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Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e produrre innovazione. Un caso di studio. Sabina Licursi e Giorgio Marcello * Co-produzione di servizi di welfare o deresponsabilizzazione pubblica? Trasformazioni e ambivalenze nell’intreccio tra innovazione sociale, sharing economy e azione pubblica Paper per la IX Conferenza ESPAnet Italia “Modelli di welfare e modelli di capitalismo. Le sfide per lo sviluppo socio-economico in Italia e in Europa” Macerata, 22-24 settembre 2016 * Università della Calabria / [email protected] [email protected]

Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

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Page 1: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e produrre

innovazione. Un caso di studio.

Sabina Licursi e Giorgio Marcello *

Co-produzione di servizi di welfare o deresponsabilizzazione pubblica?

Trasformazioni e ambivalenze nell’intreccio tra innovazione sociale, sharing

economy e azione pubblica

Paper per la IX Conferenza ESPAnet Italia

“Modelli di welfare e modelli di capitalismo.

Le sfide per lo sviluppo socio-economico in Italia e in Europa”

Macerata, 22-24 settembre 2016

* Università della Calabria / [email protected] [email protected]

Page 2: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

Abstract

Il numero di persone senza dimora è aumentato negli ultimi anni in quasi tutti i Paesi europei. Il fenomeno

dell’homelessness investe direttamente le politiche sociali, ma riceve un’attenzione del legislatore e del policy

maker molto differenziata da un Paese europeo all’altro e, in Italia, da un contesto regionale ad un altro. Dove

il welfare è debole, gli interventi delle istituzioni pubbliche verso questa forma di povertà estrema sono

largamente insufficienti, né l’approccio ‘a gradini’ adottato dai servizi è adeguato all’inclusione e al

reinserimento nella comunità di quanti vivono in strada. Le esperienze avviate per iniziativa soprattutto di

realtà di terzo settore costituiscono oggi la risposta più importante alle necessità delle persone senza dimora.

Le stesse producono sollecitazioni ed effetti anche nella riflessione sul lavoro sociale, sui cambiamenti nei

ruoli, nelle funzioni, negli obiettivi operativi delle diverse figure professionali. Il paper presenta i risultati di

uno studio di caso. L’esperienza di una cooperativa sociale che interviene sull’homelessness ha consentito di

conoscere le dimensioni e le caratteristiche principali del fenomeno nell’area urbana di Cosenza-Rende,

sottolineandone la complessità e sperimentando delle risposte innovative. L’adozione di un approccio

relazionale, l’avvio di percorsi di accompagnamento ai servizi e la sperimentazione del modello Housing First

(anche grazie all’inserimento nel Network nazionale Housing First Italia, coordinato dalla Fio.PSD) hanno

confermato la necessità di personalizzare gli interventi e favorirne la co-progettazione con le persone

beneficiarie, anche a partire dalla casa, quale elemento essenziale per la riacquisizione di una condizione di

vita dignitosa.

1 L’homelessness

La condizione di povertà trova una delle sue manifestazioni più acute nella homelessness. Se, infatti, la povertà

estrema viene descritta dal Comitato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite1, come “una

combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano insufficiente ed esclusione sociale”, nella vita di chi vive

senza avere una dimora questa sovrapposizione di fragilità è la regola. Essa determina una debolezza tale da

impedire quasi sempre un esercizio o una riacquisizione dei diritti in capo alla persona. Nella vita di una

persona senza dimora, infatti, si sommano sempre le due dimensioni essenziali della povertà: la mancanza di

risorse materiali e l’insufficienza o assenza di risorse immateriali, prime fra tutte quelle relazionali. Ad esse si

associano forme di disagio differenti e complesse e il mancato inserimento in reti di supporto istituzionali.

Includendo nella condizione di senza dimora, come fa la definizione Ethos (European Typology of

Homelessness and housing exclusion), anche le persone che vivono in abitazioni insicure (ad es. sotto sfratto

esecutivo) e inadeguate (ad es. in roulotte), l’homelessness diventa una componente dell’esclusione grave non

trascurabile, che non è definita solo dalla fisicità dell’abitazione ma anche dal significato relazionale e

giuridico della dimora2. La fio.PSD (federazione italiana organismi per le persone senza dimora)3 considera la

persona senza dimora come “un soggetto in stato di povertà materiale ed immateriale, portatore di un disagio

complesso, dinamico e multiforme, che non si esaurisce alla sola sfera dei bisogni primari ma che investe

l’intera sfera delle necessità e delle aspettative della persona, specie sotto il profilo relazionale, emotivo ed

1 Si veda il documento pubblicato sulla pagina web www.ohchr.org/EN/Issues/Poverty/Pages/DGPIntroduction.aspx.

2 Il codice Ethos individua quattro macro categorie concettuali di povertà abitativa: 1. Persone senza tetto (persone che

vivono in strada); 2. Persona senza dimora (ospiti dei dormitori, rifugiati, persone in attesa di essere dimesse da istituzioni

quali carceri, istituti per minori, comunità terapeutiche, etc); 3. Persone che vivono in sistemazioni insicure; 4. Persone

che vivono in condizioni abitative al di sotto degli standard comuni (roulotte, edifici fatiscenti). Questa tipologia ha la

finalità, importante, di offrire agli stati membri uno strumento di misurazione delle differenti forme di homelessness e,

quindi, di consentire misurazioni confrontabili, nel tempo e nello spazio, di questa forma di povertà estrema. Per una

lettura dettagliata dei tipi individuati si rinvia al documento integrale, reperibile su www.feantsa.org e www.fiopsd.org .

3 La fio.PSD è una federazione Onlus che da più di trent’anni si occupa di tutelare i diritti delle persone più svantaggiate

e favorire la promozione di politiche e interventi innovativi per il contrasto alla grave marginalità. Ad essa aderiscono

diverse realtà (pubbliche, private e del cosiddetto privato sociale), interessate al fenomeno dell’homelessness e coinvolte

nella gestione di servizi. Essa promuove attività di advocacy, di studio e ricerca, di sperimentazione di approcci innovativi.

È, inoltre, full member italiano di FEANTSA (European Federation of National Organisations working with the

Homeless).

Page 3: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

affettivo” (Carta dei valori, n.6)4. Si tratta di una definizione che pone in risalto la multidimensionalità della

homelessness, e di conseguenza la necessità di fare riferimento a criteri interpretativi che permettano di

coglierne tutta la portata. La complessità del fenomeno non può perciò essere colta adeguatamente dagli

approcci che considerano la povertà come mancanza di risorse materiali, e che dunque tendono a far coincidere

la homelessness con il disagio abitativo grave.

