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I docenti universitari tra Ottocento e Novecento Carriere, condizione economica e stato giuridico Ariella Verrocchio La storia dell’università italiana ha fatto ormai pienamente il suo ingresso nel campo della ricerca storica. Per il periodo postunitario gli studi si so- no concentrati in particolare sul tema del rappor- to scienza, università e potere politico. Con que- sto lavoro si intende portare un contributo allo studio della figura del professore universitario tra Ottocento e Novecento. Si tratta di un settore finora assai poco frequentato dalla storiografia italiana, pur mostrando non pochi motivi di inte- resse e offrendo, tra l’altro, elementi per una defi- nizione di quella specificità che, nel confronto con le realtà europee, viene ad assumere, negli anni a cavallo del secolo, il sistema di istruzione superio- re italiano. Infatti lo studio delle carriere e dello stato giuridico ed economico della docenza supe- riore in Italia permette di mettere in evidenza l’e- sistenza di una condizione sicuramente meno van- taggiosa che in altri vicini stati europei. Sul finire degli anni ottanta il corpo accademico inizia ad intraprendere le prime forme di rivendicazione per ottenere un miglioramento della propria con- dizione giuridica ed economica. La protesta andrà via via assumendo toni sempre più accesi, per cul- minare nel 1908 con la bocciatura del progetto di riforma Rava. Attraverso la stampa coeva, la legi- slazione e i dibattiti parlamentari, lo studio riper- corre le vicende della condizione del corpo acca- demico italiano fino al Congresso nazionale uni- versitario del 1912, un incontro che chiude più di un trentennio di riflessione sui problemi dell'or- dinamento superiore, riconfermando, una volta di più, come la questione universitaria, tanto nei suoi aspetti teorici e pedagogici, che nei risvolti politici e amministrativi, trovi una sua importante espressione nella condizione del docente che meri- ta perciò di essere indagata attentamente. The history o f the Italian university has by now gained full citizenship in the domain o f historical research. With regard to the post-Unification pe- riod, most studies have been focusing on the topic o f the relationships among science, political power and the university. This work is meant as a contri- bution to an inquiry into the figure o f the professor by the turn of the century, a subject still seldom explored by Italian historians, despite its major implications, first and foremost the fact that it helps sketch the peculiarities of the Italian higher education system as compared with the contem- porary European situation. The study of the ca- reers and the economic and legal status of profes- sors enlightens a condition sharply disadvantaged in comparison with most neighbouring European fellows. By the end of the Eighties the academic body started to advance the first claims aimed to obtain an economic and juridical improvement. The protest was to gain increasing force, reaching its climax in 1908 with the rejection o f the Rava reform bill. By examining coeval press, legislation and parliamentary debates, the A. follows the pro- fessional venture of the Italian professors up till the National University Congress o f 1912, a mee- ting that would seal three decades o f discussions on the problems o f higher education, once again reconfirming the crucial importance o f the condi- tion o f professors in the university issue, under its administrative and political implications no less than in its cultural and pedagogical aspects. Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206

I docenti universitari tra Ottocento e Novecento · in particolare Mario Sbriccoli, Il diritto penale sociale (1883-1912), “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico

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I docenti universitari tra Ottocento e NovecentoCarriere, condizione economica e stato giuridico

Ariella Verrocchio

La storia dell’università italiana ha fatto ormai pienamente il suo ingresso nel campo della ricerca storica. Per il periodo postunitario gli studi si so­no concentrati in particolare sul tema del rappor­to scienza, università e potere politico. Con que­sto lavoro si intende portare un contributo allo studio della figura del professore universitario tra Ottocento e Novecento. Si tratta di un settore finora assai poco frequentato dalla storiografia italiana, pur mostrando non pochi motivi di inte­resse e offrendo, tra l’altro, elementi per una defi­nizione di quella specificità che, nel confronto con le realtà europee, viene ad assumere, negli anni a cavallo del secolo, il sistema di istruzione superio­re italiano. Infatti lo studio delle carriere e dello stato giuridico ed economico della docenza supe­riore in Italia permette di mettere in evidenza l’e­sistenza di una condizione sicuramente meno van­taggiosa che in altri vicini stati europei. Sul finire degli anni ottanta il corpo accademico inizia ad intraprendere le prime forme di rivendicazione per ottenere un miglioramento della propria con­dizione giuridica ed economica. La protesta andrà via via assumendo toni sempre più accesi, per cul­minare nel 1908 con la bocciatura del progetto di riforma Rava. Attraverso la stampa coeva, la legi­slazione e i dibattiti parlamentari, lo studio riper­corre le vicende della condizione del corpo acca­demico italiano fino al Congresso nazionale uni­versitario del 1912, un incontro che chiude più di un trentennio di riflessione sui problemi dell'or­dinamento superiore, riconfermando, una volta di più, come la questione universitaria, tanto nei suoi aspetti teorici e pedagogici, che nei risvolti politici e amministrativi, trovi una sua importante espressione nella condizione del docente che meri­ta perciò di essere indagata attentamente.

The history o f the Italian university has by now gained full citizenship in the domain o f historical research. With regard to the post-Unification pe­riod, most studies have been focusing on the topic o f the relationships among science, political power and the university. This work is meant as a contri­bution to an inquiry into the figure o f the professor by the turn o f the century, a subject still seldom explored by Italian historians, despite its major implications, first and foremost the fact that it helps sketch the peculiarities o f the Italian higher education system as compared with the contem­porary European situation. The study o f the ca­reers and the economic and legal status o f profes­sors enlightens a condition sharply disadvantaged in comparison with most neighbouring European fellows. By the end o f the Eighties the academic body started to advance the first claims aimed to obtain an economic and juridical improvement. The protest was to gain increasing force, reaching its climax in 1908 with the rejection o f the Rava reform bill. By examining coeval press, legislation and parliamentary debates, the A. follows the pro­fessional venture o f the Italian professors up till the National University Congress o f 1912, a mee­ting that would seal three decades o f discussions on the problems o f higher education, once again reconfirming the crucial importance o f the condi­tion o f professors in the university issue, under its administrative and political implications no less than in its cultural and pedagogical aspects.

Italia contemporanea”, marzo 1997, n. 206

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Le prime rivendicazioni dei docenti universitari

Noi non siamo operai da far scioperi e chiassi: con il disprezzo giudichiamo chi non capisce la nostra alta funzione, ma chiamati a dire il nostro parere, non taceremo per vile timore di parlare e diremo con franchezza che provvedere a noi è provvedere alla scienza, cioè alla grandezza della patria1.

Così scriveva nel 1886 Pietro Cogliolo, riven­dicando come fosse preciso dovere dello Sta­to porre rimedio ad uno dei principali mali da cui era afflitta la più alta struttura culturale ed educativa della nazione: la condizione del professore d’università2. Un atto d’accu­sa senza dubbio tutt’altro che infondato, es­sendo l’Italia di fíne secolo un paese dove la carriera accademica non comportava il rag­giungimento di uno stato giuridico e di una condizione economica così vantaggiosi come in altri vicini stati europei, quali Francia o Germania. La disparità di trattamento, la precarietà ed l’inadeguatezza delle condizioni erano, a suo avviso, tali che finivano per ostacolare la formazione in Italia di un vero e proprio corpo accademico. Da questo pun­to di vista era sua ferma convinzione che, nel confronto con le università straniere, il siste­ma superiore nazionale presentasse alcune

peculiarità di fondo, non solo in ragione del diverso trattamento riservato alla docenza, ma anche per le caratteristiche che questa era andata via via assumendo su un piano strettamente professionale. Cogliolo osserva­va come in Italia il corpo accademico fosse assai poco animato da “spirito di classe” e non sempre svolgesse in mondo adeguato l’importante funzione educativa e formativa a cui era chiamato. La scarsa operosità didat­tica, a suo avviso, trovava spiegazione princi­palmente nel privilegio accordato da molti docenti alla pratica professionale, all’eserci­zio delle libere professioni e talvolta al conse­guimento di una brillante carriera politica3.

Sul finire degli anni ottanta, il problema di restituire dignità alla figura del docente uni­versitario venne a occupare un posto impor­tante nell’acceso dibattito in corso sulla que­stione universitaria4. Rispetto a ciò va tenuto presente che le prime forme di rivendicazione da parte dei professori universitari per otte­nere il miglioramento della loro condizione giuridica ed economica comparvero in un pe­riodo in cui il mondo accademico era attra­versato da più generali e profonde esigenze di rinnovamento, maturate anzitutto sulla base di una valutazione critica delle effettive capacità formative ed educative offerte in

1 Pietro Cogliolo, Melanconie universitarie, Firenze, Barbera, 1887, pp. 61-62.2 Pietro Cogliolo (1859-1940) iniziò la carriera accademica nel 1880, occupando la cattedra di Pandette presso l’ateneo di Camerino. Qui insegnò fino al 1883, per poi passare all’Università di Modena e, infine, nel 1889, a quella di Genova. Studioso di Diritto romano, fu molto attivo nel dibattito sviluppatosi tra Ottocento e Novecento sul diritto civile e pe­nale, un impegno che ne fece uno dei più autorevoli esponenti di quel movimento di rinnovamento, noto come sociali­smo giuridico, al quale sul finire del secolo aderirono giuristi mossi da convinzioni democratiche e da esigenze di giu­stizia sociale. Per questi aspetti cfr. in particolare Mario Sbriccoli, Il diritto penale sociale (1883-1912), “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 1975, n. 3-4, p. 560; Id., La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell'Italia unita, in Aldo Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall'Unità alla Repub­blica, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 152-153.3 P. Cogliolo, Melanconie universitarie, cit., p. 44.4 Per una definizione dei termini di tale dibattito cfr. Marcello Rossi, Università e società in Italia alla fine deU’800, Fi­renze, La Nuova Italia, 1976; Tina Tornasi, Luciana Bellatalla, L ’Università italiana nell’Italia liberale (1861-1923), Na­poli, Liguori, 1988; sulla figura del docente superiore si veda Antonio Santoni Rugiu, Chiarissimi e Magnifici. Il profes­sore nell’università italiana (dal 1700 al 2000), Firenze, La Nuova Italia, 1991, pp. 75-155. Più in generale, per un bilancio critico sugli studi fin ora condotti sull’università italiana postunitaria cfr. Ilaria Porciani, L ’università dell’Italia unita, "Passato e presente” , 1993, n. 29, pp. 123-135; infine, relativamente ai più recenti orientamenti assunti dalla ri­cerca sul tema dell’istruzione superiore, si veda la raccolta di saggi contenuti nel volume I. Porciani (a cura di), L ’Uni­versità tra Otto e Novecento: i modelli europei e il caso italiano, Napoli, Jovene, 1994.

