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Fosombrón sparita

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I modi di dire sono racconti che si condensano in una frase, in cui la storia originaria è molto difficile da intravedere ma, proprio per questo, più appagante da scoprire…

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Chiara Spallotta - matricola 167relatrice Chiara CarrerDiploma Accademico di II livelloisia Urbino - a.a. 2013/2014

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indice

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Introduzione

1 Bochè tl’urciulin

2 Fass’l fè a Sant’Ipollit

3 Parlè in gerrich

4 Tra ’l corra e ’l fuggia

I narratori

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introduzione

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«Tu mi domandi, bambino, cosa vuol dire tempo. Io proverò a dirtelo, ma non so se cicapiremo». Con questa parole si apre il primolibro di Adele Rondini [1], una maestrina di Fossombrone che, negli anni settanta, decide di mettere per iscritto i racconti e le storielle ascoltate in gioventù. Sono testi in dialetto, semplici e dal tono colloquiale, tanto è che leggendoli pare quasi di ascoltarli. E il giorno dopo viene voglia di raccontarli, reinnescando il meccanismo che li ha tenuti in vita fino ad oggi. Gli spunti per riflettere sulla ciclicità dei fatti e della narrazione non mancano in queste storie, sempre introdotte da «una volta» che lelasciano sospese nel tempo e che ce le fanno sentire contemporaneamente remote e attuali. I fatti raccontati non sono imprese straordinarie, ma episodi comuni alla vita di paese, in cui le cose sembrano svolgersi tutti i giorni allo stesso modo. Eppure tra le righe si intravede il profondo cambiamento della società che ha caratterizzato il secolo scorso e che ci porta a volerne sapere di più. Ai libri, però, non si possono fare domande, per questo motivo ho cercato tra gli ultimi testimoni

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della vita locale di inizio secolo, quei narratori che mi aiutassero a ricostruire e recuperare l’universo di usanze, credenze e abitudini che caratterizzavano la vita di allora e che vanno perdendosi col finire della loro generazione.Il filo narrativo di questo libro si alterna, così, tra le favolette in versi della Rondini, da me reinterpretate e illustrate, e le parole di chi haavuto la pazienza di rispondere alle mie domande, spiegandomi le sfumature e i gesti che faticavo a comprendere. La speranza è quella di portare un valore aggiunto a qualcosa che si è modificato, levigato ed arricchito nel tempo e che, per sua natura, esige nuovamente di essere raccontato.

1 Adele Piccinotti Rondini è l’autrice di tre libri che raccontano la vita del paese di Fossombrone: Fosombron sparita, L’ voc, i mur, l’ fest, la seta... El rest, Pro Loco Fossombrone, 1969; Fosombron sparèta, I dett, le parol, i proverbi...I sopranom, Pro Loco Fossombrone, 1970; Fosombron sparuta, Pensier, person, providenz... Pasatemp, Club culturale Le Rondini, Roma, 1993

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Bochè tl’urciulin Entrare nell’orciolino

Detto di chi, partito ignorante, torna parlando in italiano perfetto, di chi vuol fare il fine, il colto.

L’espressione deriva dall’usanza di ammaestrare le gazze a parlare chiudendole dentro un orciolino.

1

=

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’Na volta, quant arniva un da fora e j deva gió a discorra in italién,

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c’era sempr qualchdun ch’ a brusciapél,

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— Ch’sa t’è sucèss? Sè bochèt tl’urciulin? —j diceva, portandl ’n pó anch’in gir.

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A ripensarci oggi sembra incredibile checi si stupisse così tanto se uno parlava italiano. Ma una volta era così. Anch’io mi stupivo se mi capitava! Avevamo vissuto sempre in paese e il mondo era rimasto praticamente fermo e immutato per secoli. Poi la guerra ha cambiato davvero tutto,tutta la fisionomia delle nostre vite, tutto il nostro modo di vedere e di fare. Già la guerradel ’15 aveva scosso profondamente le menti dei reduci – e me li ricordo bene, passare le orea parlarne, a rivivere ogni tappa, ogni assalto,ogni incontro fortuito. Una volta tornati a casa,però, lontani dal fronte, avevevano ritrovatoil paese immutato, e si erano riadattati alla vitaordinaria con più facilità. La seconda guerra mondiale è stata diversa, ha davvero sconvoltola vita di tutti. I reduci non hanno attraversatosemplicemente l’Italia, ma sono stati sballottatidall’Africa alla Grecia, dalla Russia all’Albania.I più sfortunati hanno vissuto l’orrore dei campidi prigionia tra Germania, Polonia, Francia, Olanda... E per riuscire a tornare a casa quantene hanno viste, con tutti i chilometri a piediche hanno dovuto fare, e quante ne hanno subìte! Io sono stato fortunato, non sono stato in guerra, perché c’era un legge che prevedevache non potessero essere tolti alle famiglie piùdi tre figli maschi. I miei fratelli maggiori, però, son partiti tutti e quattro e hanno dovuto faticareparecchio per tornare a casa, a guerra finita. Il più grande, Ulderico, è stato via per dieci anni,perché già nel ’35 era stato mandato in Africa

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a combattere contro gli inglesi. Era impossibile che fosse rimasto lo stesso... Non aveva più niente del ragazzo nato e cresciuto in paese.Io mi lamentavo che non sapesse parlar d’altroche di guerra, ma di cosa poteva parlare se no? Ma lo stesso valeva, purtroppo, anche per chi era rimasto sempre qui. La guerra non siè combattuta solo al confine, sulle montagne, lontana dalla quotidianità. Il fronte è passato pertutta l’Italia, i bombardamenti hanno raso al suolo città intere... È diventata la guerra la nostraquotidianità! E quando poi è finita, eravamotutti cambiati... O perlomeno pronti a cambiare.Gli americani, gli inglesi, i polacchi – insommai soldati stranieri che avevano improvvisamenteriempito la città – hanno portato anche loro uncambiamento, uno sguardo al di fuori del paese,al di fuori di queste diecimila persone che prima erano sempre le stesse e si conoscevano tutte. Si era come spezzato qualcosa. Da lì il cambiamento non è stato immediato, forse, ma di certo continuo. Dopo la guerra, poi, molti uomini sono andati fuori a lavorare, perché qui di lavoro non ce n’era: Fossombrone era tutta rotta e nonsi vedeva una lira. In molti sono andati in Franciao in Belgio. Prima della guerra erano partiti in tanti per l’America, ma spesso non tornavanoneanche, o tornavano per troppo poco tempo per portare aria di cambiamento. Chi andava inFrancia o in Belgio partiva per periodi più brevi e la testimonianza di quel che aveva visto e fattote la portava in casa, proprio davanti agli occhi.

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Fossombrone è un paese piccolo e prima della guerra non ne eravamo quasi mai usciti. Io ho preso il treno per la prima volta dopo che misono sposata, nel ‘53, per andare a Roma in viaggio di nozze. Se no non si andava chissà dove,non se ne sentiva proprio la necessità. Quando gli uomini sono partiti per la guerradel ’15, nessuno era mai salito su un treno. Mi ricordo di un tale, Tilon, che, quando il trenoera partito... Bum! Era caduto tutto lungo peril vagone! Lui non si teneva, non se lo immaginavaneanche che il treno ti spinge all’indietro. Eravamo tutti ignoranti, non avevamo mai visto niente... Già se uno era arrivato a Tavernelle era tanto, ma è probabile che neanche sapessepronunciarne il nome, Babernelle la chiamavano! Era davvero tutto diverso quella volta.La vita comunitaria di paese e le sue particolaritàsono cambiate tantissimo con l’istruzione, glispostamenti... Sotto certi punti di vista il nostroera un mondo semplice, ma forse proprio perquesto motivo giocavamo di più ad arricchirlo e arenderlo unico e caratteristico, nostro insomma.Per esempio, ci si chiamava tutti per soprannome.Poi andava a finire che nessuno sapeva più ilvero nome di nessuno, ma, in fondo, attraversoil soprannome, si veniva a sapere subito lacaratteristica principale della persona. C’erano

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gli sfaccendati, che non lavoravano e passavano giornate intere seduti fuori dall’osteria o perpiazza ad inventare soprannomi, ed eran perfetti,calzavano a pennello. Anzi, spesso facevanoanche ridere, perché nascevano da un episodio buffo o da una stupidaggine che uno avevafatto, e... Tac! Marchiato a vita! In più nessuno sapeva i nomi delle vie, masemplicemente perché non ce n’era bisogno.Si diceva: «Vicino a dove sta Sopranz», vicino adove sta quello o quell’altro. Tanto tutti sapevanodove abitavano tutti. E va a finire che io – seti devo dire dove sta qualcosa – la via ancora nonla so, e sono nata qui e sono più di ottant’anni che ci abito! Per farti un esempio, i Santi stavanovicino al carcerone, erano praticamente mieivicini di casa quando abitavo alle case popolari. Il giorno che entrambe le figlie si sono sposate stavo tornando con tre mie amiche dalla messa.Si ferma una macchina e un tipo ci chiede: «Dove sta via tale?». Noi ci siamo guardate tuttee quattro e non abbiamo saputo rispondergli.Così, quando stava per andarsene gli ho chiesto:«Ma scusate, dove dovete andare?» e questo fa: «Sposano le sorelle Santi, noi siamo i parentidel marito di una di loro». «Ah, ma potevate dirlo, allora stanno lì, siete arrivato!». Sapevamodov’era, ma mica sapevamo il nome della via!

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Sono cambiate talmente tante cose dopo la guerra che si fa quasi fatica a ricordarle. Quel che più colpisce è che, nonostante il paesesia ancora piuttosto piccolo, non ci si conosca più neanche tra vicini di casa. Una volta c’era piùfamiliarità con tutti, si conviveva praticamente. Eravamo come una grande famiglia allargata. Per farti capire: quando ero una bambina, la miafamiglia abitava lungo il corso e, dirimpetto anoi, abitava la famiglia Gatticchi. Eravamo moltodiverse come famiglie: noi eravamo considerati poveri – figli di operai – mentre loro erano gentealtolocata. Lei era una Ricciarini e la famiglia aveva molti poderi, lui era un impiegato. Erano persone ricche, avevano la donna di servizio e persino la radio. Ma la nostra casa era la loro e viceversa... Si stava sempre insieme. Per esempio, erano proprietari del Casinodelle Rose – o perlomeno non era tutto il loro, ma ne potevano usufruire perché era un lascitodella zia di lei. Per loro era il casino di campagna,in cui si trasferivano durante l’estate, ma, ogni anno, portavano anche me e mio fratello, perchéera come fossimo tutti una famiglia. Ci stavamo per delle settimane. Era molto bello là, perché il fiume non era come adesso: era ricco d’acquae ci si andava a giocare o a farsi il bagno. Di seraci si metteva sotto la quercia, perché c’era un’altalena, e si trovava sempre qualcosa da fare. Noi bambini ci divertivamo tantissimo. C’era un contadino che badava al podere a cui gliene facevamo vedere davvero di tutti i colori! Lo chiamavano Chiapp’l e strozz’l, perché la moglie,

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quando qualcuno cercava di rubargli la frutta, gli urlava sempre: «Corri Gigi, c’è un ragazzo là,chiapp’l e strozz’l!», acchiappalo e strozzalo! E glielo diceva talmente spesso che oramai tuttiquanti lo chiamavano così! La sora Maria – questa signora Ricciarini –era sempre dentro casa nostra. Aveva la mania, mentre mia madre cucinava, di stare lì a farlecompagnia. Diceva: «Uh, che buon odore Nettina,cosa sta cucinando?» e andava ad assaggiare! Stava lì per ore a fare conversazione, perché miamadre – facendo la sarta – aveva sempre in casa qualcuno. Quando poi tornava babbo la seraper cena, lei era ancora lì. Lui, però – quando mangiava – intorno non voleva nessuno. Allora lediceva: «Sora Maria, ha intenzione di mangiare con noi? Perché allora: Netta metti su anche perla sora Maria! Ma se non ha intenzione, vadaa casa, perché è ora di cena e vogliamo mangiarein santa pace!». Ma non imparava mai... Tutti i giorni era la stessa storia! Quando facevano il vino, ce ne mandavanosempre un bottiglione. Una volta, mi ricordo,viene la figlia piccola – la Giuliana – a portarcelo,dicendo: «Nettina, mamma ha mandato il vino!Non veniva pieno, ma c’ha messo un po’ d’acquaper riempire la bottiglia!». Infatti – quando divino ce n’era poco – riempivano tutte le bottigliefin sotto il collo e ci mettevano un po’ d’acqua, per avere una bottiglia in più. Ma non lo dicevanomica in giro, se no chi lo comprava? La Giuliana,però, non s’era fatta nessun problema a dircelo, tanto per lei eravamo gente di casa!

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Ma è chièr, bsogna savé, s’en n’el savét,ch’ ’na volta, da nó, c’ piévn gust

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e istruivn l’ gagg a la parola,chiudendl dentra ’n orc

da dó bajocch.

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Alora ql por gagg – pur d’arscapè – ch’sa fevn? S’ metevn gió a parlè!

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Infatti sè bochèt tl’urciulin – sei entrato nell’orciolino – si dice a uno che vuol fare il fine,che improvvisamente parla in italiano perfetto.Una volta parlavamo tutti in dialetto e se uno siimpegnava a parlare in italiano quasi sicuramentelo faceva per atteggiarsi, non perché gli venissespontaneo. Per questo lo si prendeva in giro. Il termine nasce dall’usanza dei ragazzettidi catturare uccellini – come le gazze o i merli –e di cercare di ammaestrarli a parlare tenendoli chiusi in un orciolino, un urciulin. Sai, c’erano quegli orciolini da due soldi, come delle pignattinedi coccio, con cui giocavano i bambini quando le madri andavano a prendere l’acqua alla fonte. Ce l’avevo anche io quando ero bambina. Eragiusto per dire: «fai qualcosa anche te». Che poitanto è più quando si rompevano che quando si usavano per l’acqua. Ti immagini, un orciolino di coccio nelle mani di un bambino durava poco. Non c’erano i giocattoli e qualsiasi cosa diventava un gioco. Ci accontentavamo davvero di poco. Si giocava a campana o a sassetti, in cui tiravi cinque sassi e gli dovevi saltellare dietro,oppure – quando veniva primavera – si giocava al verde, in cui tutti eravamo obbligati a portarciin tasca una foglia e, quando qualcuno diceva:«Fuori il verde!», dovevi mostrarla risponderndo:«Fuori il tuo che il mio non perde!». Perché poi, a volte, quello che l’aveva chiesto per primo nonce l’aveva davvero e così pagava lui la penalità!Se no, di giocattoli, avevamo al massimo qualchemacchinina di ferro o qualche strumentino, inmolti avevamo una carriolina, con cui, quando eratempo di castagne, andavamo a raccoglierle. Era per imitare i genitori… Puoi capire, quindi, chesoddisfazione era un orcetto per una bambina, che così imitava la madre che prendeva l’acqua!

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Da noi non usava tanto portare l’orcio sullatesta, ma più che altro in braccio o per il manico,perché a volte c’erano parecchie salite o discese,oppure le scale da fare, e rischiavi ti cadesse. Per portarlo in testa dovevi essere davvero bravo.Mi ricordo, per esempio, che nonna Angelina – la mia bisnonna – lo portava sempre sulla testa. Si toglieva il grembiule, lo arrotolava per lungo eci faceva la croia, la crocchia, che metteva soprala testa per appoggiarci l’orcio. E per tenerlo inequilibrio camminava con tutte e due le mani suifianchi, se no non spianava bene. Era buffo davedere perché praticamente si stava nella stessaposa dell’orcio, con le braccia come i due manici. In casa ha continuato a non esserci l’acquaneanche dopo la guerra, perché l’acquedotto era rotto e di fonti pubbliche ce n’erano rimastepoche. Io per prenderla andavo fin a San Martino!Se no ce n’era un’altra da Macaron, salendo perla Cittadella, subito dopo il Verziere e, all’altezzadell’ospedale vecchio, la fonte di Moci, che si chiamava così perché la filanda del Paradis, quelgrande palazzo lì sopra, era della famiglia Moci. Quando veniva qualcuno da fuori e si fermava perun po’ qui, si diceva: «non va più via, ha bevuto l’acqua di Moci». C’era l’usanza, infatti, che chi labeveva rimaneva attaccato a Fossombrone persempre, così le ragazze ci portavano il fidanzatoa bere, nella speranza che non partisse. Poi si è chiusa la vena e lì non è più arrivata l’acqua. Di sicuro è successo quando hanno costruito la galleria a San Lazzaro che tuttora porta acquaa Pesaro. Da quel momento infatti qui c’è statamolta meno acqua in generale. Prima il Metauroera un fiume molto più grande. Ed è un peccato perché la fonte di Moci era bella, con un cappellodi pietra tutto adornato a incorniciare la fontana.