Una persona senza dimora, aggiunge ancora la fio.PSD, vive una condizione “di povertà di relazioni e di affetti,

di assoggettamento alle costrizioni del bisogno, della malattia, della sofferenza, dello stigma e dell’ingiustizia

sociale, nella quale la sua dignità viene negata e dentro la quale viene fortemente limitato il libero arbitrio e la

libertà personale” (Carta dei valori, n.5). Quest’ultimo aspetto merita di essere ulteriormente sottolineato,

perché mette bene in risalto l’intreccio tra carenza di risorse materiali e affettive e diminuzione della libertà

personale. Un homeless, nel concreto della sua esperienza, sperimenta una povertà multidimensionale, insieme

ad una contrazione estrema della sua capacità, intesa come capability. Per alcune teorie dello sviluppo umano,

essa coincide con la libertà sostantiva, cioè con la libertà della persona di acquisire le risorse materiali e

immateriali necessarie per vivere una vita degna di essere vissuta. Questa libertà non è automaticamente

assicurata dalla titolarità formale di un paniere più o meno ampio di diritti sociali, se questi ultimi non vengono

effettivamente esercitati (Sen, 2000 e 2001), nel quadro di un progetto di vita formulato consapevolmente. La

fruizione effettiva delle risorse di cittadinanza dipende dalle caratteristiche personali di ogni individuo, e dal

contesto di vita e di relazioni in cui una persona è inserita (Sen, 2007). Il che vuol dire che la libertà sostantiva

di ognuno è determinata non solo dalle politiche, ma anche dalla qualità e dalla intensità dei legami

sperimentati. Questo è il motivo per cui nelle situazioni di grave marginalità come l’homelessness la mancanza

di legami significativi gioca un ruolo decisivo.

In Italia gli homeless, “trascurati dalle statistiche, spesso invisibili nella società” (Istat, 2014, 5)5, non sono

pochi. Si tratta di oltre 47.500 persone. La loro incidenza sulla popolazione non è diversa da quella che si

registra nella maggior parte dei paesi sviluppati (lo 0,2% della popolazione residente), non sono tutti stranieri

(lo sono meno di 60 homeless su 100), fra loro ci sono anche donne (il 13% del totale). Fra gli stranieri è

significativa la presenza di rumeni, segue quella di marocchini e tunisini. Sebbene siano presenti persone

anziane e con un periodo medio-lungo di vita in strada (con tutte le conseguenze che questo comporta sulle

condizioni fisiche e psichiche), i senza dimora sono soprattutto giovani (italiani e stranieri): il 60% circa ha

meno di 45 anni e l’età media è di 42,2 anni. In media sono in strada da 2,5 anni. Poco meno di 65 intervistati

su 100 prima di diventare un homeless viveva nella propria casa. Soprattutto, gli eventi critici che segnano lo

scivolamento verso questa forma di povertà estrema sono la perdita del lavoro (circa 62 su 100 hanno perso

un lavoro stabile), la separazione coniugale e/o dai figli (sperimentate da poco meno di 60 intervistati su 100)

e la malattia (precarie condizioni di salute sono dichiarate dal 16% del totale); eventi che si presentano spesso

insieme e conferiscono anche a questa forma specifica di impoverimento un carattere multifattoriale.

Ugualmente interessante, e spesso con risultati che vanno nella stessa direzione dell’indagine Istat, è lo studio

della Fondazione Debenedetti del marzo 2014 che, per l’Italia, fotografa la situazione della città di Roma. Per

indicare le cause della homelessness si parla di un circolo vizioso in cui agiscono da concausa la perdita del

lavoro, lo sfratto e l’immigrazione6.

4 La Carta dei valori è consultabile sul sito www.fiopsd.org

5 Le indagini condotte negli ultimi anni per stimare la numerosità della popolazione delle persone senza dimora in Italia

non sono pochissime. Si possono ricordare quella condotta nel 1999 dalla Fondazione Zancan (CIES, 2000), la prima

indagine Istat del 2011 (Istat, 2012), lo studio della Fondazione Debenedetti del marzo 2014 e il più recente studio

dell’Istat (2014). Tutte le indagini quantitative sul fenomeno devono tener conto dell’assenza di una ‘lista’ completa delle

persone senza dimora. Nelle ricerche Istat il metodo adottato per affrontare questa difficoltà è stato quello di intercettare

le persone senza dimora nei servizi (mense e dormitori nei maggiori comuni italiani), nella consapevolezza di poter

produrre una sottostima del fenomeno per il mancato conteggio sia delle persone senza dimora che non fanno uso dei

servizi presenti, sia della popolazione homeless dei comuni demograficamente più piccoli.

6 Per un dettaglio maggiore sulla ricerca si può visitare il sito http://www.frdb.org/page/search//scheda/raccontami-2014-

roma/doc_pk/11131.

Page 4: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

2 Le politiche

Il profilo dell’homelessness delineato dalle ricerche richiamate mette in evidenza non solo la necessità di far

fronte al problema per ridurre la dimensione del fenomeno, ma anche la possibilità di prevenire lo scivolamento

in strada. Occorre sottolineare che c’è un nesso stretto tra gli interventi allestiti per prevenire o contenere questa

forma di grave marginalità e le rappresentazioni relative alla povertà estrema, comprese quelle che sottostanno

alle politiche pubbliche di fronteggiamento del fenomeno (Paugam, 2013).

A questo bisogna aggiungere che il modello sociale europeo non è omogeneo, e che al suo interno si possono

individuare almeno quattro distinti regimi di welfare: socialdemocratico, liberale, corporativo, e mediterraneo.

(Esping-Andersen, 1990, Ferrera, 2012). Ad ognuno di essi corrisponde una diversa rappresentazione della

homelessness e un altrettanto diverso modo di affrontarla (Pezzana, 2009).

I regimi socialdemocratici sono quelli che mettono in campo gli interventi redistributivi che più sono in grado

di arginare le disuguaglianze generate dal mercato. Essi riconoscono e garantiscono un paniere ampio di diritti

di cittadinanza, e pongono in essere programmi estesi di contenimento e di prevenzione della povertà estrema.

La homelessness non è stigmatizzata, ma considerata al pari di altri rischi sociali.

All’estremo opposto si collocano i regimi liberali, caratterizzati da un basso grado di demercificazione e di

destratificazione degli interventi di protezione sociale. Questo vuol dire che in sistemi di questo tipo, la

possibilità che le persone soddisfino i propri bisogni è strettamente collegata al loro inserimento attivo nel

mercato. La homelessness viene considerata una colpa, per cui la persona senza dimora viene socialmente

ritenuta responsabile della sua condizione. La conseguenza “è quella di una sostanziale astensione dei poteri

pubblici dal dovere di reinclusione sociale degli homeless e di una consegna alla sfera della beneficenza privata

di ogni azione in tale ambito” (idem).

I regimi corporativi presentano misure di protezione più estese rispetto a quelli liberali, ma tendono ad

assicurare la maggior quota di risorse di welfare alle fasce sociali più garantite. In questi contesti, il paradigma

che orienta prevalentemente le rappresentazioni della homelessness è quello della scelta. Si ritiene cioè che

questa condizione sia la conseguenza di scelte personali, o della incapacità di valorizzare adeguatamente le

risorse di welfare messe a disposizione dalle istituzioni pubbliche. La homelessness viene considerata una

questione di ordine pubblico, e trattata come tale.

I sistemi di welfare mediterranei costituiscono una variante dei regimi corporativi. I loro caratteri prevalenti

sono rappresentati da una marcata impronta familistica, e dalla mancanza di misure di fronteggiamento di

ultima istanza, a sostegno delle situazioni di povertà estrema. La homelessness viene rappresentata come una

fatalità, che le istituzioni pubbliche tendono ad affrontare con una logica di gestione emergenziale, confidando

sul ruolo sussidiario delle famiglie e delle comunità locali.

L’Italia rientra nell’ambito di quest’ultimo raggruppamento. Uno degli aspetti più problematici del caso

italiano è rappresentato dalle disuguaglianze territoriali, la cui gravità non ha riscontro in altri paesi europei.

