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Periodico di Ateneo Anno XV, n. 1 - 2013 ECOLOGIA DEI SAPERI In questo numero: Marta Antonelli, Eugenio Barba, Massimo Cacciari, Serena Dandini, Mauro Dorato, Elisa Germana Ernst, Guido Fabiani, Aldo Fiori, Francesca Greco, Giacomo Marramao, Leticia Marrone, Elio Matassi, Massimo Mattei, Enrico Menduni, Mario Panizza, Stefania Parigi, Carlo Alberto Pratesi, Elizabeth Sombart, Emanuele Trevi, Carlos Zelarayán

ECOLOGIA DEI SAPERI - Servizio di hostinghost.uniroma3.it/riviste/romatrenews/download/roma3newsDEF_BAS.pdf · di Paolo Di Paolo La letteratura ... p.47 tratto dal suo romanzo Mandami

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Periodico di AteneoU Anno XV, n. 1 - 2013

ECOLOGIA DEI SAPERIIn questo numero: Marta Antonelli, Eugenio Barba, Massimo Cacciari, Serena Dandini, Mauro Dorato,

Elisa Germana Ernst, Guido Fabiani, Aldo Fiori, Francesca Greco, Giacomo Marramao, Leticia Marrone,Elio Matassi, Massimo Mattei, Enrico Menduni, Mario Panizza, Stefania Parigi, Carlo Alberto Pratesi,

Elizabeth Sombart, Emanuele Trevi, Carlos Zelarayán

SommarioEditoriale 3Primo pianoLa fabbrica della conoscenza 5Lo sviluppo edilizio di Roma Tre e la riqualificazione urbana del quadrante Ostiense/Marconidi Mario Panizza

Democrazia e postdemocrazia 10Una diagnosi dei mondi globalidi Giacomo Marramao

«Sapere aude!» 16Scienza, valori e democraziadi Mauro Dorato

Start upper 19Quando l’università insegna a trasformare un’intuizione in un business di Carlo Alberto Pratesi

Lo spirito libero «di gran scienza amante» 21Verità e ricerca nella nuova filosofia di Bruno, Campanella e Galileodi Elisa Germana Ernst

Il tradimento dei chierici 25di Francesca Gisotti

Oro blu 26Risorse idriche: ricerca accademica e risvolti applicatividi Aldo Fiori

L’acqua che mangiamo 29Che cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamodi Francesca Greco e Marta Antonelli

«La chiaroveggenza dell’orecchio» 32L’università e il ruolo formativo della musicadi Elio Matassi

Digital decide 34Le avventure della conoscenza e della didattica nell’era digitaledi Enrico Menduni

Una grammatica nuova per un tempo nuovo 37Università, politica e nuovi dirittidi Leticia Marrone e Carlos Zelarayán

Oscar Niemeyer 40Il Novecento fra architettura e ideologiadi Michela Monferrini

Rischio naturale 42Il territorio come pericolo e come risorsa e la politica universitaria in Italiadi Massimo Mattei

Pasolini vivo e morto 44Il «corpo insepolto» della dialettica artista-societàdi Stefania Parigi

«Ti ricordi com’era bella l’Italia?» 46Una giornata con Antonio Tabucchidi Paolo Di Paolo

La letteratura illuministica di Leonardo Sciascia 48La ricerca di una verità più affidabile di quella data dalla Storiadi Michela Monferrini

IncontriGuido Fabiani. Spiegare di nuovo le vele 50di Alessandra Ciarletti

Massimo Cacciari. Il potere che frena 53di Federica Martellini

Eugenio Barba. L’Odin Teatret a Roma Tre 54di Mirella Schino

Elizabeth Sombart. «I servitori della musica» 58di Valentina Cavalletti

Serena Dandini. Ferite a morte 60di Francesca Gisotti

Emanuele Trevi. Qualcosa di scritto 62di Federica Martellini

Rubriche Popscene 64Ultim’ora da Laziodisu 65Non tutti sanno che… 66

RecensioniLa scienza narrata 67Potenzialità di un racconto ancora tutto da scriveredi Francesca Gisotti

Le pratiche del Buen Vivir 69Un paradigma di sviluppo alternativo in Ecuador di Genny Sangiovanni e Chiara Scarcello

Arte e spiritualità 70L’ex voto di Yves Klein per santa Rita da Casciadi Martina Stoppioni

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XV, numero 1/2013Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

CaporedattoreAlessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazioneFederica Martellini [email protected]

RedazioneUgo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo DiPaolo, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, MichelaMonferrini

Hanno collaborato a questo numeroMarta Antonelli (PhD researcher King’s College London e assegnista di ricercain Politica Economica presso l’Università IUAV di Venezia), Mauro Dorato (pro-fessore ordinario di Filosofia della scienza), Elisa Germana Ernst (professoreordinario di Storia della filosofia del Rinascimento), Aldo Fiori (professore ordi-nario di Idrologia applicata), Gianpiero Gamaleri (presidente Adisu Roma Tre),Francesca Greco (PhD researcher King’s College London - United NationsWorld Water Assessment Programme - UNESCO), Giacomo Marramao (pro-fessore ordinario di filosofia politica e presidente del Corso di studio in Filoso-fia), Leticia Marrone (Universidad Nacional de Avellaneda, Buenos Aires), ElioMatassi (professore ordinario di Filosofia della musica), Massimo Mattei (pro-fessore ordinario di Geologia), Enrico Menduni (professore ordinario di Socio-logia della comunicazione e dei media), Maria Palozzi (responsabile Ufficio dicoordinamento centrale per le biblioteche), Mario Panizza (rettore Universitàdegli Studi Roma Tre), Stefania Parigi (professore ordinario di Cinema italiano),Carlo Alberto Pratesi (professore ordinario di Marketing), Genny Sangiovanni(studentessa CdL in Scienze economiche), Chiara Scarcello (studentessa CdLin Giurisprudenza), Martina Stoppioni (critico e curatore indipendente), CarlosZelarayán (Universidad Nacional de Avellaneda, Buenos Aires)

Ringraziamo Poalo Di Paolo per la gentile concessione del brano pubblicato ap.47 tratto dal suo romanzo Mandami tanta vita (Feltrinelli 2013)

Immagini e fotoLeonardo Candamo©, Francesco Galli, Andrea Jemolo, Fabrizio Loiacono,Angela Morelli© (www.angelamorelli.com), Jan Rüsz, Yves Klein Archives -Paris

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico

Impaginazione e stampaStilgrafica s.r.l. - Roma - Tel. 06 43588200

In copertinaL’immagine di copertina è ideata e realizzata da Bia Simonassi(www.freeyourideas.net - http://treebookgallery.blogspot.it - http://theproject-labshow.blogspot.it/)

Finito di stampare luglio 2013

ISSN: 2279-9192

Registrazione Tribunale di Roma

Andate in Somalia e guardate il vostro capitalismo,guardate il vostro socialismo,guardate gli occhidei bambini che muoiono di fame.(Ko Un)

Ko Un è il maggiorepoeta coreano vivente.Più volte candidato alpremio Nobel per laletteratura, questo mo-

naco poeta è considerato uno degli scrittori più im-portanti nel panorama contemporaneo. Le sue poe-sie zen, la sua militanza civile ne fanno uno scritto-re capace di restituire alle parole della poesia unaprofonda forza di trasformazione. Ko Un ci proponeun modello di scrittore militante, impegnato nellavita sociale e civile del proprio paese e del mondointero. Molti artisti, scrittori, registi e musicisti ditutto il mondo ci hanno proposto negli ultimi decen-ni con il loro lavoro concezioni delle arti che pre-suppongono la militanza civile. Che dire allora deisaperi scientifici? Quale la loro posizione rispettoall’impegno attivo nel quotidiano?

Da Gregory Bateson in poi ci siamo spesso interro-gati sull’ecologia delle parole che pronunciamo eche ascoltiamo, sulla qualità delle immagini cheguardiamo, sulla responsabilità con cui agiamo nel-la vita quotidiana, consapevoli del fatto che pensie-ri, parole e azioni lasciano tracce profonde nel senti-re nostro e degli altri, come se un grande inconscio

collettivo junghiano potesse conservarne memoria.In un’epoca di profonda crisi e trasformazione, co-me quella che stiamo attraversando, possiamo guar-dare alle scienze come a qualcosa di congiunto allavita quotidiana e all’universo dell’etica sociale epubblica? Possiamo come scienziate e scienziati,come donne e uomini intellettuali prendere parola,contribuire a produrre la conoscenza pubblica suquestioni rilevanti e sottrarci a posizioni scientifi-che, secondo le quali l’autorità della scienza si legit-tima a prezzo della sua avalutatività? È un tema chenei decenni è stato molto caro alle scienze sociali ea molte altre discipline, pur con prospettive taloradel tutto antitetiche (come quelle di Max Weber edi Julien Benda, da una parte e di Antonio Gramscie di gran parte dei cultural studies, dall’altra).

I saperi scientifici si basano e presuppongono l’ava-lutatività come posizione di partenza oppure tale as-sunto è mero riflesso del loro essere asserviti allelogiche dell’autorità istituzionale, del potere perso-nale, oppure di quello economico? Gli studiosi chesi sono mobilitati rispetto a questa concezione deisaperi sono moltissimi: da Michel Foucault a IvanIllich, da Rudolf Steiner a Georges Gurdjieff, daEdward Saïd al movimento sulla decrescita in ambi-to economico. Ma certamente non soltanto questi.Da molti anni Roma Tre ha come naturalmente in-scritta nel proprio DNA una caratteristica che, seb-bene presente fortunatamente anche altrove, qui tro-va una sua naturale collocazione istituzionale. Sitratta di una vitalità legata ai saperi che si coltivano,di una tensione civile e morale ad unire scienza eterritorio, di una “naturale” inclinazione a trasfor-mare i saperi scientifici in conoscenza pubblica.Questa vocazione del nostro Ateneo risuona profon-damente nel percorso di ricerca di molti studiosi escienziati che qui lavorano da anni, ma anche nelletesi di laurea dei nostri studenti e delle nostre stu-dentesse più promettenti. Per questo motivo abbia-mo pensato di dedicare questo numero di Roma TreNews a quella concezione del sapere scientifico cheper molti anni abbiamo tutti condiviso e che condi-vidiamo ancora. Questo numero è dedicato anche asalutare e a ringraziare il nostro rettore uscente prof.Guido Fabiani e dà il benvenuto al nuovo rettoreprof. Mario Panizza.

Verso un’ecologia dei saperidi Anna Lisa Tota

Anna Lisa Tota

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In un’epoca di profonda crisi e trasformazione, come quella

che stiamo attraversando, possiamoguardare alle scienze come a qualcosa

di congiunto alla vita quotidiana e all’universo dell’etica sociale

e pubblica? Possiamo come scienziate e scienziati, come donne e uomini

intellettuali prendere parola, contribuirea produrre la conoscenza pubblica

su questioni rilevanti e sottrarci a posizioni scientifiche, secondo le quali

l’autorità della scienza si legittima a prezzo della sua avalutatività?

Roma Tre ha, come naturalmente inscrittanel proprio DNA, una vitalità legata ai saperi che si coltivano, una tensione

civile e morale ad unire scienza eterritorio, a trasformare i saperi scientifici

in conoscenza pubblica

Che cosa augurarci nel lavoro comune dei prossimianni? Certamente di continuare a coltivare una con-cezione dei saperi che possa contribuire alla qualitàdella vita di tutte le specie viventi su questo pianeta,di continuare ad insegnare e a praticare l’autonomiadella conoscenza che contribuiamo a produrre con ilnostro lavoro all’università, di poter diventare sem-pre di più un polo di innovazione scientifica e tec-nologica, contribuendo a consolidare i saperi scien-tifici ma al contempo rivitalizzandoli e restituendoloro la capacità di dialogare con la vita. La separa-zione tra vita e scienza è destinata a rendere sterilequalsiasi sapere. E infine di poter realizzare ancorapiù pienamente quella vocazione internazionale chespinge tanti di noi a intessere relazioni scientifichecon molte università in tutti i diversi continenti. Co-

me saranno le nostre aule del futuro a Roma Tre?Forse sui nostri banchi potranno sedere gli uni ac-canto agli altri studenti e studentesse cinesi, giappo-nesi, americani, russi e argentini, studenti e studen-tesse provenienti da tutti i diversi paesi europei.Speriamo in un’università che parli il linguaggio delmulticulturalismo, quello della biodiversità e quellodella sostenibilità. Questa è l’università che tuttiamiamo, in cui vorremmo lavorare con i nostri stu-denti e studentesse, e che vorremmo far frequentareai nostri figli e alle nostre figlie. Non è tanto lontanada quello che a Roma Tre abbiamo già iniziato arealizzare. Basta leggere queste poche frasi che ab-biamo scelto per voi, pronunciate da alcuni degliospiti che negli ultimi anni hanno onorato il nostroAteneo con la loro presenza.

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«Nel moderno sistema educativo non solo io, ma anche i miei amici, abbiamola stessa opinione: nella formazione moderna (…) si presta attenzione solo allamente o alle conoscenze del futuro e non si presta abbastanza attenzione al latopiù etico e morale. Quindi vorrei approfittare di questa occasione per chiedervila cortesia di pensare più a come coltivare il cuore – non la preghiera, non ne-cessariamente la meditazione, ma ragionare sulla base delle scoperte scientifi-che. Se il cuore è più compassionevole, il cervello funziona più normalmente,più efficacemente, e in questo modo si può vedere la realtà con maggiore chia-rezza. Se la nostra mente è troppo agitata, allora non riusciamo a vedere larealtà come si deve. Quindi una mente calma è essenziale per conoscere larealtà. Di solito la chiamiamo oggettività. È molto importante. Per conoscere larealtà, la ricerca obiettiva e imparziale è estremamente essenziale». (dalla Lezione Magistrale di Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, Laurea Honoriscausa in Biologia, 14 ottobre 2006)

«Solo quando c’è pace e tranquillità, l’albero del sapere dà i suoi frutti, lacreatività artistica si rivela e il carro della civiltà va avanti. Però, un qualun-que silenzio non è tranquillità e una qualunque pace non è quella durevole.Una pace duratura è quella che è stata costruita su due pilastri di giustizia edemocrazia, altrimenti anche se c’è silenzio, non è di tranquillità ma di soffo-camento. Dobbiamo custodire e considerare sacra la pace e, ancora prima, ri-tenere importanti la giustizia e la democrazia. D’altro canto la pace ha duefacciate, quella interiore e quella esteriore; come il mondo in cui viviamo e dicui non conosciamo tutti i profondi segreti. Senza la pace interiore non è pos-sibile una pace esteriore, ma la pace interiore è la tranquillità di una vita vis-suta con uno scopo. Coloro che ancora non hanno uno scopo nella propria vitasono individui confusi che non trovano pace in nessun luogo e non trovano ilproprio io da nessuna parte. (…) È il compito di noi insegnanti aiutare i nostriallievi in questa loro ricerca, illuminare il loro cammino così che possano tro-vare la loro strada e trovare se stessi e, vivendo felici, possano essere utili an-

che per gli altri. (…) Una società in grado di porre questo obiettivo in testa ai propri programmi didattici(…) proseguirà senza alcun dubbio verso la pace. (…) In altre parole la pace comincia dalla scuola, poi sisviluppa a livello nazionale e raggiunge il territorio mondiale. È così che insegnanti e professori agiscono in qualità di pilastri della pace a livello nazionale e globale e inquesta direzione il rapporto fra le comunità scientifiche di tutto il mondo è l’elemento più importante per losviluppo e la stabilità della pace. Scambio di studenti e professori, traduzione di libri in lingue diverse, crea-zione di università virtuali e creazione di corsi di studio internazionali sono tutti di grande aiuto per la rea-lizzazione del contatto e rapporto internazionale. (…) Se vediamo il mondo come un villaggio globale, dob-biamo essere partecipi di tutti i suoi doni e vantaggi, tra gli altri, anche il sapere. Non possiamo pretenderedi essere una comunità globale se una parte della popolazione del mondo viene privata del sapere. Dobbia-mo essere generosi come il cielo, fare fertile l’albero della conoscenza come la terra, diffondere l’amiciziacome il vento, essere ostili e furiosi contro l’ignoranza e l’intolleranza, come il fuoco. Dobbiamo essereumani, essere gentili.(dalla prolusione di Shirin Ebadi, inaugurazione a.a.2003-2004, 20 febbraio 2004, Nel nome di Dio, dellospirito e della saggezza)

Lo sviluppo edili-zio di Roma Tre siè accompagnatocostantemente alpiano di recuperodell’area ex-indu-striale lungo il Te-vere. Il tema evo-cativo del lavoro èpertanto nel carat-tere del nostro pa-trimonio immobi-liare e nello spiritodi un progetto inevoluzione, sem-pre attento al ri-spetto delle esigen-

ze del contesto. Gli edifici offrono sagome poco“universitarie”, ancora legate all’impronta iniziale,e neppure un riuso molto profondo ha potuto annul-lare la loro personalità: l’adeguamento funzionale liha però trasformati in impianti nuovi, arricchiti dalcomfort, originariamente inesistente, indispensabileall’attività scolastica.I progetti mirano di conseguenza al pieno recuperodella memoria storica e, allo stesso tempo, alla tra-sformazione del territorio attraverso strutture mo-derne; da qui la metafora di “Fabbrica della Cono-scenza”, utile a rappresentare il passaggio verso laformazione di aree dense di attività culturali.La scelta di insediare Roma Tre nel quadrante sud-ovest della città, tra la via Ostiense e viale Marconi,ha seguito quindi l’obiettivo di realizzare un Ateneoinserito nella città,integrato e senzabarriere, destinato ariqualificare un set-tore che, all’iniziodegli anni Novanta,era ancora abbon-dantemente inutiliz-zato e, in alcune sueparti , soggetto aforte degrado.Anche la scelta ac-cademica ha avutouna direzione chia-ra: privilegiare lestrutture di ricerca,affidando ai Dipar-timenti, e non alleFacoltà, il compitodi impiantare l’as-setto edilizio.Il successo delleiscrizioni ha obbli-

gato, quasi subito, l’Ateneo a prevedere un’area in-sediativa sempre più ampia, localizzata nello stessosettore urbano - tra l’Ostiense e Testaccio -, ma me-no raccolta, non più interamente percorribile a pie-di. Questa sopraggiunta necessità ha provocato laricerca accelerata di aree e manufatti idonei, inten-sificando le trattative con le amministrazioni pub-bliche e in particolare con il Comune. Da ciò è deri-

vato il primo fenomeno indotto e in parte destabi-lizzante, superato solo grazie a un attento program-ma di interventi, che ha rivelato il limite di aver fat-to partire l’attività di un Ateneo senza che questodisponesse delle sedi sufficienti per sostenere lacrescita con rassicurante tranquillità.Questo allargamento del bacino di influenza si èsaldato in modo del tutto naturale con il rafforza-

mento, all’internodella politica acca-demica, del “poteredella didattica” equindi delle Facoltàche, contraddicendole intenzioni inizia-li, sono diventate ilfattore di normaliz-zazione dell’assettoedilizio. Il progres-sivo assestamentoha determinato ilformarsi di quattroinsediamenti princi-pali, comprendentile otto Aree didatti-che: Valco San Pao-lo; l’asse lungo lavia Ostiense; l’exMattatoio di Testac-cio; e, più eccentri-ca, la sede di piazza

La fabbrica della conoscenzaLo sviluppo edilizio di Roma Tre e la riqualificazione urbana del quadrante Ostiense/Marconidi Mario Panizza

Mario Panizza

Lo sviluppo edilizio di Roma Tre si èaccompagnato costantemente al piano direcupero dell’area ex-industriale lungo il

Tevere. I progetti mirano al pienorecupero della memoria storica e, allostesso tempo, alla trasformazione del

territorio attraverso strutture moderne;da qui la metafora di “Fabbrica dellaConoscenza”, utile a rappresentare ilpassaggio verso la formazione di aree

dense di attività culturali

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5Progetto Valco San Paolo - Coordinamento del Piano di Assetto, Rettore prof. arch.Mario Panizza

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Accordi di ProgrammaIl 23.06.1993 viene stipulato il I Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Romae il Comune di Roma. Basato su uno studio di fattibilità dell’Università La Sapienza, l’Accordo prevede che ilnuovo Ateneo si insedi nell’ambito territoriale Valco San Paolo / Ostiense in modo che la città risulti “dotata diun nuovo rilevante complesso di attrezzature per la cultura, per la ricerca, per la didattica”. A questo scopo si in-dividua una dotazione di immobili e aree per un totale di mq 60.316 distribuiti in due zone: al Valco San Paoloper mq 50.701 e all’Ostiense per mq 9.615 (tabella E/1 e F/1 allegate al III Accordo di Programma). A fronte ditale dotazione vanno realizzati standard di parcheggio (pertinenziali e pubblici) per un totale di mq 43.707.Il 23.07.1998 viene stipulato il II Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Romae il Comune di Roma. L’Accordo prevede la realizzazione del nuovo Ateneo non solo nell’ambito territoriale diValco San Paolo / Ostiense, ma anche in quello di Ostia Lido. A tal fine si incrementa la disponibilità degli spaziper un totale di mq 108.969 (all’Ostiense per mq 74.138, al Valco per mq 27.085 e a Ostia per mq 7.745) por-tandola a complessivi mq 169.285. Nello stesso Accordo per la prima volta viene definito uno standard univer-sitario di mq 9 per studente, per cui la dotazione totale è stimata in circa 18.000 studenti. Infine, a fronte di taledotazione vanno realizzati standard di parcheggio (pertinenziali e pubblici) per un totale aggiuntivo, rispetto aquanto già previsto, di mq 89.315.Il 13.04.2000 viene stipulato il III Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provincia di Ro-ma e il Comune di Roma per l’approvazione della localizzazione di aree e strutture da destinare a sedi universi-tarie. Il nuovo Accordo muove dalla constatazione che le dotazioni previste nei due precedenti accordi “nonsoddisfano pienamente le esigenze insediative” di Roma Tre. Per meglio disciplinare queste previsioni di svi-luppo viene redatto il ‘Progetto Urbano Ostiense-Marconi’ con l’obiettivo principale di verificare la capacità diquesta parte della città di accogliere nuovi interventi e di definire gli indirizzi per la realizzazione degli interven-ti di insediamento di Roma Tre. A seguito poi di una verifica dello stato di attuazione degli Accordi precedenti,vengono riviste le assegnazioni complessive dei due Accordi precedenti (vedi tabella G/1, H/1 e I/1 allegate alIII Accordo di Programma), per cui la dotazione complessiva del II Accordo di Programma viene portata da mq108.968 a mq 141.667. Vengono inoltre concessi ulteriori mq 34.675 all’Ostiense in modo che la dotazione tota-le dei tre Accordi sia portata a mq 236.658, sufficiente (in base allo standard di mq 9) a una popolazione di cir-ca 26.300 studenti.Il 28.12.2004, sulla base di una documentazione presentata al Sindaco nell’aprile 2002, concernente le esigenzedi sviluppo dell’Ateneo, viene stipulato il IV Accordo di Programma fra Roma Tre, la Regione Lazio, la Provin-cia di Roma e il Comune di Roma per l’approvazione della localizzazione di aree e strutture da destinare a sediuniversitarie e per il piano di utilizzazione del complesso dell’ex-Mattatoio. Si prende atto dell’esigenza di ag-giornare il progetto Urbano Ostiense-Marconi quale strumento procedurale che regoli la trasformazione dell’a-rea “mediante l’inserimento di importanti funzioni urbane, quali quelle universitarie ritenute in grado di contri-buire in termini sostanziali alla riqualificazione e allo sviluppo dell’intero quadrante urbano”. Si procede di con-seguenza ad alcuni assestamenti delle assegnazioni precedenti sia stralciando immobili precedentemente asse-gnati (ad esempio Mercati Generali) sia mediante nuove assegnazioni (comparto Ostiense-Garbatella) per cui ladotazione complessiva sui tre ambiti urbani – Ostiense per mq 157.223, Valco San Paolo per mq 76.052 e Ostiaper mq 7.745 – risulta di mq 241.020 sufficiente (in base allo standard di mq 9) a una popolazione di ca 26.700studenti.