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L’acqua in casa, di qua dal ponte – doveabitavo io da bambino – ce l’avevano al massimodue o tre famiglie. Di fonti pubbliche ce n’eranosoltanto due: una in fondo al borgo e una sul muroche c’era allora davanti a casa dei Romiti. Erauna bella vasca grande, tutta di pietra. Io stavo lìdi fianco ma non era mai una cosa veloce, perchèc’era sempre una gran fila da fare. Ma almeno nondovevamo fare tanta strada con gli orci pieni. Ricordo che una volta, per prendere l’acquacon una brocchetta, sono caduto e mi sono fattoun taglio molto profondo, tanto che ancora ho lacicatrice qui sul polso. Quando poi sono andatoin ospedale la prima cosa che mi hanno fatto è stata mettermi il braccio in una vaschetta pienad’alcool. Mi ha fatto talmenta male che… Bum!L’ho ribaltata! Sai, quella volta non si usava moltagrazia in ospedale. I dottori non facevano tantesmancerie. Praticamente arrivavi in ospedale soloquando eri già più di là che di qua. Se sentivi dire che qualcuno l’avevano portato in ospedale ti potevi fare già il segno della croce! Ma da bambini ci importava poco, eravamosempre pieni di tagli e sbucciature. Passavamotutto il giorno al fiume, era praticamente la nostracasa. Si faceva il bagno, c’era un sacco di spazio così potevamo giocare – visto che invece in casa,se facevamo casino, ci urlavano dietro – e poi

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c’erano animali di tutti i tipi, che ci ingegnavamoa catturare. In casa dopo non potevamo portarli,ovviamente, ma ce li lasciavano tenere nel fond,nella cantina, in cui mio padre aveva la bottega.Magari non catturavamo proprio le gazze, ma erasempre pieno di uccellini. A mio fratello Dino, per esempio, gli animali piacevano molto, ed erabravo anche ad accudirli, non come noi che cigiocavamo e basta, poveretti! Lui catturava ancheun sacco di conigli, oppure andava giù nel fossodi Moci a prendere i gamberi di fiume o i granchi. Guarda se ci ripenso, eravamo davverodei monellacci. A parte quando eravamo a scuola,in cui dovevamo contenerci, poi tornavamo a casa e rifuggivamo un’altra volta. Sempre al fiumeo in campagna! Organizzavamo addirittura lebattaglie! Noi del Ponte eravamo detti i cosacchi,non so da cosa derivi, ma si è sempre usatocome nome, e ci faceva sentire molto importanti.Eravamo un po’ lontani dal centro e crescevamoin un gruppo indipendente dagli altri bambini di Fossombrone. Era un posto a parte, i quartierierano molto più divisi quella volta. E i cosacchi facevano la guerra a quelli del centro! Ormai erauna tradizione! Ci si scontrava a metà ponte – sul confine immaginario – con armi costruite danoi, o con dei bastoni come spade... Ma, più chealtro, era tutto uno sbattersi e spintonarsi!

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E donca, a quei ch’arnivn da d’ forasa ‘n sacch d’èri da conquistator,

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mentr metevn in tavla dó parlant, quattr fagioj e dó fetin d’ boria, cundit sa ‘l color

ch’ c’ devn sopra,

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tun q’el mo’ j s’ diceva e s’ cojonevne quei, o snì o snà, gió ch’incasevn.

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E come le gazze – che improvvisamente cominciavano a parlare – anche i ragazzetti chetornavano da fuori, tornavano precisi e forbiti, per far scena. Per esempio dopo la guerra non sitrovava più la pasta compra, c’era solo quella fatta in casa. C’era un giovanotto, che era semprestato di famiglia povera, che era appena tornato da fuori e cercava di darsi un tono. La madre perfarlo contento gli dice: «Vogliamo fare i fischioni per pranzo?» e lui subito: «E di che m’importa? Io i fischioni li mangio tutti i giorni!». Non era vero,ma lo facevano per far vedere che loro venivano da chissà dove, parlavano in italiano perfetto echissà cosa avevano fatto in questi posti favolosi,in cui i fischioni si trovano sempre. Loro tornavano rassettati e qui invece eravamo ancora tutti mezzi sfollati, con le case rotte. Tu non puoi immaginare, dopo la guerra, come era rotta Fossombrone… Era tutto mezzo rotto, veramente. Fossombrone ha avuto unsacco di bombardamenti per essere un paesino così piccolo, in più i tedeschi l’hanno minata, visto che qui passa la Flaminia… Hanno buttato giù case in tutti i punti in cui si poteva transitaree anche lungo corso Garibaldi ce n’erano tantidi palazzi distrutti. A San Filippo, che ora la vediè una chiesa tanto bella, avevano allestito il granaio ed era tutta piena di grano, perché ancheil consorzio cittadino era stato bombardato.

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Durante i bombardamenti eravamo tutti sfollati nelle campagne intorno, a Isola del Piano, a Sant’Ippolito, a Isola di Fano. Nessuno avevanulla per pagare e bisogna ringraziare i contadini,perché, oltre ad ospitarti, ti trovavano anche qualcosa da mangiare se li aiutavi – visto che gliuomini erano in guerra e non c’era nessuno che lavorasse i campi. Ma erano posti da lupi in cui sistava in un sacco di famiglie e si soffriva la fame. C’era una mia amica che ai tempi dello sfollamento stava a Montalto. Aveva sentito cheavevano portato la Palmina, una donna che leera cara, al convento sopra il cimitero, nel periodoin cui ci avevano trasferito l’ospedale dopo cheera stato bombardato. Sapeva che là morivano difame, così, camminando, aveva chiesto unapesca ad un contadino, che le stava raccogliendo,da portare all’ammalata. Se la sarebbe mangiatavolentieri, ché anche lei aveva una fame che nonci vedeva, ma aveva resistito e gliel’aveva portata.La Palmina, vista la pesca, l’aveva azzannata come un animale, proprio con un’avidità indicibile,e, arrivata di foga alla fine, aveva leccato l’osso, sperando ci fosse ancora qualcosa. Le aveva fattouna gran impressione e me lo ripeteva sempre: «Io, campassi cent’anni, ricorderò sempre comeho visto mangiare quella pesca! Non ho mai vistonessuno mangiare come quella volta la Palmina,come una che è da sette anni che non mangia!».

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Di fame in quegli anni ce n’è stata tanta, siadurante che dopo lo sfollamento. I miei genitori avevano rivoltato la terra del fosso che avevamodi fianco a casa e c’avevano piantato patate e verza. E per anni non abbiamo mangiato altro. A pranzo si mangiava mezza palla di verza in insalata e la sera con l’altra metà ci si faceva la minestra. Noi bambini chiedevamo sempre lepatate fritte, ma praticamente erano delle patatebollite e rosolate appena nella padella, che di olio non ne avevano visto molto. Ma tutti si eranoarrangiati piantando qualche cosa: ovunque cifosse un pezzetto di terra trovavi patate, broccoli o un po’ di grano... Perfino nel giardino pubblico! Mi ricordo che mia madre e altre donne andavano alle tre di notte nei campi per cercaredi rimediare un po’ di grano, perché le filande non lavoravano, babbo era in guerra e mangiare si doveva mangiare tutti i giorni. Il problema era battere il grano, così poi andavano, sempre di notte, ai mulini, di nascosto. Una volta è andata a farsi battere un po’ di grano con una nostra vicina di casa, solo che le hanno beccate i militi!Gli hanno dato l’altolà, così loro sono fuggite... E quelli gli hanno sparato dietro! Per fortuna nonc’hanno preso! Mia madre non so quanto è statamale per la paura, le era venuta anche la febbre.Sapeva che io e mio fratello eravamo soli a casa,non poteva permettersi di non tornare!

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Quando siamo tornati dallo sfollamento, oltretutto, la città era un disastro: tutti avevanole case mezze rotte, senza vetri e senza porte. Perché poi, oltre alle bombe e alle mine, quandola città è rimasta deserta – visto che eravamo tutti scappati – sono iniziate delle vere e proprierazzie. Più che altro in casa dei signori, è ovvio,perché dai poveretti non c’era granché da rubaree se anche avevano qualcosa di valore se l’eranoportato dietro. E non sono stati solo i tedeschi afare razzia: ci siamo praticamente derubati l’uno con l’altro... La città era un gran caos! Quell’inverno perdipiù aveva fatto un granfreddo e c’era un sacco di neve. Dai palazzi cheerano stati bombardati rubavano di tutto: quelloche era di legno, come i mobili, le staccionate o le travi, per farci il fuoco; le pietre per ripararsila casa… Quindi dopo un po’ non ne rimaneva più niente. Lungo i viali avevano tagliato tutti glialberi, di nascosto di notte, per bruciarli, perchési moriva dal freddo! Poi la cosa è stata un po’regolamentata e tutto quello che era rimasto deipalazzi di proprietà del Comune distrutti – tuttele macerie – sono state utilizzate pian piano per ricostruire: molti portali di pietra o ornamentison stati demoliti e sono un sacco le cose andateperse, nonostante fossero belle e meritassero di essere preservate. Ma quella volta la necessitàveniva prima della memoria storica.

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Nel ’44 avevo 15 anni. La città era in pieno caos perché aveva subìto molti bombardamenti e altri erano in arrivo. Non si sapeva cosa fare, perché nulla era chiaro, non ci si intendeva moltodi politica qui – soprattutto noi ragazzini, vistoche non è che avessimo la radio o la televisione. Subìvamo e basta. E tutti erano in cerca di unposto in campagna in cui trasferirsi almeno fino a che duravano i bombardamenti. Mia madre ci aveva trovato posto – graziead un parente che stava là a fare il mezzadro –su a Monte Bianco, una piccola località sperdutaproprio sotto le Cesane, in uno dei poderi della famiglia Ricciarini. C’erano venuti a prendere conun biroc’, un carro trainato dai buoi, che avevamocaricato il più possibile con tutto quello che cipoteva essere utile lassù o che valeva qualcosa.La strada ovviamente l’avevamo fatta a piedi, tranne per qualche tratto in cui io o mio fratellosalivamo sopra il carro e ci sedevamo su uno dei materassi. Ti immagini, per noi era un gioco, non ci rendevamo neanche conto. Quando siamo arrivati la casa era davveroun disastro: in cattive condizioni, col tetto quasi cadente, senza acqua, sporca e puzzolente... Ma non ci si poteva certo lamentare! La nostra sistemazione era un camerone sopra l’ovile dellepecore, figurarsi il profumo: in quell’ovile c’eratanto di quel letame che le pecore ci rimanevanoincastrate! Avevamo un lettone, due brandine, un cassettone, una credenza, alcune sedie e unacassetta di legno da usare come tavolo.

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Per uscirne dovevamo passare per la camerada letto del contadino e dei figli, per la cucina, perun’altra stanza e poi, finalmente, si sbucava in un atrio, dove c’era un grande forno. Con noi era sfollata in quella casa anche un’altra famiglia di Pesaro. Lui era un impiegato dell’ufficio del Registro e aveva una figlia di 18 anni, un figlio, Berto, dell’età di mio fratello, duegemelline, che avranno avuto sui quattro anni,e poi un figlio più grande, che si era arruolato coni repubblichini. Quelli che ci ospitavano, i Magrin,erano davvero dei poveretti. Avevano i conigli allostato brado e se li volevi mangiare ti toccava sparargli. Nell’orto c’era poco e niente piantato, perché non avevano l’acqua per innaffiare, cosìcrescevano solo le fave e alcuni alberi da frutto.Per fortuna l’anno prima, attraverso dei contadiniche conosceva mia madre, si era ammazzatoil maiale e avevamo ancora dei barattoli col lardoper condire e altre provviste che ci sono bastateper tutto il periodo dello sfollamento. Il pane poi si faceva lì: se mancava la farina raccoglievamo un po’ di grano, perché non era stato battuto quell’anno visto che le macchine non potevano girare. Lo battevamo coi frusti e poi, mia madree le altre donne, andavano a Isola – dove c’erail mulino – per macinarlo. I contadini il pane e lapasta di casa li sapevano fare veramente bene,perché li facevano sempre. Certe volte passavaqualcuno da Fossombrone e si sentiva urlare: «Carne di bassa! Carne di bassa su alla chiesa!».La carne di bassa sarebbe la carne degli animali

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morti, non macellati, quindi costava un po’ meno,e si correva a prenderla. Poi è ovvio, bisognava aguzzare un po’ l’ingegno per tutto quanto. Per esempio io dovevo fare delle iniezioni, ma non c’era nessuno che le sapesse fare. Nellacollinetta di fronte a noi c’era sfollata la famiglia Bordoni, con cui eravamo molto amici. Tutti i giorni li andavamo a trovare, ma c’era da fare unbel pezzetto di strada ché bisognava scendere dalla nostra collinetta e risalire sull’altra. Però, làda loro, c’era il contadino, Pierott, che, quando aveva fatto il militare, era nel reparto della sanità,così le iniezioni me le faceva lui, il contadino! Per lavarci riempivamo una mastella di acqua efacevamo tutti il bagno lì… Capirai l’igiene! Le duegemelline tutto il giorno stavano a grattarsi la testa per i pidocchi. Un giorno mio padre ha presome e mio fratello, ci ha portati dentro il capanno e con la macchinetta ci ha fatto la zucca pelata.Mi ricordo che a volte, lì nel capanno, si spogliavatutto e scrollava i vestiti più che poteva, per togliere le pulci. Gli Alleati, quando sono arrivati,hanno dato un sacco di DDT ovunque, ché nonsi sa, tra pidocchi e pulci, quante bestie c’erano. Da Magrin, quello che più ci colpiva erache in cucina c’era un prosciutto, che lasciavanoda parte per quando si sarebbe battuto, perché in quell’occasione bisognava essere in forze e simangiava molto e in più ci voleva qualcosa da dare da mangiare anche a chi veniva ad aiutare. E gli dicevamo sempre: «Ma quel prosciutto non sarebbe meglio mangiarlo? Perché tanto prima

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o poi arriva qualcuno, o i partigiani, o i tedeschi e lo fanno fuori!». E invece questo prosciutto rimaneva sempre lì. E infatti un giorno capitano tre o quattro tedeschi, non cattivi, ma un po’prepotenti, e prendono le galline e quel benedettoprosciutto! Sarebbe stato meglio che l’avessimomangiato noi! Questi stavano a Isola del Piano e,avendo preso tutte queste cose, volevano chequalcuno andasse via insieme a loro, per aiutarlia trasportarle. Così avevano preso mio padree quest’altro signore di Pesaro. Noi ovviamente stavamo in pensiero perché poteva succedere di tutto. Dopo un’ora però li vediamo tornare e cichiediamo perché, visto che per andare a Isolaci voleva parecchio tempo. In pratica i tedeschigli avevano chiesto se sapevano dove trovare del tabacco e loro gli avevano risposto che a casaavevano le foglie, se le volevano. I tedeschi gliavevano risposto che se le andavano a prendereli lasciavano liberi, così loro erano corsi subitoa casa. Solo che una volta tornati non ci volevanopiù riandare dai tedeschi, avevano paura, vistoche quelli erano in cerca di partigiani e chissà chenon li torturassero per avere delle informazioni, o peggio! Con un po’ di vigliaccheria e incoscenzaavevano avuto la brillante idea di mandarci i figli,Normanno e Berto, pensando che a dei bambini non avrebbero fatto niente. Loro due erano tutti contenti, l’avevano preso come un gioco, ma noistavamo in pena! Per fortuna gli è andata bene! Gli avevano semplicemente consegnato le fogliedi tabacco e poi erano tornati su, spensierati!