Analizzando i dati relativi sia ai servizi che ai trasferimenti, le differenze tra nord e sud appaiono così profonde

da fare emergere due distinti modelli di welfare. Il welfare del nord, simile a quello continentale di impronta

categoriale-corporativa (con differenze non insignificanti rispetto ai sistemi di protezione dell’Europa centrale,

rappresentate per esempio dalla assenza di una politica generale di contrasto della povertà basata sulla garanzia

di un reddito minimo); e il welfare del sud, che si presenta come modello di tipo mediterraneo, connotato da

una forte pervasione clientelare e mafiosa, basato essenzialmente su trasferimenti monetari, sussidi, con servizi

in ambito scolastico e sanitario di qualità inferiore rispetto al resto del paese, e con un apparato di servizi socio-

assistenziali poco sviluppati o addirittura inesistenti in molti territori (Ascoli, 2011). Si tratta di un divario

territoriale che è prima sociale che economico: ancora oggi, per il cittadino meridionale sono a rischio (o

gravemente carenti) alcuni diritti fondamentali (Cersosimo, Nisticò, 2013). Di conseguenza, i presidi

istituzionali posti a tutela delle situazioni di grave marginalità, che in Italia sono deboli dappertutto, diventano

particolarmente fragili al sud (Fantozzi, 2011).

Nell’ambito del welfare meridionale, il sistema di protezione sociale della Calabria appare ancora più fragile

a causa della mancata applicazione della legge quadro sull’integrazione dei servizi socio-sanitari. In questa

regione, la elevatissima frammentazione istituzionale rende particolarmente precario l’apparato dei servizi alla

persona; l’approccio emergenziale ai bisogni sociali tende ad essere la regola; le situazioni di grave marginalità

e di homelessness vengono affrontate prevalentemente su iniziativa delle organizzazioni del privato sociale,

con interventi che hanno quasi sempre il carattere della discrezionalità e della beneficenza. Le carenze del

welfare meridionale evidenziano in maniera radicale una fragilità nei sistemi di fronteggiamento della povertà

estrema riscontrabile – con diverse gradazioni di intensità – anche nelle altre regioni. Infatti, dall’indagine Istat

Page 5: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

(2014) emerge che nella rete dei servizi destinati alla persone senza dimora7 è molto debole l’intervento diretto

dell’attore pubblico e che le attività svolte rispondono essenzialmente ai bisogni primari delle persone (cibo,

abbigliamento, igiene personale). Le istituzioni pubbliche ricompaiono se si considera la natura dei

finanziamenti che sostengono i servizi, spesso gestiti da soggetti del terzo settore. Complessivamente, l’Italia

sembra appiattita su un intervento di mero contenimento del fenomeno, legato all’emergenza ed all’assistenza

primaria e non alla promozione di un effettivo tentativo di reinclusione sociale. In questo modo se sono tanti

ad entrare nel sistema assistenziale sono pochissimi quelli che riescono ad uscire dalla condizione di grave

marginalità (Pezzana, 2012). L’approccio emergenziale alla homelessness riflette un certo modo di intendere

le politiche socio-assistenziali, quello per cui si presuppone un atteggiamento tendenzialmente passivo e privo

di iniziativa sia in chi riceve, sia in chi eroga l’assistenza. Tutto è già predefinito: la risposta al bisogno si

connota come intervento residuale e standardizzato, ed esiste a prescindere dal bisogno stesso; chi è in

difficoltà sa che deve cercare l’aiuto in quella direzione. Si perde di vista che la povertà ha una dimensione

politica. Nel senso che le sue diverse manifestazioni, compresa quella estrema dei senza dimora, investono

tutto il modo di vivere dei vari gruppi sociali, e lasciano trasparire che tipo di relazione la società stabilisce

con le sue componenti più fragili (Simmel, 2001; Paugam, 2013). Inoltre, quanto più i servizi alla persona sono

rigidi e pre-strutturati, tanto più elevato è il rischio di istituzionalizzare gli interventi a sostegno dei beneficiari.

A questo riguardo, vale la pena ricordare che il fenomeno della istituzionalizzazione ha segnato in maniera

determinante la storia delle politiche sociali in Italia (Ferrera, 2012); e che esso non consiste solo nel ricovero

di persone con problemi all’interno di istituzioni totali. Ogni attività umana si istituzionalizza “dovunque vi

sia una tipizzazione reciproca di azioni consuetudinarie” (Berger e Luckmann, 1969, 82). Nell’ambito dei

servizi alla persona, si produce istituzionalizzazione quando gli interventi di aiuto si collocano all’interno di

procedure cristallizzate, per cui tutti i possibili significati dell’incontro tra operatori dei servizi e beneficiari

sono già rigidamente predefiniti. La persona destinataria degli interventi viene come sradicata dal suo retroterra

e dal suo percorso esistenziale, per essere collocata in un presente in cui il suo passato o le sue eventuali attese

per il futuro non contano, o contano solo nella misura in cui possono essere letti in modo appropriato dal

servizio che esercita la presa in carico. In questo quadro, i beneficiari degli interventi rischiano di essere ridotti

a casi che devono essere educati o recuperati.

Il contrario della istituzionalizzazione è la liberazione delle persone fragili, perseguita attraverso la promozione

intenzionale delle loro libertà sostantive. La relazione tra operatori e beneficiari è liberante nella misura in cui

si costruisce come “incontro diretto” (Berger e Luckmann 1969, 50), per cui i primi non ingabbiano i secondi

all’interno di precomprensioni riduttive, ma li considerano come dotati di capacità espressive e di risorse che

vanno riconosciute e valorizzate.

È evidente che per superare il paradigma emergenziale, e per deistituzionalizzare i servizi che si rivolgono ai

senza dimora non è sufficiente modificare le modalità operative del singolo operatore o del singolo servizio.

È necessario che tutto il sistema assistenziale sia innovato in profondità, e che sia riorganizzato in modo da

riuscire ad individuare e rimuovere le radici dei problemi sociali. Questo implica anche che i fruitori

dell’assistenza siano coinvolti nella scoperta delle cause e nella gestione dei problemi, e che tutta la comunità

locale si conquisti e mantenga aperto lo spazio per assumere in proprio le contraddizioni che la dinamica

sociale produce. In Italia, l’unico tentativo innovativo è stato rappresentato dall’articolo 28 della legge 328 del

2000, ma tagliate le risorse che avevano consentito sperimentazioni interessanti, tutto è tornato immobile per

anni. Un cambiamento rilevante poteva derivare dalle strategie di intervento presenti nel documento “Metodi

e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”, presentato dal Ministro Barca a fine 2012. In

esso la condizione delle persone senza dimora o con varie forme di disagio abitativo veniva presentata come

la situazione di maggiore criticità all’interno della popolazione a rischio di esclusione e povertà e si ribadiva

la necessità di promuovere servizi integrati (utilizzando i fondi Fse e Fesr). Recentemente, il Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato le Linee di Indirizzo per il Contrasto alla grave emarginazione

adulta in Italia8, che costituiscono l’occasione necessaria ad una corretta definizione del fenomeno,

all’individuazione dei diversi target di persone senza dimora, all’inquadramento dei diversi approcci

7 Vengono individuate 5 macrocategorie (suddivise in 32 tipologie in base all’orientamento funzionale): i servizi di

supporto in risposta ai bisogni primari (il 34% del totale, prevalenti sia per tipologia sia per numerosità dell’utenza

raggiunta), i servizi di accoglienza notturna (il 16,6%), i servizi di accoglienza diurna (il 4,1%), i servizi di segretariato

sociale (il 24,1%), i servizi di presa in carico e accompagnamento (il 21,2%) (Istat, 2012).