Polo Tecnologico - Progetto Piano di Assetto, Rettore prof. arch. Mario Panizza, progetto prof. arch. Michele Furnari

della Repubblica collegata a Castro Pretorio. È que-sto il piano, ormai consolidato, intorno al quale sista rafforzando l’intero assetto dell’Ateneo, riassor-bendo anche quelle funzioni amministrative che,ancora troppo parcellizzate, riducono l’efficienzadel servizio. Il riordino in un numero molto piùcontenuto di Dipartimenti e la soppressione delleFacoltà non dovrebbe incidere eccessivamentesull’impianto edilizio, in quanto la riunificazionedella didattica e della ricerca tenderà naturalmente aconfermare la strategia delle Aree. Potrebbe addirit-tura mitigare il prevalere delle priorità didattiche efar riemergere il disegno dei poli di ricerca.Il progetto urbanistico di perseguire una stretta rela-zione con la città ha conservato invece una linea diattuazione coerente: l’Ateneo ha sempre inteso pro-porsi come parte costituente di un tessuto sociale eil suo impegno è rimasto diretto al recupero e allariconversione dell’edilizia esistente, con l’obiettivodi ottimizzare la presenza universitaria all’internodella città.Negli anni quattro Accordi di programma hanno

portato, su tre ambiti urbani, a una dotazione com-plessiva di mq 241.020 (Ostiense mq 157.223, ValcoSan Paolo mq 76.052 e Ostia mq 7.745) sufficiente,secondo lo standard di 9,5 mq/studente fissato dalpiano strategico degli Atenei romani, a una popola-zione di circa 26.700 studenti. Al momento sono uti-lizzati, per la didattica, la ricerca e i servizi generali,

aree e superfici per un totale di195.206 mq. Di questi, 117.617 so-no immobili e aree che ricadonoall’interno degli ambiti urbaniOstiense e Valco San Paolo, comeda Accordi di programma, mentre77.589 sono relativi a immobili aldi fuori delle assegnazioni degliAccordi di programma. In base aiquattro Accordi di programma ri-mangono perciò a disposizione,negli ambiti urbani Ostiense, ValcoSan Paolo e Ostia, immobili e areeper totali mq 123.403.L’attuale piano per lo sviluppo edi-lizio parte dalla situazione di 5,14mq/studente e, non prevedendo, al-meno nei tempi medi, sensibili in-crementi o decrementi di studenti,il raggiungimento dello standardottimale di 9,5 mq/studente com-porterebbe quasi il raddoppio dellasuperficie edilizia attuale. Si ritie-ne tuttavia che il conseguimentodell’obiettivo di 7 mq/studente, in-termedio tra quello attuale e quelloottimale, possa assicurarci unacondizione di buona qualità. Laprogrammazione dei prossimi annitenderà proprio a questo e si rivol-gerà a consolidare l’insediamentonel settore urbano Ostiense-Marco-ni. Assumere come riferimento unostandard di 7 mq/studente è d’al-tronde giustificato dal fatto cheRoma Tre, al contrario degli altridue Atenei romani, non ha attivatola Facoltà di Medicina e quindinon necessita degli ampi spazi de-stinati ai reparti clinici.Nella programmazione dei prossi-mi anni è prevista l’attuazione del 7

La scelta di insediare Roma Tre nelquadrante sud-ovest della città, tra la via

Ostiense e viale Marconi, ha seguitoquindi l’obiettivo di realizzare un Ateneo

inserito nella città, integrato e senzabarriere, destinato a riqualificare un

settore che, all’inizio degli anni Novanta,era ancora abbondantemente inutilizzatoe, in alcune sue parti, soggetto a forte

degrado

Aula Magna della Facoltà di Architettura - Progetto Recupero Ex Mattatoio prof. arch. FrancescoCellini; Progetto del Padiglione 8 prof. arch. Stefano Cordeschi

Quinto Accordo di programma (Roma Tre, Comunedi Roma, Regione Lazio, Provincia di Roma) chedovrà mettere ordine tra le esigenze di Roma Tre ele assegnazioni da parte degli enti locali. Esso saràdestinato pertanto a ridefinire gli intendimenti ac-cettati dall’Ateneo e dall’amministrazione comuna-le sul modello di quanto avvenuto negli anni passaticon la sequenza degli Accordi di programma. Contale strumento sarà possibile trattare in modo omo-geneo l’insieme delle necessità dell’Ateneo nel bre-ve e medio periodo: aree da concedere in aggiunta oin sostituzione da parte dell’amministrazione comu-nale; progetti da approvare attraverso un calendariodi scadenze che tenga conto delle realizzazioni perstralci successivi; ma anche adeguamenti di indice,cambi di destinazione d’uso, accorpamenti di quan-tità edificatorie tra aree limitrofe etc. Solo attraver-so un quadro, precisato nelle linee generali, dalquale possano discendere i singoli provvedimentiattuativi, sarà possibile infatti programmare conbuona approssimazione lo sviluppo edilizio e rivol-gersi alla ricerca dei finanziamenti futuri. Il pianodi accrescimento delle superfici edificate si poned’altronde quell’obiettivo realistico di 7 mq/studen-te, che potrebbe essere raggiunto nell’arco di otto-

dieci anni. Il nuovo Accordo di programma dovràrispondere ai temi generali del Piano di assetto ur-bano Ostiense-Marconi: aggiornamento della viabi-lità, riqualificazione degli spazi pubblici, completa-mento della pianificazione di via Ostiense e di Val-co San Paolo, interconnessione tra Ostiense-Marco-ni e Garbatella, Mercati Generali e Italgas, assegna-zione di nuove aree. Ciò risulta prioritario per nonsmarrire il disegno di un sempre più convinto radi-camento dell’Ateneo nel tessuto urbano. Tutti i ser-vizi – parcheggi, trasporti, aree verdi etc. – vannocoordinati con le amministrazioni pubbliche affin-ché il rapporto tra la comunità scientifica e gli abi-tanti sia sempre più fluido e possa svolgere unaconcreta funzione socializzante.Con gli interventi programmati, in esecuzione neiprossimi anni, la dotazione ordinaria delle strutturedidattiche, di ricerca e amministrative raggiungeràquindi un livello soddisfacente; l’impegno ediliziopotrà mirare, finalmente con maggiore determina-zione, verso quegli obiettivi, non meno prioritari,destinati a soddisfare le esigenze di quanti perman-gono a lungo nelle sedi universitarie: gli studenti, iprofessori, i tecnici, gli amministrativi. Dovrà essereavviata pertanto una solida programmazione di

strutture di supporto, comprendendo alloro interno i laboratori scientifici, glispazi espositivi, le residenze studente-sche, le mense, gli impianti sportivi, l’a-silo nido, le sedi per le attività associati-ve, i luoghi per il tempo libero etc. RomaTre dispone di alcune strutture destinatead attività complementari – la sede di Al-lumiere, Villa Maruffi, lo Stadio Berra –ed è in attesa della realizzazione delle re-sidenze di vicolo Savini e del completa-mento degli impianti sportivi di ValcoSan Paolo.Soprattutto nei confronti dei fuori sede,che a Roma sono circa il 50% degli iscrit-ti, le strutture di supporto alla didattica ealla ricerca potranno rappresentare la veradiscriminante tra gli Atenei, determinan-do il grado di attrattività sugli studenti eorientando di conseguenza le scelte sulleiscrizioni. Sarà necessario infatti insegui-

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Residenze universitarie - Progetto Piano di Assetto, Rettore prof. arch. Mario Panizza, progetto prof. arch. Lorenzo Dall’Olio

Vasca Navale - Coordinatore Progetto Recupero della Vasca Navale prof. AndreaVidotto (foto Andrea Jemolo)

re lo standard delle università più “ricche”, sia perinnalzare il livello di valutazione in campo naziona-le, sia per convincere i potenziali iscritti a manteneresu Roma Tre un giudizio di preferenza.I laboratori scientifici e didattici dovranno rappre-sentare l’aggiunta di qualità e, di conseguenza, laragione per far emergere il valore dell’offerta; men-se, attrezzature sportive e per il tempo libero do-vranno costituire un ulteriore elemento distintivocapace di caratterizzare l’insieme delle dotazioni. Èindispensabile pertanto, stante la scarsità di risorse,attivare forme di cofinanziamento e cogestione, an-che sperimentali, che incrementino il campo del-l’offerta complessiva, proprio sfruttando il valoredella collocazione urbana di Roma Tre.Una valutazione a parte riguarda le residenze per glistudenti fuori sede che, come visto, interessano circala metà degli iscritti. Attualmente la richiesta di al-loggi è soddisfatta, nella maggior parte dei casi, dalmercato privato attraverso posti-letto a costi moltoelevati che ha generato e continua a generare una si-tuazione particolarmente disagiata. La risposta uffi-ciale a questa esigenza viene dall’Azienda per il Di-ritto allo Studio che però, attraverso le Case per glistudenti e gli alloggi convenzionati, riesce a soddi-sfare solo una parte marginale della domanda. Perconcorrere alla soluzione del problema leuniversità dovrebbero essere coinvolte di-rettamente nei progetti di “Social Hou-sing” e dovrebbero partecipare, all’inter-no di un accordo tra organismi pubblici eprivati, alla predisposizione di programmiche non mirino esclusivamente alla dota-zione ad hoc di case per studenti, ma sta-biliscano, e possibilmente impongano, lequantità da riservare ai fuori sede a un ca-none calmierato. Ne deriverebbe un pianoarticolato che combini la soluzione eco-nomica dell’affitto e del contenimento deicosti di gestione con il miglioramento delcontrollo sociale e della manutenzionedegli immobili attraverso il coinvolgi-mento degli studenti, che diventerebbero iresponsabili diretti degli alloggi.Per la realtà di Roma Tre questa opportu-nità rappresenterebbe un ulteriore pas-saggio verso l’integrazione, fin dall’ini-

zio perseguita, tra università e tessuto urbano. Solola sovrapposizione funzionale tra Ateneo e città po-trà infatti assicurare uno sviluppo pienamente inte-grato, mantenendo chiaro l’obiettivo di far parteci-pare più attori alla pianificazione della città e al re-cupero di quelle aree non ancora del tutto emersedal degrado edilizio.

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Il nuovo Accordo di programma dovràrispondere ai temi generali del Piano di

assetto urbano Ostiense-Marconi:aggiornamento della viabilità,

riqualificazione degli spazi pubblici,completamento della pianificazione divia Ostiense e di Valco San Paolo,

interconnessione tra Ostiense-Marconi eGarbatella, Mercati Generali e Italgas,assegnazione di nuove aree. Ciò risultaprioritario per non smarrire il disegno diun sempre più convinto radicamento

dell’Ateneo nel tessuto urbano

Vasca Navale - Coordinatore Progetto Recupero della Vasca Navale prof. AndreaVidotto (foto Andrea Jemolo)

Prima di pronunciare lamia relazione, desideroesprimere la mia grati-tudine al Direttoredell’Istituto SvizzeroChristoph Riedweg peravermi invitato a que-sto importante ciclo dei“Discorsi d’attualità” erivolgere il mio salutoal Presidente CharlesKleiber (già Segretariodi Stato per l’Educazio-ne e la Ricerca) e al-l’Ambasciatore Svizze-

ro Bernardino Regazzoni. Sono inoltre particolar-mente felice e onorato di incontrarmi in questa sedecon la “Presidenta” (mi permetta di chiamarla così)Ruth Dreifuss: la prima donna che abbia ricoperto laPresidenza della Confederazione Svizzera, ma ancheuna politica e un’intellettuale che ha saputo affronta-re con apertura e rigore le nuove sfide del diritto edella giustizia nel mondo globalizzato.Il tema che ci è stato assegnato investe nodi crucialidel nostro tempo. Ma è un tema di un’ampiezza taleche si sarebbe tentati di affrontarlo con osservazionipuntuali intese come note in margine: come “Rand-bemerkungen” o “Glosse” sull’attuale stato delmondo. Non si tratta di una battuta, ma del ricalcodel titolo del discorso di apertura al meeting annualedell’InterAction Council tenuto a Vienna il 21 mag-gio 2007 dall’ex-Cancelliere tedesco HelmutSchmidt: Observations on the Present State of theWorld. Dal canto mio, presenterò le mie “glosse” informa di tesi: otto tesi che, nella loro interconnessio-ne, intendono delineare la mia “cartella diagnostica”del mondo globale. Un mondo che viene oggi a tro-varsi in una situazione di instabilità e incertezza, nelmomento in cui attraversa una cruciale fase di pas-saggio tra il vecchio ordine internazionale e un nuo-vo ordine sovranazionale i cui profili stentano anco-ra a delinearsi. La postnationale Konstellation di cuiparla Jürgen Habermas sta di conseguenza ad indi-care, nella mia prospettiva, non un punto d’approdoma una fase provvisoria di transito (o anche di stal-lo) verso un nuovo assetto del mondo. Vengo, dun-que, ad enunciare le mie tesi.

La prima tesi è un tentativo di risposta a una doman-da ricorrente non solo nell’ambito della “tristescienza”, ossia l’economia, ma nel meno triste, talo-ra anche fin troppo ottimistico o edificante, entoura-ge dei sociologi: Che cos’è la globalizzazione? Co-me ho tentato di argomentare (e documentare) neimiei lavori degli ultimi quindici anni, la cosiddettamondializzazione – rectius: il complesso di fenome-

ni che siamo soliti raccogliere sotto lemmi qualimondialisation, Globalisierung, globalization – nonè un fenomeno riconducibile a una logica unitaria, auna mono-logica: sia nel senso sdrammatizzante earmonizzante della “fine della Storia” (della Storiaintesa come campo millenario di conflitti tra poten-ze o tra blocchi ideologici contrapposti) in un mer-cato mondiale finalmente unificato sotto il principiodella libera concorrenza (F. Fukuyama); sia nel sen-

so allarmistico o apocalittico di uno scenario post-ideologico globale attraversato da uno “scontro diciviltà” (S. Huntington). Al contrario, la globalizza-zione – o meglio questa globalizzazione – si presen-ta con un profilo ancipite, accessibile solo alla lucedi un approccio bi-logico. Essa appare infatti segna-ta dalla compresenza e coabitazione conflittuale didue trend: la tendenza alla uniformazione tecno-eco-nomica e la tendenza alla diaspora cultural-identita-ria. Riguardo al primo lato, occorre precisare che iltratto distintivo dell’attuale globalizzazione non èdato dalla mera unificazione dei mercati: come glistorici dell’economia più seri hanno da tempo docu-mentato, il mercato mondiale era molto più interdi-

Democrazia e postdemocraziaUna diagnosi dei mondi globalidi Giacomo Marramao

La globalizzazione – o meglio questaglobalizzazione – si presenta con un

profilo ancipite, accessibile solo alla lucedi un approccio bi-logico. Essa appareinfatti segnata dalla compresenza e

coabitazione conflittuale di due trend: latendenza alla uniformazione tecno-

economica e la tendenza alla diasporacultural-identitaria

Giacomo Marramao

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Ruth Dreifuss

pendente nella fase storica che va dal 1870 al 1914(fase concordemente definita come “età dell’impe-rialismo”). Il profilo peculiare della mondializzazio-ne odierna va piuttosto rintracciato in un fenomenoinedito: l’intreccio dei mercati finanziari con lostraordinario moltiplicatore rappresentato dalle tec-nologie postelettroniche e digitali del “tempo reale”.Il potenziale che si sprigiona da questo intreccioconsente ai capitali finanziari di dislocarsi da un’a-rea all’altra del pianeta con una velocità prossima al“grado zero” dell’istante, senza che la sovranità deisingoli stati (ivi compresi gli stessi Stati Uniti d’A-merica) possa esercitare su questa spinta transfronta-liera e “deterritorializzante” il minimo controllo.Non per nulla alcuni studiosi hanno coniato per que-sta nuova fase il neologismo “Finanzcapitalismo”(anche se – detto per inciso – sarebbe interessanteandare a verificare in che misura alcuni tratti costi-tutivi della nuova forma di organizzazione del capi-tale globale erano stati intravisti, già nel lontano1911, da Rudolf Hilferding nel suo Finanzkapital).Riguardo all’altro lato della doppia logica del globa-

le, va rilevato un paradossale contrappasso: quantopiù avanza il processo di omologazione tecno-finan-ziaria, tanto più si differenziano le Lebenswelte: do-ve, sotto la categoria (spesso usata dallo stesso Ha-bermas) di “mondi-della-vita”, vanno intese non so-lo le “differenze culturali” o le varie “comunità im-maginate” translocali o fondamentaliste, ma soprat-tutto le varianti etiche e antropologiche specificheche il capitale globale tende ad assumere nelle di-verse aree del pianeta. Il “sistema-mondo” di cuiparlava anni fa Immanuel Wallerstein sulla scorta diFernand Braudel appare, pertanto, simultaneamenteconcentrato nelle sue logiche di potere e diffuso nel-le sue strutture di organizzazione sociale e nelle sueforme simbolico-identitarie. Come in Der Mann oh-ne Eigenschaften di Robert Musil o nel recente filmBabel (2006) del regista messicano Alejandro Gon-záles Iñárritu, il nostro mondo tecnologicamente ecomunicativamente uniformato appare sempre piùsimile, come la Kakania o la Torre di Babele, a unaricapitolazione cacofonica di proliferanti e intradu-cibili idiomi.

Vengo alla seconda tesi. Lo sdoppiamento “bi-logi-co” tra il trend di uniformazione del capitale globalee il trend di differenziazione delle forme-di-vita dàluogo a una struttura di relazione bidirezionale tra il“Supercapitalismo” (R. Reich) e l’articolazione geo-culturale del mercato globale. Senza tale articolazio-ne, ogni approccio di tipo geopolitico è destinato adassumere sembianze antiquarie. Abbiamo qui a che

fare con un radicale mutamento dell’ordine dellaspazialità: non solo nel senso – come molti vannodicendo – che si è passati dallo spazio moderno allospazio globale, ma piuttosto nel senso che le logiche‘dure’ del potere sono emigrate dagli spazi dei siste-mi politici rappresentativi per radicarsi sempre piùnella nuova spazialità non-euclidea disegnata dairapporti tra geoeconomia e geocultura. Ci troviamo

così al cospetto di due conseguenze rilevanti, decisi-ve per il futuro del mondo. In primo luogo: il Poterenon è una nozione obsoleta, come aveva sostenuto ilpostmoderno filosofico. Non è, come aveva afferma-to Richard Rorty nella sua raccolta di saggi Truthand Progress, una sorta di Fantasma dell’Opera effi-meramente rievocato da Michel Foucault ma desti-nato a essere relegato nel retrobottega del Teatro fi-losofico occidentale. In secondo luogo: il Potere nonè neppure – come pensa il mio amico e collega Ha-bermas – un residuo di “intrasparenza” destinatoprogressivamente a dissolversi con la crescita di unacomunicazione razionale e herrschaftsfrei, “libera-dal-dominio”. Il potere è piuttosto un fenomeno cheattraverso la comunicazione si alimenta, spostando

Il “sistema-mondo” di cui parlava annifa Immanuel Wallerstein sulla scorta diFernand Braudel appare, pertanto,

simultaneamente concentrato nelle suelogiche di potere e diffuso nelle sue

strutture di organizzazione sociale e nellesue forme simbolico-identitarie

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Il mondo globale viene oggi a trovarsi inuna situazione di instabilità e incertezza,

nel momento in cui attraversa unacruciale fase di passaggio fra il vecchioordine internazionale e un nuovo ordinesovranazionale i cui profili stentano

ancora a delinearsi

costantemente i propri baricentri strategici. Questibaricentri si trovano oggi dislocati nei mercati eco-nomici. A rigore, anzi, non si dovrebbe più parlaredi Mercato, ma dei nuovi poteri finanziari che, per iltramite dei mercati e dei nuovi media della comuni-cazione, determinano le politiche dei governi. Il fe-nomeno della politica necessitata, i cui vincoli sonoprecostituiti dai poteri della finanza globale, investetuttavia le democrazie occidentali in misura moltomaggiore dei sistemi politici di altre aree: come adesempio quelle dell’Asia e dell’America Latina (apartire da paesi come Cina, India e Brasile). In queipaesi il capitale globale viene – come accennavoprima – declinato in forme etico-culturali sensibil-mente diverse da quelle del capitalismo occidentale:in forme tendenzialmente anti-individualistiche (In-dia), comunitario-gerarchiche (Cina) e solidaristiche(Brasile). Per questa ragione ho insistito nei miei la-vori sulla necessità di rivedere il (pur straordinario)quadro comparativo delle etiche economiche conse-gnato da Max Weber nella Religionssoziologie: qua-dro nel quale le etiche extra-occidentali (a partiredal confucianesimo) venivano ritenute sostanzial-mente inadeguate a promuovere lo sviluppo di unasocietà dinamica e produttiva. Un analogo limite èdato tuttavia riscontrare (con una parziale revisionenegli ultimi anni) nella stessa prognosi sul futuro delcapitalismo stilata da Marx: per il quale il progressi-

vo espandersi del modo di produzione capitalisticoavrebbe determinato una sostanziale omologazionedei rapporti sociali a livello planetario. Oggi possia-mo invece constatare che il dominio capitalistico suscala globale non produce una mera uniformazionema dà luogo a una simultanea differenziazione delleforme di organizzazione sociale. Ma l’effetto di que-sto fenomeno ha una portata enorme, riassumibilenella seguente formula: il modo di produzione fon-dato sulla forma-merce non produce società. Dettoin breve: una economia di mercato non determinauna società di mercato. Per questa decisiva ragioneil capitale deve di volta in volta adattarsi, come uncamaleonte, a forme di relazione sociale modellatenei diversi contesti su basi etiche e antropologico-culturali differenti. Inoltre, nell’attuale scenario glo-bale società plasmate da etiche di tipo comunitariosembrano capaci di sviluppare (certo, fra contraddi-zioni e conflitti, e con ibridazioni mostruose e in-quietanti) livelli di produttività ben superiori alle so-cietà individualistiche e consumistiche dell’Occi-dente. Abbiamo così un paradosso alla seconda po-tenza, che mette in scacco i nostri pervicaci “orien-talismi”: finanziarizzazione in Occidente, produzio-ne in Oriente.

Terza tesi. Dobbiamo a un geografo attento alle im-plicazioni socioantropologiche della nostra condi-zione ipermoderna (termine che preferisco di granlunga a postmoderno) come David Harvey la defini-zione del mondo globalizzato come un mondo carat-terizzato dal fenomeno della “compressione spazio-temporale”. Si tratta di una formula indubbiamentesuggestiva ed efficace. Ritengo tuttavia che essa va-da assunta dissociando i due termini della congiun-zione: il globale – o meglio: il glo-cal, determinatodal cortocircuito di global e local e dal double binddi globalizzazione del locale e localizzazione delglobale – è sì compressione dello spazio, ma è an-

che, contestualmente, diaspora del tempo. Per fareun esempio macroscopico: marines americani e mi-liziani iracheni o afghani si trovano compressi nellostesso spazio, ma vivono tempi qualitativamente di-versi. Allo stesso modo, di tempi radicalmente di-versi fanno esperienza gli immigrati che si trovanofianco a fianco con gli autoctoni nelle metropoli del-l’Occidente. Non considerare questo fenomeno della

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Dobbiamo a un geografo attento alleimplicazioni socioantropologiche dellanostra condizione ipermoderna (termine

che preferisco di gran lunga apostmoderno) come David Harvey la

definizione del mondo globalizzato comeun mondo caratterizzato dal fenomenodella “compressione spazio-temporale”

Una economia di mercato non determinauna società di mercato. Per questa

decisiva ragione il capitale deve di voltain volta adattarsi, come un camaleonte, aforme di relazione sociale modellate nei

diversi contesti su basi etiche eantropologico-culturali differenti

divaricazione tra spazialità del contatto e temporali-tà esperienziale preclude ogni possibilità di affronta-re in modo congruo e politicamente efficace il temacruciale dell’incontro fra culture e forme-di-vita nel-la globalizzazione. Vorrei ancora sottolineare il sen-so propriamente politico di questa sfida, che so esse-re particolarmente cara a Ruth Dreifuss anche sulterreno dei diritti e dei criteri di giustizia. Siamo alcospetto di una nuova scena, determinata dalla ri-emergenza – nella struttura ancor più complessa de-gli spazi pluriculturali delle nostre società – dellapressione esercitata sulle forme tradizionali dellarappresentanza politica di quelle potestates indirec-tae che caratterizzavano la vita delle istituzioni nellafase precedente la formazione degli Stati-nazionemoderni (aspetto che si avverte meno nella Confede-razione Svizzera, trattandosi di uno Stato plurilin-guistico aperto da sempre alle differenze religiose eculturali). Le autocitazioni sono sempre poco ele-ganti. Vi prego, dunque, di scusarmi se, per ragionimeramente funzionali alla mia argomentazione, ri-corderò che, nel mio libro Passaggio a Occidente(di cui è pronta l’edizione inglese ampliata, con il ti-tolo The Passage West. Philosophy After the Age ofThe Nation State, Verso, London-New York 2012),ho paragonato l’attuale processo di destrutturazionedella forma-Stato sovrana della modernità allaproiezione all’indietro del film della sua genesi eformazione. In breve: destrutturandosi, lo Stato sem-bra fare emergere, uno dopo l’altro, le diverse com-ponenti, i diversi “mattoni”, con cui il suo edificioera stato costruito. Vediamo così riemergere quelle“potestà indirette” che erano state progressivamenteneutralizzate (ma mai completamente debellate) con

l’avvento della sovranità: poteri economici, poterireligiosi e poteri culturali, con le loro prerogative e iloro privilegi. Ma vi è una differenza decisiva. Il ri-torno di queste potestà avviene oggi in un tempo ein uno spazio segnato da un radicale mutamento del-la composizione culturale delle nostre società che, inassenza di un governo politico della dinamica incorso, rischia di innescare una mutazione delle no-stre democrazie in assetti corporativi o populistici distampo “postdemocratico”. Il tutto in uno scenarioche il dibattito corrente tende a rubricare sotto laformula – per molti aspetti equivoca e ingannevole,come vedremo – del “multiculturalismo”.

Quarta tesi. Alla luce delle ragioni dette, la nostraepoca globale può essere certo definita poststatuale,

ma non postmoderna. Essa appare sì segnata da unatensione duale tra sovranità democratica e vecchie-nuove forme di potestà indiretta (di tipo economico,religioso e culturale). Ma proprio per la presenza at-tiva di questi poteri indiretti non può essere neppuredefinita come una forma di “modernità liquida” (se-conda la fortunata formula di Zygmunt Bauman).Nessun liquido, nessun corso – a partire da quellomonetario – si dà senza una sorgente. E anche nelmondo globalizzato la sorgente (talora palese, taloraocculta) va rintracciata, risalendo all’indietro il cor-so dei flussi, nei poteri di fusione della ipermoderni-tà globale, quasi sempre dislocati rispetto ai luoghi‘deputati’ della rappresentanza e degli stessi gover-ni. In breve: il fatto che il nostro “ordine posthobbe-siano”, come lo ha definito Philippe Schmitter, ci re-stituisca talvolta dei tratti prehobbesiani, non signi-fica che il discorso del e sul potere debba seguire lamedesima sorte del torreggiante concetto di sovrani-tà. Solo ridefinendo e ritematizzando il contrasto trapolitica e potere è possibile, pertanto, fronteggiare leminacce della postdemocrazia (termine che assumoqui in un’accezione diversa da quella proposta daColin Crouch).

