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Il potere del sangue

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Debora Fasola, fantasy. Cassandra Lee Adams è una strega pasticciona che sotto la guida fisica e spirituale di Leila, la sua mentore, tenta di apprendere l’uso delle sue innate capacità e di potenziarle per diventare così una vera strega. Durante un incantesimo, però, Cass usa il suo sangue per legare i vari ingredienti e combina uno dei suoi soliti disastri, attirando a sé e nella sua vita Sam, un ‘ragazzo’ davvero misterioso e speciale. Tra risate, ironia, colpi di scena e un mondo onirico davvero particolare, sarà compito di Sam proteggere la giovane strega dal pericolo che proviene proprio dal mondo dei sogni. Sì, perché un affascinante, pericoloso e misterioso ‘uomo’ che sente l’odore del sangue di Cassandra e la crede ciò che non è, adesso la vuole per sé, viva o morta che sia. Perché il potere del sangue ha sempre un prezzo da pagare e, come la morte e l’amore, è davvero molto potente.

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DEBORAH FASOLA

IL POTERE DEL SANGUE

The Cassandra Chronicles

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com

www.quellidized.it

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IL POTERE DEL SANGUE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-605-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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Agli angeli della mia vita

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Ecco perché sono su questo pianeta, in questo tempo. Adesso lo so. Per molti più anni di quanti non ne abbia vissuti, ho con-

tinuato a precipitare dall'orlo di un luogo immenso e altissimo. E in tutti questi anni, precipitavo verso di te.

Dal film "I ponti di Madison County"

Don't want to close my eyes I don't want to fall asleep

I don't want to miss a thing. Aerosmith

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Prologo «Cass, vuoi fare attenzione, per favore? Devi concentrarti, non versare gli ingredienti così rapidamente; fa’ con calma e non correre mai, ogni singola cosa va fatta esattamente quando è da fare anche nella magia» disse Leila alle mie spalle. Maledizione, io ci provavo eccome a far le cose per bene ma non era semplice, nella magia non lo era mai. Non lo era neppure nella vita, d’altronde. Sollevai le braccia e aggiunsi la polvere necessaria per continuare, poi guardai il Grimorio della mia mentore aperto sul tavolo della cucina e accanto a me. «Ok, ora ci riprovo ma tu seguimi, eh, non mi abbandonare, non vorrei fare esplodere la casa; i miei genitori seppur siano fuori città, ritorne-ranno prima o poi» ridacchiai, ma smisi l’istante dopo: dovevo concen-trarmi. Era entrata da poco nella mia vita, la magia. Leila invece no, lei era sta-ta la mia babysitter e ora era diventata per me un’insegnante di arti ma-giche. Fu grazie a lei che scoprii la mia vera natura. E ora mi stava aiu-tando ad ampliarne la forza, mi stava mostrando la via della conoscen-za. «Va bene, ci sei quasi, manca una spruzzata di aglio, i chiodi di garofa-no, le lacrime antiche e la pelle di serpente dopo la muta» disse Leila, agitando le dita a mezz’aria e facendomi sentire come in uno di quei film fantasy con streghe e strani folletti. Be’, non che qui ci fossero folletti, non ancora almeno, sebbene la real-tà dell’oggi fosse alquanto strana ormai. Risi; non che non credessi a lei o ai miei poteri – sapevo bene quanto questi fossero reali, li avevo provati sulla mia persona – però la sua vo-ce cadenzata e l’espressione grave che aveva erano proprio buffe.

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Annuii lanciandole un’occhiata soltanto, Leila invece si diresse a passo deciso verso la finestra, fuori era una bella giornata di fine estate e la mia mentore si mise a guardare al di là dei vetri. Ero sola. Chiodi, aglio… oh mio Dio! Forse non era questo il giusto ordine… tut-tavia proseguii. La pelle di serpente cadde per ultima e fu la cosa che mi fece più schi-fo; andò ad aggiungersi agli altri ingredienti nella pentola che ribolliva sulla cucina a gas sotto di me, quasi fosse davvero un calderone. Sì, ero una giovane strega, un’apprendista decisamente pasticciona. Sospirai non appena terminai, incerta sul risultato del mio esperimento. Ero proprio una novellina, sapevo pochissimo di quel mondo, ancora meno dei miei poteri e, a quanto pareva, ero anche tarda di comprendo-nio visto che apprendevo con la lentezza di un bradipo in letargo; di buono c’era che non mi davo mai per vinta. Fissai la figura snella e slanciata della strega antica – come si faceva chiamare Leila – e poggiando l’indice sulle mie fini labbra mi ritrovai ad abbracciare un’altra delle mie solite, brillanti idee. «Però, Leila, stavo pensando… se dobbiamo accrescere il mio potere cercandone la forza divina e ancestrale ecc ecc, dovrò metterci anche qualcosa di mio, qui dentro» l’entusiasmo mi colse e, senza pensarci troppo né attendere una risposta, afferrai l’Athame che giaceva sul ta-volo. L’Athame è un pugnale rituale, una sorta di coltello fichissimo che si usa durante i riti o le varie stregonerie, ed è uno dei principali oggetti che accompagnano la vita della strega, a dirvela tutta è anche uno dei miei gadget magici preferiti, mi sento come una vera maga quando lo maneggio o lo uso. Quindi trattenendo il coltello con la destra, lo avvicinai alla mia mano sinistra e, strizzando lo sguardo per la paura, mi tagliai l’indice con un gesto deciso, seppur delicato. Ero fatta così, non contavo mai fino a dieci prima di agire, cosa che mi portava molto spesso a trovarmi nei guai. Tagliai poco, molto poco e dalla piccola ferita cadde solo qualche goc-cia di sangue che vidi capitolare nel disgustoso decotto che ribolliva sul fuoco.

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«No! Che cosa fai, Cass!» L’urlo di Leila mi distrasse, mi volsi di scat-to tirando l’espressione del volto e sollevando le spalle. «Cosa…? Adesso che ho fatto?» «Il sangue non va mai usato, Cassandra, mai! È troppo pericoloso e ha sempre un prezzo da pagare. Bisogna essere delle streghe navigate e fortissime per osare tanto, che cos’hai fatto? Perché l’hai fatto!» Leila vaneggiava ed era fuori di sé; corse verso di me con gli occhi fuori dal-le orbite e una volta giuntami accanto, si sporse verso il pentolone e os-servò al suo interno con un’espressione stramba sul volto. Aveva lo sguardo dubbio, nel senso che non capivo se stesse per rove-sciarmi tutto in testa o urlare, ma io per sicurezza deglutii e feci un pas-so indietro. «Scusa, Leila, ma… vedi? Non è successo nulla, quindi siamo salve non ti preoccupare! E non solo» dissi ancora sospirando, «pare non es-ser successo nulla per davvero, forse abbiamo sbagliato qualcosa, quest’incantesimo non ha funzionato, ecco. Io mi sento… normale.» Leila diede ancora un’occhiata sia alla “pozione” sia al libro, poi guar-dò di nuovo anche me, con una calma a stento ritrovata, sospirando più volte. «Meglio così, potevi davvero fare guai inimmaginabili con quel gesto. Metti un cerotto a quella mano e spegni il fuoco. E ricorda che il potere del sangue è un pericolo senza eguali, Cassandra. Non farlo mai più» parlò seria e mi fissò negli occhi, compresi di doverla assecondare e darle la certezza di aver capito tutto alla perfezione. Annuii e feci quan-to richiesto. Tamponato il dito bruciante, spensi il fuoco proprio nell’attimo in cui mio fratello rientrò a casa, palesandosi subito in cucina. Leila ritirò il Grimorio nel cassetto lestamente e io abbozzai un sorriso imbarazzato: Rob non sapeva, nessuno sapeva di noi, nonostante cose come queste fossero ormai tutt’altro che un tabù nella nostra realtà quo-tidiana. Mostri, magie e demoni… tutto normale a Capewood! «Tutto bene, Robert?» Chiesi a mio fratello per distrarlo e non far sì che posasse l’attenzione sul miscuglio di schifezze che avevo appena cotto.