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Quando la situazione si è ristabilizzata, volevamo tornare a Fossombrone, ma come tantinon avevamo più un posto dove andare. Così ci aveva ospitato mio zio Muzio, visto che casa sua era ancora tutta intera. Aveva una soffitta praticabile, allora avevamo rimontato i mobili lì.E babbo aveva riaperto la barbieria, perché era l’occasione per guadagnare due soldi, visto che c’erano i soldati inglesi che pagavano, anche seprincipalmente in cibo. Avevano delle scatolettedi minestrone in cui c’era anche la carne nelmezzo. In generale però in quel periodo non c’eramolto da mangiare. Mio fratello Normanno eraun ragazzino, aveva solo 11 anni, ma era riuscitoa entrare a lavorare nel centro di addestramentopolacco come aiutante in cucina. Così gli davanoquello che avanzava da riportare a casa. Più chealtro il riso, anche cucinato alla maniera loro, mac’era la fame, lo mangiavamo volentieri! Ci siarrangiava così insomma! In quel periodo duranteil giorno mio padre e mio fratello lavoravano, mentre mia madre andava in giro a chiedere checi affittassero una o due camere in cui passare l’inverno. Io, il più delle volte, stavo chiusa in casa,perché – me lo ricordo come se fosse adesso –la piazza era piena di soldati che urlavano e che sgomberavano le strade… Io ero una ragazzina e c’era d’aver paura ché ne rovinavano parecchiedi ragazze. Mamma, quando usciva, mi diceva sempre: «Per carità, Verena, non aprire la porta a nessuno!» e mi faceva stare in casa, con tutte le persiane chiuse, che non si sà mai.

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Col tempo, finalmente, abbiamo trovato da affittare l’appartamento sopra la ferramenta Tundini, proprio in cima al Taglio. Non c’era granché scelta in quanto a case. Mamma avevatrovato questa, ma, capirai, non era mai stata abitata… E nel cucinone ci tenevano le galline! Avevamo dovuto ripulire tutto, perfino gli infissi!E con i bombardamenti erano saltati tutti i vetri.I soldi per ricomprarli non c’erano, allora sullefinestre avevamo messo dei cartoni e, quando ilsabato mamma ci faceva il bagno nella mastella,si consumavano sempre due fascine di legna, chese no era freddissimo. Ma non era male come casa, l’unico problema è che c’erano un sacco discalini, 85, me li ricorderò sempre. E portare finlassù gli orci d’acqua era davvero durissimo, cosìc’eravamo ingegnati montando una carrucola per tirare su l’acqua dal cortile interno. Ma anchein quel modo pesava parecchio. Però, pian piano,standoci noi, era diventata una bella casa. Un vetro alla volta li abbiam rimessi tutti e quandoi miei hanno riniziato a tirare su qualche soldo, mamma ha comprato una vetrina, un mettitutto, come lo chiamavano quella volta, col tavolo e le sedie. Ed essendo molto in alto, dalle finestre che davano sul corso, si vedeva tutto, c’era un gran panorama. Tant’è che siamo stati lì per diecianni prima che ci dessero la casa per gli sfollati, perché, quando venivano a vederla, la casaera bella, tutta risistemata, e andava a finire chepassavamo sempre in fondo alla lista perché nongli sembravamo bisognosi d’alloggio.

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Mio padre, quando io ero bambino, facevail calzolaio. E lavorava prevalentemente per i contadini, perché nella borgata – al Ponte – nonci abitava poi tanta così gente e di là dal fiume buona parte delle persone erano i contadini che lavoravano nei poderi sparsi per la campagna. Non avevano soldi per pagare, quindi, in cambio,ti portavano qualcosa da mangiare: due patate,due mele, due grappoli d’uva… Mica chissà cosa!Così la sera di solito ci si arrangiava mangiando quello... E lo stomaco ti continuava a brontolare!L’unico evento in casa era quando si facevano la polenta o il polenton, che era più sodo perché stava di più sul fuoco. Ogni volta che mia madre la cucinava partiva una gara: facevamo una grande spianata di polenta, visto che eravamo intanti, poi ognuno si posizionava in un angoloe al centro si metteva una salsiccia. Chi riusciva ad avanzare più veloce, mangiando, aveva dirittoalla salsiccia! E tutti a strafogarsi per arrivare per primi! Io essendo il più piccolo perdevo quasisempre, ma i miei fratelli si azzuffavano! Certe volte però la settimana era andata male, così miopadre, all’ultimo momento, toglieva la salsiccia e la metteva via. E lì che delusione! Spesso noi ragazzini andavamo a cercare di rubare un po’ di frutta nei campi, per mettere qualcosa nello stomaco. Ci organizzavamo in duegruppetti da tre persone. I primi scavalcavano da un lato facendosi notare, e mentre il contadinoli inseguiva per scacciarli via, l’altro gruppetto entrava dall’altro lato e rubava più frutta possibile.

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Altrimenti, se ti prendevano, ti davano certe bastonate! I contadini erano tremendi, ma perchéanche loro erano dei poveracci... E i fattori glicontavano pure le mele sugli alberi! Una di quellevolte eravamo andati a fregare delle mandorle nell’appezzamento di terra che c’è sopra il pontedella ferrovia. Arriva Mariotti, il contadino, e ci scopre! Eravamo in due o tre e ci disperdiamo.Io non sapevo cosa fare, perché mi aveva quasiraggiunto, così sono salito sopra ad un mandorlo.Lui è arrivato e si è messo lì sotto ad urlarmidi scendere. Per fortuna dopo un po’ s’è stufatoe se n’è andato. Dopo aver aspettato lì attaccatoalla pianta per un bel pezzo, pian pianino sono sceso e sono scappato, ma continuavo ad avereuna paura che mi prendesse! Più tardi avevo cominciato ad andaread aiutare nei campi la famiglia Cipriani, all’iniziosolo d’estate, poi più spesso. Quella volta per battere il grano le macchine ancora non c’erano.Si mettevano sei-sette persone in fila e tagliavanole spighe. E io dietro le raccoglievo. Dopo si mettevano in una macchinetta, da cui uscivano in fasci, le manell. Poi si mettevano in un’altra macchina più grossa che faceva i covoni, così si potevano trasportare sui birocci, sui carri, e si portavano a battere. E battendo il grano veniva su una polvere che non si respirava! Quando sono arrivate le prime macchineper andare a battere, babbo ha smesso di fare ilcalzolaio e ha iniziato ad andare per i campi con le macchine. Non era ancora la mietibatti, era

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una macchina, in cui si mettevano i covoni, che separava i chicchi dalla paglia. Con i chicchi ci sifaceva la farina e con la paglia i pagliai. Babbo ha continuato per circa 10 anni a fare quel lavoro.Prima lavorava nei campi qui intorno e poi si spostava nella zona di Fermgnano, Acqualagna e Urbania, dove la stagione arrivava un po’ più tardi – quasi venti giorni dopo, col fatto che è unpo’ più fresco. Quando andava là stava via perparecchi giorni perché non gli conveniva tornareindietro. Allora, una volta, mia madre mi affidaun po’ di cose, tra vestiti e biancheria di ricambioda portargli. Io parto in bicicletta e chiedendodi qua e di là, lo trovo. Mi ha fatto rimanere lì pertre giorni e addirittura sono aumentato un chilo!Perché lì da mangiare c’era, col fatto che stavanobattendo e che praticamente li pagavano in cibo.Poi i macchinisti erano considerati e mangiavanoa tavola coi fattori, mentre i contadini per terra. Qua invece, in tempo di guerra, con la tessera lafame si soffriva. Davano 200 grammi di pane agli uomini che lavoravano, alle donne meno e aibambini poco e niente. Comunque sia, dopo tre giorni, mio padre mi rimanda a casa, dandomi unsacchetto di grano da portare alla famiglia, cosìlo metto sulla canna della bici e riparto. Arrivatoalla galleria del Furlo, vedo che c’è un gruppodi militi. E mi ha preso talmente tanta paura chemi fermassero, con tutto quel grano, e che chissàcosa mi facessero, che ho chiuso gli occhi esono andato dritto. Fortuna ha voluto che non mihanno detto niente! Quando son stato dall’altro

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capo della galleria… Bum! Mi sono ribaltato per terra per l’emozione! Perché se ti prendevano ti portavano via tutto e forse ti facevano anche di peggio... Si sentivano tante di quelle storie! Da quando ha inziato a fare quel lavoro –comunque – in casa nostra perlomeno una fettadi pane c’è stata sempre. C’eravamo ingegnati ed avevamo costruito un macinino a mano, così potevamo fare la farina dentro casa col grano di straforo che riportava babbo, senza bisogno di andare di nascosto al mulino. Ovviamente si mangiava ancora razionato, perché non c’era da sprecare. Delle volte di pomeriggio ci veniva fame e provavamo quatti quatti a andare a rubareun po’ di pane dalla madia. Mio padre ci sentiva da di sotto aprirla e ci urlava: «Cosa combinate monelli? Devo venire su?» e noi via a fuggire! Grazie ai lavoretti che andavo a fare lassùdai Cipriani mi ero fatto amico la famiglia, così,quando sono cominciati i bombardamenti, siamoandati sfollati da loro, perché avevano i due figli maschi in guerra. In cambio lavoravamo per loroe insieme si tirava su qualche cosa da mangiare.Non siamo stati fortunati con i bombardamenti.Abitavamo proprio di fianco al ponte, che era uno dei bersagli, e la nostra casa è stata colpita subito e rasa al suolo. Ma il male peggiore è statala morte di mio padre, colpito dalla scheggia diuna bomba poco prima del passaggio del fronte,senza che ci fosse possibilità di salvarlo, dato chela città era nel caos. Senza di lui, dopo la guerra,abbiamo tribolato parecchio per mangiare.

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Mio padre era un bracciante agricolo emanovale tuttofare, andava a mietere o a battereil grano, nel bosco a far legna, metteva su i filariper le viti, aiutava i muratori… Faceva veramentequalsiasi lavoro. Io ho fatto il monello per un po’,poi – quando avevo sui dieci anni – siamo andaticontadini a San Martino dei Muri. Quell’anno mio padre, dopo una brutta influenza, è caduto dalle scale ed è rimasto paralizzato da un braccioa una gamba, così, a lavorare la terra, siamo rimasti io, mia madre e mia sorella. Ce la siamocavata benino per una decina d’anni, poi a 19anni sono partito militare. Dopo che sono tornatodalla guerra, abbiamo fatto, io e mia madre,52 giornate di fila a mietere. Quell’anno purtroppoè morta anche lei. Ma avevamo riportato a casa oltre 5 quintali di grano, perché, quella volta, non ti pagavano in soldi e chiedevamo 10 chili digrano in cambio del lavoro. Quindi a dir la veritàda mangiare per fortuna non ci è mai mancato. Lavorare in campagna è davvero duro perché tispezzi la schiena ed è un’occupazione a tempo pieno… ma mangiare si mangia. Ammazzavamo

giuseppe

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il maiale tutti gli anni e in più c’erano tanti fagiolie patate da buttarli via. Poi tenevano le galline, i conigli, i piccioni, avevamo tanti alberi da frutta.Di conseguenza, in un certo senso, abbiamo fatto i signori… Venivano su apposta dalla città,da Fossombrone, con una scusa o l’altra per scroccarci un piatto di minestra o quel che c’era.C’era la miseria, per carità, ma era una miseria diversa, una miseria finta in un certo senso, chénon si moriva di fame. Si stava peggio in paese,in confronto. Se uno lo domanda a un contadino,lui dirà sempre che la stagione è andata male e che c’ha rimesso, ma, in definitiva, come primacosa lui può mangiare, e solo come seconda cosa vendere. Quella volta i bisogni erano diversie l’unica cosa che ci poteva servire era ol cibo inpancia. I ragazzetti che venivano ad aiutarci neicampi arrivavano la mattina con una fila di panecompro – che è molto più piccolo di quello fatto in casa – e se lo dovevano far durare per tutta lagiornata… Restavano con una fame! Così moltospesso li invitavamo a mangiare in casa con noi,e si trovava qualcosa da mettere in tavola.

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Una volta, quando tornava uno da fuori e si dava da fare per esprimersi in italiano,c’era sempre qualcuno che a bruciapelo,Cosa ti è successo? Sei entrato nell’orciolino? — gli diceva, portandolo un po’ anche in giro.

Ma è chiaro, bisogna sapere, se non lo sapete, che una volta, da noi, ci prendevano gustoe ammaestravano le gazze a parlare, chiudendole dentro un orcio da due baiocchi [1].Allora quelle povere gazze – pur di uscire – cosa facevano? Si mettevano giù a parlare!

E dunque, a quelli che tornavano da fuori con un sacco di arie da conquistatori,mentre mettevano in tavola due parlanti [2], quattro fagioli [3] e due fettine di boria, condite con il colore che ci aggiungevano,in quel modo si diceva e si canzonavano e quelli, volente o nolente, incassavano.

1 Baiocco = moneta da un soldo emessa dallo Stato della Chiesa dal xv secolo al 18652 Parlante = frase ricercata in buon italiano3 Fare i fagioli = l’immagine deriva dal gergo delle sarte e significa fare dei sottopunti lunghi come fagioli, quindi degli spropositi

traduzione

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Fass’l fè a Sant’Ipollit Farselo fare a Sant’Ippolito

Detto di quelle ragazze da marito incontentabili, che rifiutano, per un motivo o per l’altro, tutti i partiti.

L’espressione si riferisce al paesino di Sant’Ippolito (situato a pochi chilometri da Fossombrone) famoso in zona per i suoi mastri scalpellini

2

=

?

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’Na volta, a la dmennica, era d’usgì al cinema, s’en n’avei voja d’ gì a spass.

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S’arivèva giust in temp pel film Luc’,dop ch’ s’era stèti al giardin a badurlass.

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Era anca n’ocasion p’ le ragazzettd’incrociè d’ sfugita ’l fidanzèt

e in generèl, per guardass d’intorn, ma chi en s’era ancora sistemèt.

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La domenica il cinema era veramente unappuntamento fisso a Fossombrone! Mia madreaveva la mania del cinema la domenica e quandoerano le due che apriva ci portava lì. Babbo, però,voleva che andassimo a passeggio... Allora leici diceva: «Ora bambini, quando andiamo a casa,dite a babbo che siamo arrivati fino al Verziere o fino alla Madonna delle Mosse». E noi stavamoal gioco, perché ci dava gusto andare al cinema! Poi il film mica lo vedevamo una volta sola! Alledue si entrava e – fino a che non era notte – si stava lì. Io non lo so se mio padre ci credeva cheeravamo andati a camminare o se faceva finta, ma mamma ci diceva: «State a sentire bambini, io ho lavorato tutta la settimana e di domenica voglio andare al cinema!». Così tutte le settimane,puntuali, la domenica alle due eravamo lì! Quella volta il cinema – cinema Metauro si chiamava – era in quel palazzo in cui ora c’è ilnegozio di Barbaresi, di fianco a quello che hannocostruito dopo. L’edificio è rimasto uguale ad allora perché comunque l’avevano costruito dopola guerra perché il palazzo che c’era prima era stato distrutto. Altrimenti spesso il pomeriggio siandava là dove c’è la chiesa di Santa Barbara, perché il palazzo intorno era gestito da Don Lancie c’era il circolo e il doposcuola per i bambini, che giocavano e facevano i compiti, seguiti da qualche donna. E anche lì avevano messo su un cinema – il cinema Italia – che veniva gestito dai preti. Ed è stato aperto per un sacco di anniquel circolo. È quella che è diventata poi la Casadella gioventù. Quello era un posto perfetto per

verena

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i ragazzini, perché avevano un bel po’ di spazioa disposizione e ci si passava tutto il pomeriggio. Davanti al cinema c’erano sempre delledonnine che vendevano le bicch – cioè i semi dizucca – oppure le caramelle, le carrube oppurele noccioline, come la Malia o la famosa Plina,che aveva un lungo carretto e si metteva dall’altraparte del corso, sotto le logge dei porett. A voltel’aiutava il fratello che chiamavano Cul d’ vacca.Erano dei bei personaggi: lei era una scorbutica,sempre con lo scialle e il fazzoletto, e d’inverno metteva sotto i piedi o sulle gambe uno scaldino;lui aveva una bella faccia rossa e spesso ci dava giù col vino. Quante carrube avrò mangiatola domenica! La facevamo diventare matta a miamadre per averle. E pensare che poi si davano ai maiali! In periodo di castagne, poi, cuocevanoanche quelle, con la padella lì sopra il carretto. E anche per le castagne... Quanti pianti! Quando ero proprio piccola piccola, invece,c’era Don Enzo Gramolini – che era il parroco del Duomo – che raccoglieva tutti i bambini in unastanza che aveva in piazza del Mercato, in cui facevamo anche il catechismo, e ci faceva vederei film! Erano i primi film muti, quelli di Charlotte,in cui tutto il tempo correvano di qua e di là, e noici sganasciavamo dalle risate! Stavamo lì tuttiammassati, uno sopra l’altro, ché tutti volevanovedere qualcosa ma non c’era spazio visto che l’arredamento di quella stanza era qualche tavolae due sedie, così ci si sedeva un po’ dovunque,ci si spintonava e si allungava il collo per tutto il tempo per riuscire a capirci qualcosa!