Quinta tesi. Dobbiamo prendere atto del collasso deidue principali modelli di integrazione nella cittadi-nanza che abbiamo finora teorizzato e praticato inOccidente: il modello dell’universalismo identitario,proprio delle versioni assimilazioniste di matrice re- 13

La nostra epoca globale può essere certodefinita poststatuale, ma non

postmoderna. Essa appare sì segnata dauna tensione duale tra sovranità

democratica e vecchie-nuove forme dipotestà indiretta (di tipo economico,

religioso e culturale). Ma proprio per lapresenza attiva di questi poteri indirettinon può essere neppure definita comeuna forma di “modernità liquida”(seconda la fortunata formula di

Zygmunt Bauman)

pubblicana, e il modello del differenzialismo antiu-niversalista, proprio delle versioni “forti” del multi-culturalismo (il multiculturalismo “a mosaico”, se-condo la definizione di Seyla Benhabib, o, come iopreferisco chiamarlo, il multiculturalismo dei “ghetticontigui”). Per semplificare all’estremo, sperando difarvi divertire come faccio con i miei studenti, po-trei sinteticamente denominarli modello-Républiquee modello-Londonistan. Il primo prospetta la sferapubblica della cittadinanza come uno spazio eguali-tario ma indifferenziato in cui tutti sono cittadini, aprescindere dalle differenze sociali, religiose, cultu-rali, ma anche dalla differenza di sesso (ne seppequalcosa la povera cittadina Olympe de Gouges,

ghigliottinata per aver osato scrivere una “Dichiara-zione dei diritti della donna”…). Il secondo delineaal contrario la sfera pubblica come uno spazio in cuiogni “differenza” deve presentarsi nei suoi tratti spe-cifici come un raggruppamento omogeneo che staaccanto agli altri come una autoconsistenza insulare,come una monade senza porte né finestre (difficile,allora, dar torto a Slavoj Žižek quando osserva chequesto modo di intendere e praticare la “tolleranzamulticulturale” è il terreno di coltura più propizioper l’insorgere dei fondamentalismi). Si tratta alloradi comprendere che entrambi i modelli dipendono inultima istanza da un paradigma identitario: quelloche si presenta come multiculturalismo altro non è –secondo la definizione calzante di Amartya Sen –che un “monoculturalismo plurale” o, se si preferi-sce, una pluralità (statica) di monoculture presunti-vamente omogenee. Si tratta allora, nella politicacome nella cultura, di prendere definitivamente con-gedo dalla logica dell’identità e della reductio adUnum. La mappa dei problemi che la globalizzazio-ne ci presenta, nell’attuale fase di passaggio dallamodernità-nazione alla modernità-mondo, segnalache noi viviamo in un doppio movimento di conta-minazione e di differenziazione. Dobbiamo pertantopartire dalla realtà del meticciato, e non semplice-mente – come affermano le filosofie politiche varia-mente ispirate al neocontrattualismo di John Rawls,dal “fatto del pluralismo”. La pluralità non è soltan-to inter-culturale ma anche intra-culturale, non solointersoggettiva ma anche intrasoggettiva, non solofra identità diverse ma interna alla costituzione sim-bolica di ciascuna identità: sia essa individuale ocollettiva. Risiede qui la decisiva ragione che mi haspinto ad avanzare la proposta di un universalismodella differenza: di un nuovo pattern teorico – netta-mente demarcato per un verso dall’universalismodell’identità di stampo illuministico, per l’altrodall’antiuniversalismo delle differenze di stampo

multiculturalista – in cui il concetto di differenza (alsingolare) funge da criterio e vertice ottico che attra-versa ogni coagulo identitario (da assumere, pertan-to, in chiave anti-essenzialistica, come risultato con-tingente di processi dinamico-relazionali). Di conse-guenza, la stessa riattualizzazione, nell’ambito dellafilosofia sociale e politica (penso soprattutto ad au-tori come Paul Ricoeur e Axel Honneth), della tema-tica della “lotta per il riconoscimento” (desunta dal-la Fenomenologia dello Spirito di Hegel) rischia diricadere nel paradigma identitario nel momento incui assume le identità da riconoscere come un datoanziché come un problema.

Sesta tesi. La forma dominante del conflitto del no-stro tempo è in ultima istanza riconducibile a unmeccanismo simbolico di reazione ai fenomeni dimeticciato e ibridazione crescente. La sensazione disradicamento indotta dalla velocità crescente dellacompressione e interpenetrazione fra le diverse for-me-di-vita spinge a cercare stabilità e sicurezza incomunità blindate improntate a una pervicace osses-sione identitaria. Nella prima edizione di Passaggioa Occidente (2003) ho sostenuto, prima che lo soste-nesse Amartya Sen nel suo brillante saggio Identityand Violence (2006), che i conflitti dell’era globalepresentano caratteri assai più simili ai conflitti fon-damentali che avevano segnato le guerre civili con-fessionali nella fase pre-Westphalia che ai conflittidi classe tipici dell’età industriale. La drammaticitàche oggi viene ad assumere il nesso identità-violen-za – con il correlato fenomeno dei fondamentalismi– può essere pertanto spiegata solo alla luce di unadiagnosi specifica e circostanziata dei meccanismi

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La pluralità non è soltanto inter-culturale ma anche intra-culturale, non

solo intersoggettiva ma ancheintrasoggettiva, non solo fra identitàdiverse ma interna alla costituzione

simbolica di ciascuna identità: sia essaindividuale o collettiva

che hanno prodotto l’insorgenza della dominanteidentitaria del conflitto. In uno scenario globale che viene sempre più diffe-renziandosi in grandi aree geoculturali e geoecono-miche e vede sempre più restringersi gli spazi dimanovra e le pretese egemoniche dell’Occidente,sotto la spinta dei Brics (Brasile, Russia, India, Ci-na, Sudafrica); in questo scenario che ha indotto al-cuni filosofi (come per esempio Jean-Luc Nancy) adazzardare paragoni con la Grossraumpolitik del se-colo scorso, fino ad affermare che «gli anni Trentasono davanti a noi»; ebbene, proprio in questo sce-nario l’Europa avrebbe in potenza tutte le carte perdelinearsi (rovesciando le prognosi dei suoi grandiintellettuali, da Hegel a Marx, da Tocqueville a We-ber) come il futuro dell’America. E ciò per due ra-gioni. In primo luogo, l’Europa ha già conosciuto –per dirla con Voltaire – “l’inferno in questa vita” du-rante le guerre di religione e – possiamo aggiungerenoi – nel corso della lunga guerra civile del Ventesi-mo secolo; e, avendo fatto esperienza della diversitàe della lotta mortale fra irriducibili differenze, sache la propria identità non potrà mai fondarsi sullaloro soppressione; sa che la vera lingua dell’Europaè la traduzione, che nell’idea della traduzione (em-

patica, non meccanica) tra le diverse storie e forme-di-vita si trova consegnata anche la chiave segreta diogni politica; sa che il suo essere-in-comune dipen-de, ad onta della frattura delle sue Nazioni, dalla mi-racolosa somiglianza delle sue straordinarie città-mondo (Ginevra, Venezia, Amsterdam, Firenze, Bar-cellona, Genova, Palermo, Marsiglia, Napoli, Am-burgo, Roma, Parigi, Londra, Anversa, Zurigo, Mi-lano…), che hanno sperimentato nel corso dei secoliforme di integrazione orizzontale tra etnie, culture,religioni, improntate a una logica radicalmente di-versa dall’integrazione verticale degli Stati nazionali(dove nella compartimentazione fra le diverse nazio-nalità si perdeva l’intensità degli intrecci e la fecon-dità dell’ibridazione fra le diverse storie). Per tuttequeste ragioni sono convinto che una comunità eu-ropea dovrebbe basarsi sulla politica della traduzio-ne tra forme-di-vita e tradizioni diverse sperimentatadall’Europa delle città, anziché affidarsi passiva-mente alle logiche conflittual-consociative dell’Eu-ropa delle nazioni. In secondo luogo, nel bagagliodella sua straordinaria tradizione culturale e filosofi-ca, l’Europa disporrebbe degli strumenti per deli-neare un tertium – non una “terza via”, poiché di ter-

ze vie sono lastricati i cimiteri del Ventesimo secolo– tra i modelli di globalizzazione prospettati dai duecolossi dell’età globale, il modello individualistico-competitivo statunitense e il modello paternalistico-comunitario cinese, riproponendo un’idea di indivi-duo non competitivo ma solidale e un’idea di comu-nità non gerarchica ma tesa a valorizzare la singola-rità irriducibile di ciascuna/o.

Vengo così all’ottava e ultima tesi. L’Europa avrebbela capacità di giocare un ruolo di avanguardia nelXXI secolo, invertendo il destino del tramonto asse-gnatole dai suoi grandi intellettuali otto-novecente-schi e ponendosi paradossalmente come futurodell’America. Ma questa capacità la detiene, al mo-mento, solo in potenza. Nella realtà effettuale, essaappare anni-luce distante dal ruolo di global playerche dovrebbe competerle. Per colmare questo divarioabissale tra potenza e atto non vi è che una strada:porsi come obiettivo la propria trasformazione da en-tità eminentemente economica e tecnomonetaria invero e proprio soggetto politico. Ma per far ciò nondovrebbe limitarsi a ridefinire il proprio spazio e ruo-lo politico sulla scena globale, senza schiacciarlo sul-la dimensione giuridico-amministrativa. Dovrebbecompiere un passo ben più coraggioso e decisivo:prendere congedo dalla fase del disincanto, innescatadal crollo delle ideologie ma ormai divenuta un alibiper un cinismo politico sempre più contestato daimovimenti di protesta, per porre all’ordine del giornoun “reincantamento” della politica. Reincantamentonon deve significare in nessun caso re-mitizzazione ore-ideologizzazione, ma piuttosto una rottura con latendenza entropica del sistema dei partiti, volto a re-stituire alla politica la sua funzione simbolica di oriz-zonte di senso dell’agire individuale e collettivo e dimedium di comunicazione (anche conflittuale) fra legenerazioni. Questa pare a me la sola via per sfuggi-re alla morsa delle due opposte e convergenti polaritàneutralizzanti che stanno soffocando lo spazio politi-co: il polo del potere tecnofinanziario e il polo deimovimenti identitari di marca neopopulista e fonda-mentalista. In conclusione, l’endiadi su cui si regge ilpotere globale – disincanto politico/mito identitario –va diametralmente rovesciata nell’imperativo: rein-cantare la politica, demitizzare l’identità.

Questo testo riproduce la relazione tenuta da Giaco-mo Marramao in occasione di un confronto conRuth Dreifuss (prima donna ad essere stata elettaPresidente della Confederazione Elvetica), organiz-zato dall’Istituto Svizzero di Roma il 12 aprile 2012,nell’ambito del ciclo Discorsi d’attualità. I testi del-le relazioni di Marramao e Dreifuss saranno prossi-mamente pubblicati in volume in quattro lingue (ita-liano, inglese, francese e tedesco). 15

Una comunità europea dovrebbe basarsisulla politica della traduzione tra forme-di-vita e tradizioni diverse sperimentatadall’Europa delle città, anziché affidarsipassivamente alle logiche conflittual-consociative dell’Europa delle nazioni

Quello che si presenta comemulticulturalismo altro non è – secondola definizione di Amartya Sen – che un“monoculturalismo plurale” o, se sipreferisce, una pluralità (statica) di

monoculture presuntivamenteomogenee. Si tratta allora, nella politica

come nella cultura, di prenderedefinitivamente congedo dalla logicadell’identità e della reductio ad Unum

Il valore della cono-scenza scientifica nellasocietà contemporaneanon si limita alle appli-cazioni tecnologicheche da essa scaturisco-no, malgrado questo sial’aspetto sul quale lapercezione pubblicadella scienza tipica-mente si sofferma. Ilsapere scientifico è in-fatti reso possibile daalcuni valori che fannoparte integrante del suo

metodo. Tra questi l’oggettività (ovvero sia l’inter-soggettività sia la postulazione di una realtà indi-pendente da noi) l’autonomia intellettuale ed etica(che dipende dalla responsabilità e dall’onere dimettere alla prova dei fatti le proprie credenze), eun atteggiamento critico nei confronti della tradizio-ne che è forse il suo portato culturale più importan-te. In quel che segue cercherò brevemente di mette-re in luce il legame tra questi valori e il metodo conil quale la scienza sottopone le sue ipotesi al tribu-nale della natura.

Scienza, intersoggettività dei fatti e loro oggetti-vitàIl primo capitolo di Scienza e metodo, un classicodella filosofia della scienza pubblicato più di cen-t’anni fa dal matematico francese Poincaré, si intito-la La scelta dei fatti. Perché questo titolo in un testoche parla di fisica? Poincaré cita Tolstoj per sottoli-neare che non possiamo conoscere tutti i fatti, datoche essi sono di numero infinito: si deve necessaria-mente scegliere che cosa vogliamo conoscere, unpo’ come quando decidiamo cosa visitare in un pae-

se straniero. Tuttavia, se la scelta dei fatti dipendeda preferenze soggettive, fino a che punto le descri-zioni di tali fatti possono essere valide per tutti? Il problema di come scegliere i fatti da conoscere sipone in modo non dissimile a uno scienziato, a unostorico e a un direttore di giornale. Nessuno è inte-ressato a sapere esattamente quante vespe ci sianooggi in Italia, né di che colore fossero i calzini deigrandi elettori di Obama: più che tutte le verità, vo-gliamo verità interessanti per noi. Per esempio, l’u-tilità che la conoscenza di certi fatti può avere per lanostra sopravvivenza è un fattore che determina inostri interessi in modo decisivo. Come illustratodalla storia della medicina e della tecnologia, cer-chiamo di conoscere fatti che servano a scopi praticie migliorino le nostre condizioni di vita. Tuttavia, bisogna riconoscere che mentre nella fisicaesistono fatti oggettivamente più importanti di altri –quelli ripetibili, nota Poincaré, si impongono natural-mente alla nostra attenzione, perché ogniqualvolta acerti eventi ne seguono sempre altri, possiamo for-mulare utili leggi predittive – nel mondo della biolo-gia e ancor più in quello della storia, l’irripetibilità,l’individualità e la contingenza sembrano regnare so-vrane. In assenza di una stabile gerarchia di fatti so-ciali ripetibili (cioè di leggi), sembrerebbe che lascelta di illuminare alcuni aspetti della realtà socialepiuttosto che altri sia affidata all’arbitrio più assolutodegli interessi soggettivi, con conseguenze immagi-nabili sulla verità o completezza delle nostre descri-zioni: raccontare certi fatti omettendone altri, o pub-blicare statistiche che illuminino solo alcuni aspettidi certi fenomeni sociali, può generare una rappre-sentazione parziale o addirittura distorta della realtà. Il problema sollevato dall’imprescindibile scelta deifatti è dato quindi dall’eventualità che alcuni aspettidella realtà – che pur sarebbe nel nostro interesseconoscere – possano essere più o meno deliberata-mente omessi da uno studio, da un libro di storia oda un mezzo di comunicazione di massa deputato afornire “informazioni”. Oggi molte delle informa-zioni di cui si ha biso-gno si traggono dallarete attraverso i motoridi ricerca, ma l’evolu-zione degli attuali algo-ritmi fa sì che due per-sone che utilizzino lastessa parola chiave perfare la loro ricerca ot-tengano risultati diver-si. Questo accade per-ché i motori di ricerca(insieme alle reti socia-li) sono infaticabili rac-coglitori di informazio-

«Sapere aude!»Scienza, valori e democraziadi Mauro Dorato

Mauro Dorato

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Il primo capitolo di Scienza e metodo,pubblicato più di cent’anni fa

dal matematico francese Poincaré, si intitola La scelta dei fatti.

Poincaré cita Tolstoj per sottolineare che non possiamo conoscere tutti i fatti,dato che essi sono di numero infinito: si deve necessariamente scegliere.

Tuttavia, se la scelta dei fatti dipende da preferenze soggettive, fino a che

punto le descrizioni di tali fatti possonoessere valide per tutti?

ni sulle nostre preferenze personali, e filtrano dun-que i fatti che vogliamo conoscere per venderli alleditte pubblicitarie. In un recente libro su questo te-ma, Pariser (2011) ritiene che proprio per questo in-formazioni importanti ma lontane dai nostri gustipersonali potrebbero faticare sempre di più ad arri-varci: quel che abbiamo “cliccato” in passato deter-mina le risposte che otterremo in futuro dalla rete,

cosicché ognuno di noi vivrà in una sorta di bollaquasi solipsistica. Eppure, nonostante i filtri dei motori di ricerca e deimezzi di comunicazione, che scelgono di illustrarecerti fatti omettendone altri in funzione di interessiben precisi, esiste una “gerarchia di fatti” anche nelmondo sociale. Essa è meno facilmente rilevabile ri-spetto a quella esistente nel mondo naturale, e que-sto sia per il carattere più “fragile” delle regolaritàstorico-sociali rispetto a quelle naturali, regolaritàche pure esistono, sia per il tipo di interessi in gioconel primo mondo. Per capire che cosa intendo direbasta mettersi nei panni di un direttore di giornale,che ben sa che tale gerarchia è almeno in parte di-pendente dal numero di persone coinvolte da un cer-to evento e quindi dalla sua potenziale rilevanza so-ciale o storica. Se un fatto di cronaca X coinvolge la

felicità o addirittura la vita di un maggior numero dipersone di un fatto Y, allora X è tipicamente più im-portante di Y. Lo scoppio di una guerra, l’elezione diun papa o un disastro radioattivo, da questo punto divista, sono più degni di essere riportati rispetto a undelitto passionale o alla crisi coniugale di un vip,malgrado molti di noi siano più attirati dal secondotipo di notizie che dal primo. Tanto per fare unesempio, un qualunque giornale a diffusione nazio-nale che non avesse riportato in prima pagina il re-cente attentato alla maratona di Boston non avrebbeassolto al suo compito. Questo prova che una gerar-chia dei fatti sociali da conoscere è determinata davalori etici condivisi ed esiste anche nella realtà po-

litica; non a caso, le prime pagine dei giornali, purcon le loro differenti interpretazioni (spiegazioni)dei fatti, coincidono quasi sempre nel riportare quel-li davvero importanti. Ammesso che le scienze ci aiutino in modo effettivoa realizzare il valore dell’intersoggettività, più diffi-cile è sostenere che esse ci permettano di conoscereun mondo indipendente da noi. E questo soprattuttoconsiderando che in passato molte teorie che vanta-vano un discreto successo predittivo sono state suc-cessivamente rimpiazzate da altre che hanno abban-

Oggi molte delle informazioni di cui si ha bisogno si traggono dalla reteattraverso i motori di ricerca, infaticabili

raccoglitori di informazioni sulle nostre preferenze personali, che filtrano i fatti che vogliamoconoscere per venderli alle ditte

pubblicitarie

17Immanuel Kant Baruch Spinoza

Informazioni importanti ma lontane dai nostri gusti personali potrebberofaticare sempre di più ad arrivarci:

quel che abbiamo “cliccato” in passatodetermina le risposte che otterremo in futuro dalla rete, cosicché ognuno di noi vivrà in una sorta di bolla

quasi solipsistica

donato certe entità non osservabili postulate dallateoria precedente (sfere cristalline, epicicli, ed eteresono solo alcune tra queste). Più che affrontare la complicata questione della con-tinuità nella scienza, vorrei qui far notare che il po-stulato dell’oggettività (in base al quale c’è “un mo-do in cui le cose stanno” che è indipendente da noi)non è solo alla base dell’attività scientifica, ma an-che del nostro asserire alcunché. Il fatto che potrem-mo non venire mai a sapere cosa sia avvenuto ad

Ustica (mancanza di certezza) non implica che nonci sia una verità sulla causa di quel disastro aereo. Ed’altra parte, tutta la moderna microbiologia si basasulla postulazione dell’esistenza di entità troppo pic-cole per essere osservate ad occhio nudo ma la cuiesistenza è in grado di spiegare l’insorgere di moltemalattie in modo assai più efficace delle credenzemedievali che la peste sia dovuta o all’avvelenamen-to dei pozzi da parte degli ebrei o ai nostri peccati(Dorato 2007). In una parola, il batterio della pesteesiste indipendentemente dalle teorie e dai micro-scopi che utilizziamo per osservarlo. Si noti che ammettere che le scienze siano un efficacestrumento per raggiungere il valore dell’oggettivitàha almeno due conseguenze etiche importanti: 1) ri-conoscere una realtà indipendente da noi implica chel’autorità delle credenze scientifiche venga da unafonte extraumana. Per esempio, la scoperta biologicache non esistono razze umane non dipende dall’arbi-trio o dall’autorità di singoli esseri umani, ma da evi-denze empiriche riscontrabili con metodi tra loro in-dipendenti che convergono tutti verso lo stesso risul-tato; 2) l’accettazione di un ordine naturale retto daleggi alle quali siamo noi stessi soggetti è il primopasso verso quella saggezza già predicata da Spinoza.

Scienza, autonomia, e critica della tradizioneSecondo Kant il motto dell’illuminismo «abbi il co-raggio di servirti del tuo intelletto senza la guida diun altro» (l’oraziano aude sapere) e, come è notoagli addetti ai lavori, la sua opera critica fu in parteuna riflessione filosofica sulla nuova fisica di New-ton. E il grande portato culturale della unificazionenewtoniana tra fisica terrestre e fisica celeste si ma-nifestò nella consapevolezza, da Kant racchiusa nelvalore dell’autonomia, che l’essere umano è in gradodi arrivare alla verità da solo, ovvero senza l’aiutodella rivelazione divina. Tale autonomia − anche ri-spetto a un sapere consegnatoci dalla tradizione cheva indagato criticamente – implica la fatica di sotto-porre ogni nostra ipotesi alla dimostrazione (in mate-matica), alla conferma osservativa (in ambito empiri-co) o all’argomentazione razionale (in filosofia). Non v’è dubbio infine che il valore dell’autonomiaintellettuale non solo è stato storicamente incorag-giato dai successi conoscitivi della scienza, ma haanche favorito il diffondersi dell’autonomia etica,che insiste sulla capacità di darsi regole soggettive

di comportamento che possano al contempo esserefatte proprie da tutti. Se l’universalità delle leggi na-turali è rispecchiata dalle leggi etiche, queste ultimerisultano anche indipendenti da un sapere religiosomutevole geograficamente e temporalmente. L’atteggiamento critico nei confronti delle teoriescientifiche consegnateci dalla tradizione è inscindi-bilmente legato all’autonomia, e dipende essenzial-mente dal fatto che queste ultime sono fallibili: stori-camente si è visto che le teorie successive correggonoquelle precedenti generalizzandole. Trovare errorinelle teorie precedenti presuppone però avere un at-teggiamento critico e scettico nei confronti delle auto-rità, ciò che permette il progresso stesso delle teorie. Si noti infine che oggettività, autonomia, il coraggiodi valersi del proprio intelletto, ovvero quei valoriincarnati nel metodo scientifico, non sono con il ca-rattere collettivo dell’impresa scientifica. Il fatto cheil controllo di un’ipotesi dipenda dal contributo ditutti gli addetti ai lavori e, in linea di principio, daquello di tutti noi, implica che le teorie scientifichedebbano poter essere giustificate pubblicamente.Una necessità di giustificazione che si dovrebbeestendere anche alle leggi approvate dai parlamentidei paesi democratici. In una parola, i valori scienti-fici sono infatti strettamente congiunti a quelli de-mocratici: la democrazia è incompatibile con l’esi-stenza di una casta di eletti dotata di poteri conosci-tivi particolari e di un rapporto privilegiato con lefonti del sapere.

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La democrazia è incompatibile con l’esistenza di una casta di eletti

dotata di poteri conoscitivi particolari e di un rapporto privilegiato

con le fonti del sapere

Le teorie scientifiche sono fallibili:storicamente si è visto che le teorie

successive correggono quelle precedentigeneralizzandole. Trovare errori nelle

teorie precedenti presuppone unatteggiamento critico e scettico nei

confronti delle autorità, ciò che permetteil progresso stesso delle teorie

Henri Poincaré

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Il mondo sta cambiando.Cambia l’economia ecambia il mercato del la-voro. Come devonocambiare le università?Negli ultimi decenni i di-versi Corsi di laurea han-no insegnato agli studen-ti tutto ciò che servivaper essere assunti dalleimprese o dalle altre or-ganizzazioni, pubbliche eprivate; hanno sfornatopotenziali manager,esperti per gli uffici stu-di, aspiranti professioni-

sti per le società di consulenza, amministratori pubblici,agenti e venditori, professori e creativi, avvocati escienziati. Nessuno, o quasi, si è mai posto il problemadi aiutare chi fosse interessato a intraprendere la strada

della auto-impreditorialità, fondando dal nulla la pro-pria azienda. Anzi, l’idea di fondo che tutti, almeno fi-nora, hanno implicitamente condiviso è che per creareun’impresa – oggi usiamo più volentieri iltermine “startup” – non sia indispensabileaver studiato: oggi sappiamo che non è così.Tranne poche (e spesso famose) eccezioni,per creare un’azienda di successo non èquasi mai sufficiente una buona idea, unaqualche propensione naturale al rischio equalche risparmio da investire. Prova ne è che il tasso di fallimento dellenuove imprese innovative è straordinaria-mente alto. L’esperienza delle società diventure capital (ossia quelle che investonoproprio nelle startup) insegna che su dieciidee finanziate, nel giro di sette anni ne fal-liscono quattro; tre vanno in pari (cioè recu-perano solo i costi); due generano un picco-lo guadagno, e solo una è un successo, cioèfa moltiplicare per venti il capitale iniziale.Se si considera che le idee finanziate sonomeno dell’1% di quelle sottoposte alla valu-tazione da parte degli investitori, è facile ca-

pire come conquistare il mercato sia un’eccezione allaregola. Questo non vuol dire che non ci si debba provare, anzi:seguendo l’esempio dei loro coetanei che ce l’hannofatta (uno per tutti Mark Zuckerberg, fondatore di Face-book), sono encomiabili i tanti ragazzi che ogni annocercano di diventare startupper di successo. Il loro sfor-zo è essenziale per un’economia come quella attuale,caratterizzata com’è da interi settori in fase di inarresta-bile declino.

Ma qual è il ruolo delle università in questo processo?Tutti sappiamo che si possono insegnare le strategie dimarketing, le formule della finanza, le regole dell’orga-nizzazione, le tecniche di programmazione e i principidella chimica, ma quanto è davvero possibile trasferireai giovani lo spirito imprenditoriale? Perché è proprioquello l’ingrediente indispensabile: infatti, se non c’è lagiusta mentalità, servono a ben poco le agevolazioni fi-scali, i finanziamenti e gli incubatori d’impresa. Il corretto atteggiamento nei confronti dell’innovazionee della imprenditorialità è più facile trovarlo in alcune

Start upperQuando l’università insegna a trasformare un’intuizione in un businessdi Carlo Alberto Pratesi

Carlo Alberto Pratesi

Tutti sappiamo che si possono insegnarele strategie di marketing, le formule dellafinanza, le regole dell’organizzazione, letecniche di programmazione e i principidella chimica, ma quanto è davvero

possibile trasferire ai giovani lo spiritoimprenditoriale?

Il corretto atteggiamento nei confrontidell’innovazione e della imprenditorialitàè più facile trovarlo in alcune specifichearee del mondo, dove c’è sintonia tra i

laboratori universitari, finanza eimprese, e dove i giovani talenti sononaturalmente portati a tentare di

tradurre in business i loro brevetti e leloro intuizioni.