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Italia dal sistema scolastico superiore. Se il problema di fondo dell’università italiana era individuato nella scarsa preparazione che essa dava alle giovani generazioni, era opinione diffusa che ciò dipendesse princi­palmente dal suo carattere spiccatamente professionale5. Di qui le critiche verso un or­dinamento considerato sua diretta espressio­ne, per il quale la parte più impegnata del corpo accademico avrebbe avanzato propo­ste di cambiamento, quali l’abolizione delle facoltà e degli esami “ speciali” in luogo di un “esame generale di laurea” , e l’istituzione di veri e propri esami di stato6. L’ insieme delle riforme poneva, i presupposti fonda- mentali per giungere a un riordinamento de­gli studi capace di consentire una maggiore circolazione del discorso scientifico all’inter­no delle università. Le proposte e le esigenze di rinnovamento trovarono una prima ampia formulazione organica nella Società dei pro­fessori, nata a Bologna, nel 18877. La rivista della Società,“ L’Università” , si poneva l’o­biettivo “di essere l’espressione generale, na­zionale ed indipendente degli interessi dell’in­segnamento superiore [...] cercando altresì di sottrarli alle pericolose influenze dell’avvi­

cendarsi dei partiti politici e degli uomini nel governo della cosa pubblica”8. Tali aspi­razioni lasciano trapelare il disagio e la sfidu­cia che parte del mondo accademico andava già in quegli anni maturando nei confronti di una classe politica ritenuta incapace di operare una risoluzione organica ed efficace della questione universitaria. Di qui l’esplici­to invito rivolto dal Cogliolo, allora vicepre­sidente della Società, a “finirla una bella vol­ta con i progetti fatti nei gabinetti del Mini­stero od usciti di punto in bianco dalla bella testa di un Ministro” e a riunirsi al più presto in un convegno nazionale “per discutere as­sieme dei problemi dell’ordinamento supe­riore”9. Pubblicato su uno dei primi numeri della rivista, l’invito venne accolto con entu­siasmo, infatti già nell’autunno di quell’an­no, a Milano, ben trecentocinquanta profes­sori universitari si riunirono per la prima vol­ta in un congresso nazionale10 11. Se nel pro­gramma di riforma un posto centrale era oc­cupato dalla proposta di Antonio Labriola di istituire una laurea complementare in Filoso­fia, venivano affrontate anche tutte le que­stioni che riguardavano direttamente la con­dizione del professore universitario", su cui

5 Da questo punto di vista va osservato come si trattasse di esigenze dominate da un concetto positivista di scienza e in questo senso maturate nell’ambito di quel positivismo pedagogico che, tra il 1870 e il 1890, conobbe in Italia i suoi più significativi sviluppi; sul concetto di scienza e di educazione da questo elaborato si veda la raccolta di scritti coevi in Positivismo pedagogico, introduzione di Renato Tisato, voi. II, Torino, Utet, 1976.6 A questo proposito, non è stato a mio avviso ancora sufficientemente sottolineato il peso che queste forme di dissenso professorale avrebbero esercitato sul processo di formazione in Italia di un movimento studentesco sul finire degli anni ottanta. Rispetto a ciò, mi limiterò qui a richiamare l’attenzione sul primo Manifesto agli studenti italiani, redatto nel 1891 dal Comitato direttivo degli studenti universitari di Pavia, il cui programma di riforma in molti punti ripropone un complesso di istanze da tempo circolanti tra la parte più attiva ed impegnata del corpo accademico. Per una riprodu­zione del Manifesto si veda la Cronaca universitaria, “L'Università”, 1891, pp. 168-170.7 Va sottolineato come questa non costituisse ancora una vera e propria associazione di categoria, ovvero un’organiz­zazione frutto del maturare all’interno della docenza superiore di uno spirito di corpo. Impegnata esclusivamente nella redazione di una rivista sui problemi dell’ordinamento superiore, significativamente sul frontespizio riportava “pubbli­cata da una Società di professori”.8 Si veda il Programma, “L’Università”, 1887, pp. 1-2.9 P. Cogliolo, La nuova Legge Universitaria, “ L’Università”, 1887, p. 15.10 Per un resoconto ed un estratto delle deliberazioni del 1° Congresso nazionale universitario si veda “L’Università”, 1887, pp. 575-596.11 Come è noto la questione della facoltà filosofica costituiva allora uno dei nodi centrali del dibattito professorale sul­l’insegnamento superiore e una delle ragioni dell’interesse per il modello tedesco; cfr. M. Rossi, Università e società, cit., pp. 1-16. Più in generale, per un confronto tra il caso italiano e i modelli universitari europei di fine secolo si vedano, in

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avevano espresso atteggiamenti fortemente critici in particolare Cogliolo, nel già ricorda­to scritto, e Angelo Mosso in un acceso inter­vento apparso nel 1886 sulle pagine della rivi­sta “Nuova antologia” 12. In entrambi si af­frontavano le questioni relative allo stato economico e giuridico dei professori univer­sitari e si individuava la soluzione del proble­ma nella conquista di una retribuzione più adeguata al loro ruolo e nella critica del siste­ma di avanzamento e reclutamento nelle car­riere accademiche allora in vigore. Antici­pando un’analisi che, almeno fino allo scop­pio della guerra, avrebbe costituito uno dei motivi ricorrenti della protesta dei professo­ri, si faceva risalire l’origine dei mali della condizione del docente universitario alle pro­gressive modificazioni via via apportate, al­l’indomani dell’Unità, alla legge Casati con successivi decreti, regolamenti e circolari mi­nisteriali13.

Secondo la legge del 1859, soltanto coloro che insegnavano con il titolo di ordinari era­no professori ufficiali a tutti gli effetti. Vi era­no poi i dottori aggregati che, chiamati a sup­plire i professori ufficiali in caso di tempora­neo impedimento, non godevano di stipendi

ma di indennità. Formavano una categoria a parte i docenti a titolo privato, la cui retri­buzione, secondo un sistema adottato anche in Germania, era interamente a carico degli studenti. La legge prevedeva, inoltre, i cosid­detti professori straordinari, supplenti incari­cati di completare e di perfezionare l’insegna­mento del professore ordinario, scelti dal mi­nistro tra gli aggregati, i liberi docenti, gli eleggibili nei concorsi universitari e gli stu­diosi di “meritata fama” . Si diventava pro­fessore d’università attraverso un concorso per titoli o esami — le commissioni esamina­trici erano nominate dal Consiglio superiore e presiedute sempre da un suo membro — op­pure ricorrendo all’art. 69 della legge Casati, che stabiliva che il ministro poteva proporre al re “la nomina, prescindendo da ogni con­corso, di persone che per opere, per scoperte o per insegnamenti dati, erano venute in me­ritata fama” 14.

Com’è noto, le prime e più significative modificazioni al sistema casatiano furono apportate nel 1862 dalla legge Matteucci15, che fissava le tasse d’iscrizione, uniformi per ciascuna facoltà in favore dello Stato, stabiliva uguali remunerazioni per i professo­

particolare, i contributi di Antonio La Penna, Modello tedesco e modello francese, in Simonetta Soldani, Gabriele Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 171-212: Pieran­gelo Schiera, Modelli di università nell’Ottocento europeo: problemi di scienza e di potere, in I. Porciani (a cura di), L ’U­niversità tra Otto e Novecento, cit., pp. 3-33.12 Angelo Mosso, L ’istruzione superiore in Italia, “Nuova antologia”, ottobre 1886, p. 479.13 Significativa a questo proposito la pubblicazione nei primi anni novanta del Codice scolastico del Regno d'Italia, Fi­renze, 1892, curata da P. Cogliolo e Angelo Majorana, che raccoglieva tutte le normative posteriori alla legge Casati, rivelandone la sostanziale incertezza e inefficienza. Sul carattere assunto da tale dissenso meritano di essere richiamati alcuni giudizi particolarmente aspri del Cogliolo, che interpretava molte delle modificazioni introdotte con regolamenti e circolari ministeriali come “provvedimenti incostituzionali [...] disponendo su materie le quali dovevano essere rego­lamentate dal potere legislativo” (P. Cogliolo, La nuova legge universitaria, “L’Università” , 1887, p. 10).14 Successivi decreti conferirono maggiori poteri alle facoltà nella scelta delle commissioni esaminatrici. In particolare, con il decreto del 1884, pur restando in vigore l’art. 69 della legge Casati, era concesso a queste il diritto di eleggere, oltre al proprio rappresentante, altri sette commissari, quattro effettivi e tre supplenti, anche al di fuori dei professori titolari della materia. Sul funzionamento delle commissioni esaminatrici cfr. Francesco D'Ovidio, La scelta dei profes­sori e le Commissioni pei concorsi, “Nuova Antologia”, settembre 1887, pp. 30-47.15 Per quanto riguarda l’assetto istituzionale e legislativo assunto dall’università italiana in età postunitaria va osser­vato come ancora manchino lavori in grado di offrire un quadro esauriente e completo. Riferimenti utili sono co­munque contenuti in Giuseppe Talamo, La scuola dalla Legge Casati alla inchiesta del 1864, Milano, Giuffrè, 1960; Francesco De Vivo, Giovanni Genovesi (a cura di), Cento anni di Università. L ’istruzione superiore in Italia dall’Unità ai nostri giorni, Napoli, Esi, 1986; A. Saccomanno, Autonomia universitaria e costituzione, parte I, L ’auto-

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ri ordinari e li privava delle retribuzioni d’i­scrizione ai corsi ufficiali e delle propine16. Soltanto per la docenza privata si mantenne l’uso dei compensi ma, a differenza che nella legge Casati, le nuove disposizioni prevede­vano che gli emolumenti non fossero più pa­gati dagli studenti ma direttamente dallo Sta­to ai professori. Con la promulgazione della legge Matteucci, il problema economico ven­ne a costituire una delle principali preoccupa­zioni del corpo accademico che si sentiva profondamente amareggiato per la scarsa considerazione in cui era tenuto dal governo italiano. Da questo punto di vista va detto che la protesta dei professori maturò non so­lo sulla base di un mal digerito processo di as­sorbimento nell’apparato statale, ma anche e soprattutto in ragione di una retribuzione ri­tenuta degradante ed inadeguata17. Di qui il riconoscimento della necessità che i professo­ri universitari esercitassero le libere profes­sioni. Riconosceva tale necessità anche chi proprio nella pratica professionale indivi­duava una delle principali ragioni della scar­sa operosità didattica di molti insegnanti su­periori18. Allo stesso tempo, il problema eco­nomico andava configurandosi come più gra­ve ed urgente tra i docenti delle facoltà uma­nistiche, che non riuscivano a integrare attra­

verso l’attività pubblicistica i magri stipendi ministeriali.

Tuttavia va osservato che la parte più impegnata del corpo accademico italiano valutava negativamente il processo di as­sorbimento del ceto professorale nell’appa­rato statale, non solo per le sue ripercussio­ni di carattere economico, ma anche per gli effetti che questo mostrava d’avere sull’in­segnamento superiore. Da questo punto di vista era opinione abbastanza diffusa che esso creasse tra i professori una situa­zione di livellamento indifferente alle diver­se forme di operosità scientifica e didattica:

è cosa ingiusta che abbiano uguale rimunerazione quegli insegnanti, i quali con sforzi di denaro e di studio tengono dietro a tutti i progressi della scien­za, contribuiscono a chiarire o scoprire molte veri­tà, e traversano nella mente dei giovani la loro dottrina. È una uguaglianza questa che diventa una vera ingiustizia, ed un danno gravissimo per gli studi e l’insegnamento19.