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«Sì. Sto bene, se sto con Karen sto sempre bene» mi rispose lui, pas-sandosi la mano tra i folti capelli castani, mossi e ribelli. Abbozzò an-che un sorriso sicuro e, come sempre, per nulla imbarazzato quando si toccava uno degli argomenti per me più ostici, invece. Nel frattempo Leila recuperò i nostri ‘ferri del mestiere’ e io invece mi approssimai al mio fratellino; sebbene lui fosse il maggiore, io avevo passato la mia vita a occuparmi della sua persona. «Dovresti smettere di vederla e lo sai, mi darai ascolto solo quando sa-rai nei guai o potrai farlo anche prima se magari, non so, provassi a pregarti?» Posai la mano sul muro accanto al suo volto, in parte per o-scurargli la visuale su Leila che andava e veniva per sistemare, in parte per guardarlo bene, dritto negli occhi. «Non riusciresti neppure implorandomi. Dai, Cass, sto bene con lei» rispose Rob rabbuiandosi in volto e sostenendo il mio sguardo, per nul-la turbato o supplichevole. «È un mostro.» «Non è un mostro, tiene a me e io tengo a lei, tanto e lo sai, mentre tu in tutto questo non c’entri nulla, Cass, non faccio che dirtelo, devi farti gli affari tuoi.» «Be’, tu sei affare mio, sei mio fratello. E lei è un mostro eccome! Co-me lo chiameresti tu un morto che va in giro come un vivo e si ciba del sangue degli uomini?» «Vampiro, lo chiamerei vampiro. E senza offesa sorellina ma sei retrò, tutti ormai hanno accettato la loro presenza e quella degli altri, sei una delle poche persone che non accetta mai nulla.» «Oh be’, scusami davvero se sono sana di mente e voglio continuare a vivere!» Sbuffai, improvvisamente disturbata e irrequieta e poi mi sco-stai dal muro, tanto mio fratello era più impenetrabile di quello. «In ogni caso non voglio più parlare di lei in questi termini, sei avvisa-ta, Cass, se non puoi rispettare lei perché è un vampiro, rispetta me che sono tuo fratello e smettila!» Rob urlò l’ultima parola strabuzzando gli occhi all’infuori, avanzando con la testa verso il mio volto e distorcen-do l’espressione. Dallo spavento sobbalzai. Alla fine però non aggiunsi altro, era del tutto inutile insistere: gli voltai le spalle e tornai in cucina lasciando Rob nel suo brodo e, dopo aver af-ferrato Leila per un braccio, la trascinai fuori dalla stanza.

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Infine, guardai la mia cucina per un solo secondo prima di chiudere la porta dietro di noi. Il pentolone era ancora sul fornello ormai spento ma non me ne importò molto di ripulire quello che era sfuggito a Leila, anzi, l’avrei rovesciato in testa a mio fratello se avessi potuto. Mi soffermai un solo istante perché per un attimo quella pentola mi parve luccicare come se fosse appena stata illuminata dall’interno. Ma era senza dubbio uno scherzo della rabbia e delle luci, quindi non ci feci troppo caso.

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Uno This is the strangest life i've ever know Erano le sei di pomeriggio e io, annoiata sul mio letto, ascoltavo musica e cercavo tranquillità. Odiavo discutere con mio fratello e ogni volta era sempre la stessa sto-ria: se gli toccavo quella lurida vampira da quattro soldi, finivamo per litigare; la odiavo, odiavo tutti i vampiri a dire il vero, avrei voluto farli a pezzetti con le mie mani e mi sarei volentieri unita a qualche Squadra Stermina SucchiaSangue (gli SSSS, esistevano veramente!) se non ne fossi stata da sempre così terrorizzata. Perché sì, era anche vero che quei mostri mi terrorizzavano da quando avevano fatto outing ed erano usciti allo scoperto terrorizzando l’intero pianeta terra, ne ero sicura e sebbene tutti gli altri si fossero ben presto, all’apparenza, abituati alla cosa io invece no, io non l’avrei mai fatto. Io avrei potuto davvero unirmi a quei gruppi di estremisti che finivano spesso ‘al fresco’ per le uccisioni di vampiri, come se fosse da conside-rarsi un crimine poi, salvare la razza umana! Cose dell’altro mondo! E ok, c’era anche un po’ di gelosia fraterna, ma il sapere Robert sempre in pericolo quand’era con quella non mi faceva di certo vivere giorni – e soprattutto notti – sereni. E adesso era uscito, di nuovo! E io ero rimasta sola in casa e dopo aver salutato Leila e pulito il caos in cucina, nonché cucinato – questa volta cose commestibili – adesso stavo davvero cercando la pace. Ero l’unica anima della casa perché i nostri genitori erano sempre in vi-aggio – soprattutto all’estero – per mostre, convegni, esposizioni o quant’altro: erano degli artisti e lavoravano girovagando per il mondo, così io e Rob avevamo imparato a badare a noi stessi sin dall’adolescenza e oggi, ormai grandi, quelle pause familiari erano delle benedizioni, quasi delle vacanze.

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Solo Robert le sfruttava in malo modo per dileguarsi letteralmente fre-quentando dubbie compagnie, quanto a me, be’, io mi rilassavo e me la godevo tantissimo nonostante la scuola fosse già ricominciata e nono-stante dovessi fare tutto da sola in casa. E così me ne stavo quieta e immota sul letto, perché a parte i guai di Victoria, la mia migliore amica – o quelli di mio fratello dai quali fini-vo sempre irrimediabilmente sommersa e per i quali divenivo paladina – la mia era una vita tranquilla e monotona, per scelta, sia chiaro. È che non mi andava di fare cose folli o d’impegnarmi seriamente in qualcosa, relazioni sentimentali comprese: stavo bene così, era tutto perfetto. E stasera io stavo davvero tanto ‘così’. Nonostante lo scombussolamento che la mia vita aveva subito, dovuto alla scoperta del mio sangue magico – evento dal quale non potei sot-trarmi per ovvie ragioni – desideravo ardentemente che in essa restasse tutto normale: ossia noioso e assolutamente piatto. Era bellissimo planare dentro il mio niente, volare in picchiata verso un futuro tanto calmo e sicuro da non farmi venire quell’ansia che leggevo negli occhi di tutti quelli che avevo intorno. Non c’era nulla di pesante in quello che facevo e non mi serviva uscire, vivere, sballarmi e amare. Adoravo troppo la tranquillità monotona della mia esistenza e mi basta-va la magia, che sebbene mi avesse stimolato ed elettrizzata all’inizio, adesso cominciava già a essere un peso, un pericolo alla pochezza della mia vita che tanto amavo. E restai a lungo lì, immersa nel mio niente: musica che aleggiava per la mia piccola stanza, profumo d’incenso puro che bruciava disperdendosi intorno a me… era tutto perfetto. Potevo sentire l’essenza della vita e della pace entrarmi dentro, viaggia-re sottopelle e raggiungere le mie terminazioni nervose, rilassandole e permettendomi di sentirle, pulsanti ma tranquille, pronte ad accogliere la serenità e svilupparla poi in potere ed energia. Se non fosse stato per il litigio pomeridiano, mi sarei sentita ancora meglio; ma non ci pensai troppo, sapevo com’eravamo fatti noi due, io e Rob, intendo: cane e gatto… ma di quelli inseparabili e sapevo che anche questa divergenza si sarebbe appianata, finendo anche stavolta nel dimenticatoio.