Il campus principale di Technion (Israel Institute of Technology)

specifiche aree del mondo, dove c’è sintonia tra i labo-ratori universitari, finanza e imprese, e dove i giovanitalenti sono naturalmente portati a tentare di tradurre inbusiness i loro brevetti e le loro intuizioni. Di certo nonbastano bravi docenti: occorre un sistema complessivoche integri e sostenga il sistema educativo. L’esempiodella Silicon Valley e il suo perfetto network dove ate-nei di grande prestigio (Stanford e Berkeley) collabora-no con investitori, amministrazioni, consulenti e azien-de è noto a tutti. Ma non è certo la California l’unicaculla delle startup. Oggi si parla sempre di più di NewYork dove il sindaco Bloomberg è riuscito a ricrearequalcosa di molto simile; in Europa ci sono Barcellona,Berlino, Helsinky, Tallin. A oriente la punta di diamanteè Israele – universalmente riconosciuta come la “startupnation” – che oggi ha più aziende quotate al Nasdaq diEuropa, Corea, Giappone, Singapore, Cina e India mes-se insieme. Il cuore è il campus del Technion, l’univer-sità battezzata da Albert Einstein, che ha vinto tre premiNobel negli ultimi sette anni. I brevetti nati negli ultimianni attorno all’università sono tantissimi: dalle memo-rie flash (le “chiavette Usb”) al software per “zippare” ifile; dalle piante che sopravvivono con pochissima ac-qua, alle pillole-videocamere che consentono di fareuna colonscopia o navigare nelle arterie. Questo anchegrazie a una straordinaria densità di ingegneri partico-larmente intraprendenti. Come per esempio Yaron Sa-mid, che ha fondato Bill Guard, la start up che scopredagli estratti conto delle carte di credito tutti quegli ad-debiti che abbiamo autorizzato senza saperlo; o IshayGreen, fondatore di Soluto, un software che una voltainstallato sul Pc segnala e aggiusta i programmi e le ap-plicazioni che creano problemi: ha 33 anni ed è già allaterza impresa (le altre due le ha vendute a caro prezzo).Uzi de Haan, del Bronica Entrepreneurship Center,spiega che tra i motivi del miracolo economico israelia-no c’è prima di tutto quel senso di perenne insoddisfa-zione che caratterizza da sempre il popolo ebraico. Epoi il continuo stato di tensione politica, gli straordinariinvestimenti in ricerca (inizialmente nel settore agricoloe nella difesa) e l’effetto combinato di quattro poli uni-versitari di eccellenza (oltre al Technion, Ben Gurion,Jerusalem e Weizman Institute) che insieme danno vitaa un’economia che attira i venture capital di tutto ilmondo, e dove azien-de come Google,Ibm, Yahoo o Intelfanno shopping distartup e fondano iloro laboratori di ri-cerca. La formula magica diquesto miracolo staanche nella giustacombinazione tra in-terventi pubblici eimprenditorialità pri-vata, unita a una cul-tura di fondo pronta avalorizzare le idee ele diverse culture. Edè proprio questa la fi-losofia ispiratrice diuna importante ini-ziativa concepita a

Roma Tre, InnovAction Lab, partita da una partnershiptra il Corso di Laurea in Economia e management equello in Ingegneria informatica, e oggi aperta a tutti gliatenei di Roma. Quello di InnovAction Lab è un per-corso formativo del tutto originale che si articola su me-no di una decina di seminari di 90 minuti l’uno, tenuticon cadenza settimanale o bisettimanale da docenti emanager con una reale esperienza di startup internazio-nali e capaci di trasmettere entusiasmo ai partecipanti.Agli studenti vengono presentati i problemi tipici di chifonda una nuova azienda innovativa (dalla costituzionedel team, che deve essere obbligatoriamente multidisci-plinare, alla presentazione ai fondi di venture capital)senza dare alcuna indicazione su come tali problemipossano essere risolti (non ci sono volutamente testi, ri-

viste, risorse web o indicazioni di best practice da se-guire). Durante il periodo dei seminari i ragazzi costi-tuiscono i team a cui vengono affiancati dei mentor,sempre scelti tra imprenditori con esperienza concreta.Al termine del ciclo di seminari, gli studenti hanno adisposizione due prove di investor-pitch (brevi presen-tazioni da sette minuti) nel quale illustrano il businessplan del loro progetto e ricevono feedback.I team migliori secondo il giudizio degli investitori edei fondi di investimento vincono borse di studio perapprofondire i temi dell’imprenditorialità innovativa: lasummer school InnovAction Camp nella sede di Allu-miere di Roma Tre o gli study tour in USA, Israele(ospiti del Technion) e Singapore. L’ultima giornata fi-nale di premiazione (lo scorso anno è stata il 4 luglio al

Teatro India) ha rac-colto in platea 800persone tra le quali lagiuria composta dairappresentanti di cir-ca trenta società diinvestimento (nonsolo italiane) e unasettantina tra busi-ness angel, startup-per, imprenditori emanager. Le primetre edizioni del per-corso hanno visto na-scere ben 25 startup,che complessivamen-te sono riuscite a rac-cogliere sul mercatoquattro milioni di eu-ro. Niente male comeinizio!

A oriente la punta di diamante è Israele –universalmente riconosciuta come la“startup nation” – che oggi ha più

aziende quotate al Nasdaq di Europa,Corea, Giappone, Singapore, Cina e

India messe insieme. Il cuore è il campusdel Technion , l’università battezzata daAlbert Einstein, che ha vinto tre premi

Nobel negli ultimi sette anni

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Yaron Samid, fondatore di Bill Guard, la start up che scopre dagli estratti contodelle carte di credito gli addebiti non autorizzati

Dopo essere stato di-chiarato «eretico impe-nitente, pertinace et osti-nato» dalla commissionedei cardinali inquisitori,sentenza alla quale ave-va fatto seguito la lugu-bre cerimonia della de-gradazione ed espulsio-ne solenne dall’Ordine,il 17 febbraio 1600Giordano Bruno vienearso vivo in Campo de’Fiori. La carcerazione eil processo a suo carico

si erano protratti per otto anni, da quando, il 23 mag-gio 1592, Giovanni Mocenigo, che l’aveva ospitatonel suo palazzo per alcuni mesi, aveva presentato al-l’Inquisizione veneziana una denuncia in cui elencavagli errori e le eresie che gli aveva sentito pronunciare.All’iniziale periododi carcerazione a Ve-nezia erano seguitigli anni romani, edopo ritardi, pause eindugi la vicendaprocessuale era pre-cipitata nella secon-da metà del 1599,quando l’imputato siera irrigidito nel ri-fiuto di abiurare ottoproposizioni, inquanto, come affer-mava al caderedell’anno, non avevanulla da ritrattare enon sapeva di checosa avrebbe dovutopentirsi. Il 1599 è anche l’an-no della cospirazioneorganizzata in Cala-bria da TommasoCampanella, fallitasul nascere in segui-to alla denuncia in-viata al Vicerè diNapoli da due com-plici che si dissocia-no, nella quale lo in-formavano che Cam-panella e altri fratidomenicani avevano

organizzato una congiura per far ribellare i popoli con-tro la tirannia del sovrano spagnolo e la malvagità deisuoi ministri. Ritornato nella nativa Stilo dopo quasidieci anni di lontananza, Campanella, constatando ildegrado di una società dominata dalla violenza, daldisordine economico e dall’ingiustizia, predica l’ap-prossimarsi di una profonda renovatio, che sembra an-nunciata, all’alba del nuovo secolo, da inconsueti se-gni celesti e terrestri, proclamando l’esigenza di rifon-dare l’associazione sociale e politica alla luce di prin-

cipi razionali e natu-rali, entro un conte-sto profetico. La co-spirazione vienestroncata brutalmen-te dall’invio di trup-pe spagnole al co-mando di Carlo Spi-nelli e il suo ispirato-re trascorrerà quasitrent’anni nelle car-ceri di Napoli e poidi Roma.A pochi decenni didistanza, la mattinadel 22 giugno 1633,nel convento di San-ta Maria sopra Mi-nerva, il settantenneGalileo Galilei, ingi-nocchiato di fronte aimembri del Sant’Uf-fizo in seduta plena-ria, dopo avereascoltato la letturadella sentenza che logiudica «vehemente-mente sospetto d’he-resia» per avere so-stenuto dottrine incontrasto con le Sa-cre Scritture, con-travvenendo a unprecetto che gli era

Lo spirito libero «di gran scienza amante» Verità e ricerca nella nuova filosofia di Bruno, Campanella e Galileodi Elisa Germana Ernst

Elisa Germana Ernst

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Senza dubbio sia per Bruno che perCampanella e Galileo risulta

irrinunciabile la scelta di quella cheritengono la verità, anche se essa risultain pericoloso contrasto con le dottrine,filosofiche e religiose, della tradizione

Galileo Galilei, incisione di Samuel Sartain da un ritratto di H. W. Wyatt

stato notificato dal cardinale Bellarmino già nel 1616,dichiara, «con cuor sincero e fede non finta», di volereabiurare, maledire e detestare gli errori e le eresie chegli vengono imputati.Tre studiosi che, pur presentando aspetti molto diversifra di loro, risultano accomunati da persecuzioni econdanne. Le ragioni di tali conflitti vengono quasiprefigurate dal giovane Campanella in un sonetto inti-tolato Al carcere, scritto, ancora prima della catastrofecalabrese, in una cella del Sant’Offizio romano. Nella

medesima prigione sono rinchiusi anche altri pensato-ri, a partire dallo stesso Bruno, e Campanella si inter-roga sui motivi di questa sorta di “appuntamento fata-le” in un luogo che egli paragona ad altri luoghi miste-riosi e terribili come l’antro di Polifemo, il labirinto diCreta, il palazzo d’Atlante. Un incontro che, a suo di-re, in verità non deve stupire e che risulta inevitabile,in virtù di una legge simile alla forza di gravità o al-l’irresistibile impulso che spinge la donnola a diriger-si, con un misto di paura e attrazione («timente escherzante»), verso le fauci del rospo che la divorerà.Secondo Campanella, si tratta di un destino iscritto in

ogni spirito libero che, «di gran scienza amante», deci-da di abbandonare la «morta gora» del trito sapereconvenzionale per slanciarsi audacemente nel «mardel vero, di cui si innamora».E senza dubbio sia per Bruno che per Campanella eGalileo risulta irrinunciabile la scelta di quella che ri-tengono la verità, anche se essa risulta in pericolosocontrasto con le dottrine, filosofiche e religiose, dellatradizione. Delineando nello Spaccio della bestiatrionfante una radicale riforma morale e civile, Brunocolloca la Verità, autentica stella polare cui indirizzarelo sguardo, nel luogo più alto dei cieli, in modo che ri-sulti indenne dal «livore dell’invidia» e «dalle tenebredell’errore»: «Ivi starà stabile e ferma; là non saràexagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guidadi quelli che vanno errando per questo tempestoso pe-lago d’errori; et indi si mostrarà chiaro e terso spec-chio di contemplazione» (I, 3). Non è poi un caso chele pagine introduttive della prima opera a stampa diCampanella, la Philosophia sensibus demonstrata(Napoli, 1591), esordiscano proprio con la parola «ve-rità», che viene raffigurata, nella vignetta del fronte-spizio, come una sfera che galleggia sull’acqua, men-tre i venti che soffiano da ogni parte cercano di som-mergerla e un giovane frate tenta di raggiungerla anuoto. La verità può venire occultata e perseguitata,afferma l’autore, ma alla fine emerge dalle tenebre, edegli non esita ad affermare che ad essa ci si deve dedi-care in quanto è bella di per sé, al di là degli onori,della gloria, delle ricompense, o dei sacrifici che ri-chiede, e che ad essa, se necessario, si deve anteporreanche la vita. Ma l’amore spassionato per la verità richiede un atteg-giamento di ricerca continua, in modo da essere prontiad abbracciarla da qualsiasi parte risplenda, avendosoprattutto il coraggio di andare oltre alle dottrine con-tenute nei libri degli uomini quando non corrispondo-no più a quelle che si leggono nel grande libro della

Per Campanella l’amore spassionato per la verità richiede un atteggiamento

di ricerca continua, in modo da essere pronti ad abbracciarla

da qualsiasi parte risplenda, avendosoprattutto il coraggio di andare oltre

alle dottrine contenute nei libri degli uomini quando non corrispondono

più a quelle che si leggono nel grande libro della natura

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La statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, a Roma. Particolare

natura, una metafora tradi-zionale che in questo con-testo viene ad assumereuna molteplicità di implica-zioni e modulazioni. Leg-gere il libro della natura si-gnifica innanzitutto privile-giare i dati e i fatti dell’e-sperienza rispetto alle paro-le degli altri libri, e in pri-mo luogo di quelli di Ari-stotele, emancipando la ra-gione umana dalla suddi-tanza ad ogni principio diautorità. Nella Cena de le

Ceneri Bruno, con l’adozione della dottrina copernica-na proiettata in una visione infinitistica del cosmo,non solo sancisce il crollo irreversibile della cosmolo-gia tradizionale, ma celebra la liberazione della ragio-ne umana dagli immaginari confini delle sfere celesti:«Il Nolano ha disciolto l’animo umano e la cognizioneche era rinchiusa ne l’artissimo carcere de l’aria turbu-

lento; … ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorsele stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanirle fantastiche muraglia... Non è più impriggionata lanostra raggione co i ceppi de fantastici mobili e motoriotto, nove e diece. Conoscemo che non è ch’un cielo,un’eterea reggione inmensa». Per ristabilire quei nessicorretti fra cose e parole,che nella tradizione aristo-telica si erano logorati eperduti, Campanella cele-bra in un sonetto la filoso-fia naturale di BernardinoTelesio, che ha trafitto e uc-ciso con le sue frecce Ari-stotele, il «tiranno degli in-gegni», restituendo all’uo-mo quella libertà che è in-separabile dalla verità. Daparte sua, Galileo, nel Dia-logo sopra i due massimisistemi del mondo, per boc-ca di Sagredo esprime un’i-ronica simpatia nei con-fronti della disperazione diSimplicio, che non si rasse-gna nel vedere crollare lamaestosa costruzione dellafilosofia aristotelica, cherappresenta un sicuro rifu-gio per tanti studiosi, «do-ve, senza esporsi all’ingiu-rie dell’aria, col solo rivol-tar poche carte, si acquista-

no tutte le cognizioni della natura». Un dolore, da par-te di Simplico, simile a quello provato da chi, dopoavere costruito, con infinite fatiche e spese, un «nobi-lissimo palazzo», lo vede «per esser stato mal fondato,minacciar rovina», e non riuscendo a darsi pace per laperdita di un edificio così ricco e adorno, si sforza con

ogni mezzo, facendo invano ricorso «a catene, puntel-li, contrafforti, barbacani, e sorgozzoni», di porre ri-medio a un crollo che si presenta come inevitabile. I tre autori sono poi concordi nel riconoscere che il li-bro della natura è divino al pari di quello della Scrittu-ra, ed è nella natura che si manifesta e si comunicaall’uomo l’infinità della potenza di Dio e della sua sa-pienza. Sempre nella Cena Bruno afferma: «Questifiammeggianti corpi son que’ ambasciatori, che an-nunziano l’eccellenza de la gloria e maestà de Dio.Cossì… abbiamo dottrina di non cercar la divinità ri-mossa da noi: se l’abbiamo appresso, anzi di dentropiù che noi medesmi siamo dentro a noi».Fra i due libri ugualmente divini non può e non deveesserci conflitto, e quando le parole della Scritturesembrano non accordarsi con nuove esperienze e sco-perte, spetterà ai suoi interpreti ritrovare quell’accordoe quella compatibilità che non possono venir meno,anziché esasperare i contrasti. Come ci ricordano sia

Campanella celebra in un sonetto lafilosofia naturale di Bernardino Telesio,che ha trafitto e ucciso con le sue frecceAristotele, il «tiranno degli ingegni»,

restituendo all’uomo quella libertà che èinseparabile dalla verità

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L’Apologia per Galileo di TommasoCampanella è una coraggiosa

perorazione della libertas philosophandi,nella convinzione che sia possibile, e necessario, evitare lacerazioni

e scontri rovinosi per tutti individuandopunti di accordo fra le certezze

e il continuo movimento del pensiero

Bruno che Campanella e Galileo, la Scrit-tura si propone di comunicare un messag-gio morale universale espresso in un lin-guaggio semplice e derivato dalla vita co-mune, in modo che risulti accessibile a tut-ti gli uomini, e non certo enunciare dottri-ne scientifiche in un linguaggio specialisti-co indirizzato a pochi. A proposito di tale delicato problema, la po-sizione più lucida è quella enunciata daCampanella nell’Apologia pro Galileo,scritta già nel 1616, quando sulle dottrine diGalileo, da lui conosciuto in giovinezza aPadova e nei confronti del quale manifeste-rà una costante stima e amicizia, si addensa-no, con le prime denunce, le pesanti nuvoledelle accuse teologiche. Nella sua densaoperetta Campanella non intende difenderedottrine proprie. Egli infatti nutre talune ri-serve nei confronti dell’eliocentrismo a cau-sa della sua difficile compatibilità con iprincipi telesiani, secondo i quali il sole, se-de del principio del caldo, è leggero e dota-to di movimento, mentre la terra, sede dell’antagonisti-co principio del freddo è pesante e immobile. Inoltre, lasua immagine di una natura come «animal grande eperfetto», percorso dalla vita in ogni sua minima fibra, èmolto lontana da quella galileiana di un libro che, se-condo il famoso passo del Saggiatore, «è scritto in lin-gua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi, ed al-tre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibilea intenderne umanamente parola; senza questi è un ag-girarsi vanamente per un oscuro laberinto».Ma, nonostante queste differenze, Campanella riven-dica la piena liceità da parte dello scienziato di leggeredirettamente il libro della natura, per emendare i libriumani, sempre bisognosi di correzioni e integrazioni.Nell’Apologia egli fa appello al suo sconfinato sapereteologico per ridefinire i rapporti fra filosofia, scienzae teologia, e individua il nodo del problema nell’inde-bito valore dogmatico conferito alla filosofia aristote-lica, che, come ogni dottrina umana, andrà modificata,corretta, o lasciata cadere, alla luce di una sempre piùapprofondita lettura del libro naturale. L’abbandono

dell’aristotelismo, pertanto, non comporta il crollodella teologia, ma, esattamente al contrario, essa ver-rebbe danneggiata dall’ostinata e cieca adesione a unsistema fisico che non fosse più in accordo con i nuovidati dell’esperienza e venisse smentito dalle nuovescoperte.

Più che un difesa del copernicanesimo, l’Apologia perGalileo è una coraggiosa perorazione della libertasphilosophandi, nella convinzione che sia possibile, enecessario, evitare lacerazioni e scontri rovinosi pertutti individuando punti di accordo fra le certezze e ilcontinuo movimento del pensiero.

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I tre autori sono concordi nel riconoscereche il libro della natura è divino al paridi quello della Scrittura, ed è nellanatura che si manifesta e comunica

all’uomo l’infinità della sapienza di Dio

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Osservando l’attualepanorama italiano c’èun fenomeno che ve-diamo ricorrere consempre più frequenza.Si tratta di una sortadi permeabilità deiruoli, di una mancanzadi demarcazione frasfera pubblica e pri-vata, di un tentativoda parte degli intellet-tuali di riflettere sullavita politica del Paesesempre più dall’inter-

no, abolendo quella distanza necessaria per un’analisial tempo stesso lucida e costruttiva. Ci troviamocosì, sempre più spesso, a costruire la nostra opinionedavanti agli schermi televisivi, dove i comici, nonpiù maschere bensì mediatori di uno smascheramento,sembrano essere diventati gli unici possibili depositaridi “verità nascoste”. E se è vero che questo è stato,fin da secoli lontani, il loro compito, oggi assistiamoa una sorta di gioco delle parti, in cui le distanzesempre più si assottigliano. Uno scenario che avrebbecolpito Julien Benda, uno dei maggiori teorici dellafunzione dell’intellettuale nella vita politica del No-vecento. Il tradimento dei chierici (1927) è frutto diun dibattito maturato alla fine del XIX secolo, inconcomitanza con l’affaire Dreyfus, che chiamò incausa i maggiori esponenti del mondo culturale fran-cese. Quale deve essere il ruolo dell’intellettuale al-l’interno della vita politica di un paese e quali lesue responsabilità nell’orientamento spirituale e cul-turale della società? L’analisi di Benda nasce dal-l’osservazione di un’Europa in preda al “trionfodelle passioni”, in cui la naturale organizzazionepolitica delle nazioni sta gradualmente lasciandospazio all’insorgere di movimenti ideologici e razzisti.In nome di posizioni definite come “volontà realiste”si compiono i più grandi scempi dell’umanità, mentrevalori “disinteressati o metafisici” vengono consideratiin conflitto con la sfera pratica e per questo superati.La cosa più grave è, secondo Benda, l'adozione diquesti comportamenti da parte di chi, più di ognialtro, avrebbe dovuto opporvisi: i chierici. Chiericosta qui per filosofo, religioso, letterato, artista,insomma per tutte quelle categorie di individui checi si aspetta prediligano la sfera più alta dell’essereumano e che invece sono i primi a mettere in atto iltradimento della propria missione, alla ricerca di be-nefici personali o spinti da una sorta di furore cieco.La critica di Benda va poi ancora più a fondo, risul-tando perciò più problematica e meno scontata. Se-condo lo scrittore, infatti, altrettanto condannabilisono quegli intellettuali che esaltano il pacifismofine a se stesso, anch’esso frutto di un’emotività

priva di supporto razionale,che rifiuta l’uso della forzaanche quando è necessariaper ripristinare diritti uni-versali. Per lui i modellida seguire sono, da un lato,Leonardo, Goethe, Male-branche che hanno fattodell’elevazione spiritualeil fine della propria attività,dall’altro Erasmo, Kant,Renan, moralisti che pre-dicavano il superamentodelle passioni terrene innome di principi trascen-

denti. Tuttavia, non bisogna pensare che Benda invitil’intellettuale ad un totale estraniarsi dal dibattitopolitico. Fra coloro che vengono citati come rap-presentanti del giusto chierico c’è Zola che, in nomedi un ideale universale, quello della giustizia, si battéa favore di Dreyfus pubblicamente. Nel corso deltempo, Il tradimento dei chierici è stato sottopostoa numerose riletture e interpretazioni. Sicuramentel’opera non può essere decontestualizzata dal suomomento storico e, per molti aspetti, non si può nonriconoscerle di aver anticipato tragicamente i tempi.A distanza di vent’anni Benda rimise mano al testo,alla luce dei mutamenti culturali e storici intercorsi.Ne emerge un quadro ancora più desolante e pessi-mista. Il nuovo mito dei chierici è ora l’ordine comestrumento di controllo delle masse. Un ordine impostobrutalmente dai regimi totalitari, ma anche esaltatocome valore estetico in paesi democratici come laFrancia. Visto come uno principio pratico cui mirare,in contrapposizione al disordine antifunzionale deigoverni liberali, secondo i suoi cultori l’ordineandrebbe imposto in ogni ambito della vita sociale.Una posizione avvalorata dall’idea che una nazionesia una costruzione monolitica dove le particolaritàindividuali debbano scomparire fra le pieghe di unasovrastruttura massificante. Parallelamente, secondoBenda, nuovi pericoli si anniderebbero anche inquell’orientamento filosofico che, concependo larealtà come un incessante fluire, finirebbe per negarealla ragione la possibilità di fissare le cose per ana-lizzarle razionalmente. Ne consegue che ogni ideale,ogni fermo principio si ritrova costretto a sottomettersialle logiche del cambiamento e l’essere umano, privodi punti fermi, finisce per perdersi in un continuofluire di sollecitazioni materiali. Ovviamente è questauna posizione discutibile e il dibattito è destinato acontinuare. Quello che mi sembra fondamentale diquest’opera è la sua strenua difesa del ruolo dell’in-tellettuale. Non solo uomo di cultura, impegnato insterili conversazioni all’interno dei salotti borghesi,bensì faro per la società, concepita come insieme dipersone il cui spirito debba essere costantemente

Il tradimento dei chiericidi Francesca Gisotti

Francesca Gisotti

L’acqua è il principaleelemento della vita bio-logica del pianeta; lasua presenza è ancheimportante per il climadella Terra, svolgendouna funzione di termo-regolazione che mantie-ne una temperatura mitesulla superficie terre-stre. La presenza di ac-qua è stata la condizio-ne essenziale per lo svi-luppo e il sostentamen-to della vita e ha svolto

un ruolo fondamentale nella trasformazione del terri-torio e nello sviluppo delle civiltà. La circolazione dell’acqua in natura avviene attraver-so un sistema complesso di percorsi che coinvolgonodiverse matrici ambientali e che determinano il cicloidrologico. L’acqua che è impiegabile per gli scopiumani (acqua dolce) si trova sia sulla superficie ter-restre, tipicamente nei fiumi e nei laghi (acqua super-ficiale), che nel sottosuolo (acqua sotterranea). Deltotale dell’acqua dolce disponibile, circa due terzi sitrova nei ghiacci polari, e il rimanente sotto forma diacqua sotterranea. Il totale delle acque contenute neifiumi costituisce soltantolo 0,006 % circa delle ac-que dolci; la maggior partedella risorsa idrica impie-gabile è quindi immagaz-zinata nel sottosuolo.L’uso dell’acqua per i variscopi (principalmente civi-le/idropotabile, agricolo eindustriale) è cresciuto no-tevolmente nel tempo. Neiprimi 80 anni del secoloscorso si è osservato unaumento dei prelievi di ac-qua dolce di circa il 600%.La domanda di acqua dol-ce è in continuo aumento,a causa principalmentedella crescita demograficae dello sviluppo produtti-vo, non solo nei tradizio-nali Paesi avanzati ma an-che (e soprattutto) in quelliemergenti. Bisogna poiconsiderare come unaquantità rilevante di risor-se idriche sia divenuta difatto inutilizzabile a causadell’inquinamento associa-

to alle attività antropiche, e principalmente allo sver-samento di inquinanti di origine industriale e agrico-la, nonché ai rilasci dalle discariche incontrollate.Inoltre, i previsti scenari di cambiamento climaticosuggeriscono, sia pure con una qualche incertezza,un’ulteriore diminuzione delle risorse idriche dispo-nibili in alcune aree del pianeta, quali ad esempiol’area del bacino del Mediterraneo.