Venuto meno quel principio della concorren­za previsto dal sistema casatiano con la retri­buzione studentesca dei corsi ufficiali e priva­ti, la questione economica diveniva anche una questione di meriti, sollevando il proble­ma della ricerca e della definizione di più ade-

nomìa universitaria nello Stato liberale, Torino, Giappichelli, 1989; G. Luzzato, L'Università, in Giacomo Cives (a cura di), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 158-198; per una ricostru­zione delle discussioni attorno all’assetto legislativo nei primi anni postunitari si veda Simonetta Polenghi, La politica universitaria italiana nell’età della destra storica (1848-1876), Brescia, La Scuola, 1993; per un' analisi della questione universitaria nei suoi aspetti politici e amministrativi si vedano in particolare i contributi di I. Porciani, Lo Stato unitario di fronte alla questione dell'università., e Mauro Moretti. La questione universitaria a cinquant’anni dall’unifi­cazione. La Commissione Reale per il riordinamento degli studi superiori, in I. Porciani (a cura di), L'università tra Otto e Novecento, cit., pp. 133-183 e pp. 207-310.16 Sulle proteste suscitate dal taglio delle propine si veda A. Santoni Rugiu, Magnifici e Chiarissimi, cit., pp. 68-69.17 Rispetto a ciò si tenga presente che lo stipendio dei professori universitari, oltre ad essere il più basso d’Europa e destinato a rimanere tale fino al 1909, era inferiore a quello previsto per qualsiasi altro alto funzionario dello stato ita­liano, cfr. Tullio Martello, Mutatis Mutandis, “L’Università”, 1889, pp. 348-349; a questo proposito, utile anche il rin­vio alla tabella redatta da Gaetano Salvemini per un rapporto tra gli stipendi dei docenti superiori e quelli di funzionari laureati dello Stato, cfr. Gaetano Salvemini. Per la scuola e per gli insegnanti, in Lamberto Borghi, Beniamino Finoc- chiaro (a cura di), Scritti sulla scuola, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 12.18 Si vedano a questo proposito le osservazioni di T. Martello, Il professore d'università in Italia e aliestero, Firenze, Cellini, 1889, p. 21 e di P. Cogliolo, Melanconie universitarie, cit., p. 80.19 P. Cogliolo, Melanconie universitarie, cit., pp. 51-52.

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guati criteri di valutazione dell’operato dei professori20.

Oltre alle ripercussioni di carattere econo­mico, all’indomani dell’Unità l’intervento statale modificò profondamente lo stato giu­ridico della docenza universitaria e, attraver­so l’introduzione di nuove norme, allargò progressivamente il corpo accademico. Cam­biava radicalmente la posizione del docente straordinario che, grazie al conferimento di cattedre speciali, diveniva anch’esso profes­sore ufficiale, distinguendosi dagli ordinari soltanto in ragione di un più magro stipen­dio21. Anche la categoria del libero docente fu investita da rilevanti modifiche. Com’è no­to, già all’indomani della promulgazione del­la legge Bonghi (1875), autorevoli esponenti del mondo accademico avevano contestato la validità della libera docenza a causa dei fa­cili abusi a cui dava luogo, bastando una semplice firma dello studente perché l’iscri­zione venisse pagata dallo Stato al professo­re22. Si trattava tuttavia di critiche che erano ben lontane dal sostenere l’abolizione dell’in­segnamento privato. Negli anni successivi al­la legge Bonghi, dalla docenza superiore do­veva alzarsi, in sua difesa, un coro di voci

che ne rivendicavano l’importante funzione culturale ed educativa e chiedevano un ripri­stino del vecchio sistema di retribuzione dei corsi23. La questione degli abusi si sarebbe tuttavia ben presto rivelata come un proble­ma che non riguardava unicamente un grup­po di liberi docenti imbroglioni. Vale la pena ricordare come, da un punto di vista norma­tivo, in realtà la questione della docenza pri­vata non si prestasse a generare confusioni o dubbie interpretazioni. La legge era molto chiara: i corsi a titolo privato potevano essere tenuti indistintamente da docenti privati, straordinari e ordinari soltanto su materie obbligatorie; i corsi cosiddetti liberi, ovvero su discipline non prescritte, potevano essere svolti a titolo privato unicamente da profes­sori ufficiali. Sebbene la legge lo vietasse esplicitamente, all’interno della categoria de­gli ordinari era tu tt’altro che fuor d’uso ripe­tere a titolo privato il corso dato a titolo pub­blico24. Un’inosservanza che di fatto veniva ad intaccare l’istituto della libera docenza, contravvenendo a quel principio della con­correnza su cui il sistema casatiano aveva fondato il diritto studentesco alla scelta dei professori25. In verità, doveva trattarsi di

20 A questo proposito si vedano le considerazioni di Angelo Mosso e Carlo Cantoni circa la necessità di ristabilire in Italia una diversa base alle carriere accademiche della docenza superiore in A. Mosso, L'Istruzione superiore in Italia, cit., pp. 481-482, e Carlo Cantoni, Professori e studenti nelle università italiane e nelle tedesche, “Nuova antologia”, 1886, pp. 30-49.21 Sulla posizione occupata dal professore straordinario nell’università italiana tra Otto e Novecento cfr. Luigi Einaudi, Per la dignità dell’insegnamento, in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (¡893-1925), Torino, Einaudi, 1959, pp. 211-215; Domenico Zanichelli, Piccole riforme nell’istruzione superiore, “Nuova antologia”, 1898, pp. 137-138.22 Si pensi alla posizione assunta da Pasquale Villari sulla libera docenza, una denuncia che doveva anticipare la celebre descrizione che, quasi trent’anni più tardi, Salvemini avrebbe fatto di Cocò all’università di Napoli, descrivendo nel 1909 su “La Voce” il percorso tipo di uno studente universitario dell’ateneo campano.23 Tra i molti interventi si veda A. Mosso, Le Università italiane e lo Stato, “Nuova antologia” , novembre 1884, pp. 72- 82; Id., L ’istruzione superiore in Italia, cit., pp. 697-698; T. Martello, La decadenza dell’Università italiana, discorso inau­gurale dell’anno accademico 1889-1890 dell’Università degli studi di Bologna, “L’Università”, 1889, p. 523; C. Cantoni, Professori e studenti, cit., pp. 38-39.24 Occorre osservare come in molti casi si trattasse di uno degli effetti della revisione del sistema casatiano sullo stato economico della docenza superiore. Incarichi e corsi liberi venivano in questo senso a costituire per molti professori ufficiali un modo per integrare lo stipendio ministeriale. Rispetto a ciò si veda, P. Cogliolo, Note minute, “L’Universi­tà” , 1888, p. 61; Anonimo, Incarichi e corsi liberi, “L’Università”, 1891, pp. 580-590; Luigi Miraglia, I corsi liberi se­condo la legge, “L’Università”, 1891, pp. 6-11; D. Zanichelli, Piccole riforme nell’istruzione, cit., p. 441.25 A questo proposito, si vedano le considerazioni di Carlo Cantoni già nel 1881; insostenibile era, a suo avviso, la con­correnza del professore ufficiale, a cui venivano dati i corsi liberi più numerosi, perché gli studenti sceglievano in ragio-

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un abuso ampiamente tollerato, essendo lo stesso Consiglio superiore interessato ad im­primere alla libera docenza un indirizzo di­verso da quello originario: infatti ad essa, con sempre maggior frequenza, venne attri­buito il carattere di insegnamento speciale o monografico, pur non consentendo la legge docenze private in discipline diverse da quelle impartite a titolo pubblico26. Se da un lato tale misura rappresentava un modo per in­crementare il numero degli insegnamenti, va tenuto presente, tuttavia, che il reclutamento dei liberi docenti non era disciplinato da nor­me precise e uniformi. Il conferimento del di­ritto all’insegnamento privato avveniva con facilità, per lo più prescindendo da una valu­tazione dei titoli scientifici, da prove scritte o didattiche. La nomina era strettamente vin­colata all’ottenimento del beneplacito da parte dei professori ufficiali della facoltà presso cui il Consiglio superiore aveva prece­dentemente concesso la docenza privata.

Nel già ricordato Congresso nazionale universitario, tenutosi a Milano nel 1887, i professori richiesero, tanto per i docenti uffi­ciali che privati, il ripristino del vecchio siste­ma di retribuzione dei corsi. Particolarmente articolato si presenta il complesso di propo­ste presentate relativamente ai meccanismi di avanzamento e reclutamento nelle carriere accademiche. Da questo punto di vista, sem­bra che venisse perseguito l’obiettivo di vin­colare il conferimento di nuove cattedre ed insegnamenti a norme legislative più precise e severe rispetto a quelle previste dai regola­

menti allora in vigore. Su questa base, il con­gresso deliberava che gli straordinari fossero nominati esclusivamente per concorso e che, soltanto dopo un periodo di prova, potessero divenire stabili27. Allo stesso tempo si propo­neva che il conseguimento della libera docen­za fosse vincolato ad un esame di abilitazione condotto da commissioni nominate con le stesse norme previste per quelle dei concorsi universitari. Da un lato le proposte tendeva­no a regolamentare due istituti, la libera do­cenza e l’insegnamento degli straordinari, che, come si è avuto modo di chiarire prece­dentemente, erano effettivamente oggetto di abusi e facilonerie; dall’altro non si poteva dire che fossero del tutto disinteressate. Si­gnificativa appare la richiesta, visto l’incre­mento delle cattedre verificatosi in tutte le fa­coltà, di aumentare il numero degli ordinari e di rivedere la legge che stabiliva la loro pre­senza all’interno delle università. Allo stesso tempo si cercava di conferire maggiori poteri ai professori ufficiali, stabilendo che la nomi­na delle commissioni esaminatrici fosse inte­ramente demandata alla facoltà presso cui la cattedra era stata messa a concorso.

Negli anni successivi, la questione delle re­tribuzioni sarebbe venuta ad occupare un po­sto sempre più importante sulle pagine della rivista della Società dei professori. Sul finire degli anni ottanta nuovi motivi di contesta­zione emergono nell’accesa polemica aperta da Tullio Martello sulla condizione del pro­fessore universitario in Italia28. Membro del comitato promotore del convegno nazionale

ne dell’autorità dei titolo e, soprattutto, considerando che con lui avrebbero sostenuto gli esami obbligatori (C. Cantoni, La riforma universitaria, “Nuova antologia”, marzo 1881, p. 239).26 Cfr. L. Miraglia, 1 corsi liberi, cit., p. 7; Luigi Rossi, Una proposta per il riordinamento della libera docenza, “L’U­niversità” , 1891, pp. 257-264.27 A questo proposito va ricordato che la legge Casati assimilava gli straordinari a semplici incaricati che, in quanto tali, potevano continuare a svolgere funzioni accademiche soltanto se riconfermati. Successivamente, la conferma an­nuale sarebbe divenuta una pura formalità e, una volta trascorsi i tre anni di insegnamento, era raro che non fosse con­cesso il passaggio all’ordinariato.28 T. Martello, Il professore d ’università in Italia e all’estero, Firenze, Cellini, 1889, (estratto da “Rassegna nazionale” 1888). Sempre sullo stesso argomento e del medesimo autore si vedano anche i seguenti scritti, Mutatis Mutandis, cit., 346-350; La decadenza, cit., p. 525; Lo stipendio dei professori, “L’Università” , 1889, pp. 253-256.

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del 1887, questi identificava il problema prin­cipale dell’ordinamento universitario nella docenza superiore. Mettendo a confronto la condizione dei professori in Italia e all’estero, Martello rilevava l’inadeguatezza e la preca­rietà economica in cui i primi versavano ri­spetto ai colleghi europei. In effetti, nel con­fronto con le università straniere, ed in parti­colare con quelle della Germania, lo stipen­dio dei docenti italiani appare notevolmente più basso. Tale disparità di trattamento ven­ne sottolineata sulle pagine della rivista, che pubblicò una tabella analitica sugli stipendi dei professori tedeschi29. Si tenga presente che gli stipendi dei professori della università italiane, fissati dalla legge Matteucci nel 1862, erano di lire 1.000 (professore incarica­to), lire 3.000 (professore straordinario), lire5.000 (professore ordinario). La legge preve­deva inoltre l’aumento di un decimo ogni quinquennio.

In occasione dell’uscita del libro di Martel­lo, la rivista lamentò che la stampa italiana non avesse sostenuto la rivendicazione eco­nomica dei professori30, una scelta da ricon­durre, più che ad una semplice forma di disin­teresse, all’ animosità nei confronti della do­cenza superiore. Prova evidente era che, an­che in quei rari casi in cui si erano espressi, i giornali lo avevano fatto a discapito dei pro­

fessori, valutando inopportune ed infondate le loro pretese economiche31.

