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Fabio Leonardi LA PSICOTERAPIA TRA MITI E REALTÀ ARMANDO EDITORE

Fabio Leonardi - Armando Editore · 2018. 10. 22. · con sottile sarcasmo e autoironia, che dopo cento anni di psicoterapia, il mondo andava sempre peggio, arrivando persino ad ipotizzare

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Fabio Leonardi

LA PSICOTERAPIA TRA MITI E REALTÀ

ARMANDO EDITORE

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Sommario

Prefazione 9

Capitolo primoGenesi e sviluppo della psicoterapia 13

L’invenzione della psicoterapia 14Lo sviluppo della psicoterapia 16Sinossi 19

Capitolo secondoEfficacia della psicoterapia 20

I dati sull’efficacia della psicoterapia 21Criticità dei dati attestanti l’efficacia delle psicoterapie 25Sinossi 35

Capitolo terzoPsicoterapia o psicofarmaci? 36

Contiguità tra psicoterapie e psicofarmaci 36Psicoterapie e psicofarmaci a confronto 42Effetti collaterali negativi causati dai farmaci 47Efficacia modesta di alcune tipologie di farmaci 52Efficacia farmaci basata su ragioni sconosciute 58Efficacia farmaci sovrastimata da vizi metodologici 61Utilizzo farmaci influenzato da strategie di marketing 63Interruzioni più frequenti nei trattamenti farmacologici 66

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Utilizzo farmaci fuori dalle indicazioni 67Assuefazione causata dall’uso di farmaci 69Dipendenza causata dall’uso di farmaci 70Cronicizzazione disturbi causata da terapie farmacologiche 72Dubbi sulle terapie farmacologiche di mantenimento 73Dubbi sulla qualità dell’effetto terapeutico dei farmaci 75Sinossi 76

Capitolo quartoCriticità della psicoterapia 77

Abnorme numerosità dei modelli di psicoterapia 78Le derive bizzarre delle cure psicologiche 84Stadio pre-scientifico delle psicoterapie 87Ambiguità tra intervento clinico e percorso esistenziale 90Effetti collaterali della psicoterapia 95Miglioramenti clinici troppo precoci 99Paradosso dell’equivalenza 100Fattori comuni condivisi con pratiche non scientifiche 103Sinossi 105

Capitolo quintoI principi attivi 107

I fattori comuni 108La modificazione diretta dei significati esperiti 113La modificazione diretta dei processi relazionali 119La modificazione diretta del comportamento 122L’induzione diretta di stati psico-fisici 125La modificazione paradossale del sintomo 128Nuova classificazione delle psicoterapie 133Commistione dei principi attivi nei modelli di psicoterapia 134Sinossi 140

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Capitolo sestoIl mito della conoscenza e consapevolezza 142

La consapevolezza e conoscenza di sé in psicoterapia 143Psicoterapie “tradizionali” versus “non tradizionali” 148Il problema della conoscenza in ambito psicologico 150Le psicoterapie moderne 151Le psicoterapie post-moderne 153Sinossi 157

Capitolo settimoQuale psicoterapia? 160

Psicoterapie “tradizionali” 161Criticità delle psicoterapie “tradizionali” 165Psicoterapie non “tradizionali” 174Criticità delle psicoterapie “non tradizionali” 179Sinossi 184

Capitolo ottavoUn minimo comun denominatore: Aumentare la salute 185

La salute: un concetto cardine di ogni psicoterapia 186La proliferante diffusione dei Disturbi Mentali 188Le definizioni di salute in ambito psicologico 190Le caratteristiche basilari di ogni definizione di salute 194Verso una definizione di salute in ambito psicologico 198Ripensare la psicoterapia in base al concetto di salute 201Sinossi 202

Postfazione 204

Bibliografia 207

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Prefazione

La psicoterapia, in poco più di un secolo dalla sua invenzione, ha conquistato una posizione importante nella società occidentale, dive-nendo un rilevante fenomeno scientifico, culturale e sociale. La dif-fusione di questa pratica clinica è stata epocale, tanto che la domanda e l’offerta di psicoterapia hanno invaso quasi ogni area esperienziale degli individui, delle coppie, delle famiglie, dei gruppi, delle aziende e delle masse. Non a caso, già qualche decennio fa, Ivan Illich, scomodo e irriverente pensatore di fine millennio, arrivò a definire la «psicote-rapia come “un’industria che deve trovare nuovi giacimenti da sfrut-tare”… in quanto i nevrotici ordinari non bastano a riempire gli studi professionali» (Hillman e Ventura, 1992).

Al di là della graffiante provocazione di Ivan Illich, va rilevato come il fenomeno “psicoterapia”, dopo aver superato l’iniziale scetticismo, si sia radicato nel tessuto sociale e culturale occidentale, tanto da generare una gran mole di estimatori, se non anche una certa mitologia. Basti pensare a come sia diffusa al giorno d’oggi, in modo trasversale a tutti i ceti sociali, la tendenza a ricondurre ogni evento alle presunte dina-miche intrapsichiche “inconsce”, ricercando nei meandri della psiche umana la spiegazione ultima di ogni accadimento, in una sorta di deriva “psico-centrica” di cui non si intravedono i limiti.

Tuttavia, accanto ai vasti entusiasmi, si possono cogliere varie per-plessità, anche tra gli stessi psicoterapeuti, o almeno tra alcuni di loro che difettano di un certo integralismo di appartenenza (non molti, pur-troppo). Hillman, noto psicoanalista junghiano, qualche anno fa scrisse, con sottile sarcasmo e autoironia, che dopo cento anni di psicoterapia, il mondo andava sempre peggio, arrivando persino ad ipotizzare che la psicologia, il lavorare su di sé, fossero parte della malattia, e non della

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cura (Hillman e Ventura, 1992). Tale ipotesi è certamente irriverente, e non pochi la “liquiderebbero” come una provocazione, ma in realtà esprime una serie di perplessità che meritano di essere approfondite.

Se ci si sofferma ad un’attenta analisi, non può sfuggire che lo status scientifico e culturale della psicoterapia, dopo uno sviluppo arremban-te, esprime una situazione composita, a tratti caotica, se non addirittura contraddittoria, con molte solide certezze ma anche con rilevanti in-congruenze, diversi interrogativi irrisolti, e alcune ombre sullo sfondo.