Poiché la risorsa idrica è distribuita in maniera dis-eguale nel pianeta, la sempre crescente domanda diacqua ha spesso motivato il trasferimento di risorseidriche tra diverse regioni, a volte mediante impo-nenti opere ingegneristiche, innescando potenziali

Del totale dell’acqua dolce disponibile,circa due terzi si trova nei ghiacci polari,

e il rimanente sotto forma di acquasotterranea. Il totale delle acque

contenute nei fiumi costituisce soltanto lo0,006 % circa delle acque dolci; lamaggior parte della risorsa idrica

impiegabile è quindi immagazzinata nelsottosuolo

Oro bluRisorse idriche: ricerca accademica e risvolti applicatividi Aldo Fiori

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Aldo Fiori

Migrazione di un inquinante in una falda acquifera per diversi istanti temporali successivi al rilascio(simulazione numerica)

conflitti regionali per la sua spartizione (le cosiddette“guerre dell’acqua”) o fenomeni di più recente svi-luppo quali il “land grabbing”, ossia l’acquisto di va-sti terreni agricoli in paesi in via di sviluppo da partedi stati o grandi compagnie transazionali, anche persupplire alla mancanza di risorse idriche per l’agri-coltura nel proprio territorio di origine.L’acqua è quindi un elemento indispensabile per losviluppo della civiltà e la vita degli ecosistemi presentinel pianeta, ma essa può anche essere fonte di graviproblemi (ed eventualmente disastri) quando è con-centrata nel tempo o nello spazio, generando alluvionio innescando fenomeni di dissesto idrogeologico, qua-li frane o colate detritiche. La crescente antropizzazio-ne, lo sviluppo delle attività umane e una gestionespesso non corretta del territorio hanno nel tempoacuito tali problemi, rendendo più complessa la ge-stione idraulica del territorio e l’interazione tra il de-corso naturale delle acque e gli insediamenti umani. L’Università di Roma Tre, con la collaborazione del-l’Associazione Idrotecnica Italiana, ha organizzatonel corso dell’anno accademico 2012-2013 un ciclodi seminari intitolato H2.0: acqua in rete a Roma3. Iseminari, promossi dal Comitato di Indirizzo Perma-nente di Ingegneria, sono rivolti agli studenti dellalaurea triennale e hanno lo scopo di informare glistudenti sulle principali problematiche associate al-l’acqua e di promuovere la condivisione di cono-scenze tra il mondo della formazione universitaria equello delle imprese, della pubblica amministrazionee di tutti i soggetti che lavorano nell’ambito delle ri-sorse idriche. I seminari hanno riguardato quindi di-versi aspetti legati all’ac-qua, quali ad esempiol’impiego dell’acqua comefonte energetica rinnovabi-le, le interferenze con leinfrastrutture viarie, legrandi opere idrauliche(quali il MOSE e il canaledi Panama), i sistemi diapprovvigionamento idrico(quali la rete di distribu-zione dell’ACEA) e temiconnessi agli estremi idro-logici (piene e alluvioni) ealla Protezione Civile. Oltre che sul campo delladidattica inerente al mon-do dell’acqua, l’Universitàdi Roma Tre è anche impe-gnata sul fronte della ricer-ca scientifica applicata aitemi delle risorse idriche.Le attività di ricerca sonoprincipalmente indirizzatealla comprensione dei fe-nomeni naturali legati alciclo dell’acqua e allo svi-luppo di strumenti operati-vi, quali ad esempio mo-delli matematici, per af-frontare al meglio la ge-stione delle risorse idriche,in tutti gli aspetti a esse as-

sociati (captazione sostenibile, protezione del territo-rio, bonifica di acque contaminate, tutela degli ecosi-stemi etc.). Alcuni di questi problemi sono stati af-frontati nel corso degli anni dal gruppo di ricerca inIdrologia del Dipartimento di Ingegneria.

L’idrologia è la scienza che tratta tutte le fasi dell’ac-qua presenti sulla terra; le sue pratiche applicazioniriguardano importanti aspetti quali la progettazione ela gestione delle infrastrutture idrauliche, la captazio-ne e distribuzione dell’acqua, l’irrigazione e il dre-naggio, la generazione di energia mediante impiantiidroelettrici, il controllo e la mitigazione delle piene,l’erosione e il trasporto di sedimenti, il recupero diacqua contaminata, la tutela degli ecosistemi naturalisensibili al ciclo dell’acqua, per citarne alcuni. L’idro-logia riguarda quindi la distribuzione dell’acqua nelpianeta, la sua circolazione e trasformazione nelle va-rie fasi (liquida, solida, vapore), le sue proprietà fisi-co-chimiche e la sua interazione con l’ambiente nellasua accezione più ampia. Cambiamenti della distribu-

zione, circolazione o delleproprietà fisiche dell’acquapossono avere importanticonseguenze per gli ecosi-stemi naturali, inclusol’ambiente antropico; talicambiamenti possono esse-re sia di origine naturaleche indotti dalle attivitàumane: gli uomini coltiva-no, irrigano e fertilizzano iterreni, disboscano foreste,prelevano acqua dal sotto-suolo o dai corsi d’acqua,costruiscono dighe, scari-

Una quantità rilevante di risorse idriche èdivenuta di fatto inutilizzabile a causadell’inquinamento associato alle attività

antropiche, e principalmente allosversamento di inquinanti di origineindustriale e agricola, nonché ai rilasci

dalle discariche incontrollate

27Esempio dell’elevata eterogeneità frequentemente riscontrata negli acquiferi: distribuzione della conducibilitàidraulica in una sezione verticale dell’acquifero di Columbus (USA)

Schema del ciclo idrologico

cano reflui nei fiumi o nelle falde acquifere, e svolgo-no molte altre attività che possono avere importantieffetti sulla circolazione e disponibilità dell’acqua innatura. Le scienze idrologiche studiano quindi i pro-cessi fondamentali legati al ciclo dell’acqua al fine dimeglio comprendere le dinamiche principali e preve-dere possibili effetti futuri legati a cambiamenti, sianoessi naturali che antropici.

I processi fisici legati al ciclo dell’acqua sono in ge-nere assai complessi, poiché coinvolgono matriciambientali assai diverse tra loro, quali ad esempio ilsottosuolo e i reticoli idrografici, caratterizzate dauna struttura fortemente eterogenea e spesso noncompletamente conosciuta. Tale complessità ha ri-chiesto negli ultimi decenni un notevole impegno daparte della comunità scientifica internazionale, coin-volgendo competenze e metodologie assai diversifi-cate, in un’ottica multidisciplinare. Ciò ha condotto aun notevole avanzamento della ricerca nel settoredell’idrologica scientifica, con uno sviluppo a volteimpetuoso che ha visto negli anni recenti emergerenuove branche della disciplina che trattano temi spe-cifici, quali ad esempio lo studio delle mutue intera-zioni fra l’acqua e i processi ecologici (ecoidrologia),delle interazioni tra l’acqua e gli insediamenti umani(socioidrologia) e la diffusione di epidemie veicolatedall’acqua. Ciononostante, i problemi aperti nellescienze idrologiche sono ancora numerosi, quali adesempio la comprensione e modellazione dei mecca-nismi fondamentali che guidano la trasformazionedella pioggia in deflusso superficiale, il trasporto dicontaminanti nei bacini e nel sottosuolo, l’interazionetra atmosfera-suolo-vegetazione, per citarne alcuni. Il gruppo di ricerca in Idrologia del Dipartimento diIngegneria dell’Università di Roma Tre è impegnatoda anni in alcuni di questi temi di frontiera. Di parti-colare interesse è il tema del trasporto di inquinantinelle acque sotterranee, considerata la loro importan-za nell’approvvigionamento idrico, il loro sovrasfrut-tamento e il diffuso grado di inquinamento oramairaggiunto in numerosi paesi. Il tema è talmente im-portante e diffuso da avere suscitato l’interesse del-l’industria cinematografica Hollywoodiana, che haprodotto negli anni recenti alcuni film di successo(ad esempio A Civil Action e Erin Brockovich con at-tori protagonisti rispettivamente John Travolta e JuliaRoberts) che hanno trattato famosi casi di inquina-

mento delle risorse idriche sotterranee avvenuti negliStati Uniti. L’acqua che filtra nel terreno costituisce un vettoreper le sostanze inquinanti disciolte, che vengono tra-sportate e disperse lungo la direzione principale delmoto filtrante. Quest’ultimo è guidato dalla permea-bilità del terreno, che è in genere estremamente va-riabile nello spazio. Di conseguenza, i percorsi del-l’inquinante nel terreno sono molto articolati e al-l’apparenza caotici e di difficile comprensione, alme-no secondo gli schemi concettuali comunementeadottati. Ciò ha richiesto lo sviluppo di un nuovoparadigma nello studio di tali fenomeni, culminatonella recente disciplina dell’idrologia sotterranea sto-castica. Questa considera la permeabilità come unavariabile casuale spazialmente distribuita, che inducevelocità e traiettorie parimenti casuali ed eterogenee.Le problematiche che emergono da questo tipo dianalisi sono comuni ad altri campi della fisica edell’ingegneria che trattano sistemi complessi e dis-ordinati, come ad esempio la conducibilità termicaed elettrica o la resistenza di materiali compositi.L’approccio stocastico consente di cogliere al megliole complesse dinamiche dei moti di filtrazione e de-gli inquinanti trasportati nel sottosuolo, riuscendonello stesso tempo a spiegare fenomeni che sono statiosservati nel passato ma finora non completamentechiariti, quali ad esempio l’emergenza e l’auto-orga-nizzazione di flussi preferenziali che conducono ra-pidamente l’inquinante verso bersagli sensibili, adesempio pozzi e centri abitati; la ritenzione di inqui-nante per opera di zone caratterizzate da basse velo-cità, che è spesso tra i responsabili dello scarso suc-cesso riscontrato dalle comuni tecniche di bonificadei siti inquinati e la dispersione “anomala” chespesso si osserva nei siti sperimentali e nelle applica-zioni, non facilmente riconducibile a schemi e para-digmi adottati nel passato.

Per concludere, l’acqua è una risorsa di fondamenta-le importanza per l’umanità, e che richiede adeguatepolitiche di gestione. A tale scopo, è necessario in-tensificare ulteriormente le attività di ricerca nel set-tore dell’acqua, adottando nuove metodologie e para-digmi, così da poter sviluppare adeguati strumentioperativi per una corretta gestione e controllo dellerisorse idriche, la tutela degli ecosistemi naturali epianificare politiche per uno sviluppo sostenibile del-le attività antropiche.

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Il gruppo di ricerca in Idrologia delDipartimento di Ingegneria

dell’Università di Roma Tre è impegnatoda anni in alcuni di questi temi di

frontiera. Di particolare interesse è iltema del trasporto di inquinanti nelleacque sotterranee, considerata la loroimportanza nell’approvvigionamentoidrico, il loro sovrasfruttamento e il

diffuso grado di inquinamento oramairaggiunto in numerosi paesi

L’Università Roma Tre, con lacollaborazione dell’Associazione

Idrotecnica Italiana, ha organizzato nelcorso dell’anno accademico 2012-2013 unciclo di seminari intitolato H2.0: acqua inrete a Roma3 con lo scopo di promuovere

la condivisione di conoscenze tra ilmondo della formazione universitaria equello delle imprese, della pubblica

amministrazione e di tutti i soggetti chelavorano nell’ambito delle risorse idriche

Siamo stati sempre abi-tuati alle campagne dirisparmio idrico in am-bito domestico, prestia-mo attenzione all’acquadel rubinetto quando cilaviamo i denti e annaf-fiamo le piante conl’acqua riutilizzata daaltre attività. Sappiamobene quanto sia prezio-sa questa risorsa e sap-piamo che ognuno devesforzarsi di salvaguar-darla.

Ma se scoprissimo che l’acqua che veramente usia-mo ogni giorno per mantenere il nostro stile di vitafosse molta di più di quella che vediamo? Se sco-prissimo che oltre ai 125 litri normalmente utilizzatiogni giorno da ognuno di noi in ambito domestico,ce ne fossero altri 3500 che utilizziamo senza saper-lo? Una tazzina di caffè per arrivare sul nostro tavo-lo ha bisogno di 140 litri di acqua, un uovo 135, e siarriva a 15.500 litri per un chilo di carne di manzo.Stiamo parlando dell’acqua virtuale. L’acqua neces-saria a produrre tutti i beni e i prodotti che consu-miamo. Stiamo parlando di una nuova prospettivacon cui valutare il nostro impatto sull’ecosistemaidrico: l’impronta idrica.Ma cosa sono esattamente l’acqua virtuale e l’im-pronta idrica? Gli ideatori di questi concetti, il pro-fessor John Anthony Allan del King’s College Lon-dra/SOAS e Arjen Hoekstra direttore del WaterFootprint Network, promuovono da anni una mag-giore consapevolezza su questi temi da parte deiproduttori e dei consumatori, dei decisori politici edegli agricoltori, al fine di migliorare l’impatto cheognuno di noi ha sulle risorse idriche mondiali.L’agricoltura è il primo grande settore per consumodi acqua a livello mondiale, e arriva a consumare il70% delle risorse idriche globali, secondo la FAO.Proprio per questo motivo nel 2012 la FAO ha sceltolo slogan «il mondo ha sete perché ha fame» nel ce-lebrare la Giornata mondiale dell’acqua. Sottolinea-re il legame indissolubile che c’è tra il consumo diacqua dolce e la produzione di cibo, cioè tra sicurez-za idrica e sicurezza alimentare, è uno dei primi pas-si da compiere per ottenere una maggiore consape-volezza di “come” consumiamo l’acqua del nostropianeta. La risposta è semplice: la mangiamo.Proprio perché siamo “mangiatori di acqua”, capireil legame che c’è tra le risorse idriche e le nostreabitudini alimentari è fondamentale in un mondoche si trova di fronte a grandi disuguaglianze sia fi-siche che economiche per quanto riguarda la distri-buzione di questa preziosa risorsa. Per fare ciò è ne-

cessario essere consa-pevoli del peso dellanostra impronta idricanel mondo. L’impronta idrica è ilrisultato di molte consi-derazioni. C’è infattil’impronta idrica inter-na ed esterna, entrambedeterminate dai trend diimport ed export di tuttii prodotti e servizi checircolano da e per quelpaese. Questo concettopuò essere applicato alconsumo di un individuo, comunità o paese. Peresempio, l’Olanda ha calcolato che la sua improntaidrica “esterna” proviene da paesi specifici come ilKenya, l’India etc. Di solito non si parla quindidell’impronta idrica “di un prodotto”, ma si usa in-vece il calcolo del contenuto di acqua virtuale di unprodotto. L’acqua virtuale ha 3 componenti: la com-ponente blu – acqua irrigua – la verde – acqua pio-vana – e la grigia – acqua necessaria a diluire gliagenti inquinanti usati durante la produzione. L’ac-qua virtuale che sta a indicare quindi tutta l’acquache è servita a produrre il bene stesso. L’impronta

idrica è invece un indicatore del consumo umano,che ci comunica la provenienza (geografica) e lacomposizione (blu, verde e grigia) dell’acqua consu-mata da un individuo, gruppo, o nazione in un datoanno, sommando tutti i beni e servizi che vengonoprodotti, esportati, importati e consumati da quel-l’individuo o comunità nell’anno stesso. È quindi unindicatore mobile, che varia non solo di anno in an-no, ma anche di mese in mese.I due concetti di acqua virtuale e impronta idrica so-no spesso confusi e usati in modo inter-scambiabile.Semplificando, l’impronta idrica si applica agli indi-vidui (singoli o in gruppo), mentre parliamo di con-tenuto di acqua virtuale per i prodotti. Sempre tor-

L’acqua che mangiamoChe cos’è l’acqua virtuale e come la consumiamodi Francesca Greco e Marta Antonelli

Francesca Greco Marta Antonelli

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Se scoprissimo che oltre ai 125 litrinormalmente utilizzati ogni giorno

da ognuno di noi in ambito domestico, ce ne fossero altri 3500 che utilizziamosenza saperlo? Una tazzina di caffè

per arrivare sul nostro tavolo ha bisognodi 140 litri di acqua, un uovo 135, e si arriva a 15.500 litri per un chilo

di carne di manzo

nando sul fatto che i concetti possono essere usati inmodo diverso, si possono, ad esempio, anche calco-lare le importazioni e le esportazioni di acqua vir-tuale per singola nazione, ma questo non ci daràl’impronta idrica, bensì un numero puro in milionidi metri cubi di acqua. Un elevato contenuto di ac-qua virtuale è, per esempio, localizzato nelle carnirosse da allevamento intensivo, per via dei vari pro-cessi intermedi che consumano molta acqua per nu-trire, tenere pulito e mantenere in vita l’animale. Di-verso l’impatto di un animale invece nutrito con er-ba al pascolo o foraggio non irrigato. I vegetali, ingenerale, per via della presenza di acqua verde inmaggiore quantità rispetto alle carni, sono i cibi dapreferire in una dieta attenta alle risorse idriche delnostro pianeta. Ecco quindi come potremmo traccia-re, alla luce di questi dati, un percorso di sostenibili-tà idrica per i prodotti agroalimentari.

Non tutte le gocce d’acqua sono ugualiPer prima cosa servirà sfatare un mito, o meglio, unproverbio: infatti, se analizziamo la provenienza deinostri cibi, e le acque con cui sono stati prodotti,scopriremo che non tutte le gocce d’acqua sonouguali. Le acque sono diverse poiché diversi sono icontesti in cui vengono utilizzate per la produzioneagricola. Un pomodoro irrigato in Italia da una fonterinnovabile, per esempio da un fiume, avrà un im-patto sull’ecosistema idrico di gran lunga inferiorerispetto a un pomodoro proveniente da una zona de-sertica, irrigato con acqua sotterranea da una faldanon rinnovabile.

Perché mangiare l’acqua degli altri?Dall’analisi dei dati elaborati da Mesfin M. Mekon-nen e Arjen Y. Hoekstra nel 2011, due scienziati delWater Footprint Network, è emerso che il nostro pae-se è il terzo importatore netto di acqua virtuale, dopoGiappone e Messico, seguito da Germania e GranBretagna.Alla luce della globalizzazione del mercato alimenta-re mondiale, è stato ormai completamente divelto illegame tra la percezione del valore dell’acqua e il suovero valore. Nessuno ha idea di quanta acqua servaper produrre un dato prodotto, a meno che non ne siail produttore diretto. Alla luce del commercio globale

di cibo, è evidente che la “de-socializzazione” (Vana-ken 2013) dell’acqua nella nostra cultura è ormai unfattore incontrovertibile. Mangiamo acqua provenien-te da altri paesi, da posti lontani dalla nostra percezio-ne e cultura, e non ne sappiamo il valore e, soprattut-to, la giustizia e l’eticità. È veramente etico mangiareun prodotto irrigato con acqua non rinnovabile del

deserto? Siamo sicuri che le popo-lazioni di quella zona ne abbiamobeneficiato prima di me, consuma-tore del grande “supermercato” glo-bale? Perché mangiamo l’acqua de-gli altri? Come possiamo agire perevitare situazioni paradossali e in-sostenibili?

Cosa possiamo fare noi Come cittadini, la prima mossa, e lapiù importante, è quella di ottenerel’accesso alle informazioni. Unavolta identificato quali sono i pro-dotti che richiedono più acqua, euna volta assodato di che tipo di ac-qua si tratta, sarà naturale adeguarei nostri stili di vita a queste conside-razioni e questo permetterà anche dievitare inutili colpevolizzazioni. Seio mangio carne, mi informerò escoprirò presto che la carne di pollocontiene meno acqua virtuale diquella di manzo. Allo stesso modo,se io volessi proprio mangiare carnedi manzo, opterei per quella alleva-ta al pascolo, che ha un impatto mi-nore sulle nostre risorse, in quanto iprati da pascolo crescono grazieall’acqua piovana e quindi non ven-gono irrigati. E così via.Altro passo fondamentale è attiva-re ed attivarsi per coordinarci con

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È veramente etico mangiare un prodottoirrigato con acqua non rinnovabile deldeserto? Siamo sicuri che le popolazionidi quella zona ne abbiamo beneficiatoprima di me, consumatore del grande

“supermercato” globale? Perchémangiamo l’acqua degli altri?

Angela Morelli © - www.angelamorelli.com

il settore privato nella protezione dell’acqua a livel-lo internazionale. Molto c’è ancora da fare per pro-muovere all’interno delle grandi e piccole aziendeagricole le buone pratiche per la tutela dell’acqua eper la trasparenza sui dati relativi al suo utilizzo.

Alcuni esempi positivi sono quelli delle aziendeagroalimentari Barilla e Mutti, due casi illustrati nelnostro ultimo volume, che ci hanno mostrato comehanno ridotto l’uso di acqua nelle proprie produzio-ni. Nel primo caso, migliorando la tipologia di ac-qua utilizzata, passando dallo sfruttamento di unafalda acquifera in zona arida a una fonte rinnovabilein zona ricca d’acqua in Italia. Nel secondo caso, di-minuendo la quantità di acqua irrigua attraversosonde di rilevamento dell’umidità del suolo, che co-municavano puntualmente quando irrigare non era

necessario. Sono esempi che in Italia dovrebbero es-sere replicati e potenziati.Il terzo livello di obbiettivi è legato indissolubil-mente alla divulgazione e all’educazione: un bambi-no che pianta un seme di lenticchia e lo innaffia incasa, capisce quanta acqua serve per far vivere lasua piantina. Saprà quindi quanta acqua è caduta dalcielo per far crescer le lenticchie che nascono neicampi. Porterà con sè quell’idea nel suo percorso divita e nelle sue scelte di consumo future. La politicadovrebbe promuovere nel settore privato e nellescuole il messaggio della tutela dell’acqua, in tuttele sue forme, comprendendo nel discorso classicoanche quello sull’impronta idrica e sugli stili di vitaalimentari.A livello accademico ci piacerebbe vedere in un fu-turo vicino una cattedra multidisciplinare di Politi-che idriche nelle nostre Università, come già accadenel resto del mondo. L’acqua è per sua natura unsoggetto multidisciplinare, ma poco multidisciplina-ri sono le sedi in cui se ne discute in Italia. Gli idro-logi parlano con gli idrologi, gli ingegneri con gliingegneri, gli economisti con gli economisti, e cosìvia. Lanciando la sfida di iniziare a parlare di acquavirtuale e impronta idrica a livello accademico an-che in Italia, proveremo a raccogliere il più possibileun network di persone che vogliano lavorare a livel-lo multidisciplinare sulla materia acqua, in tutti isuoi significati, dall’antropologia alla meterologia.L’acqua non conosce paesi e confini, e non conoscedivisioni. L’acqua è una e una sola, in tutto il mon-do. Siamo noi ad essere divisi.

In un mondo di risorse limitate porsi degli interrogativiriguardo i nostri stili di vita e i nostri consumi è nonsolo auspicabile, ma anche necessario. L’Italia è il ter-zo paese importatore netto di “acqua virtuale” al mon-do. Cosa significa? Perché è importante parlare di ac-qua e cibo? Per produrre un chilogrammo di pasta sec-ca sono necessari circa 1.924 litri d’acqua. Poco mino-re è l’impronta idrica di una pizza da 725 grammi:1.216 litri. Con “acqua virtuale” si intende proprioquesto: il quantitativodi acqua necessario a produrre cibi, beni e servizi checonsumiamo quotidianamente. Applicando questo con-cetto, scopriremo che consumiamo molta più acqua diquella che vediamo effettivamente “scorrere” sotto inostri occhi. Non riusciamo a percepirla come talesemplicemente perché è acqua che letteralmente “man-giamo”, contenuta in maniera invisibile nel cibo checonsumiamo e che proviene da ogni parte del mondo.L’acqua che mangiamo spiega, con un approccio mul-tidisciplinare, la problematica idrica e le sue implica-zioni economiche, sociali e politiche. Vuole agireidealmente da ponte tra chi svolge ricerca accademicae scientifica e chi si interessa alle grandi questioni del-la sostenibilità ambientale.Offre molteplici chiavi di lettura attraverso il lavorodei più grandi esperti italiani e mondiali. Tra questi se-gnaliamo, per la prima volta pubblicati in Italia, i con-

tributi di Tony Allan, ideatore del concetto di “acqua virtuale” e vincitore dello Stockholm Water Prize 2008,e di Arjen Hoekstra, che ha elaborato il concetto di “impronta idrica” e fondato il Water Footprint Network.(dal risvolto di copertina)

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Angela Morelli © - www.angelamorelli.com

Un bambino che pianta un seme di lenticchia e lo innaffia in casa,

capisce quanta acqua serve per far vivere la sua piantina.

Saprà quindi quanta acqua è caduta dal cielo per far crescer le lenticchie che nascono nei campi. Porterà con sé quell’idea nel suo percorso di vita e nelle sue scelte di consumo

future

Il Dipartimento di Filosofia diRoma Tre, ora trasformatosiin Dipartimento di Filosofia,comunicazione e spettacolo, èimpegnato da sei anni in dueprogetti: la rassegna All’Ope-ra con Filosofia per la diffu-sione della cultura del melo-dramma nelle più giovani ge-nerazioni e, in collaborazionecon il Comitato per l’appren-dimento pratico della musica,il progetto concernente l’alfa-betizzazione musicale (ossial’apprendimento di uno o due

strumenti musicali dai 4 ai 14 anni). Entrambe queste iniziative svolgono un ruolo decisi-vo nella costruzione formativa del futuro. Il significato di “formazione” corrisponde all’espres-sione germanica Bildung, da Bild, “forma”, “imma-gine” e, dunque, “formazione”, “elaborazione” e ca-pacità di elaborare forme. Non è casuale che l’e-spressione Bild (forma, immagine) abbia la stessa ra-dice di Arbeit (“lavoro”), perché anche quest’ultimadimensione presume una capacità elaborativa e for-male per cui il soggetto mutua dalla propria coscien-za le forme attraverso cui trasforma la realtà e la na-tura a sua immagine e somiglianza. Entro quest’otti-ca peculiare, non vi è alcuna differenza tra il progettoche sta a monte del lavoro e quello su cui viene fon-dato il bisogno dell’arte.Centrale in tale tematica èstato il contributo della ri-flessione hegeliana, cheproprio a tale proposito èstato correttamente defini-to, nell’ambito della filo-sofia pratica, come la rivo-luzione copernicana. Ilconcetto di lavoro in quan-to processo di elaborazio-ne di forme presume, daun lato, la tradizione dellafilosofia classica tedesca,l’idealismo trascendentale;e, dall’altro, quella dell’e-conomia nazionale moder-na. In tal modo viene rove-sciato il modo consueto diimpostare il rapporto trapoiesi e prassi. La Bildung (“formazione”)è il risultato di una media-zione fra attività teoreticae pratica e contribuisce asuperare la «riottosa estra-

neità» (Hegel) del mondo esterno esaltando la capa-cità elaborativa dell’uomo-soggetto. Un modello teo-rico di tale portata risulta particolarmente cogenteapplicato alla musica, musica intesa come formazio-ne. In tal caso, la pratica musicale, l’uso o la padro-nanza di uno o più strumenti musicali, diventano, al-lo stesso titolo, indispensabili conoscenze-nozioniteoriche, egualmente essenziali all’idea della forma-zione, della musica considerata come “formazione”.La pratica musicale sta sullo stesso piano delle cono-scenze storiche e teoriche, diventando un momentocentrale per il costituirsi stesso della Bildung.