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Da bambino sono stato molto fortunato,ho visto un sacco di film dopo che hanno apertoil cinema. Mio padre per un periodo ha lavoratocome fuochista e meccanico nella filanda lungoil corso di Possanzini e, dato che era dello stessoproprietario, andava anche a riscaldare la saladel cinema durante l’inverno. Dentro alla filandac’era un giardinetto che comunicava col cinema attraverso una porticina da cui mi faceva entrarein sala. Così io mi mettevo per ore nei terzi posti e con questo sistema mi sono visto un saccodi film. I terzi posti erano dei banchi – delle assidi legno – su cui si sedevano i poveretti, dove, in pratica, stavi proprio attaccato allo schermoe guardavi il film a naso all’insù. Dietro c’erano i secondi posti – con delle sedie migliori – mentrei signori stavano di sopra, in galleria, ai primi posti, nelle poltrone. Davanti allo schermo c’era un palco grande, dove qualche volta facevano qualche recita o manifestazione, come a teatro.Comunque ero davvero fortunato, mica tutti i bambini, prima della guerra, andavano spessoal cinema! Solamente dopo la guerra è diventataun’abitudine – diciamo – popolare, altrimenti ilcinema era considerato un lusso e tra tutti quanti,di lussi ce ne concedevano davvero pochi.

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Poi, quando ero un pochino più grande, c’eravamo ingegnati – io e un paio di miei amici,Ermanno e Renato – per entrare gratis, visto che continuavamo a non avere neanche i soldi perandarcene al cinema. In quel periodo, infatti, andavo ad imparare il mestiere e i primi spiccioli,perché proprio di pochi spiccioli si trattava, li hovisti dopo molti anni. Così, pian piano, calcolandoprecisamente tutti i tempi, avevamo messo suun sistema veramente infallibile. Avevamo notatoche la biglietteria stava sempre aperta fino a circa le dieci – l’inizio dell’ultimo spettacolo – poichiudeva e per pochi minuti davanti all’ingresso non rimaneva nessuno. Allora noi ce ne stavamoin giro a fare piazzate fino a quell’ora, e, appena vedevamo chiudere, di corsa ci infilavamo insala e ci buttavamo in mezzo agli altri lì nei terziposti – o anche a sedere per terra se i banchierano pieni. E tutte le volte era un’avventura, unarchitettare, un migliorare la tecnica... Magarispesso ci perdevamo il film Luce, però di quelloall’epoca non ci importava più di tanto! Stavamoper ore tutti tesi ad aspettare quel momento decisivo, e l’Alba, quella ragazza che lavorava inbiglietteria, ci faceva penare e sembrava semprenon doversene andare mai!

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Io i primi film della mia vita li ho visti da Mario, Mari chiod. Era un ragazzo poco più grandedi me che abitava di fianco a casa mia ed era unvero genio: si era costruito da solo un proiettoree ci invitava a guardare i film. Lo chiamavano Mari chiod perché aveva la testa grande ma erasecco come un bastone, sembrava proprio unchiodo! Era sì molto intelligente, ma era anche unvagabondo senza uguali e a scuola lo facevano sempre ripetere, perché era anche un po’ discolo.Una volta da lui ho copiato un compito, che poi hanno persino mandato a Pesaro! La sorella,la Marta, veniva a scuola con me, allora avevamoda fare un compito a piacere e avevamo presoil quaderno di Mario, perché era bravo in italiano!Io le faccio: «Marta io copio questo qui...» e lei: «No, questo è bello, lo copio io!». E va a finire chequello che ho scelto poi, da quanto è piaciuto alle maestre l’hanno mandato a Pesaro, non mi ricordo neanche a chi farlo leggere! Mario era davvero un tipo indescrivibile e il suo genio gli ha poi fruttato nella vita perché ha messo su, a Fano, una pista di go-kart con le macchinine costruite da lui e c’ha fatto i soldi,

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era un’idea rivoluzionaria al tempo! Mi ricordoche una volta aveva addirittura costruito un vero aeroplano! Ovviamente fregando tutti i pezziin aeroporto... Ma del resto era il figlio di Ercolinoe il nipote di Astorre Mariani, famosi ladruncoli di Fossombrone, che tra tutti e due non so quantevolte sono andati in prigione! Su quella famigliaci sarebbe da scrivere un romanzo... Erano tuttidei tipi particolari! Da Mario ho preso anche la prima televisione, mi ci ha pagato un salottoquando avevo il negozio di mobili... E la prima sera naturalmente era venuta un sacco di gente per vederla, perché era un fatto eccezionale! Davano L’idiota, tant’è che gli ho detto: «Mario, mache mi hai dato? Ma proprio gli idioti mi tocca vedere?». Tutte le volte che non ci funzionava latelevisione, lui veniva, la smontava, toglieva tutte le valvole, la rimontava, e funzionava di nuovo! Comunque sia, anche nella mia famiglia didomenica si andava sempre al cinema! Babbo era a fare il soldato e, siccome faceva il barbiere,sai, capitava che faceva la barba ai suoi amici, ai suoi commilitoni... Quello che gli davano ce lomandava per andare al cinema. E ci dovevamo

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andare sempre perché poi voleva sapere per filoe per segno cosa avevamo visto! Non sgarravi!Mio padre era innamorato del cinema e del teatro.C’era molta gente quella volta a Fossombrone che era patita dell’opera, erano un bel gruppetto.Andavano a vedere gli spettacoli qui al teatro comunale ma anche fuori: partivano di pomeriggiotutti insieme con le biciclette... e alcune volteandavano anche lontano, fin giù ad Ascoli Picenoaddirittura. È stato davvero un peccato che,dopo la guerra qui il teatro non sia stato riparato,perché era molto bello, tutto tondo, affrescato…E la parte che era crollata era solo quella dietro al palco, se no tutto sommato era quasi integro. Ma il comune non aveva i soldi e nessuno dei proprietari dei palchetti ha voluto metterci unalira, così, piano piano, col fatto che ci piovevadentro, ha iniziato a essere troppo compromesso.Qui da noi la guerra ha fatto un sacco di danni, ma tanti ne ha fatti anche la scarsa intelligenza e lungimiranza dei cittadini. Comunque, dopo la guerra, la struttura veniva ancora utilizzata. Si continuava ad andarci a ballare il lunedì, perchéal piano di sopra c’era un grande salone molto

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bello che non era stato rovinato. Finché ci sonostati i soldati americani, ci ballavano il boogie boogie, noi ragazzine andavamo sempre a vedere!C’erano tutte le belle di Fossombrone che sela facevano un po’ con i soldati – anche per farsi are qualche regalino… Poi gli parlavano tutti dietro, ovviamente! Capirai in paese! Le notizie girano e si storpiano in tutti i versi. Se no poi al vecchio teatro ci facevano persino i veglioni a capodanno e si affittavano i palchetti in gruppo per passarci la serata. Ma il teatro noi bambini l’abbiamo vissuto soprattutto grazie alla Vittorietti, una signora che stava in via Giganti e che faceva la maestra disolfeggio alla scuola di musica. Era davvero unamacchietta! Suonava, scriveva, cantava… Avevaanche una bella voce. Era una tipa svelta, snellae piccolina, tutta appuntita! Noi bambini dellascuola le andavamo in casa, e lei ci organizzava le recite, ci faceva cantavare le filastrocche.E spesso le scriveva lei! Era come fosse stata oggiun’animatrice per ragazzini, ma lo faceva perchéle piaceva... Era in qualche modo la cantastorie del paese, tirava di rima, si dice qui da noi.

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Discurìv’n, un giorn d’ quei, mèdr e fiola:— Quell en n’el voj, è brutt e anca bass...

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— Beh, alora pja ma ql’altr ch’è più alt...

— È alt, sì, ma è secch e gobb, en m’ pièc!

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— El fiol d’la Biba? S’en m’ sbaj t’ vleva.

— Quell è tropp giovvin, no, en fa per me!

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— Alora en resta ch’ quel d’ San Martin…— Quel po’ no, c’ha i sold, ma è ’n contadin!

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Bisogna dire che gli uomini non è chefossero proprio dei buoni partiti a Fossombrone!Non lavorava nessuno… Saranno stati su per giù in una ventina che avevano la bottega, se nonessuno aveva il mestiere. Tutti gli altri andavanoa fare un fosso in campagna, a mietere il grano, oppure ad aiutare a raccogliere l’uva. Quei pochiche lavoravano partivano alla mattina prestoin gruppetti e andavano in campagna. Ma mica c’era n’era sempre bisogno! Le donne, fortunatamente, lavoravano nelle filande. E bisogna dire che a Fossombrone era una fortuna, perché se no erano tutti morti di fame. Và detta la verità, Possanzini – che era il proprietario di due delle filande – andrebbebenedetto, perché d’estate, nei due mesi in cuile filande non lavoravano, dava sempre qualcosad’anticipo a quelle povere donne, che se no non avevano da mangiare, visto che avevano tutte unsacco di figli. Tutti quanti avevano sei o sette figli, se non di più… Sai non c’era la televisione! Ma dovevi vederle, andavano in giro con una scarpa e una ciabatta, perché non c’erano i soldiper aver le scarpe in tutti i due i piedi. Ricordo quando da ragazzina andavo in filanda anche io,che un giorno aveva fatto tantissima neve, maio avevo solamente gli zoccoli, quindi, per andarea lavorare, avevo messo le scarpe di mio padre,

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e tu figurati se la neve non ci entrava comunque!E anche il vestito della domenica lo sai cos’era? Un grembiule nero, come quello che si portava ascuola. Una buona parte al massimo avevano uno sciarpone e quello era il cappotto dell’inverno.Me le ricordo come fosse adesso quelle donne,quando uscivano dalla filanda, che puzzavano daun chilometro, ma di bozzoli, non di sporcizia, dato che si mettevano a bagno i bozzoli nell’acquabollente per dare una scottata alla farfalla, ed erano pur sempre animali morti... Imputridivano l’acqua e ci rilasciavano un acido. E in filanda le finestre non si potevano aprire, ché si rischiavache l’aria smuovesse i fili di seta, che sono fini come la tela di un ragno! In più – appena uscite –dovevano correre a casa, nella pausa pranzo e disera, perché dovevano preparare da mangiare per tutti. E non è che bastasse girare la manopoladel gas, bisognava accendere il fuoco. E anchela mattina, d’inverno, il fischio d’entrata suonavaalle cinque e tre quarti e loro prima erano andatea lavare i panni. Capirai, di vestito ce n’era unosolo ed i figli erano tanti, c’era sempre da lavare! E i mariti, spesso e volentieri, stavano in giro a non fare niente e la sera ci scappavano anchedue bastonate. Stavano tutto il giorno all’osteria,specialmente d’inverno, ché dove andavano se no? Facevano una partita a carte e, di continuo:

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«Un quartin! Un quartin! Un quartin!». E quandoera sera i quartini si raddoppiavano! Le donne tornavano a casa stanche morte e quelli avevanovoglia di discorrere! Io ringrazio che non ho maivisto babbo mettere le mani addosso a mamma.Ora sembra scontato ma quella volta non lo era. C’era una mia amica, l’Amelia, che mi diceva sempre: «Quando volevo sposare Stano,mio padre non voleva, e io continuavo a ripetergli:o Stano o il ponte! O Stano o il ponte! Perché lo volevo a tutti i costi! E ora mi chiedo: ma non era meglio che avessi preso il ponte?». Capirai, lui tornava sempre ubriaco e lei sempre di dietroa raccoglierlo! Ma era un’abitudine… Quella volta gli uomini avevano solo il bicchiere del vino!Non c’era lavoro, la miseria era nera, così nongli interessava d’altro che di bere! Il mio bisnonno,invece, era un uomo molto sottomesso, perchéla moglie, nonna Angelina, era una comandante!Fai conto che la chiamavano la Marescialla del Tarugo! Era una donnona, o almeno io la vedevocosì, forse perché ero piccola. Quando mi hainsegnato a fare la pasta stava lì con il mattarellopronta a colpire, se sbagliavo! E te lo faceva sentire! Non si faceva tanti problemi! Questo perdirti che, quando mia nonna Rosa si è fidanzata con mio nonno Americo, lo hanno raccontato subito al padre. E lui per quanto sottomesso fosse

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l’ha picchiata con un mazzo di corde, a costodi toglierglielo dalla testa – anche se prima nonl’aveva mai sfiorata nemmeno con un dito – ché si diceva che Americo fosse un uomo cattivo!Ma lei l’ha voluto sposare a tutti i costi: sono fuggiti da casa e andati dallo zio prete di lui, DonGelasio Marinelli, che li ha sposati. E in effetti poi lui non scherzava... Era un uomo molto duro,con un cipiglio e un caratteraccio! A me perfortuna mi voleva molto bene, perché mia madreera la figlia preferita, visto che le dicevano che gli assomigliava! Ma il figlio più grande invece nonlo poteva vedere, perché, quando era nato, luiera in America e in pratica non l’aveva cresciuto,era tornato che era già grande. Non era vita facile con gli uomini di allora.La violenza, coi figli e con le mogli, era all’ordine del giorno. L’uomo era il padrone e come taleandava rispettato... Anche se era un fannullone!Anzi, è probabile che, se non faceva nulla, fosse anche più cattivo, per sfogarsi! Dopo la guerra,poi, è stato un disastro, perché, i primi tempi, non ci sono state le filande – visto che i tedeschile avevano minate per il fatto che erano diventateindustrie belliche e ci facevano i paracadute. Se no Fossombrone è stata sempre la cittàdelle filande e facevano anche il mercato della seta, lì in piazza Petrucci, a cui venivano perfino

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dall’Inghilterra. Infatti molti allevavano i bachianche in casa. Magari i bambini li allevavanoe i vecchi giravano il naspo, ma era una pratica diffusa. Lungo il Metauro c’erano anche molteconcerie di lana. Erano tutte attività artigianali, familiari, che risalivano a prima delle fabbriche. Una delle filande era lì dove adesso c’è ilcinema, un’altra era quella del giardin, nel palazzoin cui adesso c’è la carrozzeria, di fronte allePoste... E queste erano entrambe di Possanzini.Poi, sotto via della Pace, nella vietta Paolo Middelburg, c’era la filanda di Giungi e, all’altezzadell’ospedale vecchio, c’era la filanda del paradis,che poi aveva preso Staurenghi. Ma ce n’erano state parecchie altre prima, come quella di Bonci.Era dai tempi in cui c’era lo Stato della Chiesa che Fossombrone era una delle piazze della seta.Infatti tutti avevamo le coperte imbottite fattecon la bavella dei bachi. Oltre a queste, durantel’autarchia, il podestà Emanuelli aveva messo su anche una filanda di ginestre, lì vicino all’hotelGiardino. Facevano il filo con la ginestra, perché qua sui monti intorno ce n’è tantissima e ci si ottiene un filo molto resistente. Le donne qui a Fossombrone hanno semprelavorato tutte e molto duramente, era un po’ unasocietà al contrario, perché poi, nel dopoguerra

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hanno aperto anche la famosa CIA, CompagniaItaliana Abbigliamento, dove le donne venivano a lavorare da tutto il circondario. E con quella giravano anche i soldi, finalmente! Per esempio la Cocci – il negozio di stoffe – è tanto grande, perché è nato da lì, dato che il proprietario primalavorava alla CIA come tagliatore, visto che eraun sarto. Quanto erano belli i vestiti che facevano!Dopo qualche anno si erano anche espansi conun altro stabilimento a Pergola. C’era un negoziosul posto – per quelli della zona – e i cataloghi per ordinarsi i vestiti per posta, come usava inquegli anni, che venivano distribuiti in tutta Italia.Ovviamente all’inizio c’era voluto un po’ prima che si iniziasse a vedere qualche soldo. La primaazienda che era nata si chiamava LAR... E leoperaie, per poter lavorare, avevano firmato tuttecentomila lire di cambiali e le avevano depositatein banca, come patrimonio aziendale. Avevano la sede dove adesso c’è l’Unicredit. Poi, quando l’azienda ha cominciato a guadagnare, si sonospostati a San Martino, dove sono stati per anni.Col tempo, avevano ridato a tutte le operaie le cambiali, ma anche qualcosina in più, perché avevano aiutato a fare aprire l’azienda. Come fosse stato un investimento! E non c’è dubbio cheper l’epoca lo fosse, e anche consistente!