8http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/poverta-ed-esclusione-sociale/Documents/Linee-di-indirizzo-per-il-contrasto-

alla-grave-emarginazione-adulta.pdf

Page 6: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

utilizzabili per l’intervento a sostegno degli homeless. Tra questi si presentano alcuni approcci innovativi,

come l’housing first. Il documento è il risultato anche del lavoro di advocacy fatto dalle associazioni che si

occupano di persone senza dimora in Italia, molte delle quali appartenenti alla federazione fio.PSD. Le

implicazioni reali del documento dipenderanno molto dalla capacità dei diversi sistemi locali di welfare di

investire risorse e competenze nel lavoro con la povertà estrema. Più di recente, con la Legge di Stabilità, il

Governo ha introdotto il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, finanziandolo per due anni in

misura non irrilevante. Segnali importanti rispetto alla definizione dell’agenda politica e i cui risultati saranno

apprezzabili soprattutto se si introdurranno cambiamenti rilevanti anche nell’approccio categoriale, che ha fino

ad ora orientato le politiche, a vantaggio di un approccio integrato.

2.1 L’Housing First

Sperimentazioni interessanti si possono rintracciare in singole esperienze, perlopiù locali, il cui denominatore

comune è spesso il rafforzamento di pratiche di welfare mix (Ascoli, Pasquinelli, 1993). A livello nazionale,

invece, è in fase di chiusura la sperimentazione dell’Housing First, avviata in 10 regioni nel 2014. Ad essere

coinvolte direttamente sono servizi pubblici e, soprattutto, realtà associative di terzo settore, per un totale di

28 progetti. L’Housing First è un approccio che nasce negli anni ’90 negli Stati Uniti. Esso propone un

superamento della metodologia cosiddetta ‘a gradini’ per puntare all’inserimento diretto in appartamenti

indipendenti di persone senza dimora, spesso interessati da disturbi mentali (Tsemberis, 2010). L’idea che ne

è a fondamento, infatti, è che la casa – intesa come diritto fondamentale della persona – possa contribuire in

maniera determinante alla integrazione sociale e al benessere della persona senza dimora. L’Housing First si è

diffuso negli ultimi anni in Europa e le valutazioni delle esperienze sono molto incoraggianti (Cortese,

Iazzolino, 2014; Bush-Geertsema, 2013; FEANTSA, 2013). In Italia, la fio.PSD ha favorito la costituzione del

Network Housing First Italia9, con la finalità ultima di introdurre pratiche di de-istituzionalizzazione della

grave marginalità, e con l’obiettivo specifico di favorire sperimentazioni interventi bottom up. Come viene

scritto da Cortese e Iazzolino (2014, 11): “Sancire inequivocabilmente il diritto alla casa per ogni persona

senza dimora e anteporlo al lavoro di accompagnamento degli operatori sociali intacca un nocciolo duro della

cultura dei servizi sociali italiani e della metodologia di intervento basata su percorsi categoriali, che seguono

spesso un iter standard e che inoltre prevedono requisiti di accesso ai servizi di tipo legale-formale”. In Italia

è apparso subito chiaro il bisogno di adattare il modello americano alle specificità dei contesti locali

(istituzionali e delle organizzazioni coinvolte) e al target della popolazione di riferimento. Così, in alcune città

sono stati coinvolti senza dimora cronici, in altre migranti, in altre ancora nuovi poveri o nuclei familiari. Tutte

le realtà partecipanti hanno al loro interno personale con elevati livelli di formazione. Le dimensioni sono

diverse, sebbene più della metà abbia in organico tra 1 e 15 dipendenti (Consoli et al., 2016)

3 Il caso di studio

3.1 La cooperativa e i servizi

Al Network Housing First Italia aderisce anche la cooperativa sociale Strade di Casa di Cosenza. Si tratta di

una piccola realtà, nata nel 2012 su impulso di alcuni volontari di una associazione di volontariato che opera

da oltre venti anni sull’accoglienza nell’area urbana di Cosenza10. La cooperativa interviene soprattutto

9 Una rete, appunto, di cui fanno parte soggetti pubblici, privati e del privato sociale, coinvolti nella sperimentazione

dell’Housing First. La fio.PSD accompagna il percorso biennale attraverso attività di formazione e con il supporto di

Comitato Scientifico, che coinvolge studiosi di diverse Università e Istituti di ricerca italiani. In base ai dati più aggiornati,

del network fanno parte organizzazioni non profit (47%), Caritas locali (33%), altre organizzazioni religiose (12%) e

organizzazioni pubbliche (8%). Ad essere convolte sono realtà del Nord (57%), del Centro (16%), del Sud e delle Isole

(27%) (Consoli et al., 2016).

10 Chi scrive segue da anni la cooperativa Strade di casa e svolge un’attività di supervisione delle attività connesse all’area

disagio abitativo, attraverso incontri periodici con gli operatori. Per la stesura di questo contributo, inoltre, sono stati

Page 7: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

nell’area della grave marginalità adulta, interessandosi in particolare di disagio abitativo, salute mentale,

inserimento socio-lavorativo, migranti richiedenti asilo e rifugiati. La metodologia di lavoro sociale utilizzata

è quella dell’intervento socio-educativo centrato sulla relazione, intesa come “incontro personale diretto”.

L’organizzazione interna è piuttosto semplice: vi è un unico responsabile per le diverse aree di intervento e un

coordinatore per ogni tipologia di servizio. Per l’area disagio abitativo, che interessa in questa sede, sono

organizzati 3 servizi: quello dell’Unità di strada (Uds), coordinato da un assistente sociale; lo Sportello sociale

(Ss), coordinato da un educatore professionale; l’Housing First (Hf), coordinato da un altro assistente sociale.

Gli stessi operatori sono coinvolti in tutte le attività dell’area; partecipano anche diversi volontari. I principali

soggetti finanziatori della cooperativa e di tutti i servizi dell’area disagio abitativo sono la Caritas Diocesana

e la Chiesa Cattolica (attraverso i fondi 8 per mille). Il target di riferimento è costituito dalle persone senza

dimora presenti nell’area urbana di Cosenza-Rende. Due cittadine ma un solo continuum abitativo di circa 150

mila residenti; un’area non periferica, la cui composizione sociale è caratterizzata da una presenza importante

di un ceto medio e medio-alto, e il cui sviluppo edilizio è stato condizionato dalla presenza del campus

universitario di Arcavacata, nel comune di Rende. Le aree di maggiore povertà si concentrano in alcune

periferie di edilizia popolare e nel centro storico della città di Cosenza (AA. VV., 2016). Come spesso accade

nelle citta di medio-piccole dimensioni, anche nel contesto Cosenza-Rende il fenomeno della homelessness è

poco indagato, spesso invisibile e affrontato solo con interventi diretti a rispondere ai bisogni primari.