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La notte aveva già varcato la soglia della galassia intorno alla terra, in altre parole fuori dalla mia finestra era già buio. Avevo guardato il cielo divenir cremisi e poi ombrato, sino a lasciar scendere come un manto su di sé la notte e ora osservavo le luci di que-sta dall’oblò sul mio soffitto, qualcosa di unico e per il quale pregai pa-pà in ogni lingua del mondo per farmelo costruire. La nostra villetta era piccola, costruita su due livelli e con una superfi-cie calpestabile di poco più di novanta metri quadrati per piano, e la mia camera era senza dubbio la più bella. A schiera in mezzo ad altre ville come la nostra, la casa possedeva anche un grande giardino, il luogo che amavo di più. E solo un attimo dopo, proprio da lì e da sotto la mia finestra, udii dei rumori insoliti, come se qualcuno lo stesse vivendo. Fruscii, passi, rintocchi metallici e persino un mormorio soffuso giun-gevano adesso alle mie orecchie, ridestandomi. Abbassai la musica che come una nenia mi stava cullando nei pensieri e percepii quei disturbi più chiaramente, erano dei brusii di fondo ma reali e sinistri, sebbene affacciandomi alla finestra che dava sul giardino non vidi nulla. Soltanto poco dopo, non tranquilla, mi decisi a scendere trascinandomi con poca voglia verso il piano inferiore; guardai l’ora sperando che Ro-bert tornasse almeno per la cena e poi scivolai verso la porta sul retro, quella che dava sul giardinetto amato; poco dopo fui fuori di casa. «Si può sapere chi c’è qui?» Esordii, mettendo il primo piede sull’erba rasa e profumata, quel posto era tenuto come un gioiello, mio padre ci teneva moltissimo al suo spazio verde nella metropoli, sebbene la mia cittadina non lo fosse poi per davvero. L’attimo dopo aver pronunciato la domanda con chiara e squillante vo-ce, però, qualcosa si mosse nell’oscurità dietro all’albero di ciliegio che, così imponente, non mi permetteva di vedere liberamente l’intera zona. Non che fosse il giardino botanico, però anche il mio ben si difendeva ed era grande quanto il perimetro dell’intera casa. E c’erano una piccola piscina, uno sgabuzzino per gli attrezzi e anche qualche altro arbusto oltre al ciliegio e il piccolo orto della mamma.

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Insomma, al momento ciò che potevo vedere era davvero poco, compli-ci il grande affollamento vegetale intorno a me e anche le ombre della notte. Per fortuna stringevo in mano il cordless che avevo preventivamente afferrato e portato con me, di questi tempi che giudicavo ostili, la pru-denza non era mai troppa. «Allora? Guarda che ti sento, chiunque tu sia! Ho qui il telefono e ora chiamo la polizia, mi hai capito?» Agitai l’oggetto in alto, stendendo il braccio per rendere l’apparecchio ben visibile; sì, lo so, ero un po’ incosciente e sfidavo un possibile ladro a suon di telefonate, ma non potevo sopportare che qualcuno avesse o-sato entrare nella mia proprietà ed era quindi la rabbia adesso a domi-narmi. Tuttavia sapevo anche che l’azzardo che avevo appena fatto era, in ef-fetti, simile all’accendermi sul capo una scritta lampeggiante e fluore-scente che riportava la scritta: “Killing me softly”, come il titolo di una famosa canzone che amavo. Un attimo più tardi, però, qualcosa si mosse tra le foglie e dietro l’arbusto dominante, e io indietreggiai verso la porta di casa; in ogni caso avrei potuto correre all’interno e sbarrarla per avere tempo di aller-tare i soccorsi, forse. Tuttavia quando subito dopo qualcuno spuntò da dietro l’albero di ci-liegio, costui mi parve tutto meno che un assassino, un ladro o un peri-colo. Oh mio Dio. Pensai, riducendo lo sguardo a una fessura. Lontano solo pochi passi da me e avvolto dal buio della sera ormai ca-lata, c’era un uomo. Nudo. E Santi Numi! Che uomo nudo! Con entrambe le mani posate a conca davanti ai suoi paesi bassi e un volto ancora ignoto, visto che il mio sguardo era rimasto laggiù per poi risalire verso le ossa sporgenti dei fianchi che aprivano la vista a un petto ampio e muscoloso. Quello era un adone alieno giunto per portarmi via oppure un’allucinazione? Ovviamente rimasi con il telefono e il braccio a mezz’aria, a fissarlo con la bocca spalancata. A sua volta il ragazzo dai capelli scuri e la pelle diafana e liscia, mi parve avere un’espressione a metà tra l’imbarazzo e il nervosismo acu-to.

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Era un pervertito? Mio Dio, sarebbe stato meglio incontrare un ladro! Però senza dubbio era anche un bel vedere. Calma Cass, pensa e non fare mosse false: è nudo, ma sembra anche innocuo… è così… così imbarazzato! Oh, e guarda quell’espressione da cucciolo ferito. No, non sembra pericoloso, ma se lo fosse? Respirai con pacatezza senza perderlo di vista, ma lui non pareva voler-si muovere da lì, così lo feci io e parlai anche, a voce bassa poiché ave-vo dei vicini impiccioni e vergognandomi della sua nuda presenza più di quanto temessi la situazione. «Che cosa diamine ci fai nudo nel mio giardino? Sei un maniaco o qualcosa del genere? Come sei entrato?» mormorai avanzando ancora. «Cosa diavolo ci faccio qui, te lo dovrei chiedere io!» mi rispose lui, indurendo i muscoli – tutti i muscoli – che si riempirono torniti e pieni, donandomi la necessità di sospirare. «Come sarebbe a dire che lo chiedi a me? Sei anche pazzo? Per la mise-ria sono proprio fortunata stasera!» Non faceva freddo e per fortuna il buio era davvero avvolgente, cosa che limitava la possibilità di essere vista lì, con un ragazzo all’apparenza anche più grande di me e senza abiti; nudo, era nudo e non potevo crederci. «Senti, non sono in vena di scherzi o casini, se te ne vai subito, evito di chiamare la polizia, ma se non ti muovi, ti faccio sbattere in gattabuia.» Lui tirò l’espressione, potei vedere bene il suo volto – senza dubbio bel-lo quanto il resto di lui – distorcersi in una smorfia di disappunto o for-se ira, non lo scorsi con chiarezza. «Ho provato ad andarmene, mezz’ora fa. Ma non riesco a muovermi, se provo a fare qualche passo in più, qualcosa mi risucchia e mi riporta qui» anche lui sussurrò, tenendosi sempre ben stretti i gioielli di fami-glia – che mi ero obbligata a non guardare – e restando impalato anche più del tronco che aveva accanto. Era pazzo, cielo, era davvero un bellissimo ragazzo, nudo e pazzo. «Che cosa significa che non puoi, non sarà un problema che io ora ti veda il sedere mentre ti volgi e te ne vai, su... op, op… vattene che mi sta venendo l’orticaria!» Risposi estenuata, di cose strane ne avevo già viste tante, ma questa le batteva tutte.

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«Non posso andarmene, ti dico, che cosa mi hai fatto?» Lui mi rispose con un'altra domanda, stringendo le labbra per parlare isterico e con un filo di voce, facendo al contempo una nuova smorfia irata. Spazientita presi a digitare numeri sul telefono, che appena sfiorati i ta-stini accese il suo display. «Oh no... no, che cosa fai!» Esclamò il ragazzo, sollevando entrambe le mani verso di me, intimandomi di non continuare. D’istinto al suo movimento schizzai con lo sguardo sulla sua figura, non lo feci apposta, era solo per tutelarmi dalle sue possibili azioni ma… cielo! Era davvero tutto bellissimo! Però, colta dalla vergogna più cocente, mi volsi di scatto dandogli la schiena, pessima mossa da fare perché se fossi stata in compagnia di un folle avrebbe avuto modo di attaccarmi vista quella mia distrazione, ma non seppi resistere e sentendo le gote avvampare di rossore, mi portai le mani a palparle e coprirle. «Rimetti le mani lì sotto, dannazione! Non posso dover sopportare an-che questa oggi, non è possibile» mi sentii disarmata, accaldata e spa-ventata, ero tutte queste cose messe insieme nello stesso momento e an-che nello stesso ordine. «Cosa sei una streghetta da strapazzo? O qualcos’altro? Che cosa mi hai fatto?» Mi chiese ancora, la sua voce mi giungeva ai timpani sem-pre più pungente ma anche piena, l’aria odorava di fiori e non era sol-tanto il mio ciliegio a riempirla di quei buoni odori (l’unico albero di ciliegio a fiorire anche in autunno, quell’arbusto era qualcosa di magi-co, l’avevo sempre saputo, ma non pensavo mi nascondesse anche un ragazzo nudo al suo interno!) Solo dopo quel suo dire, mi volsi lentamente, prima portando verso di lui solo lo sguardo per sondare se fosse nuovamente coperto – cosa che per fortuna era così – per poi tornare a voltarmi con l’intero corpo verso di lui e guardarlo negli occhi, chiari, mendicanti, sbalorditi e incacchia-ti, decisamente. «Cos’hai detto?» chiesi aggrottando la fronte; come lo sapeva? Come poteva sapere che ero una strega? Chi era quel ragazzo? «Mi hai portato qui tu, so che sei stata tu, per questo non posso allonta-narmi da questo maledetto giardino e ci ho provato, sai? Tu o qualcun altro nella casa, che magari gioca con la magia ed è invece un pessimo mago» sentenziò il ragazzo nudo, ansando.