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La nostra CIA per un bel periodo è statala fabbrica che aveva gli stipendi più alti d’Italia.Ci lavoravano 800-900 persone. E Fossombroneaveva avuto di conseguenza uno sviluppo enorme.Quando contemporaneamente arrivano tutte quelle paghe, la gente poteva spendere e girava l’economia. Ma da noi ha funzionato così bene perché le donne erano abituate a lavorare. Ed èun punto fondamentale, perché poi si è vista una gran differenza quando hanno aperto la sedea Pergola, tre anni dopo. Qui a Fossombrone, quando le ragazze, dopo aver lavorato, tornavanoa casa, se si lamentavano che erano stanche, le madri gli dicevano subito: «Stai zitta, carina, che sei fortunata, io quando lavoravo in filanda tornavo a casa che non avevo più le mani, eranotutte bollite e rovinate per metterle tutto il giornonell’acqua bollente! E tu hai la cena preparata, la tavola apparecchiata... Noi invece tornavamo e dovevamo metterci ad accendere il fuoco!». Insomma gli ricordavano sempre che erano state molto peggio prima e che erano fortunate ad

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avere quel lavoro! E non solo erano state peggio,ma gli uomini vivevano tutti sulle spalle delle mogli, si ubriacavo e la sera le picchiavano anche!A Pergola, invece, ci sono voluti tre anni e più per prepararle, visto che le donne, a confronto, erano tutte regine, perché là c’erano le miniere di zolfo ed erano gli uomini a lavorarci mentre ledonne stavano a casa… Era un ambiente del tutto diverso! Le madri là, quando la sera le figlietornavano, gli dicevano: «Oh poveretta! Io non lo so come fai a lavorare in fabbrica! Quanto saraistanca!». Qui le donne erano state tutte filandaie,lo sapevano bene cos’era il lavoro! Io ho fatto il sindacalista e fino agli annisettanta ero pieno di filandaie che non riuscivanoad andare in pensione perché gli mancavanoi contributi, nonostante avessero lavorato quasiil doppio degli altri. Così le mandavo ad aiutare giù in seminario oppure a fare le donne di servizio.Tutti lavoretti con cui gli facevo fare le giornate minime che gli mancavano, perché in filanda nonavevano il libretto del lavoro né i contributi.

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In più, figurati se gli uomini facevano lefaccende o se in casa aiutavano! Era consideratauna vergogna! Io avessi mai visto a mio padre badarci un po’ oppure portarci a fare un giro. Eramamma – la domenica – che ci doveva portare a spasso! Era vergogna andare a spasso coi figli!Gli uomini facevano i signori, anche se non loerano. Anche babbo faceva il gran viveur: mammalavorava tutto il giorno, ma lui la sera usciva. Ci teneva molto. Andava sempre a teatro a vederel’opera e suonava il contrabbasso. Aveva un gruppo che si chiamava la Società del lamento ederano davvero in tanti a suonarci, almeno unatrentina! Ma questo anche prima che io nascessi.Ce n’erano tanti di gruppi musicali all’epoca: il Complesso Bordoni, in cui suonava anche mio zioMuzio; la Mussiga arabita, la musica arrabbiata, che era un gruppo – gestito dal maestro MarioBelloca – in cui suonavano di tutto, piatti, pettini,pentole, bicchieri, bottiglie, campane... Un grancasino insomma, ma anche un gran spettacolo! Poi c’era il gruppo dei mandolinisti, Gli amicidella musica, visto che qui una volta si andavanoa fare le serenate con il mandolino sotto casa alle ragazze, e ovviamente la banda cittadina, chesuonava nelle festività principali. Era una cosa a cui si teneva la vita culturale, cinema, musica, teatro... Magari uno era un poveraccio, ma era importante partecipare, farsi vedere!

verena

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A mio padre, dopo la guerra, erano rimastisolamente due vestiti, e mamma gliel’ha rigirati due volte perché sembrassero nuovi, perché luivoleva essere sempre impeccabile! Poi non èche l’abito si portava in lavanderia e si conservavabene. Gli si dava con la spazzola, o si lavava con il rann. Praticamente i vestiti si insaponavano, se ne faceva un bello strato e si mettevano in unmastello di legno con sopra un telo e la cenere stacciata del camino. Poi si buttava sopra l’acquabollente così la cenere faceva la lisciva, detta appunto rann, che portava via il sapone e li lavava.Perché il sapone costava e non se ne poteva usare troppo, non era un bene di prima necessità! Gli unici momenti in cui babbo si dedicava a noi tutto il giorno erano i picnic del lunedì. Qui a Fossombrone c’eran tanti barbieri e il lunedìtenevano chiuse le botteghe e si concedevano il riposo settimanale. Allora in estate, insieme allafamiglia, si andava a fare un picnic al fiume. Si preparava da mangiare da portare via – peresempio mamma faceva la teglia, cioè le verduregratinate, e le bracioline di castrato – e ci siportava i panni per cambiarsi. Era un’occasione per fare una gitarella al fiume e farsi il bagno. Partivamo insieme alle altre famiglie di barbieri, a piedi, e arrivavamo fino a Piancerreto. Babbo partiva con la camera d’aria di una ruota in spallaed era la ciambella per insegnarci a nuotare!

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— Insomma m’ sè dì ch’sa c’hei ’n tla testa? Ch’sa vè cercand? Che storia è po’ questa?

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— Ch’sa c’ho? Ch’sa c’ho? C’ho ch’el vria ben ben!

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— Fiola mia, ho capit ch’sa c’ vol per te! Girem a Sant’Ipollit a fatt’l fè! Prepera le misur e fa anca ’l disegn, j scarplin tel faran sa tutt l’impegn!

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O n’atra soluzion, bella anca quella,metts el cor in pèc e armanna zitella!

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Sant’Ippolito era il paese degli scalpellini, gli scarplin, perché una volta c’erano delle grandicave di arenaria rosa e gialla. Facevano i decori,le statuine, tutte queste cose, ed eran conosciutidappertutto, perché erano bravi e avevano fattoun sacco di lavori anche per il Duca Federico. Di conseguenza, quando a una ragazza – prova che ti riprova – non gliene stava bene neanche uno, si diceva: «Va a Sant’Ippolito e fattelo fare».Almeno glielo facevano su misura! Ma non erano mica solo i mastri artigiani gli scalpellini: dietro di loro lavoravano un sacco di spaccapietre senza nome. Lo spaccapietre era un lavoro durissimo: si lavorava tutto il giornocol piccone, si tiravano fuori le pietre a mano, poi si frantumavano e si trasportavano i blocchiche andavano scolpiti. Mio nonno, quello da cui ho preso il nome, era una specie di cantoniere, ammucchiava il breccino e rispianava le strade. Ma la breccia se la faceva da solo, spaccando le pietre, perché non c’erano mica le macchine perfarlo! E da vecchi, dopo aver fatto per una vitagli spaccapietre o aver lavorato sempre nei campi,gli uomini erano tanto gobbi che non ti puoi immaginare... Completamente ricurvi, piccolini piccolini. Non invecchiavi per niente come oggi, eri imbruttito da una vita di lavori pesantissimi. Gli altri miei nonni, quelli dalla parte dimia madre, stavano nella casa che c’è nell’ultimacurva prima del cimitero. Quella volta non erauna casa grande come è adesso, era una baraccacadente. Mio nonno aveva fatto per tutta la vita il contadino, lavorava la terra di questa casetta che però non era la sua, era di una signora di

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Roma. Anche lui era tutto gobbo, praticamente rivoltato su se stesso, ma ha continuato, finché non è morto, a lavorare con la sua zappetta. Ricordo che, quando i miei fratelli andavano lassùcoi biroccini – dei carretti con cui poi facevano a gara per la discesa – io li seguivo e i miei nonnimi chiedevano sempre di rimanere a cena, perchéero il più piccolo e gli faceva piacere... A me, invece, non piaceva per niente rimanere da loro,facevano sempre, per cena, una minestra che era l’acqua calda, con due boconotti di numero, scotti per sembrare di più. Quando arrivavi sul fondo, poi, c’era una bella manciata di pepe, cosìche l’acqua prendesse un po’ di sapore. Le pensioni le ha messe Mussolini, prima mica c’era niente. I vecchietti, se non avevano nessuno a mantenerli e non erano più in grado di lavorare, praticamente morivano di fame. Le vecchiette tenevano i bambini alle donne chelavoravano, oppure facevano qualche piccolo lavoretto artigianale, sai per non essere del tutto inutili. Mia nonna, dopo che mio nonno è morto, ha continuato a stare a casa con noi, ma non nepoteva più con cinque ragazzini sempre intorno che facevano tutto il giorno casino! Così babboaveva firmato un sacco di cambiali per farla stare al ricovero di mendicità che avevano apertodi fianco all’ospedale, grazie ad una donazione del dottor Guglielmo Paci. Ma anche lì non è cheli facessero stare senza fare niente a questi vecchietti. Gli facevano fare i rammendi oppure rifare le imbottiture ai materassi per l’ospedale. Quella volta, per sopravvivere, non si poteva maismettere di essere produttivi.

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traduzione

1 Il giardino = giardino dell’attuale piazza Dante, allora molto frequentato poiché unico giardino pubblico della città, ridimensionato negli anni a causa di danneggiamenti bellici e della necessità di allargamento della piazza per permettervi il transito degli autobus

———————

——

Una volta, di domenica, era un’abitudineandare al cinema, se eri stanco di passeggiare.Si arrivava giusto in tempo per il film Luce,dopo che si era stati al giardino [1] a trastullarsi.Era anche un’occasione per le ragazzettedi incrociare di sfuggita il fidanzatoe, in generale, per guardarsi intorno,per chi non si era ancora sistemato.

Parlavano, un giorno di quelli, madre e figlia:Quello non lo voglio, è brutto e anche basso...Beh, allora prendi quell’altro che è più alto...È alto, sì, ma è magro e gobbo, non mi piace!Il figlio della Biba? Se non mi sbaglio ti voleva.Quello è troppo giovane, no, non fa per me!Allora non resta che quello di San Martino...Quello poi no, ha i soldi, ma è un contadino!

Insomma mi sai dire cosa hai nella testa?Cosa vai cercando? Che storia è poi questa?Cosa ho? Cosa ho? Ho che lo vorrei per bene!Figlia mia, ho capito cosa ci vuole per te!Andremo a Sant’Ippolito a fartelo fare.Prepara le misure e fai anche il disegno,gli scalpellini te lo faranno con tutto l’impegno!O un’altra soluzione, bella anche quella,mettersi il cuore in pace e rimanere zitella!

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Parlè in gerrich Parlare in gerico

Parlare in gergo per non farsi capire, specificatamente riferito al latino, un tempo riservato solo a sacerdoti e dotti e ignorato dalla gente comune.

L’espressione si riferisce alla città di Gerico, più volte menzionata nella Bibbia e in alcune preghiere, per la sua assonanza con la parola gergo.

3

=

?

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Smailin era il nom d’un tip amén,mezz camerier e mezz sagresten

del curèt sor prior d’ Sant’Antoni,

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sempr dispost a prevenì l’ vojdel curèt sua o a daj ’na mèn t’imbroj.

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Per dì, se ’l prét j fèva: — Che bei gaj! —Smailin troveva sempr un mod per piaj:

sa ’na manfrina o sa ’na bona scusa,del prét la galinera en steva mei chiusa!

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Quelli di cui si parla qui sono personaggi troppo antichi perché io me ne possa ricordare,sicuramente di fine Ottocento. Però la chiesa di Sant’Antonio doveva avere la stessa strutturache ha adesso. Per il progetto dell’attuale scala,con tre discese, si sono ispirati a quella che c’eraprima degli anni trenta. Ed è stato Don Terzo Polverari, negli anni ottanta, a indagare e scoprireche era fatta così, perché se no nessuno se lo ricordava, neanche io. Una cosa interessante suquesta chiesa è che anticamente – si parla di secoli fa – era girata dall’altro verso e, quello che è l’attuale portone era l’ingresso del cortile, perché la proprietà della chiesa era circondata da un alto muro. Ma parliamo di modifiche fatte più di due secoli fa. Quello che ora è il campetto da calcio, col parco, era sempre di proprietà della chiesa ed è lì che c’erano l’aia e le gabbie con gli animali, compresi i polli. Prima della guerra la conformazione del quartiere era tutta diversa, c’era solo la borgata se no erano tutti capi recintati. Sopra al borgo, c’era la casa di dei signori, i padroni del podere che c’era sotto. Erano di Pergola e venivano qui solo per le festività... E si accorreva quando venivano perché facevano il pane di polentae lo distribuivano a tutti i poveretti. È per questomotivo che poi avevano istituito l’usanza dellepagnottine di Sant’Antonio Abate, da cui era natala festa. Il 17 febbraio si portavano gli animali a benedire in chiesa e venivano distribuite delle pagnottine benedette – poco più grandi di uno gnocco – da dar da mangiare alle bestie. Era belloperché i contadini portavano tutte le mucche, le pecore, e si riunivano nello spiazzale davanti alla chiesa, dove si suonava e festeggiava! Alla Madonna dell’8 di settembre, invece, davanti alla chiesa si faceva un gran pagliaio

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di rami, alto alto. Quando ero bambino andavamoin gruppo, con una carriola, dai contadini perfarci dare delle potature e la paglia per costruirlo.I ragazzi più grandi costruivano questo pagliaio, poi gli si dava fuoco nel piazzale e tutto il paesesi raccoglieva per vederlo. Ce n’erano un po’di occasioni per fare festa, in cui si facevano le recite, si suonava e – soprattutto per gli uomini –si beveva. Sfruttavamo le feste religiose, perchéuna volta, di svago, avevamo solamente quello. Ogni volta per organizzarle ci si pensava dal meseprima e era un modo anche per tenere occupati i ragazzini, dargli dei compiti, non farli pensare allo stomaco che brontolava… Insomma le soliteconsolazioni dei poveretti! Ce n’erano tante di processioni quella volta e io non è che fossi proprio un affezionato! Ma ce n’è una che mi è rimasta proprio impressa. Nel ‘36 c’era stato un congresso eucaristico quied era venuta un sacco di gente. Io avevo diecianni e mi ricordo che mia madre mi aveva fatto unpaio di pantaloni apposta! E tu vedessi quanta gente c’era: da San Martino a Fossombrone, perchilometri, una colonna di gente che non finivamai: erano venuti da tutti i comuni, i ragazzi dallescuole, tutti i seminaristi della provincia. Poi avevano fatto un discorso in piazza del Mercato.Ovviamente non ricordo su cosa, ma mi ricordo bene che tra i tanti c’era anche un cardinale, unRagonesi come me, che aveva chiesto di vederci.Mia madre era andata a parlarci e lui gli avevadetto che veniva da queste parti e voleva saperese c’era ancora qualcuno della famiglia perché, non avendo più nessuno, non aveva eredi. Poinaturalmente non ne abbiamo saputo più niente,ma un giorno, anni dopo, a Viterbo ho visto unascuola dedicata proprio a lui, quindi è probabile che è così che se n’è andata la famosa eredità!

