alcuna sorta. Siamo abbastanza scettici a proposito di quest’affermazione, nonostante il suo fisico robusto e muscoloso parli chiaro, ma non lo contraddiciamo per puro istinto di conservazione. Il suo argomento successivo è il confronto tra le temperature locali e quelle israeliane, esposto con dovizia di

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particolari. Infine, non poteva mancare un accenno agli italiani: afferma di averne incontrati praticamente ovunque, veri infestatori di ostelli (in senso positivo). Tutto sommato il ragazzone è simpatico, peccato che sia tremendamente logorroico e non ci lasci nemmeno il tempo di replicare qualcosa alle sue affermazioni. Continuiamo quindi a camminare verso il promontorio, sempre incalzati dalla sua parlantina inarrestabile, sperando che la bellezza del posto alla fine azzittisca anche lui. Sono quasi le undici di sera, ma la luce è ancora praticamente diurna. Il mare incontra dolcemente il cielo rosato, mentre qualche gabbiano lancia il suo grido in mezzo al mare. La maggior parte degli uccelli si è ormai ritirata sotto i tetti delle case, dove se ne possono vedere a centinaia, e tutti non smettono un solo secondo di garrire. Beati loro che si godono questa meraviglia gratuitamente per tutto l'anno. Nonostante il terzo incomodo, si viene a creare un altro momento meditativo di grande intensità: i colori del tramonto amplificano la perenne sensazione di meraviglia che ci ha presi non appena abbiamo messo piede alle Lofoten. Tuttavia Pavel non vuole proprio saperne di stare zitto e così accampiamo una scusa per tornarcene in ostello, unicamente per liberarcene. Tuttavia, ci dormiamo assieme, quindi non possiamo scappare molto a lungo. Passiamo la serata a chiacchierare del più e del meno, e solo in ora molto tarda il grosso Pavel ci permette di infilarci sotto le coperte per dormire. Domani ci aspetta una giornata molto intensa e dobbiamo recuperare le energie…

PedalandoL'ostello propone un servizio di noleggio biciclette per ventiquattro ore, più che sufficienti per effettuare un giro panoramico eccezionale. Quale mezzo migliore di una bicicletta per esplorare nei dettagli quest'angolo di paradiso terrestre? Con una tariffa piuttosto salata, ma non trattabile, la ragazza della reception ci porta a scegliere i nostri mezzi. Sono tutte delle scassate ed apparentemente poco affidabili biciclette da città, che probabilmente hanno molte migliaia di chilometri alle spalle, ma non possiamo pretendere troppo. La selezione dei mezzi è accurata: scartiamo le bici che frenano poco, quelle con i cambi di velocità troppo arrugginiti e quelle apparentemente un po’ sbilanciate. Alla

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fine, non resta di meglio che due biciclette costruite assemblando parti d'altre bici diverse tra loro, come testimonia il cambio di velocità, la cui levetta segna ben sette rapporti, quando in realtà le ruote dentate sono solo tre. Io non monto su una bicicletta da parecchi anni e non sono mai stato una cima del ciclismo, mentre Davide è un po’ più abituato a pedalare, ma anche lui è a corto d'allenamento da qualche anno, perciò possiamo dire che entrambi siamo assolutamente fuori forma. Dopo un periodo di inattività totale, riprendiamo entrambi ad andare in bici nell'ultimo posto al mondo che ci saremmo aspettati. Partiamo lentamente, ancora ignari di ciò che ci aspetta. Siamo freschi di energie, ma solo per i primi cinque minuti. Le strade delle Lofoten, seppur ottimamente asfaltate e prive di buche, sono infatti estremamente tortuose, e se possono apparire affascinanti e divertenti quando si percorrono in autobus o in macchina, in bicicletta sono odiose. Si tratta, infatti, di superare continui e ripidi saliscendi, distruttivi per gambe non allenate. Ripercorrendo la strada che ci porta a Moskenes, rivediamo ancora tutti i meravigliosi paesaggi dell'andata, ma la differenza è che stavolta stiamo soffrendo non poco per far camminare questi rottami, totalmente inadatti ad un percorso simile. La fine delle salite è un miraggio che non arriva mai, e in compenso le discese finiscono sempre in un attimo. Il percorso è veramente massacrante e mi sto leggermente pentendo di aver voluto a tutti i costi fare questa gita, ma poi penso che in caso contrario l’avremmo rimpianta troppo. Così stringo i denti e continuo a faticare sulla bicicletta con la mia penosa andatura, maledicendo ogni salita e benedicendo ogni discesa, consapevole che prima o poi arriverò in un qualche posto.Nonostante la fatica e l’andatura a dir poco stentata, percorriamo abbastanza velocemente i quattro chilometri e mezzo che ci separano da Moskenes. Ora è il momento di proseguire ancora oltre, verso altre mete ed altre presumibili meraviglie naturali e artificiali. Presto incontriamo una galleria lunga esattamente un chilometro, come segnala il cartello posto all’entrata. A nessuno di noi è mai capitato di percorrerne una in bici, ma la imbocchiamo senza pensarci troppo a lungo. Le automobili che sfrecciano in galleria vengono preannunciate da un rombo fragoroso, come se stesse atterrando un aereo di linea proprio di fianco a noi, ma quasi sempre il tremendo rombo rivela poi una banale utilitaria, lanciata

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alla folle velocità di cinquanta chilometri l'ora. Abbiamo un po’ paura di sbandare per gli spostamenti d'aria dei mezzi che ci passano di fianco, visto anche il bordo della strada molto irregolare e ciottolato, ma presto usciamo dal tunnel, indenni. Quando rivediamo la luce del sole e abituiamo le pupille al cambio di luminosità, abbiamo davanti un'altra scena mirabolante. Il calmissimo mare è in un bagno di sole, e davanti a noi è ben visibile l’aggraziato dosso di uno degli innumerevoli ponti che collegano tra loro le decine di isolette. Le catene montuose si estendono a perdita d’occhio, affiancate come decine di mostri marini, emersi per fare a pezzi gli sparuti agglomerati residenziali che ogni tanto si scorgono ai piedi di questi ammassi di roccia aguzza ed irregolare. Siamo fortunati ad aver trovato delle giornate così belle, poiché meteorologicamente parlando le Lofoten sono famose per essere capricciose e volubili. Ci accorgiamo solo ora della presenza di una pista ciclabile, costruita apposta per non dover attraversare direttamente la galleria. Fosse stata segnalata un po’ meglio, magari l’avremmo anche vista. Tutto sommato, però, ci siamo divertiti molto di più a passare in mezzo alla galleria! Con rinfrancato spirito, prendiamo stavolta la pista ciclabile ed imbocchiamo il primo ponte sospeso, con la sua curva sinuosa che aspetta solo di essere solcata dal nostro consumato battistrada. Le isolette sono unite tra loro in modo così apparentemente precario da sembrare catene umane, e alcune possono a malapena dirsi isole in quanto sono poco più che scogli, sui quali i ponti fanno presa da un lato per poi ripartire dall’altro entro poche decine di metri, unendosi ad uno scoglio più grande. Solo in pochi punti c’è qualche sparuta collinetta vagamente erbosa, in mezzo alla rocciosità generale. Appare ora la cittadina di Reine, sorta sul più grande degli isolotti. Le biciclette scendono veloci per l'inerzia della discesa, concedendoci un breve riposo dopo una prolungata salita. Anche qui dimorano poche centinaia d'abitanti, ma le strade sono notevolmente più larghe, c’è un piccolo supermercato e addirittura uno sportello bancomat. Dopo una breve sosta per riprendere fiato, ripartiamo alla volta della prossima cittadina, Hamnoy. Lungo la strada ci godiamo lo scenario più bello dell’intero arcipelago. I ponticelli sono sempre più suggestivi: alcuni hanno diverse campate di cemento, mentre altri sono solo dei semplici

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ammassi di roccia, levigata sulla cima per permettere alle auto di passare, ma lasciata grezza ed irregolare sulle pareti laterali. Non sono ovviamente disposti su una linea retta, bensì a zig zag, e non potrebbe essere altrimenti data la geografia tremendamente frastagliata delle isole. In corrispondenza dei ponti, capita spesso che le automobili che si incrociano debbano alternarsi per poter passare entrambe, e perciò le imboccature sono quasi sempre regolate da semaforo. Nonostante lo scarsissimo traffico, ciò può significare attese anche molto lunghe per passare da un appezzamento di terra all’altro. Il dedalo di vie di comunicazione creato dai ponti è piacevolissimo da percorrere, e la fatica di pedalare si attenua notevolmente, schiacciata dal fascino di questi sputi di terra e roccia sparsi in mezzo all’acqua. In mezzo all’acqua si ergono degli strani recinti circolari di ferro verniciato, che assomigliano a piccole arene, apparentemente sospese sull’oceano. Non hanno un pavimento: c’è unicamente la ringhiera, la quale circonda solo altra acqua. Non si capisce bene come possa stare in piedi una struttura simile, né tanto meno riusciamo ad immaginare a cosa serva: forse sono punti d'attacco delle reti da pesca, o chissà cos'altro. Non mancano nemmeno i numerosissimi tralicci di legno infissi nei rari punti dove il suolo è erboso. Le montagne circostanti, nude o al massimo popolate da pochi fili d’erba rachitici, formano delle strette gole ed insenature, nelle quali l’acqua si insinua con grazia. Solo in alcuni punti le pareti rocciose degradano in una gola a forma di U, che per quanto bassa non lascia però intravedere nulla al di là di essa. Alcune montagne hanno persino delle tracce di neve nelle zone che rimangono perennemente in ombra. Vedere della neve estiva su una montagna sorta al livello del mare è uno spettacolo decisamente inusuale! A mano a mano che passiamo da un ponte all'altro, fermandoci sempre più spesso per via della stanchezza che ormai la bellezza dei paesaggi non mitiga più a sufficienza, arriviamo alla cittadina di Hamnoy, dislocata in modo a dir poco bizzarro sugli scogli. I nostri stomaci reclamano qualcosa di commestibile, perciò cerchiamo un posto tranquillo dove poterci stravaccare in pace. Ci fermiamo su una spiaggia isolata e rocciosa, lungo la quale sorge una serie di case su palafitte, elegantemente alternate alle rocce lambite dal mare. Le

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case sembrano momentaneamente disabitate, perciò possiamo intrufolarci nei cortili e usufruire delle panchine senza il timore di essere scacciati. Le alghe e i coralli che intravediamo nell'acqua bassa sono un'infinità, così come sono numerosissimi gli uccelli che vociferano continuamente, dicendosi chissà che cosa nel loro linguaggio a noi incomprensibile. Magari si stanno insultando e cercano di cacciarsi via vicendevolmente dalla propria zona, mentre a noi sembra che stiano semplicemente cantando. Il sole è quasi a perpendicolo sopra di noi, e mi viene quasi la tentazione di fare un bagno in mare per rinfrescarmi un po’, ma accantono l’idea quasi subito. Non tanto per la mancanza del costume, ma piuttosto per la paura di cosa mi potrebbe succedere una volta uscito ed esposto al vento fresco ed incessante, che da ore ci sferza vigoroso. Mi limito dunque a lavarmi le mani, per togliere dai palmi la sostanza appiccicaticcia che ricopre il manubrio della bicicletta.

MoskenesOrmai ripresici dalla fatica, ma non dai dolori alle gambe, iniziamo a tornare indietro. Anche stavolta, come successe al Preikestolen, il ritorno si rivela duro tanto quanto l'andata. Tutti i saliscendi si sono semplicemente invertiti e conservano intatta la loro difficoltà. Sono così stanco che percorro praticamente tutte le salite spingendo la bicicletta a piedi. Questa volta evitiamo la galleria, preferendo le sterrate strade alternative, fiancheggiate da alberelli e percorse solo da qualche raro turista appiedato, per poi arrivare nuovamente a Moskenes. La chiesetta bianca, posta su una piccola altura, ci dà il benvenuto, mentre l'ufficio informazioni vende magliette delle Lofoten raffiguranti il sole di mezzanotte, tazze souvenir e perfino delle bustine di stoccafisso, rigido come il legno e talmente disidratato da contenere ben ottanta grammi su cento di proteine. Passiamo lentamente in mezzo alle onnipresenti e fittamente intrecciate travi di legno, alcune delle quali recano stesa qualche malandata rete da pesca strappata in alcuni punti e probabilmente inutilizzabile. Non c’è anima viva in giro per il paese e ormai siamo molto stanchi, dunque è meglio far rotta subito verso Å i Lofoten. Mentre Davide ha ancora una certa energia nelle gambe, io ormai continuo a spingere sui pedali per forza d'inerzia. Vale la pena di

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riportare un memorabile scambio di battute, proferito a stento durante una difficile salita:

Daniele: "Ma come fanno quelli che fanno il giro d'Italia?"Davide: "Si dopano"Daniele: "E quelli che non si dopano?"Davide: "Arrivano ultimi!"

Si prepara una missioneAlle cinque di pomeriggio, raggiungiamo finalmente Å i Lofoten, fermandoci direttamente nei sostegni delle biciclette. Non vogliamo più avere a che fare con quegli orrendi velocipedi, nemmeno per un istante. Siamo distrutti dalla fatica, ma anche molto soddisfatti. Per esigenze di servizio dobbiamo cambiare ostello, approdando in una camera quadrupla ma disabitata. Siamo riusciti a sfuggire alla logorrea di Pavel, se non altro. La sera siamo troppo stanchi per uscire, così passiamo il tempo cercando di calcolare il calore irradiato dalla lampadina appesa al soffitto. Una volta trovata la metratura cubica della stanza, calcolata partendo dalla capacità dei nostri zaini, e trovato il calore specifico prodotto dalla lampadina, possiamo dedurre che a livello teorico la nostra lampadina scalda di sei gradi la temperatura della stanza ogni ora! Insomma un ottimo modo per far passare il tempo fondendosi il cervello inutilmente. Prenotiamo inoltre un ostello nella piccola cittadina di Svolvær, trovato all’ultimo minuto dopo una lunga ricerca. La città è la capitale amministrativa delle Lofoten, nonché la più antica dell’intero Circolo Polare Artico: risale all’epoca dei primi Vichinghi. Situata nella parte centrale della catena insulare e curiosamente gemellata con la nostrana città di Ancona, sarà la nostra prossima meta. La ragione per cui non scegliamo la ben più visitata Stamsund è che a pochi chilometri da Svolvær si trova un piccolo ed insignificante villaggio, Kabelvåg, nel quale vive (o dovrebbe vivere) Lalla, una vecchia amica di mio padre. Purtroppo, i due hanno perso i contatti da più di trent’anni ormai, ma adesso ho l’opportunità di ricucire questo strappo, e non voglio certo

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farmela scappare. Non sarà tuttavia un’impresa facile: sicuramente in quel paesino ormai sarà cambiato tutto, geografia e persone.

SvolværDopo una buona dormita, ci svegliamo presto e abbandoniamo Å i Lofoten. Il nostro pullman impiegherà circa tre ore e mezza per raggiungere la capitale amministrativa delle isole, che conta solamente quattromila abitanti, ma possiede addirittura un aeroporto. Un sacco della spazzatura smembrato, probabilmente opera di qualche cane o gatto in cerca di cibo, ha riversato tutto il suo contenuto sulla pensilina del bus, ma nessuno dei pochi presenti si cura di raccogliere i rifiuti. Tutti si preoccupano unicamente di ripararsi dal penetrante freddo che si insinua sotto le giacche. Il cielo è oggi molto nuvoloso e renderebbe impraticabili le gite in bicicletta: troppo alto il rischio di pioggia e soprattutto troppo intenso il freddo, senza l’ausilio del prezioso sole. Siamo stati più che fortunati. Ripercorrendo per l'ennesima volta la strada per Moskenes, che ormai conosciamo a memoria, il paese delle meraviglie si allontana sempre di più e salutiamo malinconicamente questi luoghi incantati, che la nebbia fa sembrare ancora più effimeri e inconsistenti. Costeggiando l’oceano, appaiono altre decine di ringhiere circolari perfettamente allineate tra loro, sospese come per magia in mezzo al mare. Con l’aumentare dei chilometri percorsi, l'aspetto delle isole cambia radicalmente. Le montagne cominciano a riempirsi di vegetazione arborea ed arbustiva, il paesaggio da fiabesco si fa sempre più ordinario, specialmente una volta raggiunto l’entroterra. Sembra tuttavia di viaggiare in alta montagna e non certo poco sopra il livello del mare. Aiuto il tempo a passare più in fretta, rimettendo ancora una volta gli auricolari e facendo scorrere un po’ di tracce nel lettore. Cerco sempre di conciliarle col paesaggio, scegliendo solo quelle più malinconiche ed evocative per accoppiarle alla perfezione con la natura e le condizioni atmosferiche. Alcune chitarre dal sapore decadente e triste mi fanno tornare un po’ di nostalgia per il ridente paesino appena abbandonato, finché un brano più deciso e potente mi risolleva il morale e mi ricorda che sto andando in missione, a cercare come un segugio questa vecchia amica di famiglia. Quando mai mi ricapiterà di viaggiare in un luogo

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così remoto e di trovare una persona che tanto tempo fa ha avuto contatti con la mia famiglia?La piccola cittadina di Svolvær, situata in un’insenatura della costa circondata da montagne verdi, è ormai segnalata come prossima. Per raggiungerla attraversiamo proprio Kabelvåg, che si trova esattamente sulla strada principale. Cerchiamo di carpire già qualche informazione sul paese, ma l'autobus passa senza fermarsi e non abbiamo modo di vedere quasi nulla, se non alcuni cespugli di fiori viola che riempiono ogni angolo libero di entrambi i lati della strada. L'arrivo a Svolvær è un po’ approssimativo: dopo una mezz’oretta di vagabondaggio nelle sue larghe e poco popolate strade, finalmente troviamo un ufficio informazioni, situato in una piazza affacciata direttamente sul mare. Accanto c’è il punto di partenza dei traghetti, presidiato da alcune giovani bigliettaie in borghese che si guardano attorno, cercando di catturare qualche nuovo cliente. Le bancarelle sono anche qui onnipresenti, mentre i numerosi uffici di cambio ci ricordano che siamo in una piccola capitale. La ragazza dell'ufficio informazioni ci spiega subito dove dobbiamo andare per raggiungere l’alloggio, che come volevasi dimostrare è lontanissimo. Un interminabile vialone da percorrere a piedi, poi un chilometrico ponte curvo, curiosamente piegato a forma di volta. Quest’enorme ed altissima lingua d'asfalto, che assicura vertigini ai deboli d’orecchio, sovrasta i moli nei quali le navi da container aspettano di essere varate. Si intravedono in lontananza le numerose industrie ittiche che sostengono l’economia locale, e le montagne stavolta lasciano un po’ di terra tra sè e il mare, non gettandosi più a capofitto in acqua. Il ponte dà l’illusione di essere infinito: camminiamo e camminiamo, ma le distanze paiono sempre uguali. Quando finalmente il ponte termina, scopriamo che la piccola isola sulla quale siamo arrivati è la zona industriale del paese. Le costruzioni più frequenti sono i serbatoi per la benzina e il gasolio, mentre decine di pescherecci e qualche nave mercantile galleggiano pigramente in acqua. L’ambiente è intriso di un penetrante olezzo di pesce che si sente dappertutto. Recuperate le chiavi del nostro alloggio, camminiamo ancora per qualche centinaio di metri verso il limite del molo, fino ad arrivare ad un malandato edificio squadrato e scrostato. Alloggeremo qui. L’unica cosa positiva è che la camera è una doppia: per il resto, il panorama che si vede dalla finestra è orrendo (in primissimo piano c'è una cisterna di benzina) e non

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possiamo aprire la finestra senza che la stanza venga istantaneamente invasa dalla puzza, un insolito misto tra pesce fresco e gasolio bruciato. I letti sono ai limiti dell'igiene, cosparsi di peli, capelli e forfora, o chissà quale altra sporcizia non meglio identificabile. La stanza doccia e la stanza servizi hanno ingresso unico, e le docce sono la prima delle due stanze, cosicché se qualcuno si sta lavando tutti gli altri devono aspettare che finisca. Per fortuna dobbiamo rimanere qui solo due notti. Dopo aver coperto la sozzura dei letti con due lenzuola pulite, lasciamo la stanza e prendiamo l’autobus per Kabelvåg, che impiega solo dieci minuti per percorrere la strada che separa le due cittadine.

KabelvågIl paese è piccolissimo e non sembra disporre di edifici pubblici significativi, a parte un ufficio informazioni dipinto di giallino sbiadito, che reca appese all’esterno numerose bandiere di varie nazioni. Nonostante sia un luogo insignificante e poco popolato, il borgo ha un aspetto moderno e ben curato. C’è un ristorante e addirittura una banca. Prima di raggiungere il centro vero e proprio, cerchiamo il cognome della donna sui campanelli e sulle cassette della posta delle case che incontriamo, tutte rigorosamente di legno e verniciate con colori vivaci. Nessun nome corrisponde a quello di Lalla. Oltretutto, mio padre non si ricorda nulla né della via in cui si trovava la casa né tanto meno della casa stessa, dimenticanza più che comprensibile dopo tutti questi anni, quindi siamo completamente soli nella nostra ricerca. Arrivati in centro, proviamo per prima cosa a chiedere all'ufficio informazioni dove sia il municipio, così da trovare l'elenco dei residenti. Il giovane commesso non sa aiutarci nella nostra richiesta, forse un po’ azzardata. Sembra che non ne sappia nulla, o forse non c’è nemmeno un municipio a Kabelvåg, perciò desistiamo e tentiamo la fortuna nel ristorante. Essendo l'unico in tutto il paese, sarà sicuramente frequentato da tutti e sarà quindi probabile trovare qualcuno che abbia almeno sentito parlare di lei, o che addirittura la conosca di persona. Il locale è ottimamente arredato e nulla lascia intendere che ci troviamo in uno sperduto paesino delle Lofoten. Chiediamo informazioni al barista, che si mostra subito molto gentile ed interessato al nostro caso. In un baleno, l’uomo chiama a

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raduno tutto il personale, cercando qualcuno a cui quel nome sia familiare. Le voci dei ristoratori si alternano incerte, e le poche informazioni che riceviamo sono approssimative e contraddittorie. L'unica che troviamo incoraggiante è che vent'anni fa la donna dovrebbe essersi trasferita nella vicina isoletta di Skrova, ma non possono assicurarcelo, poiché nessuno la conosce direttamente. Parlano solo in base a reminescenze. L’isola non è lontana e si può raggiungere in tre quarti d’ora col traghetto che parte da Svolvær. Potremmo farcela. Ringraziamo tutti per la cortesia e disponibilità che ci hanno dimostrato, e usciamo dal ristorante un po’ scoraggiati, ma decisi a non mollare. Per cercare di ottenere informazioni più precise, entriamo in quello che sembra un piccolo museo. Proviamo a chiedere al bigliettaio se conosca l'ubicazione del municipio del paese, ma anche lui ci rimanda indietro all’ufficio informazioni. In questo paesino, evidentemente, non c’è altro di importante. Decidiamo di ritentare nuovamente lì. Il commesso stavolta ci invita a tornare dopo un'ora, quando gli darà il cambio un uomo più anziano che potrebbe esserci di maggiore aiuto. La proposta è ragionevole. Nell'oretta che abbiamo da aspettare, andiamo a visitare la chiesa intravista durante il tragitto in pullman, che scopriamo essere la seconda chiesa in legno più grande della Norvegia. Esternamente colpisce molto lo sguardo con la sua verniciatura giallina e marrone scuro, che dona alla chiesa un’aria austera. L’intero edificio sorge su un’altura che domina una vecchia baia ormai prosciugata, tappezzata dagli strani fiori viola che qui sono particolarmente numerosi. L'ingresso costa venti corone, ma non le vale. Dentro c'è ben poco da vedere. Usciamo presto, e Davide propone di cercare il camposanto: non è detto che la nostra Lalla non si trovi lì. Troviamo subito le lapidi, in mezzo ad un boschetto a pochi metri dalla chiesa. Come cimitero è decisamente grande per un paese così piccolo. Ci dividiamo per cercare meglio, ma pur setacciando l’intera area da cima a fondo, troviamo solo un'omonimia di cognome. Meglio così, almeno significa che la signora, seppur irreperibile, è viva. O forse è sepolta altrove…chissà. Torniamo in paese, poiché ormai è passata quasi un’ora. Questa volta nell’ufficio ci sono due uomini. Uno ha l’aspetto più vissuto, con la pelle rugosa e i ricciolini a cascata su tutto il capo, l'altro è più giovanile, anche se è quest'ultimo che ci viene presentato come l'esperto del luogo.

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Purtroppo, nessuno dei due pare conoscere la signora Lalla. L'uomo apparentemente più giovane prova anche con una telefonata, presumibilmente ad un ufficio informazioni di qualche altro posto vicino, o forse al municipio di Svolvær. Dopo qualche minuto di speranza, il ricevitore torna al suo posto. Nessuna informazione, nessun ricordo. Ci rassegniamo temporaneamente e ci sediamo in mezzo alla piazza a mangiare qualcosa, guardandoci attorno per scorgere qualche eventuale anziano vagante a cui possiamo fare qualche domanda, confidando in qualche suo ricordo di tanti anni fa. Purtroppo non abbiamo fortuna nemmeno qui. Non passa nessuno che possa aiutarci, solo qualche turista dall'aria distratta che passeggia attorno alle case. Oggi la fortuna ci ha proprio voltato le spalle.

Attacco aereoPer calmare gli stomaci, ci sediamo su una panchina in mezzo alla piazza e tiriamo fuori i nostri ormai insopportabili panini con la mortadella, nauseante ma indispensabile componente dei nostri pasti. Frugando nello zaino, mi accorgo di avere ancora tre pacchetti di cracker italiani, ormai completamente sbriciolati. Dopo aver mangiato i panini, mi viene la buona idea di offrire i cracker agli uccelli che passeggiano per la piazza lastricata, perennemente in cerca di briciole dimenticate dagli umani. Apro un pacchetto, stritolandolo prima tra le mani per polverizzare bene il contenuto, ed incautamente ne getto un po’ ad un paio di piccioni che mi stanno passando proprio ora vicino alle gambe. Ma non è affatto una buona idea. Nel giro di pochi secondi attiro una quantità impressionante di pennuti di ogni tipo, inclusi gli onnipresenti gabbiani, che arrivano in massa e si fiondano sul cibo, litigando e beccandosi tra loro. I volatili, presi da frenesia alimentare, si ammassano attorno al tavolo e alcuni ci salgono temerariamente sopra, scatenando le mie risate e l'ira del mio compagno di merende, che tocca l’apice quando un gabbiano rapace, ingolosito da un sacchetto di biscotti lasciato imprudentemente aperto, scende in picchiata e fa razzia del cibo prima che possiamo avvicinarci per recuperarlo. Ma da dove sono saltati fuori tutti questi uccelli? Il nostro tavolo è diventato una voliera. Davide mi guarda con aria indescrivibilmente seccata e mi odia per quello che ho combinato,

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ma io non riesco a far altro che ridere. Non riusciamo a scacciare tutti questi uccelli: hanno troppa fame per andarsene, e anche quando hanno finito di beccare l'ultima briciola non ne vogliono sapere di lasciarci in pace. Ormai sanno che gli ho dato da mangiare, e mi seguono nei miei spostamenti ovunque mi trasferisca. Siamo quindi costretti a traslocare di tavolo, mentre io uso gli altri pacchetti di cracker come esca, lanciando briciole sempre più lontano per attirare i frenetici pennuti nella parte opposta della piazza. Con questo simpatico diversivo si conclude la nostra infruttuosa missione a Kabelvåg, che abbandoniamo pochi minuti dopo.

Rinnovata speranzaUn po’ delusi dal fallimento della spedizione, ritentiamo il giorno seguente con l’isola di Skrova. Anche se non troveremo Lalla, l’ufficio informazioni ci assicura che è un bel posto dove passare un pomeriggio in pace, quindi pare la scelta più azzeccata. La ricerca dunque non è ancora finita, e qualche tenue speranza si sta riaccendendo, ultima fiammella superstite prima dell’eventuale soffio definitivo. La mattina ci alziamo molto presto per prendere il traghetto, che in tre quarti d’ora dovrebbe recapitarci su questo minuscolo appezzamento di terra e roccia, famoso per essere un centro baleniero. Nello spiazzo portuale non c’è come al solito anima viva, ma il traghetto dovrebbe partire proprio da qui. Cominciamo a preoccuparci, pensando di aver sbagliato qualcosa, ma quando una nave lentamente si accosta e si apre per lasciar salire inesistenti veicoli e passeggeri, la verità è presto svelata. Siamo gli unici due temerari che stamattina vanno a Skrova. Senza di noi, il traghetto partirebbe vuoto. Una situazione lievemente imbarazzante, ma tutto sommato è divertente avere una nave tutta per noi, con i bigliettai e manovratori che ci guardano come bestie rare. Probabilmente non ne vedono molti salpare a quest'ora per raggiungere un posto così deserto. Dopo queste premesse, non possiamo fare a meno di chiederci che razza di isola misteriosa sia questa. Speriamo per i marinai e i macchinisti che almeno ci sia qualcun altro da caricare più avanti, poiché far partire dei traghetti completamente vuoti non dev’essere molto soddisfacente, anche se si è pagati per farlo.

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SkrovaIl minuscolo porto di Skrova è anch’esso completamente deserto. C’è un singolo punto d'attracco per le navi ed un’altrettanto singola corsia per il carico dei veicoli. Appena messo piede a terra e lanciata un'occhiata circolare a quel che vediamo del paese, capiamo subito di essere finiti in un vero e proprio villaggio fantasma. Nessuno in giro, un silenzio di tomba, tranquille casette con giardini ben tenuti, due panchine dalla curiosa forma a stella, e infine un unico negozio di generi alimentari, col marchio della catena Coop infisso sopra l'entrata. Detto così, potrebbe far pensare ad un grande magazzino, ma il suddetto mercato non è un grosso parallelepipedo bianco come siamo abituati a vedere, bensì un minuscolo quadratino di nemmeno cinque metri di lato. Non possiamo fare a meno di sorridere, osservando questo buffo supermercato in miniatura. La globalizzazione è arrivata anche qui. Nonostante la desolazione che si avverte nell'aria, l’isola ha tuttavia una sua forte attrattiva: mi affascinano sempre questi luoghi così dimenticati e fuori dal mondo. Skrova è inoltre popolata da tantissimi gatti, notevolmente pelosi. Per questi animali, l’isola dev’essere un paradiso. Qui hanno tutto il pesce che vogliono, e la probabilità di essere investiti da un'automobile, loro acerrima nemica senza odore né respiro, è prossima allo zero. Non mi stupirei se tutti questi gatti avessero vent’anni e più.Una delle poche persone che incrociamo per le polverose stradine è una simpatica signora con gli occhiali da sole, la quale ci riconosce subito come viaggiatori spaesati. Vedendoci vagare senza meta, girando la testa qua e là in preda alla disperazione, si avvicina a noi e gentilmente ci offre il suo aiuto. Approfittiamo per spiegarle che stiamo cercando l’introvabile signora Lalla, che secondo le nostre poche informazioni dovrebbe essersi trasferita qui, ma lei scuote il capo. Non si dà tuttavia per vinta, offrendosi di provare a chiedere alla gente del posto. Su una delle panchine si è appena seduta una signora attempata, con una rosa di capelli grigi. Le due donne si parlano un po’ nella loro lingua, ma niente: l'anziana donna vive qui da sempre e non ha mai conosciuto né sentito parlare di nessuno con quel nome. Oltre a lei non c’è nessun altro a cui chiedere. La ricerca finisce qui, ormai è chiaro che non la troveremo mai.

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Cosa ci rimane da fare? Semplice: esplorare in ogni angolo quest'avamposto selvaggio. Alcune banderuole rosse, infisse nel terreno ad intervalli regolari, indicano la strada da seguire in mezzo alla vegetazione, per chi volesse fare il giro dell’isola. In un tratto ci troviamo nel sottobosco, tra gli alberi che ci coprono come in un tunnel, poi siamo sulle rocce ricoperte interamente da muschi, licheni e cardi che crescono invadendo ogni spazio disponibile, poi siamo su massi enormi e lastricati di conchigliette, portate dalle onde che da millenni bagnano queste coste. Il silenzio è completo, rotto solo dall'incespicare dei nostri passi su una roccia un po’ scivolosa e instabile, oppure dalle eriche e dal muschio secco, che crepitano quando sono calpestati e ci riempiono le scarpe di fastidiose spine. Ogni tanto mi devo fermare a toglierle, poiché mi sembra di camminare su un letto di chiodi. Sul suolo crescono innumerevoli mirtilli e bacche rosse opache non meglio identificabili, forse ribes ancora immaturi. Alcune particolari sostanze nutritive, depositate qui dall'acqua dell’oceano, creano un ambiente in cui riescono a vivere delle specie di piante che alle nostre latitudini crescono solo in alta montagna. Un altro aspetto delle sfaccettate Lofoten. Cespugli di splendidi fiori, molto simili ad azalee, spuntano ogni tanto da qualche avvallamento nel terreno, insieme ad arbusti dalle foglie rosse ed arancione, che costeggiano intere parti di sentiero. Ogni tanto c’è qualche buca piuttosto profonda, coperta da lunghi fili d’erba che si piegano su di essa come a proteggerne l’entrata, e più volte rischio di posarci il piede sopra. Se non si sta attenti è facile sprofondare ed insozzarsi col fango dei torrentelli nascosti. L'unico rumore percepibile è quello del vento oceanico e delle risacche che non producono mai due volte lo stesso suono in milioni di anni, in un avanti e indietro che è sempre stato e sempre sarà. Per il resto, tutto tace.Proseguendo lungo la costa della collina, sbarrata dalle rocce e impossibile da percorrere ulteriormente, il sentiero vira verso l’alto e muta bruscamente in roccioso e tortuoso. Ora la strada è decisamente ripida. Più volte perdiamo il sentiero e finiamo dentro i cespugli spinosi, che scricchiolano sotto i nostri piedi come il vetro sottile di lampadine infrante, facendoci sprofondare in un equilibrio costantemente instabile. Dobbiamo inerpicarci per molti gradini scavati nella roccia, decisamente faticosi da superare. Alcuni di essi

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creano delle piccole grotte, nelle quali un esploratore in difficoltà potrebbe passare una notte al riparo. Finalmente, dalla cima si riapre la visuale sulla vallata sottostante. Il paese appare così piccolo e insignificante da quassù. Una bianchissima spiaggia sulla destra unisce come un ponte naturale l'isola su cui poggiamo i piedi con un'altra più piccola, sulla quale spiccano due solitarie casette bianche. Sullo sfondo vi è una lunga catena di montagne quasi esclusivamente rocciose, che solo in pochi punti degradano per consentirci la vista del mare che si estende oltre. Nuvoloni grigi avvolgono le cime in una densa cappa, che però non riversa nemmeno una goccia d’acqua. Dopo una breve sosta sul crinale, ridiscendiamo per un sentiero ancora più difficile, composto da continui salti tra una roccia e quella sottostante, abbastanza bassi da poterli superare con un balzo, ma abbastanza alti da farci male ai piedi se atterriamo con tutto il peso in una volta sola. Scivolando ed incespicando, raggiungiamo di nuovo il sentiero battuto, fiancheggiato dall’onnipresente vegetazione del sottobosco.

FelidiRitornando nella deserta piazza, troviamo un bellissimo ma poco socievole gatto norvegese delle foreste, talmente peloso da sembrare un peluche fuori misura. In un impeto di sconsiderato ottimismo lo sollevo, esponendomi al rischio di graffiate, ma il bestione sembra starsene tranquillo. Pesa parecchio! Dopo molte insistenze, Davide mi scatta una foto mentre lo tengo saldamente tra le braccia, e un attimo dopo che la foto è stata impressa sul rullino il gatto si libera dalla presa e scappa come un fulmine. Dato che il felino non offre molte soddisfazioni, ci avventuriamo in un’altra zona dell’isola. Lì troviamo solamente quello che sembra un faro, ma che poi si rivela essere un centro di controllo per i cavi dell'alta tensione, che qui scorrono in parte appesi ai tralicci e in parte a terra, ben isolati ai lati del sentiero battuto. Lungo la strada non resisto al fascino di uno scivolo e di un'altalena, tra la disapprovazione del mio compare, che si rifiuta categoricamente di salirci. Tornando nella piazza principale, nella quale fa la sua comparsa anche qualche essere umano, ci sediamo involontariamente a fianco di un grosso nido di vespe. Ce ne accorgiamo solo dopo svariati minuti, quando dei bambini incoscienti iniziano a bombardarlo con numerosi

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sassolini. Gli insetti, visibilmente innervositi, cominciano ad uscire uno dopo l’altro vorticando rabbiosamente attorno al nido, così ce ne andiamo prima che inizino a prendersela con noi. Facciamo un giro anche nell’ultima parte del paese, seguendo la costa. Un’altra zona vuota e smorta che sembra proprio un villaggio abbandonato da Far West americano, se non fosse per alcuni simpaticissimi gattini di pochi mesi che hanno voglia di giocare. Si fanno anche prendere in braccio, da bravi cuccioli che ancora si fidano di tutti. Quando iniziano a rincorrersi tra loro infilandosi nelle siepi e nelle pallide staccionate, li lasciamo divertire e proseguiamo per il polveroso viale. Troviamo numerose automobili, vecchie di almeno trenta o quarant'anni, parcheggiate a fianco d'alcuni grossi blocchi di cemento abbandonati sulla riva. Probabilmente sono destinati alla costruzione o alla riparazione delle navi baleniere, che partendo da qui uccidono ogni anno centinaia di questi animali, tingendo di rosso gli oceani.Torniamo per l’ultima volta nelle vicinanze del molo, e assistiamo ad alcune animate lotte di territorio ingaggiate da tre felini autoctoni, che si rincorrono e si punzecchiano per decidere chi tra loro avrà il dominio di quella zona. Ci divertiamo ad osservarli, mentre si scrutano prudentemente dalle loro posizioni di guardia. Ogni tanto fanno qualche piccolo scatto, per poi muoversi in tutt’altra direzione, ma la situazione non si risolve mai.

Strano individuoQuesta volta ci sono diverse persone sul traghetto e i posti disponibili sono pochi, perciò ce ne accaparriamo velocemente due. Appena sbarcati, facciamo la spesa in un grande magazzino, dato che per qualche giorno non vedremo più un ostello o un locale dove mangiare. Arriviamo proprio mentre stanno chiudendo e riusciamo a fare la spesa praticamente al volo. Mi metto a cercare febbrilmente le bustine di stoccafisso, poiché presto usciremo dalla Norvegia e probabilmente non ne troverò più. Questa l’ultima occasione di provare questo tipicissimo prodotto. Sfortunatamente, per quanto giri il supermercato non riesco a trovarle, e inoltre veniamo più volte in contatto con un essere umano di dubbia provenienza, coi capelli neri lunghi che paiono sott’olio, i vestiti stracciati e una bottiglia vuota in mano. Il figuro si aggira per il

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supermercato sbuffando e facendo strani versi a chiunque involontariamente gli si pari davanti. Sembra che sia convinto di essere su un altro pianeta dall’espressione che ha negli occhi, pericolosamente infossati. Dimostra settant’anni, ma forse non raggiunge nemmeno i cinquanta. Mi inquieta un po’, continuando ad andare avanti e indietro proprio a fianco a me, anche se dopo i primi versi che mi ha buttato in faccia sembra non curarsi più della mia presenza. Affrettandoci a finire la spesa per liberarci il prima possibile del curioso personaggio, all'ultimo riesco a trovare le bustine di stoccafisso, seminascoste in un angolo. Non appena abbiamo finito di pagare dobbiamo subito uscire in fretta e furia, incalzati dagli inflessibili commessi, che non possono ritardare nemmeno di un minuto a chiudere il negozio. Quasi ci spingono all’esterno, sotto la pioggia che sta iniziando a cadere proprio ora. Dello strano personaggio, fortunatamente, non v’è più alcuna traccia. Per cena tento di mangiare lo stoccafisso così come l’ho comprato, peccato che non riesco nemmeno a staccarne un pezzettino minuscolo da quanto è duro! Ha la consistenza di un pezzo di legno, e va cucinato a dovere prima di poter essere commestibile. Domani si riparte alla volta di Narvik, uscendo definitivamente dalle terre norvegesi per non più ritornarvi. Terre che ci hanno regalato grandi emozioni e splendidi ricordi, che ci accompagneranno per sempre.

NarvikCi attende una giornata intera in movimento, prima di raggiungere il nostro punto di riferimento in Svezia, la cittadina di Luleå. Non riusciamo a contattare telefonicamente l’unico ostello che abbiamo trovato, e non ne conosciamo nemmeno l’indirizzo, quindi l’arrivo in città sarà piuttosto approssimativo. La mattina ci alziamo fin troppo presto, abbandonando con soddisfazione il puzzolente ostello, e saliamo sul bus che ci riporterà sul continente. La prima destinazione è Narvik, distante qualche centinaio di chilometri. Essendo domenica, non c'è assolutamente nessuno in giro né niente d'aperto, nemmeno il più grande dei supermercati. La luce è già forte, ma la cittadina dorme ancora e sembra proprio che non si voglia svegliare. Le uniche cose che si vedono muoversi sono le cartacce per terra, sospinte dal vento.

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Quando l’autobus arriva, ci mettiamo comodi per affrontare il lungo tragitto che ci aspetta: arriveremo nel primo pomeriggio. Il paesaggio della parte più settentrionale delle Lofoten è abbastanza piatto. Le montagne sono simili a quelle nostrane, vi sono pochi tratti sull'acqua, e tanti anonimi svincoli stradali. Queste sono alcune delle nostre ultime immagini della Norvegia.Dopo sei ore di pullman, siamo nuovamente rientrati nella Norvegia continentale, grazie ai lunghissimi ponti che uniscono le Lofoten alla terraferma e ci permettono di non dover più prendere mezzi navali. La cittadina di Narvik è famosa per essere stata pesantemente bombardata dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale, così da accaparrarsi il ferro ivi prodotto, tanto caro all'industria bellica nazista. Nonostante l’importanza storica, la sua stazione è letteralmente un buco. Piccolissima, deserta e ridotta al minimo indispensabile. Le serrande della biglietteria sono chiuse e non sembra che apriranno nel pomeriggio, ma fortunatamente l’Interrail ci salva anche da questa situazione. Abbiamo già il biglietto in mano per ogni evenienza, anche se per salire su alcune tipologie di treni occorre comunque prenotare. Il tabellone delle partenze è decisamente mal progettato, dato che mostra gli orari in modo confuso e per meno di dieci secondi alla volta, lasciando poi il posto a minuti e minuti di informazioni pubblicitarie che non servono a nessuno. Mentre mi guardo intorno, seduto su una delle panche all'interno, un viaggiatore confuso dall'ambiguo tabellone mi si avvicina timidamente per chiedermi qualche informazione su come potrà arrivare a Stoccolma in giornata. Dopo aver decifrato assieme le partenze, sono costretto a informarlo che il suo treno è già partito la mattina, e che dovrà accontentarsi di fare tappa intermedia un po’ più a nord. Dalla sua espressione capisco che c’è chi sta peggio di noi in quanto a spostamenti, ma non siamo comunque molto più fortunati di lui: abbiamo sì il treno pronto, ma niente di più. Nessuna informazione sulla destinazione e tanto meno un posto per dormire prenotato.Davide trova un elenco telefonico abbandonato sul bancone, e gli balena l'idea di cercare lì la nostra introvabile signora Lalla. Una minuscola speranza si riaccende. Troviamo due omonimie esatte, ma dopo aver telefonato scopriamo che sono abitanti di Narvik, che non hanno nulla a che fare con le persone che stiamo cercando. Le

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speranze di trovarle, distrutte e ridestate tante volte, crollano ora definitivamente.

SveziaIl nostro treno è composto da carrozze specificatamente divise per destinazione. Alcune si staccheranno a metà strada e proseguiranno in un'altra direzione, mentre una sola di esse ferma a Luleå. Per raggiungere la Svezia ripasseremo di nuovo dal Circolo Polare Artico, abbandonando le terre del sole perenne per non tornarvi più. Prendiamo posto liberamente sulla carrozza, mentre il controllore vidima i nostri biglietti, stupendosi che non parliamo svedese (non si nota che siamo italiani?). Possiamo finalmente dare l'ultimo vero saluto alla Norvegia. Dopo una mezz’oretta dalla partenza, la voce del capotreno si fa sentire imperiosa, amplificata dall’altoparlante. Abbiamo oltrepassato il confine e stiamo entrando nella vasta Svezia. Il paesaggio è decisamente diverso da quello norvegese: fiordi e maestose montagne ora lasciano spazio ad interminabili foreste di conifere e betulle nane, poste ad intervalli talmente regolari da sembrare una piantagione. Ogni tanto si intravede qualche grossa montagna rocciosa, raramente qualche palude e fiumiciattolo, e come ciliegina sulla torta un paio di splendidi arcobaleni. Ora è la campagna a fare da padrona. All’orizzonte stanno girando stancamente alcune pale eoliche, con un variopinto tramonto sullo sfondo che non può non emozionare anche il più insensibile dei viaggiatori. Per vederlo dobbiamo girarci continuamente, ma a costo di farci venire il torcicollo non possiamo perderci lo spettacolo. Stento a credere che quel gioco di colori sia dovuto unicamente al pulviscolo atmosferico che devia i raggi solari, tingendo il cielo di rosso ed arancione. Probabilmente c’è dietro qualcosa di più. Incrociamo poi un'industria di legname, motore trainante dell’economia scandinava. Nel suo enorme cortile giacciono centinaia di tronchi grezzi, ammassati in attesa di essere lavorati e trasformati ora in una sedia, ora in una scarpiera, ora in una scrivania. Probabilmente, tutti abbiamo in casa qualcosa che proviene dalle foreste nordiche, dato l'enorme sfruttamento delle zone boschive.

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Treni merci interminabili solcano lentamente le rotaie in direzione opposta alla nostra, e ci divertiamo a contare il numero dei vagoni: il più lungo ne ha ben sessantotto, di forma triangolare. La disarmante ma allo stesso tempo affascinante monotonia del paesaggio rallenta l'incedere del tempo, nonostante il treno stia sfrecciando velocemente sulle rotaie.

LuleåArriviamo a destinazione alle undici di sera. C'è ancora una discreta luce nel cielo, ma la stazione ferroviaria è già chiusa. La poca gente scesa insieme a noi si allontana in tutte le direzioni, disperdendosi nelle strade. Nei pressi della stazione rimaniamo solo noi due, probabilmente gli unici senza una sistemazione. Riponiamo una flebile speranza nella stazione degli autobus, ma purtroppo anch’essa ha le porte bloccate da robuste serrature, e riaprirà solo la mattina seguente alle sei e mezza. L’interno è molto ben illuminato, con numerose panche di legno vermiglie, che stranamente sono divise dal bracciolo sulla due terzi, invece che a metà. Attorno alle panche ci sono delle verdissime piante ornamentali che fanno la loro bella figura, e alcuni tabelloni che indicano solo un paio d'autobus, per giunta in arrivo e non in partenza. Intuendo che sarà difficile trovare un autobus notturno che ci possa portare subito in Finlandia, comincio a preparare la panca per il pernottamento in stazione. Allestisco solo un posto, poiché uno di noi rimarrà sveglio a turno per fare la guardia: nonostante vi sia la stazione della polizia dall'altra parte della strada, è meglio essere prudenti. Stendo asciugamani, giacche, vestiti inutilizzati e qualsiasi cosa che possa rendere più morbida la panca, ma con scarsi risultati: è scomodissima e troppo stretta. Per giunta, sono tutte conformate in questo modo, dunque è inutile provarne un’altra. Mi sdraio cercando una posizione comoda, e quasi la trovo, finché un paio di sbandati passano davanti alla stazione a bordo di un rumorosissimo motorino, urlando come ossessi. Dopo pochi secondi spariscono lungo una strada secondaria, ma hanno fatto in tempo a svegliarmi mentre quasi mi stavo addormentando. Ora ho perso il sonno, ma in compenso sta arrivando il primo autobus. Davide corre subito a chiedere informazioni all’autista, che però non dispone di tutti gli orari degli autobus internazionali, e ci

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invita ad aspettare il mezzo successivo. Così attendiamo altri venti minuti, meditando nel frattempo sulle possibili soluzioni per dormire, ma non trovando nessuna opzione soddisfacente. A quest'ora le chiese sono tutte chiuse, la stazione è inaccessibile e protetta da efficienti sistemi d'allarme, non ci sono bagni pubblici aperti. La temperatura non è nemmeno troppo bassa, perciò pensiamo di poter resistere tranquillamente per una notte all’aperto. In fondo, che sarà mai di così terribile? Il secondo ed ultimo autista arriva col suo mezzo e ci informa che per questa notte siamo a piedi: fino a domani mattina non ci sono autobus per Haparanda. Ci consiglia un piccolo hotel nelle vicinanze, ma è chiuso e si può aprire solo con un codice numerico, che logicamente non conosciamo. Decidiamo dunque di terminare le ricerche e di dormire fuori. Delusi dalle scomode panchine, scegliamo come giaciglio notturno la collinetta erbosa che domina la piazza della stazione. È decisamente più comoda, anche se molto più umida. Il freddo inizia ad aumentare, perciò ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo a disposizione, incluso il kee-way. Due asciugamani, stesi sull'erba fradicia di condensa, fungono da materassi vagamente isolanti. Tocca a me tentare di dormire per primo. Circondo la zona della testa con gli zaini, così da isolarla il più possibile dal vento, e infilo i piedi in un sacchetto di plastica per ridurre al minimo la dispersione del calore. Tuttavia, di dormire non se ne parla proprio. Il poco sonno residuo ora mi è passato completamente, e sono nella fase in cui darei qualsiasi cosa per scivolare nel sonno, ma il corpo non collabora. Capisco che di questo passo non riuscirò mai a dormire, così cedo il mio posto a Davide e vado a farmi un giro nella vicina pista ciclabile. Dalla posizione sopraelevata è ben visibile il riscaldato ed illuminato ambiente della stazione, terribilmente invitante eppur inaccessibile. Solo per un attimo una persona si avvicina alle pesanti porte a vetri: è un addetto alla vigilanza. Dopo aver controllato che gli allarmi siano in funzione, sparisce nel nulla. Anche un paio di tassisti rimangono in zona per qualche minuto, nella loro macchina riscaldata, poi ricevono una telefonata e ripartono, senza più tornare. La fioca e rossastra luce del sole si intravede sopra un enorme centro commerciale, come un'alba dormiente che non si risveglia mai. Un momento intenso: nonostante la situazione sia disagevole, mentre osservo nuovamente quei ben conosciuti colori

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ciò passa in secondo piano. È la notte di San Lorenzo: sarebbe veramente un bel colpo riuscire a vedere una stella cadente, così rivolgo gli occhi al cielo. L’assenza di nubi lascia intravedere centinaia di stelle. Osservandole mi pare che si muovano, ma in realtà sono ingannato dal loro costante tremolio e dal freddo intenso, che altera le mie percezioni. Il mistero che racchiudono queste stelle così infinitamente lontane ed immense mi fa ancora una volta riflettere e rimango ad osservarle a lungo. Proprio mentre sto desistendo per la troppa immobilità e i dolori al collo, finalmente vedo una stella cadente! Velocissima, percorre circa metà cielo in meno di un secondo, per poi sparire in un lampo, così com'è apparsa. Il meteoroide si è completamente vaporizzato al contatto con l’atmosfera terrestre, lasciandomi un piccolo regalo che mi allieta per qualche secondo la difficile permanenza nella morsa del freddo.

Notte gelidaDopo le due di notte, i minuti sembrano ore. Ogni tanto controllo l'orologio, pensando che sia passato ormai parecchio tempo, quando in realtà le lancette si sono spostate avanti solo di una decina di minuti. Talvolta passano delle persone in bicicletta, proprio davanti alla nostra aiuola. Hanno meno della metà dei nostri vestiti, ma non appaiono per nulla sofferenti. Cosa ci facciano in giro in bicicletta, alle due di notte passate, non riesco veramente a spiegarmelo. Forse hanno una percezione del freddo simile a quella della piccola statua di bronzo che si regge tranquillamente in piedi in mezzo all’erba. A differenza della statua, io sono costretto a camminare avanti e indietro senza sosta, saltellando per non congelarmi i piedi, che stanno già perdendo un po’ di sensibilità. Tiro fino in cima la cerniera lampo della giacca, alitando nel colletto per tentare di riscaldarmi, ma ottengo solo di infradiciare la giacca di vapore acqueo. Davide si sveglia e ormai tocca a me cercare di dormire, anche perché non ne posso più di stare in piedi. Mi sdraio al suo posto, cercando di addormentarmi il prima possibile per sottrarre i miei sensi all'ambiente. Tutt’ad un tratto, mi accorgo di tremare come una foglia, così cerco di sistemarmi in modo da sentire meno freddo, e pian piano mi calmo riuscendo a prendere sonno.

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Forse dormo venti minuti. Alle tre e mezza sono di nuovo in piedi, con i sensi ottusi e il dubbio di non aver realmente dormito, ma solo “dormivegliato”. Tuttavia, ho qualche debole ricordo di aver sognato, quindi almeno un po’ ho dormito di sicuro. In questi venti minuti il freddo si è fatto insopportabile: stare fermi ora è impossibile. Guardo nuovamente il cielo in corrispondenza della decisa sfumatura rosata all'orizzonte, sperando di vedere il sole comparire, ma è un inganno. La luce non prelude all'alba, rimanendo sempre beffardamente uguale e solo accennata, senza riscaldare minimamente l'atmosfera. Iniziamo a vagare insieme senza meta, cercando di riscaldarci camminando. Il tempo si è enormemente dilatato e passa con una lentezza ancora più insostenibile di prima. Darei qualsiasi cosa per poter entrare in un ambiente caldo. Ci aggiriamo per le strade della città, cercando qualche locale aperto dove poterci rifugiare, ma non c'è niente di niente. Tutti i negozi sono perfettamente chiusi dai loro lucchetti. Alcuni hanno le luci interne di guardia ancora accese, altri sono completamente bui. Sulle mura d'alcune case ci sono dei bocchettoni che sputano aria: proviamo a scaldarci con quelli, ma l’aria è fredda e non ci è di nessun aiuto. I sei o sette strati di vestiti che portiamo addosso sembrano non riscaldarci affatto, è quasi come non averli. I minuti però passano, anche se lentamente. Noi non ce ne accorgiamo, ma lentamente arrivano le quattro, poi le quattro e un quarto, poi le quattro e tre quarti, finché fanno capolino i primi tenui accenni di una vera alba. Dopo ore passate a gelare, allo scoccare delle cinque siamo finalmente investiti dalla prima luce del sole. Mentre l’astro sale lentamente nel cielo, ricominciamo a scaldarci. Il sangue riprende a circolare nelle arterie periferiche con decrescente difficoltà, la mente si risveglia dall'ottundimento. Lentamente, i nostri corpi tornano in temperatura, immobili di fronte alla luce per assorbire tutto il calore possibile. Ci spostiamo solo per essere investiti meglio dai raggi, quando le fronde degli alberi li attenuano. Ora non serve più la camminata forzata per non fare la fine dello stoccafisso, che giace ancora intonso nella tasca inferiore del mio zaino. Dopo non molto, però, alcune perfide nuvole nerastre mandate da un diavoletto dispettoso oscurano completamente il sole, riportandoci in un attimo al gelo. Dopo pochissimi secondi, ricominciamo ad avere freddo esattamente come prima. Ritorniamo quindi a camminare

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per le vie della cittadina, maledicendo le nubi. Quando vediamo i vetri delle automobili completamente coperti di ghiaccio, capiamo che stanotte deve aver fatto proprio un bel freddo! Con una lentezza davvero esasperante, arrivano le sei di mattina. Ancora mezz’ora e potremo finalmente entrare nella stazione, per rimetterci un po’ in sesto e successivamente prendere il nostro autobus, che arriverà dopo altre due ore. Il sole improvvisamente rifà capolino, illuminando un tratto di strada verso il quale ci spostiamo nel tempo di un battito di ciglia. I minuti passano ora un po’ più in fretta. Finalmente una donna, vestita solo con una giacchetta leggera, si avvicina ad un’entrata secondaria del negozietto di dolciumi annesso alla stazione. Deve per forza essere la commessa che prepara il negozio per aprirlo. È enorme il sollievo quando, dopo aver armeggiato un po’ all'interno ed aver acceso qualche luce in più, la vediamo uscire dalla porta d'ingresso per sistemare i quotidiani nuovi sui supporti, muovendosi in fretta per non subire il freddo che ci tormenta da ieri sera. Appena possiamo, spingiamo finalmente quella porta ed entriamo. Siamo i primi, intirizziti clienti della giornata, con lo stomaco vuoto da troppe ore. Ora che siamo al caldo, anch’esso ha iniziato a lamentarsi. Ci dirigiamo immediatamente verso la macchinetta del caffè, preparandoci una colazione megagalattica. Ci prepariamo due enormi cappuccini bollenti, con l’immancabile croissant di contorno, e completiamo la mangiata con innumerevoli biscotti, prelevati direttamente dagli zaini. Il liquido caldissimo scende giù nello stomaco, bruciando piacevolmente al suo passaggio nell’esofago, e poco alla volta ci rimettiamo in sesto. L'indaffarata ma gentile commessa continua a sistemare il negozio, indifferente alle nostre vicende. Di sicuro non ha la minima idea della notte che abbiamo appena passato. Ci sediamo infine sulle panche che abbiamo visto per tutta la notte da dietro i vetri, finalmente accessibili. Stravaccati sul legno rosso, nel caldo ambiente della piccola stazione, il gelo è ormai un ricordo lontano.

MalessereMi sto quasi addormentando sulla strana panca. Sono ormai entrato in un dormiveglia profondissimo, e se mi dicessero qualcosa sentirei le parole, ma probabilmente non intenderei niente. È quello stato di

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trance in cui i pensieri e le immagini mentali si fondono con la realtà, nel quale ci si trova ad immaginare ed abbinare cose e situazioni assurde, senza alcuna logica. Non è piacevole, preferirei un buon sonno invece che questo stato di ottundimento che non dà riposo. Ci pensa però Davide a riscuotermi, quando è il momento di prendere l'autobus. Alle otto e venti arriva finalmente questo mezzo che ci porterà a Haparanda, al limite del confine svedese. Da lì entreremo in Finlandia, nella cittadina dal buffo nome di Tornio. Molto svogliatamente, abbandono il mio giaciglio e usciamo di nuovo alla fredda aria di Luleå. Fuori non fa certamente caldo, ma la temperatura è decisamente più sopportabile di quella di stanotte. Viene a prelevarci un autobus a due piani, tardando però a posizionarsi correttamente nella sua fermata. In questo momento odio profondamente l'autista che se la sta prendendo comoda con le manovre, poiché il mio intestino sta malissimo dopo tutto il freddo che ho preso, e ho assolutamente bisogno di un gabinetto. Prego con tutte le mie forze che su quell’autobus ce ne sia uno. Vivo degli attimi d'autentico terrore quando salgo e non lo trovo subito, ma cercando meglio fortunatamente appare, dietro una porta a vetri dall’apertura automatica. Sistemo frettolosamente le mie cose sul sedile e mi ci reco all'istante, trovandolo libero. Lassù qualcuno mi ama: in vita mia avrò visto forse uno o due autobus con bagno incorporato, e questo è un vero colpo di fortuna. Nelle due ore di strada che ci separano da Tornio, visito il piccolo stanzino ben cinque volte, battendo sempre la testa contro le bassissime porte degli scompartimenti, a causa della troppa fretta. Come se non bastasse, la luce nel gabinetto continua a spegnersi per un malfunzionamento della fotocellula, e ogni tanto devo anche preoccuparmi di ondeggiare un po’, per ricordare alla gentile scatola di latta che sono ancora dentro e mi serve luce. In ogni caso non è solo il mio intestino a soffrire, poiché non mi sento per niente bene in generale. Mi è salita una lieve febbricola e ho i brividi. Mi schianterei volentieri a letto a dormire, e invece mi tocca cambiare due autobus, per poi prendere immediatamente un treno che arriverà a destinazione solo in tarda serata. Non avendo vie di uscita, cerco di riprendermi il più possibile. Non posso concedermi il lusso di stare male. Il mio impegno ha successo: evitando di addormentarmi e tenendomi sveglio mentalmente, all'arrivo a Haparanda sto quasi

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bene. Anche stavolta ho vinto io contro il freddo e le piccole avversità del cammino.

FinlandiaIl confine tra le due nazioni ci è stato descritto come un ponte in mezzo al quale passa esattamente la linea divisoria, dunque ci aspettiamo una degna e trionfale segnalazione. Niente di tutto questo. Entriamo a Tornio senza nemmeno accorgercene. Il ponte è un’anonima ed insignificante striscia di pietra, senza uno straccio di indicazione. Forse siamo troppo stanchi per vederla. Ma anche senza le segnalazioni, ce l’abbiamo fatta a raggiungere la Finlandia. I nostri euro, a lungo nascosti nella parte più remota del portafogli, hanno finalmente riacquistato valore. Il bus per Kemi parte tra pochi minuti e dobbiamo sbrigarci a prenderlo: come di consueto, lo raggiungiamo all'ultimo secondo. Un altro colpo di fortuna sfacciata. Sembra che le cose abbiano ripreso a girare per il verso giusto. Sull’automezzo vediamo subito persone di fattura diversa da com'eravamo abituati a vedere solo qualche ora prima: i finlandesi, così bianchi di pelle e platinati di capelli, sono inconfondibili. Anche la loro lingua è un idioma a sé, non così influenzato dall’inglese come lo sono il norvegese e lo svedese. L'autista cambia i soldi ai viaggiatori usando una macchinetta ingegnosa: basta schiacciare dei pulsanti, ognuno abbinato ad un differente calibro, per trovarsi direttamente in mano le monete del giusto valore. Tutte piccole migliorie che aiutano a semplificare la vita. Il viaggio per Kemi dura solo un'ora, ma non mancano le sorprese. Ci accorgiamo presto che la guida in Finlandia segue regole diverse dalle nostre. In pratica non esistono gli incroci con lo stop, e chi arriva da destra ha sempre e comunque la precedenza, anche se proviene da una strada secondaria. Per un turista automunito, senza un’adeguata preparazione, gli incidenti sono quasi assicurati. Fortunatamente, viaggiando in treno non si hanno problemi di questo genere. Le rotaie sono molto meno interpretabili e più sicure rispetto alle strisce d’asfalto. Kemi è solo una breve tappa di passaggio, necessaria per arrivare a Kuopio, nel cuore della Finlandia. Tutto ciò che facciamo qui è camminare per chilometri prima di trovare un supermercato in cui

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rifornirci di cibarie. Ci sono negozi di ogni tipo in tutta la città, ma stranamente gli alimentari scarseggiano. I finlandesi non mangiano? Scovato all’ultimo un supermercato, ci riforniamo e saliamo sul treno per Kuopio. Finalmente ci possiamo rilassare, avendo davanti una sferragliata di diverse ore senza soste né cambi.