In tal senso, l’aspetto più impressionante è dato dal numero esorbi-tante di modelli psicoterapeutici presenti al mondo, numero in continua crescita dato che nuovi modelli si diffondono in ambito clinico-scien-tifico, senza che i precedenti siano stati accantonati, creando un so-vraffollamento di teorie e tecniche, mai visto in nessun’altra disciplina scientifica. Come se non bastasse, vecchie mitologie ormai avviate al tramonto, vengono camuffate e tornano improvvisamente a suscitare nuovi entusiasmi. Addirittura pratiche bizzarre appartenenti ad aree non scientifiche si affermano come possibilità di cura, rendendo ancor più caotico il contesto clinico, in quanto non sempre risulta semplice distin-guere le pratiche fondate scientificamente dalle altre.

Parallelamente continuano inspiegabilmente a persistere anche certi scetticismi e pregiudizi contro la psicoterapia, nonostante dati scien-tifici inoppugnabili li abbiano confutati in maniera definitiva da vari decenni.

A tutto questo si aggiunge la presenza di ingombranti paradossi in-siti alla psicoterapia che generano non pochi imbarazzi negli addetti ai lavori, oltre a striscianti ambivalenze che sottilmente continuano a perpetrarsi sin dalle origini della psicoterapia, come se nulla fosse.

Queste criticità non sempre sono percepite dalle persone comuni che si affacciano al mondo della psicoterapia, le quali sono solitamente interessate agli aspetti più concreti e pongono quesiti assai stringenti.

La psicoterapia funziona? È una cura efficace per eliminare i pro-blemi psicologici?

Può produrre danni o effetti negativi? Si può peggiorare con una psicoterapia?

Cosa fa effettivamente una psicoterapia? Quali sono i “principi atti-vi” di una psicoterapia?

Perché esistono tante psicoterapie diverse?

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Come scegliere una psicoterapia tra tutte quelle esistenti?Quanto deve durare ragionevolmente una psicoterapia?È meglio fare una psicoterapia o assumere psicofarmaci?

Se non tutti, questi sono almeno i principali interrogativi che ho incontrato in oltre venti anni di pratica psicoterapeutica, con diverse migliaia di persone, di ogni estrazione sociale, sia in ambito pubblico che privato.

Rispondere a questi interrogativi in maniera seria e approfondita, non è semplice, proprio a causa del caos e della frammentazione che caratterizza l’attuale status scientifico e culturale della psicoterapia. Inoltre affrontare queste tematiche, reca con sé un duplice rischio, una sorta di “Scilla e Cariddi”.

Da una parte il rischio è di rispondere in qualità di “insider” (cioè di membro del sistema), attraverso affermazioni di principio che sosten-gono in modo apodittico certe tesi “politically correct”, magari appog-giandosi ad un vago principio di autorità, senza considerare a fondo i dati empirici presenti all’interno della letteratura scientifica.

Dall’altra parte, però, vi è il rischio di affondare nella sconfinata marea di dati, dettagli e linguaggi tecnici, dai quali è difficile trarre un’immagine sintetica di questo metodo di cura, che possa essere uti-lizzabile per orientarsi concretamente nel “mare magnum” delle psi-coterapie.

Volendo evitare questi due rischi, ho cercato di rispondere a questi interrogativi basandomi saldamente sui dati presenti nella letteratura scientifica, senza scemare in affermazioni apodittiche, o cedere a logi-che di appartenenza “politically correct”, ma allo stesso tempo ho vo-luto sintetizzare e sistematizzare questi dati in forme pensiero elaborate che risultassero immediatamente fruibili.

Pur non avendo la pretesa di aver risposto in maniera esaustiva a tutti gli stringenti interrogativi sopra menzionati, la finalità del testo è comunque quella di fornire alcuni fondamentali riferimenti per orien-tarsi e muoversi all’interno del complesso mondo delle psicoterapie. In termini più generali la finalità è quella di osservare in modo critico le modalità con cui gli psico-esperti rispondono alle domande di salute psicologica dei loro clienti, attraverso interventi che, per convenzione, sono chiamati “psicoterapie”.

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Ovviamente, secoli di scienza ci hanno insegnato che non può esi-stere alcun punto neutro di osservazione e, dunque, la presente analisi cadrebbe in contraddizione con il suo obiettivo scientifico se presumes-se di essere oggettiva e neutrale. Ciò implica che ogni affermazione di questo libro, pur basandosi su dati scientifici oggettivi, può essere soltanto un punto di vista, in quanto «ogni cosa detta, è detta da un os-servatore» (Maturana e Varela, 1984).

Questa precisazione è fondamentale per non dimenticare che solo dalla trama di rapporti tra una molteplicità di luoghi di osservazione, è possibile cogliere la complessità di ogni fenomeno (Ceruti, 1986), e quindi anche della psicoterapia.

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Capitolo primoGenesi e sviluppo della psicoterapia

Un libro sulla psicoterapia dovrebbe iniziare da una definizione esat-ta e precisa di “Psicoterapia”. Tuttavia, nel corso della storia, si sono avvicendate tante e tali definizioni di psicoterapia che risulta impratica-bile assumerne una che possa mettere d’accordo tutti. Si potrebbe uti-lizzare una definizione inclusiva come quella proposta nel Dizionario Internazionale di Psicoterapia, secondo cui con «tale termine si indica un sistema coerente e finalizzato di pratiche psicologiche guidato da de-terminate teorie della mente e dell’agire umano, pensate e finalizzate a risolvere una data categoria di problemi emotivi, cognitivi e relazio-nali» (Nardone e Salvini, 2013 p. 15). Tuttavia, per quanto inclusiva, è assai improbabile che tale definizione possa mettere d’accordo tutti gli approcci psicoterapeutici esistenti. Sul filo della provocazione, vista l’e-terogeneità dei saperi psicoterapeutici, potremo anche affermare che “la psicoterapia è semplicemente quella pratica applicata da chi asserisce di applicarla”. Il problema è che una simile definizione non avrebbe con-fini e finirebbe per abilitare come psicoterapeuti anche schiere di guari-tori, maghi, ciarlatani, stregoni, visionari, uomini di fede, che da sempre rivendicano qualità taumaturgiche sulla psiche degli esseri umani.