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Il prete qui a Sant’Antonio, quando ero unabambina, era Don Giuseppe Londei... Un tipo grosso, un po’ robusto, ma tanto bravo, davvero!Era uno dei preti più bravi qui a Fossombrone. Poi c’era Talevi, che era uno di qua al Ponte, che chiamavano Galina – e la figlia, di conseguenza, aveva un soprannome buffo: la Lina d’ Galina. Lui portava la croce quando facevano il Corpus Domini, e le varie processioni. All’inizio portava questa gran croce di legno pieno a braccio, ma glipesava! Così gli avevano costruito una cintura con una tasca davanti, giusta così che ci si potevaappoggiare il crocifisso. Dopo averla provata,aveva detto al prete: «Ah, finalmente! Con questala croce ve la posso portare anche all’inferno!». Quando c’era la festa di Sant’Antonio siandava tutti da Fanoro, l’osteria davanti la chiesa,che fuori metteva alcuni bastoni biforcuti con su infilati dei biscotti di pasta dura con gli anici. E mamma ce ne prendeva uno a testa a me e a mio fratello, mentre lei prendeva il caffè, cheregalavano con le pagnottine benedette. Ma cen’erano tante quella volta di feste simili. A SantaLucia si faceva la festa della Madonna di Loreto,perché la statuetta era custodita in quella chiesa.Veniva trasportata su al Duomo in processione e poi si riportava giù il giorno di Santa Lucia e sifaceva la festa. Poi si festeggiava San Carlo, nella chiesa sopra la piazza. Si diceva: «San Carlozop, arriva tre giorn dop», perché cadeva tregiorni dopo i Santi. Ogni chiesetta ne inventava una. Quella a cui tenevo di più era quella agli

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Zandri, dopo che era finito il mese di maggio, incui si festeggiava nella piazzetta. Facevamo dei festoni con la carta e tutte le donne cucinavano qualcosa, il ciambellone o i biscotti. Dopo sifaceva la processione scendendo per la scalinatae arrivando di sotto al Duomo. Erano occasioni religiose ma poi diventavano una festa per tuttala città, in cui, oltre alla processione, suonavanoo facevano una recita. Diventavano momenti comunitari e si stava lì fino alla sera tutti insieme! Un’altra bella cerimonia era la Turba diSant’Ippolito, una processione del Cristo mortoal venerdì santo. Con la mia famiglia ci si andavasempre, perché mia madre veniva da là. Non soper quanti anni l’hanno fatta, ma era bella da vedere. Qui in zona si fa ancora in vari posti, comeSaltara o Cantiano. È una processione fattacome una rievocazione storica, e si ricostruisce tutta la passione con degli attori: c’è chi fa Erode,chi Pilato, e in paese son tutti vestiti da antichi romani. Anche i miei zii si vestivano, chi solo conla tunica, chi da soldato. Il giovedì invece si andava a visitare i sepolcri facendo il giro di settechiese e in ognuna una preghiera. E, quando andavo a imparare a cucire dalla Veneranda, tuttevenivano per farsi rinnovare la gonna, perché era diventato un evento mondano, si faceva perdivertimento! Ora però non si va più a visitare i sepolcri... Si sono resi conto che era una praticasbagliata. Il giovedì vai a visitare il sepolcro e il venerdì muore, non ha senso! Si sono accorti, per fortuna, che era una stonatura!

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Quando ero ragazzo la festa più bella erala processione del Corpus Domini. Venivano tutti i preti della diocesi e ce n’erano addirittura 52 quella volta! Mi ricordo che il giorno che c’èstato il Congresso Eucaristico qui a Fossombrone,io son venuto con la bicicletta per confessarmi,anzi ho fatto anche un gran cascatone con la bici.Il prete mi chiede che peccati avevo fatto e io gli ho risposto che avevo bestemmiato… E lui:«Più di una volta?» «A voglia!» e così continuava:«Più di due volte? Più di tre volte? Più di quattro?»,ogni volta aumentava il numero e tirava un urlo. Allora mi son stufato e gli ho detto: «Basta, basta,non è vero, era una bugia!». E che dovevo fare,quello continuava ad urlare ed era pieno di gente!Quella volta in campagna si bestemmiava di continuo… Si diceva che le bestemmie erano la forza dei contadini! Un prete di allora doveva pur capirlo che non aveva scopo prendersela conun contadino perché bestemmiava!

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Poi c’erano varie feste durante l’anno unpo’ dovunque. S’arrivava perfino lassù alla Pievedi Monte Paganuccio, nella domenica dopo il mezzagosto, a piedi col bidone del gelato – che praticamente ti vendevano la neve – oppure si mangiava l’anguria... Che quella volta non erarossa ma gialla! Ci si accontentava di poco. C’era la gazzosa che vendevano in delle bottiglineda 33 e aveva una pallina per tenerla chiusa, invece del tappo... Così poi si poteva staccare esi giocava con la pallina! Le feste erano quasi tutte religiose – perché se non le organizzavano le parrocchie chi le organizzava? Al massimosi facevano le fiere. Si iniziava i primi di dicembrecon i mercati di lunedì. Il lunedì vicino a natale si chiamava il lundì bell, il lunedì bello, perché tuttii ragazzi andavano a comprare il regalo allafidanzata, la legaccia si chiamava! Ma mica chissàcosa, una melarancia, le castagne, un torroncino.Era più che altro il pensiero, diciamo.

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S’arconta ch’ da ’n cert Giomba, ’na volta,c’era ’l pranz del mort. La gent sconvolta

magneva qualcò, per sostiense ’na mulica.

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El pret ariva e ch’sa vlèt ch’ v’ dica?ved un bel galinacc tl’aja a sbatta l’èl:— Podessa avec’l anch’j tel mi polèr,pensè ch’ quell è armast sensa padron!

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Smailin sent. Subbit slenta ’l cordon,el sciagatisc e el mett sotta la cotta,

impreteribilment, dattj ’na botta!

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Quella volta i funerali erano un po’ diversi da adesso... C’erano molti più rituali ed erano molto sentiti. Il pranzo del morto si faceva dopo che si era stati in casa a vegliarlo, aspettandoil prete per il funerale. Delle volte era un momentoallegro, e si ricordavano i bei momenti, ma lamaggior parte delle volte era triste e silenzioso. Dopo il funerale si faceva l’accompagno su al cimitero. C’era il carro funebre sia per i ricchi cheper i poveri, che non lo pagavano. E dietro lo seguiva un sacco di gente a piedi che creava unafila lunga lunga. Dai posti più lontani – siccomel’accompagno era molto lungo e succedeva chetanti non potessero venirci – avevano addiritturamesso su una compagnia, s’erano organizzati in modo tale che tutte le famiglie della parrocchiadovessero mandare almeno una persona, così che venisse fuori un bell’accompagno. Era quasi

verena

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un obbligo. E abbiamo continuato così anche fino a dopo gli anni cinquanta! Poi di notte i mortisi assistevano. Li portavano nella chiesa del cimitero o nella cappella e pagavano qualcuno perpassarci tutta la notte. Mi ricordo che quella volta usava – invecedi far dire le messe per i morti come si fa adesso,pagando i sacerdoti – di pagare oppure regalare qualcosa a delle vecchiette perché andassero a scontare una messa. Così le vecchiette che nonfacevano niente potevano tirare su qualcosa. Praticamente, invece di dare i soldi al prete perla carità, li davi direttamente a chi vedevi che ne aveva bisogno. C’erano alcune vecchiette checampavano solo così, di favoretti fatti in giro.Scontavano le messe, raccoglievano e pulivanol’erba di campo, tenevano i bambini… Almeno avevi una buona scusa per aiutarle un pochettino.

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A Fossombrone, ai nostri tempi, bisognadire che siamo stati fortunati rispetto a altri posti.Abbiamo avuto un sacco di preti in gamba, chesi sono sempre fatti in quattro per aiutare tutti.A Sant’Agostino c’era Don Vitali, che era un gran prete e raccoglieva tutti quei bambini orfanio abbandonati. Lui era uno dei pochi che non aveva nessun podere – perché quella volta se noi preti avevano tutti il beneficio. La mattina, tuttii giorni, andava dai signori a bussare per chiedere:«Oggi ai bambini cosa gli diamo da mangiare?».Partiva con una bottiglietta per l’olio, quella perl’aceto, una sacchetta per la farina e domandavaa tutti i signori di aiutarlo a riempirle. Gli hanno fatto anche una statua nella sacrestia, perché eradavvero un prete straordinario per quegli anni. Come anche Don Mario Lanci e Don RemoOrtensi, che si sono sempre impegnati tanto per aiutare i poveretti. Don Lanci – nei periodi dicrisi – faceva sempre il giro delle famiglie più povere a portare un piatto di ceci oppure di fagioli e Don Remo aiutava nel fare le pratiche, vistoche molti erano analfabeti, e non saprei quante pensioni avrà fatto avere qui! Era il cappellano del carcere e per questo lo chiamavano il galetto

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di Dio, anche se è un nome che non gli rende giustizia, visto che era una gran brava persona.A Sant’Antonio – come ti dicevo – c’era Don Giuseppe Londei, che ci sapeva proprio fare conla gente, tant’è che, il giorno di Sant’Antonio, era soprattutto grazie a lui che la festa veniva cosìbella! Era un uomo energico e non ti giudicava mai troppo duramente. Poi tutti si impegnavano anche per dare qualcosa da fare ai bambini, che all’epoca non avevano niente ed era facile cheandassero a finire male. Poi è ovvio, c’erano anche i preti con unpo’ meno vocazione... Ma, in generale, abbiamoavuto dei preti bravi, che persino in tempo diguerra, quando da mangiare non c’era, cercavanosempre di dare una mano a chi sapevano chenon riusciva più a tirare avanti. Come dappertuttoc’erano anche i birichini, come Don Guerino,che non è che era cattivo, per carità, ma avrebbedovuto fare un altro mestiere! Era un bell’uomo e s’era fatto anche la nomina di donnaiolo. Era piùun affarista che un prete. Ma curava gli affari della chiesa, mica altro. Ha fatto ricostruire tuttele parrocchie che erano distrutte o abbandonate,anche nei dintorni, in campagna.

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Come ovunque anche tra i preti ci sonoquelli onesti e quelli un po’ meno... Don Guerinouna volta mi ha dato due schiaffi che ancora mirimbombano le orecchie a pensarci! Era successoche, insoddisfatti dal suo operato, Bucchi e DonRemo Ortensi avevano scritto una lettera per il papa. E figurati chi l’aveva firmata se non io, comesegretario di zona della Cisl, e Santi Alessandro,in veste di segretario della Democrazia Cristiana.Diceva così: «Il vescovo vive rinchiuso nel suopalazzo intento a metter da parte i suoi risparmi,di ben 35 fondi rustici. Non ha mai visitato unammalato alla locale casa di cura o un carceratoalla locale casa di pena. In tutto ciò coadiuvato dallo spregiudicato amministratore canonico DonGuerino Mancinelli, che gira in lungo e in largocon una lussuosa macchina Ardea, a disposizionesua e dei suoi amici. Frequenta bar e allegre compagnie destando lo scandalo pubblico di tuttala città», la so a memoria praticamente! Dopo qualche mese da quando era stataspedita, ero insieme al parroco di Montefelcino,Don Zeno, e gliel’ho confidato. E lui: «Ma seimatto? Guarda che gliela rimandano la lettera!»e io: «No, no, noi abbiamo richiesto l’assoluta segretezza della Santità Vostra…». E invece nongliel’ha mandata davvero? Un lunedì mattina, verso le nove, arriva il vicario a dirmi che voleva vedermi il vescovo. Vado a controllare e vedo che c’era lì parcheggiata una macchina di Roma,doveva essere venuto qualcuno per quello! Così non ci sono andato. Verso le undici torna ilvicario a chiamarmi, a mezzogiorno di nuovo…All’una prendo coraggio e vado. Il vescovo stava

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portando l’ospite venuto da Roma a mangiaree mi dice di tornare dopo. Nel frattempo viene dame Santi e mi dice che son stati anche da lui...Allora era vero! Quando alla fine andiamo ci fannoaccomodare e l’ospite ci riempe di domande, finché non accende l’abat-jour e ce la punta nellafaccia, come negli interrogatori dei film, dicendo:«Voi siete quelli che hanno scritto al Santo Padre,dicendo peste e corna del vostro vescovo!», ha iniziato a inveire, a sudare, c’ha lanciato foglioe penna urlandoci che dovevamo scrivere un’altralettera, in cui spiegavamo al papa che erano tutte menzogne, tutte fandonie, se no ci facevacacciare dal posto di lavoro! A quel punto gli horisposto: «Lei non può farlo, perché di ogni azionebisogna poi rendere conto alla gente, al paese, e io di quella lettera ne conservo una copia… Le piacerebbe se fosse pubblicata dal Resto del Carlino o l’Unità?». Continuava ad inveire così mi congedo, dicendogli che non c’era più nulla dicui parlare. Eravamo arrivati ai piedi delle scalee ancora ci urlava dietro che eravamo dei banditi. Il giorno dopo ero in ufficio con altri cheerano venuti per chiedere che avevo combinato.A un certo punto sentiamo sbattere ed entra Santi con dietro Don Guerino che lo riempiva dischiaffoni! Santi, visto che ora aveva i testimoni lo sfida a picchiarlo lì e lui invece cosa fa, mentreio ero tutto intento a guardare Santi? Dà due schiaffi a me! Ma forti! Dopo, come punizione, lohanno mandato un mese su dai frati in Toscana. Negli anni successivi ha fatto cose per la città,era un uomo intelligente e ci siamo riappacificati.Ma non doveva fare il prete! Tutto lì!

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El pranz è fnit. El mort scappa da chesa.Smailin serv ’l pret, sa ló va in chiesa.

Ma ’l curèt s’acorg ch’j spendla gió da bassdel galinacc la testa, e va anch’al pass!

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— A porta Inferi... — atacca e dà l’alarm, trasformand com j pèr di mort el carm:

— Tira ’n po’ só q’i pendulum pendulorum!

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— Capisc ben, vos parlare in gerricum! — rispond Smailin, mentr l’eco di present,

agiung convinta un «amen» trist e lent.

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Eravamo un po’ indietro... Tutti ignoranti. Non era molto difficile fregarci. Non capivamo neanche l’italiano, figurati il latino! Quel periodoera in questo maniera. Quasi nessuno sapeva scrivere, se uno aveva fatto la prima o la secondaelementare già era parecchio. Mia madre aveva fatto la prima. Quando scriveva, in tutte le paroleche cominciavano con e, a, i… Dappertutto leici metteva l’acca davanti! Un giorno che mia figliaaveva fatto i compiti – faceva la seconda mi pare – gli fa la nonna: «Paola, ma qui non va beneniente, non hai messo l’acca da nessuna parte!».Lei era da poco che andava a scuola, le ha dato retta e c’ha messo l’acca. Quando il giorno dopoè andata a lezione le ha detto la maestra: «Paola,ma cos’hai fatto?», e lei: «Nonna mi ha detto che lo dovevo fare così!». La maestra Tecla, poi è passata davanti a casa di mia madre e le ha detto: «Voi, Maria, quando la Paola fa i compiti, è meglio se andate ad annaffiare l’orto, che lei da sola, sa fare molto più che ne voi...». Capirai, mia madre aveva fatto la prima, e comunque non ci andava quasi mai, perché in casa lei era la più grande e aveva tutti i fratelli e le sorelle a cui badare, in più mia nonna ha tenuto

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anche due bambini a balia, a cui dava il latte quando non lo dava più al suo… Per cui fa conto,mamma ce n’aveva sette o otto a cui badare! Della seconda elementare, invece, aveva fatto unmese solo, perché dopo, quella che era venuta a riprendere il figlio che era a balia aveva detto: «Questo bambino non ci riconosce, bisogna che mi date vostra figlia, perché se no con noi nonci vuol venire». Così l’hanno portata via con loro.La facevano dormire nella stalla e mangiare sul piano del camino, non a tavola. Mia nonna, dopouna mesata che era andata via con questi, la va a trovare e domanda a una donna: «Dove sta la tal famiglia?», e quella gli risponde: «Voi non sarete la madre di quella bambina? Portatela viache la trattano come un cane, la fanno dormire nella stalla!». Mia madre aveva sette anni, non sisapeva ancora nemmeno pettinare... Avevai capelli lunghi lunghi e, quando era partita, avevale trecce, e loro con quelle l’avevano lasciata! Non l’avevano mai pettina, tanto che poi nonna, quando l’ha riportata a casa, le ha tagliato tuttii capelli… Poi li ha portati sempre lunghi, ne avevaun sacco ed erano molto belli, tutti neri e tutti ondulati perché faceva sempre le trecce.