ForesteIl paesaggio finlandese è quanto di più monotono mi sia capitato di vedere in vita mia. Foreste di abeti rossi e betulle, e null'altro. Le distese di alberi sono così sterminate da sembrare infinite. Per ore e ore mai un cambiamento. Il legname di questi alberi è adatto per produrre fogli di carta e per costruire mobili e abitazioni, ma la coltura intensiva dei medesimi rappresenta un pericolo per l'ambiente: coltivare sempre e solo una o due specie d'alberi porta a sconvolgimenti dell'ecosistema, che ha bisogno di biodiversità per garantirsi la sopravvivenza. Le industrie cartiere finlandesi inquinano i fiumi e i 188.000 laghi della nazione, rendendoli tra i più sporchi dell'intera Europa nonostante la loro apparente purezza. Forniscono pur sempre lavoro ad un’enorme parte della popolazione finlandese, e non potrebbe essere altrimenti, dato che i tre quarti della Finlandia sono coperti da boschi. La situazione crea un dilemma: come fare per continuare a produrre e sostentare adeguatamente gli abitanti, ma senza danneggiare l’ambiente? Per ora, della questione ambientale vediamo solo il risvolto paesaggistico, cioè un tedio unico. Una noia strana, a metà tra l’ammirato e l’apatico. Vedere i boschi finlandesi potrebbe far sorgere qualche dubbio sull’effettiva entità della deforestazione mondiale. Solo rarissimamente le foreste si aprono per lasciare spazio a qualche pianura, oppure a quattro timorose case raggruppate assieme per non farsi inghiottire dalla selva, oppure ad un'industria di legname o una cartiera. Cosa succederebbe se il treno si guastasse in mezzo a queste sconfinate distese di niente? Sicuramente i soccorsi sarebbero ben organizzati, ma non sarebbe comunque una bella cosa.In qualche modo passa anche quest’estenuante viaggio e giungiamo alla stazione di Kuopio. È di nuovo il momento di drizzare le antenne e darci da fare per trovare l'ostello, situato in cima ad una collina raggiungibile solo a piedi. Abbiamo davanti due chilometri di

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salita, di cui uno e mezzo decisamente ripido, che sembra non finire mai. Per di più, una densa nebbia rende impossibile capire quanta strada ci rimanga effettivamente da percorrere. Gli zaini pesanti ci costringono a fermarci spesso, per riportare i battiti del nostro cuore alla normalità e lasciar smaltire l'acido lattico agli affaticati muscoli delle gambe. Ogni volta che pensiamo che la curva che abbiamo davanti sia l'ultima, scopriamo che c'è ancora un po’ di strada da fare. Non pensavo davvero che due chilometri potessero essere così lunghi! Oltretutto, la reception presto chiuderà e non possiamo prendercela tanto comoda, o rischiamo di rimanere fuori! Pezzati di sudore da capo a piedi, con la gola riarsa, finalmente arriviamo in cima, circa venti minuti prima dell’orario di chiusura. Riceviamo le chiavi ed immediatamente puntiamo verso la camera, ma la dannata porta non si apre. La chiave si incastra nella toppa, non gira. Ormai siamo ad un passo dalla salvezza, ma dobbiamo nostro malgrado tornare indietro a chiedere un passepartout per entrare. L’idea ci riempie di indolenza, ma sembra che non ci sia alternativa: la porta non ne vuole proprio sapere di aprirsi. Con un gesto di rabbia, giro la chiave più violentemente, e come per magia la serratura finalmente scatta e la porta si apre, permettendoci di posare a terra i maledetti zaini. Sorpresa: la camera è una doppia, con tanto di bagno e doccia incorporati. Una bella lavata è proprio quello che ci vuole per far scivolare via la stanchezza e il sudore, che ormai non sopportiamo più. Dopo la doccia ci sentiamo meravigliosamente bene e mangiamo con notevole appetito le vivande procurateci al supermercato, facendo il bis più volte. Non c’è più traccia del malessere di stamattina. L’inaugurazione della scatoletta di tonno, priva d'apertura a strappo, è tragicomica. Il coltello non riesce a penetrare il metallo, e non ci riesce nemmeno la lama del coltellino svizzero. Il tonno ormai ci dà la nausea, ma se vogliamo stare in piedi dobbiamo mangiarlo. Non sappiamo più come fare per aprire la scatola, ma infine ci riusciamo grazie alle forbicine per le unghie (lavate prima!). Dopo aver riempito gli stomaci, ci addormentiamo quasi subito, senza nemmeno aspettare la canonica mezz’ora per la digestione. Domani ci aspetta Jätkänkämppä, la sauna più grande del mondo. Dove poteva essere, se non in Finlandia, patria che ha dato i natali a

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questa pratica? La cosa divertente è che potremo visitarla grazie all’ennesima coincidenza fortunata: la sauna è aperta solo due giorni alla settimana, martedì e venerdì. Casualmente, domani sarà proprio martedì. Non avendo programmato assolutamente niente, direi che è un ottimo risultato.

KuopioUn’ottima dormita ci rigenera nel corpo e nello spirito. La colazione a buffet è inclusa nel prezzo, perciò ci alziamo di buon'ora per approfittarne, prima che il grosso delle vivande venga saccheggiato impunemente dagli altri affamati clienti. C'è veramente di tutto: approfittiamo in modo indegno, mangiando da scoppiare. Finalmente una colazione decente e sostanziosa, dopo giorni a mangiare schifezze. Usciamo con la pancia piena e il sorriso stampato sul volto, prepariamo velocemente i nostri pratici zainetti per uscire e saliamo sulla grossa torre panoramica, situata a poche decine di metri dall'ostello. Ieri sera nemmeno l’abbiamo vista, tanto era nascosta dalla fitta nebbia. La vista dalla cima è ottima: i famosi laghi finlandesi appaiono ora nell'insieme, tutti vicini gli uni agli altri, con qualche sperduta conifera che cresce negli isolotti al centro di alcuni di essi. Nella zona di Kuopio i laghi sono molto numerosi. In tanti hanno descritto la vista che si ha dalla torre come la migliore possibile per avere un quadro d'insieme della Finlandia. Foreste e laghi, che d’inverno si trasformano in uniformi distese di neve e ghiaccio. E non dimentichiamo che c’è una sauna ogni otto abitanti. La sauna apre alle cinque di pomeriggio, perciò visitiamo prima il centro di Kuopio, molto animato. La piazza del mercato centrale è un fermento di bancarelle che vendono di tutto, dai ribes alle magliette, fino alle coloratissime matrioske. Il mercato coperto, chiamato Kauppahalli, è ancora più ricco di prodotti, specialmente culinari. Sono irresistibilmente attratto da una barretta di cioccolato al mirtillo, divorata subito in un impeto di curiosità: è squisita! Ovunque abbondano i negozi e i distributori automatici di caffè, la bevanda preferita dai finlandesi: con un consumo medio di quattordici chilogrammi annuali, pari a circa nove tazze giornaliere, si collocano come i primi estimatori al mondo di questa bevanda. Sono molto divertenti le tradizioni nordiche: quando si viene

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invitati a casa di qualcuno in Finlandia, il caffè va rifiutato per tre volte, poi alla quarta offerta si dice “Va bene, solo mezza tazza”, e poi si finisce con il berne cinque o sei. Dopo il mercato, cerchiamo un posto dove riposarci e troviamo un parco che contiene al suo interno un inquietante cimitero militare. Ogni lastra di pietra levigata reca incisi nomi e cognomi degli sventurati, ma c’è anche qualche tomba anonima. Ognuna ha il suo mazzo di vistosi fiori rossi, a perenne ricordo di una morte assurda ed insensata. Un cimitero militare è la lampante dimostrazione che qualcosa in questo mondo è davvero malato. Quando siamo stanchi di osservare il triste monumento e di farci assalire dalle vespe che hanno ricominciato a tormentarci, coadiuvate da fastidiosissimi moschini, ci dirigiamo verso la sauna.

JätkänkämppäL'autobus ci abbandona davanti ad un sentiero sterrato, che si inoltra nel bosco proprio di fianco ad un lago. Siamo molto curiosi di scoprire quant’è grande la sauna “più grande del mondo”. Per me è una cosa completamente nuova, sono un “esordiente totale”, e provarla per la prima volta proprio qui è un'idea elettrizzante. Le temperature che si trovano in questi forni di calore variano dagli ottanta fino a quasi cento gradi. In questo caso si tratta di calore secco: questa, infatti, è una savu-sauna, letteralmente “sauna di fumo”. La camera rovente viene scaldata ventiquattr’ore prima dell'uso, tempo necessario per raggiungere la temperatura giusta, mentre il calore è prodotto dalla combustione della legna e non dal vapore acqueo. Nelle saune a vapore tradizionali, esso si forma gettando acqua sulle pietre roventi. Gli esperti, tuttavia, assicurano che la sauna più “potente” è proprio quella secca. Dopo una serie di bivi, in mezzo a foreste popolate da libellule e altri insetti enormi, appare questa costruzione di legno, delle dimensioni di un cottage estivo medio. È immediatamente adiacente al lago, e permette dei veloci tuffi ai temerari che volessero provarli. I finlandesi si buttano in acqua anche in inverno, rompendo il ghiaccio che si forma sulla superficie del lago, per non perdersi nemmeno una possibilità di dare un po’ di salutare shock termico al loro corpo. La sauna è l'elemento caratterizzante la cultura finlandese, ed è usata per curare o alleviare i sintomi di qualsiasi

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malattia o malessere, dalla più banale alla più grave. Vicino al cottage c’è un ristorante che serve cibo solo in corrispondenza dell'apertura della sauna, e poco distante fa la sua bella figura la capanna dei taglialegna. Periodicamente, essi danno una dimostrazione della loro abilità, sfasciando tronchi con maestria, come sanno fare i popoli che vivono di legname dai loro albori. L'atmosfera lacustre è peculiare: i giunchi che spuntano ovunque dall'acqua ondeggiano leggermente con il vento, e l’umidità richiama molti moschini, che però stranamente non sono molto aggressivi. Qualche tronco è immerso per metà nell’acqua, abbandonato a marcire: forse non è legno buono da lavorare. Alcuni rimasugli di legname stanno bruciando proprio di fronte all'acqua, producendo grandi sbuffi di fumo che il vento spinge nella nostra direzione, facendoci tossire a più non posso. Siamo costretti a ripararci dietro gli edifici finché il fuoco non sarà spento completamente. Le passerelle di legname in mezzo ai boschetti portano ad alcuni piccoli rifugi e capannine, nei quali certamente non si può abitare, ma che come al solito destano un’attenzione particolare per i loro ambienti rustici e antichi.La capacità teorica del locale sauna è di sessanta posti, che possono arrivare anche a centotrenta se si includono i posti in piedi. La gente inizia ad arrivare a frotte ed è meglio spicciarci ad entrare, prima di rimanere in piedi. Il gentilissimo e sorridente gestore, dagli enormi occhi azzurri, ci ricorda che possiamo usare la carta studenti, casomai ne avessimo una, per ottenere uno sconto sul biglietto. Onesto da parte sua: avrebbe potuto tranquillamente tacere e incassare di più. Dopo aver depositato gli zainetti, entriamo in una stanza dove diversi uomini nudi o quasi si stanno asciugando e rivestendo senza fretta. Inizialmente credo che quella stanza sia già la sauna, sentendo un gran calore umidiccio, ma qualcosa mi dice che mi sbaglio. Rimaniamo in costume, anche se i finlandesi non ne vedono di buon occhio l'utilizzo, poiché il calore intenso potrebbe degradarlo liberando molecole tossiche, oltre ad impedire ai tessuti sottostanti di traspirare normalmente. Nel dubbio, chiediamo espressamente al gestore se si possa tenere il costume addosso, e ci risponde affermativamente, quindi non ci facciamo più troppe domande. Una volta pronti e muniti di due asciugamani, entriamo in un locale un po’ più caldo, con numerose docce a muro. Nemmeno questa è la sauna! Vedo una porta sul lato aprirsi, e

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qualcuno entrarvi coperto solo da un asciugamano legato attorno alla vita. La camera del calore dev’essere per forza quella. Non ho idea di cosa mi stia aspettando in quella fornace, perciò entro con decisione. Non appena mi rendo conto della temperatura interna, rimango scioccato. L'ambiente è incandescente, quasi insopportabile: il muro di calore mi investe in pieno e sento quasi subito i battiti del cuore accelerare convulsamente. Anche il mio compare non se la passa molto meglio. Ci sediamo su una delle panche di legno, muovendoci lentamente per non peggiorare le cose. Evitiamo accuratamente le zone sopraelevate, ricordandoci che il calore tende a salire verso l'alto. Dopo nemmeno una ventina di secondi, sento già la pelle, che fino ad un attimo fa era asciutta, riempirsi di sudore ovunque: nei capelli, tra le dita, sulla pancia, sui polpacci. Una sudata generalizzata. È una sensazione mai provata prima e credo di sentirmi male, ma è solo l'emozione. In men che non si dica, stiamo tutti e due letteralmente nuotando nel nostro sudore. Respiriamo mano a mano sempre più normalmente, grazie alla natura secca del calore, che non opprime i polmoni. Le dimensioni della stanza non superano i cinque metri di lato per due metri abbondanti d'altezza: alla faccia della grandezza! Ma non c’è trucco: le saune che si trovano nelle case private sono grandi più o meno come un’utilitaria. I finlandesi usano i mestoli per prelevare l'acqua bollente da alcune ciotole metalliche, e poi la lanciano sul braciere, producendo getti di vapore. Nonostante la sauna sia secca, il lancio dell’acqua c’è lo stesso. Dopo nemmeno cinque minuti, la temperatura e le condizioni della nostra pelle diventano insopportabili: dobbiamo uscire da quest’altoforno che ci sta consumando. Traballando sulle gambe, varchiamo la porta dalla camera infuocata, e appena fuori dalla porta il sollievo è quasi immediato. Tuttavia, non osiamo fare subito il tuffo nel lago, preferendo come prima volta una "semplice" doccia gelata. In qualsiasi altro momento, una cascata d'acqua fredda ci bloccherebbe il respiro istantaneamente, ma adesso è alquanto rigenerante: il getto d’acqua, sulla pelle caldissima, sembra quasi tiepido. Dopo un paio di minuti di doccia, gradualmente spostata su temperature più canoniche, rientriamo nella camera ardente (si fa per dire). L’esperienza è assolutamente da rifare! Il ritorno nel

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braciere è meno traumatico adesso che la nostra pelle è più umida, poiché è l'acqua che ci è rimasta addosso a evaporare per prima, tenendoci un po’ più freschi. Rimaniamo dentro un’altra decina di minuti, non più con la lingua impastata dallo shock termico e dall'arsura. Ora riusciamo a conversare quasi normalmente, anche se non c'è molto da dire. Preferiamo concentrarci sulle sensazioni fisiche. Questa volta però dobbiamo assolutamente provare a tuffarci nel lago. Appena usciti, puntiamo subito verso la passerella di legno. Avvertendo a malapena il vento, camminiamo velocemente verso il molo. Davide si tuffa a peso morto, con una spanciata solenne. Il tempo di rendersi conto della temperatura dell’acqua, e subito strabuzza gli occhi, terrorizzato, uscendo il più velocemente possibile. L’acqua deve essere proprio fredda! Ora tocca a me. Non sapendo nuotare, mi tocca immergermi gradualmente, scendendo i gradini al limite del ponticello. Arrivo con l’acqua alla gola, ed è un altro shock. Nonostante tutto il calore assorbito, l’acqua è freddissima. Mai e poi mai mi sarei buttato nel lago così, prima di entrare nella sauna! Uscendo dall'acqua ci copriamo lo stomaco con l'asciugamano, per evitare una congestione, e ricominciamo da capo. L’ebbrezza della sauna ci ha preso, e rifacciamo l’intero ciclo altre cinque volte. È come una droga, invita a farne sempre di più. Dopo un certo tempo, tuttavia, avvertiamo un po’ di stanchezza per via di tutto questo strapazzamento. I polpastrelli delle dita si sono raggrinziti, completamente macerati nell'acqua e nel sudore. Decidiamo quindi che ne abbiamo abbastanza e ci facciamo un'ultima doccia ripulitrice prima di andarcene. Dieci minuti dopo, siamo di nuovo vestiti e privi di qualsiasi stanchezza o malessere fisico. I benefici della sauna sono davvero consistenti, ci si sente rinnovati. Per coronare al meglio la giornata, ci concediamo un bel boccale di birra, comodamente seduti sulle panchine esterne. Guardando la gente in costume che si tuffa nel lago, senza essere più parte di loro, ci torna in mente quello che pensavamo fino ad un’ora prima: sono pazzi ad andare in giro nudi con questo freddo! Lasciamo il luogo dopo aver assistito alla divertente performance di un pescatore, che arriva e svuota rumorosamente degli interi torrenti d'acqua dai suoi stivali, tra le risate generali.

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Verso HelsinkiSono io il primo ad alzarsi dal letto stamattina, anticipando di soli due minuti il suono della sveglia. Ormai ho sviluppato una sorta di orologio biologico tarato sulle frequenze del viaggio, che mi fa spesso ridestare all'ora giusta senza quasi bisogno di puntare alcuna sveglia. Ci concediamo una velocissima colazione, ancora una volta gratuita, poi riprendiamo sulle spalle gli zaini, sempre più carichi di biglietti timbrati e scontrini dei negozi, accuratamente conservati per non perdere nemmeno un pezzettino di ricordi. Scendiamo per l'ultima volta dalla collina, con il peso degli zaini che involontariamente ci fa accelerare sempre di più l’andatura, costringendoci a rallentare volontariamente per non sfracellarci gli alluci dentro le scarpe. Sono fermamente intenzionato a tentare l'autostop con la prima automobile di passaggio, ma transitano solo poche automobili e tutte vanno in direzione contraria, così ci tocca anche stavolta percorrere tutta la strada a piedi. Sul treno ci toccano i posti adiacenti all'area attrezzata per i bambini, dai piccoli ai piccolissimi. Risultato: cinque ore di viaggio tra urla, risatine, pianti inconsolabili, versi e sbrodolii, madri disperate che non sanno più come far stare zitti i loro pargoli, e ovviamente noi due che dobbiamo sopportare tutto. Non scendiamo direttamente alla stazione centrale di Helsinki, bensì alla fermata precedente: il nostro albergo, un po’ fuori zona, si trova proprio in corrispondenza della penultima sosta. Nella stazione in cui arriviamo ci sono indicazioni per ogni luogo, meno che per dove dobbiamo andare noi, e come se non bastasse i bigliettai affermano (in inglese) di non sapere l’inglese. Dopo qualche insistenza, otteniamo almeno un qualche genere di indicazione per l’albergo. Ci incamminiamo in quella direzione, finendo in uno strano quartiere, composto da sopraelevazioni di cemento intervallate a sprazzi di verde. Dopo un po’ di peregrinazioni, giungiamo al nostro mastodontico residence, situato in una zona decisamente periferica ma non per questo degradata. L’albergo è un’oasi nel deserto, se confrontato agli ostelli in cui siamo abituati ad alloggiare: lussuoso, pulitissimo, decorato in ogni modo possibile. E dire che è il più economico della zona. Veniamo trattati con gentilezza estrema dalla bionda receptionist, che ci illustra ogni singolo dettaglio di funzionamento dell’hotel.

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La nostra camera, all'ottavo piano, è stratosferica. Tanto per dare un’idea, è munita di comodità esagerate come lo stirapantaloni (!), un intero servizio di bicchieri, frigobar, ferro e asse da stiro, una presa allungabile per il modem, asciugacapelli, luci che si accendono e si spengono automaticamente inserendo la carta magnetica nella fessura, e dulcis in fundo un televisore che visualizza il messaggio di benvenuto "Welcome, Dear Mr Davide". Noi volevamo solamente un posto a buon mercato dove dormire, ma se per una volta possiamo godere di qualche comodità in più, tanto meglio. Non ci offendiamo.

HelsinkiLa capitale della Finlandia è una città famosa per le sue molteplici influenze culturali e la sua variegatezza. Qui si parlano indifferentemente due lingue ufficiali, il finlandese e lo svedese, e si notano chiaramente anche le influenze russe, data la vicinanza col territorio sovietico e la lunga storia di conflitti e collaborazioni che accomuna le due nazioni. Per le strade c’è gente di ogni nazionalità ed appaiono edifici di ogni tipo di architettura. Il sistema di trasporti pubblici e di regolamentazione del traffico è ottimo. Helsinki è l'unica città finlandese dotata di metropolitane e tram. La nostra prima tappa è il Kauppatori, vale a dire il mercato del pesce all’aperto. Passiamo davanti alle sue bancarelle arancione, ma senza fermarci. Lo visiteremo bene in seguito: ora è meglio cercare il Duomo di Helsinki, prima che chiuda. Si trova in piazza del Senato ed è accoppiato alla statua equestre di Alessandro II di Russia, che si staglia fieramente in mezzo alla piazza. La chiesa è sopraelevata e domina tutta la città con l’interminabile scalinata, l'enorme cupola centrale e le pareti bianchissime sia all'esterno che all'interno, così perfettamente levigate e candide da sembrare di ghiaccio. È la prima chiesa totalmente priva di affreschi che vedo. La zona è invasa dai visitatori, italiani in primis, perciò ci spostiamo presto in un'altra area più tranquilla per ammirare una vera e propria meraviglia d'architettura e gusto artistico: l'Uspenskin Katedraali, chiesa ortodossa dall'inconfondibile stile russo. Ha le murate rossastre e le classicissime cupole d'oro a cipolla. Due di esse sono appena state restaurate e brillano molto più delle altre. È magnifica all'esterno, ma soprattutto all'interno: riusciamo ad entrare per

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miracolo, giusto un minuto prima della chiusura. Abbiamo fatto bene a sbrigarci subito. Ammiriamo tutti i quadri che tappezzano la parete, anch'essi riccamente decorati e dorati, e finiamo con uno sguardo fugace rivolto all'altissima cupola, in parte coperta da uno sfarzosissimo lampadario dalle mille candele. Riprendendo a girare per le vie del centro, mi viene l'idea di comprarci qualcosa d'alcolico, per festeggiare degnamente almeno una serata. L'idea è subito accolta, ma dobbiamo stare attenti a come fare. Anche in Finlandia, infatti, gli alcolici non sono ben visti dalle autorità statali e si vendono solo in appositi negozi, nonostante ciò non riduca di molto il problema dell’alcolismo. Veniamo a conoscenza di un negozio d'alcolici non molto lontano da dove ci troviamo, e lo puntiamo speditamente. L'età necessaria l’abbiamo superata, dunque non ci sono problemi. Nel negozio sono probabilmente presenti tutti i tipi d'alcolici esistenti al mondo. I vini provengono da ogni angolo del pianeta, e ovviamente i vini italiani rappresentano una fetta consistente del totale. Individuo quasi subito una solitaria bottiglia di vermouth rosso a buon mercato, appoggiata su un angolino di uno scaffale e coperta da un velo di polvere, come a testimoniare il tempo che ha passato lì senza che nessuno la prendesse in considerazione. Insisto per comprarla, snobbando il blasonato ma costosissimo Martini, che campeggia in bella vista poco più sopra, perfettamente pulito. La scelta è compiuta: l’impolverato ma onesto vermouth sarà il nostro festeggiamento della serata.Sotto la pioggia che inizia a cadere leggera, arriviamo ad un'imponente chiesa di stampo tedesco, purtroppo chiusa. E' un vizio dei nordici quello di aprire le chiese solo per pochissime ore al giorno. Un po’ scornati, proseguiamo e arriviamo ad un'altra chiesa, stavolta dedicata a San Giovanni: ricorda un po’ Notre Dame di Parigi per le sue due torri identiche sulla parte frontale, anche se queste sono molto più alte di quelle della cugina francese. Ma non è finita: c’è un'altra chiesetta luterana dall'altra parte della città, con la particolarità di essere completamente incastonata nella roccia. Dopo una lunghissima camminata per raggiungerla, fortunatamente la troviamo ancora aperta. La roccia forma un cerchio tutto attorno alle panche e all'altare, e il consueto organo è incastrato in un'altura sulla sinistra. Il tetto ramato è sostenuto da fitti piloni d'acciaio

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lungo tutta la circonferenza, con un sorprendente effetto di contrasto tra l'antico e il moderno. Il sacerdote, con il suo lungo abito talare verde, sta celebrando messa ad un discreto numero di persone. Ascoltiamo per un po’ il prete finlandese mentre declama i passi del Vangelo nella sua lingua così incomprensibile, poi ritorniamo sui nostri passi fino all’albergo. Dopo tanti monumenti sacri, escogitiamo ogni sistema possibile per rendere speciale la profana serata in albergo. In un lampo di genio cerchiamo di connettere il lettore Mp3 alla televisione, sperando nella loro compatibilità, ma purtroppo le prese non combaciano. Ripieghiamo mettendo gli auricolari a volume massimo ed incollandoli con lo scotch agli angoli della televisione, rivolti verso di noi e verso l'alto. Apriamo la bottiglia soddisfatti, vuotandola lentamente bicchierino dopo bicchierino, in allegria. Dopo numerosi bis, non mancano le scene divertenti: ad un certo punto Davide fa una capriola sul letto e io gli intimo di smetterla di fare quei "trabaglioni", parola completamente senza senso. Ancora oggi non so assolutamente cosa avessi voluto dire. Un’altra cosa esilarante è il mio tentativo di versare altro vermouth nel bicchiere, inclinando sempre di più la bottiglia fino quasi a metterla in verticale, col vino che non ne vuole sapere di uscire. Solo dopo parecchi secondi, mi accorgo che non ho tolto il tappo. Dopo qualche discorso inconcludente, ci addormentiamo entrambi, cotti dall’etanolo. Io crollo per primo, mentre Davide mi segue a ruota dopo pochi minuti, addormentandosi con la pancia scoperta. Alle quattro di mattina, la vescica troppo tesa lo costringe a svegliarsi e ad accorgersi non solo di aver preso freddo per ore, ma anche di aver lasciato tutte le luci accese.Un po’ rimbambiti ed assonnati, con la schiena indolenzita dai morbidissimi letti d'albergo, ritardiamo la colazione per riprenderci un po’ dagli effetti dell’alcool. Approfittiamo comunque di quanto ci viene offerto dal generoso buffet: ci sono perfino le uova e il bacon per qualche eventuale inglese in vacanza, cibarie che ovviamente rifuggiamo con tutte le nostre forze. Tornati a Helsinki con il solito treno, la prima attrazione della giornata è il museo d'arte moderna. Dentro non c'è granché: i soliti panni sporchi stesi e venduti come opere d'arte, forme bizzarre o quadri monocromatici, lattine di colore tremendamente arrugginite ed ammassate tutte assieme a simboleggiare non si sa cosa. Alcune opere sono però

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affascinanti e a volte inquietanti. Una su tutte, il video di un gruppo di bambini, probabilmente in qualche zona dell'Est europeo devastata dalla guerra, che prendono letteralmente a mazzate una vecchia automobile, trasformata in giocattolo da sfascio in mezzo alla strada. I genitori assistono a metà tra il divertito e l'indifferente, fino all'arrivo della polizia che mette fine al gioco. Decisamente più ricco ed interessante è il secondo museo, dedicato alla storia di Helsinki e della Finlandia in generale. Si va dalla preistoria fino ai giorni nostri: dai chopper scheggiati alle sfavillanti cotte di maglia medioevali, fino alle coloratissime e ormai dismesse markke finlandesi, la valuta abbandonata da qualche anno in favore dell'euro. Terminata la lunghissima visita, puntiamo il mercato del pesce che ieri abbiamo saltato. Affacciato direttamente sul Golfo di Finlandia, è il vero centro nevralgico della città. Nelle vicinanze si trovano quasi tutti gli attracchi per i battelli che visitano le isolette circostanti, molto numerose e ricche di interessanti attrazioni turistiche. Una pista ciclabile attraversa completamente il mercato, e nelle intersezioni ci sono i soliti piccoli semafori. C’è perfino un cartello di pericolo, che invita i ciclisti a stare attenti a non scontrarsi con altre biciclette. Nelle bancarelle si vende ogni tipo di cibaria e souvenir, tra cui gli ottimi kalakukko, squisiti panini di segale imbottiti di salmone e verdure miste, da servire caldi o freddi a seconda dei gusti del consumatore. Dopo aver consumato numerosi pranzi e cene in posti scalcagnati, ciò rappresenta un piacevole diversivo. Terminata la parentesi cibarie, ci prepariamo per la visita alla storica isola di Suomenlinna.

SottomarinoSuomenlinna è un arcipelago di sei isolette, protetto dall'Unesco ed inserito nei Patrimoni dell'umanità. Sull’isola principale c'è un vento freddo e un'aria di pioggia che si sta inesorabilmente preparando a cadere. Camminando lungo le strade ghiaiose e ciottolate, circondate da mura, si respira l'atmosfera delle guerre del Settecento, quando la Svezia, onde evitare di subire l'ondata dell'espansionismo russo, mise in mezzo la Finlandia a fare da scudo, fortificando l'isola. I bastioni sono ormai ricoperti in gran parte d’erba, che la ripara quasi completamente dagli sguardi

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provenienti dal cielo, rendendo la fortezza quasi indistinguibile dalla vegetazione. Al centro svetta fiera ed altissima la bandiera finlandese, come a simboleggiare l’eterna indipendenza rivendicata da questa piccola e coraggiosa nazione. L'attrazione più interessante è però il vecchio sottomarino, l'unico rimasto della flotta finlandese dai tempi della guerra. Esternamente è verniciato di rosso e bianco, ma i colori sono notevolmente sbiaditi dopo anni di servizio sott’acqua. Lo scafo è completamente emerso ed incastrato in modo apparentemente precario su alcuni scogli costieri, che reggono in pochi punti quasi tutto il peso. Con due euro ci guadagniamo l’entrata in questo claustrofobico relitto, che ai tempi scendeva chilometri sott’acqua, tra la paura dei marinai che potevano da un momento all’altro vedere quell’angusto barattolo di lamiera riempirsi d’acqua e fiamme a causa di una silurata. L’interno è stupefacente: la poca luce artificiale non permette di vedere nel dettaglio tutti i particolari, ma ciò che si vede è già sufficiente per capire di trovarsi in un miracolo d'ingegneria. Ogni centimetro quadrato di parete è percorso da tubi d'acciaio e manometri pressori che si intersecano in un labirinto inconcepibile. Il passaggio centrale è così stretto da far fatica a muoversi, nonostante siamo praticamente gli unici visitatori del momento e superiamo di poco i cento chili in due. Un’estremità ospita i vecchi siluri. I marinai non potevano vedere le bombe nemiche, che puntavano spedite contro il loro sottomarino: potevano solo sentirne i boati, sperando di essere stati mancati. Le cuccette dei marinai, ormai senza materassi né coperte, sono anch’esse terribilmente anguste. Non c’è nemmeno lo spazio per girarsi, sono di una scomodità unica. Ringrazio chi di dovere di non essere nato in quegli anni di insensata e sanguinosa guerra.

Doppio arcobalenoUsciamo con molta difficoltà dal portellone posteriore, aperto solo a metà e quasi inamovibile. Non appena fuori, ci troviamo sotto una pioggia intermittente ed estremamente fastidiosa, peggiorata dal vento che la fa scorrere praticamente di lato. Il battello senza tetto ci riporta indietro verso la terraferma, mentre fortunatamente spunta un accenno di sole. Durante la traversata non possiamo fare a meno di notare alcune isolette di pochissimi metri quadrati con

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una sola casetta al centro, tutte munite del proprio personale attracco per le barche. Chi mai vivrà in quei fazzoletti di terra in mezzo al mare, che sembrano quasi le microscopiche isole con l'unica palma da cocco centrale, tipicamente associate ai naufraghi? Mentre ci immaginiamo le possibili risposte, attracchiamo e ricominciamo i nostri giri, trovandoci di fronte ad un fenomeno eccezionale: un doppio arcobaleno sullo sfondo della chiesa ortodossa. La prima delle due strisce di luce colorata è prepotentemente visibile, la seconda è tenue e appena accennata. Entrambi gli arcobaleni formano un arco sopra le bellissime guglie d'oro. Piove con il sole che splende, è un momento davvero particolare. Approfittiamo della schiarita per riposarci un po’, seduti di fronte al porto. Osserviamo attentamente le navi attraccate con i ristoranti all'aperto sui ponti, le grosse gomene tutte avvolte attorno alle bitte per evitare che i battelli scappino via sospinti dalla continua brezza, e in lontananza le enormi navi da crociera, mosse da centinaia di resistenti motori diesel che le sospingono lungo i mari per giorni interi. Dopo una decina di minuti di rilassamento, ripassiamo nella piazza del Senato per raggiungere la stazione centrale, intercettando fugacemente un'esibizione di canto corale. In albergo troviamo un'altra sorpresa: i nostri vestiti, lasciati stropicciati ed ammassati irregolarmente sui letti sfatti, sono ora perfettamente stirati e piegati, appoggiati su lenzuola assolutamente prive della più piccola grinza. Un servizio decisamente diverso a quello a cui siamo abituati da qualche settimana, e che rischia di viziarci un po’ troppo. Un bel bagno nella spaziosa vasca per eliminare la sporcizia e la stanchezza residua, e poi subito tra le braccia di Morfeo, preparandoci all'ultimo giorno nella capitale.

Solo non si vedono i due liocorniStamattina la sveglia suona un po’ più tardi. I dolori al rachide, dovuti all'eccessiva morbidezza dei materassi, sono ancora presenti. Stamattina ci concediamo una pantagruelica colazione, e torniamo a riempire il piatto più e più volte con qualsiasi cibaria presente sui tavoli. Il caffè viene erogato dalle macchinette in quantità esagerata: qui la porzione per una persona è l’equivalente di una moka da tre! Ne butto via gran parte per poterlo diluire, e la cameriera si stupisce

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del mio gesto. Sembra che non riesca a credere che si possa buttare via del caffè, ma mi lascia fare senza obiettare. Una volta rimpinzatici così tanto da far fatica ad alzarci dalla sedia, barcolliamo lentamente verso la camera per recuperare tutto il necessario per la giornata. Questa mattinata la passeremo allo zoo, su un'altra isoletta vicina a Suomenlinna. Un timido scoiattolo, che corre qua e là velocissimo in preda all'agitazione, ci dà il benvenuto sulla stradina che conduce alle gabbie dei grandi felini. Il leone è in siesta pomeridiana, così come la tigre, pesantemente assonnata. I ghepardi sono un po’ più attivi, ma si muovono in modo artefatto, ripetendo gli stessi movimenti ossessivamente. Probabilmente sono molto sofferenti per la loro condizione di prigionia. Un simpatico gatto selvatico sta dormendo, appollaiato in cima ad un albero, con l'espressione beata che hanno tutti i gatti che dormono. Ce n'è per tutti i gusti. Alci dalle ramificate corna, cammelli dal morso veloce e dallo sputo facile, gazzelle costrette in poche decine di metri quadri di spazio, canguri dalle cortissime zampette anteriori e dalla buffa andatura saltellante. Gli emù, grossi uccelli molto simili agli struzzi ma dal piumaggio molto più scuro, ci guardano con un'espressione bellicosa e non ci invitano a fermarci a lungo dinanzi ad essi. I vanitosi pavoni, in stato di sorprendente semilibertà, non si degnano di mostrare la variopinta ruota, riservata unicamente ad impressionare gli esemplari femminili. Gli scortesi lama, notoriamente di carattere difficile, scappano non appena ci vedono arrivare. Gli enormi bisonti, dal peso che può raggiungere la tonnellata, sono intenti a masticare la loro paglia. Particolarmente divertente è il branco di babbuini, dal sedere rosso e prominente, estremamente agili nell'arrampicarsi su qualsiasi appiglio trovino. Il loro urlo è lancinante, e a volte iniziano tutti insieme a gridare senza alcun apparente motivo, fracassandoci i timpani. Uno degli animali si porta dietro un pezzo di legno per minuti e minuti, credendo di aver trovato un tesoro, per poi lanciarlo a terra spezzandolo. Rimaniamo a guardarli per diverso tempo, fino a quando la porticina metallica sul retro si apre, permettendo ai babbuini di entrare nella giungla artificiale. Lì amano darsi la caccia, gridando come ossessi e rotolando sulle reti appositamente studiate per le loro acrobazie. All'interno degli altri edifici troviamo gli animali amazzonici e africani. È impossibile rimanere indifferenti di fronte

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agli orribili scarabei, ammassati a centinaia e grossi come una noce. Farebbero scappare terrorizzato anche il più coraggioso ed armato degli esploratori. L’ancestrale terrore degli insetti è qualcosa di difficilmente eliminabile. Non sono meno impressionanti i serpenti boa, in grado di stritolare un uomo in pochi secondi, anche se dietro i vetri sono inoffensivi e piuttosto pigri. Fanno loro bella figura anche gli innumerevoli animali marini, ragni, crostacei ed echinodermi, ma purtroppo non c'è tempo per vederli tutti e dobbiamo rientrare sulla terraferma. Tra poche ore si parte per Stoccolma.

Tutti in barcaIn cima alla passerella che conduce alla nave, un plotone di fotografi ci saluta, mostrando tutti e trentadue i denti. Impossibile rifiutare la foto, dato che hanno messo le macchine fotografiche in posizione strategica. Probabilmente tutto ciò serve per avere un qualcosa di identificativo, nel caso che qualcuno si perda o abbia dei problemi di qualche genere sulla nave. Due pagliacci e un trampoliere, vestiti nei modi più strani, ci accolgono calorosamente. Finalmente riusciamo ad accedere al settimo piano, quello dell'imbarco. L’interno della nave è stupefacente: vi sono centri commerciali mastodontici, l'insegna di un casinò in fondo al corridoio, numerosi ascensori con le pareti trasparenti. Mentre camminiamo, un mimo luccicante e truccato intercetta la camminata di Davide, piazzandosi dietro di lui e seguendo ogni suo movimento in modo insistente ed irritante. Il nostro eroe fa finta di niente, sperando che il buffo personaggio molli la presa, ma non sembra proprio che se ne voglia andare. Alla fine, però, riesce a liberarsene, simulando un impatto contro una ringhiera e piegandosi in due: il mimo, per seguire quella posizione, creerebbe una situazione imbarazzante… Congratulandosi per la trovata, l’amico pagliaccio finalmente lo lascia in pace e va ad importunare qualcun altro. La nostra cabina si trova in fondo ad un dedalo inestricabile di corridoi tutti uguali, nei quali si rischia seriamente di perdersi, ma il nostro senso dell’orientamento è sufficiente per trovare in fretta la cabina. Alloggiamo in un buco claustrofobico, ovviamente senza finestre, con due letti a castello e pochissimo spazio vitale. Dall’albergo dei sogni alla cabina degli orrori.

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Un ragazzo australiano, dagli spiccati lineamenti orientali, entra con noi e rivela di essere il nostro compagno di stanza. È molto discreto e si fa i fatti suoi, dunque non parliamo molto. Non rimaniamo a lungo in questo loculo: la nave è troppo grande e piena di sorprese per non esplorarla da cima a fondo. Il settimo piano è dotato di ogni comodità possibile e immaginabile: c’è perfino un negozio "tax free" in cui non si paga l'IVA sui prodotti, istituito apposta per i turisti. Tra la merce sugli scaffali spiccano bottiglie di vodka da due litri, pacchetti di caramelle da mezzo chilo l'uno, nonché terrificanti chupa chups giganti da 200 grammi. Praticamente delle clave. Sembra la fiera dell’esagerazione: non esistono confezioni piccole o medie, ma solo enormi. Le sorprese non finiscono qui: sulla nave ci sono anche uffici di cambio soldi, negozi di vestiti d'alta moda, ristoranti costosissimi. Sembra di essere finiti su una crociera di lusso. Ad un certo punto notiamo una lunghissima bacheca, sulla quale sono appese tutte le foto che ci sono state fatte alla partenza. Dopo una breve ricerca, troviamo anche le nostre! Le preleviamo subito, senza chiederci se siano a pagamento o meno, vedendo che così fan tutti. Al massimo ci arresteranno e finiremo i nostri giorni in galera, niente di grave. Il piatto forte, però, arriva soltanto la sera. Non possiamo certo perderci una serata al casinò, che campeggia in bella vista in fondo al corridoio con la sua voluminosa insegna luccicante.

Gioco d’azzardoIl notevole fascino del gioco d’azzardo rende molto difficile smettere di giocare una volta iniziato. Di venti centesimi in venti centesimi, ci promettiamo ogni volta un tetto massimo di spesa oltre il quale non andare, peccato solo che tale tetto venga ridefinito continuamente, schiacciato dall'eccitazione e dalla voglia di rischiare di più. Ci rendiamo conto di quanto sia pericoloso lasciarsi tentare da questo tipo di giochi, se già con pochi centesimi di euro è difficile darsi un freno. Avendo conosciuto personalmente gente che si è rovinata col gioco d'azzardo, l'effetto che mi fa è ancora più forte. Dall'altra parte della sala, due croupier stanno decidendo le sorti d'accaniti giocatori, in gran parte giapponesi, al black jack e alla roulette. Le loro dita sciolte manipolano abilmente le carte,

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distribuite una alla volta e lentamente scoperte sotto gli occhi ansiosi di chi ha puntato. I soldi giocati vengono inghiottiti, talvolta per sempre, in apposite buche del tavolo verde. La pallina della roulette, lanciata in direzione contraria al senso di rotazione della medesima, decreterà presto se i portafogli dei giocatori si alleggeriranno o si appesantiranno a fine serata, in un tiro della sorte completamente imprevedibile e per questo estremamente tentatore. Banconote da dieci, venti, cinquanta euro passano continuamente sotto il nostro naso fin nelle mani del croupier, dall'espressione di ghiaccio e completamente indifferente a tutto quel movimento di soldi e a quella febbre del gioco. Probabilmente per lui è un lavoro come un altro, che non gli procura alcuna emozione.È affascinante osservare queste scene di tensione silente, che talvolta esplode in contenuti gesti di stizza e di rammarico per le centinaia di euro appena buttate via, mentre altre volte scatena gioiosi abbracci per le cospicue vincite ottenute. Nessuno, purtroppo, sta giocando al poker con le vere carte. Assisteremmo volentieri ad una partita, ma non ci sogniamo certamente di proporci. Dopo un po’ torniamo ad aggirarci nei dintorni delle macchinette, in cerca d’avventura. Un videopoker rimasto vuoto attira la nostra attenzione, poiché ha un bottone rosso ancora acceso. In tutti gli altri videopoker è spento, cosa sarà? Schiacciamo il pulsante, solo per curiosità, e magicamente scendono cinque monete da un euro. Ci guardiamo increduli: com'è possibile che le abbiano lasciate lì? Le ghermiamo, mettendole in tasca senza dare nell'occhio, e passiamo alla macchinetta successiva, anch’essa munita di pulsante rosso illuminato. Altri tre euro guadagnati senza sforzo. Da questo momento in poi non facciamo altro che aggirarci come avvoltoi tra le slot machine, cercando qualche monetina dimenticata da puntare. Approfittiamo dell’insperata vincita per giocarcene una parte, stabilendo però un tetto massimo invalicabile da non superare per nessun motivo, e stavolta lo rispettiamo. Puntiamo quasi sempre venti centesimi, altre volte quaranta, perdiamo un po’ di soldi e poi ne riguadagniamo il triplo, per poi perderne il quadruplo, e così via. Un'andatura altalenante, che ogni volta che sembra stia per finire in realtà ricomincia in modo del tutto inaspettato, vincendo cinque volte tanto dopo che l'ultima monetina utile è stata puntata.

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Come prevedibile, in finale perdiamo tutto quello che abbiamo deciso di giocarci, ma riusciamo ancora a recuperare altri due o tre euro, lasciati da qualche distratto utente che si è dimenticato di riprendersi i suoi spiccioli. Probabilmente è gente abituata a puntare cinquanta, cento, duecento euro alla volta. Gente che non sta certo a contare le briciole, presa com’è dall’inestinguibile febbre del gioco. La mezzanotte è ormai passata da un po’, e cominciano a vedersi le prime scene di ubriachezza: un finlandese piuttosto pingue, con i capelli biondi a spazzola, sta dormendo beatamente a sghimbescio sulla sedia, e il suo bicchiere di Bailey's è ancora pieno fino all'orlo. Il suo amico sta tentando inutilmente di svegliarlo, battendo sempre più forte il bicchiere sul tavolo, senza successo. Il ragazzone viene poi svegliato in qualche modo da altri finlandesi, che scuotendolo ed incitandolo riescono perlomeno a farlo rimettere seduto dritto. Non vorrei essere tra quelli che poi tenteranno di farlo alzare. Altri individui poco raccomandabili cominciano ad aggirarsi nei dintorni, perciò vista anche l'ora tarda decidiamo di uscire dal casinò e di tornarcene in cuccetta. All'entrata dei nostri corridoi vediamo un altro finlandese collassato sul fondo delle scale, completamente ubriaco, poi un altro in piedi con la faccia rossa come un peperone e l'espressione stranita, che ci fissa insistentemente dall'imboccatura del nostro corridoio. Prudentemente, deviamo per la strada più lunga, evitando di passargli davanti. Riusciamo infine a raggiungere la nostra camera senza essere aggrediti da ubriachi vaganti. La banda magnetica fa un po’ di noiose bizze, ma pulendola bene con i fazzoletti si sblocca e ci lascia entrare nel nostro loculo, finalmente al sicuro. Il nostro compagno di stanza non c’è. Chissà se è collassato anche lui per il troppo alcool ingurgitato, o se si è perso nell’intricato labirinto.

StoccolmaDalla nostra cabina è impossibile capire che ore siano, se non uscendo o consultando un orologio. La totale assenza di finestre è fuorviante e potrebbero tranquillamente essere le quattro di mattina come le due di pomeriggio. In piena notte mi sveglio sentendo degli strani rumori: tendo l’orecchio per capire cosa siano quegli scricchiolii e quei suoni di portelloni che paiono aprirsi e chiudersi. Sembra che la nave si sia fermata del tutto. Per un attimo penso che

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siamo arrivati e che dobbiamo correre immediatamente per uscire, ma quando Davide si sveglia mi informa che è solo lo scalo notturno alle isole Åland, a metà tra Helsinki e Stoccolma. Guardo l’orologio: sono più o meno le tre di notte. Mi riaddormento subito dopo, senza più preoccuparmi dei rumori della nave. Alle otto saltiamo in piedi e ci prepariamo per scendere a Stoccolma. Una volta mandati giù i soliti due biscotti e i soliti tre sorsi di succo di frutta, facciamo un'altra veloce ispezione nella zona del casinò, sperando che sia ancora aperto. Quale momento migliore per raccogliere le monetine dimenticate nel corso di un'intera notte? Purtroppo è tutto chiuso. Recuperiamo dunque i bagagli e ci apprestiamo a seguire la marea di gente che si sta ammassando alle uscite. Il nostro compagno di stanza ci saluta augurandoci buona fortuna, ricambiamo e lo vediamo sparire lungo un’anonima rampa di scale. Prima di potercene rendere conto la nave ha già attraccato al porto di Stoccolma. Siamo tornati in Svezia.Ripercorriamo velocemente i corridoi sospesi per raggiungere la famosa metropolitana Tunnelbana, molto decorata e ricca di vetrine con esposizioni artistiche. Praticamente, un misto tra una metropolitana e un museo. Il tunnel però non ci esalta come dovrebbe, in quanto l'arrivo è piuttosto caotico e stressante: il caldo e la folla ci sfiancano, così come ci esasperano le decine di passeggini che ci sbarrano la strada, incastrandosi dappertutto, specialmente ai tornelli della metropolitana. Chiedendoci come sia possibile che tutta questa gente abbia così tanti figli piccoli e se li porti sempre in giro, prendiamo il primo treno diretto alla zona del centro storico, famosa per la sua densità di edifici antichi. L'isoletta di Gamla Stan, il vero nucleo centrale della città risalente al Medioevo, è colma di edifici sontuosi come la chiesa mortuaria di Riddarholmen, la cui svettante ed appuntita guglia di ferro tocca la ragguardevole altezza di novanta metri. È lastricata internamente di pietre tombali, che ospitano i resti di tutti i re svedesi fino all'epoca contemporanea, e sulle pareti sono stampigliati stemmi e trofei dei cavalieri dell'ordine dei Serafini. Poi viene la monolitica Residenza Reale, l'edificio più importante e rappresentativo di Stoccolma. È la vecchia abitazione dei re, che però vediamo solo dall'esterno, giallognola e squadrata. Una carrozza trainata da cavalli, che sta

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passando proprio ora in mezzo alla piazza, contribuisce ad aumentare l'aria di medioevo che aleggia densa attorno a noi. Ci aspettano poi la torre del municipio, dalla quale ci godiamo un’ottima vista dell’intera città, e la visita all’enorme Palazzo Reale, dove alcuni soldati, in divisa verdognola e stivali bianchi, stanno pronunciando ordini in lingua incomprensibile, comandando il cambio della guardia e marciando a passo sicuro, mentre nutrite schiere di turisti osservano. L'ingresso dei quattro musei ospitati dal Palazzo è presieduto da un guardiano solitario, armato di fucile a baionetta, che ha l’ordine di non muoversi né parlare. Nonostante ciò, un turista sta intavolando con lui una specie di conversazione, nella quale però le proporzioni sono fortemente sbilanciate: la guardia si limita a rispondere con qualche parola seccata, trasgredendo agli ordini probabilmente per disperazione, mentre il curioso e logorroico importuno non accenna a smettere di fare domande. Deve essere già particolarmente noioso stare ore e ore in piedi senza potersi muovere, in balìa di qualsiasi condizione atmosferica e senza nemmeno poter andare al bagno, se poi si aggiungono anche i turisti, è davvero il colmo! L'interno del palazzo è magnifico: le stanze sono enormi, spaziose, riccamente decorate con ogni genere d'affresco. Alcune statue bronzee sono incastonate negli spigoli delle pareti e sembrano tenersi con le mani alle due travi d’angolo. Tanta ricchezza è impressionante e tutto questo sfavillare d'oro quasi abbaglia la vista. Nei sotterranei, invece, possiamo ammirare corone e spade tempestate di diamanti e pietre preziose in ogni centimetro quadrato, oggetti straordinari e d'altissimo pregio, che osserviamo senza pronunciare parola. Finita la visita ai ricchissimi musei, è tempo di visitare altri gioielli, come la cattedrale di Storkyrkan. I suoi colonnati in mattone rosso e a strisce biancastre sorreggono le tre lunghe navate, mentre spicca il maestoso altare argentato con la consueta e splendida vetrata colorata circolare sulla cima. Perla finale è la complessa e finemente rifinita statua rappresentante la lotta tra San Giorgio e il drago, terminata con la sconfitta di quest'ultimo, secondo la leggenda raccontata dai tempi delle Crociate. Finisce qui la prima parte della scorpacciata di storia e cultura locale, ed ora ci occupiamo di cose più banali, come cercare un posto dove mangiare tranquilli, senza essere sorpresi dalla pioggia che continua beffardamente ad andare e venire. A

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complicare le cose si aggiunge anche il vento freddo che spira dal mare, portando più nuvole invece di spazzar via quelle presenti. In mancanza di meglio, non rimane che la stazione. Riempito lo stomaco, ripartiamo per le vie del centro. Nonostante la stanchezza delle gambe, è un piacere camminare per le strette viuzze, con qualche guglia che spunta all'improvviso dietro un caseggiato che fino a poco prima ne nascondeva la vista. Ci concediamo un altro momento di riposo sui gradini di una statua nella piazza adiacente al golfo, dove dall'altro lato è ormeggiato l'Af Chapman, un vecchio vascello a vela ora trasformato in ostello. Purtroppo non alloggeremo lì: trovare posto è difficile, bisogna prenotare settimane prima. Curiosamente, quest’ostello galleggiante porta il nome dell’assassino di John Lennon. Come chicca della tarda serata, troviamo un’orchestra che sotto un tendone sta suonando il “Và Pensiero”. Perfino in Svezia sentiamo cantare italiano! Il direttore d’orchestra si affanna con la sua bacchetta, piegandosi e facendola volteggiare qua e là senza sosta, mentre i musicisti, visibilmente concentratissimi, eseguono i loro pezzi in modo magistrale. Applausi scroscianti.

Tumba

Dopo il concerto, proviamo ad incamminarci lungo un’altra strada, decisamente affollata. Un concerto di dimensioni enormemente più grandi si sta preparando. Non sappiamo chi dovrà suonare, ma dall’aspetto dei milioni di ragazzini che si sono riversati in strada possiamo capire che sarà qualche plastificato idolo del pop. Spintonando e sbuffando, riusciamo a liberarci dalla calca nella quale imprudentemente ci siamo addentrati. Una volta liberi, constatiamo che è tardi e ormai i musei sono tutti chiusi. Si sta facendo sera, siamo stanchi e dobbiamo pensare a come raggiungere i nostri giacigli per la notte. Non avendo trovato un ostello a Stoccolma per la prima notte, abbiamo dovuto prenotare una sistemazione a Tumba, un sobborgo distante circa cinquanta chilometri dalla capitale. Tumba è un’altra cittadina come Luleå, sperduta nella campagna svedese, e l’unica informazione che abbiamo sull’ostello è un numero di codice, che dovremo digitare su una tastiera a muro per poter entrare. Non sappiamo nemmeno

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dove sia esattamente il posto, anche se ci hanno assicurato che è facile da trovare.

Torniamo dunque in stazione per prendere il treno, ma inspiegabilmente i commessi non accettano il biglietto Interrail. Ci tocca pagare la tariffa piena, cioè sei euro, per venti minuti di treno. Già questo è sufficiente per farci un po’ arrabbiare, ma non è finita qui. Appena scesi dal treno, cerchiamo subito un autobus, e ne troviamo subito uno che va a Tumba, ma quando proviamo a salire l’autista di colore ci risponde in italiano "Qui non si fanno biglietti". Un altro che legge il pensiero e indovina le nazionalità con la sola imposizione delle mani. Non abbiamo nemmeno parlato!

Ritorniamo in stazione, ancora più scornati, e paghiamo l'esorbitante cifra di diciotto euro per un tragitto di pullman della durata di un quarto d'ora. Con tutti questi soldi, spesi per niente, avremmo potuto dormire in un comodo albergo di Stoccolma. Speriamo che, come minimo, il biglietto valga anche per il ritorno, dato che conta numerosi spazi vuoti numerati. Ci mettiamo ad aspettare, e venti minuti dopo arriva un altro autobus. L’autista timbra il biglietto in corrispondenza del secondo riquadro, su sedici totali. Ci viene il dubbio di aver comprato un abbonamento. In ogni caso, siamo sull’autobus giusto. La nostra fermata è in un posto che definire isolato è un eufemismo. Tuttavia, un enorme cartello segnala un ostello della gioventù sulla sinistra. Il simbolo della casetta e dell’abete è inequivocabile.

Davide indovina subito il punto in cui tagliare a sinistra, e presto scopriamo che l'ostello è parte di un camping molto ben organizzato, composto da decine di edifici. Seguendo le indicazioni, arriviamo nei pressi di una costruzione un po’ dismessa, ma tutto sommato d'aspetto invitante, e che reca la fatidica tastiera a muro sullo stipite della porta. È il momento della verità: se per caso il codice è sbagliato, non funziona o l’abbiamo capito male, rimaniamo fuori. Primo numero valido, secondo e terzo validi...quarto valido. La serratura lampeggia di verde e possiamo entrare. Nell’anticamera notiamo subito una busta appesa al muro, indirizzata proprio a me. C’è il mio nome sopra. Essa contiene le chiavi della camera e le istruzioni su come pagare. Dovrò lasciare il mio numero di carta di credito, che verrà registrato e utilizzato

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lunedì, quando riaprirà la reception. In Italia chi si fiderebbe a fare una cosa del genere? Chiunque potrebbe tranquillamente lasciare un numero di telefono falso, dormire abusivamente ed andarsene senza pagare. Ma evidentemente qui non è consuetudine. La camera è riservata per noi, ben riscaldata e pulita, il che ci ripaga in parte della scarpinata e dell'esorbitante costo del biglietto, che ancora non sappiamo se sia valido anche per il ritorno. Ottimizziamo i bagagli per potercene andare quanto più velocemente possibile l’indomani, poi ci infiliamo sotto le coperte. Incoscientemente, mi copro solo col lenzuolo, convinto che faccia già abbastanza caldo. Grave errore di cui pagherò le conseguenze, svegliandomi l’indomani con un incipit di raffreddore.

Ostello galleggianteLa mattina ce ne andiamo a velocità supersonica, ansiosi di ritornare a Stoccolma e dimenticare quest’inutile deviazione. Aspettando l’autobus, ci prepariamo numerose scuse nel caso in cui il controllore ci dica che il biglietto non va bene. Potremmo fare gli gnorri, oppure insistere dicendo che abbiamo chiesto un abbonamento, oppure tentare di corromperlo. Ma nessuna di queste opzioni si rivela necessaria: l’autista ci timbra il biglietto in corrispondenza del quarto spazio (ma perché solo quelli pari?) e ci lascia salire senza dire nulla. Ormai siamo certi di aver comprato un abbonamento, non c’è altra spiegazione. Certo che la donna che ce l’ha venduto non ha proprio capito niente di quello che abbiamo detto. Pazienza, ormai siamo tornati nella capitale e mettiamo definitivamente una pietra sopra la parentesi di Tumba. Ora dobbiamo pensare a cose più importanti, come ad esempio trasferire i bagagli nella nuova sistemazione, il che implica che prima dobbiamo trovarla. Ci mettiamo un bel po’, ingannati dalla strana conformazione delle vie che costeggiano l’acqua, ma quando finalmente lo raggiungiamo ne rimaniamo piacevolmente sorpresi. Si tratta di un vecchio battello da pesca, ora diventato un ostello! Non sarà l’Af Chapman, ma è pur sempre un ostello galleggiante. Purtroppo, una volta entrati l’entusiasmo iniziale cala di molto. Solo il fatto di galleggiare salva l’ostello dalla nomina di uno tra i peggiori. Le scale per scendere al piano inferiore, dove si trova la nostra cabina, sono ripidissime, strette e pericolosamente

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scricchiolanti. C'è un unico orinatoio per tutta la nave, munito di lavandino, mentre l'altrettanto unica tazza, in un altro bugigattolo, ne è invece priva. Che senso ha non metterlo proprio dove ce n'è più bisogno? Sorvoliamo su questo dettaglio e parliamo delle docce, praticamente aperte. L'unico barlume di privacy è dato dalla tenda che si può tirare, ma non esiste porta: di conseguenza, praticamente nessuno nell’ostello fa la doccia, tanto meno noi. La camera è l'apoteosi: due letti a castello in uno spazio che definire claustrofobico è un complimento. Chi dorme sopra non ha nemmeno una scaletta per arrampicarsi, ma solo un vago gradino, liscissimo ed inclinato a 45°. Completamente inutile. Oltretutto, una volta arrivato in cima, lo sventurato può a malapena girarsi nel letto, poiché lo spazio tra materasso e soffitto è così ridotto che anche scendere diventa un problema. Per non parlare di quando l’occupante del medesimo letto tenta di sollevare il busto: può farlo al massimo per una ventina di centimetri, prima di sbattere la testa contro l’irregolare soffitto. Gli oblò sono microscopici, tenuti costantemente chiusi dalla coppia di francesi che alloggia con noi. Il ricircolo d’aria è così azzerato, e ciò non fa bene al mio raffreddore, che sta esplodendo proprio in queste ore.

Musei e vascelloUna volta sistemati gli zainoni negli unici vani in cui riescono a passare, ce ne andiamo preparandoci ad un'intensa e mentalmente faticosa giornata. Oggi abbiamo ben tre musei da visitare. Il National Museum, un altro d'arte moderna e, dulcis in fundo, il Vasa Museum, che ospita un intero vascello, ancora intero. Il primo è il più classico, dedicato a quadri e oggetti di uso comune dal primo Novecento agli anni Settanta. Ben poco mi rimane in testa dopo esserne uscito. Il secondo è un insieme d'arte astratta e bizzarra, ma che lascia intravedere significati nascosti molto profondi. In particolare, un'opera mi colpisce: è un insieme di centinaia di foto di persone comuni, prese dalla strada, appese sul muro a formare un collage. Sotto tutte queste fotografie stanno altrettanti fogli di carta, che recano la descrizione di ogni individuo. C'è la persona che ha appena perso l'aereo, pagato profumatamente, perché le indicazioni del centro turistico erano sbagliate. C’è l'ex alcolista, affidato agli assistenti sociali che ogni mattina passano a recapitare la busta con il

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cibo senza suonare il campanello, perché hanno paura di lui. C’è l'uomo a cui hanno appena tolto il rene sbagliato, la donna che ha appena perso il figlio in un incidente stradale, lo studente a cui è stata rifiutata la tesi preparata in due faticosi anni, la ragazza che ha scoperto di essere sterile solo dopo essersi sposata, e così via per centinaia di pietose situazioni. Sono tutte apparentemente slegate tra loro, ma hanno un denominatore comune: l'impietosa varietà delle sofferenze che si possono provare e soprattutto l'incomunicabilità della condizione umana, dove ognuno è abbandonato a se stesso, senza che il resto del mondo se ne curi. Il terzo ed ultimo museo, indubbiamente il più interessante, contiene un enorme vascello del diciassettesimo secolo ancora quasi completamente intatto, lungo circa settanta metri. C’è da rimanere senza fiato ad osservare le sue statue di legno incastonate a poppa, le reti sulle quali i marinai si arrampicavano per arrivare in cima all'albero maestro a fare da vedette, i paurosi fori quadrati sulle fiancate dai quali i marinai nemici vedevano spuntare le bombarde. Ci sono più di dieci piani su cui salire, e da ognuno si vede la nave in un’angolazione diversa, finché dalla cima si può ammirare l’intero vascello in tutta la sua enormità. Come abbiano fatto a trasportare questo mostro e rinchiuderlo dentro quattro mura e un tetto è un vero mistero. Forse hanno semplicemente costruito il museo attorno alla nave. Ai lati dell’edificio ci sono tutte le rappresentazioni in miniatura della nave e delle sue stanze. Rendono abbastanza bene l’idea, ma preferiamo osservare la nave vera e propria. Non ci si può salire sopra per ovvi motivi, ma non è necessario: si può comunque vedere il ponte a brevissima distanza. Ancora una volta mi sembra di essere entrato in un capitolo di Capitani Coraggiosi.

FinaleUna lieve ma costante pioggerellina non ci risparmia nemmeno durante l’ultimo giorno a Stoccolma, che coincide con l’ultimo giorno di viaggio. Tuttavia, ci concediamo un rilassato giro panoramico lungo una strada della città alta, dalla quale si vedono benissimo tutti gli edifici storici. Poco distante si trova la chiesa di Santa Sofia, un grazioso luogo sacro con le panche disposte a semicerchio attorno all'altare. Sedendoci su di esse, assorbiamo un

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po’ di benefico calore ed approfittiamo per meditare sulle nostre odierne sorti. Quello che pensavo nella stazione di Bergen si sta avverando: tra poche ore torneremo a casa, chiedendoci come abbia fatto il tempo a passare così velocemente. L’ultima cosa che ci rimane da vedere a Stoccolma è il Globen, dall’altra parte della città. Si tratta di un’enorme costruzione sferica, bianca e reticolata. È la più grande costruzione a forma di globo del mondo intero. Ospita molti negozi al suo interno (circa 150!), ma tra tutti quei negozi non ce n’è nemmeno uno che ci stuzzichi la fantasia, perciò torniamo nel centro della città per un’ultima camminata. Curiosando un po’ nei vari negozi del viale, troviamo in vendita veramente di tutto. È divertente confrontare i prezzi e pensare a quante stupidate siano in vendita per non pochi soldi, come le orribili statuette dei troll, delle quali gli scaffali fortunatamente non si svuotano mai, dato che non le compra nessuno. Ormai sufficientemente stanchi da non voler strafare, ci liberiamo da qualsiasi impegno per quel che resta della giornata, complice anche il mio naso che sta ricominciando a colare violentemente. Convinco Davide a tornare presto in ostello, poiché non mi sento molto bene. Ho la febbre e sto consumando fazzoletti uno dopo l'altro. Il calduccio della cabina mi cura nuovamente, fino a scivolare in un sonno leggero.L’indomani prendiamo il treno per l’aeroporto di Arlanda, ormai la nostra odissea è finita. Ci rivediamo sul prossimo treno, destinazione ignota.