Il Novecento ha accolto e rielaborato tale intuizione,penso in maniera particolare al capitolo 51 de Ilprincipio speranza di Ernst Bloch in cui, a partiredall’interpretazione del mito ovidiano del dio Pan edella ninfa Siringa, si postula una riabilitazione radi-cale dell’uomo attraverso la pratica musicale conl’uso di strumenti. Il mito narra che il dio Pan, che èsempre stato incline alla sensualità, si era invaghitodella ninfa Siringa e, inseguendola per farla sua, aun certo punto ne aveva perduto le tracce. La ninfa,che sembrava scomparsa per sempre, era stata tra-

«La chiaroveggenza dell’orecchio»L’università e il ruolo formativo della musicadi Elio Matassi

Elio Matassi

Il mito di Pan e Siringa in un dipinto di Pieter Bruegel (1620 c.)

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La musica è il destino della modernità, èil nostro destino, la dissoluzione della

«pura contemplazione»

sformata dagli dèi in un fascio di canne palustri; ildio Pan le raccolse, le plasmò costruendo un primostrumento rudimentale (il flauto, da sempre conside-rato lo strumento musicale primordiale): lo portò al-le labbra, emise un suono dolcissimo grazie al qualeriuscì a salvare il rapporto, ritenuto perduto per sem-pre, con la ninfa scomparsa. Fuor di metafora, il dioPan è nella sostanza l’uomo, un essere per sua natu-ra misero, carente, che però può capovolgere il pro-prio destino grazie alla musica e agli “strumenti”musicali che è in grado di costruire da sé, con leproprie mani. Dunque musica come materia struttu-rale dell’identità umana e non come dono gratuitodegli dèi. Proprio attraverso gli strumenti musicali è possibileredimere la natura misera, segnata dalle privazionidella condizione umana per restituirla a una dimen-sione utopicamente alternativa. Non possiamo atten-derci la salvezza dall’alto, ma, rovesciando la formu-la adottata da Martin Heidegger con un giornalistadello Spiegel, «Solo un dio potrà salvarci», possiamodire: solo noi potremo salvare Dio. Per questo abbia-mo bisogno del mondo dei suoni, della musica, chedovrà prendere il posto di quello delle immagini. Intale «chiaroveggenza dell’orecchio» (Bloch), la mu-sica esiste in una luce diversa, è una rivoluzione cul-turale che i persiani, i caldei, gli egiziani, i greci, gliscolastici, essendo completamente privi di una musi-ca degna di nota, non potevano conoscere. La musicaè il destino della modernità, è il nostro destino, ladissoluzione della «pura contemplazione» (Bloch),costruita su un carattere simbolico ipotecato da una«trascendente incomprensibilità» (Bloch), da una vi-sibilità fuorviante, dietro alla quale, come nella civil-tà egizia, si nasconde la luce estranea dei miti astrali.Il suono, pur permanendo in una condizione allusivae inautentica, non potrà essere identificato con unmero sogno; il suo mistero, il suo grado di simbolici-tà sono sostanzialmente l’eco di noi stessi, che crede-vamo di aver perduto e che, invece, la musica riscat-ta. In ultima analisi, il mistero è concepito non comelontananza, o come indicazione di una realtà comple-tamente diversa, ma come vicinanza, introiezione,ovvero la capacità di tornare ad ascoltare noi stessi. Musica ed espressione umana sono un’unica e mede-sima cosa. Tutta la storia della musica, fino al prero-manticismo, dimostra ampiamente il significato ditale immedesimazione: stanno ad attestarlo il venta-glio vario ed emozionale dei modi greci; le tessituremelismatiche dei vocalizzi allelujatici medievali, chenon hanno funzione ornamentale, ma vanno al di làdelle parole, esercitando una funzione pu-ramente espressiva; così i recitativi di Pe-ri e Monteverdi che riescono a coglierel’espressività dei tropi medievali; ma an-che la polifonia fiamminga che, pur por-tando al massimo grado l’artificio con-trappuntistico, è una verifica flagrante,come riscontrava Lutero, della preminen-za dell’uomo-artista sul materiale. L’equazione musica=espressione umanaera stata già anticipata genialmente neldattiloscritto viennese del 1930, di Gün-ther Anders-Stern, Ricerche filosofichesulle situazioni musicali, in cui la musica

veniva definita come musica dell’uomo per eccellen-za, l’unica ad avere la possibilità di trasformare lanatura dell’uomo: ciò può avvenire attraverso la pra-tica degli strumenti musicali, la pratica vocale – lavoce dell’uomo è libera, è proiezione-esternazione dilibertà, è l’attualità del modo specificamente umanodi esprimere la liberazione interiore –, la praticadell’ascolto che determina qualità e spessore delle“situazioni musicali”. L’insistenza sulla pratica musicale aveva trovato,sempre agli inizi degli anni Cinquanta, una sistema-zione parallela a quella di Ernst Bloch nell’antropo-logia della musica di Helmut Plessner, che ha il co-raggio intellettuale di formulare il passaggio dalla fi-losofia della musica all’antropologia della musica.Proprio perché l’uomo fa parte degli esseri che pro-ducono suoni è legittimo parlare di antropologia del-

la musica: «Ciò che gli è negato in rapporto a luce ecolori gli è consentito nei suoni. Egli può sfogarsicon un grido inarticolato o con un suono vocale(Laut) articolato o con un suono musicale (Ton) for-mato. In questa esternazione, in questo scaricare unatensione interna mediante un movimento, l’individuospacca lo strato in cui si sente limitato rispetto almondo esterno estraneo» (Plessner). La pratica musicale (strumentale, vocale, dell’ascol-to) porta in tal modo a compimento la sua legittima-zione teorica. Mentre la materia ottica deve esserenecessariamente vissuta nell’estensione, quella acu-stica viene esperita attraverso il “volume”: le sueoscillazioni di intensità, in quanto oscillazioni di vo-lume, appaiono dilatate in ogni direzione, anche inquella della perdurante prosecuzione nel tempo.Günther Anders-Stern, Ernst Bloch, Helmut Plessnertracciano in maniera circostanziata il rapporto musi-

ca-espressione umana, valorizzando almassimo le varie pratiche musicali. L’interpretazione hegeliana della Bildung,non raccolta dalla tradizione del neoidea-lismo italiano (Croce e Gentile), tieneconto della rilevanza della “pratica” nellacostruzione del processo formativo; e sul-l’importanza di tale acquisizione concor-dano in larga misura tanto la filosofia chela musicologia del Novecento.Questa ricostruzione dimostra in manierainequivoca che la nostra tradizione musi-cale rappresenta un punto di forza dell’i-dentità nazionale. 33

Musica ed espressione umana sonoun’unica e medesima cosa. Tutta la storiadella musica, fino al preromanticismo,dimostra ampiamente il significato ditale immedesimazione: stanno adattestarlo il ventaglio vario ed

emozionale dei modi greci; le tessituremelismatiche dei vocalizzi allelujatici

medievali, i recitativi di Peri eMonteverdi, la polifonia fiamminga

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Nel mondo analogicol’arrivo di una nuovamacchina (un frullatore,un trapano elettrico) eraaccompagnato da unponderoso libretto diistruzioni, con schemi edisegni, redatto in varielingue. L’utilizzatore di-ligente lo leggeva concura e poi, con l’aiutodel testo, collegava laspina A alla presa B equesto permetteva al-l’apparecchio di girare

vorticosamente alla velocità selezionata ruotandol’interruttore C. Un’appendice riguardava i problemiriscontrabili, dividendo accuratamente quelli che l’u-tente poteva risolvere da solo e quelli per cui dovevadi rigore rivolgersi a un centro assistenza autorizzato.Adesso nessuno legge le istruzioni dello smartphone.Si applicano le conoscenze acquisite manipolandoprecedenti generazioni di telefonini; si procede pertentativi ed errori, qualche volta apprendiamo per ca-so nuove funzionalità. Siamo consapevoli di utilizza-re l’apparecchio all’1% delle sue potenzialità, ma ètroppo faticoso impararle tutte. Spesso ci soccorre ilconsiglio di un amico, più spesso ancora qualche ra-gazzino che intuitivamente apprende, da nativo digi-tale, ciò che sfugge a chi è nato in tempi analogici.Magari un tutorial su YouTube ci mostra in videoquello che ci serve.Se lo smartphone si rompe sono guai. I pessimisti ticonsigliano subito di comprarne uno nuovo (del restoha già due anni, etàconsiderata pensio-nabile) ma il prezzoproibitivo ti fa riflet-tere. Il negozio chete l’ha venduto faparte della rete di unoperatore telefonico,magari ha cambiatogestione o marchio ecomunque la perso-na con cui parlastiall’epoca sarà giàstata spostata o li-cenziata in qualcheennesima ristruttura-zione. Quella con cuiparli adesso non simostra particolar-mente interessata altuo problema – vistoche rifiuti di compra-

re un apparecchio nuovo – e comunque, questo è evi-dente, ne sa quanto te. Il centro assistenza general-mente è collocato in località remote e irraggiungibili ela coda di clienti in attesa è lunga. Probabilmente chiti soccorrerà è il ragazzino cinese in un piccolo nego-zio pieno di componenti elettronici.

Imparare dunque segue percorsi molto diversi daquelli dell’epoca analogica. Sono i sentieri pragmaticidel consiglio amicale, della relazione di prossimità,del tutorial in video, del forum sul web. C’è qualcunoche sa come si modifica il controllo ortografico suglisms dell’iPhone? E come si curano i dolori articolarisenza ricorrere al cortisone? E a chi rivolgersi per rin-novare la patente? Per ciascuno di questi casi, e per

mille altri ancora, cisono forum in Inter-net nei quali personeche volontariamentee senza ricevere nul-la in cambio (l’“eco-nomia del dono”) tidanno dei consiglipiù o meno inatten-dibili, dei quali altriutenti discutono l’u-tilità, oltre ad agen-zie, negozi, operato-ri che colgono l’oc-casione della tua do-manda per proporrea pagamento i loroservizi.Questi piccoli esem-pi dimostrano che leagenzie istituzionalidell’epoca analogica

Digital decideLe avventure della conoscenza e della didattica nell’era digitaledi Enrico Menduni

Enrico Menduni

Nel mondo analogico l'arrivo di unanuova macchina (un frullatore, un

trapano elettrico) era accompagnato daun ponderoso libretto di istruzioni cheinsegnava come collegare la spina A alla

presa B. Adesso nessuno legge leistruzioni dello smartphone. Si procedeper tentativi ed errori, qualche volta

apprendiamo per caso nuovefunzionalità. Siamo consapevoli di

utilizzare l'apparecchio all'1% delle suepotenzialità, ma è troppo faticoso

impararle tutte

sono doppiamente scavalcate: da un circuito di rela-zioni di prossimità, spesso informali, e dal suo equi-valente in Internet, superando distanze e reti relazio-nali faccia-a-faccia e cortocircuitando la relazione frachi chiede e chi dà, con una asimmetrica reciprocità.Questo avviene anche per le agenzie formative, lascuola e l’università.Oggi noi, ma anche i nostri allievi e anche i bambinipiccolissimi, siamo sottoposti a tanti stimoli diversi,che sono in concorrenza con quelli delle agenzie for-mative istituzionali. Il problema non è nuovo, e risaleall’avvento della comunicazione di massa attraversoi media; i media però erano unidirezionali, generali-sti, costituivano loro stessi una istituzione con laquale si potevano istituire rapporti diplomatici, di co-operazione e competizione a seconda dei casi. Inter-net ha compresso lo spazio della comunicazione uni-direzionale dei media istituzionali del Novecento(broadcasting) a favore di una comunicazione molti-a-molti, a carattere non solo alfabetico ma anche au-diovisivo, che ci raggiunge in ogni momento grazieallo smartphone di cui prima parlavamo, più i tablete i computer laptop, e che mette a nostra disposizio-ne immense quantità di informazioni accedendo astraordinarie banche dati.

Ne abbiamo conosciuto molti lati positivi, per noi eper gli studenti, che basta riassumerli: addio al viag-gio nella città lontana, nella cui biblioteca c’è (forse)il libro che ci interessa, perché ora quel catalogo èonline e probabilmente Google Books, l’Opac degliOpac (il catalogo dei cataloghi delle biblioteche),Wikipedia o Amazon ci dicono molto di più. Addioall’enciclopedia cartacea, fine delle lunghe ricerchedi una clip o di un fermo immagine di qualche remotofilm muto o classico o comunque sparito dai mercati,e ora reperibile tranquillamente in rete senza usciredal proprio ufficio. Possibilità di contattare immedia-tamente grandi folle o piccoli gruppi attraverso i so-cial network e, per comunicazioni dedicate, la postaelettronica. Accesso immediato a milioni di documen-ti, rapporti, notizie, fotografie: i tradizionali problemiinvestigativi della ricerca si mutano adesso in unaquestione di scelta del materiale da utilizzare e di cer-tificazione della sua attendibilità, anche rispetto allecensure che la rete compie e al privilegio delle cultureanglosassoni e, in generale, dei più forti. Non si tratta però solo di questo. Il nativo digitalespesso pensa che è inutile imparare una cosa, un con-cetto, una data, quando al bisogno si può immediata-mente accedere ad una fonte di conoscenza. È un er-rore, ma non è semplice confutarlo in termini com-prensibili all’allievo. Il nativo digitale rifiuta spessodi imparare qualche cosa se non è legato ad una“esperienza”, a un “evento”. Ricordo una delegazionedi siciliani a Roma, che ammiravano stupiti un qua-dro di Antonello da Messina ignorando o dimentican-

do che la collocazione normale di quel quadro è mol-to vicina a loro, nel piccolo Museo Mandralisca diCefalù. Antonello prendeva corpo solo quando era as-sociato ad un evento (la mostra, il week-end a Roma)ricordabile e raccontabile come tale. Ma vedo anchel’emozione di studenti chiamati a fare qualche cosa

(ad esempio, fare una lezione ai loro colleghi, con laguida del docente) piuttosto che la fatica di seguireuna lezione cattedratica. Penso spesso alla prima vol-ta in cui la mia memoria pre-Alzehimer fece difetto, eproprio non ricordavo a lezione il nome dello studio-so, da me amatissimo, che aveva coordinato il RadioProject a Princeton nel 1938-41... vedo ancora il tic-chettare delle dita sulle tastiere dei computer e dei ta-blet e il coro degli studenti: «Paul Lazarsfeld!». Non sapevano nulla di Lazarsfeld, della nascita dellemetodologie quantitative nell’analisi dei media, dellesue discussioni con Theodor Adorno nelle pizzeriedel New Jersey, e tuttavia Wikipedia e Google in dueminuti li avevano forniti di questo dato, assolutamen-te inutile (dico io) se privo di un contesto, di una va-lutazione sull’importanza di quelle discussioni inpizzeria rispetto a milioni di altre e più futili conver-sazioni davanti e due pizze. È difficile però dire chela conoscenza di questo dato è inutile, o meglio in-sufficiente, proprio a coloro che ti hanno aiutato.

La questione centrale è quella di motivare la necessi-tà dell’apprendimento nell’epoca dell’indifferenziatae indiscriminata circolazione di informazioni, di im-mediato accesso ma di attendibilità da verificarsi ca-so per caso. Una riproducibilità enhanced, allargata,dell’informazione in cui spesso si perde la gerarchia,il collegamento tra le informazioni e la loro rilevanzaai fini della costituzione di concetti astratti. Il ruolo del docente si sposta, questo è indubbio.Spesso chiacchierando con i colleghi viene discusso 35

Internet ha compresso lo spazio dellacomunicazione unidirezionale dei media

istituzionali del Novecento(broadcasting) a favore di una

comunicazione molti-a-molti, a caratterenon solo alfabetico ma anche

audiovisivo, che ci raggiunge in ognimomento

Accesso immediato a milioni didocumenti, rapporti, notizie, fotografie: itradizionali problemi investigativi della

ricerca si mutano adesso in unaquestione di scelta del materiale dautilizzare e di certificazione della sua

attendibilità, anche rispetto alle censureche la rete compie e al privilegio delleculture anglosassoni e, in generale, dei

più forti

Imparare dunque segue percorsi moltodiversi da quelli dell'epoca analogica.Sono i sentieri pragmatici del consiglio

amicale, della relazione di prossimità, deltutorial in video, del forum sul web

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l’aspetto “poliziesco” di questa trasformazione: esa-mi scritti in cui gli studenti accusano improvvisi do-lori di pancia e tornano dalla toilette dopo aver ac-quisito via smartphone tutti i dati necessari, riassuntidei libri e tesi intere che circolano su internet insie-me alle domande più ricorrenti nelle interrogazioni;tesi di laurea fatte con il copia-e-incolla, magari daappositi istituti e dietro pagamento. Ma che senso ha,oggi, impartire compiti scritti a mano su foglio pro-tocollo a persone che domani dovranno lavorare escrivere in condizioni diverse, con un computer da-vanti?Al di là di questo, probabilmente il ruolo del docentesta cambiando. È più un allenatore che un conferen-ziere. Si presume che il conferenziere sappia, sull’ar-gomento, molto di più del suo pubblico. L’allenatoredel campione di nuoto sta a bordo piscina, impartisceconsigli, critiche, rimproveri, ma è chiaro che se sibuttasse in acqua per gareggiare con il suo allievo,arriverebbe secondo. L’allievo è più giovane, forte ebravo. L’allenatore gli cede la sua esperienza, la suacapacità tattica (cioè relazionale), il suo metodo.Inoltre, e non è poco, lo conforta nei momenti di cri-si, gli è amico, lo sta ad ascoltare nei pomeriggi tesialla vigilia delle gare. Se poi parliamo di uno sportnon individuale (il calcio, ad esempio), l’allenatorefa funzionare il gruppo, interviene sulle piccole riva-lità, attribuisce a ciascuno un ruolo. Anche questodeve fare l’insegnante.II suo ruolo non è mai stato indiscutibile, perché la

funzione docente non è mai statamonopolio delle istituzioni formati-ve, ma sempre svolta anche dallasocietà nel suo complesso, diretta-mente o indirettamente, o da altreistituzioni a cominciare dalla fami-glia. Tuttavia oggi tale ruolo è an-cora più discutibile di sempre. Co-me sempre, chi non sa adattarsicreativamente all’innovazione, percavalcarla, dominarla, imprimerleil suo proprio segno, è destinato aduna contrazione del suo ruolo. Vor-rei concludere questo scritto indi-cando alcuni aspetti delle trasfor-mazioni in atto.a) Il mercato della formazione saràsempre più globalizzato. Alla vir-tuosa competizione e cooperazionescientifica si affiancherà la concor-renza tra le università di tutto ilmondo per reclutare studenti e il la-voro di ciascuno sarà valutato se-

condo parametri internazionali.b) Alla formazione istituzionale si aggiungerà unavasta gamma di occasioni formative (master, sum-mer school, corsi di perfezionamento, full immer-sion etc.) in tutto il mondo costituendo un secondomercato in cui sarà obbligatorio esistere per ogniistituzione formativa che voglia sopravvivere.

c) Forme di istruzione a distanza, totali o meglio an-cora miste fra web e presenza, si diffonderannosempre più anche per il loro carattere multita-sking, offrendo una formazione sovrapponibile adaltre attività, al lavoro, alle necessità della vitaquotidiana.

d) Videolezioni sono e saranno sempre più disponibi-li, vendute come app, scaricabili a pagamento o informa gratuita; l’insegnante sarà quindi in diretta oindiretta concorrenza con i grandi nomi interna-zionali della sua disciplina.

e) I libri saranno sempre più e-book e, in parte, offi-cine permanenti in cui il manuale è in continuo di-venire e gli studenti potranno scaricare gli aggior-namenti come per qualunque altro software.

f) La semplificazione in atto della videoconferenzaconsentirà di costituire classi composte di personedislocate in istituzioni formative diverse oppure acasa loro.

Si tratta dunque di sfide enormi. La più importante, distraordinario valore umanistico, è quella di convince-re le persone ad uno studio non solo tecnico e non so-lo professionale, ma astratto e concettuale, in un mon-do dominato da eventi e rappresentazioni in cui i con-cetti ci sono ma nascosti, embedded, difficili da co-gliere... soprattutto da parte degli ignoranti. Ma senzai concetti, occorre ricordarlo, non c’è eccellenza.

Non sapevano nulla di Lazarsfeld etuttavia Wikipedia in due minuti li avevaforniti di questo dato, assolutamenteinutile (dico io) se privo di un contesto

Una classe di prima media nel Comune di Trequanda (SI), dove tutti gli studenti a partire daquest’anno saranno forniti di un tablet, giudicato dalla dirigente scolastica uno strumento indi-spensabile per ogni attività di ricerca e documentazione.

Ricordo la prima volta in cui la miamemoria fece difetto e proprio nonricordavo a lezione il nome dello

studioso, da me amatissimo, che avevacoordinato il Radio Project a Princetonnel 1938-41... vedo ancora il ticchettaredelle dita sulle tastiere dei tablet e il coro

degli studenti: «Paul Lazarsfeld!».

Questa parte del mondoche, con José Martí, pre-feriamo chiamare Nue-stra América, è protago-nista di uno straordina-rio quiebre cultural, unmomento di frattura cul-turale, un fruscio inedito– che si manifesta spes-so in maniera silenziosa– un altro tempo, che ciinduce a mettere in ten-sione il pensiero per en-trare nelle complessitàdella sua trama. Questo

quiebre, questa frattura, questo fruscio, ha creato unacrepa nel cuore della narrazione colonizzatrice, nelmidollo dell’episteme coloniale. Non ci soffermeremoqui sulle trasformazioni politiche, sociali, economichee culturali degli ultimi dieci anni che confermano que-st’affermazione. Avremo scelto altre considerazioni,forse non meno stimolanti. L’irruzione di questo tempo nuovo è un tutt’uno conil ritorno al centro della scena sociale degli invisibilidella storia che recuperano, in questa, il proprio po-sto. Lo fanno da una prospettiva politica, quella pro-spettiva intenzionalmente accantonata dal discorso

neoliberale, che tendevaa nascondere la propriapretesa totalizzante e lapropria fatalità inelutta-bile. Oggi assistiamo aldeclino impietoso deipresupposti delle teorieneoliberali e i suoi as-sertori devono fare iconti con quello stru-mento fondamentaledella costruzione demo-cratica, sollevato daglisconosciuti della storiache ora fanno palpitarele proprie voci. È qui che è evidente in quale misurae con quale profondità la crisi mondiale segnala la fi-ne di un’epoca che, non poteva essere diversamente,è anche la fine delle certezze fragili che hanno(de)nutrito l’agenda (im)politica del più recente pas-sato: fine della storia, globalizzazione, villaggio glo-bale. La società dello spettacolo vede cadere, senzapoterlo ancora ammettere, i suoi sofisticati circuiti dicontrollo.La narrazione neoliberale, con le sue designazioni eil suo vocabolario (frutto della dittatura militare e delConsenso di Washington) passano ora ad occupare

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Una grammatica nuova per un tempo nuovoUniversità, politica e nuovi dirittidi Leticia Marrone e Carlos Zelarayán

Carlos ZelarayánLeticia Marrone

un posto di secondo piano. I popoli di questo Sud delmondo pronunciano ora altre parole la cui potenzatrasformatrice nomina il tempo in cui viviamo, comecondizione non negoziabile del tempo futuro: popolioriginari, matrimonio egualitario, dittatura civico-mi-litare, bene comune, colonialismo, divario digitale eculturale. Sono tornati nell’arena pubblica concettipolemici, ovvero, nozioni vive di un tempo altro:Stato, populismo, popolo, patria, sovranità, militan-za, revisionismo, battaglia culturale, sviluppo, auto-

determinazione, espropriazione etc. In questa disputasul “modo di nominare” (e di pensare e di sentire e dicreare) il mondo, si è aperta una breccia in un passa-to forzatamente chiuso – un gesto decisamente politi-co, secondo Walter Benjamin – per liberare sensi se-polti e voci silenziate, ma anche per produrre nuovegrammatiche decolonizzanti.Riconoscere la posizione dominante dei gruppi me-diatici e denunciare le loro strategie che cercano di(re)imporre un discorsoegemonico (bombarda-mento sistematico, mani-polazione, campagne didiffamazione, imposizionedell’agenda, occultamentodi informazione etc.), nonsignifica, in nessun modo,sottoscrivere le teoriecomportamentiste dell’ini-zio del XX secolo, né ade-rire al funzionalismo siste-mico e neanche pensare lacomunicazione come unasorta di “ago ipodermico”che si inietta a soggettipassivi/macchine riprodut-tori. Ci sentiamo eredi,piuttosto, delle analisi del-la Scuola di Francofortesulla “società amministra-ta”, i meccanismi della ra-zionalità tecnica, l’omoge-neizzazione, la costruzionedei “tipi” e la produzionein serie di merci comuni-cative e culturali. La mac-

china dell’industria culturale finisce per modellare lepercezioni, atrofizzare l’immaginazione e inibire lariflessione critica. Come segnalavano i teorici criticidi Francoforte, tuttavia, nessuna logica di dominio ri-esce a dissimulare, con sufficiente efficacia, la tramacostitutiva delle proprie violenze coattive. Ed è inquelle fessure non mascherabili che si collocano, ap-punto, i primi balbetti della nuova grammatica. Per la prima volta nella Nuestra América siamo ri-usciti a mettere in discussione tutto: la politica, ladistribuzione della ricchezza, il debito estero, il ruolodelle banche centrali, il monopolio mediatico, il po-tere giudiziario, il colonialismo, il ruolo degli Stati,le politiche sociali e ambientali etc. Forse è questo ilsuccesso più significativo degli attuali governi lati-noamericani: avere sfidato, dalla parte delle istituzio-ni democratiche, il potere del capitale concentrato eposto l’attenzione della società sulla necessità di unarevisione critica di tutti quei (pre)supposti del discor-so unico del neoliberismo. In questo contesto, appena tratteggiato, abbiamoscelto di riferirci ad un aspetto del quiebre cultural diquesto tempo inedito particolarmente interessanteche è anche un elemento chiave nello straordinarioampliamento dei diritti che è possibile registrare nel-l’ultimo decennio della storia politica, sociale e cul-turale dell’Argentina. Parliamo della Legge 26206 diEducación Nacional, promulgata il 14 dicembre2006. In questa legge si precisa che l’educazione e laconoscenza sono una priorità nazionale e un benepubblico e un diritto personale e sociale, che devonoessere garantiti da uno Stato che intenda costruireuna società giusta, riaffermare la sovranità e l’identi-tà nazionale, approfondire l’esercizio della cittadi-nanza democratica, rispettare i diritti umani e le li-bertà fondamentali e rinforzare lo sviluppo economi-co-sociale della nazione. L’articolo 16, in particolare,stabilisce che l’obbligo scolastico va dall’età di cin-

que anni fino al terminedel ciclo di educazione se-condaria comprendendoquindi dodici anni com-plessivi di scolarizzazione.Questo è un punto chiave,di strategico peso cultura-le. Solo quando l’educa-zione secondaria è un ob-bligo, l’educazione univer-sitaria può essere pensatacome un diritto. Anche sein questi anni la prospetti-va di ampliamento dei di-ritti dei cittadini è statauna priorità nell’agendapubblica, l’educazione su-periore non ha ancora ride-finito a pieno il proprioprofilo per, tra altre cose,garantire il vero eserciziodi un diritto che mette indiscussione una lunga tra-dizione elitista. Il sistemauniversitario argentino haancora una grande sfidadavanti.