In ultima analisi, si può affermare che in fondo il termine psico-terapia è una convenzione socio-culturale tipica del nostro tempo e dei luoghi in cui viviamo, e se non possiamo definirla in modo esatto, possiamo però connotarla tracciando per sommi capi il suo divenire storico, almeno per come si è sviluppato nel contesto socio-culturale occidentale, all’interno di quel particolare sistema di conoscenze che chiamiamo scienza.

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L’invenzione della psicoterapia

La psicoterapia è un’invenzione moderna che, come noto, si è origi-nata a cavallo tra il 1800 e il 1900.

Tuttavia, volendo risalire alle radici storiche e culturali, una delle testimonianze più antiche di una pratica assimilabile a quella che oggi chiamiamo psicoterapia, la troviamo già nell’antica Grecia, quando nel V sec. a.C., il noto sofista Antifonte inventò “un’arte di guarire il dolore” (techné alypias), analoga a quella che i medici applicavano alle malat-tie. Addirittura alcuni resoconti dell’epoca riportano che avesse istituito una sorta di ambulatorio pubblico di consulenza nella piazza di Corinto, dove curava le angosce facendo domande e risalendo alle cause. Non erano pratiche approssimative assimilabili a quelle di ciarlatani, ma vere e proprie pratiche di cura che seguivano precise procedure rigorosamente definite (Diano, 1973). Tuttavia non si ritrovano traccie significative di epigoni che continuarono questa forma di psicoterapia “ante litteram”, e dunque possiamo concludere che la prassi “di cura” di Antifonte ebbe meno fortuna di quelle del suo contemporaneo Ippocrate, la cui opera invece rappresentò l’atto fondativo della professione di medico.

Il termine psicoterapia compare per la prima volta in un volume del 1890 Hypnotism, or Psycho-Therapeutics, di R.W. Felkin, un me-dico antropologo, missionario in Africa, dedito all’occultismo, che po-chi anni dopo fondò persino una setta esoterica. Tuttavia, visto il suo curriculum non scientificamente “ortodosso”, Felkin non è certamente annoverato tra i padri fondatori della psicoterapia e raramente viene ricordato, solo a fini storici e documentaristici.

L’anno successivo, nel 1891, il termine psicoterapia fu ripreso in ambito più clinico dal medico ipnotista francese H. Bernheim nel te-sto Hipnotisme, Suggestion, Psychotherapie. Etudes nouvelles. Questo autore, pur non essendo considerabile a tutti gli effetti l’inventore della psicoterapia, è certamente annoverato tra i pionieri del campo (il suo testo, non a caso, fu tradotto in tedesco da un certo Sigmund Freud nel 1892, agli inizi della sua carriera). In effetti è proprio tra i medici fran-cesi che praticavano l’ipnosi nella seconda metà del 1800, che si iniziò a sviluppare una particolare pratica di cura basata essenzialmente sulla relazione terapeuta-paziente, aspetto questo che possiamo considera-re con buona approssimazione il nucleo di ogni forma di psicoterapia.

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Quindi, sebbene la vera e propria invenzione avvenne successivamente, i pionieri e i precursori di questo particolare metodo di cura chiama-to psicoterapia vanno rintracciati tra i medici francesi dediti all’ipnosi come Liébeault che fondò la Scuola di Nancy nel 1866, lo stesso Ber-nheim, suo allievo, che fu appunto il primo ad usare il termine psico-terapia, Charcot che in quegli anni sviluppò il trattamento delle isterie con l’ipnosi all’Ospedale Pitié-Salpétrière, e successivamente il suo allievo Janet.

L’invenzione vera e propria della psicoterapia, pur con tutti i distin-guo, è certamente da attribuire al celeberrimo Sigmund Freud, che tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, ebbe la fertile intuizione di sistema-tizzare un metodo di cura dei problemi mentali basato su un particolare tipo di relazione tra paziente e curante, metodologia che nella fattispe-cie venne chiamata Psicoanalisi. Per quanto agli esordi venne osteg-giata e guardata con diffidenza, tale invenzione attirò molte attenzioni e interessi, sia nel mondo scientifico che nel contesto socio-culturale. Nel corso del XX secolo, la Psicoanalisi divenne il riferimento princi-pale rispetto al quale si formò quel sistema di conoscenze e pratiche di cura che oggi chiamiamo appunto Psicoterapia, talune volte come diretta emanazione, altre volte come evoluzione o trasposizione, altre in netta antitesi.

In merito all’invenzione della psicoterapia, va detto che certamente ha rappresentato una novità curiosa nel panorama socio-culturale del mondo occidentale, dato che i problemi psicologici su cui è andata a focalizzarsi erano già presenti da molti secoli, senza che si arrivasse mai ad inventare una professione ad hoc per affrontarli. In altri termini, la psicoterapia può essere vista come una risposta ad un bisogno che esiste da sempre (Marhaba e Armezzani, 1988), anche se, come vedre-mo più avanti, è tutt’altro che scontato stabilire quale sia effettivamente tale bisogno.

A conferma del fatto che la psicoterapia risponda a problemi e bi-sogni che esistono da sempre, si può rilevare come in passato, quando ancora non erano stati “inventati” gli psicoterapeuti, vi erano comunque svariate figure “facenti funzione”, che in maniera più o meno residuale si occupavano dei “mali di vivere”. Nella fattispecie ci si riferisce alle figure religiose che, attraverso il loro armamentario di categorie “spi-rituali”, hanno sempre ri-significato gli eventi e rimodellato i vissuti

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emotivi degli individui, rispondendo ai quei bisogni che oggi sono por-tati dentro lo studio di uno psicoterapeuta.

Certamente non è un caso che la diffusione della psicoterapia sia andata di pari passo con la progressiva secolarizzazione del mondo oc-cidentale e la perdita di status delle figure religiose1. Ed in tal senso è significativo che lo stesso Hillman, dopo molti anni passati a fare lo psicoanalista, arrivi a dire che «… una lunga analisi del profondo…procura una disciplina – una devozione religiosa con rituali, simboli, insegnamenti, sottomissioni, obbedienze, sacrifici…» (Hillman e Ven-tura, 1992 p. 61), disegnando i contorni di una marcata analogia tra l’e-sercizio della psicoanalisi e quello di una qualsivoglia pratica religiosa.