Congruente con il paradigma emergenziale è, nel contesto in esame, Casa San Francesco, che nasce come

opera religiosa e poi si colloca nella trama dei servizi locali attraverso il meccanismo delle autorizzazioni al

funzionamento e delle convenzioni. Diventa così (anche nella rappresentazione collettiva) l’attore a cui è

delegata la funzione – per investitura istituzionale e collettiva - di occuparsi di homelessness e di tutte le

situazioni di marginalità estrema. Attualmente Casa San Francesco è una Fondazione retta dai Frati Cappuccini

di Calabria. Ha assunto questa forma giuridica nel 2000. Essa nasce da una precedente opera sociale dei frati

cappuccini, che a metà degli anni ottanta avviano l’Oasi francescana, con una mensa per i poveri della città.

L’iniziativa raccoglie immediatamente il consenso di tante persone che ne riconoscono l’importanza e la

sostengono con tanto impegno di volontariato e anche con cospicui aiuti finanziari, che all’inizio degli anni

novanta consentono di costruire i primi due dormitori. Dopo la costituzione della Fondazione, e il cambio di

denominazione, Casa San Francesco realizza una struttura più capiente, su un suolo messo a disposizione dal

comune di Cosenza. La nuova struttura viene inaugurata nel 2003. Nel 2007 la Regione Calabria autorizza al

funzionamento due comunità di accoglienza per adulti in difficolta, siglando una convenzione con Casa San

Francesco11. Dal bilancio sociale della Fondazione, emerge che le entrate necessarie per far fronte a questi

impegni arrivano per più del 90 per cento dalla fonte pubblica.

L’esperienza di incontro, accompagnamento ai servizi e inserimento in abitazioni di cui trattiamo in questo

paper si sviluppa, quindi, in un’area urbana in cui l’organizzazione appena citata opera da decenni,

rivolgendosi anche alle persone senza dimora, con servizi che sembrano seriamente esposti al rischio di

scivolare entro dinamiche istituzionalizzanti . La cooperativa Strade di casa, propone un approccio che mette

al centro la persona e non il bisogno immediato che essa esprime, e lo fa attivando nel 2012 una Uds12. In poco

tempo si struttura una sorta di binario parallelo, lungo il quale si sviluppano servizi alternativi, rispetto a quelli

già esistenti in città, e che intercettano una fetta di popolazione homeless non nota a questi ultimi.

utilizzati materiali prodotti dagli stessi operatori (tra cui la tesi di laurea magistrale in Scienze delle Politiche e dei Servizi

Sociali di uno di loro) e l’archivio dati dell’Uds.

11 Nelle due comunità, una maschile (40 posti) e una femminile (10 posti) vengono accolte persone che non hanno casa,

o che vivono una condizione di grave disagio anche psichiatrico, oppure che sono sottoposte a misure restrittive della

libertà personale. L’accoglienza avviene su richiesta dei servizi sociali dei comuni interessati. Gli altri servizi offerti dalla

Fondazione sono l’Accoglienza francescana, prestata al di fuori di quanto previsto dalle convenzioni, gratuitamente, per

un numero massimo di 24 persone e per non più di 15 giorni; la mensa, che assicura 100 pasti al giorno per 6 giorni alla

settimana; e, dal 2014, un servizio di prima accoglienza a stranieri richiedenti protezione internazionale, in collaborazione

con la prefettura di Cosenza.

12 Da un punto di vista tipologico l’unità di strada è un servizio a bassa soglia, ha cioè l’obiettivo di “ridurre al minimo

l’ostacolo di accesso al servizio; facilitare l’attivazione ed il mantenimento di relazioni di aiuto fra gli operatori dei servizi

e l’utenza” (Priano 2007, p. 72). L’Uds della cooperativa Strade di casa conserva solo per poco tempo questo profilo.

L’approccio utilizzato dagli operatori con le persone senza dimora, per un verso, e il difficile accesso ai pochi servizi

presenti sul territorio, per altro verso, rendono necessaria una evoluzione del servizio verso un modello di

accompagnamento più strutturato e duraturo.

Page 8: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

Grazie ad un progetto di soli 6 mesi finanziato dalla Caritas diocesana, e al supporto formativo della fio.PSD,

l’Uds nasce con l’intento di esplorare il territorio, sia ascoltando gli attori potenzialmente più attenti alla

presenza del fenomeno homelessness in città, sia ‘camminando’, di sera soprattutto, i luoghi invisibili dell’area

urbana. Ad oggi, realizza 3 uscite serali settimanali, impiega 3 operatori e coinvolge una decina di volontari.

L’Uds, in coerenza con la definizione formulata dalle realtà che aderiscono a fio.PSD13, si definisce come

servizio di prossimità per persone senza dimora che: capovolge la consueta modalità di accesso al servizio,

andando alla ricerca delle persone che hanno bisogno; non ha criteri e requisiti d’accesso; si dà

un’organizzazione flessibile, tipica del contesto di strada; mette al centro la relazione come strumento

principale. Gli operatori e i volontari coinvolti in turni nelle uscite non distribuiscono generi alimentari o

coperte, ma solo thè, preparato dai volontari di alcune parrocchie dell’area urbana secondo un calendario. Oltre

all’incontro diretto, gli operatori utilizzano un cellulare di servizio, che funziona come una sorta di telefono

amico e che, con il meccanismo dell’addebito della chiamata, consente una reperibilità degli operatori per

situazioni di emergenza e una continuità dei contatti anche con quanti si spostano temporaneamente dalla città.

Nei primi mesi di lavoro di strada, che costituiscono la fase di start-up dell’esperienza, gli operatori hanno

incontrano e conosciuto (si sono presentati alla persona in strada e hanno ottenuto risposta) 68 persone. Con

molte hanno stabilito una relazione e ricavato gli apprendimenti che costituiscono ancora le fondamenta

dell’esperienza: gli homeless sono portatori di bisogni differenziati e complessi; molti di loro danno una

disponibilità alla relazione implicita (ad esempio facendosi trovare nello stesso posto alla stessa ora); la

relazione è quasi sempre il necessario prerequisito per l’accompagnamento ai servizi.

La fase successiva, che corrisponde formalmente ad un nuovo progetto con fondi Caritas della durata di un

anno – senza che vi sia stata un’interruzione del servizio – è probabilmente quella di maggiore effervescenza

dell’esperienza. Durante questo periodo, infatti, vengono curati i rapporti con le persone incontrate in strada

(anche attraverso la predisposizione di una documentazione sociale e la messa a punto di strumenti di registro

delle attività, quali diario di bordo, censimento delle persone incontrate e degli accompagnamenti, cartelle

personali, raccolta di brevi relazioni), le riunioni interne di staff, la sensibilizzazione della popolazione locale

rispetto alla povertà estrema (soprattutto attraverso incontri nelle parrocchie, principale canale di

coinvolgimento anche di nuovi volontari), la formazione degli operatori (attraverso la supervisione

professionale condotta da due psicoterapeuti della Fio.PSD). È in questo momento che il lavoro fatto dall’Uds

trova maggiore legittimazione, tra gli stessi homeless, che si passano parola e si presentano sempre più

numerosi nei luoghi di incontro delle uscite serali degli operatori; nell’ambiente delle parrocchie cittadine, non

solo perché da questo mondo arrivano diversi volontari ma anche perché i parroci iniziano a segnalare all’Uds

la presenza di persone senza dimora per facilitarne il contatto da parte degli operatori.