Nonostante i buoni propositi con cui la Società aveva inaugurato la propria attività, negli anni successivi non sarebbe riuscita a ri­spettare quel programma di periodicità an­nuale che si era inizialmente prefissata relati­vamente alla convocazione di un proprio convegno nazionale. Sebbene dalla rivista non trapelino evidenti segni di disaccordo al suo interno, il fatto che dopo il 1887 di con­tinuo vengano rimandate ulteriori occasioni di raduno nazionale e soprattutto la brusca interruzione, nel 1891, della pubblicazione del periodico fanno pensare all’insorgere di non poche difficoltà sul piano organizzativo.

La questione della docenza universitaria nei primi anni del Novecento

Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del nuovo secolo, l’assetto giuridico ed economi­co della docenza universitaria non conobbe sostanziali modificazioni. Delle proposte avanzate dal convegno nazionale del 1887 venne accolta soltanto quella relativa alle modalità di reclutamento dei professori straordinari. Ma, anche in questo caso, il parlamento si fece attendere: soltanto con

29 Cfr. la seguente tabella tratta da “L’Università” , 1888, p. 310:Stipendi minimi e massimi, calcolati in lire, dei professori delle Università della Germania nell'anno accademico 1887-1888

_ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ Berlino Bonn Breslavia Göttingen Greifswald Halle_____ Kiel Königsberg M arburg M ünster Braunsberg

Facoltà di Teologia ordinari 5625-12750Evangelica straordinari 1875-6000

Facoltà di ordinari 7500-11250Giurisprudenza straordinari 3375-3375

Facoltà di Medicina ordinari 4500-10500e Chirurgia straordinari 1875-4500

Facoltà Filosofica ordinaristraordinari

3750-150001125-6000

5625-87502500-3000

6250-7500 6250-90002500-3750

5250-75002500-2500

6250-90002250-3500

6750-97502250-2250

6250-8750 5000-157502625-2625

6000-750047504750

5000-7500

5625-90001250-3750

4625-90002250-3000

4500-8250825-3750

5000-71252250-3500

5250-93753000-3000

3000-131252250-3750

4500-90001875-3750

1875-112501125-4500

3500-73202175-3500

5000-?1125-4125

5000-6875 2500-7500 6000-9000 3500-6500 3750-60002750-2750 3000-3750 - 2750-3000 -

4375-6750 6750-7500 4375-8250 _ _

1875-2500 - 3000-3500 - -

3750-7500 5000-8750 5000-7500 _ _

3375-3560 2250-3750 2250-3500 - -

4500-7500 4375-8250 4375-10000 4375-6750 4500-60002500-3000 2875-3750 2300-3500 2250-3000 —

30 Si vedano gli interventi pubblicati su “L’Università”, 1889, pp. 559-570, relativamente alle reazioni suscitate dallo scritto di Martello sulla condizione economica della docenza superiore.31 Cfr. “L’Università” , cit., p. 569.

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la legge del 12 giugno 1904 si stabilì che la no­mina degli straordinari potesse avvenire uni­camente per concorso. Nell’anno successivo, un ulteriore provvedimento legislativo rego­lamentò il passaggio all’ordinariato, vinco­landolo ad un triennio di insegnamento e alla presentazione di nuovi titoli scientifici (legge dell’8 giugno 1905).

Nonostante dal mondo accademico conti­nuassero a provenire numerose richieste di revisione dell’istituto della libera docenza, tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio della guerra il suo assetto sarebbe rimasto sostan­zialmente invariato. Tuttavia, già durante i primi anni novanta, sulla questione doveva­no intervenire sia il ministero della Pubblica istruzione che il Consiglio superiore, che presentò un progetto di riforma mirante a ridefinire la docenza privata32. Ad essa veni­va attribuita la doppia funzione di insegna­mento parallelo a quello ufficiale e di inse­gnamento complementare, prevedendo una retribuzione nel primo caso da parte dello Stato, nel secondo a carico degli studenti33. La proposta finiva sostanzialmente per re­golamentare sul piano giuridico una funzio­ne che in realtà, come abbiamo precedente- mente visto, era già entrata nella prassi. Du­rante gli stessi anni, con circolari e decreti il ministero della Pubblica istruzione cercò di introdurre una serie di normative miranti a disciplinare maggiormente l’istituto e il re­clutamento degli insegnanti privati: richia­mandosi all’articolo 93 della legge Casati, il regio decreto del 1891 non si limitava a re­golamentare, ma cercava anche di conferire maggior dignità al docente privato ricordan­do come il suo insegnamento avesse “valore

uguale a quello del professore ufficiale” , purché a questo si equiparasse per estensio­ne della materia e per numero delle ore. Si stabiliva, inoltre, che il conseguimento della libera docenza fosse vincolato ad un concor­so per titoli o esame da demandarsi ad una commissione presieduta dal preside della fa­coltà e composta da professori sia interni che esterni. In realtà, in mancanza di una ri­forma radicale ed organica, l’istituto della li­bera docenza rimase, almeno fino allo scop­pio della guerra, privo di un assetto chiaro e definito, tanto da alimentare alla Camera, per tutto il primo decennio del nuovo seco­lo, un continuo ricorso a interpellanze che denunciavano una sostanziale inosservanza delle norme relative al conferimento della li­bera docenza, e la presentazione di numero­se proposte di legge allo scopo di introdurre regole più precise e severe.

La condizione di subalternità e di precarie­tà in cui versava in Italia la docenza privata doveva favorire al suo interno la nascita di movimenti di rivendicazione morale ed eco­nomica prima che in altre categorie di profes­sori superiori. Già sul finire degli anni novan­ta, essa approdava a forme collettive di pro­testa con la fondazione a Roma, nel 1895, per iniziativa dello stesso Ruggero Bonghi, di una Associazione nazionale tra i liberi do­centi34. Sorta allo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero e promuoverne gli interessi sia morali che materiali, negli anni successivi essa sarebbe stata interessata da un progressivo consolidamento organizzati­vo, fino a dar vita, nel 1905, ad una Federa­zione delle associazioni dei liberi docenti, con sedici sezioni presenti nei diversi centri

32 Per una storia del Consiglio superiore della pubblica istruzione (assetto normativo, funzioni e composizione) si veda Gabriella Ciampi, Claudio Santangeli (a cura di), Il Consiglio superiore della pubblica istruzione 1847- 1928, Roma, Uf­ficio centrale per i beni archivistici, 1994.33 A questo proposito, va osservato come la proposta di retribuzione studentesca dei corsi su materie complementari sarebbe stata da alcuni interpretata come il prodotto di una visione dell’insegnamento superiore tendente a svalutare il peso da questo esercitato sulla formazione dello studente, in particolare si veda L. Rossi, Una proposta per il riordi­namento della libera docenza, “L’Università”, 1891, p. 258.34 Cfr. Statuto dell'Associazione nazionale fra liberi docenti, Roma, Tip. Fratelli Centenari, 1898.

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universitari italiani e circa settecento soci35. Al suo interno svolse un ruolo di primo piano in qualità di consigliere della federazione uno dei più autorevoli ed impegnati avvocati so­cialisti del tempo, il penalista Adolfo Zerbo- glio, che si era dedicato all’insegnamento pri­vato tra il 1894 e il 19IO36. Rispetto a ciò vale la pena ricordare come, già sul finire degli an­ni ottanta, alcuni esponenti socialisti, nel ri­vendicare l’importante funzione culturale ed educativa svolta dalla libera docenza, entra­rono in aperta polemica con i professori uffi­ciali. In occasione della presentazione alla Camera nel 1889 del disegno di legge sull’au­tonomia universitaria, Enrico De Marinis giunse perfino a sostenere, oltre al ripristino del vecchio sistema di retribuzione dei corsi, l’audace progetto di abolizione di ogni inse­gnamento ufficiale. Alla questione dell’auto­nomia, intesa come “libero agone di scolari e maestri” , il De Marinis connetteva stretta- mente quella della libera docenza, dal cui svi­luppo dipendeva a suo avviso il futuro del­l’intera università italiana, non riponendo egli alcuna “fiducia nell’esercizio della liber­tà, data nelle mani della casta chiusa dei pro­fessori universitari”37.

All’indomani della revisione del sistema casatiano, diverse forme di dissenso attra­versano il mondo accademico, ma non sem­brano riuscire a coagularsi in un più ampio e consapevole movimento di protesta. Tale ri­tardo forse si spiega con quella mancanza di

“spirito di classe” indicata, già sul finire de­gli anni ottanta, da Pietro Cogliolo come una delle caratteristiche di fondo del corpo accademico italiano38. Soltanto nel 1905, i professori universitari giunsero alla fonda­zione di una associazione con lo scopo di “promuovere quanto può conferire al pro­gresso degli studi superiori, alla regolare funzione della scuola universitaria, al mi­glioramento degli Atenei; di tutelare i diritti e i legittimi interessi del Corpo accademi­co”39. Le questioni della riforma dell’istitu­to della libera docenza e del miglioramento dello stato economico degli insegnanti uni­versitari furono poste al centro dei primi due congressi, tenutisi rispettivamente a Roma e a Milano nel 1905 e nel 1906, perché si considerarono come i due provvedimenti più urgenti ai fini di un risanamento dell’or­dinamento universitario40. Per quanto ri­guarda la prima, cominciò a farsi strada la richiesta di sopprimere il diritto di tutti i professori ufficiali di esercitare l’insegna­mento privato. Tale richiesta negli anni suc­cessivi venne a costituire uno dei punti fermi nella battaglia condotta dalla parte più im­pegnata del mondo accademico italiano per un riordino della libera docenza. Rispet­to alla questione economica, nessun provve­dimento fu preso, mentre miglioramenti fu­rono concessi, durante i primi anni del No­vecento, agli insegnanti medi e ad altre cate­gorie impiegatizie. Di conseguenza la prote-

35 Per queste informazioni si veda Guida Monaci di Roma e provincia, Roma, anno 1906, ad indicem.36 In proposito vorrei richiamare l’attenzione su come, nel periodo compreso tra il 1892 e il 1914, il gruppo dei docenti universitari socialisti, eletti in parlamento, risulti essere particolarmente toccato dalla questione della docenza privata. L’accesa battaglia da essi condotta per una riforma dell’istituto va in tal senso valutata anche in relazione alla presenza al suo interno di un numero rilevanti di liberi docenti (su un totale di 65, questi risultano rappresentare più del 55 per cento, mentre gli ordinari soltanto il 14 per cento). Per una analisi delle carriere accademiche dei professori socialisti mi permetto di rinviare alla mia tesi di dottorato in Storia dei partiti e dei movimenti politici, Università di Urbino (1991- 1994), dal titolo “Socialismo e intellettuali di partito (1892-1914)”.37 Cfr. Esmoi, Attività parlamentare dei socialisti italiani, Roma, Edizioni Esmoi, 1967, voi. I, pp. 481-482.38 P. Cogliolo, Melanconie universitarie, cit., p. 43.39 Si veda lo Statuto dell'Associazione Nazionale fra i professori universitari, Padova, Prosperini, 1905.40 Per una relazione sui primi due congressi dell’Associazione nazionale dei professori universitari si veda D. Zanichelli, Per i professori universitari, “Nuova antologia”, novembre 1906, p. 466; Un Congresso di professori universitari, “Il Mar­zocco”, 20 agosto 1906, n. 34.