Lo sviluppo della psicoterapia

L’invenzione di Freud nel corso degli anni raccolse molti seguaci, di cui alcuni rimasero aderenti al pensiero del padre fondatore, ma molti altri si dissociarono, creando svariati “scismi” che generarono una no-tevole frammentazione del pensiero psicoanalitico2. Si pensi alle prime dissociazioni di Carl Gustav Jung (1875-1961) che creò la Psicologia Analitica, di Alfred Adler (1870-1937) che inventò la Psicologia In-dividuale, passando per quelle di Otto Rank (1884-1939), di Wilhelm Reich (1897-1957), di Harry Stack Sullivan (1892-1949) fino a quel-le più recenti di Heinz Kohut (1913-1981) che inventò la Psicologia del sé, o a quella di John Bowlby (1907-1990) che formulò la Teoria dell’attaccamento.

Parallelamente al movimento psicoanalitico, a distanza di qualche decennio, la psicoterapia si sviluppò anche attraverso un approccio completamente diverso, il Comportamentismo, grazie al contributo di John Watson (1878-1958), e successivamente di Burrhus Frederic

1 Non va tuttavia dimenticato come anche le varie espressioni artistiche, tra cui in primis la letteratura, hanno avuto, da sempre, l’effetto di ri-significare gli eventi della vita e rimodellare i vissuti emotivi degli individui, svolgendo incidentalmente un’importante azione nella gestione del malessere psicologico di uomini e donne di tutte le epoche, ivi compresa quella attuale.

2 Non è un caso se qualcuno si è azzardato a paragonare la storia della psicoanalisi alla storia del cristianesimo, se non altro per il numero di scismi che accomuna queste due dottrine del sapere.

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Skinner (1902-1990), Hans Eysenck (1916-1997), Joseph Wolpe (1915-1998) e altri autori.

In linea generale, comunque, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, il panorama delle pratiche psicoterapiche fu egemonizzato dalle terapie di matrice psicoanalitica, in quanto l’approccio comportamenti-sta era relegato ad una casistica clinica molto limitata.

Successivamente, il panorama scientifico mutò rapidamente in quan-to, dagli anni Cinquanta in poi, quella particolare pratica clinica chiama-ta Psicoterapia ebbe uno sviluppo impressionante sia in ambito teorico che applicativo. Prendendo in prestito un’abusata metafora cosmologi-ca, si può affermare che nel campo della psicoterapia si è assistito ad un vero e proprio “big-bang”: dal nucleo originario freudiano, si è passati a diverse centinaia di approcci psicoterapeutici riconosciuti in ambito scientifico. Non è possibile elencarli tutti, in quanto esula dagli scopi del presente lavoro, e per una loro trattazione si rimanda al recente Diziona-rio Internazionale di Psicoterapia (Nardone e Salvini, 2013).

Parallelamente agli sviluppi scientifico-accademici, in ambito so-ciale si è venuta a delineare una sempre maggiore domanda di psico-terapia e soprattutto una debordante offerta di servizi psicoterapeutici.

In merito alla domanda, va ricordato che ai suoi esordi la psicotera-pia ha generato non pochi scetticismi, sia in ambito clinico che sociale, configurandosi per molti decenni come fenomeno di nicchia. Successi-vamente, a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo, la psicoterapia è progressivamente diventata un fenomeno di massa, soprattutto nella cul-tura nord-americana, ma anche in quella europea. In certi contesti l’in-traprendere una psicoterapia è addirittura divenuto una sorta di moda, se non addirittura uno “status symbol”, tanto da essere ostentato come segno distintivo, mentre un tempo era considerato un segreto, una cosa da tenere nascosta, di cui vergognarsene (Hillman e Ventura, 1992).

In merito all’offerta di cure psicologiche, i numeri sono molto ele-vati in tutto il cosiddetto mondo occidentale e in crescita esponenziale negli ultimi decenni. L’Italia è il paese europeo con il maggior nume-ro di psicologi e psicoterapeuti: nel 2016 vi erano 100.722 psicologi, di cui 50.621 Psicoterapeuti3. Negli ultimi venti anni, il numero di Psicologi risulta aumentato di quasi il 400 % (nel 1996 erano infatti

3 Fonte: www.psy.it/wp-content/uploads/2015/04/Numero-iscritti-2016-1.pdf.

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26.072)4. Tale aumento non risulta minimamente giustificato dall’incre-mento della popolazione, che negli ultimi vent’anni ha avuto una mo-desta crescita, di appena il 6 % circa, e dunque va visto come evidenza di un mutamento socio-culturale nei confronti di questa pratica di cura.

Questi incredibili sviluppi, se in prima analisi possono sembrare dati molto positivi per l’ambito della psicoterapia, ad un’analisi più attenta generano qualche seria perplessità. Difatti è lecito interrogarsi su qua-le possa essere l’idea di salute psicologica alla base della debordante offerta di psicoterapia, nonché delle numerosissime domande di cure psicologiche agite ogni giorno da centinaia di migliaia di individui in tutto il mondo. La perplessità è che dietro questa proliferazione vi possa essere una visione idealistica di salute, intesa come completa assenza di malessere (Leonardi, 2015), che porta a voler eliminare attraverso un trattamento specifico, qualsiasi forma di disagio (alla stessa stregua di quanto accade nella chirurgia in cui le tecniche cliniche sono or-mai applicate estensivamente anche a quadri non clinici per eliminare le piccole imperfezioni o i segni di un invecchiamento fisiologico). In realtà, le perplessità maggiori emergono se si inverte il quesito, e ci si chiede quale concetto di salute psicologica viene alimentato da questa straripante ondata di offerta e di domanda di psicoterapia.

Legate a queste perplessità, si profilano dubbi anche su quali siano effettivamente i bisogni a cui risponde la psicoterapia. Bisogni clinici di ridurre o modificare (curare) forme di disfunzionamento psicologico? Bisogni conoscitivi? Bisogni filosofici? Bisogni spirituali o comunque trascendenti?

Anche in tal caso il problema maggiore emerge se si analizzano qua-li bisogni finisce per indurre un’offerta di psicoterapia così massiccia e capillare (alla stessa stregua della chirurgia estetica, che per il fatto stesso di esistere, ha modificato le percezioni, gli standard di valutazio-ne e i bisogni delle persone).