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Il vento agitò i miei capelli scuri e anche i suoi si mossero, morbidi… tutte quelle onde mi diedero il mal di mare e mi confusero, soprattutto se aggiunte alle sue parole. «E tu come lo sai?» fu l’unica stupida frase che, con espressione sba-lordita, mi uscì dalle labbra strette. Lasciai cadere a penzoloni le braccia e anche il suo fisico da adone da quel momento in poi passò in secondo piano. «Lo so perché ero in tutt’altro luogo, spazio e dimensione e all’improvviso mi son trovato qui, nudo nel giardino di un’estranea, una maghetta da quattro soldi che ha sicuramente fatto un casino, a giudica-re da come mi fissa sgomenta! Tutti uguali voi umani, eh?» Mi sembrò tanto il mio prof. di sociologia, solo più cattivo e accanito contro di me soltanto. «Non pensavo avesse funzionato, io… io…» non riuscii neppure a ter-minare la frase, ferma sulla soglia secondaria della casa e con la porta ancora socchiusa alle mie spalle, ebbi il forte impulso di fuggire; ma lui sapeva troppe cose, non potevo lasciarlo lì e magari rischiare anche una scenata isterica, visto che peraltro mi sembrava tanto in procinto di sclerare. «Non ha funzionato, infatti, qualsiasi cosa tu abbia tentato di fare ha so-lo generato un caos inimmaginabile, di cui tutti ne patiremo le conse-guenze.» «E ora?» Gli chiesi incerta sull’aver compreso per bene le sue parole. La situazione era troppo folle per i miei gusti e la mia mente troppo confusa per razionalizzare. «E ora portami dei vestiti o mi metto a urlare!» ringhiò lui, sempre im-mobile con le mani sul pube, la schiena rigida e accanto all’albero. Oh Signore. Annuii perché altro non avrei potuto fare: dovevo davvero portargli dei vestiti o chiamare psichiatria? Maledizione, Robert era sempre assente quando mi serviva una mano, eppure io per lui c’ero sempre… come la sera che, morso con troppa foga da Karen, dovetti portarlo al pronto soccorso e mentire per lui, ma lui? Lui non c’era mai, neppure quando un estraneo nudo m’irretiva dopo essere entrato di soppiatto nella nostra casa e che ormai pareva avere il possesso del giardino.

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In ogni caso scossi la testa per scacciare il pensiero, la figura alta e snella di quel tipo era ancora laggiù, poco distante da me, avvolta dalle ombre e appetibile quanto assurda. «Vestiti, okay… ma tu, chi diavolo sei?» Gli chiesi ancora prima di de-cidermi a muovermi e andare, non sapevo cosa fosse più folle, se l’uomo nudo che chiedeva a me dei vestiti o io che lo stavo anche ad ascoltare e che l’avrei assecondato per non farlo urlare. «Uno che ti farà il culo se non mi fai vestire entro due minuti!» Infine, il ragazzo si alterò parecchio, urlò quelle parole scuotendo il ca-po come se fosse posseduto e io, spaventata come una lepre braccata da un segugio, saltellai agile e con la tremarella dentro casa. Chiusi la porta secondaria dando una doppia mandata di chiave e salii di corsa al piano superiore; mi precipitai nella stanza dei miei genitori, i vestiti di papà gli sarebbero andati meglio che quelli di Robert che era così basso e magro rispetto a lui. Aperto l’armadio, mi fermai per tentare invano di regolarizzare la mia respirazione. Che diavolo stavo facendo? Avrei dovuto chiamare la polizia o stare lì su buona, in attesa che quel pazzo se ne andasse via senza assecondarlo. Mi avvicinai lenta alla finestra che dava sul giardino e puntai lo sguar-do verso l’albero che s’innalzava verso il cielo, rosato e dall’ampia chioma, stasera scossa dal vento: ed eccolo, il pazzo era ancora lì, più celato dietro il tronco e meglio mimetizzato, ma sempre nudo e sempre presente. Maledizione! Pensai ancora, arrendendomi infine. Abbrancai dell’intimo e una delle tute – quella scura e sportiva – di pa-pà e quindi scesi rapidamente al pianterreno decisa a dargli quello che voleva nella speranza di vederlo poi andare via: quella mi sembrava la sola cosa sensata da fare. Con i battiti del cuore degni di un cardiopalma con i fiocchi e le mani tremanti, camminai incerta verso l’uscio secondario e mi preparai a tor-nare dall’estraneo nudo, speranzosa di non trovare che il nulla e così felice di potermi recare io stessa in psichiatria.

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Due Life is what happens to you while you're busy making other plans. Niente da fare, quel ragazzo era ancora lì, sebbene nella discesa con gli abiti tra le braccia avessi pregato di non trovarlo più; insomma era una scocciatura e ancora non avevo ben chiaro se fosse un maniaco o solo un pazzo, un pazzo che peraltro sapeva tutto del mio segreto… ma co-me poteva saperlo? Chi era, un agente della CIA o dell’FBI? Un veg-gente? Un barbone maniaco e telepate? No, era tutto troppo assurdo. Sospirai davvero angosciata. Quando mi avvicinai all’uscita sul retro – quella verso il giardino – guardando verso il prato mi parve di vedere i suoi occhi scintillare non appena mi vide giungere dalla solita porta con i vestiti tra le braccia. Ok, avevo fatto un patto con il matto – che suonava anche in rima – quindi ora sarei dovuta andare fino in fondo: gli avrei dato i vestiti spe-rando di vederlo davvero andare via. Non m’interessava neppure più sapere come lui mi conoscesse e sapes-se delle mie doti magiche, non volevo più capire nulla, solo liberarmi di quella presenza scomoda. Mi avvicinai quindi a lui, camminando lentamente e sulle punte che mi affondavano appena nel terriccio del prato e sull’erba fresca e, senza dire una parola, mi fermai a qualche passo dalla sua nuda presenza e gli lanciai gli abiti ai piedi; poi corsi di nuovo verso la porta e tentando di allontanarmi e mettermi in posizione di sicurezza, evitai anche di vol-germi e guardare per non vederlo nell’opera di vestizione. Cielo, mi bastava quello che avevo visto fino a un attimo prima, mi sa-rebbe bastato per mesi, suppongo. Non che fossi una verginella tutta casa e chiesa, ma vedere tutto quel ben di dio comunque non richiesto, fu troppo anche per me. «Bene, ho fatto quello che mi hai chiesto, ora te ne andrai, giusto?» dis-si poco dopo, sentendolo armeggiare con gli abiti.