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Per la prima volta nella Nuestra Américasiamo riusciti a mettere in discussionetutto: la politica, la distribuzione dellaricchezza, il debito estero, il ruolo dellebanche centrali, il monopolio mediatico,il potere giudiziario, il colonialismo, ilruolo degli Stati, le politiche sociali e

ambientali. Forse è questo il successo piùsignificativo degli attuali governi

latinoamericani: avere sfidato, dallaparte delle istituzioni democratiche, il

potere del capitale concentrato

Nel contesto più generale del sistema universitarioargentino, dal 2003 sono state create nove nuove uni-versità e, tra queste, quelle che si trovano nel conur-bano bonaerense (il cordone di agglomerati urbani

che sorgono attorno alla Ciudad Autonoma de Bue-nos Aires), sono sorte con una dinamica diversa: ov-vero con una esigenza ontologicamente incisa nelleproprie origini: garantire ai cittadini un diritto. Que-sto è certamente il caso della Universidad Nacionalde Avellaneda. Si tratta di un cambiamento sostan-ziale: iniziare a pensare l’educazione in generale, el’educazione universitaria in particolare, come undiritto. In questo sta la potenza rivoluzionaria di unpensiero autenticamente democratico. Cerchiamo dirimuovere dal cuore di quel “campo di battaglia” co-stituito dalla cultura e dalla lingua, parole come effi-cienza, rischio paese, deficit fiscale, indicatori diqualità, vendita di servizi etc. Oggi quando pensia-mo la politica e la democrazia lo facciamo in chiavedi democratizzazione, in termini di conquista e ap-profondimento di diritti. Un dato significativo: l’85 per cento degli studentidella Universidad Nacional de Avellaneda sono laprima generazione di studenti universitari nelle pro-prie famiglie. È sufficiente per dare un’idea. Pensare la politica in termini di diritti, d’altro canto,ci sollecita a pensare in modo diverso il posto cheassegniamo allo Stato nella nostra riflessione sullapolitica. In effetti lo Stato diviene così la condizionenecessaria e il garante di quei diritti. Ci inscriviamo,in sintesi, nel cuore della grande tradizione repub-blicana. Nel caso dell’educazione, e dell’educazioneuniversitaria in particolare, si tratta di un punto dienorme rilevanza. Cambia, tra le tante cose, la rap-presentazione che l’università ha di se stessa. Le eli-te (clericali, di go-verno, di professio-nisti, accademiche)che la hanno abitatanon si erano forsemai poste fino adora questa sfida po-tenzialmente rivolu-zionaria. Crediamoche, probabilmenteper la prima volta,l’università in Ar-gentina si pensa co-me un organismo diun corpo più grandeche è lo Stato, inca-ricato di garantire idiritti dei cittadini,di vegliare affinchéquei cittadini abbia-no, tra gli altri, queldiritto specifico cheè il diritto allo stu-dio.

Ora questo scenario inedito ha bisogno di una con-vinzione maggiore, che deve ancora essere conqui-stata in tutta la sua potenza trasformatrice, da partedi due attori centrali e decisivi: gli insegnati e glistudenti. Oggi ci troviamo in questo guado. Ogni te-sto, ogni narrazione, ogni racconto presuppone, ne-cessaria e inevitabilmente, una selezione, un taglio,una prospettiva, uno sbieco. Anche questo ovvia-mente. Diversamente, dovremmo ammettere – hege-lianamente – un’identità tra le parole e le cose. Enon è questo il nostro proposito qui.Abbiamo voluto in ogni caso offrire uno spunto diriflessione su un tema che consideriamo di granderilevanza e significato. Un incentivo, magari, ad ap-procciarlo in tutta la sua profondità e in tutta la sua

possibile evoluzione. Lo facciamo dal più stimolantee sfidante scenario: quello della creazione di un’uni-versità statale, pubblica e gratuita come l’Universi-dad Nacional de Avellaneda, che accetta anche lasfida di porsi come una università popolare, ovvero,la più alta accezione di eccellenza accademica. Lofacciamo stimolati dalla vertigine che emerge conforza da uno scenario inedito, una vertigine di cui cinutriamo e che però ci chiede una attenzione parti-colare: la necessità di soffermarci a pensare. É unpiacere farlo tra le pagine di una prestigiosa rivistache accoglie, con una generosità che ringraziamo,queste riflessioni sudamericane.

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Nel contesto più generale del sistemauniversitario argentino, dal 2003 sonostate create nove nuove università e, tra

queste, quelle che si trovano nelconurbano bonaerense, sono sorte conuna esigenza ontologicamente incisanelle proprie origini: garantire ai

cittadini un diritto

Solo quando l'educazione secondaria èun obbligo, l'educazione universitariapuò essere pensata come un diritto

Oscar NiemeyerIl Novecento tra architettura e ideologiadi Michela Monferrini

A poche persone riescedi attraversare il mondoe insieme il tempo, na-scendo all’inizio di unsecolo e andandosenenegli anni Dieci del suc-cessivo; tra quelle pochepersone c’è sicuramentel’architetto brasilianoOscar Niemeyer, natonel 1907 e scomparsonel 2012, viaggiatore neltempo e nello spazio, uo-mo del Novecento aiquattro angoli del piane-

ta. Non solo: perché a lui è toccato il privilegio di dise-gnare quello spazio, con costruzioni artistiche che nehanno spesso fatto parlare come di uno “scultore diedifici”, e lo hanno portato a frequenti attacchi controla mancanza di utilitarismo delle sue costruzioni. Niemeyer cominciò unendo la tradizione al nuovo,inaugurando tra gli anni Trenta e i Quaranta lo stile mo-dernista europeo, riconosciuto “primo stile nazionale

della moderna architettura”: pensava che ogni edificiodovesse essere figlio del luogo che lo avrebbe ospitato.A Rio, per il Ministero dell’Educazione e della Sanitàpubblica – oggi grattacielo Gustavo Capanema –, chia-mò a raccolta vari artistibrasiliani (su tutti RobertoBurle Marx, architetto pae-saggista che nei suoi giardi-ni tropicali univa la scienzadella botanica all’arte), uti-lizzò azulejos della culturaportoghese, elementi di ar-chitettura coloniale, piantetipiche brasiliane. Il dialogocon la natura, la ricercatezzadelle linee, la flessuositàdelle forme, la ricerca dellealtezze (Niemeyer è stato ilpiù grande teorico ed esti-

matore del grattacielo) già presenti in questo progetto,sarebbero rimaste il tratto distintivo della sua architettu-ra anti-razionalista. Inoltre, già si intravedeva la rivolu-zione che avrebbe operato nell’impiego di materiali co-me il cemento armato, quasi riuscendo nella sfida diconferirgli nuove proprietà, spingendone le potenzialitàfino all’estremo, facendo dialogare in accostamenti ar-diti materiali pesanti e leggeri.L’impegno politico di Niemeyer non fu argomento se-condario (Fidel Castro un giorno avrebbe detto: «Nie-meyer e io siamo gli unici veri comunisti rimasti»).Già dalla seconda opera, la Chiesa di san Francescod’Assisi di Belo Horizionte, terminata nello stesso an-no della sede ministeriale di Rio, si accesero i fuochidella critica: per la forma scelta, non consueta per unachiesa (motivo per cui non venne consacrata per quasivent’anni), ma soprattutto per i murales affidati a un al-tro artista brasiliano, il pittore “impegnato” e appassio-nato di arte italiana Candido Portinari, raffiguranti ilCristo dei poveri, degli emarginati e dei diversi.Seguirono gli Stati Uniti, seguì New York, il progettodel quartier generale delle Nazioni Unite in collabora-zione con Le Corbusier, con la complicazione di doverlavorare spesso a distanza per le difficoltà incontratenell’ottenere il visto (ancora a causa della sua apparte-

nenza al Partito Comuni-sta). Ma seguirono anchenumerose altre opere in tut-to il Brasile, fino ad arrivareal sogno di una città intera,una città nuova, una capita-le nuova per il Paese, l’uni-ca città al mondo costruitainteramente nel XX secolo:Brasilia, progettata inoltrein una zona depressa delBrasile, distante da ogni al-tro centro rilevante e chedunque potesse fare da cen-tro connettore del territorio

Michela Monferrini

Oscar Niemeyer

Oscar Niemeyer, nato nel 1907 escomparso nel 2012, viaggiatore nel

tempo e nello spazio, uomo delNovecento ai quattro angoli del pianeta.

Non solo: perché a lui è toccato ilprivilegio di disegnare quello spazio, con

costruzioni artistiche che ne hannospesso fatto parlare come di uno

“scultore di edifici”

A Rio, per il Ministero dell’Educazione edella Sanità, chiamò a raccolta vari

artisti brasiliani, utilizzò azulejos dellacultura portoghese, elementi di

architettura coloniale, piante tipichebrasiliane. Il dialogo con la natura, laricercatezza delle linee, la flessuositàdelle forme, la ricerca delle altezze giàpresenti in questo progetto, sarebberorimaste il tratto distintivo della sua

architettura anti-razionalista

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nazionale e da nuovo polo industriale e d’occupazione.Brasilia ha la forma di un arco, o meglio d’un aeropla-no (ma la pianta è di progettazione del maestro di Nie-meyer, Lucio Costa). Niemeyer si occupò di progettaregli edifici, quelli comuni e quelli governativi (nel pa-lazzo presidenziale, nel 2012, si sarebbero svolti i suoifunerali) e la Cattedrale, dove particolarmente evidentediventa quella ricerca del cielo di cui s’è detto, ancheper la capacità di illuminazione naturale dell’interno.L’impegno in campo comunista di Niemeyer e Costaguidò anche la progettazione della città (lo stesso annodell’inaugurazione l’architetto ricevette dall’UnioneSovietica il Premio Lenin per la Pace): non ci sarebbe-ro state (almeno nella teoria) zone per benestanti e zo-ne popolari; tutto sarebbe stato omogeneo, pensato ap-positamente per i lavoratori e le loro famiglie e affidatoagli enti governativi.Nonostante i soli quattro anni impiegati a progettare,costruire e inaugurare l’intera città, Brasilia testimoniala grande vitalità e operosità di Niemeyer in età avan-zata: nel 2006, quando l’architetto aveva novantanoveanni, la città venne arricchita da un paio di suoi edifici,il Museo e la Biblioteca Nazionale (del resto, tra leopere della terza età, spiccano alcuni capolavori comeil Museo di Arte Contemporanea di Niterói). Seguironoimpegni in Israele, in Francia, in Algeria, in Italia (pro-gettò la sede dellacasa editrice Monda-dori, a Segrate), inMalesia. Gli anni dei viaggi(due decenni, in real-tà), sono in realtà glianni dell’esilio, cor-rispondendo al perio-do della dittatura mi-litare in Brasile,quando a Niemeyersarebbe stato impos-sibile lavorare nelPaese: subito dopo ilcolpo di stato, l’ar-chitetto era stato al-lontanato dall’am-biente accademico, ilsuo studio distrutto,le sue opere criticatefortemente. Sarebbetornato nel 1985,continuando però fi-no al termine dellasua vita a viaggiare eprogettare in giro peril mondo.Ancora oggi, attra-verso l’opera di Nie-meyer vengono postiinterrogativi chestanno alla base dellostudio dell’architettu-ra: che ruolo ha l’e-stetica? E la funzio-nalità, è sempre pre-ponderante? In cherapporto stanno le

due cose? Fotografando un edificio di Niemeyer spes-so ci si accorge di come vi si rifletta il cielo, e di comele linee stiano in armonia con il paesaggio naturale ourbano circostante. L’architettura smette allora di esse-re pensata, come spesso accade in tempi più recenti, di-sciplina al servizio dell’edilizia, e rientra a pieno titolonel campo delle arti. Contemporaneamente, viene vistacome uno strumento politico: ci si può chiedere se equanto, per esempio, l’asetticità e l’omogeneità archi-tettonica – che come s’è detto era quantomeno presentein fase di progettazione – di Brasilia abbia influito suipoteri economico-politici della città (e di conseguenzadel Paese) o sulla realizzazione e soddisfazione perso-nale e lavorativa dei suoi abitanti. La città, con i suoi grandi spazi e i suoi laghetti artificia-li, mantiene un carattere fittizio, un’aura congelata daset cinematografico che la rende all’esterno poco at-traente e soprattutto la lascia percepire come molto po-co sudamericana; sembra quasi – al contrario di quelche è accaduto per molti altri progetti – che Niemeyernon sia riuscito a infonderle un’anima, a farla vivere dasola. Ma anche in questo caso emerge il tema dell’ar-chitettura come forma di sapere non isolabile: di questosenso di inappartenenza che talvolta la città sembra co-municare persino ai suoi abitanti, quanta responsabilitàpertiene al progetto architettonico e quanta invece a

quello urbanistico? Ègiusto immaginareun luogo lasciandosiguidare dall’ideolo-gia?Alla fine del 2012 ilfotografo e scrittoreitaliano Thomas Po-loli ha concluso ilsuo lavoro Lost inBrasilia – Gli sper-duti abitanti di Bra-silia, lavoro di “ricer-ca degli abitanti”all’interno della città:ne sono nati scattidal respiro ampio edagli spazi deserti; lepersone – rarissime –appaiono minuscoleaccanto a costruzioniimponenti che hannoil pregio di ricordarele grandi rappresen-tazioni naturali delmondo e anche inquesto caso dialoga-no con il cielo, ilquale trova diversesuperfici in cui spec-chiarsi e restare. Ver-rebbe solo la curiosi-tà di chiedere a quel-le persone se sonofelici del luogo in cuivivono, se si sentonoa casa. Ma appunto,sono poche, piccole etroppo distanti.

Chiesa di San Francesco d’Assisi, Belo Horizonte, Brasile

«No es el ángulo recto que me atrae, ni la línea recta, dura, inflexible, creada por elhombre. Lo que me atrae es la curva libre y sensual, la curva que encuentro en lasmontañas de mi país, en el curso sinuoso de sus ríos, en las olas del mar, en elcuerpo de la mujer preferida. De curvas es hecho todo el Universo, el Universocurvo de Einstein» Museo di arte contemporanea di Niteroi, Brasile 41

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I recenti terremoti dell’A-quila e dell’Emilia hannoportato all’attenzione del-l’opinione pubblica na-zionale e internazionalein modo drammatico ildelicato rapporto traeventi naturali, sviluppourbano e del territorio eprevenzione dei rischi inItalia. Questi eventi han-no confermato la fragilitàdel nostro territorio e l’i-

nefficienza delle politiche messe in atto per la sua pre-servazione e la sua messa in sicurezza. Eppure si può dire che nessun paese come l’Italia abbiavisto nel tempo un’interazione così forte tra attivitàumane, territorio e ambiente. Città come Roma, Vene-zia, Catania, Firenze, Napoli, che vantano un patrimo-nio artistico, storico e culturale unico al mondo, rappre-sentano esempi eccellenti della relazione intima tra losviluppo delle città e territorio, che in alcuni casi ne rap-presenta addirittura l’elemento fondante e di unicità. Irapporti tra Venezia e la sua laguna, tra Napoli e il Ve-suvio, tra Catania e l’Etna, tra Firenze e l’Arno e traRoma e i suoi Sette Colli evidenziano quanto la fonda-zione delle città e il loro successivo sviluppo sia statodeterminato in primo luogo dall’assetto del territorio sucui esse sono sorte. Allo stesso modo alcuni dei paesag-gi naturali più conosciuti e apprezzati del nostro paesediscendono da specifici processi geologici che li rendo-no unici al mondo. Basti pensare alle montagne delleDolomiti o ai meravigliosi paesaggi delle Isole Eolie odell’Etna. Questo equilibrio tra uomo e ambiente è stato profonda-mene modificato nel tempo e oggi gran parte del territo-rio italiano viene vissuto come un fattore di rischio, nelquale l’attività antropica ha alterato l’originario rapportotra uomo e natura. Un territorio vissuto spesso comeostile e non come una risorsa da conoscere, rispettare eutilizzare con equilibrio e prudenza. I rischi naturali in ItaliaIl territorio italiano nel suo complesso è vulnerabile, pe-ricoloso e instabile. Gli eventi catastrofici sono moltofrequenti e le aree a rischio naturale sono distribuite sugran parte del nostro paese. Basti pensare che per quan-to riguarda il solo rischio idrogeologico un recente stu-dio del Ministero dell’Ambiente stima (probabilmenteper difetto) che la superficie del territorio italiano ad“alta criticità idrogeologica” è pari a 29.517 chilometriquadrati, di cui 17.254 per frane e 12.263 per alluvioni.Si tratta del 9.8% del territorio italiano, con 6633 comu-ni interessati, pari all’81.9% dei comuni italiani. Le cose non sono molto diverse per quanto riguarda ilrischio sismico. La recente riclassificazione sismica delterritorio italiano individua le aree di maggior pericolo-

sità sismica attraverso il parametro dell’accelerazionemassima attesa, su suolo rigido e pianeggiante, con unaprobabilità di eccedenza del 10% in 50 anni. Questamappa mostra in maniera evidente quanta parte del ter-ritorio italiano si trovi in aree ad alta pericolosità sismi-ca e come in queste aree siano presenti alcune delleprincipali città italiane, sia per numero di abitanti siaper valore storico e culturale. E non va certo meglio per quanto riguarda il rischio vul-canico, che per l’area vesuviana e flegrea assume aspettiaddirittura drammatici se ai fattori di pericolosità natura-le si somma la grande vulnerabilità del patrimonio edili-zio e delle infrastrutture. Un rischio che viene tuttaviapercepito dalla popolazione come lontano e improbabi-le, in un’assenza di consapevolezza che chiama in causala mancanza di un’efficace politica di informazione eprevenzione del rischio. Nei comuni dell’area flegrea ilrischio vulcanico è percepito e riconosciuto da una parteminoritaria della popolazione, che indica nel Vesuvio ilvulcano vicino più pericoloso, in mancanza di qualun-que conoscenza e consapevolezza della situazione reale. In questo quadro molto complesso e preoccupante ci siaspetterebbero politiche incisive che, accanto a signifi-cativi investimenti nella prevenzione del rischio, abbia-no come obiettivo la creazione di personale tecnico e

Rischio naturaleIl territorio come pericolo e come risorsa e la politica universitaria in Italiadi Massimo Mattei

Massimo Mattei

Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale(http://mi.ingv.it/mappa_ps_apr04/italia.html)

scientifico in grado di operare con competenza in ma-niera diffusa nel territorio. Il ruolo del sistema universitarioTra le figure scientifiche che si occupano di rischi natu-rali e di sviluppo e preservazione del territorio quelladel geologo è sicuramente una tra le principali e quellapiù spesso chiamata in causa riguardo alle catastrofi na-turali che interessano ripetutamente il territorio italiano. Di seguito sono presentati una serie di grafici e tabelleche illustrano il peso della geologia all’interno del siste-ma universitario italiano, assumendo, forse a torto, chela costruzione di una politica di prevenzione dal rischionaturale passi anche attraverso la formazione di figureprofessionali con competenze specifiche e con capacitàdi sensibilizzare l’opinione pubblica e le amministrazio-ni locali su questi temi. In Tabella 1 è riportata la variazione nel tempo dellanumerosità dei docenti universitari nelle diverse aree(viene incluso e distinto anche il settore INF che nonha una propria area CUN) nell’intervallo temporale1998-2010. In questo intervallo, che vede la piena ap-plicazione della politica delle autonomie universitarie,il numero di docenti universitari (PO,PA,RU) crescedel 23.7%, passando da 49.226 docenti nel 1998 a60.873 nel 2010. Questo trend di crescita interessa inmisura diversa le aree CUN, raggiungendo un incre-mento di oltre il 200% per l’area INF (legato allo svi-luppo delle nuove tecnologie informatiche), superiorial 40% per le aree IUS, SECS, SPS e minori nelle re-stanti aree. In questo periodo di sviluppo le aree scien-tifiche tradizionali (MAT, FIS, CHI) hanno una crescitaestremamente limitata (inferiore al 10%), con un’unicaeccezione, rappresentata dall’area GEO, che in questointervallo temporale di crescita dell’intero sistema uni-versitario italiano subisce addirit-tura un decremento seppure mini-mo nella numerosità dei docentiuniversitari, che passano da 1202nel 1998 a 1188 nel 2010. Il dato di numerosità dei docentidiventa decisivo con l’avvento nelsistema universitario nazionaledella riforma Gelmini. La riformaGelmini, già disastrosa per moltiaspetti, manifesta i suoi effetti piùperversi sull’organizzazione deiDipartimenti all’interno delle strut-ture universitarie. Tralasciandoqualsiasi valutazione sulla qualitàdelle strutture, sulla loro efficienzanella didattica e nella ricerca, sullaloro distribuzione geografica, la ri-forma Gelmini definisce come uni-co parametro necessario alla for-mazione dei nuovi dipartimentiquello del numero dei docenti. In-dipendentemente da tutto il resto,un dipartimento si forma se il nu-mero dei docenti è superiore a unnumero minimo stabilito dalla leg-ge (numero minimo in alcuni casiaumentato dallo statuto delle sin-gole università). Il risultato è forte-mente penalizzante per le areeCUN di minor dimensione, dove

spesso il numero di docenti presenti nelle singole uni-versità è insufficiente alla formazione di dipartimentidisciplinari, ma per le Scienze della Terra l’effetto è de-vastante. Prima della riforma Gelmini i dipartimenticon netta prevalenza di docenti GEO erano 28, dopo lariforma Gelmini di questi ne rimangono solo 8, con leprevedibili conseguenze che questa nuova configura-zione avrà sulla futura sopravvivenza dei Corsi di Lau-

rea in Scienze Geologiche. Corsi che si presentano alleprocedure di accreditamento in una posizione molto in-debolita e a volte in assenza dei numeri minimi neces-sari, pur in presenza di un significativo e generale incre-mento delle immatricolazioni riscontrato negli ultimianni. Il futuro della geologia nell’università e nella societàitalianaIn assenza di una decisa inversione di rotta nella messaa disposizione da parte del ministero di nuove risorse edi una loro diversa distribuzione nei singoli atenei, nelprossimo futuro le Scienze Geologiche sono destinatea un ulteriore e forse definitivo ridimensionamento. Aparità di legislazione attuale e in mancanza di specificiinterventi di reclutamento le simulazioni prevedono unulteriore significativo decremento dei docenti di areaGEO, che nel 2018 saranno ridotti del 25% rispetto aquelli presenti nel 1998, in un sistema universitario nelquale il numero totale dei docenti universitari rimar-rebbe sostanzialmente invariato (Fig. 3). La ricaduta di

questo ulteriore decremento del nu-mero dei docenti sui Corsi di Lau-rea, sui Dottorati di Ricerca e sullaricerca scientifica nel campo delleScienze Geologiche è evidente. Lo scenario è quello di un paese conun territorio estremamente vulnerabi-le, con enormi problemi di sostenibi-lità ambientale ed energetica e forte-mente indebolito nella propria capa-cità di produrre ricerca e formazionedi alta qualità, proprio in alcuni deicampi cruciali per il futuro sviluppoeconomico. In conclusione, le politiche ministe-riali e le scelte dei singoli ateneihanno cambiato progressivamente ilpeso delle aree disciplinari all’inter-no del sistema universitario italiano.In questo processo, guidato princi-palmente dai rapporti di forza all’in-terno delle singole università, leScienze Geologiche non hanno avu-to la capacità di far valere le proprieragioni e le proprie competenze e so-no state progressivamente indebolitee confinate in un angolo di scarsa onulla rilevanza accademica, politicae sociale. Quanto questa sia stata unascelta felice per il nostro paese lo ve-dremo nel prossimo futuro. 43

Nessun Paese come l’Italia ha visto neltempo un’interazione così forte traattività umane, territorio e ambiente

Confronto tra la numerosità dei docenti universitari(PO, PA, RU) delle diverse aree CUN nel 1998 enel 2010 (Dati Con.Scienze)