Sono certamente interrogativi complessi che vanno menzionati se non altro per osservare in modo non ingenuo gli sviluppi del fenomeno “psico-terapia”, interrogativi che comunque ritorneranno nel corso della presente trattazione, ai quali si cercherà di delineare una qualche forma di risposta.

4 Fonte:www.psy.it/wp-content/uploads/2015/04/ANDAMENTO-ISCRITTI-FINO-AL-2016-pdf.

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Sinossi

Premesso che la psicoterapia è un metodo di cura talmente eteroge-neo da non poter rientrare in una singola definizione, in questo capitolo si è voluto connotarla tracciandone per sommi capi il suo divenire sto-rico, almeno per come è avvenuto all’interno dell’ambito scientifico.

L’invenzione di tale metodo di cura, attribuibile al celeberrimo Sigmund Freud, inizialmente è stata accompagnata da un marcato scet-ticismo; successivamente, col passare degli anni, la psicoterapia si è progressivamente affermata ed è arrivata ad avere un notevole svilup-po in tutto il mondo occidentale, divenendo probabilmente una delle più rilevanti innovazioni introdotte in ambito clinico nel corso del XX secolo. La sua influenza non è rimasta circoscritta agli ambiti clinici, dato che in questo ultimo secolo il fenomeno psicoterapia è divenuto «una delle imprese culturali più significative, considerando anche la rilevanza che ha avuto sul piano delle sue ricadute sociali e culturali» (Nardone e Salvini, 2013 p. 12).

La domanda e l’offerta di psicoterapia hanno avuto uno sviluppo sbalorditivo negli ultimi decenni. Tuttavia dietro gli entusiasmi per un simile sviluppo, si aprono significative perplessità legate all’idea di sa-lute psicologica sottostante alla massiccia domanda di psicoterapia, e soprattutto a quella veicolata dalla debordante offerta di psicoterapia.

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Capitolo secondoEfficacia della psicoterapia

La grande domanda di psicoterapia, ma soprattutto l’impressionan-te proliferazione dell’offerta di cure psicologiche, non possono essere viste come conferma del fatto che la psicoterapia sia un metodo di cura efficace, dato che, come noto, le leggi della domanda e dell’offerta sono governate da logiche non del tutto razionali. In questo capitolo verrà analizzata la questione fondamentale, cioè quella concernente l’efficacia delle pratiche psicoterapeutiche appartenenti alla tradizione scientifica.

La domanda da cui si vuole partire non è sostanzialmente dissimile da quella che accompagna ogni persona quando ipotizza di iniziare un trattamento psicologico per curare un disturbo o risolvere una proble-matica psicologica: la psicoterapia funziona?

Le opinioni diffuse a livello popolare evidenziano orientamenti con-trastanti, frutto di miti oppure scetticismi che sopravvivono nell’imma-ginario collettivo, e che hanno accompagnato l’evoluzione del fenome-no psicoterapia. Da una parte vi sono folte schiere di sostenitori delle psicoterapie, visceralmente convinti degli effetti benefici delle cure psi-cologiche. Dall’altra, nel variegato panorama culturale, vi sono anche significative aree di irriducibili scettici, che annoverano la psicoterapia a quelle forme di conforto che possono generare al massimo un blando effetto lenitivo. Inoltre non manca qualche nicchia di fieri detrattori che senza alcuna ironia ribadirebbero il provocatorio lavoro di Hillman, affermando che dopo cento anni di psicoterapia, il mondo va sempre peggio (Hillman e Ventura, 1992).

Tutti, o quasi, sono comunque concordi nel ritenere che il parlare dei propri problemi psicologici sortisca di per sé un qualche effetto lenitivo

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sulla sofferenza psicologica, e quindi male non faccia (anche se questo è uno dei tanti miti che sopravvive in maniera ingiustificata, spesso anche tra gli addetti ai lavori). Tuttavia la questione fondamentale è se, al di là dell’ovvio effetto lenitivo, quel peculiare processo relazionale chiamato psicoterapia possa avere un effetto curativo, cioè modificare pensieri, emozioni, sentimenti o comportamenti classificati come sinto-mi, inquadrati come Disturbi e/o vissuti come disfunzionali.

Per rispondere a tale quesito, nel corso del presente capitolo si pren-deranno in considerazione i principali dati emersi dagli studi scientifici: come recita un vecchio adagio pragmatista, parafrasando un noto motto americano, «in Dio potremo anche credere, ma tutti gli altri devono por-tare dati» (in God we could also trust, but all others must bring data).

I dati sull’efficacia della psicoterapia

Dal punto di vista strettamente tecnico-scientifico, la questione ine-rente l’efficacia della psicoterapia è piuttosto complessa, ma vi sono dati scientifici chiari e ormai consolidati.

Il principale dato che emerge da migliaia di studi scientifici condot-ti negli ultimi sessant’anni è che la psicoterapia è sostanzialmente un trattamento di cura efficace, sia rispetto all’assenza di trattamento, sia rispetto ai trattamenti placebo.

Ripercorrendo per sommi capi la storia che ha condotto a stabilire l’efficacia della psicoterapia, va ricordato che l’esordio della pratiche psicoterapiche nel mondo clinico-scientifico fu caratterizzato da un marcato scetticismo, soprattutto da parte della Medicina, ma anche da parte di rilevanti settori della nascente psicologia accademica. Tale vi-sione scettica sull’efficacia delle psicoterapie raggiunse il suo culmine agli inizi degli anni ’50, circa mezzo secolo dopo l’esordio delle pri-me pratiche psicoterapeutiche, attraverso la celebre e netta stroncatura di H. Eysenck, il quale in un famoso articolo pubblicato nel «Journal of Consulting Psychology» dimostrava l’inefficacia delle psicoterapie psicodinamiche rispetto all’assenza di trattamento (Eysenck, 1952). In realtà, quasi dieci anni dopo, Bergin riprese in mano gli studi su cui si basò Eysenck e trasse conclusioni diametralmente opposte, dato che trovò un miglioramento nel 91 % dei casi, invece del 39 %

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rilevato da Eysenck (Bergin, 1963). Tale divergenza apre qualche dub-bio sull’attendibilità delle valutazioni scientifiche, dubbio che ha tro-vato poi una sua fondatezza attraverso l’identificazione del cosiddetto “effetto fedeltà” del ricercatore, che verrà trattato più avanti. Succes-sivamente allo studio di Eysenck e alla replica di Bergin, apparvero lavori scientifici con risultati non molto concordanti, in quanto alcuni evidenziarono un rilevante effetto positivo della psicoterapia (Meltzoff e Kornreich, 1970; Luborsky et al., 1975), mentre altri lo ridimensiona-rono (Bergin, 1971; Frank, 1979).