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Estate 2009Francia – Belgio – Paesi Bassi

Partenza il 01/08/2009 – Ritorno il 22/08/200922 giorni totali di viaggio

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Appena un anno dopoUna strana atmosfera aleggia questa mattina nella piccola stazione di Mendrisio. Le prime tenui luci dell’alba illuminano debolmente i numerosi treni merci che dormono profondamente sulle fredde rotaie, in meritato riposo dopo una giornata di duro lavoro. Gli edifici di servizio sono chiusi e non c’è nessuno nei paraggi. Gli unici movimenti sono l’avanzare delle lancette del grosso orologio, infisso sulla parete della costruzione principale della stazione, più l’ondeggiare dei ciuffi d’erba che crescono tra un binario e l’altro, spinti da un leggerissimo venticello appena percettibile. Pian piano, senza fretta, le lancette dell’orologio scandiscono i minuti che mancano alla partenza del prossimo treno, che due strani personaggi dall’aria assonnata sembrano attendere, camminando avanti e indietro sulla banchina del terzo binario. Sono le uniche due persone che stanno aspettando un treno ora, nella dormiente e desolata stazione. Portano entrambi un grosso zaino in spalla, allacciato a livello della vita e del torace per distribuire e bilanciare meglio i pesi e non farli gravare unicamente sulle clavicole. Uno degli zaini è completamente nero e piuttosto spartano, l’altro è blu e bianco e molto più elaborato, ricco di tasche aggiuntive e di cordicelle che ciondolano da ogni dove, che gli conferiscono un aspetto professionale e adatto ai viaggi d'avventura più estrema.Ovviamente, quei due viaggiatori siamo noi. Entrambi indossiamo vari strati di vestiti per difenderci dal fresco della notte, ormai prossima al termine. Per ingannare l’attesa, ci sporgiamo sul bordo della banchina per esaminare i rifiuti lasciati da qualche passeggero, o per valutare la quantità di ruggine che sta lentamente aggredendo le sbarre di ferro e i bulloni, o ancora per tentare di capire da dove provengano i vagoni merci. Il treno arriva alla stazione prima del sorgere del sole e ci porta via da Mendrisio, pronti ad affrontare una nuova avventura in giro per l’Europa. Il vagone che abbiamo scelto per la prima sferragliata della giornata è quasi vuoto e molto silenzioso, pulito e ordinato come ci si aspetterebbe da un treno svizzero. I pochi viaggiatori presenti oltre a noi si occupano dei fatti loro: qualcuno legge il giornale, qualcun altro sonnecchia, forse per recuperare qualche ora di sonno prima di recarsi al lavoro. Anche noi abbiamo sonno, ma non è certamente il momento di dormire. Difficilmente la partenza del primo treno di una lunga serie può essere vissuta con indifferenza. Mi rendo conto che sto provando la

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stessa potente, inebriante sensazione che provai esattamente un anno fa, quando stavo per partire per la Norvegia con il mio fidato compagno Davide, che anche questa volta mi sta accompagnando.Il treno supera cittadine addormentate ed intricate linee elettriche, tuffandosi in mezzo a verdi boschi e costeggiando dirupi vertiginosi, prima di entrare nel buio tunnel del Gottardo. Mentre lo attraversiamo, le orecchie mi si chiudono, amplificando la sensazione di ottundimento e di sonnolenza che ora inizio a provare più intensamente, cullato dal tranquillo e silenzioso avanzare del treno in mezzo all’oscurità della lunghissima galleria. Passare il Gottardo è come varcare una linea di demarcazione. Questo traforo, che attraversa le Alpi da parte a parte, funge un po’ da spartiacque tra il piccolo mondo che lasciamo a casa e il nuovo mondo che andiamo a conoscere ora. Non si capisce molto bene dove sia l’inizio del tunnel, così come non è netto il principio di un nuovo periodo della vita. Simbolicamente, l’attraversamento del tunnel rappresenta l’uscire di nuovo all’aria aperta dopo un lungo periodo di buio, durante il quale si era un po’ smarrita la strada. Quando il treno riemerge trionfalmente dalle oscure profondità della montagna ed investe nuovamente l’aria pura, fendendola con sicurezza, capita di nuovo quello che capitò un anno fa, quando l’aereo prese sempre più velocità fino a decollare: la linea di margine è stata finalmente oltrepassata, e tutti i dubbi e le preoccupazioni non hanno più ragione di esistere.C’è una calma strana sul treno, che non è turbata nemmeno dalla vista di due militari armati di mitragliatrice, venuti a sedersi vicino a noi. L’estremità della canna dell’arma è forata lateralmente in vari punti, forse per permettere di disperdere al meglio il calore durante una raffica di colpi, e nonostante le armi mi lascino sempre un vago senso di inquietudine, ora non mi comunicano nulla di particolare. Cambiando due treni alle stazioni di Zurigo e Basilea, ci troviamo finalmente sulla direzione giusta per la nostra prima, grande tappa. Il treno percorre le rotaie alla velocità di oltre trecento chilometri orari, ma non ce ne accorgiamo quasi. Il treno è troppo confortevole per rendersi conto della sua estrema velocità. Prima che possiamo accorgercene, siamo già arrivati, ed è già tempo di scaricare i bagagli, metterseli in spalla e ridiscendere dalla scaletta del vagone, abbandonati finalmente a noi stessi. Parigi ci attende.

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Ville de LumièreLa capitale francese è stata descritta così tante volte, da così tante persone e con così tanti aggettivi che trovo difficile tentare una descrizione anch’io. Rischierei di ripetere unicamente ciò che è già stato detto da innumerevoli altri artisti, scrittori, musicisti, attori, letterati e via dicendo. Non è necessario che mi metta a descrivere pedantemente la sua lunga e prestigiosa storia, o citare tutto quello che i grandi del passato e del presente hanno detto su questa famosa metropoli. Non è nemmeno necessario commentare il caos della stazione centrale, l’ampiezza e l’ariosità delle strade, la grande quantità di alberi, la quantità più grande ancora di escrementi di cane disseminati per le strade, sui quali scivolano e finiscono al Pronto Soccorso una media di seicento parigini l'anno. Parigi è anche questo. Non è nemmeno necessario descrivere il carattere dei francesi e la loro storia. Su di loro ci ha insegnato molto la Rivoluzione del 1789, quando i parigini insorsero armati di fucili, razziati dall’Hotel des Invalides, e rovesciarono i loro oppressori con la violenza, cominciando con l’assaltare la prigione della Bastiglia. Della suddetta galera, oggi non è rimasto nulla: il posto che occupava è ora diventato una piazza commemorativa, attorno alla quale è stata istituita una rotatoria stradale. Tuttavia, con un po’ d'attenzione si può notare una linea tracciata per terra, che indica i vecchi confini della prigione. Purtroppo, i francesi hanno ben poca propensione a parlare inglese, come ci accorgiamo già dal primo contatto con il bigliettaio della stazione parigina. Non ne vuole proprio sapere di parlarci in qualsiasi lingua che non sia francese, nemmeno per dire due semplicissime parole in croce. Saranno luoghi comuni, ma ne incontriamo troppi per credere che non sia vero. Con qualche difficoltà, poiché nessuno di noi due parla francese, riusciamo comunque a farci capire ed otteniamo ciò che vogliamo. Evidentemente, sarà un viaggio in gran parte all’insegna del linguaggio a gesti. Parigi non mi è nuova: esattamente dieci anni fa la visitai, come parte di una breve vacanza durata una settimana, nella quale toccai anche le città di Versailles e Vezelay. Conservo ancora qualche frammento mnemonico di quel viaggio, ma non è certamente sufficiente a ricordarmi nei dettagli tutto ciò che vidi ai tempi, e che adesso ho la possibilità di rivedere con maggiore consapevolezza e maturità. La città è notoriamente enorme, ma il nostro alloggio è

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servito abbastanza bene dalla metropolitana, dunque non fatichiamo molto ad arrivarci. Si tratta di un ostello piuttosto povero: la camera è a dir poco spartana e si apre con quelle maledette chiavi magnetiche, che tanto ci hanno fatto dannare l’anno scorso. Stranamente, però, adesso sembrano funzionare a dovere. Nonostante non sia eccelso, l’alloggio non è affatto economico. Dobbiamo ricordarci di essere in una delle maggiori capitali europee, dove non è facile spendere poco, ma abbiamo le nostre risorse per risparmiare qua e là, come il sacco a pelo che stavolta ci siamo portati per fronteggiare eventuali notti gelide all’addiaccio. L’anno scorso, una ci è bastata e avanzata.

Tour EiffelAcclimatatici un po’, decidiamo di non perdere nemmeno un secondo e di esaurire subito qualche succulento boccone di Parigi. Il viaggio è appena cominciato, le energie sono a mille, le cose da vedere sono tante e i giorni sono solo apparentemente numerosi. Qualsiasi durata abbiano i nostri viaggi, sono sempre ipercompressi, non c’è mai un momento libero. La prima scelta cade sulla blasonata Tour Eiffel, il monumento più visitato al mondo. Non so se siano più numerosi i turisti oppure i venditori ambulanti, che tentano in tutti i modi di sbolognare ai passanti immaginette della torre, modellini in varie scale, bracciali e chi più ne ha più ne metta. A volte, i venditori sono così carichi di merce che se l’appendono tutta addosso, trasformandosi in maracas ambulanti che fanno rumore ad ogni alito di vento. Riusciamo ad evitarli con qualche difficoltà, ma a complicarci la passeggiata ci pensano alcune donne, vestite con velo e gonna nera sdrucita, che si avvicinano chiedendoci insistentemente “Do you speak english?”. Nel caso che qualche malcapitato risponda di sì, esso viene istantaneamente tempestato di richieste caritatevoli. Alla quinta richiesta nel raggio di pochi metri, sono tentato di fingermi un turista russo, ma alla fine veniamo lasciati in pace e riusciamo ad approdare all’entrata della torre. La coda è chilometrica e il caldo è torrido, ma fortunatamente siamo rinfrescati da un provvidenziale vaporizzatore d’acqua, accolto come un’oasi nel deserto. Opera di un ingegnere ed imprenditore di nome Gustave Eiffel, costruita in appena due anni (dal 1887 al 1889) e alta ben 324 metri,

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la Torre non ha certo bisogno di presentazioni, essendo il simbolo universale di Parigi e della Francia intera. E dire che non venne molto apprezzata quando fu costruita, poiché considerata esteticamente brutta e deturpante! Anche se tuttora qualche francese non l’apprezza (viene definita da taluni “l’asparago di ferro”), tutto il mondo sembra essersi messo d’accordo sul fatto che l’intera struttura sia un capolavoro d'architettura. Su tutti e quattro i lati, appena sotto il primo livello, sono incisi molti nomi di importanti cittadini francesi, specialmente matematici, fisici e scienziati. Tutti nomi che ci ricordano qualcosa, dalle ormai vetuste lezioni di fisica del liceo. Nel corso della sua vita, la Torre è stata anche protagonista di vari episodi curiosi: vale la pena di ricordarne uno in particolare, riguardante l’arrivo di Hitler in città durante la Seconda Guerra Mondiale. Per costringerlo a salire quasi duemila gradini, nel caso volesse arrivare in cima alla torre, i francesi disattivarono tutti gli ascensori motivando il “malfunzionamento” con la scarsità di pezzi di ricambio, dovuta al conflitto. Il Fuhrer decise, assennatamente, di rimanere a terra ed evitare l’ardua ascesa, e così si perse la magnifica visuale.L’ascensore ci porta al primo livello, destreggiandosi tra le intricate sbarre di ferro, mentre la Senna diventa progressivamente più visibile in tutto il suo serpeggiare per il centro di Parigi. Siamo pressati all’inverosimile all’interno dell’ascensore, tipicamente in stile “scatola di sardine”, ma è un disagio di breve durata. Infatti, poco dopo traslochiamo su un altro ascensore, che rapidamente fa il suo dovere portandoci all’ultimo livello, raggiunto solo dopo altre decine di minuti di coda. Dall’alto possiamo goderci una vista veramente notevole. Mi pare di ricordare che, nelle giornate perfettamente limpide, da quassù si riesca perfino a vedere lo stretto della Manica. Purtroppo, oggi non è esattamente una giornata che si possa definire limpida, perciò dobbiamo “accontentarci” della sola vista di Parigi. Il Sacro Cuore è perfettamente visibile in lontananza, sulla sua rocca posta in mezzo al leggendario quartiere di Montmartre. Spiccano anche i molti ornamenti d’oro sulle cupole delle chiese o in cima ai pilastri situati ai lati dei numerosi ponti sulla Senna, che non sono mai allineati bensì divergono tra loro. Appaiono un po’ fuori posto i Bois de Boulogne e Bois de Vincennes, con tutti questi alberi in mezzo alla città che formano un’isola verde e felice attorniata da costruzioni e grattacieli da ogni

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lato, ma almeno fungono da polmone verde della città. Stranamente, pur trovandoci a più di trecento metri d'altezza, non c’è nemmeno un alito di vento. Ricordo che quando mi trovai qui per la prima volta ci fu così tanto vento da rendere impossibile la permanenza nella metà ventosa della piattaforma, mentre ora c’è gente su tutti i lati. La calca è così intensa da rendere appena possibile uno scatto fotografico, prima di doversi ritirare nelle retrovie. Presto ci stufiamo di questo fiume umano e ce ne torniamo a riposare.

LouvreIl museo del Louvre è indiscutibilmente uno dei pezzi più forti di Parigi, ma difficilmente si riesce ad apprezzarlo appieno: è talmente vasto e ricco di opere che è facile perdersi o disperdere l’attenzione, trasformando la visita in una confusa serie di immagini che non possono essere tutte immagazzinate nella memoria. Peggio ancora, può capitare di non riuscire a trovare le opere più famose, e uscire quindi scornati e delusi. Per fortuna non è il nostro caso: oltre ad un’entrata gratis, garantita dal fatto che oggi è la prima domenica del mese, sappiamo anche dove trovare le opere maggiormente degne di considerazione, in quanto queste cruciali informazioni sono scritte nella nostra inseparabile guida Lonely Planet, un punto di riferimento per i viaggiatori indipendenti (anche se qualche volta sbaglia). La caratteristica piramide di vetro del Louvre, che continua anche nel sottosuolo formando un rombo, ci accoglie per l’ingresso, nemmeno troppo affollato di turisti. Strano ma vero, la densità umana è relativamente bassa. Fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere i capolavori ospitati da quest'impressionante ammasso d'arte, situato sulle rive della Senna. Già la prima opera, che torreggia in cima alle scale d’ingresso, non può non suscitare un qualche genere di emozione anche in chi, come me, non vive di pane ed opere d’arte. È la Nike di Samotracia, che raffigura la dea alata, personificazione della vittoria, mentre si posa sulla prua di una nave. L’immaginario vento la investe, incollandole i vestiti addosso, come traspare magistralmente da questo vecchio blocco di pietra, che altro non è. La statua ha perso testa e braccia, ma non lo slancio né la forma maestosa ed ispiratrice di forza, che ben si sposano con la posizione in cui è stata messa: in cima ad una lunga scala, dalla

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quale non si può far altro che guardare l’opera dal basso verso l’alto, come a simboleggiare una sottomissione di chi l’ammira. Un’altra statua senza braccia, conosciuta praticamente da chiunque, è la marmorea Venere di Milo, magistralmente ricostruita nel diciannovesimo secolo dopo essere stata ritrovata spezzata in due tronconi. Le braccia non sono mai state ritrovate, ma ciò non toglie alla statua la sua bellezza. La grande mole di visitatori rende difficile apprezzare appieno tutte le fattezze del capolavoro, poiché siamo costretti a camminare di continuo per non essere travolti da orde di turisti giapponesi, che stanno fotografando ogni opera da ogni angolazione possibile e immaginabile. A volte sono davvero irritanti: regolano la macchina fotografica per minuti e minuti, pensando forse di essere dei fotoreporter professionisti e di dover scattare foto assolutamente perfette, pena la morte. Imprecando a denti stretti, riusciamo finalmente a liberarci dell’orda di fotografi incalliti, prede della sindrome di Stendhal, e a proseguire verso la galleria dei dipinti. Ci interessa logicamente trovare per prima cosa la Gioconda di Leonardo da Vinci, famosa in tutto il mondo non solo per la sua bellezza, ma anche per le numerose vicende che l’hanno vista protagonista, da quando nei primi anni del sedicesimo secolo fu dipinta a Firenze fino ad oggi. Nei primi anni del Novecento, infatti, il quadro è stato vittima di un furto da parte di un custode. Egli riuscì, incredibilmente, ad uscire dal museo con il quadro, semplicemente nascondendolo sotto la giacca, convinto com’era che un quadro dipinto da un genio italiano non dovesse essere di proprietà francese. Forse non sapeva che lo stesso artista aveva trascorso gloriosamente in Francia gli ultimi anni della sua vita, e vi aveva perfino portato la Gioconda di sua spontanea volontà, vendendola poi al re. Curiosamente, mentre la gendarmeria francese non sapeva che pesci pigliare per sbrogliare il caso, tra il mirino degli indagati finì anche il celebre pittore Pablo Picasso, ovviamente dichiarato poi innocente. Non sono mancati altri fantasiosi attentati: spruzzo d’acido che danneggiò piuttosto gravemente la parte inferiore, lancio di pietre, improperi da parte di squilibrati che passavano le giornate ad inveire contro Monna Lisa. A ragione, il quadro è ora protetto da un vetro blindato spesso ben venti centimetri, che dovrebbe garantirgli protezione contro qualunque tentativo di rovinarlo, perfino contro l’atomica. Gli squilibrati giocano pesante? Ebbene, “pesantizziamo” anche noi!

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Nonostante la sua fama planetaria, trovare la Gioconda non è affatto facile: è seminascosta in un anfratto di un lunghissimo corridoio, tanto che riusciamo a perderci più volte nel tentativo di rintracciarla, nonostante seguiamo pedissequamente tutte le indicazioni che conducono ai capolavori italiani. Forse i proprietari del museo hanno fatto apposta a posizionarla in un luogo appartato, per evitare che si formi troppo intasamento di visitatori? Riusciamo infine a trovarla, e la prima cosa che ci colpisce, oltre al nugolo di giapponesi in piena estasi fotografica davanti al dipinto, è la grandezza del dipinto stesso. La verità è che la Gioconda è piccola! Molto, molto più piccola di come la si immagina! Il suo enigmatico sorriso è stato interpretato in vari modi, dal più semplice ed innocente fino al più malizioso, passando per teorie abbastanza strampalate come quelle freudiane, secondo le quali il quadro simboleggerebbe la segreta attrazione sessuale di Leonardo verso la madre. Vabbè…Amore e Psiche di Canova è un altro capolavoro conosciuto in tutto il mondo. Con il suo marmo bianco lucido, raffigura le seducenti forme del dio alato Amore e della giovane Psiche, rianimata dal suo bacio sfuggente e appena accennato. Lo Schiavo Morente di Michelangelo, scolpito nell’attimo precedente la rovinosa caduta a terra, è un altro pezzo forte della scultura, espressivo e dalle forme perfette, aperto a molte interpretazioni sul significato di quella caduta. Cambiando zona geografica di provenienza, altri capolavori sono presto serviti: un grosso monolite nero di diorite, con incisi dei fittissimi caratteri cuneiformi, non è altro che lo storico Codice di Hammurabi, la più antica legge partorita dall’uomo. Piuttosto brutale, con la sua legge del taglione, ma indubbiamente di grandissimo valore per la progressione della civiltà, dagli albori fino ad oggi. Difficile non provare un senso di meraviglia di fronte a questi caratteri così diversi da quelli che usiamo noi oggi, sapendo che già millenni prima dell’anno zero questi simboli significavano qualcosa di ben preciso ed importante. Anche le sculture assire, raffiguranti strani esseri a cinque gambe, sono degne di una menzione. Ricordano vagamente le sfingi. Proprio a questo proposito, l’inconfondibile arte egiziana arriva subito dopo, con bassorilievi, sarcofagi e canopi, utilizzati per conservare le viscere dei faraoni dopo la morte. Ogni canopo è dedicato ad un organo diverso: cuore, fegato, cervello…

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Il culto della morte egizio può apparire insensato oggi, considerando in cosa consisteva. Migliaia e migliaia di uomini compivano fatiche immani per ammassare pietre, ricchezze, onori e gloria per un morto…ma che dire delle meraviglie che ci hanno lasciato?

Notre Dame de ParisIncredibilmente, riusciamo a visitare l’intero, enorme museo. Ce ne rendiamo conto all’improvviso, quando capiamo che non ci sono più stanze da vedere. Siamo piuttosto provati dall’impegnativa visita, tuttavia non passa molto tempo prima che la voglia di esplorare ci prenda di nuovo e ci porti verso l’Ile de la Citè. Lì si trovano altri due capolavori d'architettura sacra, che ricordo abbastanza bene dal mio ultimo viaggio, ma che ora posso anche immortalare, avendo a disposizione una macchina fotografica. Con una veloce corsa in metropolitana raggiungiamo la prima delle due mete, la celeberrima cattedrale di Notre Dame. Oltre ad essere una chiesa eccezionale, qui è ambientato il celebre e omonimo romanzo di Victor Hugo, che abbiamo letto entrambi e sulle cui pagine abbiamo passato molte ore, in attesa di scoprire quali sarebbero state le drammatiche vicende del deforme campanaro Quasimodo e dell’enigmatica zingara Esmeralda. Imponenti colonne, numerose statue decorative, un rosone di vetro colorato che tanto delizia lo sguardo con le sue mille sfumature. Un possente concerto d’organo accompagna la nostra visita, infiammando i nostri timpani con enormi note vibrate, che fanno tremare l’intera cattedrale. Dopo un’ora e mezza di coda, più un’interminabile serie di gradini di una strettissima scala a chiocciola, riusciamo perfino a salire sulle torri campanarie anteriori. Qui si trova la Grande Maria, la campana preferita di Quasimodo, e i suoi amici gargoyle, che scrutano l’orizzonte parigino con aria pensosa, a volte arcigna, a volte stupita. Alcuni gargoyle hanno il collo particolarmente lungo e si sporgono curiosamente dal bordo. Se non fossero saldati alla dura roccia, cadrebbero come pere mature. Da dove ci troviamo ora, Quasimodo scagliava ogni genere di macigno contro il popolo della Corte dei Miracoli, che assediava la cattedrale convinto che Esmeralda fosse stata sequestrata e tenuta prigioniera a Notre Dame. E sempre da questo punto godeva di una

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vista fenomenale sulla città, in perfetta solitudine, disponendo di un unico amico, l’ambiguo arcidiacono Frollo. Chissà se qualcuno, un giorno, impugnerà questo libro e dirà, al cospetto della cattedrale: “Questo ucciderà quello!”, come recita l’intenso passo di Hugo.

Sainte ChapelleQuesto piccolo capolavoro d'architettura gotica è, a mio parere, quanto di più emozionante si possa trovare in questa città. Risalente alla metà del tredicesimo secolo e fatta costruire da Luigi IX, originariamente doveva essere la cappella del Palazzo Reale, che però poi venne distrutto. Ora, la cappelletta è circondata dal Palazzo di giustizia, le cui entrate sono pesantemente sbarrate da cancelli con punte dorate ed aguzze. La parte inferiore possiede numerose volte e un soffitto decorato con croci su sfondo blu, ma il meglio si ha nella cappella superiore, più piccola e circondata da vetrate colorate su ogni lato. La muratura che non è altro che una semplice struttura di sostegno, e il ruolo principale è giocato dalle vetrate: altissime, coloratissime, decoratissime. Questo posto mi ricorda molto la Cappella Sistina, che ha un’importante analogia con la Sainte Chapelle. Entrambe, infatti, raffigurano l’intera Bibbia nelle loro vetrate. Il gigantesco rosone sulla parete dell’entrata rappresenta l’immenso caos dell’Apocalisse, e tutto l’insieme di questo magico luogo sarebbe di gran lunga più emozionante se non fosse costantemente pieno di persone, che vociano e ciarlano in ogni lingua immaginabile, senza tacere un attimo. Mi chiedo come sarebbe questa cappella se non ci fosse nessuno e si potesse rimanere a meditarci in santa pace. Probabilmente acquisterebbe un’atmosfera ed una bellezza incomparabili, stimolando pensieri cristallini. Ma non succederà mai: sono troppe le persone che vengono a vedere queste meravigliose vetrate, noi inclusi. Ma ciò non toglie che rimpiango di non poter stare qui dentro da solo, senza bisogno di niente se non di un paio di occhi e qualche raggio di sole che mi permettano di imprimere nella mente le mirabolanti immagini che mi giungono alla retina.Usciti dalla Sainte Chapelle, è tempo di tornare in ostello per rilassarci un po’, discutendo come al nostro solito degli argomenti più disparati, che questa sera toccano ciclismo, doping ed effetti della chimica sull’organismo. Non c’è una particolare logica con cui

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intavoliamo i discorsi, né alcuna correlazione con ciò che abbiamo visto durante la giornata: semplicemente, arriva un argomento e se ne parla. Dobbiamo per forza parlare tra noi, poiché non abbiamo compagni di stanza. Ma dopo tutto il camminare che abbiamo fatto oggi, presto i discorsi finiscono per lasciare spazio ad un buon sonno.

ParigiConsumata velocemente una scarsa colazione, offerta gratuitamente dall’ostello, oggi abbiamo nuovamente intenzione di sfiancarci, poiché ci sembra di aver dormito bene e che sia un peccato lasciare qualche briciolo di energia non speso. Senza perdere tempo, ci tuffiamo nelle intricate linee della metropolitana e riemergiamo nei dintorni del Pantheon, proprio nel centro del Quartiere Latino. È una zona molto ricca di scuole ed università, e si chiama così poiché il latino era la lingua nella quale professori e studenti comunicavano tra loro, prima della Rivoluzione. Accanto al Pantheon si trova la biblioteca, sulle cui pareti sono incisi numerosi nomi di personaggi illustri della letteratura. Il Pantheon è ancora chiuso ai visitatori, così passiamo una mezz'oretta seduti sul marciapiede ad osservare l’interminabile processione d'autobus turistici, tutti stracarichi, che arrivano, fanno il giro attorno all’edificio e si allontanano in direzione opposta. I turisti hanno giusto il tempo di scattare una fugace fotografia, sicuramente distorta dal movimento e dai riflessi dei vetri.Quando ci è concesso di entrare, vediamo che l’interno del Pantheon è ampio e spazioso, discretamente decorato da statue e affreschi. Al centro oscilla un pendolo di Foucault: la sfera dorata è appesa ad un filo lungo quasi settanta metri, che si allaccia alla sommità della cupola. Esso è una delle prove più spettacolari ed evidenti della rotazione terrestre attorno al proprio asse, basata sul principio della forza di Coriolis. In parole povere, quella forza che nell’emisfero boreale fa turbinare l’acqua del lavandino in senso antiorario, e viceversa nell’emisfero australe. In realtà, la storia dei lavandini è una leggenda, poiché la forza è così debole da non poter essere osservata così macroscopicamente, ma l’esempio rende bene l’idea, poiché il principio è proprio quello. Noi ora vediamo il pendolo oscillare seguendo una linea, ma con il passare delle ore

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essa ruoterà più volte, senza che nessuno faccia nulla. Il pendolo prosegue il suo moto incessantemente, indifferente all’attrito dell’aria grazie alla presenza di un elettromagnete che mantiene il sistema in movimento. Altrimenti, dopo un po’ si fermerebbe tutto. Potrei rimanere a fissare l’ipnotico movimento per ore.Essendo il Pantheon un edificio adibito alla conservazione delle salme dei più importanti personaggi storici francesi, presto scendiamo nella gelida cripta per cercare i luoghi dove gli illustri riposano. Qui giacciono gli illuministi Voltaire e Rousseau, gli scienziati Carnot e Marie Curie, gli scrittori Hugo e Dumas, e tantissime altre personalità di spicco che abbiamo sentito nominare e celebrare mille volte, delle quali abbiamo letto i libri e le citazioni, ma che non avevamo idea riposassero proprio qui. Le loro tombe sono bianchissime, chiuse in piccole nicchie inaccessibili al pubblico e talvolta sormontate da statue che raffigurano i defunti. Loro sono morti da tempo, ma fortunatamente le loro idee, scoperte o scritture sono immortali.A poca distanza dal Pantheon si trovano gli splendidi Giardini del Lussemburgo, che circondano il Senato francese. Un luogo ideale per una mezz’ora di relax assoluto: cielo terso, molti alberi a fare ombra, specchi d’acqua e fontane, obelischi e fiori variopinti creano un ottimo cocktail rilassante. Approfittiamo della sosta per mettere qualcosa nello stomaco, tutto cibo rigorosamente comprato al supermercato per risparmiare il più possibile. Il budget di due ragazzi di ventun anni non è così elevato da potersi permettere di mangiare e dormire bene quando si è in viaggio, ma chi se ne importa? Abbiamo tutto il resto dell’anno per darci alle comodità. Il resto della mattinata passa velocemente, con una visita all’importante centro culturale Pompidou, che ospita un importante museo ricco di opere d’arte di varia natura ed epoca storica. L’edificio è un grosso parallelepipedo, munito di numerose appendici esterne, sulle quali scorrono delle scale mobili che gli conferiscono un aspetto molto moderno. All’interno troviamo opere di Matisse, Picasso e altri grandi della pittura, accanto ad altro materiale di dubbio gusto. Uno dei primi quadri che vedo raffigura un paesaggio, apparentemente ameno, peccato che in primo piano vi sia un uomo sventrato, del quale rimangono solo le gambe e la colonna vertebrale in bella mostra. Che senso ha? Tra ammassi di ferrivecchi arrugginiti, inquietanti video psichedelici e tele riempite

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con un solo colore e poi bucate, diamo giusto un’occhiata veloce e poi via. Dopo il consueto spuntino del supermercato, cambiamo direzione e puntiamo verso il pittoresco quartiere di Montmartre. La cosa che ci colpisce subito è l’incredibile quantità di stranieri che vi alloggia: non appena riemergiamo dalle oscure profondità della metropolitana, veniamo letteralmente circondati da magrebini, camerunensi, senegalesi, arabi. Molti di loro tentano insistentemente di venderci sigarette, declamando in un italiano stentato “Sigureta!”. Se una volta Montmartre era il quartiere dei poeti e degli artisti di strada, che vi alloggiavano per via del basso costo delle abitazioni, ora è il quartiere multietnico (e piuttosto degradato). Rispetto ai quartieri parigini più blasonati, il cambio d'atmosfera è piuttosto frastornante: non riusciamo più a trovare nemmeno un francese, anche se in realtà non ne sentiamo così tanto la mancanza. Nonostante la zona appaia abbastanza sicura, ci sentiamo un po’ come due pesci fuor d’acqua, e solo con fatica riusciamo ad emergere dalla travolgente calca, per approdare finalmente alla scalinata che conduce alla chiesa del Sacro Cuore. Ancora scale…ci sono sempre scale da fare in questa città, incessantemente. Per fare qualsiasi cosa bisogna salire una scala. Il fatto che Montmartre sia il punto più alto di Parigi non aiuta, ma con un po’ di fatica possiamo raggiungere questa sontuosa chiesa, dalle pompose forme barocche, e che internamente vanta la presenza di un mosaico tra i più grandi del mondo, che riveste la cupola. Immortalare il luogo è tuttavia difficile, poiché un attentissimo e pignolo custode sta controllando chiunque porti una macchina fotografica o una videocamera al collo, intimandogli perentoriamente di metterla via. I pochi che riescono a sfuggire al controllo la fanno franca solo per qualche secondo, prima che l’inflessibile controllore li redarguisca. Anche noi subiamo lo stesso trattamento, tuttavia riusciamo a portare a casa una furtiva fotografia della cupola, scattata praticamente alla cieca per non farci notare. Ritorniamo dunque indietro, passando per un viottolo molto “artistico”, nel quale numerosi venditori hanno esposto fuori dalla loro bottega alcuni quadri di gusto impressionista, raffiguranti Parigi. Suonatori ambulanti di fisarmonica allietano l’atmosfera e si guadagnano da vivere con l’elemosina dei turisti, mentre i classici ritrattisti sono perennemente in cerca di clienti da accalappiare e

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disegnare. Involontariamente, fracasso con i piedi una vaschetta di plastica, che una statua vivente sta usando come portasoldi. Tra mille scuse cerco di risistemargliela, con scarsi risultati, ma l’impassibile individuo non si scompone minimamente. Del resto, il suo lavoro è stare fermo.Dopo aver visitato “en passant” l’intricato cimitero di Montmartre e l’intramontabile Moulin Rouge, culla del cabaret, la giornata è ancora una volta finita. In ostello riusciamo perfino a dimenticare la chiave magnetica in camera e poi chiudere la porta dall’esterno. Fortunatamente, il gestore si fida della nostra buona fede e ci concede di usare il suo passepartout, in totale autonomia e senza controllo, per poter recuperare la nostra chiave. Vorrebbe venire lui di persona, ma ha troppi clienti per lasciare il bancone. Noi ci limitiamo ad aprire solo la nostra porta, ma con questa banda magnetica potremmo aprire qualsiasi porta dell’ostello e rubare di tutto, se solo avessimo l’inclinazione. Il gestore si è proprio fidato ciecamente, come un bambino si fida della madre.

ImpressioniL’indomani prendiamo la via per il Musee d’Orsay, ricavato da una vecchia stazione ferroviaria. Vi sono conservati tantissimi quadri dell’epoca impressionista e post-impressionista, forse l’unica corrente pittorica che mi abbia mai veramente appassionato. Mi ricordo di un quadro che dipinsi io stesso, quando ero alle medie, con tratti di pennellata incerti e grezzi, che però fu ampiamente soddisfacente per le mie attitudini artistiche. Raffigurava alcune barche che dondolavano su uno specchio d’acqua, ma non ricordo altro. L’unico particolare è che le prue delle barche puntavano verso la cornice inferiore del quadro, e che le increspature dell’acqua erano particolarmente visibili e marcate. Questo dipinto è opera di un famoso pittore impressionista, ma ora ho stampata in testa solo una vaga immagine di esso, e non mi ricordo né l’autore né tantomeno il titolo. Ciò mi dà una spinta ulteriore per osservare avidamente queste tele, sperando di trovare la “mia”, però senza successo: non c’è da nessuna parte. Ci sono quadri molto simili, a volte talmente somiglianti da farmi quasi dubitare, ma alla fine mi devo rassegnare. Nonostante tutto, i capolavori impressionisti sono impareggiabili. Mi affascinano quei tratti veloci, appena accennati,

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che devono colpire l’osservatore nell’insieme, tralasciando la cura dei dettagli. Partendo da un singolo dettaglio ed isolandolo dal resto, infatti, non è possibile distinguere alcunché del quadro. Bisogna osservare l’immagine nel complesso, e lasciarsi trasportare dalla fugace ed irripetibile impressione che il pittore coglie in quel momento. Forse è proprio questo che mi attira dello stile impressionista: la capacità di fissare i ricordi in un istante, di non lasciarsi sfuggire di mano il tempo, che è una brutta sensazione. Per immortalare il più possibile la cattedrale di Rouen, Monet scelse di dipingerla in ben cinquanta quadri diversi, tutti raffiguranti la stessa identica facciata, ma in condizioni di luce e colore differenti. È impossibile fissare tutti gli effimeri istanti che trascorrono in una vita, ma lui almeno ci ha provato, “cogliendo l’attimo”. A mano a mano che mi appaiono davanti scene rurali e ameni paesaggi, mi vengono in mente tante cose che un tempo esistevano ed ora non esistono più, come una vecchia casa in un paesino di montagna, fiancheggiata da un’intricata siepe punteggiata qua e là da fiori gialli e viola. Di questa vecchia casa cadente, ma piena di ricordi e storia, ormai è rimasto per l’appunto solo il ricordo. Un nuovo stabile l’ha sostituita, lindo e pulito, senza nemmeno una crepa nei muri. Non c’è più quell’instabile balcone sul quale i “grandi” mi raccomandavano sempre di non provare a salire, o avrei rischiato di sfondarlo e precipitare di sotto. Non c’è più la polverosa soffitta, popolata stabilmente da ragni e insetti in perenne conflitto tra loro, ma nella quale si potevano fare delle interessanti scoperte aprendo un vecchio baule e trovandoci dentro qualche antico libro d’avventure, oppure qualche giocattolo impolverato e consumato dall’energia selvaggia con cui è stato maneggiato. Non c’è più la piccola stradina ghiaiosa, che con qualche piccolo sforzo percorrevo per arrivare fino alla porta d’ingresso e da lì entrare nell’ampia cucina, dove dei mobili verniciati di verde acqua facevano da trono ad un bellissimo vaso di fiori, appena colti dal vicino campo. Tutto ciò si sarebbe potuto imprimere su una tela, per cogliere non solo l’anonima disposizione di pietre ed oggetti, ma anche il riflesso della luce e dell’ombra in quella particolare mattina di gennaio, o lo scorrere dell’acqua in quel pomeriggio d’estate. Invece ora tutto è perso, relegato a qualche instabile immagine mentale che col tempo verrà modificata e, forse, cancellata. Nulla rimane intatto nella memoria. Non lasciarsi sfuggire nemmeno un istante di vita, fissando nella memoria gli istanti più intensi, tentando di sottrarli il

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più possibile al distruttivo ed inesorabile trascorrere del tempo. Questo è ciò che questi grandi artisti volevano comunicare con le loro tele. Alla luce di ciò, non posso certo rimanere indifferente alle sensazioni che procurano questi sapienti schizzi d'olio e acquerello.

SerataResi ormai nevrastenici dal terrificante caldo cittadino, facciamo una veloce puntatina all’Hotel des Invalides, dov'è custodita la tomba di Napoleone Bonaparte, il sanguinario condottiero colpevole di averci provato una volta di troppo quando ormai era già quasi tutto suo. La forma di questa cassa di legno lucente è indefinibile: sembra un pasticcino, ma sono ben accette altre interpretazioni. Curiosamente, la salma del celeberrimo condottiero riposa qui, ma una sua piccola parte sta invece a New York, acquistata da qualche macabro collezionista, e lascio immaginare quale possa essere questa fantomatica parte! Siamo piuttosto stanchi e affamati, perciò prima di uscire nuovamente ci concediamo una lunga pausa in ostello. Mentre stiamo mangiando tranquillamente, si avvicina a noi una delle receptionist dell’ostello, una ragazza più o meno della nostra età, che ci ha riconosciuto come suoi connazionali. Finalmente troviamo qualcuno con cui parlare in italiano. Ciò che apprendiamo di lei è che è originaria di Milano ma ora vive a Parigi all’incirca da dieci mesi, e si nota da come parla il francese, in maniera sciolta e senza tentennamenti. Solo la pratica costante può dare questi risultati. Penso che il lavoro di ostellante non sia niente male: si imparano lingue diverse, si vedono tante persone provenienti da tutto il mondo, si possono ampliare gli orizzonti scambiandosi opinioni tra culture…ma forse non è sempre così. Come succede per ogni attività che si trasforma in lavoro, probabilmente non è così bello come sembra. Purtroppo possiamo chiacchierare poco, dato che continuano ad arrivare nuovi clienti. Per mezz’ora non è arrivato nessuno, e proprio adesso arrivano tutti assieme! Pazienza, ci consoliamo con una lunga passeggiata sugli Champs Elysees. Si va dall’Arco di Trionfo alla Place de la Concorde, chiamata così perché fu teatro di un orrendo massacro e si tentò in seguito di renderla un posto meno macabro, cambiandole il nome. Vedendola ora, luccicante e splendente, non si direbbe proprio che qualche

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secolo fa ci sia stata un’efferata strage. Tutto il viale ha quest’aspetto lucente e ricco: non mancano nemmeno le sorprese, come uno stand automobilistico che espone vetture messe in verticale, auto d’epoca, un impressionante motore a dieci cilindri e addirittura una vera Formula 1, nella quale ci si può sedere per provare una simulazione di guida su schermo. Voglio provare anch’io! Durante la coda osservo le prestazioni altrui e mi dico che io sarò sicuramente in grado di fare di meglio. Dopo una decina di minuti tocca a me: mi fanno infilare delle soprascarpe per non insozzare l’abitacolo, poi mi danno qualche informazione sul forte rinculo del volante, e finalmente posso scatenare i miei istinti da pilota. In due giri esco di pista almeno dieci volte. Tutto appare sempre così facile, quando lo si vede fare dagli altri…Terminato il viale, iniziamo subito a cercare un ristorante tipico francese. Sarebbe troppo vergognoso passare cinque giorni a Parigi tirando avanti sempre a fast food e cibo comprato al supermercato. Questa sera, costi quel che costi, vogliamo provare qualcosa di tipico. Dobbiamo girare un bel po’ prima di trovare un locale soddisfacente, ma infine arriviamo a scoprire un posticino carino, situato lungo un vicolo piuttosto buio e pieno di tavolini, adatti per romantiche serate al chiaro di luna. C’è posto solo dentro, e miracolosamente ci sono giusto due sedie per noi, nel pienone generale. Sul tavolo c’è un antipasto di olive speziate, e perfino qualche gessetto, che non si capisce bene a cosa serva. La giovane cameriera è gentile fin da subito con noi (addirittura parla inglese…miracolo), ma la lista è ovviamente scritta in francese. Per non perdere mezz’ora a chiedere cos’è questo e cos’è quello, ordiniamo praticamente a caso, confidando nel buon suono delle parole, che speriamo si rifletterà anche sul gusto delle pietanze. Ricevo come antipasto una gelida brodaglia di pomodoro alle spezie, talmente fredda da farmi venire quasi i crampi allo stomaco. Per giunta è tantissima. Gustosa certamente, ma non ce la faccio proprio a finirla. Arrivano poi i secondi piatti. Davide ha ordinato alcune specie di funghi poco identificabili serviti con carne, mentre a me arrivano dei canederli di pane con verdure e pasta, un blob indefinibile e talmente gommoso da far fatica a deglutirlo. Il sapore però non è male. Il problema è che ci vengono portate anche due enormi porzioni di patatine fritte, che non erano segnalate nel menu ed evidentemente sono offerte indipendentemente da ciò che si

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ordina. Basta, non se ne può più! Siamo venuti qua per evitare di mangiarne ancora! Tutto questo cibo salato, inoltre, causa una sete ardente. Non ho il coraggio di fermare le cameriere per chiedere dell’altra acqua, vedendo che sono talmente oberate di lavoro da non potersi fermare nemmeno un secondo. Mi ricordano molto le mie giornate in ospedale, nei turni in cui il diavolo ci mette la zampa e c’è veramente confusione. Noto la stessa frenesia, la stessa ansia di fare tutto quello che bisogna fare nel minor tempo possibile, gli stessi passi veloci e gli ancora più veloci monosillabi lanciati ai clienti che chiamano, come quando due persone stanno male contemporaneamente e c’è la nonnina attaccata al campanello che deve andare al bagno ogni cinque minuti. Per solidarietà con i miei “colleghi”, sto zitto e sopporto un po’ la sete, fino a quando proprio non si fa bruciante. Sono sicuro che hanno gradito, seppur inconsapevolmente. Dopo aver terminato la pantagruelica cena con un ottimo sorbetto al limone, arriva il momento di pagare il conto. La nostra cameriera ci informa, guardandoci negli occhi con un’espressione molto intensa, che la mancia non è inclusa. Purtroppo, oltre alle banconote di grosso taglio ci sono rimasti solo pochi spiccioli. Dare una mancia così ridicola è imbarazzante, ma non faccio in tempo a decidere cosa fare che la ragazza è già tornata per riscuotere. Prende le monetine, fa un sorriso forzato e ci ringrazia con un secco “Thank you”. È un chiaro segno che s’è irritata, altrimenti avrebbe detto “Merci”. Inutile tentare un atto riparatore, se n’è già andata. Non ci rimane altro da fare che prendere la porta e uscire. Così si conclude la nostra permanenza a Parigi. L’indomani riusciamo a salutare velocemente l’italiana receptionist, e poi via, verso nuove mete.

VersaillesOggi ci aspetta la magnifica Reggia di Versailles, ma la giornata è fin dall’inizio piuttosto difficile. Per cominciare, il nostro treno ferma a circa un chilometro e mezzo dalla Reggia. Anche se la strada per raggiungerla è tutta in discesa, ciò non rappresenta una grande consolazione, poiché al ritorno quel chilometro e mezzo dovremo ripercorrerlo in salita, appesantiti dagli zaini. Ovviamente la stazione è sprovvista di lockers per i bagagli, dato che quando servono non

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ci sono mai, e così continuiamo a camminare, sperando che almeno nella Reggia ci sia un posto dove stipare i nostri mostri da spalla. Versailles non è di per sé una cittadina attraente: ha l’aria sporca e mal tenuta, le strade sono piene di barboni che chiedono l’elemosina tra odori nauseabondi, le costruzioni sono architettonicamente brutte. L’unica attrattiva è la maestosa Reggia, simbolo della potenza del leggendario Re Sole Luigi XIV, il quale impiegò una quantità enorme di risorse e di fondi pubblici per costruirla e mostrare così a tutto il mondo la sua potenza e nobiltà. Quella corsa al prestigio oggi può apparire vanagloriosa, ma ha comunque permesso che venisse costruita una vera meraviglia.Nonostante la Reggia non mi sia nuova, percepisco subito che è diversa dall’ultima volta che l’ho vista. Stavolta è molto più affollata. L’ampio piazzale è infatti stracolmo di persone, disposte in una lunghissima e scoraggiante coda a serpentone. Non ci sono indicazioni per capire da dove si entri, così ci mettiamo anche noi in coda, sotto il sole, con gli zaini pesanti in spalla e senza bere. Dopo un’ora passata così, siamo già sfiniti e daremmo qualsiasi cosa pur di poter incenerire la folla e passare al primo posto. Ad un certo punto, una voce annuncia dall’altoparlante: “Ricordiamo che i giovani sotto i ventisei anni possono entrare direttamente, senza fare la coda”. Lì per lì pensiamo ad uno scherzo, o di non aver capito bene. In ogni caso, non ci muoviamo dal nostro posto. Se anche fosse vero, ormai la coda è quasi finita e non è saggio abbandonarla proprio adesso, col rischio di ritrovarci doppiamente turlupinati. Dopo un altro quarto d’ora infernale, finalmente la biglietteria è conquistata. Una signora giapponese, che ha il compito di smistare i turisti, ci chiede l’età, e quando gliela comunichiamo ci spedisce immediatamente dall’altra parte della piazza, dove c’è una coda molto più breve. Abbiamo fatto un’ora di fila per niente. Nel minuto di strada che ci separa dall’entrata, Davide insulta vivacemente tutto l’albero genealogico francese a partire da Carlo Magno, senza mai riprendere fiato. Se solo questi genialoidi avessero messo qualche indicazione chiara all’ingresso...ma non è finita qui. Ci sono ancora i bagagli da depositare, poiché non possiamo visitare la Reggia con gli zaini pesanti sempre addosso. Meravigliandoci di non trovare nessuno che lascia gli zaini oltre a noi, ci dirigiamo al piccolo bancone del deposito. Il luogo è presidiato da una gentilissima signora francese, che per metterci a

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suo agio continua a farci cenno di no e a parlare esclusivamente in francese, bofonchiando qualche frase incomprensibile. Temiamo che i bagagli siano troppo grossi e che quindi non ce li vogliano tenere, ma dopo un minuto di tentati chiarimenti guardiamo alla nostra destra e vediamo un’altra coda chilometrica, parallela a noi. È quella la vera coda per il deposito bagagli. Quando finalmente riusciamo ad entrare, siamo già distrutti. Non è il miglior modo di cominciare la visita, ma l’importante è che siamo infine riusciti ad entrare.Le numerosissime stanze sono sfarzose fino all’eccesso, con letti a baldacchino, statue placcate d’oro, intarsi, quadri, preziosi tappeti e arazzi, mobilio antico e tanto altro ancora. La meravigliosa sala degli specchi è l’emblema dell’intera Reggia: i suoi lampadari di cristallo pendono sulle nostre teste da una discreta altezza, mentre il lunghissimo salone ha pareti interamente tappezzate da specchi, che formano interessanti illusioni ottiche. Esse si apprezzerebbero molto meglio se il salone non fosse quasi completamente pieno di persone, in particolare di infervorati giapponesi. È meglio recarsi alla Reggia quando non c’è ancora nessuno, poiché gli ingorghi di persone smorzano almeno di metà la bellezza complessiva dell’opera. Mi ricordo bene di quando, in occasione del mio precedente viaggio in Francia, sbagliammo a puntare la sveglia e ci alzammo con ben due ore d'anticipo, traditi dall'ora legale. Una volta svegli, decidemmo di muoverci comunque subito verso la Reggia, poiché sarebbe stato poco sensato riaddormentarsi e poi risvegliarsi di nuovo. Così facendo, ci godemmo una splendida visita: la Reggia era praticamente vuota. Quando dopo due ore uscimmo, non dimenticherò mai la scena delle orde barbariche di turisti giapponesi che si stavano velocemente avvicinando, riempiendo il piazzale in pochissimi minuti. Se fossimo arrivati all’ora che avevamo stabilito inizialmente, ci saremmo trovati nel bel mezzo di una calca insopportabile, proprio quella che invece ho trovato oggi. Ma la Reggia rimane comunque un pezzo molto grosso, affollata o meno. Anche i giardini, curatissimi ed estesi per centinaia e centinaia di metri fino quasi all’orizzonte, sono ragguardevoli. Peccato solo che la bianchissima ghiaia rifletta il sole negli occhi con un’intensità abbacinante, da far fatica a tenere gli aperte le palpebre. Mi manca giusto una congiuntivite per coronare

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al meglio questa difficile giornata. Meglio non trattenersi troppo e partire subito per Chartres.

L’angolo rossoDistrutti dal caldo e dal lungo tragitto in salita occorso per tornare alla stazione, ci lasciamo finalmente cadere su uno dei pochi posti disponibili del treno per Chartres. Ci troviamo in corrispondenza delle porte e siamo costretti ad utilizzare i sedili reclinabili, a causa della mancanza di luoghi migliori. Lo spazio per gambe e zaini non è ottimale, ma in qualche modo ci sistemiamo ugualmente, soffrendo però un caldo senza precedenti. La poca acqua che ho bevuto durante il giorno contribuisce ad aumentare la sensazione di malessere. Ho un po’ di nausea e sono in preda ad una sete inestinguibile. Trangugio di malavoglia gli ultimi rimasugli d'acqua clorosa che stagnano in fondo alla bottiglietta, ma non mi aiutano affatto a placare la sete. Il viaggio pare non terminare mai. Ogni volta che sentiamo il treno rallentare pigramente fino ad arrestarsi in una delle innumerevoli stazioni intermedie, l’impazienza ci prende e vorremmo solo che il treno ripartisse alla massima velocità, senza più fermarsi, fino a Chartres. Purtroppo, le stazioni “disturbatrici” sono veramente tante. In questa condizione trascorriamo ancora un’oretta. Ad un certo punto decido di recarmi al bagno, che si trova appena dietro il mio sedile. Non accorgendomi della presenza della banda rossa in corrispondenza della serratura, la quale segnala che il bagno è chiuso dall’interno, abbasso la maniglia con forza, facendo un gran rumore. Immediatamente sento un incomprensibile grido provenire dall’interno del bagno, e prima che possa muovere un passo per tornare al mio posto, la porta del bagno si apre e ne fuoriesce un tizio sui venticinque anni, dalla carnagione leggermente scura ed olivastra. Ha un che di straniero, forse ha origini nordafricane. Piantandomi addosso uno sguardo irato, comincia subito a tempestarmi di parole, e ovviamente parla solo in francese. Che vuole questo adesso? Evidentemente è irritatissimo per qualcosa che ho appena fatto, altrimenti non avrebbe mollato la sua “attività” solo per venire a rompere le scatole a me. Non capisco nulla del suo discorso, ma intuisco che accenna al fatto che potevo tirargli una mazzata in testa se lui non avesse chiuso a chiave la porta. In effetti,

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il gabinetto è minuscolo e la porta si apre verso l’interno. In ogni caso queste sono solo mie supposizioni, poiché il ragazzo parla così velocemente da non lasciarmi modo di intendere nulla. L’unica cosa che capisco senza bisogno di traduzioni è che è incavolato nero con me. Quando finalmente finisce la sua arringa e si zittisce per vedere cosa gli rispondo, decido di dirgli la verità, cioè che non ho capito assolutamente nulla di ciò che ha detto. Glielo dico in italiano, e lui risponde “Ok…see you later”. A parte aver tentato di aprire la porta con un po’ troppa foga, non riesco a trovare qualche cosa che possa averlo fatto arrabbiare, forse ce l’ha con gli italiani o più probabilmente è già incavolato per i fatti suoi, e se l’è presa con me perché sono il primo che ha trovato sulla sua strada. Tuttavia, decido che è meglio non rimanere lì ad aspettarlo e me ne torno a sedermi al mio posto. Poco dopo, lo strano figuro esce dalla toilette. Davide, che dalla posizione in cui si trova può vedere la carrozza che ho alle spalle, mi comunica che è andato subito a sedersi in fondo al vagone, piuttosto lontano da me. Dalla sua posizione il tizio non può vedermi, a meno che non si metta a cercarmi carrozza per carrozza. Non tento di tornare al bagno per non incrociarlo di nuovo. Non si sa mai che genere di teste calde si possono incontrare, magari spalleggiate da altre persone…meglio evitare possibili guai.La lieve tensione che mi è salita dopo il piccolo incidente non fa altro che peggiorare le mie già precarie condizioni fisiche. Inizio a sudare un po’ più abbondantemente di prima, ed ora come non mai non desidero altro che il treno si fermi a Chartres, e che possibilmente l’antipatico personaggio non scenda alla mia stessa fermata, così da non rivederlo mai più. Il caldo ora si è fatto veramente insopportabile, e per giunta abbiamo finito le scorte d’acqua. Finalmente, però, arriviamo alla benedetta stazione di Chartres. Non appena le porte si aprono, scendo velocemente dalla carrozza, felice di essere finalmente smontato da quel treno, che tra calore e incontri ravvicinati mi stava veramente dando sui nervi.

ChartresGià notevolmente rinfrescati dal solo contatto con l’aria esterna, ci sediamo su una panchina della stazione per decidere quale sarà la nostra sistemazione. Dopo aver valutato distanze e prezzi,

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scegliamo un alberghetto economico proprio di fronte alla stazione. Mentre risistemiamo lo zaino sulle spalle, scorgo di nuovo il tizio di prima, sceso con noi insieme alla stragrande maggioranza dei passeggeri. Mi passa vicino guardandomi fisso per qualche secondo, ma poi si accorge che non sono solo, e si allontana in direzione opposta. Lo vedo salire su un autobus e sparire, questa volta definitivamente. Davanti all’albergo c’è un uomo di mezza età, con i capelli raccolti in una coda e l’aspetto vagamente trascurato, che sta fumando tranquillamente una sigaretta. Evidentemente è il proprietario, poiché nota subito la nostra indecisione di fronte al cartello con i prezzi e ci chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. Tanto per cambiare, l’uomo non parla una parola d’inglese, ma dopo un po’ capiamo che ci sta offrendo una camera con letto matrimoniale. Un po’ scomoda, ma più economica di una normale camera doppia con letti separati. Davide tentenna un po’, notando che l’albergo sembra piuttosto malridotto e fatiscente, ma dopo qualche mia insistenza si convince che è meglio buttarsi sull’opportunità. Finiamo quindi con l’accettare l’offerta ed entriamo per pagare e firmare le dovute carte. L’uomo tenta di spiegarci le regole dell’albergo con i gesti, uniti ad un francese perfettamente scandito, che risulta molto più comprensibile del francese sparato a tutta velocità dallo squilibrato sul treno. Poi sale con noi fino alla camera per mostrarcela, e casualmente nel momento dei saluti dice una parola in spagnolo. Subito gli rispondo nella medesima lingua, e scopro così che l’uomo è di origine spagnola e abbiamo finalmente trovato una lingua in cui possiamo comunicare! Aver studiato lo spagnolo per qualche mese da autodidatta mi è stato utile. Parlando in modo abbastanza fluido nonostante la scarsa pratica, intavolo una conversazione con lui, e ci capiamo perfettamente. Quasi mi rimprovera, bonariamente, per non averglielo detto prima! Già che ci sono, approfitto per chiedergli se domani mattina avremo problemi nel caso in cui dovessimo ripartire molto presto. L’autobus che ci interessa, infatti, parte alle sei e mezza. Ci risponde che non c’è nessun problema e possiamo uscire a qualunque ora. A questo proposito, ci mostra perfino un curioso trucco per far scattare la serratura della porta anche dall’esterno, senza usare le chiavi, in modo da potercene andare a qualunque ora senza bisogno di nessuno. Che albergo singolare. Peccato che abbia anche i soliti

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inconvenienti tipici degli alberghi economici, come la vaporosa carta igienica rosa che non ne vuole proprio sapere di andarsene dal water, nonostante tiriamo lo sciacquone decine di volte. Ancora piacevolmente sorpresi dallo sviluppo della situazione, non ci sdraiamo nemmeno sul letto, nonostante la stanchezza accumulata. Le forze ci sono tornate rapidamente. Quella che era iniziata male e continuata peggio si è improvvisamente trasformata in un’ottima giornata, e cavalcando l’onda partiamo immediatamente con la visita di Chartres. La principale attrazione della città è la splendida cattedrale duecentesca. Le sue due guglie hanno stili differenti: una è romanica, l’altra è gotica. Questo imponente e meraviglioso mucchio di pietra è crollato ed è stato ricostruito per ben quattro volte, prima di trasformarsi in ciò che vediamo ora e che fortunatamente resiste dall’anno 1260, durante il quale la chiesa venne definitivamente consacrata. La cattedrale ha rischiato nuovamente di essere distrutta durante la Rivoluzione, quando si voleva eliminare l’immagine dell’opulento clero, ma si è salvata unicamente per la lentezza delle mostruose pratiche burocratiche che tanto piacciono ai francesi. Le lungaggini, infatti, furono tali che l’idea di distruggere la cattedrale venne dimenticata prima che i funzionari riuscissero a sbrogliare tutte le formalità necessarie. Sono perciò rimaste le preziosissime vetrate istoriate, considerate le più importanti di tutto il tredicesimo secolo; i possenti pilastri, che sembrano in grado di reggere pesi immani; le stranissime statue, che pullulano sulle pareti laterali esterne. Sul pavimento della navata centrale è disegnato un labirinto, simbolo del difficile cammino che l’uomo deve compiere per rimanere sulla retta via.Esternamente, la cattedrale inganna. Sembra che tutto ciò che ci sia da vedere consista nella facciata anteriore, ma in realtà la costruzione è molto estesa, conseguenza delle numerose ricostruzioni. Alcune sue parti, infatti, sono sopravvissute ai disastri e sono state usate come base per ricostruire il resto, perciò la cattedrale si è progressivamente “allungata”. Nei dintorni della cattedrale si snoda un insieme di viuzze suggestive, che percorriamo senza troppa fretta, anche perché ha iniziato da poco a salirmi un leggero mal di stomaco, come una sensazione di costrizione che non passa. Forse sto abusando delle mie forze e mi sono dimenticato troppo in fretta di quella strana sete incoercibile che

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sono riuscito a domare solo in apparenza. Ci districhiamo tra alcuni cespugli, accuratamente potati per assumere forme geometriche precise, poi attraverso canali e ponticelli, fino ad arrivare in una pittoresca zona dove si staglia qualche casa con alcune curiose travature scure, in rilievo sul fondo bianco. Mi ricordano molto le case di Bergen. Percorrendo strade molto ripide e passando di fianco a numerosi parchi e aiuole fiorite, il mio malessere aumenta ancora un po’, perciò ritorniamo indietro per costringerci a riposare degnamente. In albergo mi accorgo di essermi ammalato: anche quest’anno non sono riuscito a farmi il mio viaggio senza sorbirmi almeno un giorno di febbre. Forse è stata la giornata massacrante, combinata al caldo, o forse mi sarò preso il virus della febbre suina che tanto sta imperversando in questo periodo, specie in chi si avventura all’estero ed entra in contatto con molte persone. Scarto quest’ultima improbabile ipotesi, propendendo decisamente verso la prima, più banale ma più veritiera. La serata trascorre in modo incerto: prima tento di resistere bevendo molta acqua e tentando di non farmi vincere dal sonno, ma poi arrivano i brividi e il caldo, così mi rintano sotto le coperte. Stranamente, appena mi sono messo a letto fa capolino in camera il nostro albergatore, che apre la porta con il passepartout. Fatti pochi passi nella stanza si accorge che ci siamo noi e si blocca, con una certa sorpresa. Dopo averci salutato e chiesto come va, saluta e sparisce. Ma perché è entrato se poi non ha fatto niente? Potrebbe essere solo un controllo di routine…oppure era un tentativo di furto? Dobbiamo ricordarci che stiamo in un albergo molto sgangherato e l’eventualità non è del tutto impossibile.

Voce nel desertoGiusto per aiutarmi a riposare meglio, alle tre di notte vengo svegliato da un pazzo, che grida e sproloquia ininterrottamente proprio sotto la nostra finestra. Il delirante discorso è in francese, ma non occorre essere laureati in lingue per capire che quest’uomo è decisamente arrabbiato, e lo sta urlando a voce altissima, solo un po’ disturbata da un probabile eccesso d'alcool o droga. Drizzando le orecchie riesco a distinguere qualche fonema, ma l’unica parola comprensibile che riesco a registrare è “racisme”. Il resto è una

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confusione di suoni e vocalizzi, apparentemente senza senso. Ripete poi insistentemente parole che suonano “Scitoon” e “Vessaver”, che sono il suo intercalare più frequente. Più avanti scopriremo, con l’aiuto di qualcuno competente in lingua francese, che questi epiteti corrispondono probabilmente a “Sciè tout!”, che significa “andate tutti a quel paese”, e “Vers a ver!”, cioè “Versa un bicchiere”. Non c’è verso di attenuare il rumore: pur chiudendo ermeticamente tutte le finestre, continuiamo a sentirlo. Solo dopo una buona mezz’ora di continue urla, il buontempone viene finalmente raggiunto da altre persone, forse la polizia. I nuovi arrivati ripetono concitatamente “La veritè, la veritè!”. Forse stanno cercando di assecondarlo per farlo smettere. Alla fine ci riescono e lo conducono via, anche se per qualche minuto si sente ancora gridare in lontananza. Poi il silenzio. Forse l’alcool e la droga, di cui l’uomo è sicuramente imbottito, hanno finalmente avuto il sopravvento.