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«Allora non mi hai ascoltato, streghetta. Come posso andarmene se qualcosa mi lega a questo posto o a te? È come se fossimo ammanettati, quasi come se una calamita mi tenesse qui: è opera della magia, non ho dubbi, ma non posso far nulla in questa dimensione, soprattutto ora che son così sfinito dal salto» rispose lui, quasi bofonchiando e solo a quel punto, visto quel suo dire senza senso, di nuovo mi voltai e gli prestai attenzione. Era finalmente vestito e la tuta di papà gli cadeva a pennello e senza dubbio stava meglio a lui che al mio genitore. «Ma che vai blaterando! E non chiamarmi streghetta, ho un nome io, sai!» Affondai le mani nei jeans, sentendomi stanca e stupida; cosa ne avrei fatto ora di un pazzo tanto insensato quanto bello, che si ostinava a dire che non poteva allontanarsi da me? Sospirai e fu un lungo moto del mio petto, durante il quale l’aria della sera mi penetrò le narici, pungendole e finendo dritta a ristorare i pol-moni, forse accaldati come il resto del mio corpo. «Qual è il tuo nome allora, streghetta?» «Cass, mi chiamo Cass. E dillo ancora una volta e chiamo davvero la polizia!» «Cass è un nome strano» ribatté, finalmente mostrandomisi meglio poi-ché abbandonò la penombra della chioma del mio albero tanto amato e mi si fece incontro con passi cadenzati e troppo lenti per un’impaziente come me. Traballai vedendolo avvicinare, ma non mi mossi. «Sta per Cassandra e non è affatto strano. Non è certo il mio nome a es-sere strano, qui e stasera. Tu chi sei invece e da dove vieni?» I suoi occhi, che presi a fissare per distogliere l’attenzione dal ricordo del suo corpo nudo, non mi tranquillizzavano per nulla. In essi scorsi una luce, uno strano guizzo, quasi demoniaco e malsano. «Chiamami pure Sam» rispose legandosi le braccia al petto, quel petto ampio e pieno di muscoli e mmm… no, basta! Non potevo fare così, non mi era mai capitato, neppure con i ragazzi più belli dei miei corsi di studi; solo che lui era calamitante, cosa che mi dava oltremodo sui nervi visto che mi ero sentita attratta sin da subi-to da un pazzo che non accennava ancora ad andar via dalla mia pro-prietà. «Sam, che nome strano» risi, scimmiottandolo. «E tu come sai delle mie doti?» Insistetti infine, non potevo più nasconderlo né negarlo e

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non avevo voglia di fare fatica, come dicevo sono un’impaziente e lui sapeva che ero una strega, seppur alle prime armi: questo era uno dei motivi per cui stavo accettando ancora d’averlo lì. Leila mi aveva sempre detto che nessuno avrebbe mai dovuto sapere di noi o sarebbero stati guai, e sapevo che in quel modo, quindi, mi ero appena scoperta da sola ammettendolo, ma tutta la situazione era piut-tosto confusa e gli sbagli stavano arrivando uno dietro l’altro e tutto per un bel paio di spalle larghe e… oh be’, meglio non pensare al resto. «Te l’ho detto, una magia mi ha trascinato fin qui e legato o al posto o alla persona» Sam fece una smorfia, «mi auguro sia al posto, almeno» mormorò, quindi mi scrutò da testa a piedi, con un’espressione poco compiaciuta sul volto, cosa che mi fece indispettire. «E sentiamo, grande uomo che non deve chiedere mai, dov’eri prima di essere disturbato e condotto qui da una tale plebea?» Posai le mani sui fianchi e sollevai le sopracciglia. «In cielo» rispose Sam, senza muoversi né scomporsi, con un irritante sorrisetto sul volto. «In cielo» ripetei. «Già, in cielo. E qualcosa mi ha tirato giù. Secondo me qualcosa con gli occhi e i capelli scuri, e un gran bel seno» Sam capitolò con lo sguardo sul mio petto e d’istinto, come se guardandomi avesse potuto farmi una lastra – o temendo che lui possedesse la vista a raggi X – mi coprii con le mani il busto, velocemente. In verità sapevo che aveva detto quella frase nell’intento di farmi capire che le tette erano la sola cosa bella che avevo: bene, lo odiavo. Mi sentii pizzicare dal desiderio di mandarlo a stendere, ma per fortuna, realizzando cosa aveva appena detto, aspettai un attimo. «E cosa ci facevi in cielo, sentiamo…» stetti al gioco, ma gli lasciai chiaramente intendere dal tono di voce, l’espressione e la posa ora mol-liccia del corpo, che non credevo a una sola parola di tutta quella spie-gazione: la sua era follia. «Sono un angelo, che domande. E qualcuno deve aver richiamato il mio potere e avermi legato in qualche modo, con il sangue, magari. Qualcu-no che a sua volta è almeno un po’ magico o non del tutto umano, for-se.» Mi guardai intorno e indietreggiai verso la porta di un passo. Il rito con Leila… me l’ero completamente dimenticato.

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La mia richiesta di potere divino, il mio sangue… Mi morsi il labbro, anzi, mi morsi anche la lingua, maledicendomi. Non poteva essere vero, però, nessuno degli incanti di Leila insieme a me aveva mai funzionato davvero, sebbene entrambe sapessimo d’avere dei poteri visti i piccoli segni avuti nel corso degli anni… certo, lei era una strega vera, una grande e reale strega, ma con me le cose erano sempre state diverse e la mia inettitudine finiva sempre per bloccare an-che i suoi super poteri. E non avrei mai detto che proprio ora… scossi il capo. Naaa, troppo assurdo per essere vero, quello strano Sam doveva averci visto o sentito nel pomeriggio, magari era un guardone o uno stalker, ma come avrebbe fatto? Eravamo sempre così attente io e la mia men-tore… «Centro! Non è vero? Hai giocato con la magia senza neppur sapere co-sa stavi facendo, almeno a giudicare dalla tua faccia in questo momen-to» Sam girò su se stesso allargando le braccia e guardando verso il cie-lo nero, puntinato di stelle e senza luna. «Fantastico, davvero fantasti-co!» Disse ancora. «Ok, ho usato con la magia il sangue, ma non era giocare, erano tenta-tivi per far crescere il mio potere, che ne sapevo che avrei tirato giù un… un angelo!» esclamai additandolo con entrambi gli indici delle mani, ma quello era davvero un angelo? La bellezza l’aveva senz’altro, ma non vedevo le ali né altro, come po-tevo credergli? «Bene, ora però sono qui e ti conviene pensare a come slegarci e ri-mandarmi a casa o quando avrò recuperato i miei poteri e potrò farlo da solo, me la pagherai anche.» «In quanto tempo recupererai i tuoi poteri?» Chiesi pur senza crederci davvero, insomma chi avrebbe creduto a una storia simile? Forse stavo addirittura sognando. Oppure ero impazzita e respirare tutto quell’incenso alla fine mi aveva fatto sballare come mi diceva sempre Rob: “Murphy, prima o poi a forza di respirare quella merda ti fai un trip senza via di ritorno, spegni quel maledetto incenso che mi puzzano tutti i vestiti!” me lo ripeteva spesso, ridendo. Mi chiamava Murphy, esatto, come la storia della famosa legge di Murphy: se qualcosa può andare male, stai sicuro che lo farà… ecco, io ero proprio così, una calamita per i guai, nei quali mi cacciavo nei gior-

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ni pari poiché nei dispari mi venivano a cercare direttamente loro senza farmi scomodare. Proprio come stasera. «Difficile a dirsi, qualche mese umano, forse di più» Sam mi scollegò dai miei pensieri che come sempre divagavano rendendomi vulnerabile. Aveva la testa tra le nuvole, la piccola Murphy. Presi a scuotere il capo animatamente e a camminare per dirigermi oltre lui, verso l’albero e il cancello della mia casa. «Oh no, no… io non ci credo, ok? Ora io me ne vado e quando torno, te ne sarai andato anche tu!» Mi volsi verso la cuccia di Frick e presi a chiamarlo. «Frick, amore, vieni qui, cacchina notturna!» Urlai abbassandomi e agi-tando la mano. Il mio cucciolo arrivò scodinzolando pochi attimi dopo. E anche lui si fermò a guardare Sam. Lo guardò fisso e immoto molto a lungo. Fu innaturale vedere un’espressione simile sul musetto della mia palla di pelo nero che era ormai giunto vicino ai miei piedi. E anche Sam fissò il mio cane, dalla sua posizione statica che non si era consentito di cambiare; infatti, si muoveva pochissimo, forse era questo che mi consentiva di temerlo poco, anche se tale comportamento poteva di certo essere un sintomo della follia. «Lui non vuole uscire ora, stava dormendo; ti vuole bene ma pensa che tu sia molto noiosa, a volte» disse Sam all’improvviso, assumendo un’espressione provocatoria e lasciando incurvare all’insù gli angoli delle sue lisce e perfette labbra: mi stava prendendo in giro e a quel punto sbottai. Se era qui per prendersi gioco di me, aveva sbagliato casa e persona, lo avrei rimandato in paradiso a suon di calci nel sedere! «Adesso basta… Sam l’angelo! Mi hai rotto le scatole, vattene, quando torno non voglio più vederti qui!» Lo fissai in modo truce alcuni attimi e poi guardai il cane e, incitando quest’ultimo a seguirmi, mi avviai verso il cancello. Solo che una volta allontanatami di poco verso l’uscio, udii una sorta di urlo e dovetti volgermi di scatto mentre camminavo. E lo vidi. Sam, scivolando innaturalmente al suolo, stava seguendo la mia cam-minata, senza muovere un passo ma strisciando sui piedi ancora nudi, a braccia larghe e occhi sbarrati.