Negli anni a seguire, gli studi sull’efficacia fecero un salto di qua-lità grazie all’introduzione della meta-analisi, una metodologia stati-stica più sofisticata che permetteva di sommare molti studi in modo ponderato e ottenere un effetto globale di efficacia, denominato “Effect Size”1. Questo sviluppo permise di stabilire in modo incontrovertibile che la psicoterapia è un metodo di cura efficace (Smith e Glass, 1977; Smith, Glass e Miller, 1980; Shapiro e Shapiro, 1982). Volendo dare un’idea dell’efficacia trovata, si prenda la più ampia tra queste prime meta-analisi (Smith, Glass e Miller, 1980), che prese in considerazione ben 475 studi sull’efficacia delle psicoterapie: in estrema sintesi risultò che le persone che avevano avuto un trattamento, esperivano un miglio-ramento rispetto all’80 % delle persone che non avevano ricevuto alcun trattamento psicoterapeutico2.

Nel corso dei decenni successivi l’efficacia delle psicoterapie venne sistematicamente confermata sia con le classiche meta-analisi che som-mano molti studi clinici differenti, sia attraverso le mega-analisi, cioè meta-analisi di meta-analisi che permettono di sommare diverse studi meta-analitici: nel complesso questa mole enorme di dati consolidò il dato che attestava l’efficacia delle psicoterapie confermando gli ele-vati livelli di “effect size” rilevati nelle prime meta-analisi (Garfield e

1 Questo valore rappresenta la differenza tra gruppi trattati e gruppi non trattati, espressa in unità di deviazione standard, quindi è una differenza media standardizzata che va inter-pretato attraverso la distribuzione della curva gaussiana. L’effect size può essere calcolato attraverso diverse metodologie: la più comune è quella espressa attraverso il valore “d” di Cohen (1988), ma viene misurato anche attraverso il valore “g” di Hedges (1982). Per dare un’idea del significato dei valori dell’effect size, si consideri che un valore di .2 è considerato un risultato piccolo in ambito medico e psicologico, un valore di .5 un risultato moderato, mentre un valore da .8 in su, un grande risultato.

2 In termini di “effect size”, fu rilevato un valore pari a .85, che rappresenta un valore di efficacia elevato.

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Bergin, 1986; Lipsey e Wilson, 1993; Lambert e Bergin, 1994; Shadish et al.; 2000; Lambert e Ogles, 2004; Butler et al., 2006; de Maat et al., 2009; Abbass et al., 2014).

In anni più recenti, le ricerche sull’efficacia sono ulteriormente pro-gredite attraverso gli studi clinici controllati e randomizzati (R.C.T., Randomized Controlled Trials), i quali hanno permesso di identificare le psicoterapie validate empiricamente, denominate EST (Empirically Supported Treatments), le cui procedure sono sistematizzate in apposi-ti manuali (psicoterapie manualizzate). Questo filone di studi, avviato dal 1995 all’interno dell’APA (American Psychology Association), si è sviluppato sull’onda dell’influsso di un più vasto movimento noto come EBM (Evidence Based Medicine), divenuto egemone nell’am-bito medico. Attraverso questa impostazione è stato possibile testare con precisione l’efficacia di molti trattamenti, specifici per vari distur-bi, standardizzati attraverso procedure dichiarate negli appositi manuali (EST – Empirically Supported Treatments).

Certamente questi recenti sviluppi rappresentano un tentativo im-portante di uscire dal soggettivismo e dalla autoreferenzialità che han-no condizionato la storia della psicoterapia, anche se questo approccio rigoroso degli studi clinici controllati e randomizzati (RCT) è stato ri-dimensionato da vari studiosi che ne hanno evidenziato i limiti. Anche se saranno ripresi in modo sistematizzato nel prossimo capitolo, in cui si affronteranno tutte le criticità delle ricerche sull’efficacia delle psi-coterapie, è utile elencarli sommariamente in questo paragrafo per dare un’idea degli interrogativi che gravano su questa recente evoluzione delle psicoterapie. Le principali critiche mettono in discussione la vali-dità dei risultati degli RCT in quanto non sarebbero rappresentativi delle psicoterapie reali che avvengono negli usuali contesti clinici (Westen et al., 2004; Castelnuovo 2013). In particolare si sostiene che negli RCT il paziente non sceglie il terapeuta, ma viene assegnato casualmente, escludendo dunque quel meccanismo che entra sempre in gioco nelle relazioni di cura reali. Inoltre i pazienti sono selezionati in base alla presenza del solo disturbo trattato, escludendo i pazienti con disturbi concomitanti (co-morbilità), aspetto questo che nella realtà rappresenta invece la situazione più frequente. Si sottolinea, inoltre, il fatto che le te-rapie manualizzate nella realtà sono diverse perché vengono applicate in maniera molto più flessibile di come avviene negli RCT, e generalmente

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sono più lunghe. Viene rilevato anche il fatto che i cambiamenti mi-surati dagli RCT hanno una scarsa rilevanza clinica rispetto a quanto avviene nelle psicoterapie reali, e che c’è dunque una dimensione del cambiamento che sfugge alle misurazioni degli RCT.

Oltre ai dubbi sulla effettiva rappresentatività dei risultati degli RCT, alcuni autori hanno evidenziato che le terapie manualizzate (EST) risultavano superiori solo quando erano confrontate con terapie fittizie, mentre tale superiorità si annullava quando erano confrontati con altre terapie reali (Wampold et al., 2002). Inoltre, è emerso che spesso i ri-cercatori che testavano gli EST erano fautori di questi stessi trattamenti e ciò generava un “effetto fedeltà” dei ricercatori (“allegiance effect”), che portava a sovrastimare l’efficacia del trattamento stesso, tanto che la superiorità si annullava quando i risultati venivano corretti togliendo la distorsione generata dall’appartenenza del ricercatore (Luborsky et al., 2002) (per maggiori dettagli si veda più avanti la parte sull’effetto fedeltà dei ricercatori).