Quattro stagioniAlle sei di mattina la sveglia suona, impietosa. Nonostante siamo riusciti a riaddormentarci abbastanza in fretta, non abbiamo riposato granché questa notte, grazie al simpatico strillone notturno. Tuttavia, sembra che la febbre mi sia passata, anche se noto subito che qualcosa in me non gira per il verso giusto. In particolare, la frequenza cardiaca si è assestata su valori alti, che non diminuiscono mai, indipendentemente dalla quantità di liquidi che bevo e dagli sforzi che faccio. Riconosco i sintomi di un probabile colpo di calore da carenza di liquidi e sali minerali, ma per adesso non ho tempo di curarmi, poiché tra venti minuti partirà l’autobus per Tours. Recuperate in fretta tutte le nostre cose, scendiamo e troviamo l’albergatore che pare attenderci alla reception, nonostante l’ora da allodole. Strano che sia sveglio a quest’ora: ci ha perfino dato istruzioni per cavarcela da soli e uscire quando non c’è nessuno, ed ora invece è lì. Pazienza, meglio così. Lo salutiamo e ringraziamo per l’ultima volta, poi attraversiamo la piazza per prendere il bus, atteso da cinque o sei persone oltre a noi. Non mi sento molto bene, ma cerco di non pensarci. Non ho fatto uno straccio di colazione né voglio tentare di farla, poiché lo stomaco è chiuso in una morsa. Durante il tragitto tento di rilassarmi ascoltando un po’ di musica e conciliandola alla perfezione con il

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paesaggio: pianure sterminate, illuminate dal primo sole del mattino, che ben si sposa con le atmosfere rarefatte della canzone che ho scelto ora. Come al solito, ad ogni nota corrisponde un’emozione. Il brano successivo, lungo quasi venticinque minuti, mi fa vivere momenti molto intensi. La prima delle sette parti totali, l’Alba Cremisi, è introdotta da un delicato ma potente arpeggio di chitarra, che lentamente esplode in un intreccio strumentale ritmato e potente. Esso ha lo scopo di introdurre nel migliore dei modi Innocenza, nella quale il protagonista declama con forza la sua nuova sensazione di purezza e libertà. Egli ricorda di quando vide, ancora con la mente sgombra da pregiudizi, una bellissima alba, e di come si immaginò cosa sarebbe potuto succedere di grandioso nella sua vita. Sono le stesse sensazioni che provo ora, osservando il paesaggio. Ma ora il brano vira decisamente verso la depressione, come rapito da una dolorosa consapevolezza che matura all’improvviso: di quei giorni felici ora è rimasto solo il ricordo, e tutto è perduto. La paura invade il protagonista, ed egli sente che deve cogliere l’attimo fuggente, o dovrà fermarsi per sempre ad aspettare che maturi un grano che non è mai stato seminato. Carpe Diem, è il titolo della terza parte. La vita non sarà sempre così com’è ora, afferma con protervia il protagonista. E come dargli torto? Quando ripenso a ciò che in passato è stato bello e che ora è solo un ricordo, anch’io provo esattamente quello stato d’animo. Il viaggio dell’anno scorso è finito, in un attimo. E quello che sto vivendo ora, quanto durerà? Finirà anche lui così presto, impietosamente? Il più Oscuro degli Inverni seguirà a questa estate? E tutto evolverà, come nel brano che ormai ha superato la metà, in un niente, un vuoto di perdita che nulla sembra riuscire a colmare? La disillusione prenderà il sopravvento, catapultandomi in un Altro Mondo fatto di nichilismo, sfiducia e sotterfugi? L’Inevitabile Estate aiuta a cancellare per un attimo questi pensieri, con i suoi virtuosismi che temporaneamente saturano i sensi. Ma l’epilogo del Tramonto Cremisi non lascia scampo: arrivato alla fine della vita, è tempo di tirare le somme e di scoprire se si è lasciato qualcosa di valido in questo mondo. Il crescendo finale, rabbioso e appassionato, termina nuovamente con l’arpeggio di chitarra iniziale, chiude definitivamente il cerchio e presenta il conto.

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PrestigioCi fermiamo un paio di volte lungo la strada, per far salire e scendere delle persone e per cambiare autista, ma presto siamo già arrivati alla stazione centrale di Tours. Ora mi sento abbastanza bene. Questa città è la base per visitare tutti i numerosi Castelli della Loira. A volte i collegamenti con essi sono difficili, ma ci siamo informati molto bene e contiamo di riuscire a visitarne un buon numero. Scendiamo dal bus per recuperare i bagagli rimasti nel vano, ma qualcosa non quadra. Davide trova subito il suo zaino, ma il mio non c’è più. Guardo meglio, per accertarmi che magari non sia finito in qualche anfratto nascosto, ma niente. Istintivamente mi guardo attorno e giro attorno all’autobus per vedere se qualcuno per sbaglio non abbia preso il mio zaino, ma poiché siamo scesi per ultimi, ormai se ne sono già andati tutti. Il vano è rimasto desolatamente vuoto. Mantengo la calma, anche se ho già capito cos’è successo e non inizio nemmeno a darmi false speranze. Faccio capire all’autista, un po’ in inglese e un po’ a gesti, che il mio bagaglio è scomparso. Lui capisce quasi subito qual è il problema, e in preda alla sorpresa più totale si mette anche lui a cercare ovunque, ma senza successo. Non essendoci più opzioni, non possiamo fare altro che seguire l’autista nel punto informazioni davanti al quale ci siamo fermati, per cercare il responsabile della stazione e farci dare una mano a risolvere il problema. L’autista e l’impiegato comunicano tra loro, poi ci chiedono la nostra nazionalità, ed infine ci fanno aspettare per una decina di minuti. Sono matematicamente sicuro che il bagaglio è stato rubato. Se fosse stato semplicemente scambiato, sarebbe rimasto almeno un altro bagaglio al posto di quello erroneamente preso. Comincio a valutare mentalmente la situazione che si è venuta a creare: nello zaino avevo le fotocopie dei documenti, i vestiti di ricambio, la mantella impermeabile, il sacco a pelo, un asciugamano, le medicine e il kit di pronto soccorso, un paio di pile ricaricabili, e anche un po’ di soldi, imprudentemente lasciati in un portafogli di riserva. Mai e poi mai lasciare i soldi nello zaino, per nessun motivo. Ora l’ho imparato a mie spese!Nel frattempo che penso a tutte queste cose, cercando di capire come possa essere successo questo spiacevole imprevisto, arriva il responsabile della stazione. L’hanno scelto apposta per aiutarci a sbrogliare il caso, poiché è originario della zona del Garda e quindi

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parla un ottimo italiano, sebbene pesantemente contaminato dall’accento francese. Evidentemente, vive e lavora in Francia da così tanti anni che ha assimilato totalmente la nuova fonetica. Gli descriviamo sinteticamente la situazione, poi gli assicuriamo che nessuno sapeva dove questa mattina eravamo diretti e che non abbiamo fatto assolutamente niente di strano prima di salire sull’autobus. Siamo scesi solo a destinazione, non abbiamo parlato con nessuno, e prima di partire non abbiamo certamente visitato bar o altri posti simili, dove potremmo essere stati silenziosamente adocchiati da qualche ladro di bagagli appostato presso la stazione. Ci vengono in mente tante ipotesi e tante conseguenti contraddizioni: se veramente qualcuno alla stazione di Chartres ci ha tenuto d’occhio, perché ha scelto il mio zaino, molto più brutto e povero di quello di Davide? Siamo stati veramente puntati da un ladro che ha organizzato tutto fin dall’inizio, o si è trattata solo di semplice sfortuna? E chi avrebbe potuto rubare lo zaino, se non uno dei passeggeri che sono scesi nelle stazioni intermedie? Come avrà fatto a passare inosservato a ben due autisti? E l’albergatore, che questa mattina pareva aspettarci, potrebbe essere coinvolto? Ciò spiegherebbe quella strana levataccia che ha fatto. Sapeva che saremmo partiti presto. Sarebbe anche più chiaro il motivo della sua strana “irruzione” in camera la sera prima. Magari si è alzato presto apposta per mandare un complice sull’autobus, il quale ha rubato lo zaino in fretta e furia prima che partissimo, e poi ha riportato indietro i soldi al suo mandante. Ma nessuno sapeva che tenevo anche dei soldi nello zaino! Al massimo potrebbe averlo immaginato. E come avrebbe fatto a passare inosservato? La versione più probabile, sostenuta anche dal responsabile della stazione, è che qualcuno abbia approfittato di una delle soste intermedie e nella confusione generale abbia trovato qualche secondo per arraffare il bagaglio e allontanarsi velocemente. Ci potrebbe riuscire anche un pivello qualunque, con una sufficiente dose di destrezza e fortuna. Certo, sarebbe stato sicuramente più prudente da parte nostra scendere ad ogni fermata, per controllare che nessuno toccasse gli zaini, ma chi va a pensare che possa succedere una cosa del genere? Bisogna proprio girare con il costante timore di essere rapinati? A me non è passata nemmeno per la testa l’eventualità di un furto, e dire che di solito sono particolarmente attento a non farmi rubare niente e ad evitare individui poco raccomandabili. È il colmo che sia successo proprio

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a me, che in metropolitana tengo tutto il tempo la mano sulla tasca del portafogli! Ma c’è anche la ciliegina sulla torta. Il responsabile, infatti, ci assicura che è la prima volta in dieci anni che succede una cosa del genere. Sono proprio fortunato.L’uomo, al quale nella fretta non abbiamo nemmeno chiesto il nome, ci accompagna all’ufficio oggetti smarriti, facendoci da interprete. Devo riempire qualche modulo e poi recarmi al commissariato, a circa mezzo chilometro di distanza, per denunciare il furto a fini assicurativi. Purtroppo, egli non può accompagnarci personalmente dato che ha altri impegni, ma il suo aiuto è stato comunque prezioso. Lo ringraziamo e cominciamo svogliatamente a camminare verso il commissariato. Ci mancava giusto il furto, adesso. Fortunatamente, per non so quale segno del destino, ho ancora con me lo zainetto contenente tutti i documenti, la carta di credito, la macchina fotografica e il biglietto Interrail. Se mi avessero rubato anche quello, la nostra vacanza sarebbe probabilmente finita all’istante. Forse è solo grazie a questo, se ho mantenuto fin da subito la calma e non sono caduto preda dello sconforto. Non abbiamo ovviamente intenzione di interrompere la vacanza. Un misero ladruncolo non può rovinarci tutto così facilmente. Davide mi presterà un po’ di ricambi di biancheria, per il resto ci arrangeremo. Se non altro, ho risolto il problema dello zaino troppo pesante.

Al commissariatoLa receptionist del commissariato parla un inglese molto stentato, ma perlomeno si sforza di capirci e riesce ad incamerare che lo zaino mi è stato rubato e non l’ho semplicemente perso. Il modulo che ho portato dalla stazione, con la descrizione dell’avvenimento tradotta in francese, fa il resto. Dobbiamo aspettare una ventina di minuti prima che una poliziotta mi chiami nello studio, annunciando “Monsieur Gatì!”. Solo grazie all’intuito di Davide mi accorgo che cercano me. Io non l’avrei mai capito sentendo pronunciare il mio nome in quel modo. La situazione in cui mi trovo è abbastanza ridicola: in Italia non ho mai avuto rapporti significativi con la polizia, se escludiamo i classici alt alla dogana o per strada, né ho mai dovuto denunciare nulla, né sono mai stato vittima di furti. Mi tocca cominciare i miei rapporti con le forze

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dell’ordine proprio qui in Francia, dove tra l’altro l’inglese sembra essere considerato uno sconosciuto idioma d’alcune tribù primitive. Nello stanzino da interrogatorio, ovviamente, la prima cosa che chiedo alla poliziotta che mi riceve è “Parlez-vous anglais?”, sperando in un miracolo. La risposta, ovviamente, è negativa: dovrò arrangiarmi con i gesti anche stavolta. Più o meno capisco le domande che mi pone, perlomeno quelle a cui si può rispondere con un sì o con un no, ma la parte tragicomica arriva quando devo descrivere cosa c’era nello zaino. Per far capire alla brigadiera che avevo un sacco a pelo, Davide mima il gesto di dormire e fa finta di imbozzolarsi, mentre per mimare l’asciugamano non trovo di meglio che strofinarmi le braccia vigorosamente, come se stessi asciugando qualcosa. Alla fine comunque capisce…Oui, toilet! È più facile far capire soldi e fotocopie dei documenti: è sufficiente mostrare gli originali che ancora possiedo. Incertezza dopo incertezza, finalmente l’ufficiale riesce a redigere un verbale, che riesco a capire abbastanza bene. Ovviamente non mi aspetto nulla dalle forze dell’ordine, che non possono certo mettersi a dare la caccia ad un ladruncolo di zaini morto di fame che ha rubato poche centinaia di euro, perciò mi metto il cuore in pace e accetto che quello zaino non lo rivedrò mai più. Ironia della sorte, prima di partire avevo perfino appiccicato un’etichetta all’interno, con scritto il mio nome e indirizzo, nel caso lo perdessi. Una precauzione che si è rivelata molto utile! Una volta firmato il verbale originale e ricevutane la copia, non possiamo fare altro che salutare e andarcene in cerca dell’ostello, per darci almeno un po’ di tregua da tutte queste nuove emozioni sgradite. Ma nella sfortuna siamo stati fortunatissimi: ci viene in mente solo ora che l’indispensabile guida turistica si trovava nello zainetto per puro caso, dato che di solito la lascio nello zainone.

SonnoIn questo momento non desidero altro che stravaccarmi su un letto, un po’ perché voglio incassare il colpo senza scocciature, un po’ perché lo spiacevole malessere e la tachicardia mi sono tornati nuovamente. Arriviamo all’alloggio piuttosto stravolti, ma almeno alla reception troviamo una persona gentile, che parla bene l’inglese. Scopriamo ora che in realtà l’ostello è un vecchio dormitorio per

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operai, usato come ostello solo durante l’estate. La prima camera che ci viene proposta ha un letto solo, e tra molte scuse ci viene cambiata con un’altra, del tutto particolare. L’arredamento è a dir poco naif, con porte giallo canarino ed una geometria davvero singolare, dove predominano le linee inclinate. Traduco: si sbatte la testa contro il soffitto ogni due per tre. Il primo letto è a terra, mentre il secondo si trova in una specie di mansardina, raggiungibile solo con una scala da muratore. Non si capisce bene perché i costruttori non abbiano deciso di mettere tutto su un solo piano, dato che lo spazio sarebbe stato sufficiente, ma tutto sommato la camera è ottima ed incredibilmente economica. L’unica nota realmente negativa è il caldo, soffocante e atroce. Il sole sta battendo fortissimo sulle due finestre, da ore. Anche se non abbiamo nulla per misurare la temperatura, possiamo affermare con certezza che supera i trenta gradi, e nella mansardina la temperatura è almeno di cinque gradi più alta. Davide si offre di dormire sopra, per non farmi stare ancora peggio di come già sto. Il nostro eroe tenta di aprire l’abbaino per far entrare un po’ d’aria, ma non appena ci prova cadono sul letto decine di ragni ed insetti morti, così desiste e si rassegna a soffrire il caldo. Io mi schianto sul letto senza più dare segni di vita, addormentandomi in pochi minuti. Davide non prova nemmeno a sdraiarsi, vista l’insopportabile temperatura, così torna al piano di sotto e si dedica ai cruciverba, per tentare di ingannare un po’ il tempo. Ma dopo pochi minuti anche lui abbassa la testa sulle parole crociate, vinto dall’aria torrida e dalla stanchezza, fino ad addormentarsi seduto, con la testa appoggiata sul tavolo e un braccio penzoloni. Dormiamo quasi un’ora e ci svegliamo praticamente all’unisono. Io mi sento ancora più rimbambito ed accaldato, per niente rigenerato dal breve riposo, mentre lui ha dei simpatici segni di pagine sul braccio e sulla testa, nei punti dove poggiavano. Una delle peggiori dormite della nostra vita. Nonostante abbia ancora i battiti del cuore velocissimi e il polso debole, ora mi sento abbastanza in forze per uscire a visitare Tours. Se non altro, ciò mi aiuterà a distrarmi. Tuttavia, la città in sé non offre molto di interessante, a parte la bella cattedrale, che però non riusciamo a distinguere dalle altre già viste. Presto ho di nuovo quella strana sete. Forse è meglio che non insista a bere l’acqua di rubinetto, piena di cloro. A mano a mano che camminiamo verso

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l’ostello, la sete diventa insopportabile e mi costringe a fermarmi nel primo chiosco che trovo, dove compro una bottiglia d’acqua fresca di frigorifero. In tre sorsate ne prosciugo metà. Facciamo una veloce spesa e torniamo subito alla base, dove finalmente mi stravacco per tutto il resto della serata senza più muovermi. Giornata fallimentare. I battiti del cuore non si sono ancora normalizzati, ma ho davanti una notte di sonno e spero che sia sufficiente a rimettermi in pista come si deve. Inoltre, i succhi di frutta concentrati mi aiutano a reintegrare gli elettroliti persi, perciò sono speranzoso di stare molto meglio domani. Questo finché non mi rendo conto che la mia urina ha assunto un simpatico colore arancione intenso.Potenti lampi e tuoni condiscono la nottata, insieme ad alcuni ragazzi che si mettono a parlare a macchinetta proprio sotto la nostra finestra, che si trova ad un piano elevato, ma non così tanto da impedirci di sentire tutto ciò che dicono. Sembrano discorsi molto concitati, ma le voci non sembrano quelle di gente ubriaca. Pare piuttosto che siano tutti impegnati in una mastodontica discussione filosofica ed esistenziale. I francesi studiano molta filosofia a scuola, ma ciò non significa che per forza debbano parlarne ad alta voce, quando c’è gente che dorme tutt’attorno. Fortunatamente, qualcuno dalle finestre vicine grida per zittirli, e presto possiamo dormire.

I Castelli della LoiraInspiegabilmente, stamattina sto benissimo. La fastidiosa tachicardia è definitivamente scomparsa, così come la sete. Tuttavia, non mi fido troppo e spesso mi metto due dita sotto la mandibola, in corrispondenza della carotide, per verificare se veramente i battiti non aumentano più. Davide non può fare a meno di ridere, vedendomi continuamente con queste due dita stampate sul collo e l’espressione assorta, ma io continuo imperterrito le mie indagini diagnostiche, e infine posso finalmente tranquillizzarmi. I sintomi sono scomparsi per davvero. I succhi di frutta e la notte di riposo hanno fatto il loro dovere. La già modesta arrabbiatura per il furto è quasi caduta nel dimenticatoio, e il viaggio può continuare nel migliore dei modi. E cosa c’è di meglio di tuffarsi nella meravigliosa valle della Loira? Sparsi per queste verdi colline ci sono più di

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trecento castelli. Alcuni sono poco più che residenze di campagna, altri sono veri e propri poderi sontuosi dalle eccezionali dimensioni. Non mancheremo di visitare i più belli, i più artistici e raffinati, i più storicamente importanti. Oggi cominciamo dal castello di Chenonceau, situato nella quasi omonima e minuscola cittadina. La piccolissima stazione in cui arriviamo è immersa nel verde, e l’atmosfera è proprio quella di un minuscolo paesino conosciuto solo perché ospita il castello, ma che senza di esso sarebbe solo uno degli innumerevoli ed insignificanti borghetti francesi. Dopo un lungo viale, fiancheggiato da altissimi platani che creano un tetto naturale unendo le loro fronde, appare il castello vero e proprio. Le sue numerosissime volte di pietra si appoggiano elegantemente sul fiume: se non sapessimo che il castello è stato costruito a partire da un ponte già esistente, ci sembrerebbero a dir poco strane. Tra ponti levatoi, fossati e torri di guardia, ci sentiamo quasi catapultati nel mondo di Age of Empires, storico e meraviglioso videogioco ambientato in epoca medioevale. Ampi giardini fanno da degno contorno, con bellissime forme geometriche e fiori bianchi e rossi, che circondano aiuole all’inglese e qualche rara fontana. L’impatto con questa solenne costruzione è notevole, peccato solo che delle orribili impalcature la stiano deturpando ignominiosamente. Fotografare il castello senza includere grossi pezzi di travi e pertiche arrugginite è un’impresa, ma il risultato finale è comunque soddisfacente. Le impalcature non tolgono però il piacere di osservare il gioco di specchi dell’acqua, le bianche pareti solo lievemente sbiadite, i numerosi abbaini e le piccole guglie. Nonostante la grandiosa apparenza dell’esterno, l’interno non regge il confronto: gli arredamenti sono un po’ poveri, mentre l’insopportabile ingorgo di persone rende la visita alquanto difficoltosa. La parte più interessante è la discesa alle cucine, dove possiamo vedere tutti i vecchi attrezzi culinari medievali, uniti a plastici di cibo che riproducono fedelmente ciò che si mangiava ai tempi. Cibo che probabilmente oggi sarebbe considerato buono solo per i cani.Gironzolando per il boschetto circostante, ci imbattiamo in un curioso labirinto dalle pareti di siepe. In un punto stanno in piedi quattro statue, incastrate su un colonnato con architrave. Queste strane sculture ci comunicano un vago senso di inquietudine: sembrano uscite direttamente da un libro di Tolkien, ma con una

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sfumatura macabra. Rimaniamo a fissarle per un po’, ogni tanto lanciando qualche furtiva occhiata al bosco silenzioso…ma ormai è tempo di tornare indietro. Inaspettatamente, il tempo a nostra disposizione è ancora molto e possiamo approfittarne per visitare anche il castello di Amboise, dove il grande Leonardo morì in gloria diversi secoli fa. Amboise è una cittadina molto più grande di Chenonceaux, e il suo castello si trova circondato dalle case, in cima ad un’altura. Per raggiungerlo dobbiamo farci qualche centinaio di metri a piedi ed attraversare un ponte, per poi perderci nelle intricate viuzze del centro. Fortunatamente, l’accesso al castello è segnalato molto bene, e in men che non si dica percorriamo una rampa ed entriamo. Per noi è ancora una volta tutto gratis, dato che in Francia i siti di interesse culturale sono quasi sempre gratuiti per i ragazzi dell’Unione Europea che hanno meno di ventisei anni. L’esterno del castello è poco appariscente, ma la vista della cittadina e del fiume è notevole. Dai parapetti si vedono tetti spioventissimi a perdita d’occhio, piuttosto inusuali per la latitudine a cui ci troviamo. Anche l’interno di Amboise non è stupefacente, ma in compenso qui si trova la tomba di Leonardo, conservata all’interno di una cappelletta e costituita da una semplice lapide di pietra, profondamente incassata nel pavimento lastricato. Già che siamo qui, approfittiamo per vedere la tenuta di Leonardo. Per raggiungerla ci tuffiamo nuovamente nelle strette vie pedonali, lungo le quali ogni tanto si intravede qualche suggestiva casa, ricavata direttamente nella nuda roccia. La vecchia dimora di Leonardo è immersa in un verdeggiante parco e conta numerosi edifici, alcuni dei quali ospitano i modellini delle sue invenzioni. Ce n’è per tutti i gusti. Il doppio scafo delle navi era utilizzato in guerra per difendersi dagli speronamenti, e tutt’oggi viene costruito per le navi petroliere come prevenzione di disastri ecologici (che però si verificano lo stesso, basta pensare a quando sciacquano le cisterne in mare aperto). Ci sono i cuscinetti a sfera: sembra incredibile che li abbia inventati già Leonardo. Anche il cambio meccanico, oggi utilizzato in tutte le nostre automobili, è opera sua. Queste invenzioni sono in gran parte conosciutissime, ma chi mai va a pensare al genio di chi le ha create? Oggi diamo tutto per scontato…ma ogni tanto farebbe bene fermarsi un po’ a riflettere.

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L’indomani tocca alla cittadina di Blois, dalla quale partiamo per un tour organizzato che toccherà i celebri castelli di Chambord e Cheverny. Prima però viene il castello della stessa Blois, che forse è il meno interessante del lotto, anche se presenta molti elementi stilistici diversi, che lo rendono un ibrido tra tutti i castelli che visitiamo. Chambord, invece, è assai più spettacolare. Il più grande dei castelli della Loira è situato in una riserva di caccia privata e circondata da boschi su ogni lato, i quali rendono questo mostro di pietra abbastanza difficile da raggiungere. Ma con un autobus organizzato le cose sono più facili: il logorroico autista, che non smette un attimo di spiegarci tutto quello che c’è da sapere sulla valle della Loira, ci scarica esattamente davanti a questo mastodonte bianco e azzurrino, ricchissimo di torri e gugliette e circondato da possenti mura. Anche qui, purtroppo, non mancano le impalcature. Chambord è il più “castello” dei castelli della Loira: sia gli interni che gli esterni hanno proprio lo spirito della fortificazione e del combattimento. Il castello fu costruito dai signori francesi come residenza protetta per effettuare le battute di caccia con i loro segugi, e la tradizione è rispettata ancora adesso, nonostante siano passati diversi secoli. Una spettacolare attrazione viene riproposta ogni giorno dagli addestratori dei cani da caccia. Su costoro si può dire innanzitutto che hanno un’ottima memoria: si ricordano, infatti, tutti i nomi delle decine e decine di cani, tutti apparentemente uguali, che compongono la muta. Come facciano a distinguerli non è molto chiaro, tuttavia non è qui che sta la loro vera abilità. Tutti i giorni verso le cinque del pomeriggio, infatti, si svolge un numero eccezionale, che però non descrivo subito. A causa della scarsità di tempo, infatti, non è a Chambord che vediamo questo spettacolo, bensì a Cheverny. Anch’essa, infatti, è un’antica tenuta di caccia, dove viene proposto lo stesso spettacolo visibile a Chambord.

La paura fa…novanta caniVista dall’esterno, Cheverny è una tenuta molto più modesta rispetto al sontuoso castello di Chambord, ma i suoi interni sono incomparabilmente più fini ed eleganti rispetto a quelli del gigante pietroso. Essendo tuttora una residenza privata di una ricca famiglia, le stanze sono arredate in modo estremamente raffinato,

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con mobili d'altissimo pregio ed innumerevoli suppellettili preziose. Un gioiellino che ammiriamo in ogni angolo. Ma torniamo alla scena forte, che consiste nel pasto dei cani, un’abbuffata del tutto particolare. Si svolge in questo modo: novanta cani della medesima razza sono rinchiusi in un recinto e lasciati digiuni per ore. Il recinto è collegato, tramite delle scale, ad un piccolo attico rialzato. Le scale sono sbarrate da un cancello, che alle cinque in punto l’addestratore apre, per far salire tutti i cani al piano superiore. Il cancello viene quindi richiuso, impedendo ai cani di scendere e costringendoli ad assistere a quello che succede di sotto, senza poter fare nulla. Nel cortile inferiore viene quindi scaricata una carriola di polli morti e spennati, innaffiati poi da chili di croccantini. Tutto il cibo viene accuratamente disposto per terra lungo una linea retta. Qui comincia lo spettacolo: l’addestratore, munito della sua lunga frusta, apre il cancello e i cani si fiondano da basso, scalpitando sulle scale in modo scomposto e spintonandosi a vicenda, ma finché la frusta rotea nell’aria non osano oltrepassare la linea immaginaria che li separa dalla striscia di cibo. Per un’interminabile ventina di secondi, i cani si ammassano sempre di più gli uni sugli altri e abbaiano disperati, ma non rompono le righe, resistendo stoicamente al richiamo del cibo fresco. Chissà cosa darebbero per avventarsi subito sulla carne ancora sanguinolenta, ma non osano farlo per timore di punizioni. Sempre roteando la frusta e gridando secchi ordini, l’addestratore arretra lentamente e i cani si avvicinano sempre di più ai succulenti bocconi, finché finalmente la frusta cade e di colpo la marmaglia di segugi si avventa letteralmente sul cibo, divorandolo voracemente in una mischia spaventosa, nella quale tutti cercano di strappare agli altri i migliori bocconi. La frenesia alimentare da cui gli animali sono presi è impressionante. L’esibizione ha un che di crudele, con tutti questi cani ammucchiati alla bell’e meglio e torturati con la privazione del cibo, ma forse è proprio questo che rende la scena così affascinante e stucchevole.Non abbiamo più di un paio di minuti per starcene ad osservare la truculenta scena, che comunque non dura molto, poiché il cibo viene interamente divorato nel giro di pochissimo tempo. Ma noi dobbiamo correre quasi subito a prendere il bus che sta per passare e riportarci a Blois. Ormai abbiamo terminato con i castelli della Loira, e possiamo dire di aver accumulato un buon bottino! La pedante voce dell’autista ci accompagna anche durante il ritorno,

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snocciolandoci cifre e aneddoti. Ormai quasi arrivati alla stazione di Blois, ci becchiamo pure un rimprovero “collettivo” perché stiamo parlando per i fatti nostri, quando invece dovremmo ascoltare. Mi sembra di essere tornato ai tempi delle gite scolastiche. Una volta ritornati a Tours, riusciamo miracolosamente ad aprire il portone dell’ostello, che per alcuni minuti era parso irrimediabilmente chiuso, poi laviamo qualche vestito e finalmente ci infiliamo a letto.

Saint MaloDopo aver cambiato un treno a Le Mans e un altro a Rennes, siamo già nella verde Bretagna, la regione più a nord – ovest della Francia. Arriviamo a Saint Malo di domenica, il che rende molto difficile trovare una sistemazione per la notte, ma non disperiamo. Sappiamo che la nostra buona stella non ci abbandonerà nemmeno stavolta. Le vie di quest'atipica città sono quasi deserte, lunghissime ed interminabili, fiancheggiate da case poste in maniera molto irregolare e discontinua. Il quarto albergo trovato lungo la strada è finalmente aperto: ci fiondiamo all’interno, dove veniamo ricevuti da un uomo di colore vestito in maniera elegantissima, in perfetto accordo con l’arredamento della lussuosa reception. Da una prima impressione capiamo già che il pernottamento ci costerà una fortuna, ammesso che non ci buttino fuori subito, ma vale la pena chiedere comunque. Ci viene risposto, in inglese, che per una notte in una camera doppia ci vogliono 135 euro in due, ma che c’è un altro albergo proprio a fianco che potrebbe fare al caso nostro, in quanto molto più economico. Un albergatore che consiglia a due potenziali clienti, palesemente sperduti e ridotti alla disperazione, un altro albergo dove si paga meno: onesto da parte sua!Effettivamente, il fratello minore del costoso hotel è molto più rustico ed economico. In camera troviamo un letto matrimoniale (ancora…) sul quale ci stravacchiamo per qualche decina di minuti, poi viriamo subito verso la cittadella fortificata, che si affaccia sul mare. Accompagnati da una brezza leggera e rinfrescante, stiamo ora osservando lo stretto della Manica, che l’anno scorso vedemmo solo dall’aereo. Passeggiamo lungo un’interminabile spiaggia sabbiosa, nella quale sono conficcati innumerevoli tronchi d’albero che corrono parallelamente alla strada sopraelevata per tutta la sua lunghezza. Poco lontano si intravede un’isoletta rocciosa con una

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piccola fortezza che vi sorge al centro, e tanti bagnanti che tentano di godersi il sole che oggi splende fiero, in combinazione con un cielo quasi completamente terso. Davide è tentato dall’idea di fare un bagno, ma il vento è ora piuttosto intenso e lo convince a rinunciare. Meno male, così non devo trovare una scusa per rifiutare di entrare in acqua. Inoltre, a parte il fatto che non so nuotare, il costume era nello zaino rubato. Così proseguiamo lungo la strada, passeggiando tranquilli, e raggiungiamo le intricate vie della città murata, percorse un po’ in cima alle mura e un po’ a terra, fino all’arrivo nel vero e proprio centro. Anche questa è zona molto turistica, ricchissima delle tradizionali creperìe, dove si può mangiare qualche dolce tipico. Le strade principali sono densamente intasate, ma i viottoli laterali sono quasi del tutto sgombri, e quando la ressa si fa insopportabile li sfruttiamo per muoverci più velocemente. Incrociamo anche una simpatica recita teatrale, che si sta tenendo su un’aiuola fiorita. Probabilmente rappresentano “Il malato immaginario” di Molière, poiché talvolta il protagonista si rotola comicamente per terra, in preda a chissà quali malanni e tormenti. Peccato che non capiamo nulla delle battute. Assistiamo divertiti per qualche minuto, ma ora inizia a sorgere un altro problema: il freddo vento bretone mi ricorda che ora siamo più a nord di prima, e difficilmente potrò resistere per tutti i giorni che mi restano senza una giacca che mi ripari dal vento e dalla pioggia. Quella che mi hanno rubato era perfetta, ma ora temo di doverne comprare un’altra. Così inizia una paziente ricerca di un negozio che venda vestiti decenti. Il primo che troviamo ne vende esclusivamente di invernali, in molti altri non tentiamo nemmeno di entrare vista l’esagerata raffinatezza dei capi esposti, ma un banale negozio di souvenir incrociato per caso sembra proprio fare al caso mio. Sono esposte in bella vista alcune giacche impermeabili, piuttosto leggere ma ben isolanti. Me le provo un po’ tutte per trovare la mia misura, e presto arriva la cassiera a consigliarmi. Ora mi devo inventare un modo per chiedergli se il vestito ripari bene dalla pioggia oppure no. Mi viene in aiuto una canzone di Charles Trenet, intitolata “Le parapluie”, cioè “L’ombrello”. Pronunciando la parola sotto forma di domanda, mi viene confermato che sì, la giacca è impermeabile! Come mettere in pratica efficacemente la propria conoscenza di dieci parole francesi…

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Dopo aver fissato lo sguardo sulle vetrate della modesta chiesa locale ed aver percorso gran parte della cinta muraria, un certo languorino inizia a farsi sentire. Dobbiamo assolutamente provare le specialità culinarie bretoni. I ristorantelli tipici abbondano, non sarà difficile trovarne uno. A volte sono più piccoli di un bar, ed è proprio su uno di questi che cade la nostra scelta. L’interno è invitante e luminoso, ricco di colori. Ciò dimostra che, quando si tratta di mangiare, anche l’occhio vuole la sua parte. Ci servono gallettes, cioè delle strane piadine con formaggio, prosciutto e uova, e poi delle crepes dolci, zuccherate all’estremo. Una tazza di ottimo sidro secco completa la cena bretone in modo eccellente. Ormai pieni come un uovo, risaliamo sulle mura per goderci il mare di sera, ma il vento ci fa rabbrividire molto presto, nonostante abbiamo indosso praticamente tutti i nostri vestiti. Meno male che ho comprato la giacca! Mi chiedo come facciano i giapponesi a resistere, vestiti con magliette a mezze maniche e pantaloni corti: sui loro volti non c’è alcuna traccia di sofferenza.Ormai stufi dell’incessante vento, riprendiamo la via di casa passeggiando lungo il mare, e tutt’ad un tratto ci rendiamo conto di una banale quanto sconcertante realtà: la spiaggia è sparita! Dov’è andata a finire? Semplice, è salita l’alta marea ed ora è tutto sommerso. Anche l’isolotto con la fortezza è ormai inaccessibile, e chiunque si fosse attardato su di esso dovrebbe aspettare parecchie ore al buio e al freddo, prima di poter riapprodare alla terraferma. Il sole sta tramontando dietro una spessa coltre di nubi, mentre l’acqua lambisce piuttosto rumorosamente la fila di pali di legno, ora quasi completamente sommersi. Dopo essere rimasti un po’ ad osservare quest’affascinante atmosfera serale, ritorniamo a dormire in albergo, in compagnia di numerose mosche, che si sono stabilite in camera durante il pomeriggio poiché la finestra è rimasta spalancata.

PortoOggi si va in una zona ben più isolata e periferica, quella portuale. Dista diversi chilometri dal nostro alloggio, tutti da percorrere a piedi, ma non ci scoraggiamo e ci mettiamo in marcia di buon’ora, appena svegli. Le vie periferiche di Saint Malo sono molto squallide e degradate: è tipico di una zona industriale, ma questa è una delle

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più brutte zone industriali mai viste. Attraversiamo un ramo di ferrovia ormai abbandonato e inglobato dalle polverose strade, incrociando ogni tanto delle piccole oasi di verde, nelle quali le piante sono quanto mai disordinate e crescono selvaggiamente, fiancheggiate da marciapiedi sporchi che servono costruzioni imbrattate o cadenti. Nelle vicinanze del porto stazionano numerosi camion gialli e bianchi, che vengono continuamente caricati e scaricati di merci, mentre un penetrante olezzo di pesce permea l’aria senza lasciarne libero nemmeno un alito. Giunti a destinazione, abbandoniamo finalmente la cementosa zona per tuffarci in un piacevole dedalo di vialetti alberati, che in alcuni punti lascia intravedere scogliere e spiagge isolate, dove qualche rarissimo bagnante si sta concedendo un po’ di pace. Quasi nessuno percorre queste stradine silvestri, nelle quali si trova solo qualche rara panchina. L’aria di mare è stantia e pesante oggi. Il cielo grigio contribuisce a dare un tono depressivo all’intera giornata, depressione che a poco a poco mi prende senza che vi sia un motivo preciso. Ogni tanto capita di trovarsi in quell’indefinibile stato d’animo nel quale si ha tutto ciò che si potrebbe desiderare, ma sembra sempre che manchi qualcosa. Raggiungiamo quindi la spiaggia, sovrastata da una torre che reca le solite bandiere in bella vista. Alcuni piccoli passaggi si aprono nella scogliera, permettendoci di aggirare le rocce e spingerci fino al retro delle piccole fortezze, ma si tratta sempre di vicoli ciechi, che costringono a ritornare indietro quasi subito. Oggi sembra che non si riesca a concludere niente, è una giornata stranamente incompleta. Sarà la stanchezza, sarà il tempo, sarà qualunque altra cosa, ma è una giornata no. Perfino la fortezza è chiusa, perciò dobbiamo accontentarci di camminare un po’ tra le viscide rocce, incrostate d'alghe e conchiglie. La giornata passa in fretta, nella noia e nel grigiore. Al ritorno, vaghiamo per le anonime strade cercando un negozio d'alimentari, ma anche qui come in Finlandia sembra che nessuno mangi, poiché proprio non ce ne sono per chilometri. Finalmente scoviamo una boulangerie, cioè una panetteria, e facciamo incetta di cibo senza badare a spese. Saint Malo è ormai agli sgoccioli; città controversa, interessante e ambigua allo stesso tempo, con qualche consistente parentesi di tristezza.

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Mont Saint MichelL’abbazia di Mont Saint Michel è famosa in tutto il mondo per la sua peculiare posizione, asserragliata su un isolotto fortificato che viene quasi interamente circondato dall’acqua con la piena delle maree. Una volta l’acqua lo rendeva completamente inaccessibile, ma oggi c’è una strada rialzata ed asfaltata che la collega alla terraferma, sufficiente a garantire una via di comunicazione stabile (tranne quando capitano maree di eccezionale portata). Lasciamo la stazione di Saint Malo, stipati in un unico vagoncino diretto a Pontorson, paese situato a breve distanza dall’abbazia. Davanti a noi, nella carrozza, c’è una coppia di giovani francesi in viaggio come noi, con la differenza che oltre agli zaini hanno l’immancabile baguette sotto il braccio. Sembra che anche loro abbiano in mente di fare il nostro stesso giro, e infatti scendiamo nello stesso punto, cercando poi insieme di capire da dove parta il bus per Mont Saint Michel. Ne sappiamo quanto loro, ma quattro menti lavorano meglio di due e riusciamo a trovarlo in fretta. L’alternativa è raggiungere l’abbazia in bicicletta, ma per chi è munito di zaini pesanti non è una soluzione praticabile. Meglio affidarsi al solito autobus. Davide sistema il suo grosso bagaglio nel vano apposito, con la differenza che stavolta terremo gli occhi ben aperti per evitare di farci rubare anche questo. L’autista è un canuto ed arzillo vecchietto, che guida l’autobus in modo impeccabile nonostante l’età. Ha inoltre una pazienza notevole: la fila di macchine davanti a noi è terribile, inconcepibile. Procediamo a passo d’uomo, fermandoci di continuo. Dopo un’ora passata in prima marcia, finalmente appare in lontananza l’abbazia e la coda si scioglie lievemente, permettendo all’autista di innestare la seconda. Al momento c’è la bassa marea e i fangosi fondali sono ben in evidenza, lambiti solo perifericamente dal mare che per ora si è ritirato. I vari livelli su cui si eleva la cittadella fortificata ricordano molto le diafane mura della solenne Minas Tirith, la città dei Re nella conosciuta saga di Tolkien. Per essere uguale le manca giusto lo sperone di roccia centrale. La salita verso il livello più alto è irta di difficoltà, non tanto per gli zaini pesanti (anzi, solo uno), ma per l’enorme ed insopportabile massa di persone che intasa le già anguste viuzze. Si fatica a camminare e si formano ovunque code, che talvolta proseguono per intere rampe di gradini. Sarebbe tutto diverso se potessimo camminare per questi bastioni in silenzio e

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solitudine, con la pace necessaria per fantasticare un po’ sugli incontri che potremmo fare ad ogni angolo. Magari troveremmo un cavaliere in cotta di maglia, pronto a partire per qualche lontana frontiera, oppure un manipolo di lancieri e picchieri in formazione. Per sottrarci alla pressione della folla, ogni tanto ci fermiamo a scrutare il mare e la striscia di terraferma, come facevano un tempo le sentinelle, per permettere alla fortezza di organizzare la difesa in tempo in caso d'attacco nemico. In effetti, Mont Sant Michel ha resistito ad innumerevoli tentativi d’invasione. In alcuni casi, è rimasto l’unico terreno ancora in possesso dei francesi lungo le coste settentrionali. Purtroppo il meteo è abbastanza bruttino e il mare appare un po’ grigiastro e spento, ma regala comunque un bello spettacolo con qualunque condizione meteorologica. Le numerose costruzioni che formano la cittadella sono state continuamente aggiunte nel corso degli anni e dei secoli, a partire dai tempi dei Galli e dei Romani, come possiamo vedere nelle numerose riproduzioni in scala presenti nel museo. Passando per numerose sale di pietra completamente vuote e talvolta molto buie, completiamo in men che non si dica il giro e ritorniamo presto verso la base della fortezza, esausti. Attrazione promossa a metà: troppo affollamento e troppo chiasso.

PatrickGrazie ad un’inaspettata coincidenza, riusciamo ad anticipare di un’ora il ritorno a Pontorson. Possiamo dunque rilassarci, poiché non rischiamo più di perdere il treno per Bayeux, il quale parte una volta sola durante il pomeriggio e poi non si muove più fino alla mattina successiva. La coda di veicoli non è meno lunga ed estenuante di quella dell’andata, ma è sufficiente superare un punto critico, più o meno a metà strada, perché l’intasamento si sciolga all’improvviso, in un modo del tutto inspiegabile. Inutile chiedersi dove siano finiti quei milioni d'automezzi, che fino ad un attimo prima erano tutti perfettamente fermi in coda, e che l’attimo dopo sembrano essersi volatilizzati nel nulla. Deve esserci una qualche legge arcana che governa ciò e che sfugge totalmente all’umana comprensione. Grazie a questa fantomatica legge, arriviamo con largo anticipo alla microscopica stazione ferroviaria di Pontorson, desolata e vuota. Perfino i bagni sono chiusi. Nell’attesa, posso

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finalmente sfruttare il momento per chiamare il mio amico olandese, Patrick. Chi è questo nuovo personaggio? Ora mi spiego meglio. Questa primavera sono stato spedito a fare tirocinio nel reparto di Neurologia, e lì mi è capitato di assistere un signore olandese, colpito da una recidiva di ictus cerebrale. In attesa che l’uomo si ristabilisse a sufficienza per poterlo trasferire in un ospedale olandese, ho stretto amicizia con i suoi parenti, e in particolare con il figlio quarantenne, Patrick. Alla fine delle tre settimane di tirocinio, egli mi ha ringraziato calorosamente dell’assistenza prestata a suo padre, e in più, sapendo che avrei effettuato le vacanze estive passando per Amsterdam, mi ha lasciato indirizzo e numero di telefono per poterlo contattare una volta arrivato. Lui e la moglie Michaela, infatti, abitano a soli cinque chilometri dalla capitale olandese. Come potevo farmi scappare un’occasione simile? E così, dopo diversi mesi, ci rivedremo. Ciò renderà sicuramente l’esperienza di viaggio un po’ diversa, permettendoci di conoscere in modo più approfondito la gente del posto. Magari ci ospiteranno addirittura a casa loro. Dopo almeno dieci telefonate fallite, a causa di problemi con i prefissi, un telefono finalmente squilla e mi risponde Patrick in persona. Inizialmente non mi riconosce, ma appena capisce che sono io la conversazione si anima immediatamente e il suo tono di voce diventa estremamente caloroso. Apprendo che suo padre è ancora in ospedale, ma è stato ricoverato in una zona dove i collegamenti sono piuttosto difficili, perciò non va a trovarlo molto spesso come vorrebbe. In ogni caso mi assicura che ci ospiterà volentieri, quando arriveremo in Olanda. Non vedo l’ora, ma per adesso devo ricordarmi che la Francia non è terminata, e inoltre manca ancora il Belgio. Ho telefonato così in anticipo solo per dargli il tempo di organizzarsi, ma adesso che mi ha risposto mi sento già mentalmente ad Amsterdam. Solo con fatica smetto di pensare al futuro incontro e ritorno a pensare al presente. Adesso è ora di partire per Bayeux.

Bidet fiorito e cattedraleBayeux è una cittadina tranquilla, ariosa e molto ricca di spazi verdi. Conta poco più di diecimila abitanti, al limite tra un grosso paese ed una piccola cittadina. Quando arriviamo, circa alle sette di sera, le

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strade sono quasi vuote ed è un piacere percorrerle con il sole al tramonto, costeggiando gli ampi ed incolti prati oltre le strade. Non abbiamo ancora un posto stabile dove dormire, ma per un’eventuale notte all’addiaccio i posti non mancherebbero: dovunque ci sono morbidi spazi verdi e panchine riparate. Stiamo seriamente pensando di abbandonare zaini e corpi sull’erba, poiché tutti gli hotel che incontriamo lungo la strada sono pieni oppure costosissimi, e perfino l’unico ostello non collabora. Quest’ultimo, poi, è alquanto tragicomico: oltre ad essere beffardamente chiuso e buio, sulla sua porta troneggia un cartello con scritto “Aperto”. Ormai abbiamo quasi deciso di dormire fuori, ma prima decidiamo di fare un ultimo tentativo in un’altra zona. Finalmente, al decimo albergo, c’è una camera libera per noi. Il letto è ancora una volta un matrimoniale (basta!) e la camera si trova al sesto ed ultimo piano, il che significa altri chilometri di scale da salire. Curiosamente, proprio accanto al letto ci sono perfino un lavandino e un bidet. Sappiamo che il bidet l’hanno inventato proprio i francesi, ma che sembrano essersene disaffezionati, poiché non lo usano praticamente mai. Qui invece lo troviamo dentro la camera, e per giunta dipinto di fiorellini viola lungo tutto il bordo!Rimane ancora un po’ di tempo prima dell’ora della nanna, così ci incamminiamo verso l’enorme cattedrale di Bayeux, visibile da ogni angolo della città. Casualmente, proprio oggi la suddetta cattedrale chiude più tardi del solito, e possiamo perciò godercela adesso, senza aspettare domani. La luce di un tramonto spettacolare illumina a metà le torri campanarie, formando un contrasto molto forte con l’azzurro del cielo, solcato solo da qualche tenue nuvoletta. La cattedrale è realmente splendida. Anche se la struttura è praticamente identica a quella delle sue sorelle, c’è una sostanziale differenza che la rende ora assolutamente particolare: è quasi vuota. L’atmosfera cambia in modo radicale, quando si è soli in un luogo così maestoso. Ogni pietra, ogni vetrata, ogni passo che risuona e riverbera debolmente sul pavimento: tutto assume un significato diverso. Si percepiscono meglio i colori e gli odori, è possibile accorgersi di particolari apparentemente insignificanti, che sfuggono a sguardi distratti. Anche la cripta sotterranea, con il suo meraviglioso ed inebriante odore di pietra umida, cambia completamente aspetto ora che è vuota. Se l’organo suonasse adesso, sentiremmo tutta la sua terrificante potenza sonora ed

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espressiva sprigionarsi come mai abbiamo sentito prima. Dopo aver minuziosamente osservato ogni angolo della cattedrale, girovaghiamo un po’ per le tranquille stradine, per metà lastricate e per metà asfaltate, e infine torniamo nel parco cittadino, dal quale vediamo il disco giallo del sole tramontare lentamente tra due alberi. Il tramonto è ormai in fase avanzata e possiamo fissare la stella senza rimanerne abbagliati. L’erba è molto ben curata ed uniforme su tutto il prato, querce secolari ci circondano da ogni lato, una fontana al centro zampilla tranquillamente. È quasi un peccato aver trovato una sistemazione in albergo: avrei preferito dormire su una di queste panchine, se non mi avessero rubato anche il sacco a pelo.

ArazzoStamattina si parte verso le spiagge dello sbarco in Normandia, uno dei pezzi forti del viaggio. Questa colossale operazione militare, la più grande della Storia intera, non ha certo bisogno di presentazioni. Un conto però è averla letta sui libri di storia, un conto è calpestare fisicamente i luoghi dove ha effettivamente avuto luogo. Nello specifico, si tratta di cinque spiagge a nord di Bayeux, denominate in codice Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword. Esse si estendono per circa settanta chilometri in tutto. Sulle prime due sbarcarono i soldati americani, sulla terza e sulla quinta gli inglesi, sulla quarta i canadesi. Altri paesi si unirono all’operazione, come la Norvegia, la Polonia e il Belgio, per dar vita ad una giornata che rimarrà per sempre nella storia: il 6 giugno 1944, che noi oggi chiamiamo D-Day. Curiosamente, il fatidico giorno sarebbe dovuto inizialmente essere il 5 giugno, ma l’intera operazione venne rimandata a causa di un terribile maltempo. Sembra facile trovare le condizioni giuste per far sbarcare un intero esercito su qualche decina di chilometri di spiagge, che non erano certo tranquilli e serafici lidi balneari sui quali prendere la tintarella.I tour guidati sono organizzati dall’albergo della stazione, che ieri non aveva camere per noi, ma che si spera oggi abbia due posti da riservarci per la gita. Arrivando all’albergo, abbiamo già notato il piccolo furgoncino nero parcheggiato fuori, che ha una capacità di otto posti e reca la scritta “Normandy Tours”. Di nuovo ci preoccupiamo: se gli alberghi di questa città sono tutti così pieni, e questo in particolare è il più pieno di tutti, come possiamo sperare

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di trovare due posti per questi, presumiamo, richiestissimi tour? E invece li troviamo subito. Il gestore dell’albergo è un piccolo uomo eccitabile, dai modi di fare concitati ed involontariamente comici. Si affanna a spiegarci, in buon inglese, tutto ciò che andremo a vedere, dove ci fermeremo, quanto ci metteremo, e via dicendo. Non smette un secondo di parlare, sempre con questo tono di voce frenetico, ma si dimostra molto gentile. Peccato che non ci lasci mai rispondere a nulla, anticipando sempre quello che vogliamo dire e parlando praticamente solo lui. Dopo avergli lasciato i soldi, ci raccomanda in modo quasi parossistico di farci trovare davanti all’albergo “A few minutes…BEFORE one o’clock”, per fare l’appello prima di partire. Ripete più volte quel “Before” con una particolare enfasi. Tentiamo di rassicurarlo sul fatto che saremo lì per l’ora che ci ha detto, ma insiste a chiederci quest'immane favore con una foga indomabile. Sembra che dipenda la sua vita da questo. Quando finalmente ci lascia andare, rimaniamo un po’ storditi dalla sua inarrestabile furia dialettica, ma anche molto divertiti dallo strano personaggio.Abbiamo ancora qualche ora da passare in giro. Sempre dietro l’appassionato consiglio dell’albergatore, andiamo alla tapisserìe, dov’è esposto il celebre Arazzo di Bayeux. Ovviamente sapevamo già della sua esistenza e la visita era già stata programmata, ma non abbiamo osato spiegarlo al sovreccitato uomo, per paura che ci tenesse lì un altro quarto d’ora. L’arazzo raffigura, su una tela lunga ben settanta metri, le vicende di Guglielmo il Conquistatore, che invase l’Inghilterra nel 1066. Di fronte a questa lunghissima tela, ripiegata su se stessa a forma di U per farla stare tutta nel museo, l’audioguida automatica ci spiega in un italiano un po’ stentato tutte le vicende che si susseguono nelle settantadue scene. Castelli, ambasciatori, navi, tempeste, armi, guerrieri che mozzano teste. C’è raffigurato di tutto, perfino il passaggio della periodica cometa di Halley, che avvenne proprio nell’anno 1066. Chissà se avrò la fortuna di rivedere questa meraviglia cosmica, dato che sono nato un anno dopo il suo ultimo passaggio, che avviene regolarmente ogni 76 anni. Se voglio vederla sono obbligato a diventare vecchio. La cosa non mi entusiasma, ma è l’unico modo che ho per non morire giovane, quindi mi tocca mettere in conto di invecchiare.Non ci possiamo mai fermare ad osservare bene una scena, poiché dobbiamo sempre camminare per non perdere il filo del discorso.

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In men che non si dica, siamo già arrivati in fondo al lunghissimo arazzo. Quanto lavoro per costruire un’opera d’arte simile! E soprattutto com’è conservato bene, nonostante abbia quasi mille anni di età. Dopo il fastoso arazzo, si torna alla stazione, poiché è quasi ora di partire per le spiagge normanne. Per mezzogiorno e mezzo siamo già pronti davanti all’albergo. L’eccitatissimo uomo ci ringrazia calorosamente di essere già lì, e ci concede di sederci nel piccolo porticato, colmo di piante. Dopo pochi minuti arrivano le altre persone che hanno prenotato il tour, e così scopriamo di essere sette in tutto, incluso l’autista. Rimane perfino un posto libero nel pulmino. E noi che pensavamo fosse tutto esaurito da chissà quanto. I compagni di escursione sono tre donne del Tennessee, due uomini inglesi e l’autista francese, che però parla ottimamente inglese e spagnolo. Da quando abbiamo messo piede nel nord della Francia, l’inglese è molto più diffuso e riusciamo a farci capire quasi senza difficoltà. Semplice coincidenza oppure effetto delle antiche colonizzazioni inglesi?

Il porto magicoCon due italiani a chiudere la comitiva, cioè noi, il pulmino è cosmopolita. Stipati sul trabiccolo, partiamo alla volta di Arromanches. Attraversando piccoli borghi e vaste pianure inondate dalla luce solare, giungiamo in questa minuscola cittadina marittima. Essa è sede di un importante museo commemorativo, poiché è il luogo in cui gli Alleati costruirono un porto artificiale, dopo essersi resi conto che non sarebbe stato possibile utilizzare i porti di Cherbourg e Calais, in mano ai tedeschi. Così pensarono: se non possiamo usare un porto vero, ce ne costruiremo uno nuovo! Dalla spiaggia sabbiosa sono ancora visibili i rimasugli del porto artificiale, circondati dall’acqua. In particolare, i cassoni Phoenix sono facilmente distinguibili. Queste mostruose scatole di cemento, pesanti come un’intera Torre Eiffel, venivano trasportate sul posto e poi riempite d’acqua tramite un meccanismo ad ingranaggi, così da farle affondare una dopo l’altra. Poco alla volta si accumulavano una sopra l’altra, andando a costituire le fondamenta del porto. Nel museo è rimasto l’ultimo esemplare di volano bronzeo, che veniva usato per l’apertura e la chiusura. Nulla è stato lasciato al caso: prima di trasportare i cassoni in zona, essi erano stati fatti affondare

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nel Tamigi, per non dare troppo nell’occhio. Il porto era di dimensioni impressionanti: poteva scaricare centinaia di camion all’ora, insieme a migliaia di uomini. Visitiamo il museo con estremo interesse, osservando tutte le riproduzioni in scala, i plastici animati che riproducono i movimenti del porto in relazione alle onde, le vecchie armi ormai piombate, le inquietanti divise mimetiche. I vecchi cannoni contraerei stazionano fuori dal museo, accanto a giostre e negozi di souvenir, che coesistono con i residuati bellici senza il minimo imbarazzo. Fa un certo effetto vedere un’allegra e spensierata giostra di fianco ad un cannone, che sessant’anni prima faceva esplodere aerei in un’impressionante nube di fuoco, incenerendo vite umane in pochi secondi.

BombeOra tocca alle casematte tedesche, poco distanti dalla spiaggia di Longues Sur Mer. Questi blocchi di cemento ospitano i cannoni antinave, che avevano un raggio di tiro di venti miglia e che potevano mirare sia alla spiaggia di Utah, ad ovest, sia alla spiaggia di Omaha, ad est. Curiosamente, il giorno dello sbarco i cannoni spararono, ma non colpirono nemmeno una nave alleata, così come gli alleati non riuscirono a colpire e a disarmare dalla distanza nemmeno un bunker. Solo uno di essi mostra evidenti segni di bombardamento, ma è stato distrutto solo nella parte posteriore, ed evidentemente il danno non è stato sufficiente a renderlo inservibile. Ora i cannoni tacciono per sempre, si spera. Il mare è perfettamente visibile all’orizzonte, la giornata è splendida, i campi coltivati si estendono a perdita d’occhio. Chi sospetterebbe, se non ci fossero i cannoni ancora minacciosamente puntati verso le rive, che qui ci sia stata la guerra anni e anni fa? Sembra tutto così ameno e pacifico ora…La visita ai bunker è breve. Cinque minuti è il tempo che ci viene concesso per esplorarli, prima di ripartire per raggiungere il cimitero militare americano di Saint Laurent, posto proprio sopra la terribile spiaggia di Omaha. Qui, il massacro dei soldati americani fu ingente e per poco non causò il fallimento dello sbarco. Dobbiamo passare per numerosi controlli di sicurezza prima di poter accedere al museo sotterraneo. Nemmeno al Louvre ci hanno controllato così. Pazienza, l’ingresso per noi è gratuito e possiamo sopportare di

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buon grado le perquisizioni. Il museo ospita molti ricordi della battaglia e dispone di un terminale per cercare il nome di eventuali nonni o bisnonni caduti tempo fa, cosicché non se ne perda la memoria. Cosa penserebbero i combattenti morti in battaglia, magari ragazzi di vent’anni che avrebbero preferito rimanere a casa a studiare e a costruirsi un futuro, se sapessero che ora nessuno si ricorda più di loro? Come minimo dovrebbero tornare dall’aldilà e prendere a calci chi ancora propugna guerre in giro per il mondo. Presto siamo nuovamente all’aria aperta, pronti a girare tra le oltre novemila tombe che compongono il cimitero militare, solo uno dei diciotto che sorgono in Normandia. La maggioranza delle tombe sono croci latine, inframmezzate da qualche ebraica stella di Davide. La quantità è impressionante. Ognuna reca nome e data di nascita di qualche sconosciuto, che in quegli anni ha combattuto, volente o nolente, per liberare l’Europa. Su alcune tombe non c’è nemmeno un nome, ma un anonimo “Un compagno d'armi, conosciuto solo a Dio”. Sono i soldati mai identificati, spesso della nostra età o anche più giovani, che non possono essere citati con l’unica cosa che ne conservava la dignità in battaglia: il nome.Dopo l’inquietante cimitero, arriva la famigerata spiaggia di Omaha, che si estende da Sainte Honorine des Pertes fino a Vierville Sur Mer, per un totale di otto chilometri. Sembra una normalissima spiaggia balneare, se non fosse per due monumenti commemorativi: un monolite con incise poche malinconiche frasi, più una serie di lingue di pietra dalle forme aguzze, messe proprio in mezzo alla sabbia. I bambini piccoli fanno il bagno e costruiscono castelli di sabbia, mentre i più anziani si rilassano al sole. Questa fu la spiaggia che più di tutte fu macchiata dal sangue dei soldati alleati, costretti a fare i conti con una resistenza tedesca accanita che rese quasi impossibili le operazioni di sbarco, in particolare dei veicoli. Solo due carri armati, dei quarantaquattro previsti, riuscirono a sbarcare sulla spiaggia. I soldati appiedati non poterono contare su un valido supporto d’artiglieria e dovettero farsi strada con la forza della disperazione, scavalcando continuamente i cadaveri dei loro compagni morti. In aiuto dei tedeschi si ergeva un muraglione di terra, ora scomparso, dall’alto del quale si sparava all’impazzata sui soldati americani, decimandoli senza dar loro il tempo di organizzarsi né contrattaccare. Dopo una giornata infernale, le truppe americane ebbero infine la meglio, forti di una grande

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superiorità numerica, ma subirono perdite altissime. Ora di quell’inferno non è rimasto praticamente nulla. Ultima tappa è Pointe du Hoc, collinetta che fu raggiunta dagli Alleati solo dopo aver scalato le ripide scogliere rocciose che la proteggono. A suo modo è ancora una volta impressionante: le colline sono piene di crateri, creati dalle esplosioni delle granate. Non c’è un angolo di terra libero da queste voragini, ormai completamente ricoperte d’erba, come se nulla fosse successo. Le torrette di guardia tedesche sono aperte ai visitatori, e la storia che vi sta dietro è piuttosto curiosa: gli Alleati sapevano che c’erano delle fortificazioni in questa zona, dotate d'artiglieria ad ampio raggio, e scalarono le scogliere per andarle a disarmare prima che potessero infliggere pesanti danni alle navi. Ma una volta raggiunte, scoprirono che le armi erano finte! Trovarono poi le vere armi, ma in modo del tutto casuale, poiché erano nascoste così bene da renderle quasi invisibili. Il promontorio è piuttosto ventoso e il cielo si sta rannuvolando, ma riusciamo comunque a scorgere in lontananza le coste dell’Inghilterra! Con quest'ultimo regalino lasciamo le spiagge degli sbarchi in Normandia per tornare a Bayeux, in mezz’ora di strada. Congedatici dal gentile autista e dal simpatico organizzatore, è tempo di andare a dormire. Tra meno di dodici ore si riparte verso una città conosciuta, che diede anche l’ambientazione ad alcune parti dell’opera prima di Flaubert, “Madame Bovary”.

RouenI muri del nostro nuovo albergo sono tutti scrostati e le tubature dell’acqua occupano un intero angolo della camera, ma tutto sommato il prezzo è onesto. Tuttavia, dobbiamo sorbirci un altro matrimoniale. Sta decisamente diventando un’abitudine. Rouen ci accoglie subito con varie impressioni contrastanti. Come città sembra piuttosto degradata, nonostante la fama. Quasi tutte le case hanno un aspetto stranissimo: la loro facciata è composta da travi di legno di vari colori, combinate in modo sempre diverso. Forse solo quest'interessante particolare estetico salva Rouen dall’impressione di mediocrità che immediatamente mi comunica. Mi aspettavo decisamente di più. Un’interessante eccezione alla regola è la torre in cui fu rinchiusa Giovanna D’Arco, in attesa del processo che l’avrebbe poi condannata al rogo. È l’unica parte rimasta in piedi di

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un vasto castello che comprendeva quattro torri. Poco dopo tocca alla cattedrale, che come ho già citato fece la fortuna del pittore Monet. La sua facciata è molto diversa da quella delle altre cattedrali viste finora: è molto più frastagliata, ricca di intarsi e statue, e ha un colore molto più scuro, non so se per via dell’inquinamento o dei materiali usati. Queste parentesi di bellezza non riescono però ad infrangere l’aria pesante e triste che aleggia sulla città. Sarà forse la stanchezza, che ha ricominciato a fare capolino, ma mi sento decisamente svogliato, trascinandomi per le strade quasi forzatamente. Oggi non è giornata. Passeggiamo un po’ sulle rive della Senna, accerchiati da individui poco raccomandabili. Ne incrociamo uno che indossa vestiti stracciati e ha i capelli rasta, tinti di biondo platino. Sta camminando nella strada parallela alla nostra, tutto frettoloso. Ad un certo punto si ferma di colpo, si gira contro il muro e inizia ad urinare nel bel mezzo del marciapiede. Chissà quanta droga c’è in quel fiume che sta invadendo la strada. Dopo aver fatto allegramente i suoi bisogni, monta su una moto e scompare…ma solo per un po’. Girato l’angolo, lo ritroviamo mentre discute animatamente con un automobilista, fermo ad uno stop. Quando scatta il verde l’automobile prosegue dritta, mentre il dubbio motociclista sterza bruscamente e sale sul marciapiede (!), aprendo il gas al massimo. Fortunatamente non ci sono persone sulla sua strada, altrimenti qualcuno sarebbe stato investito. Forse quel tizio è uno scippatore che riceveva istruzioni dal suo capo, per poi tuffarsi a peso morto tra i passanti tentando di rapinarne qualcuno. Meno male che è andato dall’altra parte. Così passa la nostra giornata a Rouen. Una giornata noiosissima. Probabilmente è solo una mia impressione, poiché Rouen è una meta turistica molto gettonata, ma non posso farci niente se proprio non riesco a farmela piacere. Capita però un divertente episodio: compriamo un giornale italiano e leggiamo che un’inviperita signora russa ha recentemente scagliato una tazza contro la Gioconda. Pare che il motivo del gesto sia stato la rabbia per non aver ancora ricevuto la cittadinanza francese. Ovviamente il quadro non è stato danneggiato: il vetro blindato ha fatto il suo dovere. Ma il fatto comico è che il lancio è avvenuto proprio il giorno in cui noi eravamo al Louvre. Peccato che non abbiamo assistito alla scena, ce la saremmo ricordata molto a lungo!