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All’epoca i contadini – che a scuola nonci andavano – avevano solamente la vita militareper imparar qualcosa, per loro era un’occasioneimportante. Oggi il servizio di leva non è neanchepiù obbligatorio e secondo me è una mancanza, ma sono opinioni. Secondo me nella vita militarec’è tutto da imparare, si capisce l’obbedienzae il fare le cose nel momento in cui vanno fatte.Immagina un gruppo di ragazzi, figli di contadini.Sono forti, sanno guidare un trattore, sanno fare un sacco di lavori… Presi uno alla volta sonotutti bravi, ma messi tutti insieme fanno paura, ché non hanno nessuna preparazione, nessuna conoscenza. E la conoscenza è fondamentale. Almeno con la pre-militare imparavano qualcosa. Io non ho mai avuto paura a chiedere a chi ne sapeva più di me, sono sempre stato unficcanaso, perché più di me ne sapevano tutti.Io nella vita ho fatto per trent’anni il sindacalista,ma mi è costato molto di più di quello che è costato a tanti altri... Perché io ho fatto la terza elementare in campagna. Quello che per altri era

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solo un piccolo sforzo per me era difficilissimo.Ma non volevo mai arrivare secondo e, faticando,in qualche modo ci sono sempre riuscito. Finoagli anni sessanta – e anche oltre – qua c’eranoun sacco di analfabeti. Eravamo tutti davvero ignoranti. Mi ricordo di uno a cui dovevo registrarei dati a cui chiedo: «Quando sei nato?» e lui fa: «Non mi ricordo, ero piccolo». Dopo, per fortuna,sono cominciate le scuole serali, se no davvero,non sapevamo niente. E le ragazze? Gli chiedevi:«Dove andate a ballare sta sera?», e loro perfar le fini: «Andiamo alla ciliegia». E intendevanoil paese di Cerasa, perché pensavano che il nomefosse in dialetto e lo traducevano! Una voltasono andato con un tipo della Camera del Lavoroa trovare delle squadre che battevano con letrebbiatrici. Andiamo anche fin su a Montalto daun contadino che mi conosceva, così lo raggiungoper presentarglielo. Quello della Camera delLavoro gli fa: «Piacere, Romagnoli!» e il contadino:«L’ho detto io che non ci conoscevamo, io sono marchigiano!». Aveva capito proprio tutto!

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Io devo ringraziare davvero mio padre che a me e ai miei fratelli ci ha fatto fare a tuttila quinta elementare, ché quella volta, quasi tutte le persone, facevano al massimo la terza. Magari l’abbiamo fatta con un po’ di spintoni, ma tutti abbiamo finito le elementari. In più, dopo,non ci ha mandati semplicemente da qualche contadino ad aiutare nei campi: c’ha mandati tuttiad imparare un mestiere, che era una cosadavvero importante quella volta! Poi ovviamente,imparare il mestiere non era una cosa scontata, perché gli artigiani non volevano veramente che tu imparassi, ti ci dovevi intestardire! A me sarebbe piaciuto fare il meccanico, perché mio fratello maggiore faceva quello, ma mi hanno mandato da Romolo Marchetti, unfalegname. Ho continuato ad andarci per anni senza vedere una lira, ma non è che lui in cambiomi insegnasse qualcosa, al massimo mi dava da scaldare la colla! Sai quanti ne saranno venuticon me a imparare ma si sono stancati, perché preferivano andare a guadagnarsi due soldi piùfacilmente. Il mestiere lo dovevi davvero rubare,essere curioso, guardare tutto quel che si faceva!E pian piano mi sono innamorato di quel lavoro.Anche se i primi soldi che ho visto, a 18 anni, mi sono bastati giusti giusti per andare al cinema e nient’altro. Il sabato mattina s’andava in bottega

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per risistemare quello che si era fatto durante la settimana, così da trovarsi il lunedì tutto pulito.E in teoria quello era il giorno in cui Romolo doveva passare per pagarci. Ma non si faceva maivedere, così noi dopo un po’ ci stancavamo di aspettarlo e ce ne andavamo... Solo che, se non li avevi avuti di sabato erano soldi persi perché di lunedì cominciava la nuova settimana. Quante discussioni ho avuto con Romolo. Lui era molto bravo come falegname, ma era all’antica. Invece, appena finita la guerra, l’Italia improvvisamente era un fermento, ché andava ricostruito tutto, e, a Pesaro, lavoravano in ogni cantina, in ogni buco, con i primi macchinari. Romolo, ogni tanto, mi portava a Pesaro con séper lavoro. Io guardavo come lavoravano e rubavocon gli occhi! Quelli facevano dieci camere alla settimana, noi ne facevamo una al mese! Ma poi,quando io andavo per provare a velocizzare il lavoro, lui si arrabbiava e urlava: «Ma come l’hai fatto questo?» e io: «Ma scusa, va bene? E allorache problema c’è?». Ma lui si imbestialiva, nonriusciva ad accettare che il suo lavoro cambiasse,era radicato al vecchio sistema. Il mestiere che ho imparato lì con lui è stato presto sorpassato, potevi continuare a riparare una sedia, a farequalche lavoretto, ma c’era una vera rivoluzionein corso! E a Fossombrone in pochi l’han capito.

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All’epoca la scuola era diversa da adesso,c’erano un sacco di differenze in più tra i signori e poveretti. I primi sedevano tutti nelle prime file e quel che facevano loro andava sempre bene,mentre gli altri si prendevano certi schiaffi sesbagliavano! Ma i bambini sono sempre bambinie in qualche modo dissimulano le tensioni socialie si sentono tutti uguali. Quando andavo all’asilo,mia madre mi faceva il cestino della merenda e cimetteva una rosetta. Mio padre era antifascistae quindi non avevamo nessun privilegio pubblico,l’asilo dovevamo pagarlo. C’erano due sezioni: quelli non a pagamento e poi quelli che pagavano.Quindi nella mia classe c’erano quelli che non erano iscritti al partito fascista e i figli dei signori,ed eravamo in pochi. Ero circondata da gente altolocata, che aveva i soldi. La mia amichetta eral’Augusta Sorbini – che era figlia di un fattore –e anche lei come me aveva sempre la rosetta permerenda. Ma, come fanno tutti i bambini, noi desideravamo sempre quello che hanno gli altri! Nell’altra classe c’era una bambina, la Rita, cheera proprio figlia di una poveretta, che a questa bambina, per merenda, dava una fetta di panenero. E a noi ovviamente non piaceva la rosetta,volevamo il pane nero! Così quando mandavano nel giardino le due classi insieme, noi andavamo subito a fare comunella e far con lei gli scambi di merenda: un giorno lo scambiava con me e ungiorno con l’Augusta, una volta per uno! Quando poi andavo alla scuola elementarenon so perché ma le maestre mi volevano molto bene. Forse era perché mamma gli faceva i vestitie quella volta usava che la sarta ti venisse incasa a prendere le misure... E mi madre, visto chenon sapeva dove lasciare me e mio fratello, ciportava sempre con lei, così le conoscevo tutte!Allora, a scuola mi usavano come un corriere:

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«Verena, vai dalla maestra di là e portale questobigliettino!». Quando hanno fatto le prime tre case popolari – giù al Napoli – hanno bandito unconcorso per un tema, e hanno scelto il mio!Però il tema lo dovevamo mandare via illustrato,così io l’avevo scritto tutto per bene e le sorelle Montanari – che erano molto brave – ci avevanodisegnato queste tre case popolari. Mi ricordo che ogni anno eravamo obbligati a fare una curadi olio di fegato di merluzzo e dovevamo portareil cucchiaio. Ci mettevamo tutti in fila e la maestrapassava e ce lo dava. Ma era così cattivo chenon si mandava giù e portavamo anche una fettadi limone da mangiar dietro, per togliere di boccail saporaccio! Ogni anno facevano i campeggi a Metaurilia, ma io e mio fratello non potevamo andarci, sempre per il fatto che nostro padrenon era fascista. Mio fratello ci teneva tantissimoe un anno, non so come, ma l’hanno preso, così con mamma e babbo andavamo a trovarlo. A me la scuola piaceva, mi ci trovavo bene.Forse per quello ho scelto di insegnare e – perfortuna – i miei mi hanno permesso di studiare. Ricordo che quella volta, per essere ammessialla scuola media, c’era un esame molto grosso e addirittura prendevamo lezioni private, perchéc’era tantissimo da studiare. Nel ’47 poi, dovevo andare a scuola a Fano, ma non c’erano le auleperché erano tutte occupate dai soldati. Alloraci si andava tre volte alla settimana: tre giorni facevamo lezione noi e tre giorni un’altra classe.Solo che non c’erano i mezzi per andare a Fano! Quindi ci arrangiavamo chiedendo i passaggi agliAlleati... Saremo stati una decina tra ragazzi e ragazze, così se ne mandava un paio a fermare i camion e, mentre quelli ci parlavano, gli altri si arrampicavano da dietro, perchè se no non ci caricavano mica tutti!

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traduzione

1 Smailin = volgarizzazione del nome Ismaele 2 Manfrina = lagna, tiritera, anche sceneggiata messa in atto per ottenere uno scopo3 Una mollica = un pochettino 4 Impreteribilmente = infallibilmente (termine in disuso sia in lingua italiana che dialettale)

——

Smailin [1] era il nome di un tipo ameno,mezzo cameriere e mezzo sacrestano,del curato signor priore di Sant’Antonio,sempre disposto a prevenire le vogliedel suo curato o a dargli una mano negli affari.Per dire, se il prete gli diceva: — Che bei galli! —Smailin trovava sempre un modo per prenderli:con una manfrina [2] o con una buona scusa,del prete il pollaio non stava mai chiuso!

Si racconta che da un certo Giomba, una volta,c’era il pranzo del morto. La gente sconvoltamangiava qualcosa per sostenersi una mollica [3].Il prete arriva, e cosa volete che vi dica?vede un bel tacchino nell’aia che sbatte le ali:Potessi avercelo anch’io nel mio pollaio,pensare che quello è rimasto senza padrone!Smailin sente. Subito allenta il cordone,lo soffoca e lo mette sotto la cotta,impreteribilmente [4], datagli una botta!

Il pranzo è finito. Il morto esce di casa.Smailin serve il prete, con lui va in chiesa.Ma il curato s’accorge che gli spenzola in bassodel tacchino la testa, e va anche al passo!A porta Inferi... — comincia e dà l’allarme,trasformando come gli pare dei morti il canto:Tira un po’ su quei pendulum pendulorum!Capisco bene, vos parlare in gericum! —risponde Smailin, mentre l’eco dei presenti,agginge convinta un «amen» triste e lento.

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Tra ’l corra e ’l fuggia Tra il correre e il fuggire

Detto di due cose più o meno uguali, che hanno pochissime differenze.

L’espressione mette ironicamente a confronto l’azione di correre e quella di fuggire: due azioni diverse negli intenti, ma uguali nello svolgimento.

4

=

?

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‘Na volta useva la vegghia del mort e s’ fèva a la nott, dop l’accompagn,

dentra la chiesa dla Santa Anunzièta.

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Pechiscia e G’vanon pensev’n anicò, cinqv lir bastev’n p’ la vegghia paghèta,

anzi, pi dó, c’ niva pur la spagh’tèta!

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A mezzanott, lascèt Pechiscia sal mort,G’vanon s’ giva a cocia ’n po’ d’ confort:

pr’intend’c, ’n chil d’ spaghett tl’osteria.

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Dopo la processione funebre, i morti li portavano nella chiesa della Santa Annunziata, lì vicino al cimitero. A volte li tenevano dentrola cappella, altre nella camera mortuaria, che erasulla sinistra, poco dopo l’entrata. E pagavano qualcuno perché gli facesse la veglia. Dopo quegliuomini, mentre aspettavano, spesso facevano la spaghettata, perché non sapevano cosa farealla notte e lì mi sembra ci fosse anche il mododi cucinare, perché prima era un convento. L’attuale convento dei frati Cappuccini, infatti,è nato lì. Dopo si son spostati lassù sul colle deiSanti. La riforma l’ha fatta il Padre LodovicoTenaglia, che era uno dei conti di Fossombrone.La riforma stretta dei frati è venuta da qui e ilBeato Benedetto – dove stanno adesso – era deiconti Tenaglia. Se vai lassù, c’è ancora la pietra con su scritto che l’avevano fatto sistemare loro. In pratica c’era stata una scissione all’interno dell’ordine dei frati Cappuccini perché c’era chi siispirava a San Francesco, e voleva una vita più morigerata, ispirata… Mentre prima a fare il fratec’andava anche chi era solamente vagabondoe non aveva voglia di lavorare. Solo che per esser

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presi dovevano portar qualcosa di dote quandoentravano... Ma di figli ce n’erano talmente tantiche al padre conveniva metter insieme qualcosa,perché così – se aveva un figlio fannullone – erasicuro di sistemarlo, come in un matrimonio!E anche il cimitero comunale era nato all’epoca del convento, in seguito a un’epidemia di colera. Se no prima i morti si mettevano vicino alle chiese, o i contadini li mettevano direttamente nel campo o vicino a casa sotto un albero. Prima comunque – come ti dicevo – i frati erano davvero molti, non era come adesso che ci vanno in pochi... Perché lì si mangiava senza pensiero. E facevano un sacco di cose, poi pian pianino hanno smesso. Ora non ce la fanno più,son tutti vecchiarelli. Ma mi ricordo che quella volta invece facevano l’orto. Non so se ci sei maiandata dentro al convento dell’Annunziata –perché ora non è più agibile – ma c’era il chiostrocon il pozzo al centro e un bel cortile con tuttoil loggiato affrescato. Lo spazio dedicato all’ortoera davvero grande, faceva un’invidia! Al centrodell’orto c’era una vasca molto grossa, sarà stataquattro metri per sei… Una mezza piscina!

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Ma non so se quella c’è ancora perché dopo nongli serviva più, visto che avevano preso l’acquadi vena che usciva nel podere sopra al convento,che era sempre dei frati, e così avevano portatol’acqua dentro il palazzo. Il podere poi l’avevanovenduto a uno d’Ancona, ma non lo so adessodi chi sia… C’era una casa che ora è abbandonataed è andata giù del tutto. Lassù se no ci facevanosempre il ghiaccio, ché di acqua ce n’era tanta. Sul colle dei Cappuccini infatti c’era molta acqua,c’erano parecchie vene… Poi sai, coi vari lavori molte si sono chiuse. Basta cambiare un singolofosso per far chiudere una vena! Comunque, anche quando si son spostati al Beato Benedettohanno costruito uno spazio per fare l’orto molto grande, e quello è ancora visitabile. Di conventi a Fossombrone ce n’erano veramente tanti, un’enormità: a San Filippo c’eraun convento, dietro a Santa Lucia c’era un altroconvento di monache e a Santa Monica – anchese non c’era più da tanto tempo – continuavamo a chiamarla così perché prima c’era un convento!Poi sopra la Cittadella, in alto, ce n’era un altroe c’era quello di Sant’Agata lì all’ospedale vecchio.

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Qui era davvero tutto conventi e chiese col fattoche eravamo sotto lo Stato Pontificio. E vistoche di poveretti ce n’erano parecchi, andavano lì,almeno avevano qualcosa da mangiare. A fine Ottocento, in pratica, era ancora Medio Evo qui. Durante la guerra, alla Santa Annunziata ci saranno state perlmeno una ventina di famigliesfollate. Se vai su a guardarla, è davvero moltogrande. E i primi tempi, quando avevano colpitol’ospedale ed era danneggiato – oltre ad essere troppo vicino alla zona in cui bombardavano –avevano portato i malati lassù e ci avevano fattoanche il primo ricovero per gli anziani. A guerrainoltrata, invece, i malati li avevano portati a Isoladi Fano, così non rischiavano i bombardamenti, e lì alla Santa Annunziata avevano lasciato postoper gli sfollati. L’hanno sfruttato bene perché non ce ne sono tanti di palazzi così grandi. Infattidentro ci sono un sacco di camere! Io dicevo qualche volta: «Ma quei quattro fraticelli, cosa cifacevano con cinquanta camere?». Ma è perché uno non si rende conto che un tempo, dovevano essere davvero in tantissimi, e la costruzione èmolto antica, di metà Quattrocento.

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Pechiscia per passè el temp a tutt i cost,ch’sa fa? J fa ’n bel scherz e j robba ‘l post!

Mett quel stechit a seda, sal frajol, calzandj ben ‘l capell sla faccia d’ cera…

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G’vanon arvien: — I spaghet en pronti!Daj gió, ch’en cotti! Dormi? O en n’j vò?

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E ‘l mort, per ritt sla cassa, dic convint:— Se ló en n’j vòl, alora j magn tutt ì!