Tali critiche, sebbene formulate da ampi settori della psicoterapia, non sono condivise da tutti in quanto altri dati hanno dimostrato che i risultati ottenuti in condizioni cliniche reali sono assimilabili a quel-li ottenuti nelle condizioni sperimentali degli EST, sebbene vi sia una tendenza abbastanza piccola a registrare una diminuzione dell’effetto positivo nei setting clinici reali (Stewart e Chambless, 2009). Per que-sto alcuni autori sono arrivati a dire che le posizioni critiche verso gli EST sono espressione di una cultura psicoterapeutica pre-scientifica, refrattaria all’uso dei dati della ricerca (Baker et al., 2008).

In conclusione, si rileva come l’ultima fase delle ricerche sull’effica-cia delle psicoterapie, basata sul ricorso agli studi clinici randomizzati e controllati (RCT) per selezionare le psicoterapie validate empiricamente (EST), ha diviso la comunità scientifica in una contrapposizione che è ben lungi dall’essere risolta. Certamente allo stato attuale vi sono molti interventi psicoterapeutici validati empiricamente che sono sottoutilizza-ti, nel senso che molti clinici potrebbero utilizzarli ma scelgono di non farlo (Baker et al., 2008). In Italia, ancor più che nel mondo anglosasso-ne, gli psicoterapeuti che adottano gli EST sono una ridotta minoranza.

Tornando al focus principale inerente l’efficacia delle psicoterapie, fino ad ora abbiamo analizzato la questione ad un livello generale, trat-tando la psicoterapia nel suo complesso. Tuttavia questo primo livello

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di analisi non può essere esaustivo e rimanda alla necessità di verificare l’efficacia più in dettaglio, e cioè in relazione agli specifici disturbi. Difatti, come noto, esistono centinaia di disturbi diversi, ed è necessario verificare se tale efficacia si rileva per tutti i differenti disturbi. In tal senso, va sottolineato che non esistono dati sistematici per ogni distur-bo, ma dati aggregati per le principali tipologie di disturbo.

In linea di massima, si può affermare che vi sono evidenze empiri-che derivate da rigorose meta-analisi che dimostrano l’efficacia di una qualche forma di psicoterapia con i seguenti Disturbi o problematiche psicologiche: Disturbi d’ansia (Westen e Morrison, 2001; Hunot et al., 2007; Furukawa et al., 2007; Hoffmann e Smits, 2008; Mayo-Wilson et al., 2014; James et al., 2015), e tra i Disturbi d’ansia in particola-re Disturbi ossessivi-compulsivi (Eddy et al. 2004; O’Kearney et al., 2006; Romanelli et al., 2014), Ipocondria (Thomson e Page, 2007), Disturbi post-traumatici da stress (Bisson e Andrew, 2007) e Fobia so-ciale (Ponniah e Hollon, 2008), Disturbi depressivi (Westen e Morri-son, 2001; Akechi et al., 2008), Disturbi del comportamento alimen-tare (Bacaltchuk et al., 2001; Thomson-Brenner et al., 2003; Hay et al., 2009; Barrueco-Costa e Melnik, 2016), Disturbi somatoformi (van Dessel et al., 2014), Disturbi del sonno (Freeman et al., 2017), Disturbi e disfunzioni sessuali (Melnik et al., 2007), Gambling (Cowlishaw et al., 2012), Dipendenza da alcool (Fals-Stewart et al., 2005), Dipenden-za da sostanze (Fals-Stewart e Lam, 2008), Tabagismo (Stead et al., 2017), Trattamento di bambini vittime di abusi sessuali (MacDonald et al., 2012), Disturbi di personalità (Leichsenring et al., 2003; ?st, 2008; Stoffers et al., 2012), Schizofrenia (Baucom et al., 1998; Jones et al., 2004), Disturbi del comportamento in bambini e adolescenti (Woolfen-den et al., 2001), ed altri disturbi minori.

Criticità dei dati attestanti l’efficacia delle psicoterapie

Come accennato in precedenza, la questione dell’efficacia è una te-matica complessa e quindi, sebbene vi siano dati consolidati che mo-strano una sostanziale efficacia delle psicoterapie, vi sono alcune pro-blematiche e criticità che hanno alimentato un «crescente scetticismo sulla massa dei dati accumulati dalle ricerche» (Parloff, 1985 p. 9).

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In dettaglio è possibile rintracciare 8 criticità:1. scarsa rappresentatività delle psicoterapie testate2. problematica definizione del placebo3. controversa definizione di esito positivo e negativo4. dati distorti da “effetto fedeltà” dei ricercatori5. efficacia sovrastimata da ricerche non pubblicate6. insufficiente specificità dei dati sull’efficacia7. limitata durata e ampiezza degli effetti positivi8. efficacia condizionata da variabilità del terapeuta

Il primo problema dei dati attestanti l’efficacia delle psicoterapie riguarda l’effettiva rappresentatività delle psicoterapie usate nelle ricer-che, cioè quanto queste siano rappresentative di quelle applicate nella realtà clinica quotidiana (tale questione è stata accennata nel precedente paragrafo in relazione agli RCT).

Nella fattispecie sembra che le caratteristiche delle psicoterapie reali siano intenzionalmente escluse da quelle usate per la ricerca, al fine di rendere le psicoterapie testate adatte al setting sperimentale. In tal senso caratteristiche usuali come la scelta reciproca tra terapeuta e cliente, la flessibilità della psicoterapia, la durata non prestabilita del trattamento, la specificità degli obiettivi della psicoterapia, non rientrano quasi mai nelle caratteristiche delle psicoterapie usate in ricerca (Seligman, 1995).

È emblematico come nelle ricerche vi sia stata una prevalenza di psicoterapie comportamentali o cognitivo comportamentali, mentre nella pratica clinica, soprattutto nei decenni passati a cui risalgono molte meta-analisi, la maggioranza dei terapeuti aveva un orienta-mento psicodinamico. Ad esempio nella meta-analisi di Smith, Glass e Miller (1980) le psicoterapie psicodinamiche erano il 13 % del cam-pione, mentre è noto che in quegli anni la stragrande maggioranza dei terapeuti era di orientamento psicodinamico.