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Il resto della serata lo passiamo in albergo a guardare un po’ di televisione francese, spanciandoci dalle risate. I concorrenti di un gioco a premi devono indovinare un numero, e hanno solo trenta secondi per arrivarci il più vicino possibile, andando per tentativi. Il suono di numeri lunghissimi, gridati freneticamente in francese, è semplicemente esilarante.

FalesieOggi tocca a Etretat, cittadina marittima situata a poca distanza da Le Havre. Questo modesto villaggio ospita insolite formazioni rocciose naturali, dette falesie, sulle quali ha costruito una fortuna turistica. Ma Etretat è prima di tutto una cittadina deliziosa. Le strette vie sono colme di fiori, casette variopinte, panchine e angolini riparati. La densità umana è elevata, ma non così soffocante. Una volta superato un piccolissimo crinale, che chiude il paese, lo spettacolo che ci troviamo davanti è già fantastico. Davanti a noi c’è una spiaggia interamente ghiaiosa, e ai limiti di essa stanno dei curiosi faraglioni bucati, che si uniscono alle alte pareti rocciose in modi bizzarri. Le scogliere sono impressionanti: nonostante siano naturali, sembrano cesellate dalla mano dell’uomo. A mano a mano che saliamo lungo il sentiero che porta in cima ad esse, si aprono sotto di noi alcuni dirupi scoscesi. Qualche appendice di roccia, raggiungibile con un po’ di coraggio, offre una vista ottimale da un punto isolato e riparato. Scogli e scogliere sono bianchissimi, ma si notano chiaramente gli strati che l’acqua ha scavato poco alla volta. Sembrano tutti sovrapposti l’uno all’altro, come fette di formaggio stagionato impilate. Dalla cima, lo spettacolo è straordinario. Qualche candido dente di roccia spunta dal mare, solitario e aguzzo, mentre le spiagge sono dominate da pareti quasi perfettamente verticali. Solo pochissime persone stanno percorrendo quelle spiagge, un centinaio di metri più in basso. Bisogna stare attenti a camminarci, poiché quando sale la marea si rischia di rimanere sommersi. Alla fine della spiaggia c’è un altro enorme faraglione, unito al resto della scogliera da un architrave naturale, che forma una solenne porta di pietra. I cordoni rocciosi sembrano le gambe di un gigante, potenti e granitiche. I prati che coprono la cima delle scogliere sono verdissimi, popolati da decine di gabbiani, onnipresenti abitanti del mare. Le distese

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erbose sono troppo grandi per non riuscire a trovare un angolo appartato dove meditare un po’, riscaldati da una stella che oggi non trova nemmeno un brandello di nubi ad ostacolare il suo dominio. L’unica nota veramente stonata è la presenza di campi da golf, posti a qualche centinaio di metri dal limite delle scogliere. Le macchine tagliaerba non smettono un solo secondo di percorrere in lungo e in largo il campo, ma per fortuna non ci arriva il loro disgustoso rumore. È assurdo rovinare in questo modo un luogo così straordinario. Ci sistemiamo in un angolino di roccia a cavallo tra due strapiombi, uno sulla spiaggia e uno sull’acqua. Alcune sedie naturali di roccia sono i nostri troni, dove ci sediamo a mangiarci una salutare baguette al prosciutto. Un leggero venticello marittimo ci rinfresca, spazzando via i minuscoli brandelli di nuvole che osano ancora resistere ad una giornata così splendida. Non capita spesso di potersi rilassare in un luogo così ameno, e siamo intenzionati a far durare questi momenti il più a lungo possibile, anche se sappiamo che il tempo li brucerà in fretta. Sappiamo tutti che un’ora, passata in mezzo alla natura, dura un secondo, mentre un secondo, passato in mezzo a puzzolenti fumarole di traffico urbano, dura un’ora. Un gabbiano molto curioso assiste al nostro pasto e continua ad avvicinarsi a noi, osservandoci con degli occhi totalmente inespressivi. Questo coraggioso uccello è solo nella sua impresa: tutti gli altri si tengono a distanza, pronti però ad intervenire nel caso abbassiamo la guardia. La presenza dello sgradito ospite diventa a tratti inquietante, poiché non si muove e continua a fissare me e il mio panino, ignorando il mio compare. Tuttavia non subisco assalti. Alla fine lascio un po’ di prosciutto al vorace uccello, come premio per la sua costanza. Non appena l’ha inghiottito, prende il volo. Che opportunista!Dopo un’oretta di rilassamento assoluto, ritorniamo in basso per tentare di percorrere un tratto di spiaggia sotto le falesie. La ghiaia della spiaggia è molto grossa e si fatica a camminarci, poiché i piedi sprofondano ad ogni passo e sembra di camminare su un terreno particolarmente molle. Giungiamo proprio ai piedi delle scogliere, completamente avvolti nell’ombra. La camminata è insidiosa, poiché le rocce, fittamente punteggiate di conchiglie, sono coperte da viscide alghe. Ai lati ci sono alcune grotte, dalle pareti umidicce, scavate lungo le scogliere verticali. Superando un masso lambito da

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due corsi d’acqua, arriviamo nell’altra spiaggia, ma non possiamo avventurarci più di tanto, poiché la marea sta già iniziando a salire. I piccoli rivoli che toccavano appena il grosso masso ora si sono già gonfiati e si preparano a sommergerlo. Siamo solo all’inizio, ma è meglio essere prudenti e tornare, anche perché ci manca da vedere l’altra parte di spiaggia. Da quella parte, una barca a vela sta passando apparentemente in mezzo ad un arco di roccia, che la circonda come una cornice. Stravaccati su un masso isolato, osserviamo un po’ le onde del mare che smuovono appena la grossa ghiaia della spiaggia, senza pensare a niente in particolare. Dopo un’altra mezz’ora di sosta, saliamo sulla montagnetta vicina, sulla sommità della quale c’è una chiesetta bianca. Il sentiero è impervio e fatichiamo un po’ a percorrerlo, cotti dal sole, e una volta in cima troviamo tutte le panchine occupate, così ci sediamo sul selciato esterno della chiesa, assorbendo dosi generose di raggi ultravioletti. Siamo veramente fortunati ad aver trovato una giornata simile, la migliore possibile per godersi al meglio la natura e ricaricare le batterie.Quando siamo stanchi di rosolare al sole, torniamo in paese, girovagando per le stradine con fare rilassato. Stranamente, le automobili si mescolano ai pedoni in modo sregolato e non ci sono zone pedonali, che qui sarebbero decisamente utili. Slalomando un po’ tra persone e veicoli, riusciamo a raggiungere una zona tranquilla, dove c’è un negozio di prodotti locali, in buona parte vini. Scatta subito la lampadina: perché non comprare una bottiglia per festeggiare stasera, come l’anno scorso a Helsinki? Presto detto, presto fatto. Cinque bottiglie di sidro sono esposte su un tavolino, generosamente scontate, e ce ne accaparriamo subito una. La gradazione alcolica è molto leggera, circa il quattro per cento, e ciò è un bene, dato che domani mattina ci alzeremo alle sei in punto. Stiamo infatti per abbandonare la Francia, terra controversa ma indubbiamente interessante. Ci vuole un brindisi di commiato, prima di partire per Bruxelles. Nella piazza principale aspettiamo una mezz’ora abbondante sotto il solito sole infuocato, senza riuscire a trovare nemmeno una panchina all’ombra, finché finalmente passa l’autobus che ci riporta nella stazione di Breaute, dalla quale poi puntiamo di nuovo verso Rouen.

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BruxellesPer raggiungere la capitale belga dobbiamo necessariamente passare da Parigi, poiché non esistono collegamenti diretti tra Rouen e l’estero. Per giunta, dobbiamo farci chilometri di metropolitana e di camminate per raggiungere la stazione opposta a quella in cui arriviamo, poiché le stazioni di Parigi sono sei, e ognuna si occupa delle partenze per zone geografiche diverse. In poche ore di viaggio, il treno ci catapulta a Bruxelles, città piuttosto ambigua. Mentre il treno si sta fermando in stazione, appaiono davanti ai nostri occhi numerose brutture architettoniche. Agglomerati di baracche e capannoni industriali anneriti, orrendi tralicci, cumuli di lamiere. Sembrerebbe una città del Terzo Mondo, se non fosse per alcuni svettanti e modernissimi palazzi di vetro, che spiccano sull’obbrobrio generale. Una volta scesi dal treno, l’impressione generale che abbiamo è di essere capitati in un porto di mare. Dovunque andiamo, troviamo individui poco raccomandabili, specialmente nelle stazioni e nella metropolitana. C’è chi spintona, chi bofonchia frasi incomprensibili ai passanti, chi sale ad una fermata della metropolitana, declama un delirante discorso e poi scende alla fermata successiva. Teniamo le mani ben strette sui portafogli. Fortunatamente, l’ostello sembra un posto molto serio. Stavolta dormiremo in una camerata da sei persone. Ci siamo ormai disabituati alle camere condivise, ma se i compagni di stanza sono persone interessanti e simpatiche, per certi versi sono desiderabili.Dopo la canonica ora di riposo, partiamo subito con la visita della città, che però ci entusiasma poco. Capitiamo per prima cosa in un inquietante e deserto quartiere a luci rosse. Ce ne accorgiamo poiché Davide commette un’involontaria gaffe: mentre filma una costruzione, non si accorge di includere nel video anche una prostituta, chiusa in una cabina di vetro. Ovviamente, la donna si irrita non poco, facendoci segno di sparire immediatamente e di smettere di riprenderla. Ci spostiamo in un’altra zona, popolata da altri individui non ben identificabili. Una persona evidentemente ubriaca o drogata sta arrancando scompostamente in mezzo alla strada, dirigendosi verso di noi. Cambiamo direzione per non incrociarla, affrettando il passo e sperando di uscire in fretta da questi bassifondi. La cosa ridicola è che un lato della strada è pieno di catapecchie e fumosi bar, mentre l’altro è popolato da palazzoni come l’Orto Botanico, un lucentissimo colosso di almeno venti

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piani. Abbandonata la zona, finiamo dalla padella alla brace: siamo ormai in prossimità della Stazione Nord, sporca lurida e affollata. Il viale è stracolmo di cinema porno e locali di dubbio gusto. Dobbiamo per forza entrare nella stazione per informarci sugli orari dei treni, ma nella zona dei tabelloni c’è un terribile odore di urina, che ci costringe a leggere in fretta gli orari per poi scappare via. Non parliamo poi dei “casi umani” che si aggirano per la stazione. Prendendo uno sgangheratissimo treno, finalmente riusciamo a raggiungere il centro storico. Speriamo che almeno qui ci sia qualcosa di carino da vedere. Niente da fare: anche l’architettura è piuttosto scadente. Per giunta, le strade sono piene di lavori in corso. Quasi in ogni angolo c’è un cantiere, circondato da orribili recinzioni gialle. Un ragazzo italiano che incontriamo in metropolitana ci conferma le stesse impressioni: ma che ci stiamo a fare, a Bruxelles? Lui la ritiene una bella città, ma totalmente inadatta per una vacanza. Io invece la ritengo un fiasco su tutta la linea. Perfino le chiese non sono un granché. Davanti alla cattedrale c’è un parchetto con alcune sedie a sdraio in legno, dove ci fermiamo per riprendere un po’ di forze. Proprio qui mi viene l’idea: siamo proprio sicuri che Bruxelles meriti due giorni di visita? Secondo me, possiamo tranquillamente esaurirla oggi e ripartire domani. Non so perché, ma restare qui mi infastidisce. Vorrei solo andarmene via il prima possibile. Sarà l’atmosfera di scarsa sicurezza e degrado che mi trasmette l’intera città, oppure l’effettiva mediocrità del suo aspetto, o forse qualcos’altro ancora. Sta di fatto che premo decisamente nella direzione della fuga, e anche Davide sembra d’accordo con me, pur mantenendo qualche riserva, com’è sua abitudine. Uno dei vantaggi del viaggiare con un biglietto Interrail è appunto quello di poter decidere tappa per tappa cosa fare, senza essere vincolati da alcunché. Perché allora non sfruttarlo? Intanto finiamo di vedere quello che riusciamo, poi si vedrà cosa fare. Dopo altre camminate, riusciamo ad incrociare almeno un paio di spettacoli interessanti. Prima un teatro dei burattini, poi un’esibizione di due musicisti, i quali, armati solo della propria voce e d'alcuni strani strumenti africani, riescono a riprodurre i suoni di natura in modo eccezionale. Il verso dell’uccellino che producono è quasi indistinguibile da quello vero. Poco dopo, tuttavia, ricominciano le sorprese spiacevoli. Davide si mette a filmare tranquillamente un monumento, ma un ragazzo

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seduto lì vicino lo apostrofa irosamente, chiedendogli cos’abbia da guardare. Senza rispondere, immediatamente voltiamo i tacchi e scompariamo alla velocità della luce. Cosa aspettiamo ad andarcene? Non vale la pena nemmeno di descrivere quel poco di architettonicamente interessante ospita Bruxelles. Facciamo in tempo a vedere solo l’Atomium, per giunta da lontanissimo, e lo scintillante Europarlamento, raggiunto dopo un lungo peregrinare in zone assolutamente deserte. Dietro l’enorme e luccicante edificio sorge un campo da basket, dove alcuni ragazzi stanno giocando. Qualche aficionado della bottiglia sta bevendo birra, stravaccato su una panchina. Individuiamo uno spazio libero per noi, il più possibile lontano dagli ubriaconi, e ci sediamo a far riposare le gambe, decisamente massacrate. Qui faccio una scoperta strana. È da un po’ che sento pungere all’interno della scarpa, ma anche se la rovescio non escono sassolini né altro. Ora che sono fermo, la esamino bene. Non so come ci siano riuscite, ma tre graffette si sono infilate dentro la bassa suola, trapassandola da parte a parte. Passo un buon quarto d’ora ad armeggiare con una forchetta da cucina, imprecando, per estrarre questi ospiti sgraditi. Oggi gira tutto per il verso storto!Adesso abbiamo fame, ma è tardi e tutto sta chiudendo. Non c’è traccia di fast food aperti, il cibo è finito e paventiamo di andare a letto senza cena. Tuttavia, dopo un lunghissimo vagare, finalmente capitiamo davanti ad un piccolo alimentari! Facciamo la spesa in fretta e furia e scopriamo di essere gli ultimi clienti della giornata, poiché praticamente ci chiudono le porta alle spalle non appena usciamo. Almeno questa ci è andata bene. Dopo aver cenato in uno squallido parco, questa volta senza essere infastiditi da nessuno, ce ne torniamo in ostello prima che faccia troppo buio. Se Bruxelles è così inquieta di giorno, figurarsi di notte. Tornando indietro, facciamo altri incontri con alcuni pazzi scatenati in metrò, poi con due tizi che hanno trovato per strada un passeggino vuoto e lo stanno sballottando in mezzo al marciapiede. Quando finalmente ci chiudiamo in camera, siamo proprio contenti di esserci arrivati. Non c’è ancora nessuno, dunque ignoriamo l’identità dei nostri compagni di stanza. Facciamo la loro conoscenza solo all’una e mezza di notte, quando ritornano. Sono dei fracassoni tremendi. Sbattono le loro cose qua e là, discutendo animatamente tra loro e ignorando il fatto che non ci sono solo loro in stanza. Facciamo finta di dormire

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per non doverli salutare. Gli scomodi inquilini smettono di far rumore solo dopo una buona mezz’ora, lasciandoci finalmente dormire, ma non mancano di far fracasso anche a notte fonda. Per fortuna domani cambieremo camera, per esigenze di servizio.

BrugesAffacciandomi alla finestra durante la notte, vedo una strana scena che mi mette un po’ in allerta. In lontananza, mi sembra che un grosso aereo stia perdendo quota. Penso che sia una qualche genere di manovra, ma sembra picchiare sempre di più. Dopo un po’ capisco che sta per schiantarsi: un aereo non può scendere con quell’inclinazione. Infatti si schianta, con un enorme botto ed una luce fortissima! E adesso che faccio? Ma non è finita: sembra che dal punto d’impatto sia sorto un arcobaleno, dai colori nettissimi, e che quest’arcobaleno si trasformi a poco a poco in un vulcano che erutta lava e lapilli, sempre più vicino a noi, fino quasi a sommergerci. Mancano pochi metri e verremo completamente distrutti…ma ecco che mi sveglio di soprassalto, madido di sudore e con i battiti del cuore a mille. Era solo un sogno, ma sembrava così reale! Forse è stata la stressante giornata di ieri a suggerirmi questi incubi. Lentamente mi rilasso e mi riaddormento, sprofondando in un sonno senza sogni che dura indisturbato fino alle sette. Oggi è una giornata piuttosto nebbiosa e grigia. Presto sbaracchiamo dalla camera e ci trasferiamo nell’altra, praticamente identica, poi puntiamo ancora una volta verso la terribile stazione Nord per prendere il treno per Bruges, cittadina belga vicina al mare e molto famosa per i canali, il sentore un po’ rustico e le pittoresche vie.Dopo un’oretta di viaggio, ci appare dinanzi agli occhi una città totalmente diversa dall’insulsa capitale. Bruges merita ampiamente una giornata intera di visita. Le sue stradine sono contornate da canaletti, filari d'alberi, ponticelli e casette in stile nordico, che nuovamente mi ricordano le case di Bergen. Negli stagni convivono assieme cigni e anatre. Ma non è finita: abbondano pozzi, fontane, mulini, statue equestri, bandiere belga, aiuole fiorite e recintate. Si capisce facilmente perché Bruges sia una meta turistica più visitata di Bruxelles. Viene infatti definita la “Venezia del Nord”, anche se si contende il primato con diverse altre città. Nella piazza principale si erge un filare di casette tutte uguali, con un curioso tetto a gradini.

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Camminiamo lasciandoci guidare dall’istinto, che ci porta nelle strade meno battute e più nascoste. Lungo i canali, che non possiamo quasi mai fare a meno di costeggiare, passano continuamente barche turistiche. Il capitano, munito di megafono, spiega costantemente tutta la storia della città a vagonate di turisti. Mi chiedo come arriverà alla fine della giornata, costretto a fare sempre lo stesso giro e a dire sempre le stesse cose!Dopo un po’ di camminate, Bruges inizia a stancare, poiché vie e canali sono sì belli, ma offrono poca varietà. È tempo quindi di arrivare sul limite della città, dove sorgono diversi mulini a vento e il corso d’acqua è navigabile da imbarcazioni più grandi. La camminata è molto rilassata: non abbiamo fretta di tornare a Bruxelles, dato che ci dobbiamo passare ancora una notte prima di lasciare il Belgio. Se dobbiamo annoiarci, è molto meglio farlo qui. Ma la noia se ne sta abbastanza lontana. Un curioso spettacolo a cui assistiamo è il sollevamento di un ponte navale, che passa da perfettamente orizzontale a perfettamente verticale. Per il resto non facciamo che camminare in silenzio, gustando la mischia di colori della città.

SocializzandoTorniamo a Bruxelles in serata. I nostri nuovi compagni di ostello sono due ragazzi spagnoli, con i quali socializzo un po’ nella loro lingua. Anche se non capisco tutto quello che dicono, poiché parlano molto velocemente, si intavola ugualmente una conversazione interessante. Non posso ovviamente competere con un madrelingua, ma apprezzano comunque il tentativo. Chiacchierando un po’, apprendiamo che sono due amici in vacanza assieme. Uno abita a Valencia e l’altro a Madrid. Stanno facendo una vacanza in Belgio e in Lussemburgo: hanno visitato oggi Bruxelles e domani passeranno a Bruges, per poi proseguire a nord verso Anversa. Non andranno nei Paesi Bassi come invece faremo noi, in quanto ci sono già stati tempo addietro. Essendo spagnoli, non possono fare a meno di farci domande sul calcio. Quando scoprono che il suddetto sport non mi interessa minimamente, mi accusano addirittura di non essere un vero italiano! Qui si invertono le parti: Davide non sa lo spagnolo e finora non ha aperto bocca, ma quando si tocca il tasto del calcio si rianima e riesce ad

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intendersi perfettamente con loro, solo pronunciando i nomi dei giocatori. Non ha problemi nemmeno a far capire per che squadra tiene: quando gli chiedono “Milan?” lui risponde “No no, Inter! Milan BUUUH!”. E quando vuole far capire quanto poco apprezzi Ronaldinho, non sapendo come si traduce “schiappa” in spagnolo, si fa intendere benissimo con un tranquillo “Ronaldinho m….!”. Più chiaro di così… Anche a loro Bruxelles non è piaciuta particolarmente. In particolare, trovano “ridiculo” il fatto che una statua di un bambino che fa pipì sia considerata il simbolo di Bruxelles. Approviamo in pieno, ma il fatto curioso è che ieri ci siamo passati davanti, e nemmeno l’abbiamo vista. Gli spagnoli dopo un po’ ripartono per continuare i loro giri, noi preferiamo rimanere rintanati. Sono solo le tre di pomeriggio, ma non abbiamo voglia di andare da nessuna parte né di fare alcunché. Ormai pensiamo solo ad Amsterdam, che raggiungeremo domani. La città del liberalismo e della trasgressione. La filosofia di vita olandese, improntata a separare le questioni morali da quelle sociali e alla tolleranza generale verso le stranezze altrui, l’ho sempre condivisa. Essa porta risultati anche in campo pratico: rispetto alla Francia, dove le sanzioni per il possesso di droga (anche per uso personale) sono pesantissime, l’Olanda ha un tasso di tossicodipendenza molto più basso, e sicuramente la liberalizzazione della droga è un efficacissimo modo per contrastare lo spaccio clandestino. Chiaramente si parla di droghe leggere, poiché per quanto riguarda le droghe pesanti il discorso è completamente diverso. Vanno eliminate con ogni mezzo. Non mi sono dimenticato neanche del fatto che tra pochi giorni rivedrò Patrick. La parentesi belga è stata appena sufficiente, salvata in extremis da Bruges, ma ora è tempo di ritornare su livelli alti.

AmsterdamScappiamo dunque dalla deludente Bruxelles. Quando finalmente scivolo sul sedile del treno, mi sento molto più rilassato. Contemporaneamente, però, non posso fare a meno di pensare che la tappa olandese sarà l’ultima di questo viaggio: sembra incredibile come, ancora una volta, sia passato in fretta il tempo da quando siamo partiti. Ma soprattutto, come siamo stati fortunati a continuare il viaggio nonostante il furto. Se mi avessero rubato

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anche solo il biglietto Interrail, proseguire nel viaggio sarebbe stato un vero disastro. Dopo aver cambiato due treni, giungiamo in una stazione periferica della capitale, dalla quale possiamo prendere gratuitamente la metropolitana per sbucare alla stazione centrale. È la prima ed ultima volta che usiamo la metropolitana olandese: la città è troppo interessante per girarla sottoterra. Non appena riemergiamo alla luce del sole, diverse cose colpiscono la nostra attenzione. Innanzitutto, la grande quantità di binari del tram che passano lungo le strade, poi l’ancora più grande quantità di ciclisti e biciclette stipate ad ogni angolo di strada, e infine l’uniformità delle vie della città. Esse sono costruite tutte con lo stesso schema: fila di case, stradina, marciapiede per le biciclette sempre pieno, ringhiera, canale d’acqua, e via all’incontrario. I quartieri sono tutti praticamente uguali. Sono molte le similitudini con Venezia. Lungo i canali ci sono addirittura alcune case galleggianti, adornate con fiori di ogni colore, e il resto dello spazio acquatico è occupato da barche da pesca o da battelli turistici. Un tocco di diversità è dato dal viale commerciale e turistico. Siamo letteralmente sommersi dagli effluvi dolciastri emanati dai numerosissimi coffee shop, dalle insegne rosa e provocanti dei sexy shop, dai fumi dei ristoranti etnici. I negozi sono in numero impressionate, c’è veramente di tutto. Sembra di essere capitati nel mitico paese della cuccagna. Il nostro ostello si trova appunto in questa via, e non manca di sorprenderci fin da subito. Tanto per cominciare, l’entrata è quasi invisibile: solo dopo parecchi minuti scoviamo un’anonima porta, seminascosta da un’orgia di cartelli e scritte luminose. Le scale per salire sono ripidissime, quasi come scale a pioli. Ma più di tutto ci colpisce la sala reception, che ospita anche i tavoli per la colazione. È completamente tappezzata di targhe automobilistiche americane, e soprattutto da banconote provenienti da tutti i paesi del mondo, anche i più sperduti come Pakistan, Ruanda e Angola. Ci chiediamo se chi lavora qui le abbia collezionate viaggiando effettivamente in tutto il mondo per procurarsele. In questo caso, si merita tutta la nostra stima. In effetti, a giudicare dall’aspetto dell’ostellante che ci riceve, le nostre supposizioni sembrano fondate. L’uomo ha un aspetto vissuto, lunghissimi e vaporosi riccioli grigi che gli cascano ben sotto le spalle, e ci parla in buon italiano non appena capisce da

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dove veniamo. Probabilmente, durante i suoi numerosi viaggi ha imparato tante lingue diverse. L’aria d'avventura e vita, che trasuda da queste pareti ricolme di cimeli, è indescrivibile. Poter allestire una stanza simile a casa mia è un sogno che ho da sempre. Tra l’altro, è probabile che l’ostello sia a conduzione familiare, dato che il nostro amico ad un certo punto si rivolge ad una donna nell’altra stanza, chiamandola con una parola che ricorda l’inglese “mother”. Sulla parete della nostra camera doppia, al quarto ed ultimo piano (ovviamente non c’è l’ascensore), è affisso un grosso quadro in bianco e nero, raffigurante centinaia di navi nel porto di Amsterdam.Dopo esserci come al solito riposati un po’, iniziamo subito ad esplorare la città. Riusciamo a trovarne una mappa solo all’ufficio informazioni, situato dietro la stazione centrale. Dobbiamo pure pagarla due sonanti euro, mangiati da un distributore automatico di mappe che ce ne consegna una impacchettata, come un pacchetto di sigarette. Con questa mappa in mano, riusciamo ad orientarci, cosa non facile in una città dove le vie sono tutte uguali. Prima di concederci una meta precisa, però, vaghiamo un po’ lungo il nostro viale. C’è troppa roba per non esplorarlo da cima a fondo. Non possiamo evitare di entrare almeno una volta in uno dei sexy shop. Ovviamente non compriamo nulla, anche perché i prezzi sono altissimi. Dentro quelle case di perdizione si vendono cose veramente allucinanti, da non riuscire ad immaginarsele. Ci sono perfino degli stanzini dove, a pagamento, si possono visionare i film che si intendono acquistare. Chissà a cosa serviranno le tendine all’ingresso dei camerini…ma è meglio cambiare discorso. Perché non parlare dei coffee shop? C’è dentro gente che fuma ad ogni ora della giornata, e non è possibile sbagliarsi sulla natura di questi locali: i colori rastafariani (rosso, giallo e verde) e le immagini di palme, che campeggiano in bella vista sulle insegne, sono assolutamente inequivocabili. Le strade sono piene di persone, ma sorprendentemente la città ci dà subito l’idea di essere estremamente sicura, nonostante la sua fama “libertina”. A patto che si rispettino le classiche regole del buon senso, valide ovunque. Quando abbiamo ormai vagato a sufficienza, passiamo davanti alla vecchia casa di Anne Frank, evitando a stento i numerosissimi ciclisti che qui hanno la precedenza su tutto e tutti. Non proviamo nemmeno ad entrare: l’ingresso è orribilmente costoso e la fila è

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lunghissima. Poco distante, invece, troviamo una vera chicca. Si tratta del museo della tortura, inquietante ricettacolo di demoniaci strumenti del passato, anche se sappiamo che anche oggi la tortura è praticata in mezzo mondo. Ce n’è per tutti i gusti. Il cavallo spagnolo, che disarticolava gli arti inferiori attaccandovi pesi enormi; le gabbie, dove si era costretti a restare immobili per giorni e si diventava pazzi per i crampi muscolari; la Vergine di Norimberga, dove si rimaneva chiusi a fare i conti con i chiodi sporgenti. La luce negli angusti locali è appena accennata, come per far risaltare l’anima “nera” di questi aggeggi. Quando usciamo siamo abbastanza sollevati di esserci tolti da quell’atmosfera di dolore e di morte, che tuttavia è affascinante. Vedere fin dove si può arrivare con queste efferatezze, e soprattutto sapere che la popolazione le crede utili se si convince che servano per una giusta causa, aiuta ad aprire gli occhi sulla vera natura umana. Ieri il cavallo spagnolo, oggi il fosforo bianco lanciato sui civili o le droghe utilizzate per far confessare. Non è cambiato assolutamente niente. Decidiamo di terminare qui le visite della giornata. Da domani comincerò a combinare l’incontro con Patrick, sperando che vada tutto liscio. Ci siamo concessi la prima giornata in libertà, per scoprire Amsterdam a modo nostro, ma da domani ci farebbe comodo avere una guida.

Il paese delle meraviglieUn’abbondante colazione ci aspetta nel salone dell’ostello, offerta gratuitamente. Non c’è più l’ostellante di ieri: ora ha preso il suo posto un uomo dall’aspetto meno leonino. Probabilmente è il fratello, dato che un po’ gli assomiglia. “Coffee or tea?” sono le uniche parole che ci rivolge, il resto è già tutto preparato e assolutamente insindacabile. Fette di pane con marmellata, uovo sodo, formaggio stagionato. Addirittura c’è del latte cagliato. Puro è semplicemente imbevibile, ma nel tè diventa squisito. Con quest'assortimento di vivande iniziamo la giornata nel migliore dei modi, salutati anche da un simpatico gatto tigrato, che si aggira tra i tavoli con l’aria assonnata, ma tuttavia non disdegna qualche carezza. Prima di uscire per le vie della città, provo a chiamare Patrick, che stranamente non risponde. È oggi il giorno in cui ci dovremmo sentire, di comune accordo, e questo telefono che squilla a vuoto mi inquieta un po’, ma pazienza. Magari è fuori casa

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e tornerà più tardi. Il fatto che ora non mi risponda non deve per forza essere un segnale negativo, come spesso sono portato a credere. Probabilmente è andato a trovare il padre in ospedale, ed è per questo che da casa non risponde nessuno. Usciamo dunque per i fatti nostri, puntando al museo dell’Hermitage. Qualcuno dirà: “Ma non è a San Pietroburgo?”. Effettivamente è così, ma noi siamo particolarmente fortunati, poiché il celeberrimo museo russo ha temporaneamente trasferito duemila opere in una sede distaccata, che si trova proprio qui ad Amsterdam. Non possiamo certo perdercelo, anche se il prezzo del biglietto è una brutta sorpresa: costa ben quindici euro, senza sconti d'alcun genere per gli studenti. Si vede che siamo ritornati nei paesi nordici, dove si paga tutto. Dissento però da quest'abitudine: quando mai i giovani si avvicineranno alla cultura se l’entrata di un museo costa così tanto? I francesi l’hanno vista giusta a non far pagare nulla a chi ha meno di una certa età. Pazienza, ormai siamo qui e un po’ controvoglia tiriamo fuori le banconote. Gli aristocratici vestiti nobiliari e tutto ciò che ruotava attorno alla nobiltà pietroburghese sono un bello spettacolo, ma continuo a pensare che ho speso decisamente troppo in proporzione a ciò che vedo. Con l’amaro in bocca finiamo la visita e ci spostiamo in un’altra zona della città, dove si trova la più grande raccolta al mondo di quadri di Van Gogh, il celebre pittore olandese che sfornò ben ottocento dipinti nella sua breve carriera. Per raggiungerlo, passiamo da un pittoresco viottolo curvo illuminato in modo strano dalla luce del sole, e solo dopo averci camminato un po’ scopriamo che dietro le vetrine ci sono degli inquietanti individui, dal sesso non ben identificabile, che ci salutano ammiccanti. Sono necessari solo pochi secondi, per capire che sono dei transessuali. Siamo finiti nel quartiere a luci rosse! O meglio, in uno dei suoi “bracci” esterni, poiché per ora vediamo solamente queste poche vetrine senza insegne né nulla. Ma sicuramente, a pochi isolati di distanza, comincia la via della perdizione vera e propria. Curiosamente, quasi all’imboccatura di questo strano vialetto si trova una chiesa. Forse è un simbolo della filosofia di vita olandese, dove ognuno è relativamente libero di farsi gli affari propri, purché non disturbi troppo gli altri? In un quartiere le prostitute, nell’altro le messe. Non importa la distanza, basta che

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ognuno sia libero di condurre la sua vita come crede, nel rispetto dell’altro.Deviando dal quartiere, riusciamo finalmente ad imboccare la via giusta per il museo. Van Gogh è un altro di quei pittori le cui opere mi affascinano, nonostante la mia scarsa passione per la pittura. Destreggiandoci tra mangiatori di patate e campi di grano con i corvi, finisce velocemente anche questa carrellata di capolavori, che non descrivo, poiché non saprei nemmeno esattamente cosa dire. Non c’è molto da parlare a proposito di un quadro, bisogna semplicemente vederlo. Nell’edificio adiacente si tiene invece una mostra d'arte contemporanea, a tratti affascinante. Ci sono delle opere disegnate per terra, che Davide calpesta inavvertitamente. Non appena si accorge che ci sta camminando sopra, fa subito un balzo indietro temendo d'averle danneggiate, ma subito si accorge che quelle opere vanno calpestate. Sono lì per quello, come recita la targhetta. Mi ricordano un po’ le opere dell’inquietante Švankmajer, sempre tese a mostrare il contrario di ciò che dovrebbe essere, per lasciare esterrefatto l’osservatore. C’è anche un grosso ammasso di ferraglia che viene attivato e messo in moto con la pressione di un pulsante. Il risultato è un blob di ferri ed ingranaggi arrugginiti che scorrono gli uni sugli altri, si intersecano e scalpitano facendo un rumore infernale, ma senza portare a nulla, fino a che non si rilascia il pulsante. Allora l’ammasso si tacita, torvo e minaccioso. Forse è una metafora di una tecnologia che porta sempre di più l’uomo verso l’inutile e il fine a se stesso. Solo interrompendo il circuito, ossia svegliandosi e dicendo basta, ciò potrà avere fine. Il risultato è degno di qualche minuto di considerazione, in mezzo alla mediocrità d'altre “opere”, che continuo a non capire cos’abbiano di tanto speciale per meritarsi un posto qui. D’accordo che il senso dell’arte moderna è che non importa ciò che si fa, basta farlo per primi. Ma c’è un limite anche a questo! Tocca ora a cose ben più grette, come ad esempio mangiare. Quest’occupazione non meriterebbe di essere citata, se non fosse che devo sudare le proverbiali sette camicie per riuscire a prendermi l’hot dog che voglio: una vespa dispettosa se l’è presa con me e non vuole assolutamente che allunghi la mano verso gli erogatori di ketchup e maionese. Faccio come minimo venti tentativi prima di riuscire a spalmarne solo un filo, poiché sembra che questo dannato insetto mi stia controllando come un dietologo e minacci di

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pungermi se solo provo a sgarrare. A chi osserva la scena dall’esterno, probabilmente, appaio come un pazzo dissociato, che nel momento in cui cerca di condire il panino è come trattenuto da una forza misteriosa e demoniaca che lo fa sussultare e scappare, e così via a ripetizione. Non ci posso fare niente se ho paura delle vespe. Al colmo della frustrazione e ad un passo dalla crisi di nervi, finalmente riesco a guarnire l’hot dog e posso scappare dal molesto insetto. Ci sediamo per una mezz'oretta sul prato, sbafando biscotti per contorno e godendoci ancora un po’ il sole che anche oggi picchia. Le nostre visite culturali però non sono finite: c’è anche il Rijks Museum, altra rassegna di quadri totalmente sconosciuti ma sempre piacevoli da vedere, conditi da una simpatica chicca. Una scatola di legno nero, chiusa da ogni lato e alta come una persona, ha un piccolo schermo circolare sulla parte anteriore, come se fosse una pendola a muro. Peccato che questo schermo sia digitale, e dietro di esso si veda l’ombra di un uomo che “dall’interno” cancella le lancette con un panno, ridisegnandole con un pennarello ad ogni minuto che passa. Sembra proprio che ci sia dietro una persona che continua a cancellare e a rifare le lancette, disegnandole sul vetro. L’inganno è talmente ben congegnato da farmi sorgere il dubbio che ci sia dentro effettivamente qualcuno, ma niente. Magia tecnologica. Potrei rimanere a guardare quest’insolito spettacolo per ore, ma è tempo di andarcene ormai. In un’ampia piazza incrociamo un altro spettacolo interessante: una partita a scacchi, ma non con la solita scacchiera di legno su un tavolino, bensì con pezzi enormi, mossi su una scacchiera gigante disegnata per terra. Sembra la partita a scacchi viventi di Marostica, tranne che qui si tratta di birilli e non ancora di persone. Appassionato come sono di questo gioco, per me è una delizia stare ad osservare i due contendenti. Si capisce che i giocatori non sono dei dilettanti, in quanto le loro mosse sono precise e ben calcolate. Davide non sa giocare bene a scacchi, ma non posso comunque fare a meno di spiegargli tutti i retroscena della partita, commentando ogni mossa. Riesco anche a coinvolgerlo, in quanto dopo un po’ inizia a fare commenti anche lui, ma in quel momento la partita finisce. Il conduttore del Nero, infatti, si è lasciato fare una clamorosa forchetta di Cavallo ai danni di Re e Torre, con conseguente perdita irrimediabile di quest’ultima. Del resto, la sua

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situazione era già abbastanza difficile, con due pedoni e la qualità in meno. Tirando un debole calcio al colpevole cavallo bianco, il padrone dei pezzi neri abbandona la partita. Aiuto subito a rimettere i pezzi al loro posto, sperando che non ci sia più nessuno in coda per giocare, ma purtroppo il posto era già prenotato e così sfumano le mie speranze di intavolare una sfida. Peccato. Se avessimo più tempo rimarrei ad aspettare il mio turno, ma chissà quante persone ho davanti.Quando passiamo davanti ad un negozio di giocattoli, una forza ignota ed irresistibile ci trascina dentro, senza che possiamo opporci. Io mi butto immediatamente sugli scaffali delle innumerevoli carte Magic, mentre Davide seziona tutti i giochi da tavolo uno per uno. Ma non è finita qui. Nel paese della cuccagna ci sono anche dadi a dodici, venti, cento facce; mazzi di carte truccati, con le carte che improvvisamente diventano tutte bianche o tutte uguali, per poi tornare miracolosamente normali; cubi di Rubik, che immediatamente compriamo, uno a testa. Riesco perfino a trovare una versione da viaggio di Stratego, vecchissimo gioco che cercavo da tempo immemorabile. Passiamo un’ora intera a selezionare carte da comprare e simpatici souvenir da regalare agli amici rimasti a casa, come un cubo di Rubik con soli due quadrati per lato, apparentemente elementare ma in realtà complicato da risolvere quasi come il cubo normale. Finalmente troviamo la volontà di uscire dal negozietto e ci concediamo una tranquilla merenda nell’affollata piazza principale, iniziando subito a tentare di risolvere il dannato cubo, che dopo poche mosse si scombina in modo irreparabile. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo più a rimetterlo a posto. Era più bello prima. Con la sua mente da ingegnere, Davide è molto più sollecito di me nei tentativi, e infatti continua per un bel po’ a provare, ma senza grossi risultati. Io desisto dopo pochi minuti, non sono in grado di risolvere quella mostruosità. Ma si è fatta improvvisamente sera, ed è tempo di tornare alla base. Tento ancora di chiamare Patrick, sperando che almeno per domani sia disponibile. Risponde la sorella, e mi informa che il fratello è al lavoro. Mi assicura, tuttavia, che gli riferirà della mia chiamata. In realtà, comincio ad avere il dubbio che non voglia farsi trovare.

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In barcaCi svegliamo piuttosto tardi stamattina. Vado in bagno prima io, ma il più vicino dei due minuscoli gabinetti è immerso in un odore di disinfettante piuttosto penetrante, perciò scelgo il secondo, ancora intonso. Davide non ha però altrettanta fortuna. Quando arriva il suo turno, nel bagno “sano” stanno facendo le pulizie, ed è quindi costretto ad usare quello che è stato appena disinfettato. Ci rimane dentro forse un minuto, ma sufficiente per intossicarsi con i pestilenziali effluvi dell’ignota sostanza battericida. Esce dal bagno tossendo all’impazzata e continua almeno per altri dieci minuti, senza tregua, lamentandosi e imprecando nelle pause tra un colpo di tosse e l’altro. Finito l’accesso di tosse, finalmente scendiamo a fare colazione. Oggi dobbiamo assolutamente portare a casa qualcosa di divertente e spiritoso, che ci ricorderà per sempre questa città. Ci tuffiamo dunque in un assalto disperato ai negozi di souvenir, che sono in numero impressionante. Non si riesce a fare dieci metri senza incontrarne uno. Presi da raptus, entriamo in tutti quelli che troviamo. Dopo il decimo c’è da diventare epilettici. In un punto della strada ci sono addirittura due negozi che si fronteggiano faccia a faccia. Chissà che concorrenza spietata si fanno. La nostra scelta infine cade su due simpatiche magliette, più un cubo di Rubik interamente rosa. “Solo per bionde”, recita la scritta sulla confezione. Sappiamo già a chi regalarlo. Un po’ misogino, ma divertente! Dopo aver passato un’altra ora nel solito negozio di giocattoli (non abbiamo proprio di meglio da fare), ritento ancora con la telefonata al mio “amico” olandese, dato che il tempo inizia a stringere e non rimarremo qui in eterno. Ancora una volta risponde la sorella, ma il diretto interessato non si trova, è ancora al lavoro. Ma lavora ventiquatt’ore su ventiquattro? La donna ci assicura che lui è stato informato della nostra telefonata e che si farà sentire sicuramente domani, ma ormai inizio a fiutare l’imbroglio ed è chiaro che non si farà mai trovare. Aspetteremo domani per averne la conferma definitiva, dato che sarà l’unico giorno utile per fare un’eventuale gita fuori porta, ma non mi aspetto più granché. Certo che sarebbe il colmo avere ancora una volta un contatto e non riuscire a trovarlo, come ci capitò in Scandinavia. Lì però si trattava di persone perse di vista più di trent’anni prima, delle quali conoscevamo solo il nome e l’antico paese di residenza senza indirizzi né niente, mentre qui ho numero di telefono, indirizzo di

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casa e tutto quanto, ci ho anche parlato e non si tratta di ectoplasmi! Le speranze di un ritardo in buona fede si stanno affievolendo sempre di più, e Davide è sempre più convinto che Patrick sia un buontempone. Ciondolando beatamente per le strade, arriviamo a sera e optiamo per una gita in barca sui canali della città. A parole sembra molto interessante, ma dopo pochi minuti già ci stanchiamo, è veramente tutto troppo uguale. Le cose più carine che possiamo vedere sono un galeone dipinto di giallo e verde che staziona beato in acqua, poi un impressionante silos per le biciclette, che ne ospita migliaia. Dopo un’ora ci sembra di essere passati sempre dallo stesso punto, girando in tondo, e la giornata finisce così, senza particolari emozioni.

AfsluitdijkUn centinaio di chilometri a nord – est di Amsterdam, presso la cittadina di Den Oever, si trova la diga di Afsluitdijk. Essa divide il mare del Nord da un piccolo mare interno d’acqua dolce, e proprio qui cade la nostra scelta per una gita avventurosa in bicicletta. Come da tradizione, l’escursione ciclistica non manca nemmeno quest’anno. La suddetta diga è lunga ben trenta chilometri, e logicamente disperiamo di poterla percorrere tutta avanti e indietro, ma già arrivare a coprire la metà della distanza sarebbe una bella esperienza. Perciò prendiamo il treno, che cambia alla stazione di Alkmaar, ma dato che le istruzioni sono tutte in olandese non capiamo che dobbiamo cambiare carrozza per proseguire, e quando lo capiamo è troppo tardi. Scendiamo di corsa, ma non abbastanza veloci: la parte di treno che ci interessa si sta già allontanando, e la perdiamo proprio per un soffio. Che rabbia! Mezz’ora persa per niente. Sarebbe bastato aggiungere al tabellone due righe in inglese! Pazienza… Ripreso infine il treno giusto, poi un autobus, giungiamo infine in questo desolato agglomerato di costruzioni e strade, nelle quali non passa una persona che sia una. Una cittadina fantasma, oserei dire, anche se estremamente ariosa, spaziosa e colorata. Non sappiamo dove andare e ci tocca chiedere informazioni ad un concessionario, che ci indica l’ufficio informazioni, fortunatamente aperto. Grazie alle sue indicazioni, integrate poi da quelle di un meccanico dallo stranissimo accento, raggiungiamo il punto di noleggio delle biciclette. È un posticino

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tranquillo e riparato, forse anche troppo. Ci vuole un bell’intuito per capire dov’è, anche con le indicazioni in mano. La zona pullula di simpatiche villette a schiera, circondate da steccati di legno e verdi siepi. Approfittiamo dell’attesa per far fuori due tramezzini, che ci devono bastare per tutta la giornata, sedendoci sul selciato che divide due filari di garage perfettamente chiusi. Dopo mezz’ora, finalmente arriva qualcuno ad aprire. Il noleggiatore è molto gentile e ci offre subito le due biciclette migliori, che non sono assolutamente paragonabili agli scandalosi macinini che ci propinarono alle isole Lofoten. Queste sono decisamente più sportive e adatte a lunghi percorsi, e non meno importante sono molto più economiche. Una volta assicurati gli zaini al portapacchi con una corda elastica, siamo pronti ad iniziare l’avventura! Un autoscatto ci immortala nell’attimo prima di imboccare la corsia ciclabile della diga, e dice più di mille parole. Maniche corte, cappellino voltato all’indietro, braccia abbronzate a metà dopo tutte giornate passate al sole, pantaloni ormai sporchi e consunti per non essere mai stati cambiati, cielo terso e tanta energia da spendere. A volte, non documentare certe situazioni è una colpa imperdonabile.Seppur totalmente pianeggiante, il percorso presenta qualche difficoltà. Tanto per cominciare c’è un forte vento laterale, inevitabile dato che ci troviamo in mezzo a due mari. Inoltre, per quanto possiamo andare veloci, il panorama non cambia mai. L’orizzonte è sempre identico a sé stesso, e le uniche cose che cambiano continuamente sono le automobili e i camion che sfrecciano accanto a noi sull’autostrada. A tratti provo una punta d’invidia verso di loro: si fanno tutta questa strada senza alcuna fatica, mentre io sono qui a pedalare. Un automobilista che proviene dal senso opposto sembra addirittura incitarci, suonando il clacson e facendoci chissà quali gesti con la mano. Beato lui che deve solo schiacciare un pedale per andare avanti. Fortunatamente, il tempo è ottimo e non fa assolutamente freddo, nonostante il fortissimo vento che ci investe senza sosta. Fermandoci al monumento, situato al quinto chilometro, lentamente percorriamo quest’interminabile lingua d’asfalto. Ogni tanto ci fermiamo per far riposare le gambe e per cercare qualche punto di riferimento, ma invano. Dopo ben tredici chilometri intravediamo in lontananza un cavalcavia, e poco dopo riusciamo a distinguere un autogrill. Ottimo! Non ci aspettavamo proprio di trovarne uno, e cade

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proprio a fagiolo, poiché l’acqua sta finendo, velocemente prosciugata ad ogni sosta. All’autogrill facciamo incetta di gelati e bottiglie d’acqua. Mi sto quasi per addormentare sulle panchine di legno, da quanto sono stanco, ma sono troppo scomode per prendere realmente sonno, e in ogni caso è meglio rimanere vigile, poiché la pedalata non è affatto finita. Dobbiamo ancora rifare al contrario tutti i quindici chilometri che abbiamo appena percorso. Non sarebbe un’impresa così difficile se non ci fosse il vento, ora totalmente contrario alla nostra direzione di marcia, che rende il ritorno un vero strazio. Non superiamo mai i dieci chilometri orari, in prima marcia, e le mie gambe dopo poco iniziano a cedere. Ma perché tutte le volte che salgo su una bicicletta me ne devo pentire amaramente? Godo di un minimo di sollievo quando rimango dietro a Davide, sfruttando la sua scia che mi permette di ridurre le turbolenze atmosferiche. Dopo un po’, tuttavia, decido che non è giusto che solo io riceva questo privilegio, così mi stacco e mi porto di fianco a lui per superarlo e mettermi davanti. Non appena la protezione della scia viene a mancare, mi sento immediatamente investito da folate di vento assurde, tanto forti che mi sembra di fare il doppio della fatica di prima. Maledicendo il destino ed arrancando penosamente, continuiamo a pedalare con la sola forza della disperazione.

Si mette maleAll’altezza del monumento, quando ormai manca relativamente poco alla fine dei tormenti, il cielo comincia a rannuvolarsi a vista d’occhio. Inizio subito a pensare che la situazione non si potrà evolvere verso il meglio, ma piuttosto tenderà sempre di più ad andare in peggio. Conviene affrettarsi. A circa tre chilometri dall’arrivo dobbiamo però fare una sosta, poiché non ce la facciamo più. Durante la pausa vedo una palla di sterpi che rotola sospinta dal vento, in stile Far West, e ciò mi dà l’ispirazione per girare un video delirante che ci ricorderà per sempre l’atmosfera tragicomica del momento. Il video è anche l’ultima cosa che riusciamo a fare prima del cataclisma. Dopo non più di venti secondi, infatti, inizia a cadere qualche gocciolone dallo spessissimo muro di nuvole che ci sovrasta torreggiante. Un muro che si è formato a tempo record e che ora sta per scaricare tutta la sua furia su di noi, unici ed indifesi

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occupanti della corsia ciclabile in tutta la lunghezza della diga. Lampi e tuoni, inizialmente lontani e poi sempre più vicini e forti, non tardano a manifestare la loro minacciosa presenza, facendoci ulteriormente preoccupare. Qualcosa mi dice che è meglio tirare fuori immediatamente il kee way, per tentare di salvare il salvabile, anche se per ora si tratta solo di qualche rara goccia. Davide pensa di poter rimandare la bardatura, operazione noiosa, ma lo incito urlando “No no, equipaggiamento, subito!”. Uso proprio la parola “equipaggiamento”, quasi senza pensare. Forse mi sento nel mezzo di una battaglia, ed effettivamente non ci sono poi così lontano. Dopo mezzo minuto dall’aver pronunciato questa frase, infatti, si scatena il diluvio universale. Pedalando sempre più forte per tentare di sfuggire all’inevitabile, vedo i pantaloni che cominciano a chiazzarsi d’acqua e capisco che mi laverò da capo a piedi. Spero solo che non mi venga la febbre, una volta sola mi è bastata e avanzata. Oltretutto c’è un altro problema: il vento è ancora contrario e sta aumentando di intensità, e questo fa sì che l’acqua colpisca direttamente la faccia e gli occhi. Il cappuccio del kee way, che sono costretto a tenere sempre con una mano per non farlo volare all’indietro, sembra non ripararmi quasi affatto. Anche Davide è nella medesima situazione. Devo guidare la bici con una mano sola e tenere il capo sempre basso, per evitare che l’acqua mi vada dritta negli occhi. Non posso sentire cosa dice il mio compagno di pedalata, ma è molto probabile che stia imprecando a raffica. Posso esserne ragionevolmente certo nel momento in cui me lo vedo passare di fianco, velocissimo e avvolto da nubi di spruzzi, con la testa bassa e l’arrabbiatura che si può percepire nell’etere. Chissà quante ne sta tirando in questo momento! Anch’io ho voglia di tirare giù qualche santo dal paradiso, poiché non ha mai piovuto seriamente nemmeno una volta in tutta la vacanza, e deve diluviare proprio ora. Cerco di accelerare l’andatura, con le scarpe di tela leggera ormai completamente fradice, ma le forze sono quelle che sono e il vento è diminuito solo leggermente, quindi mi rassegno a fare ciò che posso. Sono già completamente lavato, inzupparmi un po’ di più non cambierà significativamente la situazione. Usciti finalmente dalla diga, alla disperata ricerca di un riparo, avvistiamo un ponte qualche centinaio di metri più avanti. La nostra salvezza. Lo puntiamo furiosamente, e non appena ci arriviamo sotto ci

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spogliamo quasi completamente, strizzando calze, scarpe e pantaloni. Le scarpe sono così piene d’acqua che mi sembra di camminare in una palude melmosa. Miracolosamente, felpa e zainetto hanno resistito e sono in buona parte asciutti. Davide non è stato altrettanto fortunato: l’acqua gli è penetrata fin nella canottiera e nello zainetto, bagnando anche il nostro programma di viaggio, che per fortuna ormai non ci serve praticamente più, in quanto siamo arrivati alle ultime battute.Tentando di ritornare ad una temperatura corporea normale, aspettiamo invano che spiova. Si alternano continuamente momenti di calma assoluta, che ci invitano ad andarcene subito, con scrosci terrificanti, che ci scoraggiano anche solo dal pensarci. Non c’è mai una tregua sufficientemente lunga per percorrere all’asciutto i due chilometri che ci separano dal punto di noleggio biciclette. Prima di prendere il bus per tornare ad Amsterdam, infatti, abbiamo anche queste diavolo di biciclette da riportare indietro. Il noleggiatore ci ha dato il suo numero di telefono in caso di bisogno, ma anche se telefonassimo, cosa gli potremmo raccontare? Che siamo stati sorpresi dalla pioggia? Affari nostri, ci potrebbe rispondere…e avrebbe anche ragione. Così aspettiamo ancora un po’, tentennando, finché non convinco Davide a muoversi nonostante l’acqua, argomentando che se aspettiamo troppo tempo rischiamo di rimanere senza mezzi per tornare indietro. Oltretutto, le zone asciutte sotto il ponte si stanno riducendo sempre di più, poiché l’acqua non viene smaltita completamente dagli oberati tombini e sta iniziando a straripare, invadendo tutto. Pedalando veloci, in un momento d'apparente tregua meteorologica, raggiungiamo infine il noleggio, stanchi morti. Incredibilmente, lungo tutta la strada non ha più piovuto. Vedendo le nostre condizioni, il gentile noleggiatore ci propone di rimanere ad asciugarci dentro il negozio, prima di ripartire. L’idea è allettante, ma non sappiamo se ciò potrebbe farci perdere l’autobus, quindi rifiutiamo. Ormai non piove più, ma è meglio non fidarsi e camminare il più velocemente possibile fino alla fermata dell’autobus, prima di essere sorpresi dalla replica del diluvio universale.Ci viene in mente che per tornare ad Amsterdam potremmo fare l’autostop, così da evitare autobus e treno. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Non ci tirerà mai su nessuno, meglio non provarci neanche. Riprendiamo a camminare lungo la strada bagnata,

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percorsa soltanto da qualche rara automobile che sfreccia a tutta velocità. Ad un certo punto, però, capiamo che stiamo tornando verso la diga. Che succede? Abbiamo perso completamente il senso dell’orientamento? Eppure l’ufficio turistico è lì, ben visibile, e la stazione dei bus si trova poco distante. Possibile che non ci sia? Ritorniamo indietro, incerti sul da farsi, e anche un po’ preoccupati di esserci persi. Mentre camminiamo, il telefono di Davide si mette a vibrare. Proprio adesso devono telefonarci? E se fosse finalmente Patrick? Affari suoi…prima dobbiamo sistemarci! Dopo aver fatto avanti e indietro per un centinaio di metri, mi casca l’occhio su alcune sbarre che abbiamo oltrepassato con il bus dell’arrivo. Un lampo davanti agli occhi: la stazione dei bus è proprio lì davanti a noi. Riconosco la vetrata infranta davanti alla quale l’autobus ci ha lasciato stamattina. Ce l’abbiamo davanti da mezz’ora e non l’abbiamo vista, accecati dall’adrenalina. Rischiando di farci investire, attraversiamo di corsa la strada e finalmente possiamo rilassarci un po’ sotto la pensilina, aspettando il bus che sarà qui tra cinque minuti. Giusto in tempo. Nell’attesa, Davide tira fuori il telefono e scopre che è spento. Come faceva allora a vibrare? Temiamo si sia rotto, e infatti non si accende più. Ha preso talmente tanta acqua da guastarsi. Maledizione! Ci mancava anche questa per concludere la giornata. Intanto arriva il bus, ma faccio fatica ad appoggiarmi sui sedili, poiché tutto il tempo passato sul duro sellino della bici ha offeso il mio sensibile posteriore. Odio le biciclette anche per questo motivo. Mi sento già un po’ di febbre, ma sicuramente è una cosa passeggera dovuta allo stress del momento. Unica consolazione: il cellulare di Davide, ormai asciutto ha ripreso a funzionare. Quando finalmente calpestiamo il suolo di Amsterdam, puntiamo direttamente ad un fast food, per comprare qualcosa da portar via e poi mangiarcelo in camera. La commessa sembra non capire cosa vogliamo, rispondendo solo con strani e laconici “uh”. Proprio adesso che abbiamo fretta di rintanarci al caldo, dobbiamo trovare la commessa rincretinita. Dopo non pochi chiarimenti, capisce che vogliamo del cibo da portar via, e in un lampo ci inscatola patatine, un hamburger e qualche crocchetta di pollo. Tutti in ostello, più veloci della luce. Finalmente possiamo levarci di dosso i vestiti bagnati. Non abbiamo più ricambi, speriamo che si asciughino entro domani mattina.

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Mulini a ventoLa nottata è tranquilla, a parte un brusco risveglio dovuto ad un tizio che alle quattro di mattina grida proprio sotto la nostra finestra. Una scena ormai comune, non ci facciamo quasi più caso. L’uomo continua ad utilizzare la parola “Fuck” per costruire centinaia di frasi diverse. Per fortuna dopo qualche minuto si zittisce, a differenza del cugino francese che era andato avanti per oltre mezz’ora. Al risveglio vero e proprio, scopriamo che i vestiti e le scarpe si sono asciugati quasi completamente, e con un po’ di giochi di prestigio riusciamo a ridistribuire tra noi i vestiti puliti e asciutti che ci sono rimasti, per avere qualcosa da mettere indosso oggi. Va a finire che mi ritrovo con le mutande, le calze e la canottiera di Davide, mentre lui porta la mia canottiera. Dopo la solita abbondante colazione, ci rechiamo ancora una volta alla stazione centrale, per prendere un altro treno. Per la gita fuori porta abbiamo scelto Koog Zaandijk, una piccola cittadina a sud – est di Amsterdam. Ci andiamo da soli, ovviamente, poiché Patrick non si fa trovare nemmeno stamattina. Ormai si è rivelato per quello che è, cioè un contafrottole. Dovevo immaginarlo che sarebbe finita così.Il percorso per raggiungere questo piccolo borgo rurale è piuttosto anonimo. Solo ogni tanto si intravede dal finestrino qualche campo debolmente punteggiato di fiori rossi e lilla. Purtroppo non siamo nella stagione ideale per ammirare le distese di tulipani, che rendono famosa questa nazione tanto quanto la droga e i mulini a vento. Di mulini però ce ne sono in abbondanza ovunque: in riva al fiume ne spiccano subito cinque, circondati da casette immerse in un verde che più verde non si può. L’acqua è limpida e cristallina, e il villaggio è ornato da innumerevoli dalie multiformi. L’atmosfera è bucolica e rilassante, non fosse per una terrificante puzza dolciastra, probabilmente proveniente da un’industria vicina, che si insinua in ogni angolo di villaggio. È terribile. Ci addentriamo maggiormente nel dedalo di viottoli sterrati, fiancheggiati da corsi d’acqua, per tentare di sfuggire all’insopportabile olezzo. Neutralizzato l’odore, ci concentriamo meglio sulla natura. I canaletti sono completamente coperti da alghe, che formano una densa pellicola verde sul pelo dell’acqua. Hanno tutta l’aria di essere sentieri erbosi, e qualche sbadato ci potrebbe tranquillamente cadere dentro. La sua unica salvezza per evitare il bagno sarebbe notare le papere e i cigni, che galleggiano beati su quello strato di fanghiglia verde, talvolta

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immergendo la testa per catturare qualche sventurato pesciolino. Nelle vicinanze sorgono piccole capanne di legno dai rossi tetti, oltre a mulini in piena attività. Seduti su una panca in riva al fiumiciattolo, inganniamo il tempo osservando le increspature dell’acqua e i riflessi che il sole produce su di esse, foraggiando contemporaneamente uno stormo d'anatre particolarmente golose dei nostri biscotti. Non ci mollano più, addirittura saltano per rubarceli, e siamo costretti a traslocare. Poco dopo torniamo ad Amsterdam, ormai presi da una stanchezza cronica. Facciamo solo un ultimo giro per alcune strade non ancora battute, poi ci rintaniamo nel nostro loculo a riflettere su questo viaggio, controverso e particolare. Forse non è stato mostruosamente esaltante come il viaggio in Scandinavia, ma è stato comunque molto denso di emozioni, novità e luoghi meravigliosi. Anche stavolta torneremo a casa arricchiti e diversi da prima.

Inconsapevoli vandaliL’indomani ci prepariamo velocemente ad andarcene, ma qualcosa non va per il verso giusto. Chiudendo la porta della camera per l’ultimissima volta, stacco involontariamente la maniglia. Proprio adesso doveva succedere? La rimetto a posto come riesco, facendo finta di nulla. Scendiamo, ma troviamo la porta della reception chiusa. Stanno ancora dormendo tutti. Il problema è che un treno ci aspetta tra mezz’ora e dobbiamo riconsegnare le chiavi. L’unica cosa vivente che ci risponde è il gatto. Forse è proprio il suddetto felino a salvarci, poiché miagolando riesce a svegliare i padroni e qualcuno viene ad aprirci. Consegnate le chiavi, afferro quasi involontariamente la maniglia della porta, e anche questa si stacca e cade a terra. Stamattina ho davvero una presa devastante. Per un po’ tento di rimetterla a posto, ma sembra un danno complesso, quindi desisto e lascio la maniglia in mano al gestore. Mentre lui va a chiamare qualcuno per farsi aiutare, scivoliamo furtivamente via, ormai liberi. Si arrangeranno loro, non abbiamo tempo ora di stare a guardare come ripareranno quella dannata maniglia. Sappiamo solo che adesso dovremo cambiare tre treni, attraversando la Germania e la Svizzera e trapassando di nuovo le solenni Alpi, ancora una volta linea di demarcazione tra ciò che era e ciò che riprenderà ad essere.