Dopo un anno, nuovo progetto 8 per mille e una maggiore stabilizzazione dell’attività, con l’acquisto di

un’automobile e l’avvio della ristrutturazione di alcuni spazi da destinare all’accoglienza di persone in stato di

povertà. È in questa fase che si organizza anche l’avvio dello Sportello sociale (Ss), e l’effetto immediato è

quello di un incremento delle richieste di ascolto e di accompagnamento ai servizi da parte delle persone

incontrate in strada. Lo Ss si propone di supportare ed accompagnare le persone senza dimora, attraverso la

strutturazione di percorsi di empowerment, di reintegrazione sociale-relazionale e lavorativa. L’attività dello

Ss è stata da stimolo per la costruzione di percorsi collaborativi con i servizi pubblici e con altri attori di terzo

settore attivi in città14. In questa fase, che si può dire di attenzione alla costruzione di reti locali, gli operatori

sperimentano le difficoltà del lavoro sociale in un contesto poco infrastrutturato.

Nel 2014 la cooperativa ha aderito al Network Housing First Italia e ha iniziato a realizzare anche inserimenti

in abitazioni secondo i principi dell’approccio omonimo15. L’Uds continua ad essere il servizio che intercetta

13 La definizione si può leggere nella sua forma estesa sul sito della fio.PSD, focus nazionale delle Unità di strada.

14 In questo anno la cooperativa si è fatta promotrice, insieme ad altre realtà del territorio, della richiesta all’ente locale

del riconoscimento della residenza fittizia per le persone senza dimora, così da consentire loro l’accesso ad una serie di

servizi; dell’apertura degli ambulatori medici per stranieri privi dei documenti (deputati all’assegnazione dei codici ENI

ed STP necessari per accedere alle cure sanitarie). La cooperativa ha inoltre promosso la formazione e lo start – up della

seconda Unità di strada per persone senza dimora di Cosenza, gestita dalla Crocerossa.

15 La comprensione del bisogno dell’utente; un supporto ‘discreto’, ma costante e h24; l’accesso ad appartamenti

indipendenti, quando possibile situati in zone diverse della città; la separazione del trattamento dal diritto alla casa; l’auto-

determinazione del soggetto nelle scelte da fare; la definizione di un programma di supporto condiviso tra servizio sociale

e la persona (recovery orientation); la riduzione del danno; lo sviluppo e/o rafforzamento dell’autonomia, soprattutto

rispetto alla cura personale e degli spazi in cui si vive.

Page 9: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

le persone senza dimora, stabilisce con loro una relazione e valuta la possibilità di inserirle nel programma.

L’attività del servizio Hf individua un’area abbastanza ampia che ha come confini: il rapporto con la persona

senza dimora (la relazione e le visite domiciliari settimanali), i contatti con il mercato privato delle abitazioni,

la co-progettazione con i servizi pubblici (diversi a seconda dei bisogni specifici dell’homeless e scarsamente

integrati). Pur facendo i conti con un personale numericamente esiguo, il servizio di Hf utilizza l’approccio

Intensive Case Management (ICM), in cui è presente un team ma, data la minore problematicità delle persone

inserite in abitazione, è il singolo operatore che può accompagnare la persona presso i servizi di cui necessita

(Cortese, Iazzolino, 2014; Tsemberis, 2010). In questo momento il servizio di Hf non potrebbe esistere senza

il lavoro dell’Uds e dello Ss.

Figura 1 – Gli interventi della cooperativa Strade di casa nell’area del disagio abitativo: interazioni tra servizi

e con l’esterno

3.2 L’homelessness nel contesto locale

In questi anni di attività16, soprattutto attraverso l’Uds, la cooperativa ha incontrato circa 400 persone senza

dimora. La conoscenza del fenomeno è cresciuta progressivamente, così come la consapevolezza delle

difficoltà di fare lavoro sociale. Ecco come si esprime in un documento dell’archivio dell’Uds un operatore:

“Le persone senza dimora che noi abbiamo incontrato (…) difatti non sono ‘uguali a noi’, né nell’immaginario

collettivo e quindi nelle relazioni con gli altri abitanti della città, né nella esigibilità dei loro diritti. Infatti

vengono spesso definite per ‘difetto’…sono senza casa, senza lavoro, senza documenti, sono senza identità,

senza famiglia e senza riferimenti relazionali. Tutto questo ha innumerevoli ripercussioni nella loro vita

quotidiana, tanto forti da risultare spesso irrimediabilmente causa di emarginazione e di espulsione dalla

società” (relazione di un operatore dell’Uds, archivio documenti della cooperativa Strade di casa).

L’Uds non è in grado di realizzare un censimento delle persone senza dimora. Le informazioni accumulate in

questi anni su 400 homeless certamente sottostimano la dimensione del fenomeno, almeno per due motivi.

Innanzitutto, infatti, gli operatori non raggiungono tutti i luoghi dell’area urbana in cui potrebbero trovare

posto le persone senza dimora. Inoltre, l’Uds non incontra quanti si rivolgono al servizio di dormitorio in

maniera stabile. Ne è anche prova il fatto che oltre 40 persone senza dimora su 100 sono classificati con il

codice ethos 1, ossia vivono in strada o in sistemazioni di fortuna, senza un riparo. Un altro 25% ha codice

ethos 8, vive cioè in sistemazioni non garantite (ad es. in edifici occupati).

Delle 400 persone contattate 1 su 4 è italiana. Il 20% circa è costituito da rumeni e il 10% da marocchini. Oltre

15 persone su 100 sono donne, prevalentemente straniere. Meno facile è acquisire il dato relativo all’età delle

persone contattate, mancante per il 16% del totale. Si può comunque evidenziare la presenza in strada di

persone giovani, quasi tutte parte della cosiddetta popolazione attiva. Il 74% ha infatti meno di 55 anni. Per un

dettaglio maggiore, si può aggiungere che tra le persone senza dimora 5 su 100 sono minorenni, poco più di

30 su 100 hanno tra i 18 e i 34 anni, 21 su 100 tra i 35 e 44 e 17 su 100 tra 45 e 54 anni.

16 Il conteggio cui si fa riferimento prende in considerazione il periodo che va dal 5 novembre 2012 al 2 febbraio 2016.

Le persone senza dimora contattate sono 397. È utile precisare che non si tratta di tutti gli homeless ‘visti’ dagli operatori

dell’Uds, ma solo di quelli con i quali è stato stabilito un contatto minimo (la stretta di mano e lo scambio del nome).

istituzioni/servizi pubblici presenti sul territorio (ospedale, csm, sert, questura, ecc.;

altri soggetti di terzo settore (per attività di advocacy, inserimenti lavorativi, ecc.);

privati (proprietari di abitazioni, volontari delle parrocchie, ecc.)

Caritas diocesana, parrocchie dell’area urbana.

Page 10: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

4 Il potenziale innovativo dell’esperienza

Nell’esperienza dei servizi che la cooperativa Strade di casa allestisce per le persone senza dimora, sono

rilevabili almeno tre segnali di potenziale innovativo. Il primo ha un legame stretto con l’approccio adottato,

che mette al centro la persona e la costruzione di una relazione significativa. Il secondo è legato alla costruzione

di reti locali, soprattutto con alcuni servizi del territorio. Infine, elementi di innovazione nel lavoro sociale

emergono anche dall’avvio della sperimentazione dell’Housing First, che potrebbe giovarsi della

legittimazione che il modello ha attenuto a livello nazionale, e determinare uno scenario interessante di

politiche per la persone senza dimora nel contesto locale.