Inoltre le psicoterapie testate nelle ricerche sono generalmente bre-vi, per ovvie ragioni di fattibilità della ricerca, mentre nella realtà la maggior parte delle psicoterapie sono lunghe. Ad esempio, nella meta-analisi di Smith, Glass e Miller (1980) la durata media delle psicotera-pie era di sedici incontri, e in quella di Shapiro e Shapiro (1982) era di sette, dato questo molto lontano da quello che poteva essere la durata media di una psicoterapia in quegli anni.

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Un ulteriore problema che riduce la rappresentatività concerne i cri-teri di selezione dei pazienti, basati sulla presenza esclusiva di un chiaro quadro diagnostico, aspetto questo che porta a scegliere pazienti molto diversi da quelli che si incontrano nella clinica quotidiana, caratterizzati nella maggior parte dei casi da quadri diagnostici plurali e ibridi. È em-blematico che negli Studi Clinici Controllati e Randomizzati (RCT) la percentuale di pazienti esclusi dalla ricerca va dal 40 % al 70 %” (We-sten et al., 2004 p. 58), a dimostrazione di come la ricerca si focalizzi su un sottogruppo di pazienti.

Un altro problema che limita la rappresentatività delle ricerche, con-cerne la rigidità con cui sono applicati i protocolli psicoterapeutici delle psicoterapie manualizzate: tale rigidità risponde alla necessità di stan-dardizzare l’intervento per rendere più rigorosa la ricerca, ma di fatto comporta un allontanamento dalle psicoterapie reali che si caratterizza-no per una estrema flessibilità (Westen et al., 2004).

In termini generali si registra una sostanziale incompatibilità tra le esigenze del disegno sperimentale delle ricerche e ciò che viene fatto nella pratica clinica a fini esclusivamente terapeutici: tale incompati-bilità innesca quel noto paradosso metodologico per cui, al fine di au-mentare l’attendibilità della ricerca, si sacrifica la validità (Goldfried e Wolfe, 1998). Per queste ragioni si registrano preoccupazioni sul fatto che le psicoterapie testate nelle ricerche siano scarsamente rappresenta-tive delle psicoterapie effettivamente applicate nella realtà clinica (Se-ligman, 1995; Fensterheim e Raw, 1996; Duncan, 2002).

Il secondo aspetto critico dei dati attestanti l’efficacia delle psicote-rapie, riguarda il fatto che tale efficacia è misurata rispetto al cosiddetto placebo, che in realtà è un concetto di problematica applicazione.

In linea generale, un placebo dovrebbe essere qualsiasi trattamento, esteriormente simile a quello che si vuole testare, privo tuttavia di ogni principio attivo, cioè senza alcun fattore specifico per curare la condi-zione per la quale si effettua il trattamento. In medicina, storicamente, il placebo ha sempre coinciso con una qualsiasi sostanza, esteriormente del tutto simile al farmaco, privo però dei principi attivi del farmaco in esame: la regola aurea del placebo è che doveva essere indistinguibile dal farmaco sia alla vista, che al tatto e all’odore, e doveva esserlo tanto per il

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soggetto quanto per chi somministrava i trattamenti3. L’assunto alla base di questa impostazione è che il placebo produca “solo” gli effetti psico-logici legati alla suggestione di assumere una cura (effetti a-specifici), mentre il farmaco, oltre agli stessi effetti psicologici, generi anche effet-ti organici attraverso i suoi principi attivi (effetti specifici). Sottraendo dunque dagli effetti del farmaco, quelli prodotti dal placebo, si possono ottenere gli effetti ascrivibili ai soli principi attivi del farmaco4.

In ambito psicoterapeutico, come è intuibile, la concezione tradizio-nale del placebo mutuata dalla Medicina, non ha mai potuto funzionare perché i presunti effetti psicologici di un placebo (effetti a-specifici) non sono dissimili dai presunti effetti psicologici di una psicoterapia (effetti specifici). Addirittura c’è chi arriva a definire la «psicoterapia, in particolare la psicoanalisi, come nient’altro che la scomposizione e lo studio minuzioso dell’effetto placebo allo scopo di utilizzarlo me-glio…» (Migone, 2008 p. 56). Emergono dunque problemi rilevanti allorquando si vogliano separare gli effetti psicologici del placebo da-gli effetti psicologici di una psicoterapia, essendo entrambi effetti del medesimo tipo, presumibilmente inestricabilmente intrecciati tra loro (Parloff 1986; Grünbaum, 1986; Gulotta e Del Castello,1998).

Applicare un placebo in psicoterapia dovrebbe risultare dunque molto problematico, e ciò fa sorgere qualche dubbio laddove migliaia di ricer-che hanno affermato che la psicoterapia risulta più efficace del placebo.

Storicamente, fu proposto di considerare come placebo qualsiasi «attività terapeuticamente inerte dal punto di vista della teoria che si sta testando… somministrata in circostanze e da persone dalle quali i pazienti si attendono di ottenere un aiuto» (Rosenthal e Frank, 1956).

3 In ambito sperimentale tale procedura si chiama “doppio cieco” o “double blind”, in quanto appunto sia soggetto che sperimentatore non devono sapere qual è la sostanza effetti-vamente somministrata.

4 In realtà questa impostazione tradizionale si è rivelata errata e ha evidenziato notevoli problemi in Medicina (Benedetti et al., 2005). Infatti è emerso che gli effetti dei placebo non sono solo psicologici, ma possono essere anche mediati da meccanismi biochimici, proprio come quelli dei principi attivi dei farmaci. Nella fattispecie è risultato che se si bloccano i re-cettori degli oppiodi endogeni attraverso la somministrazione di antagonisti (come ad esempio il Naloxone) l’effetto placebo viene inibito (Levine et al., 1978; Grevert et al., 1983; Benedet-ti et al., 2005). Addirittura studi di neuroanatomia (Mayberg et al., 2002) hanno evidenziato che gli effetti cerebrali del placebo risultavano uguali a quelli generati da un antidepressivo (Fluoxetina). Ciò sta imponendo un ripensamento sulla costruzione dell’effetto placebo anche in Medicina (Benedetti et al., 2005).

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