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Estate 2010Islanda

Partenza il 02/08/2010 – Ritorno il 18/08/201016 giorni totali di viaggio

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AstronomiaPer un italiano del nord come me, non è facile osservare la costellazione dello Scorpione. Sempre bassa sull’orizzonte anche quando si trova al suo culmine, ha una declinazione negativa ed è dunque visibile per intero solo a partire dall’Italia meridionale in giù, sempre a patto che la foschia sia inesistente e che non ci siano fastidiosi palazzi a coprire la visuale dell’orizzonte. Non sono mai riuscito a scorgerla nel cielo stellato, prima d’ora. Solo l’altezza a cui mi trovo adesso rende facile distinguere l’enorme supergigante rossa Antares, insieme alle tre stelle azzurre che formano la testa del velenoso animale, che è anche il mio segno zodiacale. Da undicimila metri di quota, abbondantemente sopra la densa coltre nuvolosa che stanotte ricopre l’Europa, questa meraviglia cosmica appare chiaramente, anche se il riflesso delle luci interne sul finestrino rende difficile distinguerne i particolari. Se questo è un biglietto da visita del viaggio che sto andando ad intraprendere, posso dire con certezza che è cominciato nel migliore dei modi. Insieme all’inseparabile compagno di viaggio Davide, sto ora volando verso l’Islanda per ampliare ancora un po’ la mia conoscenza del mondo, e già poche ore dopo aver lasciato casa mia sto assistendo ad uno spettacolo che più volte avevo desiderato vedere. Chissà se mi capiterà anche di vedere qualche aurora boreale, una volta raggiunta quell’isola lontana e inospitale. Siamo appena entrati nel mese d'agosto e dunque non è la stagione migliore per vedere questo autentico miracolo naturale, ma non è escluso che con un po’ di fortuna riusciremo a scorgere qualche alone verde o rosso saettare lungo il cielo. Gli antichi Vichinghi pensavano che le aurore boreali fossero il risultato del passaggio delle Valchirie, che sfrecciavano nel cielo per raccogliere i guerrieri morti e portarli nel Valhalla, lasciando questa scia colorata dietro di sé. Noi oggi sappiamo che è l’effetto della radiazione ionizzante del Sole sugli atomi dell’alta atmosfera. La prima spiegazione era certamente più poetica.

Terra di fuoco e ghiaccioE pensare che abbiamo scelto l’Islanda quasi per caso, nei mesi di febbraio e marzo, durante i quali abbiamo come al solito setacciato febbrilmente la carta geografica in cerca di una nuova meta da

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esplorare. Sarà per la sua posizione isolata nell’estremo nord – ovest dell’Europa, oppure per la sua tradizionale fama di nazione costosissima, ma non l’abbiamo presa in considerazione finché per caso l’occhio non vi si è posato e non ci siamo resi conto che il viaggio era possibile. Prenotando in anticipo si abbattono i costi, e al resto avrebbe pensato il costante e parsimonioso risparmio che durava da tutto l’anno. Risparmio che ci permette ora di partire per un altro viaggio come piace a noi: lungo, avventuroso e dal ritmo serratissimo. Ormai sappiamo che in vacanza ci piace massacrarci di fatica, macinare chilometri e tappe una dopo l’altra, ma non semplicemente vedendo tutto di fretta e ripartendo, bensì fruendo al massimo di tutto ciò che ogni luogo ha da offrire, consapevoli del fatto che ben difficilmente l’occasione di vivere questi momenti potrà ripetersi. Ciò richiede una quantità ingente di energie fisiche e mentali, ma come al solito, se ne vale la pena si può fare tutto. Curiosamente, quest’anno non possiamo usare il biglietto Interrail che abbiamo sempre comprato gli anni passati: in Islanda non esistono ferrovie. Ma incarneremo comunque lo spirito del viaggio indipendente e vagabondo, spostandoci sempre con i mezzi pubblici, vale a dire gli autobus.L’Islanda ha fama di essere un luogo inospitale, brullo, dominato dalla forza ancestrale e terribile di una natura ancora acerba ed instabile. L’isola stessa è una parte emersa della temibile Dorsale Oceanica, nella quale dimorano numerosissimi vulcani. Non deve sorprendere il fatto che l’Islanda conti ben centotrenta bocche fumanti. Alcune sono spente, ma quelle funzionanti sono ancora troppo numerose per considerare l’Islanda un luogo tranquillo. Inaspettatamente, magari dopo centinaia d'anni di quiescenza, qualcuno di questi mostri si risveglia ed esplode con forza, a volte causando veri e propri cataclismi naturali che fanno sentire i loro effetti anche in aree lontanissime. Come nel caso dell’eruzione del Laki nel 1783, che uccise un quarto della popolazione islandese e causò carestie in tutta Europa per via delle nubi di cenere che oscurarono il sole. Si dice perfino che l’eruzione del vulcano, con i disagi che arrecò al continente, contribuì potentemente a scatenare la Rivoluzione Francese, sei anni dopo. Gli scarsi raccolti esasperarono ancora di più una popolazione già duramente provata, e il resto lo sappiamo dai libri di storia. L’Islanda è dunque una terra capricciosa, che non ammette di essere comandata dall’uomo, ma

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che invece spesso e volentieri si rivolta contro di esso. Non ha tutti i torti, forse, considerando come stiamo distruggendo il nostro pianeta. Ma nonostante questa terribile fama, è un luogo ammaliante. Oltre ai vulcani, tante altre meraviglie si trovano concentrate tutte assieme: enormi ghiacciai, spiagge di sabbia nera, possenti faraglioni, geyser impetuosi, cascate che fanno tremare il terreno. L’interno del paese è un deserto arido, desolato e inospitale. Pochi luoghi al mondo sono così emozionanti: a mio parere non c’è sensazione più forte di quella che deriva dal trovarsi in un luogo dove la natura è ancora incontaminata, fredda e ostile. Non c’è pietà in questa terra: diverse persone hanno perso la vita nel tentativo di realizzare il loro ideale di viaggio, tradite dall’imprevedibilità del tempo o da un percorso particolarmente difficile e accidentato. Qui si respira ancora l’aria di milioni di anni fa, quando il pianeta era ancora una massa ribollente e inquieta, che lentamente cercava di assestarsi. Per certi versi lo è ancora, ma solo in un luogo come l’Islanda ciò si avverte ancora chiaramente. Difficile rendersene conto nella Pianura Padana, o nel bel mezzo di una popolosa e inquinatissima metropoli dell’Europa centrale. Ed ecco che ora, quasi senza rendercene conto, stiamo sfrecciando a tutta velocità in direzione di quest'ultimo avamposto della civiltà umana. La preparazione degli zaini e del materiale ha assunto ormai quasi un carattere rituale: dopo qualche anno che giriamo per l’Europa, abbiamo infatti imparato cosa è meglio portare e cosa è meglio lasciare a casa, abbiamo acquisito esperienza sulla migliore distribuzione dei pesi all’interno dello zaino, ci siamo informati in modo più efficace su tutto ciò che abbiamo intenzione di vedere. Non possiamo certo definirci degli esperti, ma nemmeno dei novellini totali. Tuttavia, il mondo dei viaggi è talmente vasto che anche dopo anni e anni di esperienza non si può mai dire di sapere tutto quello che c’è da sapere, ma ciò vale in ogni ambito della vita. Quest’anno abbiamo inoltre portato con noi una tenda e un materassino arrotolabile, poiché contiamo di campeggiare durante i trekking che abbiamo programmato. Non abbiamo mai campeggiato nei precedenti viaggi, e questo è un altro elemento di novità che non manca di preoccuparci e stimolarci contemporaneamente. Sarà sicuramente un’esperienza emozionante montare una tenda e dormire in mezzo alla natura più selvaggia, a patto che le condizioni meteorologiche siano decenti. Campeggiare

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con il tempo sbagliato, infatti, può trasformare una vacanza in un vero incubo. A questo proposito ci siamo procurati anche una giacca e dei pantaloni da velista, totalmente impermeabili fino a due metri di pioggia. L’acqua sarà un elemento caratterizzante il viaggio, considerando la frequenza delle precipitazioni in Islanda.Viaggiare in aereo non mi mette mai di buon umore. Tuttavia, adesso che il velivolo è in alta quota, un po’ di paura mi è passata. In fondo, dopo casa mia questo è il posto più sicuro del mondo. È un dato statistico. Nel momento in cui passa la paura, di solito, subentra la fase dell’esaltazione. Anche questa volta non manca di manifestarsi, seppure a scoppio ritardato. Aspettando il check – in all’aeroporto di Malpensa mi sentivo ancora imbozzolato in una crisalide di ottundimento, che attutiva ogni emozione, ma ora la consapevolezza di essere nuovamente in viaggio prende forma e si trasforma in un sentimento splendido. Sull’aereo stanno quasi tutti dormendo, essendo notte fonda, ma io come al solito non riesco a prendere sonno. Se non mi sdraio completamente, non c’è verso che mi addormenti. Approfitto di questi momenti per compiere altre osservazioni astronomiche, ma il finestrino è basso e dopo non molto devo desistere per non farmi venire il torcicollo. Siamo in viaggio da due ore e ne rimangono altrettante. Davide si è già addormentato da un pezzo, e in qualche modo devo passare il tempo. Come faccio sempre in questi casi, accendo il lettore musicale. Le melodie naturalistiche ed evocative degli Agalloch mi tengono un’ottima compagnia, anche se il costante rombo dell’aereo le rovina non poco. La musica quasi mi fa addormentare, mentre osservo la ben conosciuta ed illuminata Parigi passare lentamente sotto di noi. Ma non appena i muscoli del collo perdono tono, la testa ciondola in avanti, svegliandomi bruscamente. In uno di questi risvegli ho la classica sensazione di precipitare, e per un momento credo che l’aereo stesso stia cadendo, ma ben presto realizzo che è solo un effetto del mio cervello, che ormai si inventa le cose per conto suo.Superata la Scozia, e infine la distesa d’acqua che la separa dall’Islanda, finalmente inizia la discesa. Dai finestrini rivolti a levante è chiaramente visibile la nostra stella, ma per vederla da terra ci vorranno ancora diverse ore. C’è giusto il tempo di dare una fugace occhiata all’astro, poi l’aereo scende all’interno di un banco di nubi e tutto scompare. Man mano che scendiamo, appare la nera

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costa islandese, sovrastata da nuvole tenuemente illuminate dal Sole. L’effetto che ne deriva è ipnotico e spettacolare allo stesso tempo: i riflessi solari le trasformano in brandelli di fuoco gassoso, in lento ma perenne movimento. Questa è la mia prima immagine dell’Islanda. Enigmatica, oscura, terribilmente intrigante.

Notte in aeroportoL’aeroporto internazionale di Keflavik si trova ad una cinquantina di chilometri dalla capitale Reykjavík, e nonostante ci siano degli autobus navetta che partono in corrispondenza di ogni arrivo di un volo, non abbiamo prenotato un posto per dormire e rischieremmo di rimanere in mezzo alla città al freddo. Meglio passare la notte in aeroporto, almeno l’edificio è ben riscaldato. Inizialmente siamo un po’ tentennanti, poiché non sappiamo se si possa bivaccare in aeroporto modello clochard, ma camminando per i primi corridoi possiamo già vedere decine di persone stravaccate per terra o sulle panche. Evidentemente, avere gente che campeggia in aeroporto non rappresenta un problema per le autorità islandesi. Questo popolo ha fama di essere molto tollerante, e ciò ne è già un segno abbastanza chiaro. In altre parti d’Europa, la sorveglianza avrebbe buttato fuori immediatamente tutti quanti, noi inclusi, al gelo. Dopo aver sbrigato le prime noiose formalità, come ad esempio cambiare i soldi in corone islandesi, ci sistemiamo sulle panche di metallo e ci prepariamo a passare alcune lunghe e scomode ore di attesa. Il fuso orario è cambiato di due ore, in regola con le strane convenzioni islandesi, ma sono soltanto le due del mattino. Poco alla volta, le persone che sono scese insieme a noi spariscono, caricate sulle navette o prelevate dai taxi. Alla fine rimaniamo in pochissimi. Per diverse ore ci alterniamo tra tentativi di prendere sonno e alcune stanche passeggiate per i pulitissimi stanzoni. Purtroppo, anche stendendo il materassino da campeggio sulle sedie, non c’è modo di stare comodi e non riusciamo a dormire nemmeno un minuto. Le ore passano lentamente, lasciandoci sempre intorpiditi quel tanto che basta da non essere lucidi, ma non quel tanto in più per riuscire a sprofondare in un vero sonno. Perlomeno, qui siamo al caldo. Ciò non toglie che il tempo sia sempre lentissimo. Ci fosse un modo per accelerare lo scorrere dei secondi, pagherei oro per conoscerlo ora.

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Sono le quattro di mattina, non arrivano più voli e l’unico movimento è quello della bionda e cerea ragazza delle pulizie, che sta svuotando dei grossi cestini di spazzatura. Oltre a quello si occupa anche del negozietto, nel quale compriamo una bottiglia d'aranciata. Non c’è acqua, dobbiamo accontentarci di quella. La bevanda arancione ci ricorda che siamo tornati nel Nord Europa: come tutti gli scandinavi amano fare, anche gli islandesi gasano le bibite in modo pesantissimo. Per riuscire a bere quel concentrato d'anidride carbonica solida dobbiamo far sgasare il liquido manualmente, agitando la bottiglia e aprendo il tappo subito dopo, ma la lucidità mentale non è ai massimi livelli e più volte mi faccio una salutare doccia di aranciata spumeggiante.L’alta latitudine, tuttavia, ci aiuta a vedere il sole prima del tempo. Alle cinque di mattina c’è già abbastanza luce per vedere distintamente l’orizzonte. Passeggiamo fuori nel tentativo di svegliarci, lasciandoci pigramente sferzare da un vento teso ma non eccessivamente raggelante. Le giacche da velista costituiscono un’ottima protezione anche dalle raffiche d’aria. Nessuno dei due pronuncia una sola parola, com'è nostra abitudine nei momenti in cui non c’è nulla da dire. Il cielo è coperto di nuvole molto basse, che solo in alcuni punti si fanno meno spesse e si lasciano attraversare dalla prima luce del mattino. E questa è la mia seconda immagine dell’Islanda, permanentemente scolpita nella memoria. Sono i momenti apparentemente più banali a rimanere in testa, poiché in quei momenti si nasconde la vera essenza del viaggiare.

Un folletto sorridenteCon fatica, giungono le sette di mattina ed è ora di andarcene dall’aeroporto. Il viaggio in autobus per raggiungere Reykjavík è devastante: non riesco a tenere gli occhi aperti, e quasi non mi accorgo che sto già attraversando campi brulli e punteggiati da roccia vulcanica. Campi completamente privi d'alberi, arbusti o altra vegetazione che non sia erba o licheni. Non penso di aver mai provato un sonno così violento, eppure non posso addormentarmi completamente, poiché ancora una volta sono seduto su uno schienale dritto. Inconvenienti del cominciare il viaggio di sera e del non essersi garantiti una degna sistemazione per la prima notte. Ogni tanto provo a stare sveglio per ammirare meglio il paesaggio e

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cercare di risvegliarmi un po’, ma gli occhi mi si chiudono. Quando finalmente arriviamo a Reykjavík, ci ributtiamo sulle spalle gli zaini e l’aria fresca dell’esterno mi aiuta a svegliarmi quel tanto che basta per non collassare. Il cielo è molto nuvoloso e grigio, ma perlomeno ora non piove. Il nostro punto di riferimento per raggiungere la casa della salvezza è un’enorme chiesa, visibile praticamente da ogni punto di Reykjavík. Questo particolare, oltre all’aspetto generale della città, mi ricorda molto la cittadina francese di Bayeux, visitata l’anno precedente. Sono le otto di mattina e non c’è nessuno nelle immediate vicinanze della stazione degli autobus. Iniziamo a camminare lungo una linea retta immaginaria, tenendo sempre l’enorme edificio in prossimità delle ore dodici. Le vie di Reykjavík sono sorprendenti. Pulizia certosina, colore delle case costantemente tendente al bianco, atmosfera moderna eppure inequivocabilmente nordica. Cambiando zona, iniziano a fare capolino delle abitazioni di colori sgargianti, ma il bianco rimane sempre il colore predominante. Le strade sono quasi completamente vuote, ma quelle poche persone che passano ci sorridono tutte. Non un sorriso di compatimento o ipocrita, ma un sorriso sincero. Si percepisce dallo sguardo. Chissà come mai ispiriamo questi sentimenti. Forse perché siamo due giovani ventiduenni con due zaini quasi più grossi di noi. Fortunatamente, la nostra guesthouse non è lontana. Ci accoglie una giovane ragazza bionda, dai vestiti a dir poco pittoreschi. Gonnellino verde marcio, calze lunghe scarlatte, scarpe di colore indefinibile, maglione beige. Sembra un folletto. Ha un sorriso stampato in faccia che quasi abbaglia. Tiene in braccio un bambino molto piccolo, probabilmente suo figlio, e se lo porta sempre appresso. Da subito gentilissima ed esuberante, si prodiga nel mostrarci ogni singola stanza della guesthouse, informandoci purtroppo che siamo arrivati presto e quindi non c’è ancora una camera libera per noi. Quando chiede il perché del nostro arrivo a quest’ora e scopre che abbiamo passato una notte insonne in aeroporto, si offre di darci due materassi per dormire un po’, anche senza una stanza. Stiamo per accettare, felici di questa inaspettata cortesia, ma non ce n’è bisogno: una camera si libera in extremis e possiamo subito entrare a riposarci in un letto vero. Ma non prima che l’affabile ragazza ci abbia scattato una foto, che poi terrà appesa in bacheca insieme alle fotografie di tutti gli altri occupanti della

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guesthouse. Dobbiamo perfino scrivere nomi e nazionalità sulla foto, cosicché tutti possano sapere che qui ci sono anche due italiani. Un’usanza simpatica, ma in questo momento casco letteralmente dal sonno e vorrei solo sparire dentro la mia stanza. Finalmente riusciamo a liberarci dalla presa della bionda folletta e possiamo stravaccarci nella nostra camera doppia, prima di tuffarci nella visita di Reykjavík, il cui nome significa “baia fumosa”. Di tutto il resto riparleremo meglio quando avrò dormito. Riusciamo a riposare per tre ore, prima di svegliarci e capire che questo è il massimo quantitativo di sonno che il nostro corpo è disposto a concederci. Dormire oltre potrebbe non farci bene, rimbecillendoci ancora di più. Non rimane che vestirsi e uscire, sperando che la fresca aria cittadina ci sia di aiuto.

ReykjavíkQui vive un terzo dell’intera popolazione islandese. La città è conosciuta, oltre per il fatto di essere la capitale più settentrionale del mondo, anche per la sua scatenata vita notturna. Puntualmente, ogni venerdì e sabato sera gli islandesi fanno festa girando uno dopo l’altro tutti i pub della città, finendo inevitabilmente per collassare ubriachi sul marciapiede. Loro lo chiamano “runtur”. Peccato che capitiamo in città durante la settimana e non abbiamo dunque modo di vedere nulla di animato, a parte il viale principale, costantemente brulicante di persone. La città è tranquilla, vivibile ed estremamente sicura, ma non offre granché di interessante da vedere. È comunque un piacere camminare per le sue vie, vedendo gli sguardi amichevoli della gente e scoprendo che se si è in difficoltà a trovare una strada, qualcuno si offrirà spontaneamente di aiutarti. In qualsiasi negozio, ufficio turistico e simili, tutti ci accolgono col sorriso, con un perfetto inglese e con una grande disponibilità. Qualche rilassante oasi di sedie e tavoli, dipinta con colori vivacissimi proprio in mezzo ai viali pedonali, oppure un graffito che raffigura tutti i modi possibili di annodarsi una cravatta, con tanto di spiegazioni passo passo: queste sono le cose che donano il tocco di classe in più a questa città, cosmopolita e aperta alle nuove frontiere.La chicca principale della città è la sua enorme cattedrale, che si fa notare per la sua totale mancanza di decorazioni e affreschi. Pietra

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bianca, sia all’interno che all’esterno, e un enorme organo saldato alla parete. Basta. Osservandola dall’interno sembra una chiesa in costruzione, così liscia e spoglia. Questo minimalismo non manca di fascino: potrebbe ricordare come la religione debba essere una cosa intima, non appariscente, sentita da ognuno. Non uno status symbol, non un modo sfarzoso per dichiarare la propria salvezza futura, non una dimostrazione di potenza e superiorità. La semplicità nordica trasuda in modo evidente da questo freddo luogo sacro. Non avendo trovato molto di stimolante nel resto della città, scattiamo solo poche fotografie e ritorniamo presto al nostro alloggio per riposarci ancora un po’ dopo la tremenda nottata. Sul muro della nostra piccola stanza è appesa un’enorme cartina geografica: non posso evitare di perdermi ad osservarla, apprezzando ancora una volta la vastità del globo e rammaricandomi del fatto che non basterebbero venti vite per girarlo tutto. Fantasticando sulle meraviglie del pianeta in cui vivo, sprofondo nuovamente nel sonno. La giornata di oggi è stata interlocutoria, ma domani sarà sicuramente molto più eccitante.

Il Circolo d’OroL’Islanda sorge esattamente sulla dorsale oceanica, e per questo è una nazione geologicamente molto giovane. Paragonata al resto del mondo, è come se fosse un neonato ancora in fasce. Ricca di vulcani, spaccature della crosta terrestre, terremoti e ribollenti masse d’acqua che si vaporizzano ed erompono in superficie con una forza impressionante, essa non manca di possedere delle vere e proprie mirabilie naturali correlate a ciò. Alcune di esse si possono sintetizzare percorrendo il celebre Circolo d’Oro, che va a toccare nell’ordine: il punto di divisione tra la placca eurasiatica e quella americana, una potente cascata doppia e un geyser. Praticamente obbligatorio per chiunque si avventuri in Islanda, non possiamo certo farcelo scappare. La mattina presto ci presentiamo alla fermata dell’autobus, attorniati da molte altre persone delle più svariate nazionalità. Curiosamente mancano gli italiani, da sempre conosciuti per essere dappertutto in giro per il mondo. Ci siamo comunque noi a tenere alta la bandiera nazionale. L’autobus arriva in perfetto orario e ci conduce velocemente al di fuori della città, rivelando il vero carattere del

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paesaggio islandese. Si potrebbe riassumere come una pianura irregolare e brulla, punteggiata qua e là da massi e laghetti, senza che una sola pianta ad alto fusto faccia capolino. Siamo usciti dal centro urbano solo da pochi chilometri, ma la natura è già selvaggia. La guida continua a parlare al microfono, in perfetto inglese, ma non abbiamo granché voglia di ascoltarla. È di gran lunga più gratificante immergersi nel paesaggio, estraniandosi dal resto.Dopo aver percorso svariati chilometri su una strada sterrata e serpeggiante, affiancata da numerosi condotti che servono a portare l’acqua calda dalle sorgenti geotermiche fino in città, raggiungiamo una centrale elettrica. Una bionda e paffutella ragazza ci illustra tutto il suo funzionamento, portandoci a vedere le enormi turbine e stupendoci quando racconta che a Reykjavík le persone hanno l’acqua calda istantanea, poiché arriva direttamente dalle sorgenti calde, ma per avere l’acqua fredda a volte devono aspettare anche qualche minuto, prima che essa riesca a filtrare. Desta stupore anche il fatto che l’Islanda utilizzi al 99% le energie rinnovabili per i fabbisogni della popolazione. Presto, infatti, la nazione conta di liberarsi dalla schiavitù del petrolio, che è ancora costretta ad importare con costi non indifferenti. Un paese così isolato e povero di risorse naturali deve importare di tutto, per poter vivere.Terminata la breve visita alla centrale, è tempo di muoverci ancora in autobus per raggiungere il celebre parco naturale di Pingvellir. Esso, oltre ad essere un luogo di una bellezza straordinaria con i suoi canyon e le sue muraglie naturali, è conosciuto per essere il punto dal quale passa la fenditura che divide la placca continentale eurasiatica dalla placca americana. Una spaccatura della roccia larga solo qualche metro, che divide con una linea netta questi due colossi geologici. Un momento siamo in Eurasia, l’altro in America, geologicamente parlando. Se già stare in Islanda fa sentire un po’ in un altro mondo, la sensazione si amplifica sapendo che qui siamo al confine tra altri due mondi. Il terreno ci sembra sempre così solido sotto i piedi, ma girare per l’Islanda aiuta a capire che in alcune zone del mondo la terra è capricciosa, può aprirsi in due in qualsiasi momento, senza preavviso…e rivelare abissi che forse è meglio non conoscere.Dopo Pingvellir tocca a Gullfoss, una spettacolare cascata doppia. La sua conformazione è peculiare: invece di aver campo libero per

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rovesciare le sue tonnellate d’acqua in uno spazio aperto, è costretta a far scivolare tutto di lato in una stretta fenditura, poiché un muro di terra si erge trasversalmente alla direzione del fiume. Il risultato estetico è formidabile. Il doppio salto crea altissime nubi di spruzzi, che salgono specialmente dalla stretta gola, e vengono scomposte dai raggi solari creando riflessi iridescenti. Siamo fortunati a capitarci in una giornata di bel tempo come quella di oggi, poiché ci dicono che nei giorni di foschia il secondo salto è completamente avvolto dalla nebbia e non si vede affatto. Ma la natura è generosa con noi, oggi. Speriamo che decida di esserlo anche per i prossimi quindici giorni. Non c’è molto da dire riguardo ad un luogo spettacolare come Gullfoss: potrei andare avanti per pagine e pagine a descrivere la sua bellezza, ma penso che la maggior parte delle sensazioni che ne derivano rimangano impossibili da trasmettere. Per chi non è un amante della natura, la cascata potrebbe suscitare solo indifferenza, mentre a noi fa nascere un turbine di sentimenti che però non hanno voce. Sopra la cascata, la presenza di un vastissimo ghiacciaio all’orizzonte e di alcuni cavalli in un recinto rende il tutto ancora più particolare. Curiosamente, i cavalli che vediamo sono tutti di razza islandese purissima: per evitare che venga contaminata da specie diverse, ora è assolutamente vietato importare cavalli stranieri in Islanda. Il cavallo autoctono è basso, elegante ma molto resistente: un animale fiero, e soprattutto molto fotogenico.Come ultima attrazione della giornata, c’è Geysir. Da esso hanno preso il nome tutti gli altri geyser del mondo. Il funzionamento di un geyser è il seguente: l’acqua riempie un pertugio che scende in profondità nella crosta terrestre. Nello specifico, addirittura per venti chilometri. A quelle profondità il magma sotterraneo scalda l’acqua che vi arriva vicino: essa dunque vaporizza e sviluppa una forte pressione. Per liberarsi, si fa strada attraverso l’acqua più fredda soprastante. Il vapore continua a salire, incontrando una resistenza progressivamente maggiore, che aumenta la pressione…finché raggiunge la superficie ed esplode, producendo un getto di gas caldissimo che buca letteralmente l’acqua. La fontana di vapore e acqua bollente che ne deriva è una spettacolare dimostrazione della forza della natura, e in questo caso anche della sua regolarità: lo Strokkur, infatti, è molto abitudinario ed erutta ogni cinque minuti in media. Raramente bisogna aspettare per più

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tempo, prima di vedere l’acqua del tranquillo laghetto gonfiarsi improvvisamente ed esplodere in uno sfavillio di fumo e gocce roventi. Le eruzioni sollevano una colonna alta almeno una decina di metri, che prontamente ricade su se stessa e sparisce nel giro di pochi secondi. Apparentemente la situazione torna normale, ma poco dopo il ciclo si ripete. Mentre noi stiamo qui ad aspettare, dalle profondità della terra sta già salendo un getto di vapore incandescente, ad altissima velocità. Questo spettacolo continua ad ogni ora del giorno e della notte, senza curarsi di nulla e di nessuno. Guai ad avvicinarsi troppo scavalcando le corde di protezione, oppure a posizionarsi sottovento: si rischierebbe una spiacevole doccia bollente.Lo Strokkur è il geyser più “turistico”, ma non il più potente. L’ammiraglio sarebbe per l’appunto Geysir, a poche decine di metri dallo Strokkur, ma sfortunatamente è inattivo da parecchi anni. Per la precisione, non erutta come si deve fin dagli anni Cinquanta. La colpa è dei turisti, o meglio di una razza incosciente e metastatica di turisti: gli intelligenti, infatti, lanciavano pietre nello specchio d’acqua, sperando in questo modo di “smuovere” il mostro. Ovviamente, a lungo andare i sassi hanno tappato tutto. Successivamente ci ha pensato un terremoto a disostruire parzialmente l’ingorgo, tuttavia oggi il geyser erutta solo poche volte al giorno e raggiunge altezze modeste, non certo paragonabili agli ottanta metri che un tempo sfiorava. Per un colpo di fortuna riusciamo anche a vederlo eruttare, ma la sua potenza è del tutto irrilevante, deludente. Tuttavia, non sono solo questi due geyser a popolare la zona. Tantissime altre fumarole e piccole sorgenti calde pullulano sul terreno. Il fumo si confonde a tratti con i cumuli di nuvole, insolitamente bassi. Alcuni dei geyser più piccoli non sono niente più che piccole pozzanghere ribollenti di vapore, mentre altri sono laghetti più grandi, dai quali fuoriesce costantemente acqua calda, che poi va a perdersi ed evaporare lungo le rocce. Provo a toccare l’acqua con le dita, e quasi me le ustiono. La temperatura è prossima a quella di ebollizione. Continuiamo per un po’ ad esplorare la zona, ma purtroppo non c’è molto tempo: presto l’autobus ripartirà verso Reykjavík ed è meglio affrettarsi a salire. Come prima giornata di natura islandese, credo che abbiamo iniziato molto bene, ma i piatti forti devono ancora arrivare.

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Preparazione per la battagliaRitorniamo a Reykjavík con un discreto carico di stanchezza, ma molto soddisfatti. Un pensiero ci elettrizza e preoccupa nello stesso momento: domani cominceremo il trekking da Landmannalaugar a Porsmork, universalmente apprezzato e conosciuto come uno dei più belli al mondo. Inutile dire che, per due appassionati di paesaggi naturali come noi, l’occasione di percorrerlo è tremendamente interessante. Ma come tutte le cose che vale la pena di fare, anche questa camminata si prospetta difficile, massacrante, irta di difficoltà. Dovremo raggiungere il campo base del Landmannalaugar, in cinque ore di autobus. Tra il campo base e il rifugio di Porsmork, che è l’ultima tappa, ci sono quattro giorni di cammino. Tre rifugi intermedi, Hrafntinnusker, Álftavatn e Botnar I Emstrur, sono disseminati lungo il percorso, ma non fanno certamente servizio ristorante e quindi è necessario portarsi sulle spalle il cibo e l’acqua per quattro giorni interi. Gli zaini sono già pesanti per via del nutrito equipaggiamento necessario per il trekking, e le provviste li renderanno veramente gravosi. Peseranno più di quanto abbiamo mai portato sulle spalle, e proprio in corrispondenza di una delle esperienze più difficili. Ma ce la dobbiamo fare, siamo venuti qua apposta. Qui non ci sono comodità: per godersi le vere meraviglie islandesi bisogna faticare e conquistarsele. Passiamo tutta la giornata che rimane a riorganizzare gli zaini, fare la spesa, cercare di far entrare nelle tasche tutto il possibile senza far straripare nulla, imprecare perché non ci riusciamo, e tante altre cose ancora. Il momento della pesata è drammatico: gli zaini, riempiti con tutto il necessario, sono dei veri macigni. Ma non c’è nulla di superfluo: tutto è necessario. Ci sono oggetti che speriamo di non usare mai, ma che in condizioni di emergenza potrebbero rivelarsi fondamentali, quindi non possiamo non portarli. Ci ritroviamo sulle spalle circa diciassette – diciotto chili ciascuno. Se riusciremo a superare i primi dieci metri, sarà già un successo. Arrivare in fondo, poi, sarebbe la prova che siamo immortali.

Trasporto fino al campo di battagliaDa una parte vorremmo che questa nottata non finisse mai, per non arrivare al momento in cui dovremo metterci per forza gli zaini in

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spalla e cominciare a sudare. Dall’altra, vorremmo essere già sul posto e iniziare subito a camminare, senza doverci sorbire cinque scomode ore di viaggio. In tutta la prima parte del trasferimento in autobus, una nebbia densissima ci avvolge senza tregua. Inoltre, le strade interne dell’Islanda sono dissestate, sconnesse, piene di piccoli fiumiciattoli da guadare. L’autobus è perfettamente attrezzato per questi percorsi, ma nonostante i suoi potenti ammortizzatori a balestra, il comfort lascia decisamente a desiderare. Lo sballottamento continuo, tuttavia, non ci impedisce di sbalordirci per la desolazione delle zone che attraversiamo. Il comune denominatore è la totale assenza di vegetazione, se escludiamo la fragile erba, il muschio e i licheni. Il terreno si alterna tra erboso, sassoso, ghiaioso e sabbioso, ciascuno con differenti varietà di colori. In prossimità del vulcano Hekla, la porta dell’Inferno secondo gli islandesi, si mette anche a piovere. L’acqua si mischia alla sabbia nerastra, formando un fango che si appiccica dovunque. Dense nubi coprono le cime montuose che ci circondano da ogni parte, impedendoci di vedere questo bellicoso vulcano. Ed ecco che dopo la bocca fumante ricominciano le piane erbose, punteggiate da massi anch’essi neri. Tra le conche montuose fanno capolino anche diversi laghetti di forma allungata, perfettamente limpidi e calmi. Infatti ha già smesso di piovere ed è uscito un sole quasi prepotente. L’autobus svolta attorno ad una sporgenza rocciosa e ci troviamo improvvisamente di fronte ad una valle sconfinata, della quale a stento si vede la fine. Ma quanto mancherà ancora? Sembra di inoltrarsi in un paesaggio alieno, di quelli che si vedono solamente nei sogni.Dopo qualche chilometro, finalmente, sono visibili alcuni segni di presenza umana. Siamo giunti davanti ad un ammasso di baracche di legno verde, poste esattamente in mezzo al nulla. Non sarà per caso questo il campo base? Ce l’avevano descritto come un luogo in cui c’è poco o niente, solo un piccolo spaccio che vende panini, caffè e bibite, e nient’altro. Potrebbe benissimo essere questo, ma non è così. A quanto pare, ci siamo fermati davanti a quest'agglomerato di capanne solo perché l’autista doveva consegnare il giornale al gestore. Sembra che siamo venuti qua apposta per portarglielo. Tra altri saliscendi, corsi d’acqua e rocce dal colore indefinibile, finalmente è in vista il vero campo base di Landmannalaugar. È popolato da tende di ogni colore, forma e

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dimensione, più qualche baracca di legno e un vecchio autobus, dismesso e riadattato a spaccio. E così questo è il luogo della verità.La gente abbonda ovunque, sembra di essere ad un raduno motociclistico. Dopo aver faticato un po’ per trovare il punto informazioni, cosa piuttosto paradossale data la scarsità di strutture, scopriamo che prima di partire dobbiamo compilare un modulo. Questo per ragioni di sicurezza: dobbiamo infatti scrivere tutte le tappe che abbiamo intenzione di raggiungere, il giorno in cui contiamo di arrivare in ciascuna di esse, e infine la sistemazione che prevediamo (rifugio o tenda), così che i gestori possano sapere quanta gente aspettarsi per ogni notte. Gli dobbiamo anche lasciare il numero di cellulare, così da dar loro modo di chiamarci prima di far partire un’eventuale spedizione di recupero e salvataggio. Speriamo di non arrivare mai a questo punto! Inoltre, come faranno i cellulari ad avere campo in questo luogo totalmente selvaggio, se escludiamo i paletti di segnalazione del percorso? Non vediamo da nessuna parte ripetitori, né linee elettriche, né altro. Natura incontaminata, pura, vergine. Di umano c’è solo il sentiero. È vietato perfino piantare la tenda nei luoghi non adibiti a campeggio: l’intera area fa parte della Riserva naturale di Fjallabak, ed è protetta. Chi viene sorpreso a piantare una tenda dove non può, rischia una multa indimenticabile. Dopo aver consumato un veloce ed energetico spuntino, nonché esserci assicurati che ogni cosa sia al suo posto, iniziamo a pensare a come vestirci per camminare. Il sole splende, ma le nuvole sono numerose e non sappiamo come potrà evolversi la situazione meteorologica. Sarebbe seccante e disagevole tirar fuori precipitosamente giacca e pantaloni impermeabili e poi indossarli sopra i vestiti che già abbiamo. Anche se la scelta è discutibile, scegliamo di tenere su i vestiti idrorepellenti fin dall’inizio. Suderemo indegnamente, ma almeno non rischieremo di essere sorpresi da un acquazzone. Se anche si metterà a diluviare all’istante, almeno avremo già addosso i vestiti adatti.

La battaglia è iniziataOra è arrivato il momento di partire. Non è il caso di indugiare ulteriormente: sono già le due di pomeriggio e prevediamo almeno sei ore per raggiungere il rifugio di Hrafntinnusker. Il primo giorno

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si percorrono dodici chilometri. Una fotografia di quello che ci circonda all’inizio del nostro percorso è: da un lato rocce, dall’altro montagne spoglie, dall’altro ancora rocce, dall’altro ancora altre montagne spoglie ma di colore diverso. Basta. Nonostante il peso degli zaini, il primo tratto è superato senza troppi problemi. L’unico ad avere qualche noia è Davide, che litiga più volte con gli spallacci lombari del suo zaino, colpevoli di non scaricare sufficientemente il peso sul bacino e di farlo gravare tutto sulle spalle. Alla fine però riesce a sistemarsi definitivamente e a trovare il giusto bilanciamento, o meglio si accontenta del meglio che è riuscito a fare, e riprendiamo a tenere un passo stabile. Camminiamo in mezzo a campi di ossidiana, una particolare roccia nera e vetrosa formata dalla lenta solidificazione della lava. Con questo materiale le civiltà precolombiane costruivano le loro lance. Duro, ma fragile e facile a spezzarsi. Scintilla al sole in modo quasi sinistro, complice l’assoluta aridità del contesto. Sembra che qui la cosa più viva sia proprio l’ossidiana.Cominciamo ora a salire. Sulla nostra sinistra si riapre la visuale, rivelando uno sterminato campo di pietre, e a mano a mano che saliamo la pietraia si amplia sempre di più. Accanto a noi, invece, ci sono numerose fumarole dall’odore pesantemente sulfureo. Conviene respirare con la bocca, anche se è irritante per i polmoni, per non saturarsi i recettori olfattivi con questa puzza tremenda. La presenza di zone sulfuree però ha anche i suoi lati positivi: le rocce che lo ospitano hanno colori stranissimi, tendenti all’azzurrino ma mischiati con varie tonalità di marrone. Se non fosse assolutamente proibito portare a casa ricordini rocciosi, sarebbe bello prenderne un po’ per esporla su una mensola di casa. Darebbe un tocco di colore splendido. Ma è vietato, e inoltre non è proprio il caso di caricare gli zaini di altro peso. Per ora i fardelli sembrano ancora sopportabili, ma bisogna vedere in che condizioni arriveremo al traguardo. L’unico pensiero consolante è che prima o poi consumeremo buona parte del cibo e dell’acqua, e quindi il tutto andrà a pesare sempre meno, ma è anche vero che contemporaneamente aumenterà la stanchezza e alla fine la risultante dello sforzo sarà sempre uguale. L’ho già sperimentato più volte camminando in montagna. Superata la fumarola, scolliniamo e iniziamo a percorrere una parte più pianeggiante, stavolta in prevalenza sabbiosa e marroncina.

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Osservando la montagna direttamente dietro di noi, ci accorgiamo che è percorsa da un sentiero praticamente verticale e ben tracciato. Non sarà per caso quella la nostra strada? Guardando bene possiamo scorgere anche delle persone che ci stanno camminando, dunque non è una strada di servizio o qualcosa di simile, è un percorso a tutti gli effetti. Ci sentiamo già male se pensiamo che la continuazione potrebbe essere quella. Come potremmo mai camminare lungo un sentiero così impervio, carichi come siamo? Ma fortunatamente la strada non è quella: proseguendo vediamo che ce ne allontaniamo sempre di più, e infine il sentiero vira chiaramente in direzione opposta. Per ora siamo salvi, ma non sappiamo nulla di quel che abbiamo davanti ed è meglio non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato.Il paesaggio non è cambiato di molto, anche se ora le tonalità verdi predominano. Ci attende un numero incalcolabile di collinette sulle quali salire e scendere, in un continuo percorso altalenante. Ogni tanto, qualche persona passa e ci supera di gran carriera, forte di chissà quanti anni di allenamento, ma non ce ne curiamo troppo. In montagna bisogna andare al proprio passo. Inoltre abbiamo tutto il necessario per sopravvivere in qualsiasi condizione atmosferica, cibo e acqua a volontà, e una tenda e i sacchi a pelo per le emergenze più catastrofiche. Anche se rimarremo gli ultimi su queste montagne, non finiremo qui i nostri giorni. L’unico problema potrebbe essere un eventuale temporale. Sappiamo che non bisogna assolutamente ripararsi sotto gli alberi, perché se colpiti dai fulmini esplodono come granate, a causa dell’istantanea vaporizzazione della linfa. Il problema qui non si pone, in quanto gli alberi non esistono proprio: tuttavia, non ci sarebbe nemmeno uno straccio di riparo dove ficcarsi. Le montagne sono completamente spoglie e lisce, non c’è un anfratto, non c’è una grotta, non c’è un luogo riparato. Siamo allo scoperto, sotto il costante tiro di un cecchino dalla vista grandangolare e dal cuore spietato.

La battaglia continuaLe nuvole ora coprono il cielo e il sole è temporaneamente sparito dietro di esse. Comincia a fare un freddo intenso, e anche il vento che spira non è affatto benevolo. Ciò implica che dobbiamo rivoluzionare l’abbigliamento. Un maglione supplementare addosso,

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il cappellino con visiera sostituito dal berretto pesante, il bavero della giacca tirato fino in cima. Purtroppo mancano i guanti, e ne sento la mancanza. Il problema delle mani fredde è per me cronico, mentre non è così per Davide, che sembra proprio indifferente. Fortunato lui. Risolvo il problema tenendo le mani in tasca, ed effettivamente avverto un certo beneficio. Quando rialzo la testa dal sentiero e mi guardo in giro, mi fermo un attimo a valutare realmente la situazione. Ormai il campo base non si vede più. Tutto quello che vedo è terra brulla e arida. L’unico rumore è quello del vento. Mi sono già trovato più volte in questa situazione, per me splendida. Nei due mesi che ho passato in Siberia, durante l’inverno, ho visto territori sconfinati e desolatissimi, ma l’Islanda riesce a battere perfino la regione più estesa e disabitata del mondo. In Siberia non mi potevo mai allontanare più di tanto dalla ferrovia o dal paese, per via delle bassissime temperature. Bene o male, anche nella natura più estrema e selvaggia, ero vincolato alla civiltà. Qui invece la civiltà appare molto più distante, irraggiungibile. Mi si affollano in testa pensieri contrastanti. Stare qui è bellissimo, ma cosa mi succederebbe se dovessi ammalarmi seriamente? Anche solo una banale appendicite sarebbe un problema grave. Non succede, non deve succedere e non succederà mai, ma potrebbe succedere. A volte, durante la vita normale, ci sentiamo invulnerabili e inattaccabili dalle intemperie del mondo esterno. Disgrazie, malattie e problemi colpiscono sempre gli altri, noi ne siamo risparmiati. Camminare in mezzo a questi crinali, però, ha il potente effetto di ricordarmi che non c’è niente di più effimero della vita umana. Qualsiasi cosa che a casa mia sembra semplice e scontata, qui diventa importantissima. A cominciare dalla più banale di tutti, la salute, che in questo preciso momento è un dono di inestimabile valore. Lo è sempre, ma è solo in momenti come questo che me ne rendo pienamente conto. Vedere queste terre così inconsuete, inoltre, apre altri interrogativi. Tutto questo è stato creato per noi, sempre che sia stato creato da qualcuno? Non vedo a cosa possa servire questa distesa di niente. Ci crescono a malapena i fili d’erba, animali non ce ne sono, gli esseri umani non ci possono vivere. Ma una volta, tutto il globo terrestre era così, spoglio e selvaggio. È solo adesso, dopo averlo trasformato fino all’osso, che improvvisamente l’Islanda appare un’oasi di natura ancestrale. Solo adesso sembra un mondo fuori dal mondo, un luogo sostanzialmente privo di

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significato. Abituati come siamo a non poter più vivere senza le comodità moderne, un posto come questo è diventato potenzialmente pericoloso e dispensatore di morte. È tuttavia tempo di riscuotermi dalle riflessioni di carattere filosofico e metafisico, poiché la prima tappa è tutt’altro che raggiunta. Ormai siamo saliti di quota e inizia a fare più freddo: cominciano perfino a vedersi le prime lingue di neve. Esse riempiono ogni spazio disponibile tra le colline, come farebbe l’acqua liquida. Su alcuni di questi ponti di neve, sporchi di cenere vulcanica, bisogna camminare come se fossero sentieri. Per fortuna non si è ancora sciolto niente, altrimenti sarebbero state necessarie alcune deviazioni. Superate le ultime collinette, che ora hanno assunto un colore ocra, appare sulla sinistra il maestoso ghiacciaio del Myrdalsjökull. Non siamo lontani nemmeno dall’Eyjafjallajökull, il ghiacciaio - vulcano che questa primavera ha eruttato dopo 187 anni di inattività, paralizzando il traffico aereo di metà Europa. La cenere che si vede ovunque sulla neve è proprio la sua. Non ci impensierisce molto la vicinanza con questo mostro: ormai il vulcano ha fatto quello che doveva fare, e se per caso volesse tornare a finire il lavoro, è sempre meglio morire sepolti da un’eruzione in Islanda piuttosto che a casa nostra, in uno stupido incidente automobilistico.Osservando sempre il ghiacciaio sulla sinistra, attraversiamo un ponte di neve più grande degli altri, sul quale qualcuno ha scritto delle parole usando i piedi. Forse è un messaggio di saluto per qualche altro compagno rimasto indietro, ma non si capisce bene. La scritta è in parte cancellata. Poco dopo, si fanno strada dei fiumiciattoli attraverso una massa di muschio, che cresce precariamente sul terreno nerissimo. Il collage di colori è veramente spettacolare, non sembrano nemmeno reali. Ma le sorprese non finiscono: qualche centinaio di metri più avanti riappaiono le fumarole, e addirittura una sorgente d’acqua caldissima, che sgorga impetuosamente da una piccola nicchia. Potremmo buttarci la pasta. In questa zona l’acqua è più abbondante: i fiumiciattoli formano numerose anse e si uniscono gli uni agli altri, per poi divergere e andare ad alimentare altre zone. Alimentare per modo di dire, poiché c’è ben poco che vive quassù. Il clima è rigido, nonostante ci troviamo a meno di mille metri d’altitudine. Complice l’aridità del

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suolo e la latitudine, le condizioni sono simili a quelle che in Italia troveremmo a duemila o forse anche tremila metri. Finalmente, dopo diverse ore dalla partenza incontriamo qualche persona che cammina in direzione opposta alla nostra. I primi sono tre ciclisti che scendono dalle collinette a tutta velocità, salvo poi smontare dalla bicicletta e spingerla a mano fino alla cima della collina successiva, e così via. Hanno un bel coraggio a lanciarsi verso la valle in quel modo, anche se per poche decine di metri. Poi incontriamo una turista tedesca di circa cinquant’anni, accompagnata da quello che probabilmente è il figlio. Alla mia domanda in merito, afferma che il prossimo rifugio non è lontano ed è dietro quella grossa collina che vediamo in fondo. Decisamente rinvigoriti da questa informazione, riprendiamo a camminare con rinnovata forza. Ci sono due o tre colline più piccole da superare prima di raggiungere quella grande, ma ormai è cosa di poco conto. Almeno così pare…Sembra che le novità non debbano finire mai lungo questi sentieri. Sul fondo di una verdissima conca ristagna del vapore solforoso, che però non riesce a nascondere la presenza di numerosi fiorellini bianchi. Finalmente qualcosa che cresce! Ma non ci sono altri fiori: proseguendo non ne troviamo più nemmeno una traccia. Crescono solo in quel punto preciso. Oltre, ci sono solo cumuli di neve, variamente ammassati tra le montagne, alcuni in posizioni così precarie da dare l’impressione di reggersi con tutte le loro forze alle pendici dei monti per non rovinare giù. Arriviamo infine in cima alla collina grande, ma non c’è traccia di insediamenti umani qui. Un’altra sorpresa fa capolino, ma stavolta negativa: mancano ben tre chilometri e mezzo all’arrivo, come recita un cartello! Ma com’è possibile? O la signora ci ha preso in giro oppure abbiamo capito male noi. Non bisogna mai fidarsi! Il cartello ci demoralizza notevolmente, poiché ci eravamo già creati delle aspettative, cosa che non si dovrebbe mai fare. Tra noi e il rifugio, ora, c’è di mezzo un apparentemente sterminato pianoro di sabbia vulcanica nera. Non ci sono punti di riferimento, solo le segnalazioni. Se non ci fossero, potremmo camminare in qualunque direzione senza accorgerci della differenza. Iniziamo a seguire i paletti con sempre meno motivazione, ma ben presto un banco di nebbia fittissima si avvicina da destra e ci ingloba. Ormai, da

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qualunque parte ci giriamo, vediamo sempre la stessa cosa, cioè niente. Fortunatamente, i paletti sono stati messi molto vicini tra loro, appunto per evitare che gli escursionisti si possano perdere in condizioni di scarsa visibilità. Eliminato il rischio di perderci, c’è però un altro problema. Ormai siamo in viaggio da non poche ore, anche se abbiamo perso il conto preciso, e comincia a calare la sera. Sono quasi le sei. Ce la faremo ad arrivare fino in fondo oggi? Non ci sembra di aver tenuto un passo particolarmente lento, ma in ogni caso sembra che non sia stato sufficiente. Fortunatamente, in questo periodo ci sono almeno venti ore di luce a queste latitudini, quindi anche arrivando più tardi del previsto non dovremmo avere problemi. Ma non sappiamo come sia la strada che ci separa dal rifugio. Questi tre chilometri e mezzo saranno sempre pianeggianti o al massimo in falso piano, come sono adesso, oppure ad un certo punto si ricomincerà a salire? Già adesso siamo molto rallentati dalla fatica e dagli zaini, che hanno cominciato a segare in due le clavicole e la zona lombare. L’unico modo per scoprirlo è andare avanti, e sperare che questi chilometri mancanti passino in fretta.Una leggera pioggerellina portata dalla nebbia si aggiunge al quadretto, ma non ci impensierisce, poiché abbiamo addosso un completo di vestiti impermeabili. Tuttavia, sentiamo le gambe completamente zuppe. Deve essere il sudore, che non ha modo di traspirare e si accumula. Ciò non è piacevole: in questo modo, i pantaloni jeans indossati sotto si imbevono e si appesantiscono, ostacolando la marcia. Ma questo non è proprio il posto adatto per cambiarsi.Le soste diventano sempre più numerose, e ognuna dura un po’ di più della precedente. Le stesse sensazioni che provavo all’inizio ora si sono tramutate in sensazioni negative. Pur sapendo che non rischiamo nulla, non è certo piacevole essere qui ora in queste condizioni, con addosso lo spettro di esserci persi. Razionalmente so che non possiamo perderci finché non manchiamo il sentiero, ma ormai abbiamo tutti e due raggiunto quello stato mentale in cui ogni cosa perde il proprio sapore piacevole e diventa solo un peso. Ogni movimento è teso a scappare e non ci gustiamo più niente. Speravo che non sarei arrivato a questo punto, ma ci sono dentro in pieno. Se almeno non ci fosse la nebbia…

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Trattato di pacePassa un’altra ora di camminata, sempre più stentata, prima di raggiungere un ponte di neve davvero enorme. Fortunatamente è solido come gli altri, ma impieghiamo almeno cinque minuti per attraversarlo tutto. Sembra quasi che l’orizzonte lo faccia la neve, adesso, e non più il terreno. Ma presto siamo dall’altra parte e, dopo aver superato un piccolo crinale, scopriamo di non essere ancora giunti in nessun posto. Ancora paletti, tutti uguali. Basta, non ne possiamo più! Ormai qualsiasi sentimento positivo è svanito, sentiamo solo i dolori alle spalle e daremmo qualsiasi cosa per essere già arrivati. In più, non ci aspetta nemmeno un letto, ma uno scomodo materassino dentro una tenda, che tra l’altro dovremo montare per la prima volta. Ormai spero più di arrivare, ma dopo l’ennesimo crinale improvvisamente appare il rifugio, sul vicino fondovalle. È tutto avvolto dalla nebbia, ma si vedono bene anche le numerose tende, piantate su questa conca nera e sabbiosa. Nel momento in cui ho smesso di aspettarmi l’arrivo, sono arrivato. Succede sempre così.Sono circa le sette e mezza di sera, e ci abbiamo messo sei ore come previsto. Finalmente scendiamo per l’ultima volta lungo la collina e cerchiamo il punto dove prenotare la piazzola. Scendendo, notiamo che ogni tenda è circondata da barricate di sassi, presumibilmente per proteggerle dal vento. Mi sento male al pensiero che dovremo costruirne una anche noi, prendendo i sassi uno per uno da chissà dove. Già mi mancano le forze per camminare, e nel momento in cui devo posare a terra gli zaini, le mani non hanno quasi la forza di slacciare gli spallacci. Figurarsi spostare dei macigni. Davide insiste nel dire che secondo lui il punto di riferimento per i campeggiatori è una grossa tenda bianca, grande almeno il triplo delle altre, posta esattamente al centro del campeggio. Secondo me, invece, è una normalissima tenda di un numeroso gruppo di viaggiatori. Tuttavia, mi lascio convincere a percorrere i trenta metri che ci separano dal presunto quartier generale. Avevo ragione io, la piazzola si prenota nel rifugio. Vorrei strozzare il mio amico che mi ha costretto a percorrere ben sessanta metri inutilmente, poiché eravamo già davanti all’entrata del rifugio e bastava entrarci. Anche questa poca strada ormai mi è insopportabile. Nel momento in cui ho visto apparire davvero il rifugio, le forze mi sono come svanite. La

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tensione che mi teneva in piedi se n’è andata e ha trascinato con sé le poche energie residue. Arrivo al rifugio tenendo un’andatura a dir poco strampalata, butto disordinatamente lo zaino a terra e mi arrampico sulla piattaforma di legno che fa da base per il rifugio. All’interno ci sono nugoli di persone, sedute attorno a tavoli enormi. Gli stanzoni da letto sono ovviamente comuni, e le brande corrono per tutta la lunghezza dei muri. Sembrano tutte occupate. Non provo nemmeno a chiedere un posto letto al custode: un po’ sono sicuro di non trovarne, e un po’ vogliamo usare la tenda, dato che l’abbiamo portata apposta. Quei quattro chili in più, tra tenda e accessori per montarla, ce li siamo scarrozzati fin qui, e ora devono fruttare qualcosa. La luce all’interno del rifugio è bassissima, assicurata solo da alcune precarie candele. La ragazza che gestisce il rifugio mi parla a voce bassa, tanto bassa che quasi non capisco quello che dice. Il prezzo, però, lo afferro subito. Tento di pagare con la carta di credito, ma non mi è possibile: non perché manchi l’aggeggino apposito (in Islanda ce n’è uno dappertutto) ma perché la mia carta è sprovvista di un qualche genere di firma digitale, o non so quale altra complicazione. Non mi interessa, pago in contanti, basta che mi dica subito come posso fare per piantare la tenda. La risposta è che possiamo piantarla dove vogliamo, ma che ci conviene scegliere attentamente un luogo pianeggiante, e che è meglio costruirci una barricata, poiché il vento in questa conca può soffiare a velocità devastanti. Come temevo. La ragazza mi dà inoltre un contrassegno adesivo da applicare sull’esterno della tenda, per testimoniare che abbiamo pagato la piazzola. Spero almeno che sia resistente all’acqua, perché non appena esco scopro che sta iniziando a piovere. Non più la pioggerella fine ed impalpabile creata dal banco di nebbia, ma stavolta una pioggia vera. Ma perché deve piovere proprio adesso che dobbiamo montare la tenda? Sembra proprio la nuvola di Fantozzi!Cerchiamo un punto il più possibile in piano, ma non è facile trovarne uno in questa conca. Il terreno ha sempre una lieve inclinazione. I posti migliori se li sono già presi gli altri, più veloci di noi ad arrivare e ad accaparrarseli, ma spostandoci verso la periferia del campeggio riusciamo a trovare uno spiazzo decente. Abbiamo anche la fortuna di poter sfruttare un muro di protezione crollato a

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metà. Evidentemente, qualcuno ha già piantato la tenda in quel punto, segno che non è un cattivo posto. Pur nella generale mancanza di forze, posizioniamo il telo impermeabile e montiamo la tenda velocemente, incalzati dai goccioloni che continuano a scendere e stanno lentamente aumentando di numero ed intensità. I picchetti sono molto sottili e quasi non rimangono conficcati in questo terreno sabbioso e cedevole, ma assicurandoli con alcuni sassi riusciamo perlomeno a farli stare fermi. Non c’è modo di impedire che l’interno della tenda si bagni un po’, ma tutto sommato riusciamo a fare un lavoro perfetto per quelle che sono le nostre possibilità. Io monto la tenda, Davide si occupa di rinforzare un po’ l’improbabile muro di cinta. Fortunatamente, le operazioni di montaggio non sono difficili, nonostante la scarsa esperienza. Le poche prove che abbiamo fatto a casa mia, prima di partire, sono state sufficienti. In dieci minuti la tenda è montata. La pioggia non ha fatto troppi danni, ma non possiamo evitare di infradiciare anche l’interno, in quanto dobbiamo farci stare anche gli zaini, completamente bagnati. Per poter estrarre la tenda e l’occorrente, infatti, abbiamo dovuto togliere i coprizaino di tela impermeabile, esponendoli all’acqua. L’interno degli zaini è salvo, ma tutte le goccioline che si sono depositate sulla superficie esterna ora vanno a bagnare il fondo della tenda. Salviamo almeno un angolino asciutto, il più interno, e finalmente riusciamo ad entrare anche noi. Manca però l’adesivo da attaccare, così Davide ritorna fuori e in qualche modo lo appiccica sulla tela bagnata, poi rientra in fretta e furia e si schianta come me sul pavimento. Lo spazio è angusto, occupato più dagli zaini che da noi stessi. Districarsi in questo groviglio di oggetti, scomodi come siamo, è un’impresa. Oltretutto, i dolori sono forti come non mai: mi basta piegarmi in avanti per sentire delle fitte atroci alle spalle. In qualche modo, comunque, riusciamo a sistemare materassini, sacchi a pelo e a sdraiarci, per riprendere almeno un po’ di energie. Quasi subito ci togliamo i pantaloni impermeabili, e scopriamo che i jeans sottostanti sono completamente inzuppati di sudore. Sembra che siamo appena entrati in un fiume. Totalmente fradici. Con il tempo che c’è, non si asciugheranno mai. Fortuna che abbiamo un ricambio.Ci vuole almeno un’ora per assestarci definitivamente. Il sottile materasso non si può certamente definire comodo, ma è

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indispensabile per non dormire a diretto contatto con il terreno. Sarà in ogni caso una notte difficile, poiché non accenna a smettere di piovere, e anche se la tenda è impermeabile si forma continuamente della condensa dovuta all’evaporazione dell’acqua che ha bagnato noi e gli zaini. Le uniche cose che sono rimaste fuori, o meglio nella microscopica “anticamera” della tenda, sono la mazza per conficcare i picchetti e le scarpe, che purtroppo non possiamo tenere dentro, per non sporcare ovunque. Speriamo che la piccola protuberanza della tenda riesca a deviare sufficiente acqua da risparmiarne almeno l’interno, altrimenti domani dovremo calzare delle scarpe completamente bagnate. Nel caso, infileremo i piedi in un sacchetto di plastica prima di indossarle, ma non sarebbe il massimo per la traspirazione. Dopo aver consumato un pasto di una frugalità imbarazzante, scivoliamo infine nel sonno. La nostra prima esperienza di campeggio non è andata esattamente come pensavamo, e se penso che sarà così anche per i prossimi tre giorni, decisamente non mi sento rinfrancato.

La battaglia riprendeIl riposo lava via in parte la stanchezza, ma non i dolori, forti quasi quanto ieri. Ora cosa facciamo? Continuiamo, oppure torniamo indietro? L’idea ci viene perché anche stamattina il tempo è pessimo, siamo stanchi e non sappiamo se valga la pena di continuare. Forse abbiamo sottovalutato questo trekking, fuorviati anche dalla guida turistica, che afferma “Trekking affrontabile da chiunque sia in buone condizioni fisiche”. Sarebbe più corretto dire che è un trekking affrontabile da chiunque sia in ottime condizioni fisiche e sia allenato a percorrere parecchi chilometri al giorno con uno zaino pesante sulle spalle. Il percorso non lascia alternative: o ci si porta la tenda come abbiamo fatto noi, e in questo modo lo zaino inevitabilmente pesa, oppure si prenotano i rifugi con molto anticipo, sborsando non pochi soldi. Forse abbiamo esagerato anche con l’acqua: ne abbiamo portati nove litri, ma ne abbiamo bevuti a stento uno e mezzo finora. E la cosa triste è che abbiamo scoperto che nei rifugi l’acqua c’è…Tutte cose che si apprendono con l’esperienza, la sola maestra che prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione.