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Santi Numi! Lo stavo trascinando via con me! Perdinci, quindi se mi allontanavo, lui mi seguiva? Era come calamita-to da e verso di me, eravamo forse simili ai due poli opposti? Attrazio-ne invincibile. Sbarrai gli occhi, bloccandomi. «Che cosa diavolo è stato?» Chiesi piuttosto su di giri e Frick ne appro-fittò per correre di nuovo nella cuccia, mollandomi lì come un’idiota anche lui. «Te l’ho detto, sono legato a te, ora lo so per certo: non è la casa, sei tu» borbottò lui, sistemandosi abiti e capelli dopo la pericolante scivola-ta. «Oh cielo, e come si fa adesso?» Provai a muovermi in corsa verso de-stra e lui ripeté l’operazione insieme a me, scivolando e grugnendo: non si muoveva, non poteva fingere una cosa simile, sembrava davvero mosso da un altrui volere e non poteva controllare il suo corpo, che mi parve anche rigido come se Sam stesse tentando di opporsi a quei mo-vimenti senza riuscirci. Poi corsi a sinistra per una lunga tratta, lo sentii urlare e quando mi vol-tai, Sam mi capitolò quasi addosso. Era lì di fronte a me ora, per la prima volta così vicino. «Si fa che intanto smetti di fare la mia burattinaia… per favore?» «Sì, scusami, stavo cercando di capire se era vero» aveva degli occhi azzurri bellissimi. «E poi si fa che trovi la soluzione.» «E come, è il primo incanto che mi sia mai riuscito! Non ho idea di come si sistemi una cosa simile!» esclamai ancora incredula, evitando di fissarlo per non sciogliermi in un brodo di giuggiole. Ok, era odioso, impertinente e ingombrante, ma caspita se era affasci-nante. E profumato, sapeva di natura selvaggia e ora che mi era a due passi, potevo ben sentirlo. Anzi, lo respirai a pieni polmoni inalando un paio di volte, tanto per potermi ricordare l’odore alla fine del sogno. «Sempre meglio a quanto vedo, sei una neofita imbranata e pungente, non poteva andarmi peggio!» Sam si volse dandomi le spalle e forse lo fece solo per non dovermi più guardare, era disgustosamente odioso. «Piantala di dirmi cattiverie o ti trascino in giro per la città tutta la not-te» lo minacciai e lui sorrise per la prima volta e, tornando a guardarmi, mi sorrise ancora.

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Il suo sorriso era un arcobaleno dopo la tempesta e i suoi denti simili a dei luminosissimi fari. Se fosse stato solo per la fisicità, ci avrei messo la mano sul fuoco: era angelo per davvero, completamente angelo, l’angelo più angelo forse mai esistito. Ma non dovevo fermarmi a quella e dovevo capire ogni cosa, perché adesso oltre alla paura, c’era anche l’incredula curiosità che avrei dovu-to sfamare, perché ero fatta così. In quell’istante sentii la porta di casa, quella principale, sbattere. Era sicuramente Robert e per un attimo sospirai di sollievo per il suo ritorno, ma nell’immediato mi preoccupai, visto che ben sapevo che a-vrei dovuto nascondere l’angelo per non far scoprire anche la strega. Nascondere l’angelo, poi, mi faceva quasi ridere! Sbarrando gli occhi e portandomi di nuovo vicina e davanti a Sam, mi presi una lunga pausa per riflettere e capire cosa fosse meglio fare, ri-masi ferma accanto a lui e crucciando lo sguardo mi persi nei meandri increduli dei miei pensieri. «Mio fratello è appena arrivato, come facciamo? Non puoi farti trovare qui, con la tuta di papà addosso. Dove ti metto, visto che non possiamo allontanarci troppo?» chiesi infine trafelata, non trovando soluzione migliore che non implorare il suo aiuto – come al solito insomma – e sentendo un’inquietudine in fase crescente. Ok, Rob era mio fratello maggiore e doveva essere maturo, certo, ma in quanto ai ragazzi che mi giravano intorno – le rare volte che capitava – era davvero intransigente e geloso, peggio dei miei vecchi. Era un bel problema. «Avvicinati alla porta, io mi nasconderò lì dietro. Salutalo e congedalo, poi pensiamo al resto» m’istruì Sam, placido, portandosi verso l’uscio secondario, non fosse che s’impiantò con i piedi dopo pochi metri poi-ché io ancora non mi ero mossa. «Cass, non hai tempo per pensare, muoviti che non posso nascondermi se non ti sposti e mi vieni dietro.» «Oh, certo, certo» dissi correndo rapida e a piccoli passi verso l’entrata. Sembrava quasi che man mano che passava il tempo, la distanza con-cessa tra noi si riducesse sempre più, adesso non potevo quasi fare più neppure un passo senza trascinarlo via con me, a quanto pareva.

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Quello era un gigantesco, colossale, immane problema. Solo che in questo caso e per la prima volta nella mia vita, il problema aveva un fisico da urlo e due occhi azzurri come il mare più bello. Ah, e diceva anche di essere un angelo, è vero. Un angelo.

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Tre Hoping for the best but expecting the worst «Robert, possiamo parlare?» chiesi a mio fratello, già ben conoscendo anche la sua risposta: lui era un burbero, un’irascibile e da quando fre-quentava quei… cosi, lo era diventato ancora di più. «No!» La sua voce tuonò e fu seguita dal rumore della corsa sulle scale dei suoi passi, frettolosi di allontanarsi da me e poi dal tonfo di una por-ta che si chiudeva, quella della sua stanza. Come volevasi dimostrare. Sollevai le spalle volgendomi verso il ragazzo dietro di me, diavolo, mi sembrava uscito da un sogno o da qualche film rosa della più scintillan-te Hollywood, eppure era lì realmente e dovevo farci i conti e avrei do-vuto farli anche con la mia follia nell’accettare la sua versione delle co-se, probabilmente. «Via libera, vieni» gli dissi guardandolo di sottecchi. Incredibile ma ve-ro, lo stavo addirittura portando dentro casa, tutta quella situazione era davvero ridicola e io ero una pazza. Sam l’angelo prese a camminarmi alle spalle, i suoi passi erano incerti e poco distanti dai miei. «Non possiamo fare ancora una prova, che ne so… prova ad andartene di nuovo fuori» gli chiesi bloccandomi all’improvviso, ero al limitare della cucina, composta dal banco all’americana, tanti mobiletti e l’enorme frigorifero con erogazione esterna di bevande e ghiaccio, lo adoravo. Fissai il ragazzo avvolto dalla tuta di papà, che sbuffando si volse fa-cendo spallucce. «Se ci tieni tanto, riprovo, ma non rispondo di ciò che accadrà» disse tornando sui suoi passi, anche piuttosto rapidamente: per lo meno era ubbidiente. Non appena lui avanzò verso la porta della cucina – rimasta peraltro socchiusa – e la oltrepassò per poi camminare ancora oltre… e oltre an-