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sta dei professori andò assumendo toni sem­pre più accesi, incontrando talvolta anche il favore della stampa periodica. Particolar­mente schierato in questo senso il “Leonar­do” : oltre a sostenere senza mezzi termini la rivendicazione economica della docenza su­periore, minimizzava le accuse rivolte ai professori ufficiali, affermando che c’era stata “ molta esagerazione circa i modi in cui questi integrerebbero gli stipendi con in­carichi e corsi liberi”41. Più cauto l’atteggia­mento tenuto da “ Il Marzocco” che, pur considerando legittime le ragioni dei profes­sori, risollevava la vecchia questione dell’e­sistenza all’interno delle università italiane di forme diverse di operosità didattica e scientifica, individuando la soluzione del problema in una retribuzione diversificata sulla base di una valutazione dei meriti42.

Durante il biennio 1908-1909, in occasio­ne della presentazione alla Camera dei pro­getti di riforma Rava sull’ordinamento supe­riore, la questione della docenza universita­ria sarebbe esplosa in tutta la sua gravità. Le problematiche e le rivendicazioni, che avevano iniziato ad affiorare già all’indoma­ni della revisione del sistema casatiano, si saldarono tanto da rendere più difficile una definizione della natura e dell’operato del corpo accademico italiano. In quale misura, ad esempio, il problema della scarsa operosi­tà didattica della docenza superiore era im­putabile al disagio e alla precarietà economi­ca, o quanto era piuttosto il prodotto di un ormai consolidato malcostume universita­rio? E che dire degli abusi commessi dai pro­fessori ufficiali nel monopolizzare incarichi e corsi liberi, ostacolando in questo modo le carriere dei più giovani, o ancora del rigido controllo da questi esercitato sulle commis­sioni esaminatrici? Da questo punto di vista, a ragione si può ritenere che sul finire dell’età

giolittiana l’università fosse pienamente in­vestita da una questione di carattere morale. Un fatto tu tt’altro che marginale se si pensa che in quegli anni alcuni ambienti intellet­tuali andavano convincendosi della necessità di una rinascita nazionale proprio a partire da una riforma morale della vita politica, so­ciale e culturale del paese. Fu significativo da questo punto di vista che, già durante l’anno 1904, proprio una rivista come “ Il Regno” entrò in aperta polemica con il mondo acca­demico, intervenendo sulla questione degli abusi commessi nei concorsi universitari43. Il giudizio espresso fu in questo senso estre­mamente duro e sprezzante: l’ordinamento superiore veniva definito come il prodotto di una “nazione prossima alla putrefazione morale [...] dove la moralità è diventata furi­bonda” . Considerando gli stretti rapporti tra carriera universitaria e carriera politica, la rivista denunciava come molto spesso la pri­ma costituisse un mezzo per facilitare l’in­gresso in parlamento e, inoltre, coglieva uno dei punti di maggior debolezza della protesta dei professori, segnalando la con­traddizione di fondo: infatti, si accusava la classe politica italiana di non essere in grado di operare una riforma organica ed efficace dell’ordinamento superiore, senza rilevare tuttavia che molti erano i professori univer­sitari che sedevano in parlamento. Analiz­zando la questione con l’atteggiamento con­diviso anche da altre riviste del primo Nove­cento, incline ad accentuare gli elementi di tensione piuttosto che ad individuare possi­bili soluzioni, “ Il Regno” coglieva il nodo del problema nel cattivo rapporto tra Stato e università, nettamente sbilanciato a favore del primo che di continuo interferiva nella vita universitaria, nominando i suoi profes­sori e portandovi i propri interessi di caratte­re amministrativo e politico.

41 Cfr. Lorenzo Michelangelo Billia, Professori d ’università a mille lire al mese, “Leonardo”, aprile-giugno 1907.42 I professori universitari alla conquista dei miglioramenti economici, “Il Marzocco”, 21 ottobre 1906, n. 42.43 Cfr. Congiure dei professori, “Il Regno” , 13 marzo 1904, n. 16.

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La prima legge Rava

Come già si diceva, durante il 1908, con la presentazione alla Camera del disegno di leg­ge Rava, la questione della docenza superiore sarebbe stata per la prima volta oggetto di un più organico progetto di riforma. Obiettivo primario del disegno di legge sembrava essere quello di disciplinare il conferimento degli in­segnamenti ai professori e, in particolare, alla categoria degli ufficiali, stabilendo ruoli or­ganici per tutti i docenti, vietando agli ordi­nari di tenere corsi liberi e incarichi retribuiti per materie complementari, introducendo il divieto di coprire i posti di straordinario e or­dinario in più istituti. Prevedeva, inoltre, l’a­bolizione del vecchio sistema del ruolo unico per facoltà, introducendo otto ruoli per tutti i professori ufficiali e straordinari di materie fondamentali. Affidava al governo il compito di determinare il numero fisso di docenti uffi­ciali e straordinari, disponendo, inoltre, che il passaggio alfordinariato potesse avvenire per quattro quinti con la promozione di straordinari stabili e per un quinto su nomina del ministro in base al noto art. 69 della legge Casati. Il progetto di legge mostrava, dun­que, una netta inversione di tendenza rispetto alforientamento dell’intervento statale del periodo postunitario che, come abbiamo vi­sto, aveva mirato ad un progressivo allarga­mento del corpo accademico. Un altro ele­mento di novità del progetto Rava era rap­presentato dall’introduzione della netta di­stinzione tra materie complementari e fonda- mentali. Ma soprattutto il disegno contem­plava una revisione dello stato economico dei professori, soddisfacendo in questo modo a una richiesta che, come si diceva, aveva fi­nito con l’occupare un posto centrale nella battaglia condotta dall’associazionismo pro­fessorale.

Tuttavia, almeno per il 1908, le speranze del mondo accademico di trovare una solu­zione parlamentare al problema economico della docenza superiore sarebbero rimaste deluse. Nel giugno di quell’anno, la discus­sione alla Camera del progetto di aumento salariale in favore dei professori universitari sollevò non poche polemiche, suscitando, pe­raltro, un tale fermento nell’aula da provoca­re lo scioglimento della seduta44. A creare questo clima di tensione contribuì in partico­lare l’acceso discorso pronunciato dall’avvo­cato socialista Giacomo Ferri contro le ri­chieste retributive avanzate dai professori. In verità, al di là del tono apertamente pole­mico e provocatorio del suo intervento, ciò che sostanzialmente chiedeva il deputato so­cialista era una maggior regolamentazione del lavoro dei docenti superiori:

se è doveroso elevare le condizioni economiche dei professori, è dovere nostro pretendere dai profes­sori universitari il lavoro [...] Noi diciamo ai pro­fessori: prima di domandare aumenti di stipendio, dateci dei corsi che valgano lo stipendio che perce­pite!45 .

Di qui la proposta di fissare un tetto annuo di lezioni non inferiore alle 50, nonché l’obbligo per i docenti di registrare quelle effettivamen­te svolte sul bilancio annuale del ministero della Pubblica istruzione. Approdava cosi al­la Camera una questione da tempo denuncia­ta da attenti critici e osservatori dell’ordina­mento superiore e ben conosciuta peraltro dallo stesso parlamento. Ne è prova evidente l’ironica considerazione di Giovanni Giolitti: la proposta di stabilire un tetto annuale di le­zioni poteva essere interpretata dai professori come un divieto a non tenerne più di 5046.

All’indomani della bocciatura del progetto Rava sullo stato economico della docenza

44 Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, Legislatura XXII, 2® tornata, 29 giugno 1908, pp. 23850-23868.45 Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, Legislatura XXII, cit., pp. 23858-23859.46 Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, Legislatura XXII. cit., p. 23864.

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universitaria, la reazione dei professori uni­versitari sarebbe stata tutt’altro che morbida. Gran parte degli atenei italiani furono inve­stiti dalle loro agitazioni, che talvolta arriva­rono a soluzioni estreme come la presentazio­ne delle dimissioni da parte degli organi acca­demici, o la sospensione dagli incarichi in at­tesa di nuovi provvedimenti ministeriali47.

Di fronte alla protesta dei professori, l’at­teggiamento tenuto da alcune delle maggiori testate nazionali, “ Corriere della sera” e “Giornale d’Italia” , fu sostanzialmente cau­to. Se da un lato, infatti, si riconosceva che alla docenza superiore non mancavano ra­gioni per provare del risentimento nei con­fronti della classe politica italiana, dall’altro, si considerava esagerato il significato attri­buito dai professori al voto contrario, essen­do troppo inclini a vedervi una manifestazio­ne del disprezzo dei politici per la cultura48. Da questo punto di vista la bocciatura veniva spiegata con il riflesso di un dissenso creatosi attorno a Rava per il suo presunto coinvolgi­mento nell’affare Reserve, ma soprattutto con la sostanziale deficienza e inadeguatezza del suo progetto di riforma. I quotidiani con­cordavano poi nel sostenere eccessive ed inopportune le forme di protesta adottate dai professori, a cui suggerivano di scegliere soluzioni più adeguate al loro ruolo, anzitut­to avviando una riflessione attenta e seria sulla questione universitaria.

Era dunque ferma opinione del “Corriere della sera” e del “Giornale d’Italia” che il vo­to fosse stato mal interpretato dai professori, che i deputati non avessero agito deliberata­

mente contro di questi, né avessero tenuto particolarmente conto delle accuse lanciate da Giacomo Ferri con il suo discorso alla Ca­mera. Nelle lettere di protesta, pubblicate dal “Giornale d’Italia” , molti professori mostra­rono un forte risentimento nei confronti del deputato socialista49, col rischio, non ignora­to nemmeno dal partito, che le responsabilità maggiori della mancata approvazione della legge sul miglioramento dello stato economi­co della docenza superiore potessero ricadere principalmente sul gruppo parlamentare so­cialista. Sulla questione interveniva l’“Avan- ti!” con una serie di articoli tesi a giustificare e chiarire le ragioni del voto negativo espres­so dal gruppo parlamentare socialista, riba­dendo come la bocciatura, peraltro ottenuta con 145 voti contro 101, si ispirasse ad una “concezione democratica della scienza” 50. Da questo punto di vista era ferma convin­zione che il disegno di legge andasse respinto per il fatto che esso “migliorava la posizione dei professori universitari ma, in corrispetti­vo, non chiedeva a questi nessuna nuova ga­ranzia di sapere e di diligenza” 51. L’arduo compito di difendere la posizione socialista di fronte al corpo accademico italiano fu co­munque assunto dallo storico Ettore Ciccot- ti. In un articolo in due puntate sul quotidia­no socialista, egli chiariva come la questione presentasse a suo avviso due lati, uno “tecni­co” ed uno “politico”52. Sul piano dell’attivi­tà scientifica, lo storico riconosceva che, ge­neralmente, il corpo accademico fosse “tecni­camente” migliorato rispetto a quarant’anni prima quando, “ reclutato in modo molto ir-

47 Rispetto a ciò si veda Fiere proteste dei professori universitari, “Giornale d’Italia”, 5-6 luglio 1908; L'agitazione dei professori, “Corriere della sera”, 3-4 luglio 1908.48 Cfr. L'agitazione e le proteste dei professori universitari. La via d ’uscita, “Corriere della sera”, 7 luglio 1908; “Gior­nale d’Italia” , 1° luglio 1908.49 Cfr. “Giornale d’Italia” , 3-4 e 6 luglio 1908.5U Cfr. Perché i socialisti hanno dato la palla nera, “Avanti!”, 1° luglio 1908.51 Perché i socialisti, cit. In difesa del voto contrario espresso dal gruppo parlamentare intervenne sulle pagine del quo­tidiano, con una lettera al direttore, anche Ruggero Panebianco, L'agitazione universitaria, “Avanti”, 17 luglio 1908, denunciando la scarsa operosità didattica di molti professori universitari.52 Cfr. Ettore Ciccotti, Il pronunciamento dei professori, “Avanti!”, 10 e 12 luglio 1908.