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Io di Pechiscia e G’vanon mi ricordo bene, o almeno credo! Erano dei tipi ignoranti come eravamo tutti... Visto che nessuno degli uomini guadagnava, gli davano quelle cinque lire per andare alla veglia del morto e passare la notte lì.E così avevano tirato su qualcosa! G’vanon erauno grosso, per questo lo chiamavano così, avevauna bella pancia e un bel faccione. Faceva il falegname… Costruiva proprio le casse da morto!Pechiscia invece era un tipo mingherlino, secco secco. Erano una bella coppia a vederli insieme!E come tutti gli uomini erano dei frequentatori di osterie... Pensa che ce ne saranno state più diquindici a Fossombrone! Tanto gli uomini eranosempre lì dentro! Al Ponte c’era quella di Fanoro,nello spiazzale davanti alla chiesa, e in quellaandava chi abitava nel borgo, mentre dal centroci si andava solo per la festa di Sant’Antonio. Anche lungo il corso ce n’erano tante, soprattuttosotto le logge dei poretti: Contrano della Gigina davanti al comune, che era un tipo terribile nel farcritiche! Stava lì nell’osteria per tutto il giorno e bollava tutti! Erano le chiacchiere da paese, malui era proprio famoso per quante ne faceva! Poi c’era Giacomin, Rusc’tin, la Vippra verso PortaFano. Lei poi l’aveva passata al fratello, Rinci, che aveva messo su l’hotel Giardino. Quello primaera il palazzo del podestà e dicevano che, daquante cambiali avevano firmato per acquistarlo,non sapevano più neanche se la firma era la loro! Anche vicino a casa mia, in via Nazario Sauro,c’era un’osteria con cucina, era dell’Elvira, oppure

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proprio davanti al giardino pubblico, c’era l’osteriadell’Eva – la cugina di mia madre – lì dove ora c’è il bar Giardino. Poi, verso viale Europa, c’eral’osteria delle Gentili, che aveva anche la trattoria,e alla croce c’era quella di Trentino. Erano tante,troppe! E poi alcune forse neanche me le ricordo,ché io mica andavo in osteria! Erano localetti, con una damigiana sopraun cavalletto da cui si prendeva il vino. A latoc’era un banconcino e due-tre tavolini in cui ci sisedeva a giocare alle carte, a sparlare di politica,e soprattutto a bere. Nel periodo in cui si facevala vendemmia e si faceva il vino, certe volte neveniva di più e altre di meno. Quando ne avevanoparecchio, prendevano un permesso al comune,affittavano una stanza e mettevano su un’osteriaprovvisoria giusto un mese, un mese e mezzo,finché non finivano il vino. Mettevano il banconee qualche tavolino e avevano fatto. Come se giànon bastavano le osterie che c’erano. Comunque, si usava ogni tanto, di metteresu questa spaghettata. Era un momento perstare insieme perché quella volta devi capire, nonè che si andasse a mangiare fuori al ristorante. Così si sfruttavano quelle osterie con cucina e siimprovvisava un pasto. E ammazzavano pure qualche gatto, se non avevano niente per condire!Era un momento goliardico, ché tanto, spesso, erano già tutti ubriachi! Se no nelle osterie senzacucina, davanti, in alcuni giorni della settimana, si mettevano a vendere gli spuntini: un giorno le pere cotte, uno le mele, uno i biscotti...

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G’vanon s’ sent a g’lè giò p’ la schina…E tacca sparèt a fuggia, a rotta d’ col!

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J manca ’l fièt e j vien ’n gran panscion e, sfnit, s’butta s’un murett, bel e mort.

Pechiscia ariva: — Ch’sa fuggi? È paura? So ì!— Fuggia? No, corev gel... Gabinet! Sì sì…

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— C’ho propri el pel tel cor, t’ho spaventèt?Tra ’l corra e ’l fuggia, è zuppa o pèn molèt!

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Quella volta di credenze popolari ce n’eranoun sacco: spiriti, streghe, lupi mannari! La genteci credeva e così ci si giocava su. Ti racconto unfatto buffo. C’era un tale – Gorini – che si era fidanzato con una ragazza, la Vanda, così la serala portava a passeggiare, a volte anche fin sottoal cimitero. Questo ragazzo era stato cresciutoda un prete e diceva di non crederci negli spiriti e di non avere paura di niente. Quindi, una sera,hanno chiamato un poveretto – che chiamavanoSpacca Madonn da quanto bestemmiava – e glicommissionano uno scherzetto per cinque lire:doveva mettersi un lenzuolo addosso e saltaredal muretto che c’è davanti casa di Vegliò, quandoi due fidanzati passavano, così da spaventarli. Lui, poveretto, stava acquattato dietro il murettoe, avendo paura di non riuscire a scavalcarlo, aveva fatto un gran salto, tant’è che era caduto giù per terra e si era rotto il naso! Così aveva cominciato a urlare, a piangere e ad agitarsi tutto!Tu immaginati, questi due, che paura avevano avuto, al buio, con questo fagotto che cade giùper terra e inizia a belare! Probabilmente, se gli riusciva il salto, non li spaventava neanche, macosì, la scena era riuscita alla perfezione! Gorini

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tra un po’ non se l’era fatta addosso! Aveva fattoproprio una gran figura con la morosa! Se no mi ricordo un’altra sera, in cui, conun gruppo, andiamo al cimitero a fare il spiritisìm,la seduta spiritica, col tavolinetto a tre gambe. Ci mettiamo nell’incrocio, davanti alla tomba diPierucci, e accendiamo la candela. Tutti quantisentivamo parlare ma non riuscivamo a mettercid’accordo su quale fosse la direzione da cuiproveniva il rumore! Visto che la seduta non stavafunzionando, decidiamo di smettere in quel puntoe riproviamo più in giù, dove c’era il cimitero non benedetto. Nel frattempo non sapevamo chestavano facendo i lavori per costruire la galleria per portar l’acqua a Pesaro. Mentre partiamo conla frase di inizio: «Se sei nei pressi fatti sentire!»si sente un gran rimbombo nella vallata, all’una dinotte! Figurati se pensiamo ai lavori! Ci siamomessi a scappare per la paura! Ero rimasto io coltavolino così lo prendo su. Non mi ricordavo cheavevamo aperto solo la porticina nel cancello, eratutto buio, così passando il tavolino fa resistenzae lì per lì penso che qualcuno me lo sta tirando via, così lo butto a terra e mi metto a scappare,urlando: «Qualche cosa mi ha preso il tavolino!».

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E tutti a correre come i matti per la discesa delcimitero! Mi è toccato anche andare a riprenderequel benedetto tavolino, dopo! Ma di scherzi, per mettere paura alla gente,se ne facevano un sacco. In campagna se c’eraqualcuno che era un po’ più credulone, se lasciaval’aratro in mezzo al campo, glielo si prendevae si andava a legarglielo su in cima a una pianta! Ne combinavamo di tutti i colori, perché non c’era altro. E poi si diceva: «È stato l’uomo nero!».Una volta, con altri due siamo andati a rubare le mele da Pagliari, solo perché quell’anno gli eranvenute delle mele molto belle. Come se noi nonce l’avessimo le mele… Ce le avevamo da buttarvia! Eravamo in due contadini e un padrone, tufigurati se ci servivano! Ma quando non hai nienteda fare te ne inventi sempre una, anche se nonha nessun senso! Solo che non avevam calcolatoche avevano un cane, che si mette ad abbaiare e li sveglia! Uno di quelli che erano con me, non prende la doppietta e gli spara!? E spara anche verso la casa, così il contadino, capirai, chiude lefinestre e si rinchiude dentro! Figurati se volevafarsi sparare per due mele! Siamo scappati a

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casa e poi per tre giorni ci sono stati i carabinieriad indagare, ma nessuno poteva pensare che eravamo stati noi, ché non aveva proprio senso!Ma si facevano le bravate, così… Senza neanchepensare. Una volta erano in un bel gruppettoe avevano bevuto un po’ di vino… Ne portavano più nella pancia che sulla schiena, gli si diceva! E insomma, mi hanno preso la traggia, che è tipouna slitta, un carro senza ruote che si trascina, e me l’han portata giù per due chilometri, perchéaveva gelato e andava giù bene. Ma non volevo passar da scemo quando mi sono accorto, così,di notte sono andato con due vitelle a prenderla e l’ho riportata a casa senza dir niente a nessuno!Era gelato e poverette le mucche scivolavano da tutti i versi! Erano gli scherzi da prete, ma nonlo so, si facevano forse perché spesso gli uominierano ubriachi, così gli venivano fuori queste ideegeniali! Magari dicevano a uno che la moglie sela faceva con qualcun altro e quello si perdeva lagiornata di lavoro per correre a casa e picchiavapure la moglie! Eravamo ignoranti e non avevamoniente e questo, delle volte, ci portava ad esserecattivi anche senza alcun motivo...

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Al tempo di notte non c’era l’illuminazione,faceva paura andare in giro. Dicevano sempre che vedevano il diavolo, le sibille, oppure gli spiriti,lo spervengl si diceva qui da noi... Che ti saliva di notte sulla pancia e, se riuscivi a buttarlo giù,ti arrivavano i soldi. E al massimo invece eraun mal di pancia! Ma tanto di notte era buio pestoe appena uno sentiva un fruscio o un qualsiasi rumore, si spaventava, chissà che cosa credeva di aver visto! Dopo la guerra ancora non c’era l’illuminazione, così, quando andavo a imparare a cucire la sera, mio fratello mi veniva sempre a prendere, ché io avevo paura di andare in giroda sola! E se non avevamo finito, la Gigia, dacui andavo a far le finestrelle gli diceva: «Sabaudo,va a fare un giro in piazza, ché ancora abbiamo da fare!» e lui si lamentava: «Allora non ci vengo più, è sempre così, non finite mai!». Ma alla fine mi aspettava tutte le volte, poveretto! Comunque babbo mi raccontava sempreche suo nonno, quando era giovane, era andato,con un gruppo di uomini, a cercare un tesoro,

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che si diceva fosse seppellito in una delle grottesu al Furlo. Quando hanno scavato coi picconi, han detto che c’è stato un gran lampo e che sonosvenuti tutti. Giovani e vecchi si erano risvegliaticon i capelli bianchi e avevano vagato per tre o quattro giorni, perché non riuscivano a tornarea casa! Sicuramente era scoppiato qualcosa, ma loro dicevano che era uscito il diavolo, perchéquella volta si motivava tutto così, il diavolo lomettevano ovunque! Altre cose non mi vengono in mente, però mi diceva mia madre che, quandoavevo tre anni, io avevo avuto la grazia dalla Madonna delle Grazie. Hai presente il Furletto cheè dove c’è quell’arco piccolino con la scaletta? Io abitavo lì in cima sulla sinistra. C’è un terrazzodove c’era una madonnina: la Madonna delle Grazie. A tre anni mi ero fatta male in un ditoe mi era andato in suppurazione, avevo il bracciotutto rosso e la febbre a 42! Il dottor Amadori, detto Sbrojalett – lo chiamavano così perché eracelere nello svuotare i letti dai malati, ma nonnecessariamente perché li aveva curati – aveva

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detto a mia madre che mi dovevano portare inospedale il giorno dopo e mi dovevano operare assolutamente... Insomma, non lo so cosa miavrebbero tagliato, ma c’era l’intenzione! Fatto stache mamma, per tutta la notte, è stata davanti a questa madonnina a pregare e la mattina dopoio non avevo più niente... Né la febbre, né ilbraccio rosso! Mamma mi ha portata dal dottoree lui non ci credeva, le ha detto: «Su, prendi tua figlia e portala all’ospedale, ché io non ci credo a queste storielle!». All’ospedale c’era il professorCormio, che dopo avermi visitato le ha detto: «Questa bambina piuttosto portala alla fiera! Chénon ha niente!». E alla fiera poi ci sono andata davvero, ché era il 2 maggio, e in una bancarella mi hanno regalato la stoffa per fare la gonna, perché avevo avuto la grazia! E anche mio nonno,quando era giovane, era stato male e dicevano che era guarito miracolosamente! Tanto è che loavevano messo addirittura sul giornale! Stava morendo e aveva avuto la grazia dalla Madonna delle Grazie! Son cose che non ci si crede, ma,

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in qualche modo, sono successe e, a ripensarci, fanno anche un certo effetto! Ma si credeva a qualsiasi cosa o perlomenoc’era l’idea che certe cose andassero fatte in determinate occasioni. Perché era così e non ci si faceva domande. Per esempio, quando stavo su a Santa Monica, c’era quella povera Olga, cheera la mia vicina di casa, e, quando faceva un temporale, tirava fuori un crocifisso grosso, comequelli che portano nelle processioni. Lo faceva passare fuori dalla finestra un braccio alla volta e lo teneva su, puntandolo al cielo. E ci diceva:«Con questo i fulmini non colpiscono nessuno!».Lo lasciava lì finché non smetteva il temporale e pregava perché non succedessero le disgrazie e perché i fulmini non prendessero sulle case. Lei lo faceva perché le avevano insegnato che sifaceva così. Era una delle tante credenze popolariche poi avevano anche un principio intelligente dietro, perché in effetti, anche le croci che ci sonoin cima ai campanili, sono efficaci parafulminie l’Olga, non sapendolo, ne metteva anche lei uno!

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traduzione

1 Accompagno = processione funebre 2 G’vanon = volgarizzazione del nome Giovanni3 Ferraiolo = grande mantello nero a ruota

——

Una volta era usanza la veglia del mortoe si faceva di notte, dopo l’accompagno [1],dentro la chiesa della Santa Annunziata.Pechiscia e G’vanon [2] pensavano a tutto,cinque lire bastavano per la veglia pagata,anzi, per i due, ci veniva anche la spaghettata.A mezzanotte, lasciato Pechiscia col morto,G’vanon si andava a cuocere un po’ di conforto:per intenderci, un chilo di spaghetti all’osteria.

Pechiscia per passare il tempo a tutti i costi,Cosa fa? Gli fa un bello scherzo e gli ruba il posto!Mette quello stecchito a sedere, col ferraiolo [3],calzandogli bene il cappello sulla faccia di cera…G’vanon ritorna: — Gli spaghetti sono pronti!Muoviti, ché sono cotti! Dormi? O non li vuoi?E il morto, ritto sulla cassa, dice convinto:Se lui non li vuole, allora li mangio tutti io!

G’vanon si sente gelare giù per la schiena…E comincia a fuggire sparato, a rotta di collo!Gli manca il fiato e gli viene una gran affanno,e, sfinito, si butta su un muretto, quasi morto.Pechiscia arriva: — Cosa fuggi? Hai paura? Son io!Fuggire? No, correvo al… Gabinetto! Sì sì…Ho proprio il pelo sul cuore, ti ho spaventato?Tra il correre e il fuggire, è zuppa o pan bagnato!

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i narratori

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Giuseppina Verena Cecchini nasce il 19 marzo 1929 a Fossombrone. Dopo la licenzamedia prosegue gli studi a Fano fino a conseguireil diploma magistrale. A 18 anni comincia ad insegnare nella scuola rurale di Casteldelci. Insegna in varie scuole fino alla pensione, in cui torna definitivamente a vivere a Fossombrone.

Giuseppe Lorenzetti nasce a San Martino dei Muri, frazione di Fossombrone, il 26 giugno 1920. A nove anni lascia la scuola per andare a lavorare con la famiglia in campagna. Nel 1940viene richiamato alle armi e mandato in Grecia, dove viene fatto prigioniero dai tedeschi e recluso in campo di lavoro per due anni. Riesce a tornare in Italia nel 1945. Nella vita ha fatto tutti i mestieri fino al 1953 in cui inizia a lavorare come sindacalista alla locale cisl. È in pensionedal 1985 e tuttora risiede a Fossombrone.

Antonio Ragonesi nasce a Fossombrone il 7 febbraio 1926. Concluse le scuole primarie va a imparare il mestiere dal falegname RomoloMarchetti, con cui lavora fino ai ventisette anni,quando avvia un’attività di falegnameria con ilfratello Nando e la moglie Magda. Nel 1974 cessal’attività di produzione, continuando quella divendita fino al 1985. Eccetto brevi periodi a Romae a Pesaro, ha sempre risieduto a Fossombrone.

Magda Zuccarini nasce a Fossombrone il 22 dicembre 1932. Concluse le scuole primarieva ad imparare il mestiere di sarta. Dai tredici anni lavora come filandaia fino alla chiusura dellostabilimento. Nel 1953 si sposa con Antonio Ragonesi e lavora come commessa e contabile nella comune falegnameria e negozio di mobili, fino al pensionamento, nel 1985.

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finito di stampare nel marzo 2015

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Chiara Spallotta - matricola 167relatrice Chiara Carrer

Diploma Accademico di II livelloisia Urbino - a.a. 2013/2014