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cora, tirai un sospiro di sollievo socchiudendo gli occhi: se ne era anda-to, sogno o realtà che fosse, era fuori. Non ebbi tempo di crogiolarmi in quella vittoria e sospirare davvero di gusto che, improvvisa come una folata di vento, qualcosa mi strattonò, trascinandomi via con un’inaudita forza, che mi costrinse a strisciare al suolo senza camminare, cadendo e quasi rotolando – un verso disastro! – per capitolare infine sin contro la porta che era appena stata socchiusa da Sam. Uno scontro davvero doloroso. «Ahi!» urlai «Fermati, Sam!» gridai ancora, spiaccicata con il volto sul legno liscio e bianco della soglia. Era vero, maledizione, era reale: se lui si allontanava – o se lo facevo io – la magia ci teneva vicini, insieme. Era davvero magia allora, la mia magia: rabbrividii al solo pensiero. Non passò molto tra il mio starnazzo – che fu azzardato e incosciente poiché rischiai di essere udita da Rob – e il ritorno di Sam. La porta si aprì e io caddi di schiena a terra strizzando gli occhi per l’ennesimo colpo, visto che ci stavo poggiata contro. «Oh, non mi dire, sei stata trascinata al mio seguito, che strano» disse Sam, troneggiando su me, la luce artificiale del piccolo faretto della stanza gli colpiva direttamente il volto, era davvero bello e particolare, non vi era una sola imperfezione sul suo viso né un segno del tempo, non avrei potuto neppure ben comprenderne l’età. «No, guarda, ero qui stesa a fare un pisolino» dissi alzandomi e scrol-landomi i vestiti – da quando mamma era via, la polvere sui pavimenti abbondava. «Ora possiamo andare? Dovremmo studiare come sopravvivere nel frattempo che tu trovi un contro incantesimo o anche due.» Scivolammo verso il piano superiore e, senza più parlare, verso la mia stanza. Non era il primo ragazzo che vi entrava, ma era sicuramente il primo presunto angelo che lo faceva. Mi sentivo strana, con la mente e il petto in subbuglio e il respiro non voleva cessare di essere così affannoso. E poi quel ragazzo m’infastidiva e il pensiero di doverci passare del tempo insieme mi metteva i brividi… solo che non riuscivo a capire di che tipo fossero.

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«La mia camera, il mio letto, il mio comodino, la cassapanca e quello invece è il pavimento dove tu ti sistemerai per la notte, buono e zitto sin da ora» esordii non appena fummo dentro la camera indicandogli con l’indice puntato ogni cosa nomata e poi tornai a guardarlo; di nuovo fermo sull’uscio, Sam mi sembrò quasi in imbarazzo, cosa che contra-stava molto con la spavalderia ostentata sino a quel momento. Intanto la camera si riempì immediatamente del suo profumo: zucchero filato ed erba, quando profuma di acqua piovana dopo il temporale. Dolce e selvaggio. «Non sono mica il tuo cane che mi doni il pavimento e per inciso, nep-pure lui ama starci, preferisce il letto» disse Sam avanzando infine all’interno del mio mondo. «Ah no, no, non voglio sapere né sentire altre cose strane, tu che mi confidi cosa vuole il mio cane ha un che di ridicolo» agitai le mani a-perte davanti al volto, come a volerlo fermare. «Ma reale, posso sentire gli animali e non solo loro. Se solo volessi, po-trei leggere nella mente di chiunque mi interessasse scoprire o conqui-stare.» «Anche nella mia?» Chiesi bloccandomi piuttosto preoccupata e mi ac-corsi che l’intera situazione era sempre più assurda. «Non ho ancora tutti i miei poteri, ci vorrà tempo.» «Benissimo, perché ho i brividi al solo pensiero che tu possa setacciar-mi la mente.» «Non lo farò se non vorrai, ma spero di andarmene da qui molto prima di avere la voglia di scoprire cosa c’è nella tua testa, Cass.» «Lo spero anch’io» dissi infine, osservandolo andarsi a sedere sulla cassapanca accanto alla finestra, nella mia stanza. Come avremmo dormito stanotte? Ringraziai il cielo che i miei fossero fuori città, almeno per il momento quel pericolo era scongiurato, quindi sconvolta e confusa poco dopo scesi per la cena.

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Tacere con Rob su di una cosa simile mi era pressoché impossibile, ma dovetti farlo. Per giunta lui era ancora infuriato con me per la discus-sione mattutina e non potevo di certo sperare che si lasciasse andare in confidenze da fratello modello. La mia sola preoccupazione al momento era capire come consumare la cena senza trascinarmi dietro l’angelo. Sam era sceso sulle scale insieme a me e si era appostato dietro la porta della cucina solo dopo il mio ingresso, che avvenne quando Rob era già seduto a tavola, ovviamente. Stavo sudando freddo mentre gli riempivo il piatto di pollo alla caccia-tora cucinato nel pomeriggio, lo sguardo continuava a capitolarmi verso la porta, mi sentivo irrequieta, scombussolata e a mente lucida pensai che potevo aver introdotto in casa chiunque, anche un maniaco o un la-dro… oppure un maniaco ladro. «Cosa cazzo hai?» Mi chiese Rob, indelicato e atono, interrompendo il flusso dei miei pensieri e costringendomi a sedere in tutta fretta per non muovermi troppo o destare altri sospetti. Era ancora arrabbiato come temevo. E io ero nervosa, potevo quasi sentire il respiro dell’angelo die-tro alla porta, sentirmi i suoi occhi addosso, la sua curiosità scavare nel-la mia cena familiare. «Niente. Scusami per oggi, Rob. Sono solo preoccupata» cercai di sviarlo facendo la buona samaritana e scusandomi, cosa che non era mai stata necessaria tra noi. Rob avvicinò la forchetta alle labbra e addentò il primo pezzo di pollo cosparso di capperi e verdurine. «E’ perché non trombi, Cass» senten-ziò fiero, guardandomi con un sorriso malefico. «Cosa?» Sbarrai gli occhi. Oh no, non ora ti prego. Rob fai il bravo! «Da quanto non scopi, Murphy?» Mi chiese ancora il mio adorato fra-tellino impiccione. Era solito intraprendere questi argomenti spigolosi e farmi infuriare, ma stasera dovevo stoppare la cosa sul nascere o sarei morta dalla vergogna. «Zitto e mangia, ti si fredda il pollo che aveva più cervello di te ed è stato fatto arrosto, vuoi che i prossimi a fare outing, magari gli zombie, si cibino del tuo piccolo cervellino?» Risi anch’io, ma sapevo che a-vrebbe capito che ero nervosa, di solito scherzavo sulla cosa, ma stasera non avevo proprio voglia di fare autoironia sulla mia inesistente vita sessuale con l’odioso angelo in ascolto. Se qualcosa può andare male, state pur certi che per me lo farà!