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regolare, presentava accanto a uomini gran­deggiati per forza di pensiero, altri privi di ogni attitudine e preparazione”53. Ma il suo giudizio si faceva estremamente severo ri­guardo all’“attività morale” dei professori:

un po’ per colpa del gretto ambiente in cui vivono, un po’ anche per i mezzi impari alla loro condizio­ne e alle loro aspirazioni, essi vengono a vivere una vita che riesce qualche volta di una parvità morale disperante. Il parteggiare tra le fazioni accademi­che, il lavorio di retroscena per la corruzione delle commissioni, i maneggi elettorali per la nomina del consiglio superiore, il trigare per entrare nelle accademie, queste ed altre cose assorbono l’attivi­tà di molti e li rendono estranei alle grandi que­stioni e qualche volta anche servili verso tutti gli investiti di cariche pubbliche e di potere54.

Quella parte del corpo accademico che era andata rivendicando il miglioramento della propria condizione si era cosi trovata, da un lato, a dover fare i conti con una mancan­za di solidarietà da parte della sua stessa clas­se e, dall’altro, in una posizione fortemente contraddittoria rispetto al suo tradizionale atteggiamento ossequioso nei confronti delle autorità politiche. Di qui il riconoscimento del “ lato politico” della questione, nonché il larvato rimprovero per non aver saputo dar vita ad una vera e propria organizzazione di classe.

Di fronte alla condizione del professore universitario, la posizione assunta dal grup­po parlamentare socialista fu dunque quella di farsi sostenitore di un movimento di rifor­ma morale dell’istruzione superiore. La solu­zione della questione economica veniva in questo senso strettamente connessa al risana­mento del corpo accademico che avrebbe do­

vuto sottoporre la sua operosità, tanto scien­tifica che didattica, ad un più attento control­lo e ad una più efficace regolamentazione. Rispetto a ciò va comunque osservato che uno dei limiti maggiori di questa posizione fu la sostanziale sottovalutazione del proble­ma della tutela economica, in particolare dei professori di discipline umanistiche. Si pensi a questo proposito al feroce attacco di Gae­tano Salvemini al gruppo parlamentare so­cialista, accusato di aver colpito con il voto contrario la fascia più debole del corpo acca­demico italiano:

Caro Bissolati, uno dei motivi per cui tu non hai esitato ad aggiungere la tua palla nera a quella dei molteplici Guerci della maggioranza giolittia- na contro la legge universitaria, è che molti pro­fessori con l’attività extrascolastica realizzano guadagni così lauti che sarebbe fuor d’opera au­mentar loro gli stipendi. Molti? Fra i duecento universitari della Facoltà di lettere, a cui appar­tiene il sottoscritto, temo che non ne incontrere­sti parecchi55.

A pochi giorni di distanza dalla bocciatura del progetto Rava, l’Associazione nazionale dei professori universitari si riunì per decide­re sulla posizione da assumere di fronte agli ultimi avvenimenti. Con il primo punto al­l’ordine del giorno, l’assemblea esprimeva il proprio disappunto con un voto di sfiducia nei confronti del ministro Rava, che non era riuscito a sostenere56 la richiesta di au­mento salariale da tempo rivendicata. Infatti durante la seduta, al di fuori della questione economica, non fu discusso nessun altro pun­to del disegno di legge. Anzi, con il terzo or­dine del giorno, prendendo posizione nei confronti di quanti avevano colto le ragioni

53 E. Ciccotti, II pronunciamento dei professori, cit.54 E. Ciccotti, Il pronunciamento dei professori, cit.55 G. Salvemini, Abbasso le Università!, “Nuovi doveri” , 30 luglio 1908, poi in ld., Scritti sulla scuola, cit., p. 769; si vedano anche le affermazioni del sociologo socialista Alfonso Asturaro, alfindomani della bocciatura del progetto, cir­ca il grave danno recato alla scienza dalle scarse entrate economiche, cfr. Alfonso Asturaro, Per la riforma universitaria. Pareri ed appunti, “Nuova antologia”, ottobre 1908, pp. 149-150.56 Per un resoconto delle sedute cfr. “Corriere della sera”, 10 luglio 1908.

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della bocciatura nella sostanziale inadegua­tezza e deficienza del progetto, l’assemblea ri­badiva con forza il diritto dei professori ad un miglioramento dello stato economico. Ri­spetto a ciò era ferma convinzione che la que­stione economica dovesse essere risolta indi­pendentemente dalla realizzazione di una ri­forma dell’ordinamento. L’assemblea, inol­tre, si dichiarava contraria a inchieste parla­mentari che facessero luce sul funzionamento dell’ordinamento superiore. Di fronte ad un simile atteggiamento, aspre e severe critiche nei confronti dell’Associazione nazionale dei professori universitari non tardarono ad arrivare. In particolare, venivano da una del­le riviste culturali più note e accreditate del primo Novecento, “ Il Marzocco” , che già partire dai primi mesi del 1908 aveva ospitato sulle sue pagine un vivace dibattito sul dise­gno di legge. Durante i disordini di luglio, la rivista teneva a chiarire ai propri lettori la posizione assunta, precisando che, anche se in passato aveva sostenuto la battaglia di rivendicazione economica condotta dalla do­cenza superiore, “ Il Marzocco” non aveva mai creduto che tale questione potesse essere disgiunta da una riforma dell’ordinamento superiore57.

Ad aprire sulla rivista la discussione sul di­segno ministeriale fu Girolamo Vitelli, pro­fessore di letteratura greca presso l’Istituto di studi superiori di Firenze58. Pur non rite­nendo organico il progetto di riforma dell’or­dinamento superiore, Vitelli non mancava tuttavia di riconoscere come questo, miglio­rando la condizione economica dei professori e ponendo un freno a “la corsa delle cattedre universitarie” , tentasse per lo meno di risol­vere due dei più gravi ed urgenti problemi che affliggevano il sistema superiore. Espri­

meva invece un giudizio decisamente negati­vo riguardo alla distinzione che il progetto introduceva tra materie fondamentali e complementari, non precisando la legge né su quali criteri si fondasse tale distinzione, né che trattam ento venisse riservato alle materie facoltative. Dietro tale critica si in­dovinava un atteggiamento di sfiducia nei confronti delle classe politica che da tempo caratterizzava almeno una parte del corpo accademico italiano. A suo avviso grande era l’incompetenza di una “ Camera e [di un] Senato incapaci di riconoscere i bisogni della scienza” . Tuttavia, al di là delle per­plessità sollevate, va detto che la proposta ministeriale favoriva la riapertura del dibat­tito sugli aspetti formativi ed educativi della questione universitaria59. Significativo, a questo proposito, l’articolo di Angiolo Or­vieto apparso nello stesso anno sulle pagine del “Marzocco”60. L’intervento rappresen­tava il punto di vista non solo del suo auto­re ma della rivista stessa, visto che egli era tra l’altro, insieme al fratello Adolfo, fonda­tore del periodico. La soluzione proposta da Orvieto, esplicitamente indicata già nel tito­lo Torniamo alla Legge Casati!, che suona come un vero e proprio appello rivolto al mondo culturale, riprendeva un tema certo non nuovo. Abbiamo visto come, già duran­te l’ultimo ventennio del secolo, la parte più attiva ed impegnata del corpo accademico concordava nel riconoscere la superiorità del sistema casatiano, attribuendo agli in­terventi successivi la responsabilità di aver reso più complessa la questione universita­ria. Sul finire dell’età giolittiana, a riportare l’attenzione sugli aspetti educativi del siste­ma superiore contribuì inoltre la pubblica­zione del volumetto di Carlo Formichi, pro­

57 Cfr. La legge universitaria respinta, "Il Marzocco”, 5 luglio 1908.58 Girolamo Vitelli, La nuova legge universitaria, “ Il Marzocco”, 26 gennaio 1908.59 In questa direzione si sarebbe peraltro sviluppata la riflessione avviata dallo stesso Vitelli sui problemi dell’ordina­mento superiore: cfr. G. Vitelli, Pessimismo universitario,“Il Marzocco”, 29 marzo 1908.611 Angiolo Orvieto, Torniamo alla Legge Casati!, “Il Marzocco”, 8 novembre 1908.

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fessore di Sanscrito presso l’ateneo di Pi­sa61. L’autore individuava il male maggiore dell’ordinamento superiore, il suo tarlo ap­punto, nella obbligatorietà di iscrizione ai corsi, che comportava a suo avviso una pe­ricolosa sottovalutazione del ruolo che sul piano formativo potevano svolgere le mate­rie complementari. Tale analisi mostrava di avere non pochi punti di contatto con la po­lemica di fine Ottocento sull’università ita­liana quale “fabbrica di professionisti”e ri­conosceva la modernità della legge Casati, che attribuiva all’istruzione superiore un doppio fine, sia pratico che scientifico. Ed era sulla base di considerazioni di questo ti­po che Angiolo Orvieto rivolgeva il suo ap­pello per un ritorno alla legge Casati, un ri­torno che per il mondo accademico signifi­cava tornare a “combattere per la libertà degli studi [...] per la restaurazione di un ve­ro e disinteressato insegnamento superio­re”62. Nel programma di riforma proposto da Orvieto sono presenti tutti i motivi della battaglia condotta sul finire del secolo dalla parte più impegnata del corpo accademico italiano per un riordino del sistema superio­re: la creazione di una grande facoltà di Fi­losofia, l’istituzione degli esami di stato, l’a­bolizione degli esami speciali in favore di un esame generale di laurea, la libertà di iscri­zione e di studio.

Lo stesso Carlo Formichi pubblicò sulle pagine della rivista un intervento molto aspro nei confronti del corpo accademico ita­liano63. Se il problema centrale dell’universi­tà risiedeva nella sue carenze e inadeguatezze formative, era ferma convinzione del Formi- chi che alla docenza superiore andavano at­

tribuite le responsabilità maggiori. Il corpo accademico veniva meno alla sua funzione primaria, ovvero quella di educatore, “non facendo le lezioni o facendole con metodo ed intenti che non aggueriscono gli studenti, che non preparano i nostri giovani alla lotta per la vita, non formano di essi buoni e valen­ti professionisti” . Si trattava di una critica ra­dicale al funzionamento del sistema superio­re, i cui mali avevano origine nella questione morale che aveva ormai investito il mondò accademico. Più o meno sullo stesso tono l’articolo, comparso sul finire dell’anno, di Antonino Anile, professore di Anatomia comparata presso l’ateneo di Napoli, il cui intervento sembra però distinguersi per un pessimismo più radicale circa le possibilità di elaborazione in Italia di un programma di riforma globale sull’ordinamento universi­tario:

La baraonda della coltura superiore è tale che sembra impossibile trovare una via di uscita. Il Marzocco non ha torto a proporre, come primo ri­medio, un ritorno alla Legge Casati, che se gli or­dinamenti delle nostre università si liberassero del­la grave mora delle circolari dei Ministri insipienti [...] le cose andrebbero molto meglio64.

In ultima analisi, la polemica di Anile non era tanto diretta contro la classe politica ritenuta incapace di riformare l’ordinamento superio­re, quanto contro il profondo e diffuso mal­costume del corpo accademico:

I professori ufficiali rappresentano, tranne lode­voli eccezioni, la classe più pronta a far lecito di ogni libito. Per loro non sono né freni, né control­lo65.