4.1 L’approccio relazionale

La principale novità introdotta dall’Uds ha a che fare con il paradigma di riferimento e la metodologia adottata

nel lavoro con le persone senza dimora. In un contesto di welfare estremamente debole, dove da almeno tre

decenni Casa San Francesco costituisce la principale istituzione di riferimento per le persone senza dimora (e

non solo), la cooperativa Strade di casa sceglie di mettere al centro la persona e adotta un paradigma di tipo

promozionale. L’intervento si centra sulla relazione, intesa come “incontro personale diretto”, che poggia

sull’ascolto attivo della persona senza dimora, considerata non a partire da ciò che non ha o dalle sue condizioni

patologiche, ma dalla sua “situazione” concreta, caratterizzata da elementi di fragilità e di rischio e, insieme,

da risorse e capacità residuali. In questa relazione, la persona senza dimora è riconosciuta anche come soggetto

di diritti, e l’accompagnamento tentato è quello che si propone di favorire la fruizione concreta delle libertà

sostantive di cui essa è astrattamente titolare. L’homeless non viene contenuto o segregato, ma viene

innanzitutto ascoltato, con quell’ascolto che si chiede che cosa quella persona – considerata nella sua

irriducibile singolarità – è in grado di essere e di fare, nelle condizioni date; affinché sia ridotto o superato lo

scarto tra la sua condizione attuale e la piena espressione delle sue potenzialità personali.

Gli operatori dell’Uds definiscono il loro impegno con gli homeless come lavoro socio-educativo,

riconoscendo a questa espressione soprattutto il significato di un accompagnamento con un elevato

coinvolgimento personale dell’operatore nei confronti delle persone incontrate in strada (Battilocchi, 2005).

Esso comporta la ricostruzione del percorso di vita dell’homeless e l’individuazione delle fratture biografiche

che lo hanno portato ad uno scivolamento ai margini della società (Meo, 2000). È da questo lavoro che nasce

la possibilità di co-progettare un percorso alternativo alla strada, che può seguire vie diverse,

dall’accompagnamento ai servizi all’autonomia abitativa. Esso necessita del contributo di altri attori, che

possano sostenere il percorso con risorse materiali e relazionali e rivestendo ruoli diversi (familiari, amici,

professionisti dei servizi socio-sanitari, ecc.).

L’accompagnamento viene descritto con queste parole da un operatore del servizio: accompagnare “ha

significato nel concreto mettersi accanto alle persone senza dimora e fisicamente percorrere insieme la città,

questa volta con i loro occhi e partendo dalla loro condizione: abbiamo così, da una parte, conosciuto – passo

dopo passo e a seconda della persona che accompagnavamo – una nuova città, che non conoscevamo, quella

dei servizi pubblici e di terzo settore eventualmente attivabili; dall’altra, provato ad allargare l’orizzonte

relazionale delle persone senza dimora presentandole ad altre persone – volontari o privati cittadini – che

potessero divenire risorsa e anche essi mettersi affianco, in alcuni casi costruendo piccoli servizi ad hoc per

rispondere a qualche esigenza specifica” (relazione di un operatore dell’Uds, archivio documenti della

cooperativa Strade di casa).

La relazione di accompagnamento così impostata richiede agli operatori capacità empatica e, insieme, capacità

riflessiva. Quella che permette di non perdere mai di vista il fatto che la dimensione relazionale evocata non si

esaurisce nell’incontro con la persona senza dimora. Questo livello è essenziale perché incrocia

immediatamente e modifica in positivo lo spazio vitale, della persona senza dimora (Bronfebrenner, 2002,

2010). Per incidere sul paradigma emergenziale, e istituzionalizzante, è però necessario incidere sul

funzionamento delle istituzioni informali e formali da cui la vita della persona senza dimora è inevitabilmente

condizionata (Bronfebrenner, 2002). Gli operatori dell’Uds questo hanno cercato di farlo, più o meno

consapevolmente, portando avanti un lavoro di informazione, di animazione e di sensibilizzazione della

comunità; e tessendo intenzionalmente relazioni collaborative con i servizi del territorio.

Page 11: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

4.2 La sperimentazione delle reti possibili

Gli accompagnamenti, sia nella fase iniziale che dopo l’avvio dello Ss, sono stati fatti secondo la regola

condivisa dagli operatori: “ti sto vicino nelle cose che tu vuoi fare per migliorare la tua qualità di vita”. La

persona senza dimora è stata, quindi, accompagnata dagli operatori presso il o i servizi di cui aveva necessità.

Questo ha significato, soprattutto, prendere contatti con i professionisti impiegati al loro interno e stabilire, in

molti casi, relazioni collaborative. A partire dai bisogni degli homeless sono state sperimentate delle micro reti

e il lavoro della cooperativa ha acquisito visibilità e, in molti casi, legittimazione anche presso servizi

specialistici.

Nel grafico 1 viene rappresentata l’area entro cui questi accompagnamenti si realizzano. Il periodo preso in

considerazione va dall’inizio del 2013 ai primi mesi del 2016 e gli accompagnamenti registrati nei documenti

dell’archivio della cooperativa sono 405. In diversi casi è la stessa persona senza dimora che viene sostenuta

nell’accesso allo stesso o a diversi servizi. Come è chiaro, sono soprattutto i bisogni sanitari quelli che

richiedono un’attivazione maggiore: sono poco meno della metà del totale degli accompagnamenti. Nel

dettaglio i servizi a cui più di frequente ci si rivolge sono: l’azienda ospedaliera (oltre il 30% del totale degli

accompagnamenti ai servizi sanitari), l’azienda sanitaria (oltre il 25%), il privato convenzionato (il 20%), il

medico di base (il 10%), l’ambulatorio Acli per gli stranieri (il 7%), mentre residuali sono gli

accompagnamenti presso le farmacie e le comunità terapeutiche. Sono questi i servizi con i quali gli operatori

della cooperativa collaborano maggiormente. Tuttavia, i rapporti si sviluppano soprattutto tra operatori e

singoli professionisti, non esistono protocolli d’intesa o formalizzazioni di altro tipo delle collaborazioni in

atto. Ancora, anche nelle situazioni migliori, si tratta di reti molto fragili: l’attivazione e il funzionamento

dipendono molto dagli stimoli degli operatori della cooperativa, mentre, quando per un homeless sono

coinvolti più servizi, la collaborazione tra questi deve essere sempre mediata dagli operatori.

Figura 2 – Gli accompagnamenti per tipologia di servizi (valori assoluti)

Agli accompagnamenti presso i servizi sanitari seguono quelli verso il privato sociale e la Caritas, quelli

connessi all’housing (soprattutto ricerca dell’abitazione, stipula di contratti di locazione, ecc.). Altri servizi

pubblici di maggiore frequentazione da parte degli operatori e degli homeless sono questura, prefettura,

consolati, inps. A questi, come ai servizi comunali, si accede soprattutto per la richiesta di documenti,

certificazioni o autorizzazioni. Pochissimi sono gli accompagnamenti presso i servizi sociali territoriali, con i

quali si sperimenta una difficoltà operativa non trascurabile. Secondo gli operatori, infatti, questi presidi,

sottodimensionati nell’organico e già in affanno con lo svolgimento delle attività ‘ordinarie’, pongono spesso

delle barriere all’accesso o perché richiedono il possesso di requisiti che l’homeless non sempre ha (come la

residenza anagrafica) o perché propongono un percorso di allontanamento dalla strada standardizzato e basato

0

50

100

150

200

250

servizisanitari

privatosociale eCaritas

housing altri servizipubblici

lavoro servizi delcomune/municipio

servizi socialiterritoriali

altro

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sulla cosiddetta ‘buona condotta’ (ad es. prima il lavoro sulla dipendenza da sostanze e poi l’accesso al

dormitorio).