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Ora, dunque, che fare? Per prendere la decisione migliore interpelliamo anche la custode del rifugio, che però rimane sul vago. Afferma che dobbiamo decidere noi in base alle nostre forze. Se dovessimo decidere solo in base a queste, probabilmente torneremmo indietro, ma altri elementi ci spingono a continuare. Per cominciare, oggi sarà quasi tutta discesa. Inoltre, il meteo è brutto qui, ma in questa conca potrebbe rimanere uguale per giorni, mentre è più facile che migliori una volta scesi di quota. Guardiamo la cartina altimetrica appesa su una parete del rifugio, cercando di farci un’idea del percorso che ci attende. Ci sono un po’ di saliscendi solo nella parte iniziale, e non sembrano nemmeno ripidi. Il resto è tutto in discesa. Inoltre, ad Álftavatn, il rifugio che dovremmo raggiungere oggi, passa anche un autobus che potremmo prendere per tornare alla civiltà. L’unica cosa che ci trattiene è la presenza di numerosi guadi lungo il percorso, da superare a piedi. La ragazza del rifugio, tuttavia, ci assicura che sono molto bassi in questo periodo dell’anno, e che si possono agevolmente superare in pochi secondi, a volte perfino saltando da una roccia all’altra. Inoltre, oggi ce n’è solo uno da superare, tutti gli altri si trovano al terzo e quarto giorno di cammino. Alla luce di tutto ciò, decidiamo infine di proseguire. Smontiamo la tenda in fretta e furia, arrotolandola come possibile e infilandola scompostamente nella sua saccoccia, ancora sporca di fango. Lo stesso vale per la mazza, i picchetti e il telo impermeabile, che vengono riposti nel mio zaino in modo a dir poco sbrigativo. Purtroppo sta piovendo a dirotto e non c’è modo di agire con più grazia, anche perché fa freddo e la sensibilità delle mani non è il massimo. Fortuna che siamo vestiti di tutto punto contro l’acqua. Una volta messo via tutto, tra imprecazioni varie, rimettiamo gli zaini sulle spalle rotte e cominciamo ad incamminarci verso Álftavatn. Ci aspettano altri dodici chilometri. Ma tutto sommato è meglio muoversi, piuttosto che rimanere in questa squallida conca, perennemente avvolta da una cappa nebbiosa.La cartina del rifugio, però, era decisamente ingannevole. Dopo poche centinaia di metri ci rendiamo conto che i saliscendi sono duri da superare, esattamente come quelli di ieri. Sulla cartina sembravano solo dei rilievi insignificanti. Ma forse lo sono davvero, ed è la stanchezza a farli sembrare molto più duri di quanto in realtà non siano. Il paesaggio non cambia molto rispetto a ieri, anche

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perché la nebbia ancora non si è diradata e non possiamo vedere molto di quello che abbiamo attorno a noi. Scatto pochissime fotografie, non ho proprio voglia di tirar fuori continuamente la macchina fotografica, come invece ho fatto ieri. Anche oggi ci superano numerosi gruppi di persone, che camminano a velocità supersonica. Ma che senso ha andare così veloci, anche se si è allenati? Si arriva al rifugio successivo in poche ore e poi non si fa più niente per tutto il resto della giornata. Non ci si gode nemmeno un po’ il paesaggio, in questo modo. Affari loro, noi terremo il nostro passo, che ormai è decisamente lento. Per fortuna, ogni tanto ci sono degli ampi tratti pianeggianti dove far riposare un po’ gli arti inferiori. In ogni conca tra due collinette c’è un fiumiciattolo da superare, ma è bassissimo e non crea problemi di guadi. I veri fiumi da guadare arriveranno più avanti. Si scende da una collinetta e si risale su un’altra uguale a quella precedente, e così via per decine di volte. Una montagnetta più alta delle altre ci costringe ad una faticaccia assurda per raggiungere la sua cima, e una volta arrivati sulla sommità ci fermiamo per dieci minuti, con il cuore a mille e i polmoni in procinto di scoppiare. Una coppia di ragazzi tedeschi, alti almeno trenta centimetri più di noi, si unisce alle nostre lamentele per la tabella altimetrica del rifugio. Non si capisce assolutamente che il sentiero è così difficile, leggendola. Loro sostengono che d’ora in poi sarà tutta discesa, ma memore dell’esperienza di ieri preferisco non dare loro troppo credito. Può anche darsi che abbiano ragione, ma non voglio farmi aspettative che poi potrebbero essere deluse.La nebbia è ancora molto fitta e la visibilità non supera la decina di metri, appena sufficiente per localizzare i paletti di segnalazione. Comincia ora una discesa molto ripida e fangosa, lungo una strada serpeggiante e senza alcuna protezione. Se si mette un piede in fallo si può cadere di sotto. Stando attenti, riusciamo a scendere senza farci male, e una volta sul fondo della piccola valle ci troviamo di fronte ad uno spettacolo veramente suggestivo. Accanto a noi corrono dei banchi di neve che formano piccole grotte, le quali vanno poi a perdersi nella nebbia. Il terreno è percorso da fiumiciattoli ramificati, ed è ricco di colori incredibili. In questo punto crescono solo dei fragili licheni giallastri. Ci viene quasi voglia di rifugiarci sotto queste grotte nevose, che sicuramente tengono

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caldo come gli igloo, ma raggiungerle significherebbe inzupparsi completamente di fango. Proseguendo ancora lungo l’ennesimo tratto in saliscendi, troviamo altre fumarole e infine un sentiero completamente fangoso, che ci inzuppa scarpe e calzoni impermeabili. Fortunatamente, le calzature sono robuste e nemmeno una goccia di fango filtra nelle calze. Tuttavia, la poltiglia si appiccica alla suola e ai bordi degli scarponi, e ad ogni passo continua ad aumentare. Alla fine abbiamo le scarpe avvolte da uno spesso strato marrone, che le appesantisce non poco. Una volta raggiunto uno spiazzo asciutto, iniziamo a scalciare e grattare il terreno per liberare le scarpe dall’ospite sgradito, e poco più avanti finalmente smette anche di piovigginare. Il riflesso del sole, prima oscurato dalle nubi, ora è chiaramente visibile davanti a noi. L’aria è più luminosa e meno pesante. Forse stiamo finalmente uscendo da questa mortifera cappa di nebbia. Ed è proprio così: poco dopo le nubi si aprono e lasciano intravedere qualche sprazzo di sereno in lontananza. Dopo pochi minuti, la pioggerella cessa definitivamente e si apre la visuale sull’enorme vallata. All’orizzonte c’è il ghiacciaio dell’Eyjafjallajökull, attorniato da montagne verdastre ed irregolari. Ma la cosa più bella da vedere è questa valle verdeggiante, ricca di corsi d’acqua. Al limite di essa c’è un grosso lago, e ad un'estremità del medesimo è già visibile il rifugio di Álftavatn! La comparsa della nostra meta, seppur appena visibile data la lontananza, ci rinvigorisce anima e corpo, dunque ci concediamo solo un veloce spuntino in mezzo a campi di muschio e poi ripartiamo per la vera discesa. Non è tuttavia facile scendere di qui, poiché la pendenza è discreta e non abbiamo un bastone, che farebbe molto comodo. Come succede sempre, dopo un po’ di strada le gambe iniziano a tremare e le articolazioni delle caviglie diventano meno stabili, ma le nostre scarpe sono alte e ci proteggono dalla possibilità di prenderci una temibile storta. Purtroppo, i miei scarponcini sono grandi quel tanto che basta per far stare il mio piede, e durante la discesa le dita pestano costantemente contro il bordo anteriore della scarpa, sfracellandosi. Avrei dovuto prenderne un paio di un misura più lunghi. Inoltre, gli zaini ormai sono insopportabili. Stabiliamo un patto tra noi: se nel rifugio ci saranno posti liberi, li prenderemo, in barba alla tenda. Abbiamo bisogno di un letto vero per riposarci come si deve. Campeggeremo solo se vi saremo costretti.

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Dopo una discesa distruttiva, raggiungiamo il fiume da guadare. Ovviamente ci siamo preparati molto bene, portandoci dietro le scarpe da scoglio. Giunti finalmente sul fondovalle, lo costeggiamo e cominciamo a cercare il punto migliore per attraversarlo. L’acqua non è eccessivamente impetuosa e il fiume non è profondo, ma sicuramente è freddissimo, essendo un fiume glaciale. Deviamo di qualche metro dal sentiero per cercare il luogo migliore dove guadarlo, ma nessun punto ci soddisfa e decidiamo di percorrere la strada più lunga, fino al guado “ufficiale”. Meglio non tentare imprese sconsiderate. Per non avere problemi con i guadi, bisogna tenere a mente alcune regole. Innanzitutto, mai attraversare un fiume a piedi nudi, per non ferirsi sulla roccia viva. Poi, bisogna slacciare le cinghie degli zaini prima di entrare in acqua, in modo da poter sganciare velocemente lo zaino in caso di caduta. Inoltre, bisogna evitare i punti in cui il fiume è molto stretto, in quanto sono generalmente i più profondi, e cercare di scegliere un punto dove l’acqua scorra il più lentamente possibile. Una volta arrivati dove il sentiero finisce, troviamo un punto che sembra soddisfare tutti i requisiti, così iniziamo a prepararci per l’attraversamento. Il fiume sarà largo poco più di cinque metri e profondo quaranta centimetri, non è un guado preoccupante. Tuttavia è la prima volta per entrambi ed è meglio essere prudenti. Mi offro volontario per cominciare. Tolgo scarpe e calze e mi infilo le scarpe da scoglio, dotate di suola antiscivolo. Incastro gli scarponi, sporchissimi di fango e ormai ridotti in condizioni pietose, nello spazio tra lo zaino e il coprizaino impermeabile, sperando che non scivolino fuori. Se mi cadono nel fiume, ho finito di camminare. Ripiego i pantaloni fin sopra il ginocchio, mi slaccio le due cinture dello zaino e dopo qualche tentennamento mi decido a entrare nel fiume. Com’è fredda l’acqua! Mi arriva circa a metà polpaccio, anche se a volte raggiunge quasi il ginocchio. L’acqua è talmente gelata da procurarmi qualche leggero svarione, e per contrastare quest’effetto accelero il passo, contraendo forte i muscoli e spremendo maggiormente il sangue verso il cervello. Fortunatamente, c’è una piccola isoletta rocciosa in mezzo al fiume, sulla quale posso salire per riprendermi un attimo. Non ci rimango però a lungo: mi ributto quasi subito nel fiume, saltando da una roccia viva all’altra sempre più velocemente, e infine riesco a raggiungere l’altra riva, seppur scompostamente. Non appena esco, i

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piedi iniziano a farmi male, non più anestetizzati dalla bassa temperatura dell’acqua. Ci mettono però pochissimo ad asciugarsi e ritornare in temperatura. Pensavo che ci avrebbero messo mezz’ora. Io sono a posto, ma non è finita. Ora tocca a Davide. Egli è molto più meticoloso di me e tenta più volte di trovare un punto migliore, ma infine si deve arrendere e scegliere il punto dove sono passato io. Anche lui, tra barcollamenti vari e rocce instabili, riesce infine a raggiungere la riva giusta. Curiosamente, il guado ci ha impegnato per poco più di venti secondi ciascuno, ma prima di riorganizzare tutte le nostre cose per ripartire impieghiamo quasi venti minuti. In particolare è Davide ad avere problemi, poiché ha assicurato le scarpe allo zaino legando i lacci tra loro e poi assicurandoli ad uno spallaccio con un doppio nodo, ma l’ha stretto troppo ed ora non riesce più a scioglierlo. Dopo un quarto d’ora passato a imprecare, finalmente riesce a rimettersi le scarpe e possiamo ripartire. In condizioni di stanchezza ormai devastante, riprendiamo in spalla gli zaini ancora una volta e ci incamminiamo per i pochi chilometri che ci separano da Álftavatn.

La battaglia volge al termineNel raggio di un chilometro ci siamo solo noi. La strada ora è pianeggiante, ma nessuno dei due tollera più gli zaini. Sono davvero troppo pesanti per quella che è la nostra costituzione fisica. Avremmo dovuto allenarci un po’ di più per questo trekking, forse. Sempre più frequentemente pensiamo di prendere l’autobus che parte da Álftavatn, lasciando il trekking a metà. Dopo un rapido consulto, rimandiamo la decisione a quando saremo arrivati al rifugio, ma in cuor nostro ci siamo già accorti che non potremo passare altri due giorni così. Il terzo e il quarto giorno si cammina rispettivamente per sedici e quindici chilometri. Inoltre, nei prossimi giorni ci saranno molti altri fiumi da guadare, più larghi e profondi di questo. Forse è davvero il caso di rinunciare. Nonostante manchino meno di due chilometri, ci fermiamo continuamente per posare a terra gli zaini. Quando però arriviamo su una strada completamente piatta, che conduce dritta al rifugio, non ci fermiamo più e anzi acceleriamo il passo, per arrivare finalmente alla salvezza. I piedi soffrono, consumati dalla lunga camminata, ma ormai possono anche tagliarsi, non mi interessa. L’unica cosa che

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voglio è arrivare a questo maledetto rifugio e schiantarmici dentro. Allo scoccare delle sei ore di camminata, il rifugio è finalmente raggiunto. Fortunatamente non ha più piovuto, anche se alcune nuvole minacciose non hanno mai smesso di sovrastarci. Ora dobbiamo sperare che il rifugio abbia due posti liberi anche per noi. Non ci interessa quanto costeranno, siamo disposti a pagare qualsiasi cifra. L’unica immagine mentale che riusciamo a formare è quella di un comodo letto, munito di lenzuola fresche e pulitissime, termocoperta e massaggio incluso. Bè, forse non così esagerato. Basta che ci sia un materasso sufficientemente spesso, il resto non è così indispensabile. La fortuna oggi ci da una mano: dei trentadue posti letto totali che conta il rifugio di Álftavatn, ce ne sono ben sei liberi. Il costo è alto, come potevamo aspettarci, ma non ci interessa. Non siamo in condizioni di campeggiare, siamo ridotti peggio di ieri sera quando siamo arrivati a Hrafntinnusker. Ormai, quando ci guardiamo in faccia, pensiamo tutti e due alla stessa cosa: basta così. I paesaggi sono sì paradisiaci, ma conciati così non ce li godiamo nemmeno. Abbiamo già fatto una cosa eccezionale in questi due giorni, considerando che per tutto l’anno non facciamo praticamente alcuna attività fisica, e possiamo ritenerci pienamente soddisfatti anche di aver completato solo metà percorso. L’interno del rifugio è molto accogliente: l’unica noia è che ogni volta che entriamo dobbiamo toglierci le scarpe per evitare di insozzare la camerata, dove tutti camminano scalzi. Il dormitorio è molto popolato e vivace: c’è chi gioca a carte, chi si riposa tranquillamente nel suo sacco a pelo, chi prepara il materiale per il giorno seguente. Qualcuno sta anche cucinando una pastasciutta al sugo di pomodoro, la quale attira irrimediabilmente la nostra attenzione e ci fa soffrire non poco. Da giorni mangiamo solo cibarie fredde e poco invitanti: una pasta ci starebbe bene. Ma pazienza, abbiamo tutto il resto dell’anno per mangiarcela a casa nostra, essendo italiani. Prendiamo posto in due brande separate, ma una volta fatto il conto dei posti e considerato la larghezza delle medesime, capiamo che ogni branda vale per due persone. Non tutti rispettano questa regola, ma è meglio attenersi a quello che dice il regolamento ufficiale. Chi se ne importa se siamo in due sullo stesso letto.Finalmente possiamo sdraiarci su una superficie morbida. Il locale non è molto luminoso, avendo solo poche finestre per giunta molto

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piccole, ma possiamo comunque vedere un po’ di panorama. Il rifugio sorge vicinissimo ad un angolo del lago, e sullo sfondo di esso c’è una stranissima montagna perfettamente triangolare. Attorno, altre montagne verdi e nere, muschio e sabbia vulcanica. Dopo un po’ che ci stiamo riposando, sempre più convinti di fermarci qui e tornarcene in città domani, ricomincia a piovigginare. Meno male che adesso non siamo in tenda, scomodi, bagnati e pieni di dolori atroci. Nessuno dei due aveva mai portato uno zaino così pesante per così tanti chilometri, e un’altra notte in tenda in queste condizioni ci avrebbe dato il colpo di grazia. Probabilmente almeno uno dei due si sarebbe ammalato. Ora, invece, osserviamo la pioggia dall'interno, mentre si infrange sui piccoli vetri. Il vento ulula, facendo scricchiolare le travi di legno, ma può infuriarsi quanto vuole, noi ora siamo ben protetti. Con ancora in mente la vivida immagine del vetro coperto di goccioline d’acqua, mi avvolgo completamente nel sacco a pelo e sprofondo nel sonno, non muovendomi più fino alla mattina successiva.

Resa incondizionataLa mattina ci svegliamo intorno alle sette. Dopo aver valutato rapidamente le condizioni generali, decidiamo definitivamente di fermarci qui. Non è il caso di spingere il corpo eccessivamente oltre i suoi limiti. Già in questi due giorni l’abbiamo forzato molto. Rinunciare non ci sembra una cosa disonorevole, né rimpiangiamo amaramente di non poter continuare: semplicemente è la cosa giusta da fare in questo momento. Ci concediamo dunque una mattinata di calma assoluta, poiché l’autobus passa solo una volta al giorno e arriverà alle due e mezza di pomeriggio. Per ingannare il tempo, osserviamo curiosamente cosa fanno le altre persone nel rifugio, che si sono svegliate tutte presto e si stanno preparando per un altro giorno di cammino. Dalla nostra branda sopraelevata seguiamo i movimenti di una famiglia inglese, composta dal padre e dai due figli, maschio e femmina, che forse raggiungono a stento i diciotto anni. Sistemano i loro zaini con una cura meticolosa e quasi maniacale, parlando pochissimo fra loro. Tra membri di una stessa famiglia ci si aspetterebbe un certo calore e un’atmosfera rilassata, ma sembra quasi che si trovino in una caserma e stiano montando i fucili per un assalto. Proseguono imperterriti a vestirsi ed

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organizzarsi, rivolgendosi solo poche frasi secche e ridotte al minimo indispensabile. Il loro accento è ovviamente fortissimo, e non riusciamo a capire quasi nulla di ciò che si dicono, nonostante si tratti inequivocabilmente di lingua inglese. A un certo punto, il fratello tira fuori da una tasca un aggeggio veramente curioso: è identico ad una flebo, solo che non serve per un’infusione venosa, bensì per bere durante la marcia senza doversi togliere lo zaino. La sacca va messa in una tasca laterale, e il tubo, munito di boccaglio, è arrotolato in una posizione facilmente raggiungibile. Se durante il cammino viene sete, basta tirarlo e succhiare. La famiglia inglese è una delle prime ad andare via. Uno dopo l’altro, tuttavia, abbandonano tutti il rifugio. Verso le dieci di mattina rimaniamo solo noi. Se non altro, non dobbiamo più preoccuparci di posizionare gli zaini in modo da non disturbare nessuno: ora abbiamo la stanza tutta per noi. Solo alcune persone, che però stanno sempre nell’anticamera e non entrano mai nel dormitorio, sembrano aspettare l’autobus. Ci sentiamo un po’ le mosche bianche del gruppo, essendo gli unici che oggi non proseguono, ma non ci pentiamo affatto della nostra decisione. L’abbiamo presa con coscienza e, non meno importante, quest’esperienza ci ha insegnato molte cose. La prossima volta, indubbiamente, non ripeteremo gli stessi errori. Inoltre, Davide inizia a non sentirsi troppo bene e pensa di avere un po’ di febbre. Non abbiamo un termometro per assicurarcene, ma i vaghi brividi di freddo e il malessere generale sono un sintomo sufficientemente chiaro. Un motivo in più per il quale abbiamo fatto bene a non rimetterci in cammino. Nel terzo rifugio, tra l’altro, non c’è nemmeno la possibilità di prendere un mezzo per tornare in città. L’unico collegamento è qui ad Álftavatn: chi decide di proseguire deve obbligatoriamente arrivare fino a Porsmork, se vuole ritornare alla civiltà. A questo proposito, non manchiamo di comunicare al gestore del rifugio che abbiamo deciso di interrompere il trekking. Non è il caso di far partire una costosissima spedizione di ricerca. Lui ci assicura che non c’è nessun problema e che comunicherà subito a chi di dovere la nostra decisione. I custodi, infatti, si tengono in costante contatto tramite telefono satellitare. La cosa strana è che qui funzionano anche i nostri telefonini. Se hanno messo dei ripetitori nelle vicinanze, li hanno nascosti davvero bene.

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Le ore di attesa per l’autobus passano nella noia, rinchiusi dentro il rifugio per via di un vento fortissimo. Non si può quasi mettere il naso fuori dall’edificio, anche perché ora ha iniziato anche a cadere una pioggia insistente e feroce, che ci rallegra ancora una volta della nostra decisione di non ripartire. Ci saremmo trovati in mezzo alla bufera, in condizioni di salute non proprio ottimali, e chissà se e quando ne saremmo usciti. Purtroppo l’Islanda è una terra che non perdona e che se ne infischia altamente di tutte le persone che cercano di conquistarla. Per ingannare il tempo, possiamo tentare di riorganizzare un po’ i nostri zaini, dato che ormai non ci serviranno più per camminare. Tuttavia, sono ancora pieni di cose bagnate e sporche, come la tenda, che è ancora ben lontana dall’essersi asciugata. Meglio non toccare niente ed aspettare di essere in un albergo, prima di metterci mano. Dopo cinque ore di sballottante viaggio tra gli sterrati dell’Islanda interna, durante il quale attraversiamo innumerevoli fiumi, preleviamo persone in mezzo al nulla e osserviamo un ghiacciaio sinistramente illuminato dai raggi del sole, siamo di nuovo sulla Ring Road, la strada che percorre l’intero perimetro islandese. L’autobus si ferma a Hella, cittadina piccola e insignificante, ma che ospita un albergo che ha posto per noi. Sfruttiamo questa camera in modo assoluto, lavando tutti i vestiti, la tenda e gli accessori, asciugando tutto ciò che c’è di bagnato sul calorifero elettrico, ed approfittando delle pulitissime docce, di una pantagruelica colazione gratuita e di un letto comodissimo. Casomai ci annoiassimo, c’è sempre una copia della Bibbia su uno scaffale a muro, compresa nel prezzo. Se mai poteva esserci un rimpianto per esserci fermati ad Álftavatn, ora è svanito totalmente.

VikLe tappe come questa servono per riposarsi e utilizzare tutti i servizi disponibili prima di ripartire, e infatti ce ne andiamo la mattina seguente. La destinazione è Vik, un tranquillo e microscopico paesino situato in una delle località più meridionali dell’Islanda, direttamente sull’Atlantico. Questo piccolo paese è peculiare per la sua posizione: stretto tra una spiaggia di sabbia nera e una catena di montagne, è meta molto ambita da tutti i viaggiatori che si dirigono in Islanda. La mattina, il nostro autobus tarda ad arrivare e la piazza

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di Hella si è ormai svuotata da ogni mezzo e persona. Tutti sono saliti su qualche autobus, tranne noi. Un gentile dipendente della società di trasporti si interessa al nostro caso, vedendoci spaesati, e ci assicura che l’autobus non è stato soppresso, ma è semplicemente in ritardo. Non dobbiamo nemmeno chiedere aiuto a nessuno, qui in Islanda: quando abbiamo bisogno di qualcosa, l’aiuto viene da noi spontaneamente. Dopo una decina di minuti, arriva finalmente l’autobus e troviamo per miracolo gli ultimi due posti liberi sui quali sederci. Ovviamente non sono affiancati, quindi percorriamo la strada ognuno per conto proprio, osservando le brulle collinette del sud attraverso i vetri lievemente oscurati. L’autobus effettua alcune soste prima di arrivare a Vik, tra cui una a Skógar, paese di cinquanta abitanti che sorge ai piedi di una maestosa cascata. Tuttavia, non abbiamo più qualche minuto per ammirarla, poiché l’autobus si ferma per pochissimo tempo e dobbiamo praticamente correre per avvicinarci abbastanza da scattare qualche foto, per poi ritornare indietro sempre di corsa. Certo che potrebbero programmare una sosta un po’ più lunga, vista l’attrattiva del luogo. Anche se non è paragonabile a Gullfoss, questa cascata è comunque di tutto rispetto. Risaliamo dunque sull’autobus, appena in tempo per non rimanere a terra. Ormai mancano meno di venti minuti di strada prima di arrivare a Vik, e sfortunatamente il tempo comincia a farsi piovoso e ventoso. Cambia sempre con grande rapidità, sembra di essere in montagna. Speriamo di trovare subito un alloggio a Vik, senza dover camminare sotto la pioggia per chilometri, anche perché non abbiamo prenotato niente stavolta. Forse sottovalutando i rischi, abbiamo pensato che non fosse necessario prenotare qualcosa in una cittadina che conta trecentocinquanta abitanti e sei sistemazioni, tra ostelli e alberghi. Con tutto questo posto, ci saranno sicuramente due letti anche per noi. Almeno così supponiamo. Appena superata la collina che ci divide dal mare, ecco che appare Vik. Mi piacerebbe vivere in questa cittadina, così tranquilla e riparata nonché situata in un luogo davvero bucolico. Purtroppo, le spesse nubi e la pioggia non ci permettono di apprezzarla al meglio, anche se i tre enormi faraglioni della spiaggia sono così grandi che non vengono nascosti nemmeno dalla nebbia fitta. L’autobus ci lascia nell’unico punto di servizio della cittadina, che è uguale in praticamente tutte le città d’Islanda: distributore di

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benzina, autogrill e pensilina, tutto accorpato in un unico luogo. La pioggerella è diminuita d’intensità, ma rimane sempre insistente. È meglio muoverci per trovare un alloggio. Scartiamo l’albergo che vediamo direttamente davanti a noi, dall’altra parte della strada e in mezzo ad un enorme prato. Il suo aspetto moderno tradisce un costo sicuramente elevato. A fianco c’è un campeggio, dove numerose tende sono piantate in un terreno quasi paludoso. La guida turistica segnala un ostello lì, dunque proviamoci. Niente da fare: qui c’è solo il campeggio. Dobbiamo andare in direzione opposta, verso sud, risalendo la strada che porta di nuovo verso la collina. Lì ci sono degli alberghi e delle guesthouse. La sistemazione più economica è, guarda caso, nel punto più alto e isolato del paese. Non capisco proprio perché gli ostelli meno costosi debbano sistematicamente trovarsi in posizioni scomode. Nelle grandi città è spesso così: si trovano a volte anche a due, tre chilometri dal centro. Sarà perché il terreno lì costa meno. Ci sorbiamo un quarto d’ora di salita, con gli zaini pesanti addosso, per scoprire che l’ostello conta solo sei miseri posti letto, logicamente già tutti occupati. Reprimendo a fatica le imprecazioni, torniamo indietro e ci dirigiamo nella zona est, sperando di avere più fortuna. Abbiamo ancora diverse cartucce da sparare. Il secondo albergo è anch’esso pieno, e anche una guesthouse poco distante non ha posto per noi. La ragazza di un punto informazioni si offre di telefonare agli ultimi due posti rimasti, al costo di cinquanta corone (trenta centesimi), e deve purtroppo informarci che oggi l’intera Vik è “fully booked”. Maledizione! Non c’è dunque alcun posto dove stare per la notte! Ci rimane sempre la possibilità di piantare la tenda nel campeggio, ma memori della brutta esperienza a Hrafntinnusker e considerando che sta piovendo sempre più forte, decidiamo di rinunciare e di accamparci temporaneamente nell’autogrill, in attesa che ci venga qualche buona idea. Proviamo anche con l’hotel più lussuoso del paese, proprio davanti alla nostra base. Siamo disposti a pagare qualunque cifra, ma nisba. È pieno anch’esso come tutti gli altri. È un peccato che percorriamo il paese in questo spiacevole stato d’animo, tesi solo a ripararci dalla pioggia e a cercare un posto dove stare, poiché questo gioiellino meriterebbe davvero di passarci qualche giorno solo per perdersi nelle sue viuzze. Mi ricorda moltissimo il mio paese di montagna sulle Dolomiti. Ci sono le

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stesse casette ridenti e dipinte di colori piacevoli, gli stessi steccati con gli orti, le stesse stradine strette e tortuose che non si sa mai a cosa conducano. C’è perfino un ponticello di legno che divide in due la zona est dalla zona ovest. Purtroppo non si vede molto della spiaggia di sabbia nera, poiché è un po’ nascosta dalle montagne che sovrastano la cittadina sui tre lati. Non è certamente il momento adatto per andare alla spiaggia, ora è meglio trovare un riparo. Giunti all’autogrill, posiamo gli zaini sotto una corta tettoia ed iniziamo a vagliare le varie possibilità. Campeggiare è praticamente escluso, dormire sotto la tettoia stanotte è poco allettante ma fattibile, proseguire con un altro autobus verso Höfn è impossibile, poiché i mezzi pubblici per oggi sono terminati. Dopo esserci consultati, capiamo che oggi non riusciremo mai a visitare decentemente Vik, con queste condizioni meteorologiche e gli zaini sempre appresso. Sarebbe l’ideale aspettare l’indomani, ma dove passare la notte? Non sappiamo quanto possa far freddo qui di notte, e anche se abbiamo il sacco a pelo non staremmo certamente comodi. Il ricordo della notte di Luleå, due anni fa, è ancora presente e ci ricorda che potremmo pentirci amaramente di questa eventuale decisione. Una gentile signora italiana, che fa parte di un gruppo turistico organizzato, scopre che siamo in difficoltà e prova ad offrirci il suo aiuto, ma purtroppo non può includere altre due persone nel gruppo, poiché i posti sono contati. Inoltre, loro ora vanno a visitare un vicino ghiacciaio, dunque non ci aiuterebbero nel nostro itinerario. Ringraziamo comunque dell’interessamento e li guardiamo sparire su un pulmino. A malincuore, decidiamo di abbandonare Vik. Almeno qualche fotografia siamo riusciti a scattarla e non siamo venuti qua proprio per niente. Ma come fare a proseguire? La mente, pressata dalla necessità, si riattiva e ci ricorda che possiamo anche tornare indietro verso Skógar e cercare una sistemazione lì. Non ci sono più autobus che vanno avanti, ma ce ne sono ancora che tornano indietro. Il prossimo passerà tra circa un’ora. Telefoniamo immediatamente ad un ostello di Skógar. Hanno posto per noi! Siamo a cavallo, prenotiamo subito e ci rallegriamo: non rimarremo a passare un’orribile notte qui. Dormiremo in un letto vero a Skógar, e riusciremo anche a vedere meglio la cascata. L’indomani ripartiremo con lo stesso autobus,

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stavolta per Höfn. Visitare Vik sarà difficile: probabilmente saremo costretti a saltarla anche domani.

AutostopPer cercare di arrivare il prima possibile a Skógar ed evitare nel contempo di pagare un altro biglietto, tentiamo la fortuna con l’autostop. Raggiungiamo un punto riparato, dove le automobili possono accostare in caso di successo della missione, e cominciamo dunque ad alzare il pollice. Ma non c’è niente da fare. Tanto per cominciare passano poche automobili, e quelle che passano sono già piene di persone e oggetti, dunque non potrebbero caricarci nemmeno volendo. I pochissimi veicoli semivuoti che passano ci ignorano beatamente. Sono praticamente tutti turisti. Qualche automobilista ci saluta ironicamente, senza smettere di pigiare sull’acceleratore. Nessuno vuole due maschi, pieni di borse sporche, ingombranti e bagnate. Se fossimo due ragazze, forse avremmo più possibilità. Il mondo non ti vuole, quando fai l’autostop con la pioggia battente. Ma anche una coppia di fidanzati, che dall’altra parte della strada sta tentando l’autostop per Höfn, non ha molta più fortuna di noi. Evidentemente, anche se c’è una ragazza in ballo gli automobilisti non la calcolano, poiché vedono che è già accompagnata. Scambiamo con loro qualche sguardo di rassegnata complicità: abbiamo capito tutti e quattro che abbiamo ben poche possibilità di cavarcela in questo modo. Il ragazzo prova perfino ad attirare l’attenzione degli automobilisti facendo il giocoliere con alcune palline, ma senza il minimo risultato. Dopo aver visto passare almeno trenta automobili, senza che nessuna si sia fermata per tirarci su, torniamo all’autogrill e ci arrendiamo all’idea di prendere l’autobus. Nell’attesa, facciamo amicizia con un ragazzone tedesco, dai capelli lunghi e biondi, che parla bene la nostra lingua poiché ha vissuto per un anno a Milano. Anche lui ha l’aria di essere rimasto senza una sistemazione, poiché è già da un po’ che l’abbiamo notato aggirarsi nei pressi dell’autogrill con lo zaino. Secondo lui potremmo anche tentare di campeggiare, poiché il meteo non è così proibitivo. Forse ha ragione lui, ma non ne abbiamo proprio voglia. Ci è bastata una singola esperienza di campeggio con la pioggia per scoraggiarci a farne altre. Lo spiazzo dove dovremmo mettere la tenda è ora composto più da acqua che

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da terra, meglio non provarci nemmeno se non vogliamo nuotare nella melma anche stavolta.

SkógarDopo una mezz’oretta di sonnolenta attesa, giunge infine un autobus da est. Il controllore è lo stesso che poche ore fa abbiamo salutato prima di scendere qui a Vik, ma sembra non riconoscerci. Probabilmente non fa nemmeno caso a noi, abituato com’è a vedere centinaia di persone diverse ogni giorno. Meglio così, ci risparmiamo una figuraccia. Ci schiantiamo sui sedili, finalmente al caldo e all’asciutto, e in pochi minuti di viaggio raggiungiamo Skógar. L’ostello non è difficile da trovare, essendo una delle poche costruzioni che si reggono in piedi nel raggio di centinaia di metri. Accanto c’è un nutrito campeggio, popolato da decine di tende. Riecco la cascata, che raggiungiamo dopo esserci velocemente sistemati nella camera. Gli spruzzi e il forte vento ci fanno respirare aria satura d’acqua e ci infreddoliscono le parti del corpo rimaste scoperte, lasciandoci solo il tempo di scattare qualche fotografia. Avendo tutta la seconda parte della giornata a disposizione, possiamo permetterci di visitare approfonditamente questo borgo sperduto. Abbiamo mancato Vik, ma anche Skógar non sfigura affatto. Inoltre, casualmente ci rendiamo conto che se avessimo completato tutti e quattro i giorni di trekking saremmo arrivati a Vik questa sera, stanchi morti, con la pioggia e nessun posto dove dormire. E nessun autobus per portarci né avanti né indietro. Sembra che abbiamo fatto proprio bene a fermarci a metà!Rinfrancati da questo pensiero, ci tuffiamo nella natura che circonda Skógar. Una lunga scalinata di metallo e legno ci conduce fin sopra la collina che domina l’intero paese, e dalla cima possiamo godere di un ottimo spettacolo: da una parte il fiume, che si getta a perpendicolo sulla limacciosa spiaggia, dall’altra le montagne che nascondono il temibile Eyjafjallajökull, dall’altra ancora un vastissimo campo nel quale pecore e montoni brucano l’erba con proverbiale tranquillità. Sullo sfondo, una sottile striscia d’acqua appartenente all’Atlantico separa la terra dal mare. Alcuni piccoli sentieri si abbarbicano sul fianco della collina, finendo in piccole sporgenze che danno sul nulla. Addentrandovisi, si può ammirare la cascata da altre angolazioni, conciliandola con sporgenze di roccia

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ed erba che assumono le forme più disparate. Basta avere un po’ di fantasia e si trasformano subito in un volto, in un animale o un oggetto. Una di queste sembra una grossa testa che osserva direttamente la cascata. Chissà da quanti anni è ferma lì a guardare, senza mai stancarsi dello spettacolo di tutta questa possente acqua che si getta consapevolmente nel vuoto, senza alcun timore di sfracellarsi. Osservare tutta quest’acqua cadere incessantemente fa pensare ad un infinito gregge di pecore. Una pecora impazzisce e decide di saltare, e tutte le altre la seguono, in un suicidio di massa senza fine.Anche la Skógar serale non manca di stupire, grazie a un infuocato tramonto che si staglia sui monti e sulla cascata. Ricordo un tramonto che vidi da casa mia questa primavera, talmente infuocato e spettacolare da far sembrare che il cielo fosse realmente in fiamme. Non ne avevo mai visto uno così intenso. Era dovuto alla grande quantità di polveri eruttate dall’Eyjafjallajökull, che hanno raggiunto anche i cieli italiani e hanno tinto l’atmosfera in maniera spettacolare. Senza polveri in sospensione nell’aria, infatti, i tramonti non avrebbero alcun colore. Ora, quest’ammasso di ghiaccio ribollente di lava è proprio dietro la montagna che ho davanti agli occhi, e in questo momento non posso fare altro che ringraziarlo per il tramonto che mi ha regalato tempo fa. Certo, pochi mesi fa nessuno ringraziava quest'impietoso vulcano, risvegliatosi dalla quiescenza dopo un tempo lunghissimo. Noi per primi avevamo paura che non avremmo più potuto partire per l’Islanda, e centinaia di migliaia di viaggiatori sono rimasti a piedi nelle zone più disparate d’Europa, costretti a tornare a casa con gli autobus, i treni, l’autostop. Questa primavera, tutti hanno maledetto il vulcano, me incluso. Ma pur nella sua crudezza, ci ha dato una lezione importante. La natura l’ha sempre e comunque vinta su di noi, qualunque cosa pensiamo e facciamo. Basta che si svegli un vulcano in una remota isola del nord Atlantico ed ecco che metà Europa è paralizzata, non sa più come cavarsela. E che dire dell’inquinamento atmosferico, che si è ridotto sensibilmente in pochi giorni, proprio grazie alla sospensione dei voli? Durante la serata, riceviamo una telefonata inaspettata da un numero islandese. Una donna parla in modo incomprensibile, ridendo, e chiude la comunicazione quasi subito. Dopo un attimo di disorientamento, capiamo che devono per forza essere i gestori del

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rifugio di Porsmork, che ci chiamano per sapere se va tutto bene. Sentendoci rispondere tranquillamente, avranno pensato che è tutto a posto. In effetti, questo è il giorno in cui saremmo dovuti arrivare lì, dunque non c’è altra spiegazione. Nessun altro islandese ha il nostro numero di cellulare.

Una comitiva poco altruistaL’indomani il tempo è splendido. Il cielo è solo in minima parte sporcato da cumuli bianchi, mentre per il resto mostra tutto il suo bel colore azzurro. Un vero peccato che non siamo capitati a Vik in un giorno simile, ma tutto sommato anche la visita di Skógar non è stata affatto minoritaria. Oggi non riusciremo a visitare degnamente Vik, a meno che non escogitiamo un piccolo espediente. Se aspettassimo l’autobus come da programma, avremmo mezz’ora di sosta nel paese, assolutamente insufficiente per vederlo bene. Ma se ci portassimo avanti e tentassimo nuovamente l’autostop, potremmo raggiungere Vik con diverse ore di anticipo, visitarla con calma e poi prendere l’autobus proprio da lì. Animati da buone speranze, ci armiamo di zaini e cominciamo a percorrere la strada che dal paese porta alla Ring Road. Oggi il tempo è perfetto e potremmo addirittura riuscire a far impietosire qualcuno. Purtroppo, la strada è talmente lontana da scoraggiarci a proseguire: percorrendola con l’autobus sembra una traversa di poche centinaia di metri, ma in realtà la strada principale è lontanissima dal paese. Arrivati a metà, decidiamo di lasciar perdere. Se anche arrivassimo alla strada, e per disgrazia non si fermasse nessuno entro pochi minuti, avremmo a malapena il tempo di tornare al piazzale di Skógar per prendere l’autobus. Torniamo dunque indietro e ci rassegniamo nuovamente a prendere l’ennesimo autobus. Come autostoppisti facciamo decisamente pena.Molte persone ci fanno compagnia ad aspettare il bus. La cosa preoccupante è per l’appunto il loro numero elevato. Non ci preoccuperemmo troppo se non fosse presente anche una comitiva di ben ventisette ragazzi francesi, probabilmente una scolaresca in gita. Essendo così numerosi, creano automaticamente un problema. Quando arriverà, l’autobus sarà già piuttosto carico di persone, in quanto parte da lontano, e se hanno intenzione di salire tutti con noi temo che qualcuno rimarrà a terra. E quel qualcuno potremmo

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essere noi. Confidiamo però che abbiano avuto l’accortezza di prenotarsi un autobus privato. I bus islandesi, infatti, contano circa quaranta posti a sedere, e loro ne riempirebbero da soli i tre quarti. Diversi autobus di altre compagnie turistiche continuano ad andare e venire da Skógar, ma nessuno si ferma per far salire la comitiva. L’autobus è in forte ritardo e anche loro se ne lamentano, facendoci preoccupare ancora di più. Le probabilità che debbano salire proprio sul nostro bus stanno aumentando. A peggiorare le cose ci pensa l’animatore del gruppo, il quale, armato di cappellino vietnamita e minuscola chitarrina a tre corde, si diverte a strimpellare dei motivetti assurdi. Già è irritante stare qui ad aspettare, ci mancava anche lui. Tra una strimpellata e l’altra, dopo ben mezz’ora di ritardo arriva finalmente il nostro autobus. Ecco la sorpresa: i francesi non hanno prenotato un bel niente ed ora l’autista si trova nella difficile situazione di dover far salire almeno cinquanta persone sull’autobus, tra noi e loro. Complimenti per la previdenza! Cerchiamo almeno di capire se possiamo salire subito oppure no, ma la confusione è tanta e nessuno ci dà retta. L’autista e il bigliettaio trafficano col telefonino per qualche minuto, e dopo pochissimo tempo arriva un altro autobus, del tutto identico al primo, chiamato appositamente per farci stare la comitiva di francesi. Padroni del mondo, proprio. Non si capisce come abbia fatto ad arrivare così velocemente l’autobus supplementare, dato che la fermata precedente è ben lontana, ma forse si tenevano in contatto radio già da prima, o chissà cos’altro. Anche adesso che sono arrivati i rinforzi, tuttavia, non sappiamo nemmeno dove dobbiamo salire. Chiedendo un po’ a tutti, capiamo che dobbiamo prendere posto sul secondo autobus, ma c’è anche il problema di dove mettere lo zaino. I vani, infatti, sono divisi per destinazione. Forse ciò serve ad evitare che qualcuno tenti di rubare dei bagagli, come effettivamente mi successe l’anno scorso in Francia, poiché il vano era comune. All’ultimo minuto capiamo dove dobbiamo metterli, cioè in un vano microscopico che ha giusto lo spazio per accogliere i nostri due. Finalmente riusciamo a salire, ma che fatica! Come se non bastasse, siamo pure seduti in due punti opposti dell’autobus, in mezzo ai membri della comitiva. Presumibilmente, questi ventisette marmocchi dall’età media di quindici anni dovranno percorrere una strada molto lunga, dato che un autobus è venuto apposta per

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prelevare loro. Invece no: scendono tutti a Vik. Tutto questo disastro per fare dieci chilometri di strada. Meglio non fare troppi commenti. Ovviamente non vediamo nulla di Vik, a parte i suoi faraglioni ora del tutto sgombri da nebbia: compriamo solo due hot dog per calmare la fame, ritornando sull’autobus appena possibile e stravaccandosi finalmente su due posti affiancati. Questa città per noi è tabù.La nostra tappa finale è Höfn, ma non è l’unica che ci aspetta lungo la strada. L’attrattiva principale del percorso è la laguna glaciale di Jökulsárlón, un grosso lago pullulante di iceberg che si staccano dal Vatnajökull. Quest’ultimo è il ghiacciaio più grande della nazione, ed è uno dei maggiori al mondo, escludendo quelli polari e groenlandesi. Siamo arrivati sufficientemente ad est lungo la Ring Road, e cominciamo ora a vedere i primi sprazzi di questo gigante di ghiaccio. Dopo aver attraversato altri campi di lava che costeggiano a breve distanza il mare, alcune lingue di ghiaccio dalla forma sinuosa iniziano ad apparire sulle pendici delle colline. Queste colate d’acqua solida sembrano voler proseguire nella loro corsa, come fossero valanghe, ma sono intrappolate da sé stesse. È incredibile: siamo passati da spiagge e colline verdi direttamente ad un ghiacciaio, e non uno qualunque, ma uno veramente enorme. Ha la stessa estensione dell’Umbria. La strada si avvicina sempre di più al ghiaccio, a tratti quasi costeggiandolo. L’autista guida senza quasi alzare lo sguardo dalla linea di mezzeria della strada, abituato a percorrerla tutti i giorni, ma noi non possiamo fare a meno di ipnotizzarci osservando il ghiacciaio prendere una forma differente ad ogni curva. Ci distrae solo qualche pecora impavida, che attraversa di corsa la strada proprio nel momento in cui sta arrivando l’autobus, costringendo il conducente a rallentare bruscamente per non investirla. Queste intrusioni non sono rare sulle strade islandesi: gli animali sono lasciati liberi per intere stagioni e non esistono guard – rail ai margini. Un altro elemento che suggerisce la primordialità dell’Islanda, quando l’uomo ancora non esisteva, e gli animali erano i veri padroni del globo. Ad un certo punto ci troviamo a percorrere un tratto completamente diritto e pianeggiante, a velocità sostenuta, e ormai l’orizzonte è riempito quasi completamente da una striscia di ghiaccio. Mi piacerebbe che il pullman tirasse dritto fino a salirci sopra e superare il crinale, per vedere cosa c’è dall’altra parte…certamente

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un’immensa distesa di altro ghiaccio, intervallata da poche montagnette rocciose. Ma solo le jeep superattrezzate e le motoslitte sono in grado di avventurarsi nel cuore del Vatnajökull. Se penso che sotto quest’acqua gelata dimorano le montagne più alte e i vulcani più terribili d’Islanda, provo quasi un timore reverenziale nell’avvicinarmici. In qualsiasi momento potrebbe aver luogo un’esplosione spettacolare, che fonderebbe fuoco e ghiaccio in un tutt’uno e ci regalerebbe qualche attimo di beatitudine, prima di essere spazzati via dalla micidiale Jokulhaups che ne seguirebbe. Nessuno sopravvivrebbe alla mistura di lava e ghiaccio istantaneamente vaporizzato, che assieme creerebbero una colata esplosiva e devastante.

Laguna glacialeOrmai siamo vicini a Jökulsárlón, ma la laguna non è ancora visibile. Siamo entrambi in trepidazione, sapendo che è così prossima ad apparire. Continuiamo a tenere gli occhi fissi sul ghiacciaio, alla nostra sinistra, ma ancora niente. Saranno iceberg che vagano liberamente in mare, oppure in un bacino chiuso? Quanti saranno, e quali saranno le loro dimensioni? L’ottimismo è comunque alle stelle, dato che il tempo è splendido e qualunque cosa vedremo sarà nel pieno del suo splendore. Ed ecco che all’improvviso appaiono i primi scorci della laguna. Non mi capita spesso, ma nel momento in cui realizzo che la laguna è quella, la mandibola mi cade a peso morto e rimango letteralmente a bocca aperta. Quando finalmente l’autobus si ferma per venti minuti al parcheggio di Jökulsárlón, la visuale che si apre è incredibile. Sullo sfondo c’è l’enorme Vatnajökull, il cui ghiaccio è frammisto a nuvole arricciolate, che si fondono con esso creando forme strabilianti. Poi inizia l’acqua, popolata da un numero enorme di lastroni e statue di ghiaccio, che si staccano incessantemente dal gigantesco ghiacciaio e vanno alla deriva in questo specchio di acque pure e cristalline. Gli iceberg hanno dei riflessi azzurri spettacolari, rinforzati dalla luce del sole. Come ciliegina sulla torta, centinaia se non migliaia di uccelli cantano e volano da un iceberg all’altro, senza tregua. A volte, qualche pezzo di ghiaccio si rovescia e si stacca, precipitando in acqua con un tonfo e spaventando i gabbiani, che scappano di gran carriera. Ma a parte questo, l’acqua è perfettamente calma ed

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immobile. In preda all’esaltazione più pura, non facciamo che balbettare frasi sconnesse, del tipo “Che meraviglia” o “Che posto”. Scattiamo fotografie e giriamo dei video in modo compulsivo, aumentando il più possibile la risoluzione della macchina fotografica per cercare di portare a casa dei ricordi meravigliosi di questi pochi minuti. Scendendo dalle basse collinette terrose che circondano la laguna ed arrivando fin sui bordi del lago, la temperatura scende notevolmente: il vento che spira dal Vatnajökull porta con sé le gelate molecole degli iceberg. Negli ultimi minuti percorriamo il bordo della laguna, evitando di toccare l’acqua gelida, ed assistiamo perfino alla scena di quattro bambinetti biondi che fanno pipì tutti e quattro insieme nell’acqua. Fossi loro padre non mancherei di tirargli le orecchie. È quasi un delitto lordare questa meraviglia, anche in minima parte. Mi piacerebbe starmene qui ad osservare gli iceberg, dando un senso ed una connotazione a tutti questi speroni di ghiaccio apparentemente informi, ma il tempo è ancora una volta tiranno. L’autobus deve ripartire e nelle vicinanze non ci sono punti di ristoro né tantomeno sistemazioni per dormire, così siamo costretti ad andarcene. Risaliamo dunque ai nostri posti, ma per minuti e minuti non facciamo che tenere la testa girata in direzione della laguna, ancora ben visibile, finché non sparisce del tutto dalla nostra vista. Penso che passerà molto tempo prima di rivedere un altro luogo che la superi in bellezza. E pensare che fino a venti minuti fa non sapevo nemmeno cosa fosse questa laguna glaciale, ed ora ho arricchito la mia memoria con un’esperienza fantastica. Sono la stessa persona di poco fa, ma sono anche diverso. Questo è il vero senso del viaggiare, il suo significato più nascosto ed importante. Dopo qualche altra ora giungiamo ad Höfn, luogo privo di attrattiva ma tappa indispensabile per chi si sposta in autobus. Chiunque non abbia un mezzo di trasporto proprio, infatti, è costretto a pernottare in questa piccola e insignificante cittadina, poiché non ci sono altri modi per proseguire prima della mattina successiva. Alloggiamo in un simpatico bungalow di legno, molto accogliente e ricco di accessori, ma privo di servizi igienici. Fuori dalla finestra vediamo perfino alcuni abeti, sempre bassi ma perlomeno in piedi. Ci mancano gli onnipresenti alberi italiani. Tentiamo di farci un giro per il paese, ma non c’è proprio nulla di interessante. Le case sono spesso scrostate, poco appariscenti. L’unica parvenza di vivacità è la

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marmaglia di alieni di cartapesta che un eccentrico abitante tiene nel suo cortile, ma per il resto sembra quasi un paese fantasma. Oltretutto è una cittadina portuale, quindi ricca di capannoni e strutture orrende, sporche e maleodoranti. Meglio invertire la rotta e tornarcene a dormire presto.

MyvatnOggi viriamo verso nord – est, in direzione del grande lago Myvatn. Attorno ad esso sorgono due paesini molto piccoli, e uno di questi, Reykjahlid, è la nostra prossima destinazione. Il paese è dominato dai moscerini, creaturine parecchio irritanti. Attratti dall’anidride carbonica espirata, sono presenti ovunque attorno al lago e cercano come dei kamikaze di infilarsi in occhi, orecchie, naso e bocca. Non c’è un modo per liberarsene, bisogna solo ignorarli e tenere la bocca chiusa. Fortunatamente, non sembra che mordano. Se fossero così pericolosi, vedremmo gente in giro sempre con la zanzariera da testa, ma non la porta praticamente nessuno. Abbiamo prenotato una camerata, che si trova come previsto da tutt’altra parte rispetto alla stazione degli autobus. Per raggiungerla passiamo in mezzo a un campo di pietre spaccate a metà, le quali a volte protrudono dal terreno come per imitare le faglie oceaniche. Non è difficile che questi enormi lastroni di roccia divisi a metà siano stati modellati da qualche terremoto. Una volta superati, con qualche difficoltà, scopriamo che c’era una strada dalla parte opposta, che ci avrebbe permesso di arrivare nello stesso punto senza alcuna fatica. Pazienza, sbagliando si impara. La nostra camerata è ospitata in un edificio simile ad un container per terremotati. Tuttavia, nonostante abbia cinque posti letto, è vuota. La cosa strana è che rimarremo a Reykjahlid per tre giorni, e che al momento della prenotazione ci hanno detto che avevano posto per noi solo per le prime due notti. Alla terza dovremo smammare. Com’è possibile, se ora praticamente tutto l’ostello è vuoto? Non si sente volare una mosca. Probabilmente il terzo giorno arriverà una comitiva di cento persone che lo occuperà da cima a fondo, non c’è altra spiegazione. In ogni caso, per la terza notte dovremo cambiare sistemazione. Ogni anno proviamo ad evitare questa noiosa necessità, ma non c’è modo di sfuggire, capita almeno una volta per viaggio. Passiamo la

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giornata a riposarci, poiché siamo arrivati piuttosto tardi e i prossimi giorni ci aspettano due escursioni molto impegnative.

AskjaOggi è il turno di un piatto forte: l’escursione guidata di dodici ore al cratere dell’Askja. Con un autobus molto robusto, alto almeno cinquanta centimetri da terra e dalle gomme ben larghe e scolpite, affronteremo gli impervi percorsi dell’Islanda interna, per addentrarci nella caldera di questo vulcano ancora attivo, ma momentaneamente quiescente. L’interno dell’Islanda è quanto di più selvaggio e desolato si possa immaginare: non vi cresce quasi nulla, gli insediamenti umani sono praticamente assenti, le poche piste esistenti sono accidentate e distruttive per un veicolo non ben attrezzato. L’Islanda interna veniva usata anticamente come rifugio dai criminali perseguiti dalla legge, i quali, sapendo che ben pochi avrebbero osato seguirli in quel territorio così inospitale, vi trovavano la salvezza. Ma una salvezza che costava molto cara: non c’erano servizi, né animali da cacciare, né ripari dove dormire. Molte leggende circolano sulle zone più interne dell’Islanda, ed ora che stiamo per partire verso di esse, in questa giornata di sole, sappiamo già che andremo a vedere qualcosa di veramente unico. Per fare un esempio, alcune di queste zone sono state utilizzate per le esercitazioni degli astronauti dell’Apollo. Prima di partire per la vera Luna, infatti, bisognava testare la strumentazione in un ambiente quanto più simile possibile a quello del nostro satellite, e la scena è caduta proprio sull’entroterra islandese. Al ritorno, gli astronauti hanno dichiarato che non hanno notato grandi differenze tra qui e la Luna. Viaggiare nello spazio è un privilegio di pochissimi fortunati, ma tutti possono avere la possibilità di camminare sulla Luna. Basta recarsi in Islanda. L’autobus procede abbastanza speditamente, considerando le condizioni della strada. A volte dobbiamo superare dei fiumi, ma l’inarrestabile mezzo non si fa intimorire da nulla. C’è da dire, però, che qualche anno fa un autobus turistico è stato sorpreso da una corrente troppo forte ed è stato trascinato via da uno di questi fiumi. Non si è mai certi di essere al sicuro in un luogo come questo, dunque è meglio tenere sempre gli occhi ben aperti e non dare troppe cose per scontate. C’è sempre la possibilità di un guasto

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meccanico o di un incidente, anche se i soldi che abbiamo pagato per l’escursione sono così tanti che sicuramente c’è inclusa anche una mostruosa assicurazione per ogni eventualità. Nella maggior parte delle zone che attraversiamo crescono solo alcuni licheni, raramente qualche filo d’erba, ancora più raramente qualche tenace mazzo di fiori, che si abbarbica disperatamente alle poche zolle di terra fertile che trova. Ad un certo punto, notiamo sulla sinistra uno spiazzo completamente pianeggiante e punteggiato da tanti piccoli sassi verniciati di rosso vivo, posti ad intervalli regolari l’uno dall’altro. Si tratta di un aeroporto d'emergenza. Non so se potrebbe atterrarci un Jumbo, ma di sicuro lo spazio non manca, siamo circondati dal nulla. La nostra biondissima guida si dilunga a spiegarci, con voce grave e penetrante, le differenze di composizione della lava che attraversiamo. La prima è più densa, la seconda meno, la prima si è formata più anticamente, la seconda è più recente…e così via. Ma non mancano anche informazioni più divertenti, come le numerose leggende che circolano su questo terribile luogo. Ora che siamo arrivati ad un piccolo rifugio, l’autobus si ferma e la ragazza ha modo di illustrarci una di queste storie. Ci conduce, infatti, lungo un breve percorso attraverso le rocce, ad un certo punto del quale si trova un singolare “alloggio”. Questo minuscolo e seminascosto buco nel terreno, circondato da un rudimentale parapetto di sassi, è stato la dimora di un noto brigante islandese, che ci ha vissuto per anni nascondendosi dalla giustizia. Per difendersi dal freddo durante l’inverno, copriva l’antro con la pelle di un cavallo scuoiato. Il brigante, inoltre, non era certo uno stupido: ha costruito il suo “rifugio”, chiamiamolo così, proprio nel punto in cui scorre un piccolo ruscello. Una volta chiuso dentro, da un angolo del suo loculo poteva bere tutta l’acqua che voleva. Per il resto si nutriva di radici, piante e quello che riusciva a trovare.Sopravvivere in queste condizioni non era certo facile. Per questo motivo, i briganti che scappavano nell’entroterra e sopravvivevano venivano considerati demoni o stregoni. Io che d’inverno ho freddo anche in casa mia, quanto sarei durato al posto loro? Quasi quasi, avrei preferito consegnarmi all’ascia della giustizia. Dopo una breve sosta, appena sufficiente per mettere qualcosa nello stomaco, l’autobus ci accoglie nuovamente. Ogni volta che risaliamo, la guida ci conta sistematicamente uno per uno, raccontando un simpatico aneddoto che ci fa capire come mai la conta sia tanto importante.

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Anni fa, un turista dimenticò la moglie a terra in una delle fermate, e se ne accorse solo dopo parecchi chilometri. Dovettero tornare indietro a prenderla. Per evitare che succeda di nuovo, adesso c’è l’obbligo di contare i passeggeri ad ogni sosta. Dopo aver appurato che ci siamo tutti, ci prepariamo a percorrere un campo di lava di ben cinquemila chilometri quadrati, un vero incubo per gomme e sospensioni nonché per i passeggeri, che subiscono forti vibrazioni e traballamenti. Ma ne vale sicuramente la pena. Davanti a noi c’è la montagna più cara agli islandesi, un ammasso roccioso a forma di panettone. Lentamente, le poche nuvole riunite sulla sua cima iniziano a diradarsi. Il cielo ormai è definitivamente sgombro e la probabilità di precipitazioni appare davvero infima. La strada che si inoltra nelle zone più inospitali d’Islanda è tortuosa all’estremo, molto stretta e ben poco levigata, ma l’autobus la percorre sempre senza esitazioni. Queste piste erano usate anche in passato come scorciatoia dagli abitanti islandesi, come ad esempio quella che collega Akureyri, nel nord dell’isola, alla capitale Reykjavík. Alcune di queste vie sono utilizzate anche oggi da alcuni temerari viaggiatori, che vi si avventurano in automobile, ma anche in bicicletta o perfino a piedi. A parte le enormi difficoltà, sicuramente questi itinerari donano molte soddisfazioni se percorsi senza un mezzo a motore. In lontananza sono visibili perfino le pendici più settentrionali del Vatnajökull: due montagne di ghiaccio abbastanza alte sull’orizzonte, unica variazione cromatica del grigiastro che ci circonda a 360°.

LunaProprio in uno dei punti in cui il Vatnajökull è meglio visibile, dobbiamo scendere e proseguire per un breve tratto a piedi, ricongiungendoci con l’autobus solo qualche centinaio di metri più avanti. La guida ci invita a fare ciò per permetterci di vedere quanto un fiume può diventare impetuoso. La piccola ed innocua cascatina che abbiamo visto fugacemente nelle primissime parti dell’escursione era soltanto il punto di arrivo di quest'impetuoso torrente, che ora vediamo scorrere con tutta la sua forza. La corrente è estremamente veloce. Nonostante siamo in mezzo al niente, non accenna mai a diminuire. Sembra proprio che quest’acqua abbia una gran fretta di andarsene da queste zone

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desolate. Attorno al fiume ci sono soltanto rocce: i fili d’erba che crescono nelle vicinanze si possono contare sulle dita di una mano. Raggiungiamo l’autobus in pochi minuti e vi risaliamo subito, pronti a ripartire. Il nostro punto di riferimento è sempre quella scatola di metallo verniciata di bianco e rosso, che in questo momento per noi rappresenta tutto. Più di una casa. La regina delle montagne islandesi, usando una metafora, è ora nuda: non c’è nemmeno un brandello di nubi a coprirla. Eppure non si vergogna di mostrarsi, enorme e ben panciuta com’è. C’è perfino un sentiero per salirvi in cima, percorribile in tre ore, anche se trovo difficile che un simile mostro di roccia si possa scalare in così poco tempo. Giunti in un altro punto particolarmente spoglio, dove non cresce nemmeno un lichene, la guida ferma l’autobus e ci invita a scendere, affermando che ora possiamo goderci la nostra passeggiata sulla Luna. È proprio questo il luogo delle esercitazioni lunari, infatti. Il paesaggio non lascia dubbi: sembra veramente di non essere più sulla Terra. Luoghi come questo sono ignorati da quasi tutto il mondo, di giorno e di notte. Nessuno, a casa propria, si ricorda dell’esistenza di questi suoli ultraterreni. Essi rimangono dimenticati finché non li si raggiunge con un’escursione, come noi stiamo facendo oggi, e solo allora ci si rende conto di quanto vasto è il globo e quanto terribile può essere la natura. Solo il colore del cielo, che è di un azzurro intensissimo, tradisce la natura terrestre di questa sconfinata distesa di sabbia e pietre: di notte, con un cielo completamente nero e punteggiato da miriadi di stelle brillantissime, qui ci si deve sentire proprio sulla Luna. Ma chi mai avrà il coraggio di transitare qui di notte?

CalderaDopo la passeggiata lunare (senza tute da astronauta), riprendiamo la strada verso un complesso di rifugi di legno, ai piedi dell’Askja. Da qui si imbocca un’altra stradina per un quarto d’ora, poi si scende e si comincia a camminare. Ora è indispensabile dire due parole sulla natura di questo luogo: l’Askja è infatti un vulcano tremendo, che ha eruttato molte volte nella sua storia, spesso in modo catastrofico. Tecnicamente, l’Askja è uno stratovulcano, che ha eruttato per l’ultima volta nel 1961. Ma la più tremenda fu l’eruzione del 1875, che sollevò in aria ben due chilometri cubici e

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mezzo di lava nel giro di poche ore. L’enorme camera magmatica, completamente svuotata, lasciò l’edificio vulcanico praticamente senza più sostegno. Il tetto dell’ex camera magmatica quindi crollò, generando un immenso cratere che oggi è ampio ben cinquanta chilometri quadrati. L’equivalente di un quadrato di sette chilometri di lato. Le montagne che ora possiamo vedere in lontananza, camminando in mezzo a quest’impressionante cratere, sono i bordi del medesimo, e superano i mille metri di altezza sopra il livello del mare. Il terreno è uniforme, punteggiato da pochi sassi e in gran parte coperto di cenere. Alcuni ben visibili paletti conducono in mezz’ora fino al grande lago Öskjuvatn, il più profondo di tutta l’Islanda, situato nel mezzo del cratere. Questo è seriamente uno dei luoghi più belli, terribili ed inospitali del pianeta. Superato un leggero crinale, appare improvvisamente quest'enorme massa d’acqua gelida, circondata da muraglie montagnose e ricca di riflessi creati da un sole potentissimo. L’acqua è perfettamente calma, nonostante il fortissimo vento che soffia e spazza i bordi di questo gigantesca voragine. Un palco talmente grande che non si riesce nemmeno a vedere la commedia.