61 Carlo Formichi, Il tarlo delle università italiane, Pisa, Tipografia Editrice Mariotti, 190862 A. Orvieto, Torniamo alla Legge Casati cit.63 C. Formichi, Aboliamo la Legge Casati!, “Il Marzocco”, 22 novembre 1908. Con questo titolo, polemicamente, For­michi osservava come in realtà molti professori fossero fermamente ostili alla legge Casati in quanto “contraria ai loro interessi personali”.64 Antonino Anile, È possibile m a riforma universitaria?, “Il Marzocco” , 6 dicembre 1908.65 A. Anile, È possibile una riforma, cit.

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In difesa dei professori intervenne sulle pagi­ne della rivista Paolo Emilio Pavolini, docen­te di Sanscrito presso l’università di Firenze, persuaso che le critiche mosse da Anile alla docenza superiore fossero esagerate e gover­nate da un eccessivo pessimismo66. All’inter­no dell’università italiana certamente esiste­va “ la cricca degli intriganti e imbroglioni, dei disonesti e negligenti” , ma questa rappre­sentava, diversamente da quello che aveva voluto far credere Anile, “ un’infima mino­ranza di fronte al numero di quelli che fanno il loro dovere e nulla hanno da rimproverar­si” . Tuttavia Pavolini ammetteva che l’Asso­ciazione nazionale dei professori universitari, con le sue più recenti prese di posizione aveva profondamente deluso le speranze di quanti fiduciosi erano entrati nelle sue file. L’Asso­ciazione da questo punto di vista, a suo avvi­so, era ormai completamente delegittimata a rappresentare il corpo accademico che, tutta­via, si augurava potesse risorgere in una nuo­va e “più sana” Società impegnata prima di tutto a chiedere una rigorosa inchiesta sull’o­perato dei professori in quanto scienziati, in­segnanti e commissari d’esame67.

La seconda legge Rava

Il 1908 rappresentò, come si è visto, per l’i­struzione superiore un anno per niente positi­vo, che si chiudeva con il definitivo fallimen­to del progetto di riforma Rava e con l’entra­ta in crisi dell’Associazione nazionale dei professori universitari. Tuttavia, già nel cor­so dell’anno successivo, alla Camera fu pre­sentato un nuovo disegno di legge sull’ordi­

namento superiore. Il secondo progetto di ri­forma Rava era sostanzialmente privo di mo­dificazioni di rilievo rispetto a quello presen­tato durante l’anno precedente. A proposito della questione disciplinare (controllo sull’o­perato didattico della docenza superiore), es­so accoglieva la proposta avanzata dal depu­tato socialista Giacomo Ferri, durante l’acce­sa seduta del giugno 1908, di fissare un tetto minimo di 50 lezioni annuali; introduceva inoltre l’obbligo di registrazione del numero complessivo delle ore tenute per ogni anno accademico sul bollettino della Pubblica istruzione e di risiedere stabilmente nella città sede dell’Università presso la quale si inse­gnava. Il disegno si presentava poi più restrit­tivo del precedente per quanto riguardava la determinazione dei ruoli organici, che veni­vano rigidamente fissati, tanto per i professo­ri ordinari che straordinari di materie sia ob­bligatorie che facoltative, sulla base dell’or­ganico allora in vigore. Da questo punto di vista si trattava di una vera e propria serrata delle cattedre, perché introduceva il divieto di istituzione di nuovi posti oltre il numero sta­bilito dalla legge68. Per il resto, la riforma mi­nisteriale riconfermava la proposta di au­mento salariale in favore della docenza supe­riore, l’adozione di forti restrizioni circa il conferimento di incarichi e corsi liberi per i professori ufficiali e, sul piano dell’ordina­mento degli studi, la distinzione tra materie fondamentali e complementari. La sola novi­tà sostanziale era in realtà rappresentata dal­la proposta di riordino del Consiglio superio­re dell’istruzione. Si proponeva che esso fosse composto da 12 membri eletti dal parlamento (sei senatori e sei deputati non facenti parte

flf’ Paolo E. Pavolini, Proposta di una nuova Associazione di professori universitari, “Il Marzocco”, 13 dicembre 1908.67 Nel rispondere al Pavolini, Antonino Anile rinnovava il proprio pessimismo nei confronti del corpo accademico ita­liano, valutando la proposta del collega sicuramente coraggiosa ma inefficace sul piano dei risultati. In alternativa pro­poneva la creazione di una “rivista critica severa e imparziale” sul funzionamento dei concorsi universitari: cfr. A. Ani­le, Proposta di una nuova rivista, “Il Marzocco”, 20 dicembre 1908.68 I ruoli organici per professori ordinari e straordinari di materie fondamentali assegnati alle varie facoltà e Scuole Regie erano rispettivamente di 739 e 154, per le materie complementari di 38 e 27 (cfr. Camera dei deputati, Atti Parlamentari, Discussioni, Legislatura XXIII, 2“ tornata del luglio 1909, p. 4032).

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del corpo accademico), 12 nominati diretta- mente dal ministro della Pubblica istruzione e altri 12 designati da tutte le università na­zionali. La riforma, durante la discussione al­la Camera del disegno di legge (9 luglio 1909), trovò l’opposizione di due tra i più autorevoli esponenti del mondo accademico italiano, Gaetano Mosca e Ettore Ciccotti, che nella proposta vedevano un ulteriore pe­ricoloso motivo di intromissione degli inte­ressi politici nelle questioni dell’istruzione su­periore. Nonostante ciò il progetto fu intera­mente approvato, divenendo cosi esecutivo già sul finire dell’estate di quell’anno.

Il vivace dibattito ospitato nel 1908 dalla rivista “Il Marzocco” sulla questione univer­sitaria, durante il 1909 trovò spazio sulle pa­gine di un’altra autorevole rivista fiorentina, “ La Voce” . Significativamente, fu proprio Antonino Añile a riaprire la discussione sul secondo progetto Rava, riallacciandosi alla recente comparsa sulle pagine della rivista di un acceso intervento di Gaetano Salvemini sul malcostume professorale69. Ancora più lapidario del precedente sarebbe stato il giu­dizio da questi espresso sul nuovo disegno di legge e sulla posizione assunta dal corpo accademico italiano di fronte alla proposta ministeriale:

Il nuovo progetto è la cosa più informe che un Mi­nistero abbia mai concepito e l’esercito dei profes­sori corre alla conquista dei salari, lasciando per via l’ultimo brandello di dignità70.

Nella sua riflessione sulle cause della deca­denza dell’università italiana, Añile questa

volta insisteva sugli aspetti politici della que­stione universitaria. Il vero nodo era rappre­sentato dalle continue intromissioni della po­litica negli affari dell’istruzione superiore, le­gittimate dai professori attraverso la propria attività di parlamentari. L'analisi fondata sul concetto dell'incompatibilità tra l’insegna­mento e l’attività politica molto risentiva del clima allora imperante nella rivista. Si pensi alle considerazioni a cui questa appro­dava a proposito di un paese dove non si può fare politica, per cui “ai giovani che han­no forza morale e desiderio di bene non resta che [...] fare la grande politica del paese che pensa e lavora: dimenticare il governo, i de­putati, i burocrati”71. E interessante poi no­tare come dal discorso di Añile trapelasse re ­sistenza di una conflittualità ormai aperta tra una giovane generazione di universitari in carriera e gruppi professorali consolidati di cui si denunciano gli elementi di decadenza e corruzione. La questione non poteva lascia­re indifferente una rivista come “La Voce” , che così profondamente collocava la propria prospettiva intellettuale nella zona della de­nuncia morale ed ideologica. Significativa­mente, essa avrebbe prestato attenzione a ca­si come quello Gentile o Farinelli, casi che gettavano luce sulla grave crisi morale da cui era investita l’università72. Fu soprattutto il primo a suscitare vivaci reazioni tra i vocia- ni, anche perché sollevato da uno degli intel­lettuali più noti e accreditati del tempo, Bene­detto Croce che, nel 1908, aveva inviato al ministro Rava una lettera aperta per prote­stare contro le ingiustizie a suo avviso subite dall’amico e collaboratore Giovanni Gentile.

69 A. Anile, Questioni universitarie, “Il Marzocco”, 28 gennaio 1909; per quanto riguarda l’intervento di Salvemini a cui Anile fa riferimento si tratta del famoso scritto Cocà all’università di Napoli e la Scuola della malavita, “Il Marzocco”, 3 gennaio 1909.70 A. Anile, Questioni universitarie, cit.71 Da Giolitti a Sonnino, “La Voce”, 1909, n. 2 (citato in Alberto Asor Rosa, Storia d'Italia, voi. IV, Dall’Unità a oggi, t. 2, La cultura, Torino, Einaudi, 1975, p. 1260.72 Sul caso Arturo Farinelli, si vedano i seguenti articoli pubblicati da “La Voce”: Corrispondenza da Torino: le dimis­sioni del prof. Arturo Farinelli, 13 maggio 1909; La Voce, Il caso Farinelli, 20 maggio 1909; Giovanni Papini, Per Fari­nelli e per la verità, 4 gennaio 1912; la lettera di Guido Manacorda a “La Voce” e la relativa risposta di Giovanni Papini

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Nel 1908 Gentile, che due anni prima era sta­to vincitore dell’ultimo concorso di Storia della filosofia, presentò richiesta di trasferi­mento presso l’ateneo di Napoli, essendo qui vacante la cattedra di quella disciplina. La facoltà accolse, invece, la domanda di Au­relio Covotti, professore a Torino di Storia della filosofia moderna, giunto secondo al concorso del 1906. Per giustificare la scelta operata, i professori della facoltà napoletana contestarono la validità della relazione del concorso redatta dai commissari Credaro, Acri, Cantoni, Barzellotti e Zuccante, soste­nendo che in realtà Gentile si era mal colloca­to primo e che comunque non meritava un punteggio diverso dal Covotti. Al caso Gen­tile succedeva un anno più tardi quello di Ar­turo Farinelli, denunciato da “La Voce” , no­nostante lo studioso sembrasse voler evitare ulteriori scandali e polemiche. Intellettuale molto apprezzato in Germania per i suoi stu­di di Filologia romanza, nel 1909, dopo tra l’altro un lungo periodo di insegnamento al­l’Università di Innsbruck, Farinelli si trovò coinvolto nell’ateneo torinese in uno dei soliti maneggi delle commissioni esaminatrici e, di fronte alla scarsa serietà e competenza dei suoi colleghi, presentò le dimissioni.

All’indomani dell’approvazione del dise­gno di legge Rava, “ La Voce” esprimeva il suo profondo sdegno nei confronti di un cor­po accademico che, in cambio di un modesto aumento salariale, dava il proprio consenso ad una legge che non solo non risolveva le questioni principali e fondamentali deH’uni- versità italiana, ma che, “ con l’entrata nel

Consiglio superiore di una maggioranza fi­glia degnissima e somigliantissima della mag­gioranza giolittiana, toglieva ulteriormente dignità e libertà alla vita universitaria” del paese73.