4.3 L’housing first: la casa come prima risposta

La prima valutazione in itinere della sperimentazione avviata dal Network Housing First Italia mette in

evidenza l’esistenza di diversi nodi problematici: alcuni di natura più organizzativa (la disponibilità di risorse

per l’affitto delle abitazioni, la composizione del team di lavoro, le criticità del lavoro con i servizi sociali e

sanitari), altri più legati al metodo (l’individuazione di target differenti di persone senza dimora, la formazione

degli operatori e il contesto locale in cui avviare i progetti di Housing First), altri ancora di tipo economico

(presenti sia nella fase di avvio che in quella di mantenimento dei progetti) (Consoli et al., 2016). Queste

criticità sono presenti anche nell’esperienza maturata dalla cooperativa Strade di casa. Insieme ad alcuni

elementi di interesse per il cambiamento nell’approccio alla povertà estrema.

Attualmente sono inserite in abitazioni 6 persone, due sono coppie. Una di queste coppie, costituita da due

donne, sta per uscire dalla sperimentazione e costituisce un’esperienza di inserimento abitativo molto

complessa e sulla quale il team di operatori intende avviare una riflessione interna. A queste esperienze è da

aggiungere quella di una persona, entrata nella sperimentazione e dopo circa un anno uscita volontariamente

dal progetto per scegliere un’altra modalità abitativa in condivisione con altri.

L’avvio del servizio di Hf non è stato semplice. Come evidenziato anche nel paragrafo precedente, l’housing

per gli operatori della cooperativa si è presentato innanzitutto come risposta alla richiesta di alcune delle

persone incontrate in strada. Quando si è avviato il servizio di Hf, quindi, gli operatori conoscevano già le

caratteristiche del mercato locale delle abitazioni e le resistenze che si potevano incontrare da parte di

proprietari, condomini, vicini di casa. Su questo fronte, il lavoro di sensibilizzazione con alcuni proprietari di

abitazioni è stato proficuo, tanto da farne dei partner della sperimentazione. Tra le principali difficoltà se ne

evidenziano, invece, due. La prima è legata ad una adeguata valutazione delle condizioni psico-fisiche della

persona, non sempre nota ai servizi competenti o in possesso di una documentazione socio-sanitaria attendibile.

Criticità che, una volta fatto l’inserimento in casa, diventa difficile affrontare in un tempo adeguato, soprattutto

per l’accesso rallentato ai servizi competenti (soprattutto Csm) e la mancanza di una integrazione tra quelli

sociali e quelli sanitari. Il lavoro degli operatori di animazione della rete si va così ad aggiungere a quello

svolto con la persona senza dimora. La seconda criticità è legata alla possibilità per la persona inserita nella

sperimentazione di disporre di un reddito, non essendoci a livello locale alcuna forma di sostegno per gli

indigenti. Non è un caso che tutti gli homeless cui è stato proposto di entrare in una abitazione, tranne una

coppia sostenuta direttamente con fondi reperiti dalla cooperativa, siano percettori di una pensione di

invalidità. Da sottolineare è che è stato il lavoro di accompagnamento degli operatori presso gli uffici

competenti a consentire l’ottenimento dell’assegno.

La sperimentazione, nonostante le criticità evidenziate, è importante per la cooperativa e per gli attori del

sistema di welfare locale coinvolti, poiché rappresenta quanto fino a poco tempo prima non era immaginato

come cambiamento possibile, ossia l’ingresso autonomo in casa di una persona senza dimora, che lascia la

strada e riprende, dalla dimora, a progettare insieme ad altri un percorso alternativo e dignitoso.

Conclusioni

Attualmente i finanziamenti che hanno consentito l’avvio dei tre servizi sono in esaurimento e non si ha

certezza rispetto al loro rinnovo. Nel 2014 la Caritas diocesana ha progettato anche la realizzazione di un centro

diurno per l’accoglienza delle persone senza dimora, che ha coinvolto solo per alcuni mesi anche gli operatori

della cooperativa Strade di casa. Negli stessi spazi oggi è attiva una mensa per i poveri, gestita da

un’associazione di volontariato. La questione delle risorse economiche oggi si presenta come centrale per il

destino dei servizi gestiti dalla cooperativa. Lasciano ben sperare le forti motivazioni degli operatori e la

credibilità acquisita in questi anni, soprattutto per il lavoro di sensibilizzazione fatto dall’Uds.

Indipendentemente dal futuro dei servizi, certamente l’esperienza ha fatto maturare degli apprendimenti che

possono essere socializzati con la comunità locale, con gli altri attori del terzo settore attivi sul territorio sul

fenomeno della povertà e, soprattutto, con le istituzioni locali. Innanzitutto, la necessità di personalizzare gli

interventi e favorirne la co-progettazione con le persone beneficiarie, anche a partire dalla casa, quale elemento

essenziale per la riacquisizione di una condizione di vita dignitosa. L’esperienza si dimostra, altresì,

interessante per cogliere le assenze e/o le fragilità dell’intervento pubblico, nonché le difficoltà di una

Page 13: Favorire l’integrazione delle persone senza dimora e

collaborazione con i servizi pubblici, spesso non adeguatamente formati per fronteggiare situazioni di povertà

estrema, in cui spesso si sommano condizioni di dipendenza, disturbi mentali, difficoltà relazionali,

disadattamento grave. Interventi che richiederebbero una integrazione tra sociale e sanitario, ancora inapplicata

nel contesto di riferimento.

Naturalmente, sarebbe prematuro affermare che il lavoro svolto in questi anni sia stato in grado di incidere in

maniera importante sull’istituito, su ciò che esisteva prima, e che ancora esiste, come pratica di intervento sulla

povertà estrema. Si può ipotizzare che il confronto con modalità nuove e con un approccio promozionale e non

emergenziale abbia stimolato una maggiore consapevolezza degli operatori dei servizi pubblici. Alcuni di

questi hanno avuto la possibilità di vedere che un homeless storico della città di Cosenza è entrato in abitazione

e sta seguendo un percorso terapeutico presso il centro di salute mentale. Tuttavia, le interazioni collaborative

non si sono trasformate in lavoro di rete, nel senso che c’è stata poca retroazione sul funzionamento del livello

istituito, e tutto ciò rischia di stemperare il potenziale di innovazione dell’esperienza. La fotografia del

momento è quella che rappresenta i servizi della cooperativa come un percorso parallelo rispetto a quelli

tradizionali (dormitorio e mense).

Con più certezza, invece, si può evidenziare il rischio di un sovraccarico di lavoro e responsabilità per gli

operatori, impegnati: nella cura delle relazioni con le persone senza dimora e in accompagnamenti di lungo

periodo in un contesto non infrastrutturato socialmente; nella gestione ordinaria di tre servizi della cooperativa;

nell’alimentazione di piccole reti con i servizi del territorio. Un sovraccarico a cui si risponde riducendo

l’attenzione alla formazione e alla riflessione interna e che potrebbe avere un effetto boomerang per

l’esperienza.

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