InfernoIn preda all’estasi contemplativa, ci avviciniamo al lago e scopriamo nelle immediate vicinanze il cratere Viti, separato dal suo fratello maggiore tramite una parete rocciosa. Questo piccolo laghetto, che al contrario dell’Öskjuvatn ha una temperatura media di circa trenta gradi, è una sorgente termale naturale dalle acque biancastre e opache, per via dell’enorme quantità di zolfo e sali minerali che v'è disciolta. La parola “Viti”, in islandese, significa “Inferno”: in effetti, il laghetto si raggiunge solo tramite un sentiero molto ripido, ed è potenzialmente pericoloso, vista l’instabilità del sito vulcanico e le continue frane che si staccano dalle sue pareti, quasi verticali. La nostra guida ci ha ammonito, prima di lasciarci liberi di esplorarlo, che farci il bagno è possibile, ma è a nostro completo rischio e pericolo. Io non amo l’acqua e preferisco non entrare, ma Davide non può resistere e si mette subito in costume, entrando in acqua insieme ad alcuni ragazzi spagnoli che invece entrano nudi, come vuole la tradizione. Anche se l’acqua ha un colore azzurrino apparentemente celestiale, il fondo è molto fangoso e quando una

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persona vi entra crea attorno a sé un costante alone marrone, che potrebbe dare luogo ad equivoci. È davvero incredibile la presenza di questo piccolo specchio d’acqua caldo a fianco di un mostro gelido come l’Öskjuvatn, nelle cui acque molto tempo fa annegarono due geologi tedeschi, i quali tentarono imprudentemente di percorrerlo da parte a parte con una barchetta leggera. Dei due uomini non si sono più trovate le tracce, e ora solo un cumulo di pietre li commemora. Scendere fino alle rive del grande lago è impossibile: le pareti sono ripide, non vi sono sentieri né spazi, le frane sono molto frequenti. Si può invece camminare lungo i crinali delle montagne che lo circondano, ma è una passeggiata che richiede almeno otto ore, e noi ne abbiamo a disposizione solo due. Quando Davide si stanca di sguazzare nelle torbide acque dell’inferno, esce per asciugarsi e si ritrova coperto di zolfo dalla testa ai piedi. Per molto tempo, l’irritante odore sulfureo lo seguirà ovunque egli vada. La salvietta che usa per asciugarsi è ora conciata da buttare via: completamente ingiallita, risulterà impossibile da lavare. Ma questo è un problema di poco conto ora.Risaliamo dallo stretto sentiero per avvicinarci maggiormente al lago Öskjuvatn e fotografarlo meglio. Le montagne che lo attorniano assumono forme bizzarre: in alcune sono chiaramente visibili dei vecchi crateri ormai completamente compattati, mentre in alcuni punti sopravvivono ancora alcune grosse lingue di ghiaccio, nonostante il sole cocente. L’acqua ha un aspetto invitante, così pura e cristallina, ma nasconde pericoli mortali. Per questo è così affascinante. A rendere il luogo così incredibile è anche l’assenza totale di qualsiasi forma di vita, a parte i turisti che ci camminano sopra. Niente cresce su questo suolo arido e pietroso. Miracolosamente, nonostante il tempo qui vari molto in fretta, il cielo continua a rimanere sgombro da qualsiasi nube. Sembra che una forza invisibile le tenga lontane, per permetterci di godere al meglio di questa splendida giornata. Entrambi ci aspettavamo uno spettacolo particolare, ma nessuno pensava che sarebbe stato così estremo. Prima di tutto c’è da chiedersi come abbia potuto formarsi un luogo simile: la camera magmatica doveva essere enorme, il crollo devastante, l’eruzione terrificante. Un evento catastrofico dalla portata tale che non riusciamo nemmeno ad immaginarlo.

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Musica delle sfereRipercorriamo la strada a ritroso, con il sole alle spalle che non abbaglia più, e la vista della muraglia montuosa che spazia lungo tutto il campo visivo. A completare il quadro, già magnificente di per sé, ci pensano i russi Ea, gruppo musicale totalmente avvolto nel mistero, e che scelgo per accompagnarmi nel ritorno all’autobus. Nessuno conosce i nomi dei componenti, i libretti degli album sono vuoti, gli incomprensibili testi sono scritti in un’antica lingua morta, ricreata sulla base di ricerche archeologiche. Parla solo la musica, che è epica, enorme, maestosa. Il rumore del vento introduce la prima composizione, confondendosi con il vento vero che soffia lungo la caldera. Si aggiunge poi un pianoforte che suona note basse e marziali, accompagnato dai celestiali violoncelli e da potentissime pennate di chitarra che paiono riempire l’intera caldera con la potenza del loro suono riverberante. Le parti di batteria, lente eppure intricate, simulano i botti di un’eruzione vulcanica; la solennità di un organo ecclesiale fa quasi tremare il terreno. Sembra che la musica provenga direttamente dal cielo, non più dalle cuffie. Più volte mi sono trovato a conciliare la musica con paesaggi che si sposavano perfettamente con essa, ma non avevo mai trovato un’associazione così perfetta, per giunta in un luogo così unico. Cammino lentamente per riuscire a terminare l’album, che suona le sue ultime prolungate note d'organo proprio nel momento in cui salgo nuovamente sull’autobus.Ritorniamo dunque al campo base poco distante, dove ci è concessa una mezz’ora per mangiare un panino, circondati da null’altro che spoglie distese di niente. Nel momento in cui mi reco al bagno, mi accorgo di un particolare divertente. La toilette è gratuita, ma un grosso cartello posto proprio davanti alla tazza recita “Com’è arrivata qua questa toilette? E questa morbida carta? Non dimenticarti di lasciare un’offerta”. Dovrei lasciare quattrocento corone, ma non ho così tante monetine, e le banconote che ho sono da mille. Lascio comunque tutte le monetine che ho nel portafogli. Forse non raggiungo nemmeno le duecento corone, ma è pur sempre meglio di niente. Inoltre, sono riuscito finalmente a svuotare il mio straripante portamonete. Come fare del bene a sé e contemporaneamente anche agli altri. In effetti, mandare avanti un rifugio così isolato deve essere particolarmente costoso. Anche se

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ho utilizzato solo un singolo quadratino di carta igienica, è giusto pagarlo.

Acqua ammutinataMentre aspettiamo di ripartire, facciamo amicizia con una coppia di coniugi italiani. Come tutti i viaggiatori che si avventurano qui, anche loro parlano di quest’isola in modo entusiastico e reverenziale. Loro però sono più attrezzati di noi: si possono permettere di esplorare l’Islanda in automobile (nello specifico, un vaporoso fuoristrada fucsia). Per visitare l’Askja, tuttavia, hanno saggiamente scelto l’autobus. Stanno percorrendo l’isola nel verso opposto al nostro, cosicché ognuno può dare informazioni utili all’altro, in quanto ha visto tutte le zone che mancano da vedere all’altro. Purtroppo i loro consigli si rivelano difficilmente attuabili per chi non ha un mezzo privato con il quale spostarsi, ma li ringraziamo comunque della chiacchierata, e una volta risaliti sul pullman ci perdiamo di vista, essendo seduti lontani. La simpatica guida afferma che per un’oretta non parlerà più al microfono, poiché sa per esperienza che questa è l’ora della siesta. Fa in effetti molto caldo, siamo stanchi e il sole che batte esattamente sul mio finestrino mi fa quasi addormentare. La strada del ritorno è una tortura, tra il caldo infernale e la spossatezza, ma la fervida immagine del meraviglioso Askja è sufficiente a spazzare via le sensazioni negative e a ricordarmi che quello che sto pagando ora è solo un piccolissimo prezzo, in confronto a quello che la giornata oggi mi ha offerto. Nelle ultime ore di viaggio, la guida si risveglia e ci spiega un po’ di leggende sugli spiriti islandesi, tra elfi, troll e popoli nascosti, fino ad arrivare ad un’esauriente spiegazione sul sistema dei nomi in Islanda. Questo è infatti l’ultimo paese europeo che utilizza ancora il patronimico, come fanno i russi. Tutti gli islandesi si chiamano direttamente per nome, il cognome non esiste. Perfino l’ultimo dei facchini può rivolgersi al primo ministro chiamandolo per nome, senza suscitare alcun imbarazzo. Magari fosse così anche da noi, dove basta nominare il cognome del politico sbagliato per essere automaticamente accusati di diffamazione.Smetto di ascoltare la guida nel momento in cui vedo alla mia destra uno spettacolo davvero curioso. Un fiume molto ampio pare

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dividersi a metà lungo una linea immaginaria. Al di qua della linea l’acqua è ferma, mentre al di là è in movimento. Non c’è niente in mezzo che divida il fiume, e probabilmente questo singolare fenomeno è dovuto alla presenza di zone fangose non visibili. Fantastico!Dopo essere stati via per le dodici ore previste, rientriamo infine a Reykjahlid. Il tempo è ancora ottimo, anche se leggermente più nuvoloso. Probabilmente pagheremo in seguito lo scotto di questa giornata splendida. Considerando però che stiamo vivendo qui e adesso, non possiamo che ringraziare la natura ancora una volta. Qualcuno afferma che la caldera dell’Askja è affascinante con qualunque condizione climatica, ma avendola vista al sole sono ben convinto che sia molto meglio così che con la pioggia. Torniamo in ostello con la sola forza di volontà, poiché il corpo ormai non è molto collaborante. Inizialmente pensiamo di puntare la sveglia a metà notte per cercare di vedere un’aurora boreale, data la giornata adatta, ma in tarda sera guardiamo fuori dalla finestra e vediamo dense nubi a perdita d’occhio. Meglio rinunciare.

DimmuborgirUna lunga dormita ci rimette in sesto, ed è l’ultima che passiamo nel container terremotati. Se non altro smetteremo di dormire dentro il sacco a pelo, caldo ma scomodo, dato che per risparmiare abbiamo scelto dei letti senza lenzuola. Ora dobbiamo cambiare posto e stabilirci in una guesthouse, posta esattamente dall’altra parte del paese, ma vicinissima alla stazione degli autobus. Il problema è che la reception apre con notevole ritardo, costringendoci a perdere ore preziose per depositarvi i bagagli. Ma non abbiamo altra scelta, oggi ci aspetta una lunga escursione a piedi e non possiamo certo portarceli dietro. Dopo qualche ora di attesa, in piedi ed esposti ad un vento piuttosto freddo, finalmente qualcuno ci apre e possiamo mollare gli zaini nel deposito, liberi di cominciare la camminata. Oggi tocca alla formazione lavica del Dimmuborgir. Questo nome ha significato molto per me, negli ultimi dieci anni di vita: una delle mie band musicali preferite ha preso il nome proprio da questo complesso di sculture e edifici lavici, posto a breve distanza da Reykjahlid. Per raggiungerla ci inoltriamo in qualche boschetto di cespugli e alberi nani, situato come un'isola felice in mezzo ad un

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campo roccioso, per arrivare infine nei pressi di un altro vulcano, l’Hverfjall. Si tratta di un grosso cratere di tefrite, dal diametro di un chilometro e dalla tinta assolutamente monocromatica. Lungo il bordo del medesimo, passa il sentiero per il Dimmuborgir. Non ho mai sperimentato un vento così forte come quello che c’è in cima a questa bocca vulcanica spenta. Fortunatamente le raffiche sono laterali, perché superano sicuramente i cento chilometri orari e sbilanciano non poco il passo. Se fosse vento contrario, probabilmente non riusciremmo ad avanzare o lo faremmo con molta difficoltà. Per un attimo mi salta in mente di posizionarmi controvento e con la bocca aperta, per testare la forza del vento: devo richiuderla immediatamente, poiché mi si riempie subito di polvere. Ci divertiamo per un po’ a calciare il terreno e ad osservare come il vento disperde violentemente la sabbia, creando nubi dalle varie forme, poi ridiscendiamo dal versante opposto lungo un sentiero a zig – zag, chiuso tra paletti simili a quelli dei percorsi sciistici. Il sentiero è talmente ripiegato su se stesso che dobbiamo invertire direzione almeno trenta volte, prima di arrivare ai piedi del monte, il tutto per fare solo poche centinaia di metri. Ora, davanti a noi si estende un campo punteggiato di eriche, muschio e arbusti, nel quale il sentiero si inoltra sinuosamente. Presto ci troviamo circondati dalla vegetazione, sempre molto bassa, ma finalmente non più solo erbosa. Il sentiero è molto suggestivo e dà quasi un senso di protezione. Vi sono molte reti di cinta, superabili solo grazie ad alcune scalette. I fiori formano inoltre delle combinazioni di colore che non siamo più abituati a vedere da almeno dieci giorni. Ed ecco che cominciano ad apparire le prime grotte e le prime sculture laviche: siamo finalmente arrivati nel cuore del Dimmuborgir. Molti sentieri ben segnalati, classificati in base alla durata e al grado di difficoltà, si dipanano dal punto iniziale. Scegliamo di evitare l’unico sentiero difficile, così da goderci una piacevole scampagnata senza faticare eccessivamente. Oggi siamo un po’ pigri. Ma è meglio fare così, anche perché il cielo oggi è completamente coperto da nubi, e anche se ora non piove potrebbe cominciare da un momento all’altro. Ovviamente, mentre cammino per i sentieri non posso esimermi dall’accendere il lettore e scegliere proprio i migliori brani dei Dimmu Borgir. Devo dire che si adattano perfettamente al luogo. I sei norvegesi non hanno scelto

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questo nome a caso: esso evoca oscurità, potenza, durezza, unite però ad una vena poetica non indifferente.Pur interessanti che siano questi campi di lava, mi aspettavo un po’ più di varietà. I sentieri non portano in nessun posto particolare, e ci sono poche sculture e grotte interessanti da vedere. Colpisce invece la fragilità della lava: pur non essendo leggera come la pietra pomice, tende a disgregarsi e polverizzarsi con estrema facilità. Solo raccogliendo un sasso da terra, senza manipolarlo in alcun modo, ci si ritrova già con le dita piene di polvere vulcanica. L’intero Dimmuborgir è infatti una riserva naturale molto fragile e precaria, che è stata sul punto di essere distrutta più volte, e che oggi sopravvive solo agli sforzi di alcune associazioni che hanno lavorato duro per preservarla. Per via di questa precarietà del materiale, è bene non abbandonare mai i sentieri segnati: si rischia di sprofondare in un crepaccio senza nemmeno accorgersene. Percorrendo i diversi sentieri, non troviamo mai un punto in cui il paesaggio sia differente. Una visita interessante, ma piuttosto monotona. Nel momento in cui ci fermiamo per fare un breve spuntino, inizia a piovere. Dopo una decina di minuti però smette, quasi in contemporanea con la fine del pasto. Sembra che la pioggia abbia un’intelligenza diabolica. Inoltre, per poco non ci sfugge un sacchetto di plastica, che rischia di volare via per una raffica di vento. Ci affanniamo precipitosamente per recuperarlo, e ci riusciamo in extremis. Sporcare la natura è un qualcosa che provoca sempre disagio, almeno in chi ha una coscienza ecologica, ma sporcare la natura islandese è molto peggio.Dopo lo spuntino, è ora di incamminarci per tornare a Reykjahlid, poiché dobbiamo tornare indietro a piedi lungo un bel tratto di Ring Road e ci metteremo almeno un paio d’ore. Il ritorno, lungo questa lunghissima lingua asfaltata sempre uguale a sé stessa, è allo stesso tempo bucolico e snervante, rilassante e distruttivo. Bucolico perché si attraversano zone agricole a due passi dal lago Myvatn, tutti paesini quasi identici tra loro che ospitano enormi fattorie e campi con centinaia di balle di fieno impermeabilizzate. Snervante per via dei moscerini, poiché gli sciami sono veramente fastidiosi e non c’è alcun modo di liberarsene, a meno di smettere di respirare. Rilassante, perché percorrere questa strada deserta con la musica nelle orecchie è un’esperienza che si vorrebbe non finisse mai. Distruttiva, perché sono ormai molti giorni che maciniamo

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chilometri a piedi e ormai iniziano a far male le gambe e a formarsi le vesciche sugli alluci. Tuttavia, questo è il minore dei problemi. Non tentiamo nemmeno l’autostop, nonostante stavolta non siamo muniti di borse enormi e bagnate: è mille volte più interessante camminare, piuttosto che arrivare in paese dopo pochi minuti e senza fatica. Quando ormai siamo prossimi a Reykjahlid, incontriamo una ragazza che abbiamo già visto più volte lungo il nostro itinerario. La prima volta l’avevamo incrociata sul trekking del Landmannalaugar, ma era apparsa anche a Vik. Non siamo sicuri della sua nazionalità, ma probabilmente è francese. L’Islanda pullula di francesi in un modo incredibile. Questa inarrestabile giovanotta sta percorrendo la strada in senso opposto al nostro, con ben due zaini sulle spalle, uno dietro e uno davanti. Sono enormi e sicuramente pesantissimi. Deve avere un bel coraggio ad andare in giro da sola, così carica. Inoltre il paese successivo è lontanissimo, come abbiamo avuto modo di vedere. Che energia! Si merita tutti i nostri complimenti.

Prendi due, paghi uno e mezzoDopo le previste due ore, raggiungiamo il nostro nuovo alloggio. Non siamo ancora entrati fisicamente in camera, ma sappiamo che ci aspetta una sistemazione piuttosto scomoda. A causa di una penuria di stanze, infatti, abbiamo dovuto accontentarci di prenotare una camera singola. Tecnicamente non potremmo soggiornare in due in questa stanza, poiché a livello di normative di sicurezza e regolamenti vari non ci può stare più di una persona, ma il personale ha gentilmente chiuso un occhio e ci ha prenotato ugualmente due posti. Per il prezzo, hanno fatto una media tra una singola e una doppia. Sono stati anche gentili, ma considerando che stamattina ci hanno fatto aspettare due ore al freddo senza alcun apparente motivo, prima di farci entrare a depositare i bagagli, hanno perso qualche punto. Lo riguadagnano però fornendoci un materasso da stendere a terra, per dormire più comodi stanotte. Avremmo comunque i nostri, che abbiamo usato in campeggio, ma non c’è paragone con un materasso vero. Tra l’altro, questa non sarà l’unica volta che dormiremo in una camera singola: anche domani, a Húsavík, ci aspetta una sistemazione analoga. Purtroppo, anche quest’anno ci siamo svegliati tardi a prenotare, sottovalutando

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l’affluenza turistica in un paese come l’Islanda, e anche se siamo riusciti ad accaparrarci un posto per dormire in ogni città, un po’ l’abbiamo dovuta pagare. La camera è così minuscola che a malapena riusciamo a sgombrare i letti dagli zaini, ma in qualche modo alla fine riusciamo a far stare tutto al proprio posto. Non c’è nemmeno più il tavolino: l’abbiamo dovuto togliere per far stare il secondo “letto”. Io dormo sul letto vero, poiché Davide si è subito offerto di dormire per terra. Probabilmente, anzi sicuramente, l’ha fatto perché ha visto che oggi c’è un materasso comodo, e quindi gli conviene offrirsi adesso perché non sa se domani ce ne daranno uno o invece dovremo usare i nostri. Che opportunista! Ma probabilmente, anzi sicuramente, avrei fatto la stessa cosa anch’io se solo ci avessi pensato per primo. Dunque nessun problema, siamo pari. L’unico vero problemino è la porta, che si apre verso l’interno ed è quindi bloccata dal materasso. Fortunatamente siamo entrambi magri, e la porta si apre quel tanto che basta per farci passare senza stritolarci.Mi sono dimenticato, però, di un particolare importante. Oggi Davide ha deciso di superare se stesso imbarcandosi in un’impresa musicale dalle tinte epiche. È da quando abbiamo cominciato a percorrere il sentiero per il Dimmuborgir, infatti, che ascolta ininterrottamente la stessa canzone. Il brano è “Deja Vu”, degli Iron Maiden. Ormai ha totalizzato quasi sette ore di ascolto continuato, il che significa che ha sentito la canzone per ottanta volte. Non si è mai tolto gli auricolari, né per mangiare, né per conversare con me, né per prenotare la stanza (e infatti mi sono occupato io di pagare e di ricevere le informazioni della guesthouse, mentre la ragazza della reception lo guardava male). Quando ritorna da una delle sortite al bagno, finalmente lo vedo senza più auricolari. Ha raggiunto le sette ore tonde e ha detto basta, ma a detta sua avrebbe potuto continuare ancora per un tempo indefinito, senza alcun problema. Se lo dice lui…

KraflaL’indomani si riparte, ancora una volta. Non stiamo davvero mai fermi. Per raggiungere Húsavík dobbiamo spezzare il viaggio in varie tappe: solo così, infatti, potremo passeggiare sulle pendici del Krafla, monte che ospita un vulcano attivo, ed osservare la

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potentissima cascata di Dettifoss. Il primo autobus parte alle nove del mattino, e come potevamo aspettarci la giornata è uggiosa e fredda. C’è una lieve pioggerella insistente che non cessa mai, e ormai siamo così affezionati ai nostri vestiti impermeabili che stiamo quasi per dargli un nome. L’autista che arriva a prenderci è molto gentile, ma parla un inglese stentato. È il primo islandese che incontriamo che non parla l’inglese allo stesso livello della sua lingua madre. Non c’è problema, tuttavia, poiché si premura molto di farci capire dove andremo, quanto ci metteremo e per quanto tempo ci fermeremo, e riesce a farsi capire ugualmente. Dopo un quarto d’ora ci lascia infatti nel parcheggio sotto il Krafla e ci dà istruzioni di tornare qui fra tre ore per continuare il viaggio. Stranamente, non ci sono altri autobus disponibili prima. Tre ore sono fin troppe per camminare sul vulcano. Inoltre, la giornata è sempre più piovosa e ciò rende la visita piuttosto scialba e spiacevole. Il terreno è fangoso, il vento ci raggela. A malapena guardiamo avanti, preferendo fissare direttamente il terreno per evitare di scivolare. Anche stavolta, le scarpe si coprono di fango e continuano a raccoglierne, appesantendosi sempre di più. Inoltre, abbiamo addosso gli zainoni. Dopo aver oltrepassato un lago e una fumarola dai mille colori, raggiungiamo un complesso di strani edifici ottagonali, dai quali partono numerosi tubi paralleli al terreno. È una centrale geotermica. Infreddoliti e stufi di prendere acqua e vento, ci stabiliamo contro la parete di uno di essi e decidiamo di aspettare lì fino a quando non sarà giunta l’ora di tornare al parcheggio. La varietà del paesaggio non è molta, non è il caso di correre troppo in giro. Nonostante ciò, la distesa di sabbia rossa che abbiamo davanti è qualcosa che ancora non avevamo visto. Inoltre, dopo pochi minuti scopriamo che il gabbiotto è aperto, e che al suo interno c’è un marchingegno per convogliare il vapore. Il rumore è assordante, ma in compenso dentro fa molto caldo, così continuiamo ad entrare e uscire ad intervalli regolari, per scaldarci un po’ senza danneggiare troppo l’udito. Questa è proprio una di quelle situazioni in cui si preferirebbe entrare in un coma temporaneo e risvegliarsi qualche ora dopo, senza ricordare più nulla. Non possiamo nemmeno lamentarci più di tanto, avendo a disposizione un calorifero gratis, ma la situazione non è certo stimolante.

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Trascorriamo due ore e mezza nella noia più totale, passeggiando svogliatamente attorno al gabbiotto e avendo cura di non esporci al vento saturo di goccioline d’acqua. Finalmente arriva l’ora di andarcene. Siamo zuppi d’acqua e le nostre scarpe sono putrescenti, conciate da buttare via. Del vulcano abbiamo visto ben poco. Giunti di nuovo sul piazzale, tentiamo di eliminare gli ammassi di fango sbattendo i piedi nelle pozzanghere, e solo dopo numerose scalciate riusciamo a pulire le scarpe in modo decente. Nessun autista ci farebbe salire in quelle condizioni. Speriamo che le cose migliorino nelle prossime ore, e che almeno Dettifoss salvi questo pessimo esordio.

DettifossL’autista arriva con soli cinque minuti di ritardo, che a noi paiono un’eternità. Vogliamo solo abbandonare questo posto e portarci ancora un po’ più vicini alla meta ultima, Húsavík. Inoltre, non mi sento nemmeno tanto bene: dai sintomi che ho, molto probabilmente ho preso l’ennesimo raffreddore. Non mi viene per tutto l’anno, ma puntualmente riesco a prendermene uno in ogni viaggio. Forse è semplicemente un segnale del corpo, che mi dice “Rallenta!”, stufo di essere strapazzato. Pazienza, mi beccherò anche il raffreddore se necessario. Per adesso, l’ambiente caldo dell’autobus e il pranzo consumato durante la strada per Dettifoss sono sufficienti per rimettermi un po’ in sesto. Dal punto in cui l’autobus ci lascia, è visibile chiaramente la nube di spruzzi che la cascata solleva, e abbiamo meno di un’ora per raggiungerla e tornare, quindi ci muoviamo in fretta. Cominciamo a camminare lungo un sentiero, ma presto ci rendiamo conto che non ci sta portando da nessuna parte e che gli spruzzi sono sempre più lontani. Stiamo andando in direzione opposta, maledizione! Ritorniamo subito indietro, ma ora mi sta salendo un po’ di febbre e non riesco a star dietro al passo del mio compare, che in preda alla furia sta camminando a velocità supersonica. Certo che potrebbero mettere un cartello chiaro che indichi dov’è il sentiero per la cascata. Anche una coppia di italiani si è sbagliata come noi, e insieme a loro cerchiamo di capire dove sia il sentiero. Infine lo troviamo, a brevissima distanza dall’autobus ma seminascosto da una roccia e da alcune automobili parcheggiate. Non lasciamo gli zaini

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nell’autobus, per evitare che qualcuno possa abilmente arraffarli in un momento di disattenzione generale, e ci inoltriamo nel sentiero roccioso con una certa fretta. Sulla destra appare la cascata di Selfoss, larghissima, ma troppo lontana per raggiungerla in così poco tempo. La vicina Dettifoss è invece molto più stretta, ed è anche bassa: raggiunge a malapena i quaranta metri di altezza. In compenso è la cascata con la maggior portata d’acqua in tutta l’Europa. Il suo muro d’acqua è agghiacciante. Pur non producendo un rumore molto forte, rovescia a valle ogni secondo un’incredibile massa d’acqua, che turbinando e scivolando crea forme ipnotiche. Sembra che ci siano dei fronti d’acqua ribelli che, in contrasto con la corrente principale, tentano di risalire fino in cima, ma non ci riescono mai. Si assottigliano sempre di più, fino a scomparire. Come a Gullfoss, anche qui l’acqua ha poco spazio per fluire una volta caduta in basso: la gola è molto stretta e ciò fa sì che gli spruzzi si innalzino altissimi. Sono visibili fin da un chilometro di distanza. Potrei rimanere ad osservare questa mostruosità per ore, incantato dai suoi turbini, che fanno quasi impazzire la vista dopo nemmeno dieci secondi di osservazione continuativa. Purtroppo, il sole non trova nemmeno un piccolo spazio per insinuarsi tra le nubi, altrimenti vedremmo anche la luce rifrangersi sulle goccioline sospese e creare dei colori fantastici.

HúsavíkAbbiamo giusto il tempo di tornare indietro all’autobus, e ora ho la certezza che mi è venuta la febbre. L’autista però mi fa recuperare un po’ di buon umore quando annuncia che la strada fino a Húsavík è molto accidentata, e per questo motivo dovrà percorrerla velocemente, così da renderla più confortevole per i passeggeri. Davvero un annuncio insolito. Ma non è una battuta: l’autista appesantisce effettivamente il piede destro, conducendo il mezzo per le tortuose strade senza alcuna esitazione, nemmeno nei punti più difficili. Effettivamente, andare veloci aiuta gli ammortizzatori ad assorbire meglio gli urti, evitando sballottamenti eccessivi. Facciamo solo un paio di soste prima di fermarci a Húsavík, entrambe in zone dove esiste solo un parcheggio e una minuscola toilette. Nella prima, appaiono colonne basaltiche esagonali che paiono replicarsi all’infinito. Nell’altra, invece, c’è un tranquillo

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stagno circondato da muschio e sassi nerastri, che riflettendosi nell’acqua paiono intersecarsi con essa. L’Islanda non smette mai di stupire: anche dopo aver visto la composizione di paesaggi più eterogenea possibile, riesce sempre a mostrare qualcosa di nuovo.All’arrivo a Húsavík sono stanchissimo, e se penso che dovremo stare in una camera singola già mi sento peggio. Ma non tutto sta per andare come ci aspettiamo. Innanzitutto, il luogo è splendido. Nonostante sia una città portuale, ha un aspetto ridente, ordinato e variopinto. Le orribili strutture di Höfn sono lontane anni luce. La chiesetta di legno, verniciata di bianco e rosso, dona quel tocco di classe in più. Inoltre, diverse persone sconosciute ci sorridono proprio come faceva la gente a Reykjavík. Non ci era mai successo di suscitare tutta questa simpatia. La guesthouse dove alloggiamo è un posto delizioso: una casa di legno bianco a più piani, che reca come decorazioni alcuni vecchi strumenti musicali e proiettili di varie armi. La proprietaria, poi, è di una gentilezza abissale. È una tranquilla signora che ormai avrà superato la cinquantina, e che si prodiga ad illustrarci per filo e per segno la nostra stanza, una doppia. Ma come? Non dovremmo stare in una singola? Fortuna che, prima di entrare, abbiamo deciso di dire “Abbiamo prenotato una stanza” e non “Abbiamo prenotato una stanza singola”. Forse la donna se n’è accorta, ma ha voluto darci lo stesso una camera doppia per non crearci disagi. Ma come ha fatto, ammesso che sia così? Al telefono ci ha proposto la singola perché non c’erano altre possibilità. Che se ne sia liberata una nel frattempo? Oppure è tutto un enorme disguido? Francamente, ormai ci interessa poco: facciamo gli gnorri, e una volta ricevute le chiavi ci chiudiamo dentro e ci godiamo a tutti gli effetti la nostra camera doppia. In questa cameretta dal gusto classico ci sono alcuni oggetti esilaranti: un bicchiere Ikea, che reca però scritto “Made in China”, e una ridicola scaletta di corda, da calare dalla finestra in caso di incendio. Non ha l’aria molto robusta, speriamo proprio di non doverla usare. Quando scendiamo per fare la spesa e ritorniamo con due pizzette imbustate, la proprietaria si offre addirittura di andare a casa sua in macchina e prenderci della carta da forno per farcele scaldare, dato che nella guesthouse è terminata. Non abita certamente lontano, ma non è una cosa da tutti essere così servizievoli. Giusto per il fatto che deve muovere apposta la macchina, è strano. La cucina è ampia e spaziosa, e appesa al muro c’è un’enorme carta geografica

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dell’Islanda. Osservandola bene, ci rendiamo conto di aver percorso davvero molta strada in questo poco tempo, se già siamo affacciati sul Mar di Groenlandia.

La caccia, le ossa, il …Siamo a Húsavík per tre motivi. Il primo, che stiamo per andare ad intraprendere, è l’escursione di whale watching. Per chi non mastica l’inglese, significa andare ad osservare le balene. Questa, infatti, è una delle località migliori per avvistarle: la baia di Húsavík è luogo dove numerosissime specie di cetacei vengono ad approvvigionarsi di cibo. Si possono osservare delfini, balene franche, balene comuni, megattere. A volte perfino balenottere azzurre, gli esseri viventi più grandi del pianeta. È inconcepibile come mai un popolo così civile e socialmente avanzato come l’Islanda abbia recentemente riaperto la caccia alle balene, che già rischiano l’estinzione. Gli islandesi sostengono che nel loro territorio possono fare ciò che vogliono, ma i dati parlano chiaro: i profitti che frutta una balena morta sono circa un quinto di quelli che frutta una balena viva. Le escursioni di whale watching, infatti, sono infinitamente più redditizie. In questa mattinata ventosa e nuvolosa, ma non piovosa, ci apprestiamo a salire su un piccolo peschereccio, che due esperti uomini conducono fino alle zone che sanno essere le più popolate da cetacei. La barca è spartana, ma dispone di servizi igienici. Inoltre, durante le tre ore di escursione è prevista un'offerta di cioccolata calda e pasticcini. La bevanda calda sarà sicuramente molto gradita, poiché al largo può fare molto freddo, indipendentemente dalla temperatura della costa. Per questo motivo ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo a disposizione, guanti e berretto pesante inclusi, anche se sappiamo che sul peschereccio ci sono alcune tute termiche d’emergenza. Ma sarebbe imbarazzante essere gli unici passeggeri a chiederne una.Per la prima mezz’ora, il mare è piatto come una tavola e non c’è traccia di alcunché di marino. Si vede solo qualche pulcinella di mare, tipico uccello islandese grazioso e goffo, un tempo ritenuto frutto di un incrocio tra un pesce e un volatile. Ma di pesci veri e propri, nemmeno l’ombra. Scrutiamo tutti l’orizzonte, incalzati dalla guida, che armata di megafono ci incita a non mollare, poiché il successo di questa missione di “caccia” dipende anche da noi.

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Sappiamo che, se non riusciremo a vedere niente, ci omaggeranno con un’altra escursione gratuita, ma così facendo perderemmo la giornata e non potremmo dedicarci alle altre due attrazioni di Húsavík. Continuiamo dunque a cercare, muovendo gli occhi di qua e di là sperando di vedere un geyser vivente apparire all’orizzonte. Se ci trovassimo sul Pequod, la nave capitanata da Achab, dovremmo urlare “Là! Soffia!”, casomai vedessimo una balena. Ma non prepareremmo arpioni e lance, bensì binocoli e macchine fotografiche. Anzi, i binocoli li lascio agli altri, poiché intelligentemente ho lasciato il mio in albergo.Ci avviciniamo sempre di più alla parte opposta della baia, ma ancora niente. La guida ci aveva avvertito che la probabilità di avvistare una balena si aggira intorno al 98% in ogni escursione, ma che c’è pur sempre quel 2% di probabilità che tutte le balene siano temporaneamente migrate altrove e non se ne veda nemmeno una. Tuttavia, quando ormai sono piuttosto infreddolito e scoraggiato dal continuare ad osservare il nulla, la barca vira decisa e la guida annuncia “C’è qualcosa a ore due”. Ci ha spiegato, infatti, che dobbiamo considerare la barca come un orologio, facendo corrispondere la prua alle ore dodici di un quadrante, e la poppa alle ore sei. In questo modo sapremo sempre tutti da che parte guardare. Il macchinista spegne il motore per non disturbare le creature che stanno affiorando in lontananza, ancora non riconoscibili. Ma dopo poco capiamo che sono delfini. Stanno viaggiando in un gruppo numeroso, e ogni tanto spunta fuori la pinna dorsale. Fanno perfino qualcuno dei loro proverbiali salti, e purtroppo riusciamo a vederli solo da lontano. Nonostante siano animali molto curiosi, oggi non sembrano interessati a conoscere la nostra imbarcazione. Presto li perdiamo di vista e ritorniamo ad accendere il motore, aguzzando la vista, sia per cercare di ritrovarli sia per avvistare qualcos’altro. La prima balena non si fa attendere: sembra che gli animali si siano svegliati tutti adesso. È una balena comune, che ha la particolarità di emergere dall’acqua per tre volte, due brevi e una lunga, e poi immergersi nuovamente per almeno una decina di minuti. Le emersioni coincidono con i respiri. Si comporta proprio in questo modo: la sua forma sinuosa emerge dall’acqua con molta grazia, poi ritorna sotto, poi esce ancora e poi ritorna ancora sotto, e infine emerge più prepotentemente per inspirare a fondo. Poi sparisce.

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A fianco a noi, a circa cinquanta metri di distanza, c’è un’altra barca da whale watching. Ci seguono e fanno esattamente quello che facciamo noi, vedendo che siamo più vicini di loro alla balena. Tuttavia, dopo pochi minuti siamo noi che seguiamo loro, perché ne hanno trovata un’altra poco distante. Ecco un’altra balena comune. La guida spiega che questo mammifero può raggiungere i dieci metri di lunghezza. Anche se la balenottera azzurra ne misura circa trenta, dieci metri sono una lunghezza di tutto rispetto, considerando anche che la più piccola delle balene ne misura circa due. Le balene, purtroppo, non sembrano interessate alla nostra barca. Preferiscono continuare a nuotare ed immergersi nelle acque fredde, a volte dando l’impressione di avvicinarsi, ma poi eclissandosi definitivamente. Sono ben lontane le scene che si vedono in fotografia, vale a dire balene enormi che si rizzano sulla coda e fanno salti altissimi a brevissima distanza dalla barca, davanti a decine di persone attonite ed estasiate. La realtà è che queste situazioni capitano raramente. Tuttavia, anche vedere una di queste creature per pochi secondi e da lontano è emozionante. L’ultima balena, immergendosi dopo il terzo respiro, ci dà il saluto definitivo. È ora di tornare indietro, poiché il tempo a disposizione sta per scadere. Una lieve febbricola mi tormenta, ma non ho tempo per pensarci. Mentre torniamo indietro, infatti, altri delfini si divertono a nuotare esattamente sotto la prua della nostra nave. Non emergono mai, ma ci stanno evidentemente salutando. Quando spariscono definitivamente, arrivano le tazze di cioccolata bollente. Le beviamo tutti avidamente, per recuperare un po’ di calorie, e infine con una lentezza esasperante ritorniamo al molo. Ora tocca al secondo motivo per il quale siamo qui a Húsavík: il museo delle balene, unico in Europa dedicato esclusivamente ad esse. Al suo interno si trovano scheletri, fanoni, varie parti del corpo degli enormi mammiferi. Anche se è la terza volta che visito un museo che ne ha una in esposizione, la vertebra di balenottera azzurra riesce sempre ad impressionarmi. Ma mi impressiona ancora di più vedere quanto latte beve quotidianamente un cucciolo di balena appena nato: per rendere l’idea, i gestori hanno ammassato 250 bottiglie da un litro. Sapere che sono 250 litri è già straordinario, ma vedere a quanto effettivamente corrispondono fa quasi spavento. E che dire a proposito di alcuni numeri da record

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delle balenottere azzurre? Un bambino potrebbe strisciare agevolmente nelle loro arterie più ampie, e il loro cuore è grande come un’utilitaria. I loro reni riempiono la pala di un’escavatrice. La sola lingua pesa come un elefante africano. E pensare che il loro occhio è grande poco più del nostro, e il loro orecchio è praticamente un foro di spillo. Con quale coraggio si uccidono questi meravigliosi animali, che oltre ad essere incredibilmente affascinanti sono anche molto intelligenti?Il terzo motivo per il quale siamo a Húsavík è molto diverso dai primi due. In un certo senso c’entrano ancora le balene, ma solo marginalmente. Húsavík è famosa anche perché ospita il Museo Fallologico Islandese, unico al mondo nel suo genere. Come si intuisce dal nome, questo museo ospita ben 210 falli di animali, tutti imbalsamati e conservati in formalina. Già l’insegna, dalla “particolare” forma, ci fa scoppiare a ridere. Non possiamo certo perderci questa bizzarria, così entriamo ad osservare con cosa si riproducono gli animali. Curiosamente, l’unico campione che manca è quello umano, ma sono già stati trovati ben quattro donatori, disposti a completare la collezione. Nel museo sono appesi perfino gli atti di donazione, debitamente firmati. Si spera per loro che lo faranno dopo morti, almeno. La scelta è molto vasta: si va dai trichechi alle balenottere azzurre, dai maiali ai cavalli, fino ai criceti. Quest’ultimo è così minuscolo che per vederlo è necessaria un’enorme lente d'ingrandimento. Non mancano le bizzarrie: quello di numerosi maiali è a forma di cavatappi. La sezione dei gadget, poi è fenomenale. Dalle caramelle Dick Tac fino alle mazze da golf dall’ambigua forma. Meglio che non mi dilungo oltre a descrivere…Con il museo fallologico, abbiamo dunque visto tutto quello che c’è da vedere a Húsavík. Il nostro autobus passa alle quattro di pomeriggio ed ora sono solo le undici di mattina, ma improvvisamente ci accorgiamo che c’è un pullman che passa tra mezz’ora. Torniamo alla guesthouse per recuperare i bagagli, ma il problema è che prima di uscire li abbiamo consegnati alla signora, la quale li ha stoccati nella reception per evitare che ce li rubassero. Il problema è che ora la donna non c’è, come spesso accade, e non abbiamo la chiave per recuperarli. Se non li prendiamo adesso, dovremo aspettare che la signora ritorni, e in ogni caso avremo davanti alcune ore di attesa inutile. Provvidenzialmente, però, fuori dalla porta è stampato un numero di cellulare da chiamare in caso di

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necessità. La donna ci risponde subito, e non appena comprende che abbiamo bisogno dei bagagli entro pochi minuti, monta immediatamente in macchina per venire ad aprirci. Tempo due minuti d’orologio e siamo nuovamente in possesso degli zaini. La gentilissima signora, della quale curiosamente non ricordiamo nemmeno il nome, si offre perfino di portarci in macchina fino alla fermata, per non farci rischiare di perdere l’autobus. Potremmo accettare, ma abbiamo un quarto d’ora di tempo e per arrivare servono poco più di cinque minuti. Non vogliamo abusare della sua gentilezza, così rifiutiamo e ci limitiamo a ringraziarla più volte per averci salvato.

AkureyriIl pulmino per Akureyri, la quarta città dell’Islanda, conta solo dieci posti a sedere. Riusciamo a salire un attimo prima di essere investiti da un acquazzone colossale, e in poche ore di viaggio raggiungiamo la città, elegantemente posata su un fiordo. Raggiungere l’albergo ci impegna non poco, poiché bisogna arrivare in cima ad una collina, tra sentieri sterrati che sembrano quasi un piccolo trekking, ma finalmente abbiamo a disposizione una spaziosissima camera doppia. I cassetti e i vani si sprecano in questa stanza: ce ne sono appesi al muro, sotto il letto, davanti e dietro i comodini, praticamente ovunque. Per una volta non abbiamo problemi di spazio. Una curiosità: tutte le stanze d’albergo, inclusa la nostra, oltre al numero recano anche un nome di persona, sempre diverso. Forse per renderle meno anonime? E casualmente anche stavolta non ci ricordiamo quale fosse il nome della nostra.Stanchi fino all’eccesso, dormiamo qualche ora e poi ci tuffiamo nelle vie, per vedere com’è la quarta città più grande dell’Islanda (diciassettemila abitanti). Appare subito molto vivace e cosmopolita, nonché estremamente colorata. Ma gli edifici non danno mai il classico pugno nell’occhio: i colori, seppur vivaci, sono sempre armoniosi e in accordo con l’ambiente circostante. Ci sono alcune simpatiche varianti alla monotonia delle città, come ad esempio i semafori rossi a forma di cuore. Nel centro c’è una piazza dove, ogni tanto, alcuni ragazzi noleggiano ciascuno un’automobile e si mettono a girare in tondo, alla velocità di non più di cinque chilometri orari, urlando e ridendo fino alle ore piccole. È una

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versione alternativa del runtur di Reykjavík, ma senza alcool. Oggi è venerdì, dunque stanotte potrebbero esserci rumori di clacson. Fortuna che alloggiamo piuttosto lontani dalla zona nevralgica. Anche l’abbigliamento degli islandesi di Akureyri, in particolare delle ragazze più giovani, è a dir poco eccentrico. Scarpe verde acido, calze blu elettrico, meches nere sui capelli biondi. Sembra che qui sia Carnevale tutto l’anno.Passeggiando per le strade possiamo incontrare orsi bianchi impagliati e due grossi troll, maschio e femmina. Il tutto con la vista sul fiordo a poche centinaia di metri, reso perfettamente visibile dalla posizione sopraelevata. Questo è il classico esempio di cittadina in cui metterei la firma per abitare, anche se deve essere un po’ pesante viverci tutto l’anno. Ora ci sono venti ore di luce al giorno, ma siamo molto vicini al Circolo Polare Artico, e d’inverno le ore di sole scendono a tre, quattro al giorno. Le notti polari portano alla pazzia diverse persone. Ridendo e scherzando si è fatta sera, e ormai è arrivato il momento di provare qualche piatto tipico islandese. Almeno una volta bisogna farlo, anche se costa. L’hotel offre un’ottima cena a buffet, ad un prezzo modico. Finalmente, dopo quasi due settimane passate a mangiare scatolette di tonno e panini insipidi, possiamo gustare del cibo vero. Le specialità sono lo skyr, yogurt tradizionale islandese dal sapore un po’ aspro e cagliato, poi le carni di pulcinella di mare e perfino di balena. Queste ultime vengono servite in fettine microscopiche, che proviamo giusto per curiosità. In particolare, provo la carne di balena per vedere se sia davvero così irrinunciabile. Il sapore non è male, a metà tra un pesce e un roastbeef, ma non è niente di eccezionale. Se poi le porzioni sono queste, tanto vale lasciarle vivere. Lo stesso vale per la carne di pulcinella di mare: nonostante Davide sostenga che sia ottima, io la trovo veramente disgustosa. Ha un orribile retrogusto, chiaramente dovuto all’affumicamento, ma altri cibi che hanno subito lo stesso trattamento non ne conservano la minima traccia. Il salmone affumicato, ad esempio, ha un sapore squisito. Con questa carne, invece, mi sembra di mangiare ciò che esce dal tubo di scappamento di un’automobile. Mi lancio dunque su tutto quel che c’è attorno: pastasciutta fredda e speziata, salsine, insalate, patate alla senape, creme di riso, salmone affumicato, verdure miste. Un’ammucchiata generale di cibo, quasi completamente vegetariana. La carne oggi non mi attira. Durante il pasto non beviamo quasi

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nulla, per lasciare spazio alle vivande. Il pezzo forte, cioè il dessert, deve ancora arrivare. Gelato alla vaniglia, mousse al cioccolato, skyr, biscotti vari. Mangiamo decisamente troppo, e infatti dopo qualche minuto comincio a sentire una lieve nausea che aumenta sempre più. Ad un certo punto lascio a Davide il compito di pagare e scappo letteralmente dal tavolo in cerca del bagno, convinto di dover rimettere tutto, ma fortunatamente si tratta solo di un malessere passeggero che passa nel giro di trenta secondi. Quel che è certo è che nessuno dei due beve il tradizionale caffè finale, poiché adesso anche Davide inizia a non sentirsi troppo bene. Per due ore, infatti, continua ad andare avanti e indietro per la stanza, cercando di farsi passare i dolori alla pancia. Sembra un malato di Alzheimer, continua a vagare senza meta. Era tutto talmente buono che abbiamo esagerato senza nemmeno rendercene conto. Ma anche se ora un po’ paghiamo la nostra golosità, una cena decente ci voleva. Ci decidiamo ad infilarci a letto solo in piena notte, per non rischiare di addormentarci con la digestione ancora in corso. I risultati potrebbero essere devastanti.

Giornata stranaLa mattina ci concediamo una colazione molto frugale. Meglio non esagerare, dopo i bagordi di ieri. Oggi ci aspetta una giornata di viaggio, durante la quale praticamente non vedremo nulla. Dobbiamo prendere un autobus fino a Borgarnes, nel sud – ovest del paese, aspettare per sei ore e poi prendere un altro autobus fino ad Ólafsvík, sulla penisola dello Snæfells. Abbiamo scelto questa lingua di terra come ultima destinazione del viaggio, poiché ospita il ghiacciaio – vulcano Snæfellsjökull, luogo dove Giulio Verne ha ambientato il suo celebre romanzo “Viaggio al centro della Terra”. La cittadina di Ólafsvík, pur non essendo particolarmente attraente, è un ottimo punto di partenza per l’escursione attorno alla penisola. Così ridiscendiamo la collinetta di Akureyri e saliamo sull’autobus delle otto e trenta, salutati da un simpatico gatto che si lascia tranquillamente accarezzare da chiunque si avvicini. Forse spera di ricevere avanzi di cibo, ma più probabilmente è solo un animale molto socievole. Non ho tuttavia il tempo di giocare col felino, poiché l’autobus sta per partire e contemporaneamente sta cominciando a diluviare. Abbiamo appena il tempo di gettare gli

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zaini nel vano bagagli e salire, evitando per un soffio una lavata colossale. Ma tanto ormai giriamo con le giacche da velista saldate addosso, siamo invulnerabili. La cosa sorprendente è che sull’autobus incontriamo ancora una volta la ragazza solitaria, quella che a Reykjahlid camminava lungo la Ring Road da sola e con due zaini. E non solo lei: riconosciamo distintamente anche altre persone che abbiamo già visto a Landmannalaugar e a Skógar. Sembra che ci siamo dati tutti appuntamento, ma la cosa non deve sorprendere più di tanto: essendoci praticamente un’unica strada in tutta la nazione, è facile che il giro sia lo stesso per tutti e che ci si continui a ritrovare ad ogni tappa.Oggi è una giornata noiosa. Il paesaggio non offre molto di interessante, e men che meno offre la stazione di servizio di Borgarnes. Dobbiamo rimanerci per sei ore, a guardarci in faccia. Inspiegabilmente, non ci sono altri autobus disponibili prima delle sette e mezza di sera. Ci sediamo in un luogo appartato, una specie di veranda esterna circondata da pareti di vetro. Speriamo che non ci caccino fuori, vedendo che non abbiamo ordinato nulla da mangiare né da bere. Alla fine, però, la fame ci spinge a comprare qualcosa al fast food adiacente alla nostra postazione. Davide non ha fame e ha ancora la pancia in subbuglio, quindi mi servo solo io. Almeno avremo una scusa plausibile per stare seduti qui tutte queste ore. Fuori imperversa una tormenta che spazza strade e marciapiedi con forza brutale, è meglio non mettere il naso fuori. Lentamente ingurgito l’hamburger e le patatine fritte, cibo poco sano ma pratico ed economico. Davide si irrita notevolmente, poiché ogni tanto da un altoparlante si sente una voce potente che declama qualcosa in islandese. Quando infine si decide a comprare da mangiare anche lui, scopre che è semplicemente la voce della ragazza del fast food, che chiama i clienti quando il pasto è pronto. A parte questo tormentone sparato direttamente nelle orecchie, dato che l’altoparlante è proprio sopra il nostro tavolino, non c’è molto altro per distrarsi. Fortunatamente, Davide ha un giornaletto di enigmi e cruciverba che ci aiuta a passare un po’ le ore. Un altro aiuto nel trascorrere meglio il tempo c'è dato da un signore francese sulla quarantina, allampanato e sciatto, che è rimasto come noi bloccato a Borgarnes. Chiacchieriamo un po’ con lui ad ore alterne, finché finalmente passano queste interminabili ore ed arriva il pulmino. Dobbiamo

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stipare i bagagli in un rimorchio metallico agganciato al paraurti, poiché il mezzo non dispone di vano bagagli. Per raggiungere Ólafsvík servono poco meno di due ore, ma c’è la sorpresa: più o meno a metà strada, un altro pulmino ci affianca in mezzo al nulla, ed entrambi i mezzi si fermano in corrispondenza di una piccola piazzola. Il conducente dell’altro mezzo sale sul nostro e ci informa che tutti i passeggeri diretti a Ólafsvík devono cambiare pulmino. E che diamine! Siamo qui con gli zaini aperti e i vestiti sparsi sui sedili, e dobbiamo raccattare tutto in fretta e furia, scendere dal pulmino, sfidare il vento e una pioggia fortissima per aprire il rimorchio e recuperare lo zaino, poi caricarlo sull’altro bus e infine risalire. In particolare è Davide a soffrire per questo improvviso cambio di programma, poiché la sua pancia non sta per niente bene e quel minimo di stabilità che aveva conquistato è ora distrutto dai trenta secondi di vento e freddo presi scendendo. Anche il nostro amico francese, salito con noi sul pulmino, si lamenta. Quando arriviamo finalmente a Ólafsvík, il mio compare si dirige all’albergo quasi correndo, mezzo piegato dagli spasmi. Ma stavolta non è così semplice: la ragazza che ci riceve per prima, una probabile ritardata mentale, non sa bene da dove cominciare per fare un check – in, e quando finalmente riesce ad accedere al modulo ci dice che non c’è nessuna prenotazione per noi. Ma perché le cose devono complicarsi proprio nei momenti in cui si ha fretta? Fortunatamente arriva una collega a salvare la situazione, ma la prenotazione non esiste proprio. Hanno sicuramente sbagliato a segnarla. Per un attimo scende il gelo, poiché questo è l’unico albergo del paese, ma fortunatamente hanno ancora posti liberi. Paghiamo il dovuto, trafficando con carta di credito e ricevute, ma ci accorgiamo che è inferiore a quanto dovrebbe essere. Per forza, non hanno capito che dobbiamo stare qui due notti e ci hanno fatto pagare solo la prima. E via allora con un’altra trafila di pagamenti e firme, mentre i dolori del mio compare aumentano. Finalmente ci danno le chiavi e prendiamo l’ascensore per il nostro piano, l’ultimo. Curiosamente, non ci sono scale, o se esistono sono nascoste davvero bene. Se per disgrazia si guastasse l’ascensore, che fine faremmo?La serata non passa molto bene per nessuno dei due: io ho contratto un forte raffreddore e consumo pacchi di fazzoletti uno dopo l’altro, mentre Davide passa almeno un’ora sdraiato a pancia in giù, lamentandosi per il dolore. Non pensava certo che avrebbe

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pagato così caro l’eccesso di gola nel ristorante di Akureyri. Come se non bastasse, la geometria della stanza è a dir poco bizzarra. Più volte, tentando di sederci sul letto, prendiamo delle solenni craniate contro il soffitto obliquo. Inoltre, quasi tutti i muri sono lisci, ma non quelli a fianco dei letti, che invece sono bozzuti e rugosi. Così non si può nemmeno sedersi sul letto ed appoggiarsi con la schiena al muro. Quando Davide ci prova, riceve subito una gentile stilettata proprio tra la quinta e la sesta vertebra dorsale. È un ammonimento sufficiente per non volerci riprovare una seconda volta.

Piccola delusioneLa mattina mi sveglio col naso rosso, infiammato e dolorante. Non passa un minuto senza che mi debba soffiare il naso, ma per fortuna ho una buona scorta di fazzoletti. L’apparato respiratorio è il mio punto debole da sempre, ma possibile che debba risvegliarsi e creare problemi sempre nel momento meno opportuno? Se stessi bene mi godrei certamente di più la giornata di oggi. Invece, sono costretto ad intervallare la bellezza della natura con un fastidioso malessere. Girando lungo la penisola, con un tempo soleggiato e piacevole, abbiamo modo di vedere falesie nere erose dall’acqua, grotte naturali dove nidificano centinaia di uccelli, spiagge di sabbia nera, faraglioni e strane forme rocciose. Alcune di queste scogliere e spiagge, con altre catene montuose che corrono lungo quasi tutto l’orizzonte marino, ci ricordano molto le splendide isole Lofoten che visitammo due anni prima. Del resto, sempre di Nord Europa si tratta. Il grande ghiacciaio dello Snæfellsjökull, contrariamente a ciò che afferma la guida turistica, rimane sempre ben lontano. L’autobus non si avvicina né tantomeno vi sale sopra, essendo un mezzo da strada normale. La montagna che ospita il ghiacciaio è comunque imponente e maestosa. Una grossa nuvola che lo sovrasta dà quasi l’impressione che stia eruttando. Peccato che il ghiacciaio si stia visibilmente ritirando, effetto collaterale del riscaldamento globale. La gita è certamente piacevole, ma dovrebbero smetterla di chiamarla “Glacier Tour” e chiamarla semplicemente “Giro delle coste della penisola”. L’escursione, seppur piacevolissima, ha ben poco a che fare con il ghiacciaio. Questa piccola delusione, tuttavia, non muta il sentimento che proviamo verso la natura islandese, ovunque splendida.

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Il cerchio si chiudeEd ecco che, il giorno seguente, ci troviamo già a prendere l’autobus per Reykjavík. Il viaggio sta volgendo al termine e ormai abbiamo visto quasi tutto quello che c’era da vedere, anche se le sorprese non sono terminate. Inaspettatamente, ritroviamo sul pulmino il francese che avevamo conosciuto a Borgarnes. In teoria non dovrebbe essere qui, stando a quello che ci aveva detto. Parlando, scopriamo che sta ritornando a Reykjavík piuttosto scornato, poiché si era fermato vicino a Ólafsvík per effettuare un’escursione di whale watching, ma poi per vari motivi non è riuscito a prendervi parte. Ora tenterà di farne una a Reykjavík, poiché anche lui sta per terminare le vacanze. Chiacchieriamo un po’ durante il viaggio, ma una volta giunti nella capitale ci separiamo. Ognuno va per la sua strada, come sempre. Ciò non toglie che dopo aver camminato per mezz’ora in città, cercando la nostra guesthouse, lo ritroviamo in una delle vie principali. Ma è l’ultima volta che lo vediamo.Abbiamo provato a prenotare un posto nella stessa guesthouse dove abbiamo alloggiato al nostro arrivo in Islanda, ma purtroppo era piena. Un vero peccato, poiché ci sarebbe piaciuto salutare la bionda folletta che ci aveva accolti così bene due settimane fa. L’alloggio che ci tocca adesso, invece, è una guesthouse di stampo cristiano, anzi cristianissimo. Prendono la religione così sul serio che la mattina, dopo l’ora colazione, c’è l’ora di preghiera collettiva. La prima regola del decalogo, appeso in ogni camera, è: “Vietato il consumo di alcool e droghe”. Ma la più comica è la seconda: “Vietato fumare, anche davanti alla guesthouse”. Passi che non si può fumare in camera, ma non posso nemmeno camminare davanti all’edificio con una sigaretta accesa? Che razza di divieto è questo, temono forse che diamo un cattivo esempio agli occupanti? Nessuno di noi due fuma e quindi ci interessa relativamente, ma troviamo che sia un annuncio come minimo arrogante. In ogni caso rimarremo qui solo per stanotte. L’unica cosa che facciamo è prenotare il biglietto per la Laguna Blu, famosa attrazione islandese situata a metà tra la capitale e l’aeroporto di Keflavik. Il pacchetto turistico include un biglietto che vale sia per il trasporto alla Laguna, sia per il successivo trasferimento in aeroporto. Per questo motivo l’abbiamo lasciata per ultima.

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Laguna BluIl giorno seguente, non senza una punta di malinconia, lasciamo Reykjavík e ci inoltriamo nei campi di lava che avevo visto solo di sfuggita all’andata, quando cascavo dal sonno per via della devastante notte in aeroporto. Abbiamo dovuto penare non poco per farci prelevare davanti alla guesthouse, poiché per un disguido il pullman stava partendo senza di noi. Fortunatamente, intuendo che doveva esserci stato un errore, abbiamo chiamato il centro turistico e, tra le dovute scuse, l’autobus è tornato indietro a prenderci. Ora è in vista la Laguna Blu, una piscina naturale a cielo aperto situata in mezzo ad una colata lavica. Anche se è stata trasformata in una struttura con tutti i comfort, inclusi bar, saune e bagni turchi, attraverso l’acqua calda spuntano fumarole sulfuree e le pareti delle piscine sono costituite da ammassi lavici. La natura incontra la tecnologia. La temperatura dell’acqua è sempre tra i 37 e i 40 gradi centigradi, rendendo l’esperienza fantastica anche per chi, come me, mal tollera l’acqua. All’entrata ci danno dei braccialetti che, tramite un ingegnoso sistema di riconoscimento elettronico, si legano all’armadietto scelto e rendono impossibili i furti. Prima di entrare in piscina, però, attenzione: bisogna spogliarsi e lavarsi completamente, per evitare di contaminare l’acqua. Le piscine islandesi, infatti, non contengono disinfettanti chimici. Un modo sicuro per far arrabbiare gli islandesi è violare questa ferrea regola. Una volta fatta l’obbligatoria doccia, entriamo il più velocemente possibile in acqua, per evitare di subire le raffiche di vento. Per poco non perdo il braccialetto in acqua, poiché non l’avevo stretto bene, ma all’ultimo lo recupero, per fortuna. Rimaniamo per qualche ora a sguazzare in queste acque, dal colore azzurro chiarissimo, opache e ricche di minerali. Il fondo è sabbioso, ma ogni tanto fa capolino qualche sasso ed è meglio stare attenti a non posarci il piede sopra con troppa convinzione. Alcuni dei bagnanti si spalmano la faccia con una crema esfoliante al silicio, dal colore azzurrino, mentre altri preferiscono farsi frustare la schiena dall’idromassaggio a cascata, talmente potente da far sembrare che ci sia un troll a massaggiare invece che l’acqua. La sauna è di tipo secco, cioè senza vapore, e raggiunge la ragguardevole temperatura di 115 gradi centigradi. In compenso,

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l’acqua spruzzata dai nebulizzatori esterni è gelida e garantisce un sicuro shock termico. Accanto c’è un’altra sauna, molto più suggestiva, poiché il calore sale direttamente da una piccola pozza d’acqua circondata da rocce. Purtroppo al momento è chiusa, poiché non agibile.Il cielo è terso, ma basta uscire un attimo dall’acqua per sentirsi gelare, poiché il vento è fortissimo. Rimaniamo quindi immersi fino al collo, cercando le correnti calde che cambiano costantemente direzione. Anche se stare in questa piscina surreale è piacevole, non so nuotare e presto mi stanco di sguazzare nell’acqua. Esco un’ora prima di Davide e mi metto tranquillamente seduto ad aspettarlo su una panca esterna, ripensando a tutto ciò che ho avuto la fortuna di vedere. In Islanda ho visto solo cose meravigliose. Poche ore dopo, aspettando di imbarcarci sull’aereo per Malpensa, incontriamo nuovamente la famiglia che avevamo trovato sull’Askja. Riusciamo a scambiare due parole con loro, pur nella confusione dell’imbarco, e scopriamo che anche loro hanno lasciato la Laguna Blu come ultima tappa. Ma non ne sono rimasti particolarmente entusiasti: affermano che si aspettavano qualcosa di molto diverso e che la suddetta laguna è sì carina, ma non molto diversa da una piscina comunale. Alla fine ci sono sempre le solite cose: docce, saune, bagni turchi. Se lo dicono loro…meglio lasciarli convinti di aver ragione. Pochi minuti dopo ci imbarchiamo sull’aereo, ormai è tempo di abbandonare quest’isola fatata e tornare alla vita di sempre.

FINE

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Tabelle di marcia di ciascun viaggio

Estate 200828/07 Milano - Londra

28/07 Londra - Oslo

30/07 Oslo - Stavanger

31/07 Preikestolen

01/08 Stavanger - Bergen

03/08 Bergen - Myrdal

03/08 Myrdal - Flåm

03/08 Flåm - Bergen

04/08 Bergen - Oslo

04/08 Oslo - Trondheim

05/08 Trondheim - Bodø

06/08 Bodø - Moskenes

06/08 Moskenes - Å

07/08 Reine - Hamnoy

08/08 Å - Svolvær

08/08 Kabelvåg

09/08 Skrova

10/08 Svolvær - Narvik

10/08 Narvik - Luleå

11/08 Luleå - Haparanda

11/08 Haparanda - Tornio

11/08 Tornio - Kemi

11/08 Kemi – Kuopio

12/08 Jätkänkämppä

13/08 Kuopio – Helsinki

14/08 Suomenlinna

15/08 Helsinki - Stoccolma

19/08 Stoccolma - Arlanda

19/08 Arlanda - Vienna

19/08 Vienna - Milano

Estate 200901/08 Mendrisio - Zurigo

01/08 Zurigo - Basilea

01/08 Basilea - Parigi

05/08 Parigi - Versailles

05/08 Versailles - Chartres

06/08 Chartres - Tours

07/08 Castelli di Chenonceau e Amboise

08/08 Castelli di Blois, Chambord e Cheverny

09/08 Tours - Le Mans

09/08 Le Mans - Rennes

09/08 Rennes - St.Malo

11/08 St.Malo - Pontorson

11/08 Mont St. Michel

11/08 Pontorson - Bayeux

13/08 Bayeux - Caen

13/08 Caen - Rouen

14/08 Etretat

15/08 Rouen - Parigi

15/08 Parigi - Bruxelles

16/08 Bruges

17/08 Bruxelles -Hertogenbosch

17/08 Hertogenbosch - Amsterdam

20/08 Diga di Afsluitdijk

21/08 Koog Zaandijk

22/08 Amsterdam - Karlsruhe

22/08 Karlsruhe - Basilea

22/08 Basilea - Chiasso

Estate 201002/08 Milano - Keflavik

03/08 Keflavik - Reykjavík

04/08 Circolo d’Oro

05/08 Reykjavík - Landmannalaugar

05/08 Landmannlaugar - Hrafntinnusker

06/08 Hrafntinnusker - Álftavatn

07/08 Álftavatn - Hella

08/08 Hella - Vik

08/08 Vik - Skógar

09/08 Skógar - Jökulsárlón

09/08 Jökulsárlón - Höfn

10/08 Höfn - Egilsstadir

10/08 Egilsstadir - Reykjahlid

11/08 Askja

12/08 Dimmuborgir

13/08 Reykjahlid - Krafla

13/08 Krafla - Dettifoss

13/08 Dettifoss - Húsavík

14/08 Húsavík - Akureyri

15/08 Akureyri - Borgarnes

15/08 Borgarnes - Ólafsvík

16/08 Penisola Snæfells

17/08 Ólafsvík - Reykjavík

18/08 Reykjavík - Laguna Blu

18/08 Laguna Blu - Keflavik

18/08 Keflavik – Milano

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