Il Congresso nazionale universitario del 1912

In un primo momento il progetto Rava non sembrò scuotere particolarmente l’ambiente universitario al cui interno, tuttavia, negli an­ni immediatamente successivi alla sua appli­cazione, si risvegliò un rinnovato interesse per i problemi dell’ordinamento superiore. Le polemiche e le discussioni sollevate dal­l’intervento ministeriale sulla questione uni­versitaria sembrarono in questo senso favori­re la rinascita in ambito accademico di un nuovo movimento di idee e di protesta. Al movimento parteciparono professori mossi da una generale esigenza di rinnovamento del sistema superiore, pronti a mettere in di­scussione l’utilità e l’efficacia di quelle conti­nue “ leggine” , frutto di compromessi e me­diazioni politiche, e a sostenere nuovamente, così come era avvenuto sul finire del secolo, la necessità di elaborazione di una grande legge-quadro sul sistema superiore. In questo movimento, Angiolo Orvieto coglieva i pre­supposti per un Risveglio dell’università ita­liana, applaudendo ai primi risultati emersi al Congresso nazionale di Roma dell’aprile 19 1 274. In realtà, nel dibattito sull’ordina­mento superiore ricomparivano tematiche vecchie ormai di decenni75, riaccese, rinfoco-

su La questione Farinelli, 18 gennaio 1912. Sul caso Gentile, la rivista pubblicava nel numero del 4 marzo 1909 la pre­fazione di Benedetto Croce al suo opuscolo su II caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, Bari, Laterza, 1909. Occorre a questo proposito osservare come Antonio Gramsci, il cui giudizio sulla condotta dei professori ufficiali sarà altrettanto severo, nella lotta intrapresa da Croce e Gentile contro “la mediocrità scientifica, pedagogica e talvolta anche morale” della docenza superiore, individui uno dei principali fattori della loro fortuna in Italia, cfr. Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 151-152.73 Cfr. La legge per i professori, “La Voce”, 15 luglio 1909 e Lettera aperta al Rettore dell’Università di Bologna, 12 agosto 1909.74 A. Orvieto, Il risveglio dell’università italiana, “Il Marzocco”, 7 aprile 1912.75 Cfr. A tti del Congresso universitario, Roma 11-13 aprile 1912. Pavia, Tip. Cooperativa, 1912.

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late e sollecitate dai recenti interventi mini­steriali, nonché dalle speranze aperte in seno all’Associazione dalla recente nomina di Cre- daro a ministro della Pubblica istruzione.

Nel programma di riforma elaborato dal congresso, ad acquistare centralità furono le problematiche legate agli aspetti formativi ed educativi della struttura superiore. Tutta­via, come già si diceva, la proposta professo­rale non introduceva sostanziali elementi di novità rispetto a quel complesso di considera­zioni a cui, già sul finire del secolo, era appro­data parte del corpo accademico, riflettendo sulla questione dell’inadeguatezza formativa del sistema superiore nazionale. Fu ad esem­pio significativo il fatto che il congresso ri­prendesse uno dei temi centrali della polemica dell’ultimo Ottocento sull’insegnamento uni­versitario, ovvero quella sul suo carattere spiccatamente “professionale” . Ma così come era avvenuto a fine Ottocento, il congresso non riuscì a superare una visione dell’istruzio­ne superiore che non fosse fondata su una netta separazione tra apprendimento pratico e sapere scientifico76. Anzi, nel programma di riforma elaborato, questa impossibilità di conciliare scienza e professione sembra trova­re ulteriori motivi di conferma. 11 congresso doveva infatti avanzare la proposta per cui la carriera dello studente contemplasse la pos­sibilità di scegliere tra due diversi percorsi di formazione: uno dal carattere prettamente scientifico, la laurea dottorale, ed uno di tipo professionale, il diploma scientifico. Per con­seguire la prima, il congresso assumeva una posizione fortemente critica circa le possibili­tà di specializzazione offerte in Italia dall’or­dinamento in facoltà. Tale valutazione anche in questo caso poggiava su un’opinione molto diffusa negli anni di fine secolo tendente a ve­

dere nell’ordinamento in facoltà una delle principali ragioni della scarsa preparazione scientifica offerta dal sistema superiore. In questi “organismi chiusi ed irrigiditi” , — os­servava il professor Enriques, interpretando in questo modo convinzioni molto radicate tra gli intervenuti — incapaci di rispondere alle esigenze della scienza, che “di continuo ha bisogno di nuovi aggruppamenti e di for­me più libere” , lo studente non poteva conse­guire una formazione scientifica77. In nome di quest’ultima era dunque necessario riaffer­mare la libertà degli studi, che inevitabilmen­te comportava una rimessa in discussione del­l’università non solo sul piano pedagogico ma anche dal punto di vista strutturale. La possi­bilità per lo studente di articolare il proprio corso di studi al di fuori dei curricula stabiliti rendeva in tal senso necessaria la creazione di nuovi organismi predisposti alla specializza­zione. Di qui la proposta di istituzione all’in­terno dell’università di un organo di unità scientifica, di coordinamento tra le varie fa­coltà, il Senato o Consiglio accademico, il cui compito doveva consistere nel determina­re il percorso di studi necessario ai fini del conferimento della laurea dottorale. Per il di­ploma scientifico, invece, l’ambito di forma­zione previsto continuava ad essere rappre­sentato dalle facoltà. Il congresso inoltre deli­berava, e anche in questo caso riprendendo un’istanza molto diffusa negli ambienti pro­fessorali di fine secolo, che per gli aspiranti al diploma scientifico fosse introdotto l’obbli­go di sostenere gli esami di stato, in commis­sioni costituite prevalentemente da professori universitari.

A differenza di quanto era avvenuto in se­no all’Associazione nazionale dei professori negli anni immediatamente successivi alla

16 A tti del Congresso universitario, cit., pp. 5-13. Occorre osservare come da questo punto di vista continuassero a non essere recepiti gli aspetti innovativi contenuti nella riflessione operata sul finire del secolo da Francesco Saverio De Do- minicis a proposito di un insegnamento superiore fondato su una stretta unione tra scienza, professione e azione, cfr. Francesco Saverio De Dominicis, L'Università e la nazione, in Positivismo pedagogico, cit., pp. 1008-1040.77 Atti del Congresso universitario, cit., p. 14.

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sua fondazione, al congresso del 1912 la que­stione della docenza superiore fu discussa non tanto sul piano della condizione giuridi­ca ed economica quanto come questione inti­mamente connessa alle problematiche del­l’insegnamento superiore. Questa sostanziale diversità di approccio emerge molto chiara­mente durante la discussione sul tema dell’in­segnamento professorale. Il riconoscimento della libertà degli studi doveva in questo sen­so rappresentare un momento fondamentale della successiva elaborazione progettuale. Se su un piano educativo l’università era chiamata ad offrire la possibilità di scegliere tra più percorsi formativi, di conseguenza era anche suo dovere provvedere ad un allar­gamento degli insegnamenti. In questa pro­spettiva, trovava tra l’altro collocazione l’at­teggiamento critico assunto dal congresso relativamente alle forti restrizioni introdot­te, nel 1909, dalla legge Rava con il divieto di creazione di nuovi posti al di fuori del nu­mero stabilito dalla legge. Di fronte all’im­possibilità di un aumento delle cattedre, il congresso individuava quale possibile solu­zione l’introduzione dell’obbligo per ogni professore di tenere almeno due corsi, di cui uno di durata legale. Circa le caratteristi­che di questi corsi, si deliberava affinché al professore fosse concessa, previa approva­zione da parte del corpo universitario, la possibilità di tenere lezioni anche in materie diverse da quelle professate a titolo ufficiale, di carattere sia generale che propedeutico, pratico o monografico. Libertà di insegna­mento, dunque, oltre che di studio, a cui si accompagnava la periodica proposta di ri­pristino del vecchio sistema della retribuzio­ne studentesca dei corsi78.

Un’altra questione affrontata dal congres­so fu quella dell’insegnamento privato, un te­ma ormai da decenni al centro delle discus­

sioni dei professori universitari, per cui si proponevano i soliti correttivi: il conferimen­to unicamente per titoli od esami, il ripristino della retribuzione a carico degli studenti79. L’unica novità sostanziale era rappresentata dalla posizione assunta dal congresso relati­vamente alla condizione degli insegnanti di materie complementari. Il giudizio negativo espresso, già sul finire del secolo, da alcuni autorevoli esponenti del corpo accademico in merito alla sottovalutazione, nei curricula degli studenti, della funzione formativa svol­ta dalle materie complementari, nel congres­so del 1912 costituì ormai uno dei punti fermi della battaglia condotta dalla docenza supe­riore per un riordino deH’insegnamento uni­versitario80. Era andata via via maturando in ambito accademico la consapevolezza del progressivo processo di subordinazione delle materie complementari in atto, già dai primi anni postunitari, sul piano della carriera non solo studentesca ma anche professorale. Ri­spetto a ciò va osservato che, dalla fine del­l’Ottocento, dopo l’approvazione della legge Rava, si persegui l’obiettivo di diversificare i meccanismi di reclutamento e avanzamento delle carriere accademiche dei professori di materie complementari, accordando, in que­sto senso, una posizione di netto privilegio ai docenti delle materie obbligatorie. Di qui, come abbiamo visto, la tendenza a vin­colare l’insegnamento delle discipline com­plementari a professori che all’interno della gerarchia accademica occupavano posizioni più deboli, anzitutto a liberi docenti e a pro­fessori incaricati. Tale condizione di svantag­gio doveva peggiorare con la serrata delle cattedre del 1909, che restringeva ulterior­mente le possibilità di carriera per i docenti di materie complementari, fissando per que­sti un numero di posti assolutamente irriso­rio rispetto a quello previsto per i professori

78 A tti del Congresso universitario, cit., pp. 34-36.79 A tti del Congresso universitario, cit., pp. 25-30.80 A tti del Congresso universitario, cit., pp. 33-37.

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di materie obbligatorie. E su questa base, va­lutando peraltro infondata e dannosa al pro­gresso della scienza una distinzione tra disci­pline facoltative e obbligatorie, il congresso votava affinché i docenti delle materie com­plementari rientrassero nel ruolo generale dei professori universitari.

Con il congresso del 1912 si chiudeva più di un trentennio di riflessione sui problemi deH’ordinamento superiore. Il dibattito ave­va conosciuto la sua maggior espansione nel­l’ultimo Ottocento e tornava a riaccendersi sul finire dell’età giolittiana. Il contesto poli­tico e sociale era profondamente mutato, ma i nodi problematici dell’assetto universitario italiano continuavano ad essere pressoché gli stessi e, almeno fino alla riforma Gentile,

tali sarebbero rimasti. I temi attorno ai quali era andata sviluppandosi la riflessione dei professori erano di natura teorica e pedago­gica (quali la libertà di insegnamento e di stu­dio, il rapporto tra apprendimento pratico e scientifico, tra caratteristiche strutturali del­l’ordinamento superiore e sue capacità for­mative ed educative) e di natura più politica, come quello del rapporto tra Stato, universi­tà e scienza. Tale insieme di problemi doveva trovare nella questione della docenza supe­riore un importante momento di coagulo. Tra Ottocento e Novecento, fu questa ad ac­compagnare, segnandolo profondamente, il processo di formazione del corpo accademi­co italiano.

Ariella Verrocchio

Ariella Verrocchio si è laureata in Storia nel 1988 presso la facoltà di Lettere e filosofia di Trieste. Nel 1995 ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici presso l’U­niversità di Urbino. I suoi interessi sono rivolti prevalentemente alla storia degli intellettuali, con parti­colare riferimento allo studio di alcune categorie professionali in Italia (docenti superiori, giuristi, avvo­cati, medici e giornalisti) tra Ottocento e Novecento.

IN/FORMAZIONENotiziario bibliografico di storia contemporanea

Istituto storico della Resistenza in Toscana Sommario del n. 27-28, maggio-novembre 1996

Gabriele Gatti, La biblioteca interminabile. Introduzione dell’informazione bibliografica in linea e in rete-, Michele Tegelaars, La storia dell'arte: i Cd Rom per gli storici

LibriStrumenti; Teoria e storia della storiografia; Didattica della storia; Storia politica; Storia economica e sociale; Storia militare; Storia delle idee e delle mentalità; Storia delle istituzioni

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