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«Se lo facessi ogni tanto, saresti meno acida e catastrofica per le storie altrui. Cass, sei strana. E anche il profumo che hai addosso stasera lo è» affermò ancora mio fratello. Santi Numi! Allora anche lui sentiva il profumo dell’angelo? Perché a me aveva assalito anche lì nella cucina, selvaggio e penetrante, aveva riempito tutta la mia casa. Tentai di inghiottire il cibo che mi ero messa in bocca, ma mi andò di traverso e Rob m’irritò parecchio stavolta, vi-sta l’insistenza; e quando Cass si irrita… reagisce. «Oh, sentiamo, allora sarebbe meglio che mi facessi sbattere da un mor-to?» Lo punzecchiai, ma lui rise e non colse la provocazione o forse de-cise di lasciarmi perdere. Tanto meglio così, non era decisamente sera-ta. La cena continuò nel più completo silenzio, con il profumo dell’angelo ovunque intorno a me, che mi accompagnò per l’intera, imbarazzante e insonne notte. Pensa Cass, pensa. Era impossibile però poterlo fare. Seduta sul pullman con Vic accanto che ascoltava musica dal suo lettore MP3, fissai il finestrino immersa nei miei pensieri per tutto il viaggio verso la scuola, il liceo – ultimo anno. Era solo la prima settimana e così rischiavo di cominciare nel peggior modo possibile. La testa vagava, mi crucciavo alla ricerca della soluzione e ben sapendo che Leila era forse l’unica a potermi aiutare, non ero ancora così sicura di volerle svelare il mio piccolo segreto. Mi volsi per guardare dietro di me, quattro file dal terminar del veicolo all’interno del quale viaggiavo, nell’antro nero del pullman, come lo chiamavamo noi, sedeva Sam. Ovviamente era dovuto venire con me e seguirmi alla maggior distanza concessa, ero stata fin troppo chiara, ma altrettanto chiaramente era in-dispensabile la sua presenza, altrimenti me lo sarei trascinato dietro e non sarebbe stato un bel vedere. Ma l’inquietudine mi si serrava intorno ai polsi lo stesso, come se fossi prigioniera di un beffardo gioco, in manette, anzi, quella era senza dub-

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bio la punizione per una strega imbranata: non avrei mai più usato i po-teri in vita mia, salvo che per rimandare lui da dov’era venuto. Aveva passato la notte sulla poltrona e io invece ero stata a letto e avere lì con me un ragazzo, un angelo o quello che diavolo era, mi aveva por-tato a non dormire affatto. E ora ero scossa, stanca e senza la lucidità necessaria per pensare. «Tutto bene, Cass?» Vic spense l’apparecchio e si tolse con uno strat-tone gli auricolari dalle orecchie, poi mi guardò sorridendo. Lei era tutti ricci arancioni e lentiggini fitte sulle gote, ma anche davve-ro molto bella e cordiale. Era la persona più vicina all’amica del cuore che avessi. «Sì, tutto ok, solo che i primi giorni di scuola sono sempre un po’ così, lo sai…» finsi indifferenza e mi sollevai proprio mentre il mezzo stava frenando, sbilanciandomi in avanti. Ancora una volta capitolai con lo sguardo all’indietro. Oggi Sam indossava la tuta della sera precedente, di bella fattura ma decisamente out, e gli occhiali da sole sottratti a Robbie di nascosto ce-lavano in parte la sua identità che decisamente non doveva trapelare, insomma, era così bello che chiunque si sarebbe fatto davvero molte domande, poi era nuovo del posto, nessuno lo poteva conoscere e que-sto avrebbe sicuramente attirato l’attenzione di tutti. Qui a Capewood gli studenti nuovi erano quasi delle divinità da scopri-re e osannare e questo era un altro bel problema, sperai quindi che nes-suno notasse la sua presenza improvvisa e nuova nella nostra scuola. Sperare, non potevo fare che quello. Sam scese al mio seguito, passeggiandomi alle spalle. Sentivo la sua presenza e mi sembrava che lui spiasse i miei pensieri, oltre che i passi. «Si preannuncia un altro anno come al solito. Megan e le sue aguzzine» disse Vic, camminandomi accanto mentre sfilavamo lungo il sentiero tra gli alberi del college e, al terminar della frase, ammiccò verso il gruppo delle ragazze “In” della scuola. «Il gruppo degli sfigati» sulla nostra destra sfilammo oltre i nerd, già con i libri sottobraccio e i tipici, immancabili occhialetti. Ognuno era catalogato da tempo e si vestiva e comportava proprio co-me la gente s’aspettava che facesse.

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Era un grande teatro di marionette e sembrava sempre, in qualsiasi momento, che qualcuno tirasse i nostri fili e capitolasse persino azioni e pensieri. «Le atlete, gli atleti, rapper, dark, tifosi, spartani, burini… e noi» al termine della sua classifica a scorrimento veloce ci ritrovammo davanti alla porta d’accesso al corridoio che conduceva alle aule – ossia l’uscio della scuola – e io risi. «Meglio non aver un posto tra di loro ed essere anonime, che diventare da collezione e catalogo» le dissi sospirando, avrei voluto volgermi e cercare Sam, ma non potevo mostrar troppo interesse o lei se ne sarebbe accorta. «Se lo dici tu» Victoria sollevò le piccole spalle, era magrissima e dal suo giovane e slanciato corpo spuntava ogni osso possibile, come a vo-lersi fare a tutti i costi notare. «Sì, lo dico io, meglio essere Cass e Vic e non due scoppiate dei rapper o fighe di legno delle dive, non credi? Noi siamo noi, un nome, un vol-to, un’identità» replicai seria. La gente ci sfilava intorno e la campanella suonò a lungo, segno che anche oggi, tutto stava per incominciare. «Eh, certo, perché schiferesti essere una diva di Megan, tu?» mi chiese ridendo, labbra fini, sorriso aperto e curvo. «Sarei la diva di Megan, non Cass la diva. Io dico sul serio Vic, voglio essere soltanto Cass, anche se alla fine nessuno mi degna d’attenzioni. E poi io ho te» sorrisi al suo seguito e prendendola sottobraccio, la tra-scinai verso la nostra aula. Era vero, l’una aveva l’altra e nella giungla scolastica e in quella della vita, una consapevolezza così ci bastava. Ora di matematica: la odiavo. Ora di letteratura: passione pura. Poi Storia, Scienze, pausa pranzo. «Non vorrei dirtelo, Cass, ma mi pare che quel tipo ti segua, ti fissi o non so che altro, e non mi pare di averlo mai visto prima d’ora» mi dis-se Vic nel cortile della scuola; era l’ora di ricreazione e tutti noi, intrip-

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pati come ogni giorno, ce ne stavamo lì nel ciottoloso cortile e sotto il debole sole. C’era chi cantava, chi complottava e chi limonava. E noi, sedute sulla ringhiera della discesa per disabili, come sempre fumavamo. Mi volsi un solo attimo, incontrando la figura spaesata di Sam, aveva tolto gli occhiali e lo guardavano in molti, non solo noi. Maledizione! Eppure finora era stato bravissimo, si doveva essere im-bucato a lezione in qualche modo, magari nella classe accanto alla mia: perché aveva deciso di mettersi in mostra così proprio sul più bello del-la mia speranza alla tranquillità? Finsi indifferenza, feci spallucce e sporgendo il labbro inferiore, scossi il capo. L’aria fresca mi scuoteva i capelli legandoli e slegandoli, e mi posi ben di spalle a Sam, che poggiato con la schiena contro un albero era dive-nuta figura fissa nel campo visivo di Vic. «Non so chi sia, mai visto prima d’ora e non credo che guardi me, nes-suno mi guarda mai.» «E dai, Cass, perché ti demoralizzi sempre così.» «Vic, sii onesta, chi ci guarderebbe mai… in quel modo? Siamo solo Cass e Vic, le ragazzine con l’apparecchio che da piccole vestivano in fuseaux e venivano scelte sempre per ultime dalle squadre nell’ora di ginnastica» dissi, appena amareggiata. «Siamo molto cambiate da allora. Io ho i capelli più ricci per esempio» ribatté Victoria ridendo. E risi anch’io, piegando all’indietro il capo ed esponendo il volto al so-le, che lo raggiunse nell’immediato con i suoi raggi, tiepidi e avvolgen-ti. «Tu sei cambiata, sei diventata bella, posata e profumata» risposi a oc-chi socchiusi e palpebre distese, assaporando in quell’equilibrio instabi-le l’odore del vento. «Profumata?» Mi chiese ridacchiando e saltando giù dalla trave che ci ospitava con un piccolo colpetto di reni. «Sì, ogni persona ha un profumo particolare, è la nostra pelle che odora in tanti modi diversi. Il tuo è buonissimo, amica» ridendo ancora, anch’io saltellai al suolo accanto a lei. Diedi quindi una rapida occhiata a Sam, che pareva volermi forzata-mente ignorare: eravamo due pessimi attori.

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«Tu sei tutta matta, Cassandra Adams Lee!» Esclamò Victoria pren-dendomi per mano e, probabilmente trascinandomi dietro Sam, fui a mia volta tirata dalla mia amica verso la classe. FINE ANTEPRIMAContinua...