Proiezione della numerosità dei docenti (PO, PAe RU) di area GEO rispetto al totale dei docentiuniversitari, a parità di legislazione vigente (daComitato CUN 04)

Cosa direbbe Pasolini sefosse ancora vivo? È unadelle domande retorichepiù frequenti che accom-pagnano l’evocazione diun personaggio al qualesi è assegnata la funzio-ne di esprimere – in mo-do profetico – la criticapiù radicale alle formedella politica, della cul-tura e dei media contem-poranei. Intorno ai suoipensieri disperati di«corsaro» e «luterano»,

come intorno al nichilismo delle sue ultime opere lette-rarie (Petrolio) e cinematografiche (Salò o le 120 gior-nate di Sodoma), si è creata quella mitologia del “veg-gente” che alcuni intellettuali, tra cui Walter Siti (cura-tore dell’opera pasoliniana per i Meridiani Mondadori),da tempo cercano di infrangere, in reazione a un’opi-nione diffusa, che attribuisce al poeta le stigmate delprofeta-martire. Si continua, infatti, a individuare nel-l’assassinio di Pasolini l’esito di un complotto politicoo il compimento ineluttabile di un destino già prefigu-rato, quasi voluttuosamente, nei suoi versi e nei suoiscritti. Questa immagine sacrificale accomuna ormai oppostetendenze ideologiche, determinando una sorta di ecu-menismo nella consacrazione di Pasolini: interpretatocome la coscienza – e allo stesso tempo il rimosso – diun passato che non smette di proiettarsi nel presente. Ilsuo «corpo insepolto» – così lo ha definito Marco Bel-politi – assume le sembianze di un monumento nei dis-corsi che cercano di rimettere in gioco una dialetticaartista-società ormai priva di centri e di strategie condi-vise. Mentre le sue opere letterarie vengono – da alcuni– passate al setaccio di una revisione forse fin troppointransigente, la sua icona, al contrario, si ingigantisce.Quanto più sembra sbiadirsi la figura dello scrittore

tanto più si carica di emblematicità quella dell’intellet-tuale eretico, impegnato in uno scontro all’ultimo san-gue con il nuovo potere della società di massa. E, para-dossalmente, quasi in una logica di contrappasso, pro-prio il suo conflitto con il mondo dei media e dellospettacolo viene perfettamente inglobato in una dina-mica espositiva. Chiedersi «Cosa direbbe Pasolini?» è diventato, infatti,quasi un ritornello da talk show, che si propaga nelweb. Grazie soprattutto alle modalità non chiarite delsuo feroce assassinio, Pasolini soffre di una continuasovra-esposizione che trasforma i tratti provocatori edolorosi della sua operatività artistica-intellettuale inelementi coesivi, capaci di conciliare visioni diversesotto il segno del titanismo tragico. Ma ciò che ha ca-ratterizzato il nucleo profondo delle sue performancerimane non tramandabile perché fondato su un’espe-

rienza individuale concreta: su di una testimonianza,dunque, non ripetibile. Pasolini ha vissuto nei termini di una vera catastrofeesistenziale il passaggio dalla cultura contadina allacultura di massa e si è impegnato tenacemente nel cer-care le “sopravvivenze” dell’antico nel moderno. L’im-possibile aspirazione a una realtà che si manifesti nel-l’immediatezza fisica, senza i filtri e gli schemi diun’imprescindibile mediazione formale, ha rappresen-tato il luogo privilegiato della sua ricerca. Le sue inter-pretazioni della società italiana si basano, similmentealle sue teorie cinematografiche, sull’esaltazione dellafisicità come la sede – l’utopica sede – in cui rintrac-

Pasolini vivo e mortoIl «corpo insepolto» della dialettica artista-societàdi Stefania Parigi

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Stefania Parigi

Il suo «corpo insepolto» – così lo hadefinito Marco Belpoliti – assume le

sembianze di un monumento nei discorsiche cercano di rimettere in gioco unadialettica artista-società ormai priva di

centri e di strategie condivise

ciare il senso del reale. Il suo sguardo è costantementerivolto al linguaggio delle cose e dei comportamenti,con un interesse che esorbita dal semplice rilievo so-ciologico e politico per assumere una prospettiva piùampia, di tipo antropologico. Da qui nascono le famoserequisitorie contro la contestazione studentesca o la

bruttezza dei giovani con i capelli lunghi. Pasolini leg-ge le trasformazioni sociali e politiche principalmentecome «mutazioni» del corpo: quello che egli definisceil nuovo potere totalitario dei mezzi di comunicazione– capace di plasmare i modi di essere e di vivere – hafatto scomparire, a suo giudizio, i tratti della culturapopolare inscritti nella carne, nel linguaggio, nell’ab-bigliamento e nella gestualità dei giovani. Si è dissol-to, così, il corpo popolare considerato come l’ultimaroccaforte di resistenza al potere e alla cultura domi-nante. Salò rappresenta, da questo punto di vista, l’al-legoria di un’apocalisse, in cui si realizza perfettamen-te l’indistinzione tra il carnefice e la vittima. Il fulcrodelle disperate accuse pasoliniane al suo tempo risie-de, infatti, nell’annullamento della diversità come for-za conflittuale, come spazio di crescita e trasformazio-ne politica: una diversità che coinvolge, evidentemen-te, anche la sua esperienza e il suo sguardo di omoses-suale. Se si prescinde da questa dimensione autobio-grafica non si capiscono l’irruenza e la profonda di-sperazione con cui Pasolini si scaglia contro i corpi e ilinguaggi deturpati dall’«omologazione», o le sue pre-se di posizione, giudicateapertamente reazionarie,contro l’aborto. E persinole sue proposte «swiftiane»– così le definiva – di abo-lire la televisione di stato,insieme alla scuola dell’ob-bligo, possono apparire, co-me si commentò all’epoca,soltanto reazioni estreme diun pensiero negativo giàespresso dalla scuola diFrancoforte. Per Pasolini«l’era dell’edoné» – per ri-prendere un’altra espressio-ne del suo lessico – ha so-stituito quella della «pietà»e i nuovi modi di produzio-ne non riguardano più sol-tanto la creazione di merci,ma quella di un’orrendaumanità nuova, che passaattraverso il «genocidio» –termine mutuato da Marx –

di un patrimonio di valori arcaico.Tutte le osservazioni e gli sfoghi di Pasolini sono attra-versati da un accento sofferente che diventa una sortadi rituale contro la desacralizzazione della vita. La suaradicale “poetica del rifiuto” contro i tempi presenti èsegnata, dunque, da una priorità assoluta accordataall’ambito del vissuto. Questo mi pare – al di là deglispecifici interventi sulla televisione e sul «processo alpalazzo» del potere – il nucleo ancora vivo della suaposizione di intellettuale apocalittico: perfettamenteconsapevole, nella percezione del proprio isolamento,sia della provocatoria paradossalità delle proposte cor-sare e luterane sia del sostanziale assorbimento che lasocietà avrebbe dimostrato nei confronti della sua figu-ra contraddittoria. Quale si dimostra, appunto, l’espe-

rienza di un esteta nostalgico del passato, di un demi-stificatore della «tolleranza» del potere democratico, diun pedagogo appassionato e, insieme, di un esploratoredella diversità sociale, di un artista che vive l’attoespressivo come un gesto rituale di opposizione, maanche di un funebre cerimoniere della propria morte.Se, poi, un autore del genere, mentre fa del proprio cor-po una sorta di opera vivente, viene fatalmente assorbi-to negli ingranaggi di svuotamento della società media-le, significa che siamo ben lontani dall’avere esauritoquella funzione di “resistenza” al potere a cui si riferiràsuccessivamente Foucault. Siamo ben lontani, cioè,dall’esserci congedati da Pasolini.

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Un esteta nostalgico del passato, undemistificatore della «tolleranza» delpotere democratico, un pedagogo

appassionato e, insieme, un esploratoredella diversità sociale, un artista che vivel'atto espressivo come un gesto rituale di

opposizione, ma anche un funebrecerimoniere della propria morte

Pier Paolo Pasolini

Grazie soprattutto alle modalità nonchiarite del suo feroce assassinio, Pasolinisoffre di una continua sovra-esposizioneche trasforma i tratti provocatori e

dolorosi della sua operatività artistica-intellettuale in elementi coesivi, capaci diconciliare visioni diverse sotto il segno

del titanismo tragico

È stato bello vedere al-l’opera uno scrittore co-me Antonio Tabucchi.Con la testa poggiata suuna mano e la matitanell’altra, ancora con-centratissimo dopo unalunga notte insonne pas-sata a cambiare e sposta-re parole. Voglio aggiun-gere una cosa molto sen-timentale, ma vera: eropieno di ammirazione.Mi torna in mente quellapoesia di Pessoa che

aveva tradotto: «Mestre, meu mestre querido», che neè di te in questa forma di vita? Troppi discorsi sono ri-masti in sospeso, congelati dopo la sua morte prematu-ra, poco più di un anno fa, come le sue valigie di viag-giatore instancabile, le sigarette, come tutte le ore bellee le risate. Vecchiano, Parigi, Lisbona, l’Alentejo, l’O-ceano atlantico, Creta, e quel gusto di vivere, di man-giare bene, di radunare gli amici; i quaderni con la co-pertina nera, le bozze, le fotografie che sceglieva comeun mago per le copertine dei libri, le cartoline. Sua mo-glie, Maria José, che dice: ti ho preso i giornali. E luiche li sfoglia arrabbiandosi, preso dalla sua passionecivile. Sapeva essere anche sferzante, più che polemi-co. Soffriva per un’Italia che non riconosceva più. Haricevuto querele dai potenti, ma non ha smesso di pro-vocarli. In un libro come L’oca al passo (2006) fa sen-tire tutta l’amarezza sul «buio che stiamo attraversan-do». Al telefono, da Lisbona o da Parigi, mi chiedevanotizie sulle «fognature italiche» – così definiva la sce-na politica del nostro Paese. In unodei suoi ultimi racconti, nella raccol-ta dal titolo che è un presagio, Iltempo invecchia in fretta (2009), c’èun nipote adulto al capezzale di unazia morente. In televisione passanofotogrammi del Grande Fratello.Dice la zia in un sospiro: «Educare ilpopolo è tempo perso, del resto que-sto popolo ora ha fatto i soldi e lo haeducato il Grande Fratello, per que-sto lo votano, è un circolo vizioso,votano chi li ha educati». È disincan-to? È rassegnazione? La zia sembraessersi addormentata: «Invece lei glisfiorò la mano e gli fece cenno diavvicinarsi di nuovo. Ferruccio, sen-tì che diceva il soffio, ti ricordicom’era bella l’Italia?». Tabucchi è tra i nostri scrittori piùconosciuti nel mondo: ha raccontatoil Portogallo buio della dittatura di

Salazar nel memorabile Sostiene Pereira, ha indagatoil tempo della memoria pubblica e di quella privata, haraccolto le luci e le ombre del ventesimo secolo nellepagine di Tristano muore. Le atmosfere per cui lo si

conosce sono perlopiù portoghesi, ma in realtà c’èmolta Italia nei suoi romanzi e racconti: fin dagli esordidel ’75 con Piazza d’Italia – una micro-epopea dal Ri-sorgimento al secondo dopoguerra – e con Il piccolonaviglio, del ’78, da anni introvabile e a breve rieditoda Feltrinelli, storia di cinque generazioni di anarchici. In quella che sarebbe stata la sua ultima estate, gli ave-vo posto alcune domande sul disincanto politico diquesti anni. Mi aveva risposto così: «Prendi le migliaiadi giovani che nel luglio del 2001 hanno affollato Ge-nova per manifestare contro il capitalismo impazzito,lasciato a briglie sciolte: quei giovani non erano rasse-

gnati. Protestavano contro una formaselvaggia di depredazione della so-cietà, difendevano un’alternativa. Seperò dieci anni dopo si accorgonoche chi li ha pestati a sangue è statopromosso, ha fatto “carriera”, è natu-rale che il disincanto possa schiac-ciarli. Ma la colpa non è loro: è deimassacratori e di chi li ha promossi.Ho scritto anni fa che se essere ita-liani significa digerire la notizia chea Genova ad uccidere Carlo Giulianisia stato un calcinaccio, dismetto vo-lentieri questa italianità. Sulle vicen-de di quell’estate di dieci anni fa c’èun libro molto bello di Roberto Fer-rucci, intitolato Cosa cambia. Mancail punto interrogativo, e questo non èun dettaglio trascurabile: lo scrittoredà l’allarme, denuncia, ma è come sedicesse: non facciamoci più doman-de, tanto…».

«Ti ricordi com’era bella l’Italia?»Una giornata con Antonio Tabucchidi Paolo di Paolo

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Paolo Di Paolo

Vecchiano, Parigi, Lisbona, l’Alentejo,l’Oceano atlantico, Creta, e quel gusto divivere, di mangiare bene, di radunare gliamici; i quaderni con la copertina nera,le bozze, le fotografie che sceglieva comeun mago per le copertine dei libri. Sua

moglie, Maria José, che dice: ti ho preso igiornali. E lui che li sfoglia

arrabbiandosi, preso dalla sua passionecivile. Sapeva essere anche sferzante, piùche polemico. Soffriva per un’Italia che

non riconosceva più

Per molti anni, Tabucchi è vissuto lontano dall’Italia.Quando gli chiedevo quali umori registrasse tornandonel proprio Paese, rispondeva in questi termini: «Sicu-ramente scetticismo, perplessità. Rassegnazione, no. Gliitaliani non sono arresi: basterebbe dargli un fiammiferoperché diventi una torcia. L’accento lo sposterei piutto-sto sulla classe dirigente. Quali sono i valori, gli idealiche essa rappresenta? Lei riesce a distinguerli? E mi do-mando ancora: questa classe dirigente ha una percezio-ne della realtà, un contatto con la realtà concreta, taleche la renda in grado di costituire una guida per i citta-dini? Il rischio è di scaricare su quella che viene chia-mata “la gente” una responsabilità che forse non ha, onon del tutto. È facile cadere in un qualunquismo all’in-contrario che vorrebbe gli italiani tutti cialtroni, disone-sti, indifferenti, ma sarebbe preoccupante e ingiusto, co-me qualunque giudizio sommario su un popolo intero».

La letteratura, l’arte in genere possono essere un buonantidoto al disincanto?, ho domandato. Questa la suarisposta: «Sono convinto che, nonostante la stagione dicrisi politica ed economica, la produzione artistica ita-liana degli ultimi anni – letteraria, cinematografica –sia di ottima qualità, e che non sfiguri al confronto conquella di altri paesi europei. Anzi. Quanto poi questaqualità artistica possa avere influenza su una situazionedifficile dal punto di vista civile e morale, non so. Gliartisti sono sempre piccoli David di fronte a un enormeGolia. Non sono loro a far cadere i regimi, ma vivendonell’Attuale, nel loro tempo, nel loro “ora”, se non al-tro ne osservano le storture; se non altro, tentano di ca-pire il perché e il quando delle cose, di ciò che non va.E capire è già molto. Con un cerino gli artisti illumina-no l’oscurità, in tempo per mostrare a chi abbia occhiquando il sentiero percorso è sull’orlo dell’abisso».

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Pubblichiamo di seguito un brano tratto da Mandami tanta vita, l’ultimo ro-manzo di Paolo Di Paolo, finalista al Premio Strega 2013.

«È andata così. Ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 2 del Regio Decreto15 luglio 1923, numero 3288, e del Regio Decreto 10 luglio 1924, numero 1081– tutto si era arenato lì, in una secca di stupidi numeri. La rivista, nell’ultimo an-no, era stata sequestrata di continuo. Non passava mese senza inghippi, piove-vano diffide: per critiche e commenti falsi, per scritti contro i poteri dello Stato,per diffamazioni ingiuriose – così recitavano le motivazioni. Non c’era da staretranquilli un minuto, ma fino all’ultimo Piero si era ostinato a pensare che nonsarebbe accaduto, che la rivista poteva andare avanti: un piccolo ma solido ve-liero che resiste alle burrasche più violente. D’altra parte, non aveva forse supe-rato altre battaglie di febbraio? Sempre lo stesso mese gelido, ma tre anni fa –appena di ritorno dal viaggio di nozze con Ada –, era stato chiuso in carcere in-sieme a suo padre. L’ordine di arresto era stato firmato da Mussolini in persona– PER INTELLIGENZA COI COMUNISTI SOVVERSIVI STOP ATTENDORISULTATO OPERAZIONE TELEGRAFICAMENTE MASSIMA ENER-

GIA E DUREZZA STOP. Cella numero 107: il primo giorno Ada gli aveva portato un po’ di carne, una tavolettadi cioccolato, una bottiglia di vino. Un poeta triestino quarantenne gli aveva mandato i suoi saluti, «Mi ricordiun eroe romantico», gli aveva scritto, «mi ricordi Ernani, quello di Verdi, che amo come la giovinezza». Luiaveva sorriso, ma il senso di colpa a volte lo abbatteva. Aveva trascinato suo padre con sé in galera, in quantogerente responsabile della rivista, e il pittore Casorati, e il tipografo di Pinerolo, che già parecchie volte si era la-mentato. Senza avvertire, in più di un’occasione, aveva tagliato qualche frase dagli articoli; il direttore avevaprotestato, il tipografo gli aveva risposto per le rime Io corro il rischio di veder rovinato tutto quanto mio padreè riuscito a riunire dopo una vita di sacrifici e di lavoro, nessun tipografo di Torino in momenti come questi siarrischierebbe a pubblicare gli articoli incendiari che stai scrivendo tu ora. Una notte, una squadraccia armata dilatte di benzina e di mazze per sfasciare i vetri si era presentata davanti alla tipografia. Già alla fine di marzo del’23 la tipografia di Pinerolo non esisteva più. Ma come si può tornare indietro? Come si può accettare di tacere?Una volta che la sfida è aperta, occorre condurla fino in fondo, con intransigenza. Non si torna indietro dalle pa-role dette, non si recede dalle convinzioni. Non l’aveva forse chiarito per tempo? Non era stato mai tenero conGiolitti e con i giolittiani, era stato caustico, aveva usato quintali di ironia, di sarcasmo, ma adesso no, adessosolo parole serie, parole precise. Aveva detto Retorica. Aveva detto Cortigianeria. Aveva detto Demagogismo.Aveva detto Trasformismo. Aveva pesato ciascuna di queste parole. Aveva detto che erano le storiche malattieitaliane e che nel fascismo erano riassunte tutte. Aveva detto Tirannide. Aveva detto Esilio in patria. Aveva dettoResteremo al nostro posto. Gli pareva che andare via fosse una soluzione perfino troppo comoda, a buon prezzo.Dove poter essere, se non qui, l’italiano che combatte alla luce del sole, che non se la intende col vincitore, conle sette e con le camorre? L’italiano che non si arrende alle allucinazioni collettive. È comunque una forma di re-sa, questo viaggio in treno che lo porta lontano? A un amico di Bari aveva spiegato che la situazione non avreb-be fatto che peggiorare. Un mese prima era uscito l’ultimo numero della rivista politica. Ritenuto che i ripetuti sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l’aspetto di critiche e didiscussioni politiche, economiche, morali, religiose, che vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi diprincìpi dottrinari, mira in realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni Monarchiche,della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale, e nel complesso può dar motivo areazioni pericolose per l’ordine pubblico...»(da Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Milano, Feltrinelli, 2013)

«Esistevano forse unaletteratura piemontese,una letteratura lombar-da, o veneta, o di qua-lunque altra regione ita-liana?» Con quest’argo-mentazione un gruppodi scrittori meridionali– Michele Prisco, MarioPomilio, Giuseppe Bo-naviri – rispondeva altentativo della critica dirintracciare tra loro ca-ratteri stilistici e ideolo-gici comuni, rifiutando

quella gabbia d’isolamento, quella ghettizzazione let-teraria, e facendo esplodere – siamo negli anni Ses-santa – la polemica sulla letteratura meridionale.Tra questi scrittori vi era anche Leonardo Sciascia,

siciliano di Racalmuto, maestro elementare di originiproletarie, figlio di un impiegato in una miniera dizolfo, così diverso e così letterariamente inavvicina-bile a certe altre figure di scrittori siciliani (basti pen-sare al principe Tomasi di Lampedusa, o alla scrittri-ce Livia De Stefani, al loro mondo di nobili originiespresso nel Gattopardo, ne Gli affatturati, o in Pas-sione di Rosa). Sono appunto, all’interno di uno stes-so contesto geografico, due universi che anche lin-guisticamente non si sfiorano neppure: Sciascia rac-coglie la lezione di Verga, quegli incroci tra lingua edialetto evidenti nei narratori dalle radici popolari.La sicilianità, e la sicilianità di Racalmuto, Sciasciala esprimeva invece col suo carattere, con il suo mo-do di essere, di stare, con il suo senso di reticenza:chiuso, impenetrabile, occorreva tutta la pazienza delcaso per cercare di sbloccarlo e farlo parlare. Si rac-conta della sua vergogna anche soltanto di sedere inuna trattoria, in mezzo alle persone, motivo per cui

sceglieva di tornare sempre negli stessi luoghi. In di-rezione di questa tipicità, si muove davvero e forsesoltanto il suo primo libro, Le parrocchie di Regalpe-tra, narrazione – in un luogo dal nome fittizio –, diuna società fatta di proprietà terriera e di estrazionedi zolfo, di galantuomini e contadini, di una vita as-solutamente patriarcale il cui padre-vertice finisceper essere imitato dai figli in tutto, a partire dallaostinata riservatezza.

Ma se da un lato Sciascia non ha fatto nulla per ne-gare in sé i caratteri tipici della sua terra e della suaformazione, paradossalmente lo scrittore si aprivaladdove altri non avrebbero pronunciato una parola,si apriva per la denuncia, per la testimonianza, peramore della verità. I quotidiani che il 21 novembre1989, recavano la notizia della sua morte avvenuta ilgiorno precedente, lo definivano come “l’intellettua-le contro”, come “l’anticonformista che sfidò il pote-re”, e ciò ha contribuito a veicolare un’immagine cheè forse giusta per l’uomo Sciascia, ma non è comple-

La letteratura illuministica di Leonardo SciasciaLa ricerca di una verità più affidabile di quella data dalla Storiadi Michela Monferrini

Michela Monferrini

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“L’intellettuale contro”,“l’anticonformista che sfidò il potere”:questa immagine è forse giusta per

l’uomo Sciascia, ma non è completa perlo scrittore; coincide con il suo impegnocivile, ma taglia fuori la letteratura, che èl’unico vero elemento in cui Sciascia hasempre riposto la sua fiducia, ben piùche sulla “sola” interpretazione della

realtà

Accostare a quello di Sciascia i nomi dichi oggi denuncia (si può fare il nomefacile di Saviano, ma la tendenza è

evidente) ma denunciagiornalisticamente, prendendo a spunto esupporto la cronaca e non la letteratura,è ancora una volta un errore nei suoi

confronti

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ta per lo scrittore; che co-incide con il suo impegnocivile, ma taglia fuori laletteratura, che è l’unicovero elemento in cui Scia-scia ha sempre riposto lasua fiducia, ben più chesulla “sola” interpretazionedella realtà. Quando gli sichiedeva quale fosse l’ori-gine e quali le caratteristi-che principali della sua let-teratura, lui si richiamava– oltre che ai più vicini Pi-randello e Brancati – allagrande lezione ricevuta da-gli illuministi francesi,Voltaire, Montesquieu,D’Alembert: una lezionedi essenzialità della lette-ratura. La sua scrittura èmarcatamente illuministi-ca, non verista; ogni ro-manzo ha come condizio-ne un’immissione totaliz-zante in una realtà che èallusiva, mai data per certa. E anzi: spesso sposta iconfini temporali a un’altra epoca (come nel bellissi-mo Consiglio d’Egitto), creando un cortocircuito tra

atmosfere identiche e diverse ed evidenziando comela verità stesse nelle cose e non nella realtà storica,richiamando a sé la lezione del Principe di Machia-velli. Il grande errore è stato quello di considerare ildavvero machiavellico Sciascia come un narratoredella realtà prima che della verità, e non capire che il

cuore della sua ricerca (ri-cerca anche materiale, co-me lavoro attento e assiduonegli archivi e nelle biblio-teche siciliane, con rigorosicontrolli basati su un refer-to storico che non dovevarappresentare un momentonarrativo, ma un elementoquasi didattico nei confron-ti del lettore perché la Sto-ria in Sciascia è fatta di do-cumenti e solo i documentiparlano) è invece proprio, esoltanto, l’avvicinamentoquanto più possibile allaverità. Ne Il giorno della civettac’è un equilibrio perfettotra la struttura reale, la ma-fia, e i moduli di comporta-mento del protagonista incui Sciascia riesce a inci-dere, a introdurre gli ele-menti del fantastico, tra ladenuncia e l’invenzione,

motivo per cui accostargli i nomi di chi oggi denuncia(si può fare il nome facile di Saviano, ma la tendenzaè evidente) ma denuncia giornalisticamente, prenden-do a spunto e supporto la cronaca e non la letteratura,è ancora una volta un errore nei suoi confronti.In questo senso, guardando alla biografia dell’uomoSciascia, è anche più comprensibile la durata brevedella sua esperienza da parlamentare, con il PartitoRadicale e al fianco di Marco Pannella: il Parlamentogli andava stretto, quello che accadeva nel dibattitopolitico lo riguardava poco, e forse poco lo interessa-va, non era oggetto della sua personale indagine. Lalezione di Sciascia è tutta, proprio, in questa indagi-ne, ed è l’indagine di uno scrittore che non ha maipreteso di raccontare una sola versione, che sapevadi non poter possedere le chiavi della realtà, che hacercato di avvicinarsi il più possibile a una verità piùaffidabile di quella data dalla Storia.

La sua scrittura è marcatamenteilluministica, non verista; ogni romanzoha come condizione un’immissione

totalizzante in una realtà che è allusiva,mai data per certa

Leonardo Sciascia

inco

ntri Prof. Fabiani lei per 15 anni è stato il Magnifico

Rettore dell’Ateneo Roma Tre, un arco temporalericco nel quale far tesoro di molte esperienze. Qualè stato l’incontro più costruttivo sotto il profiloumano e professionale?Gli anni di vita a Roma Tre sono stati molto formativida diversi punti di vista, ma soprattutto sotto il profiloumano. Sono tanti gli incontri che potrei e vorrei ri-cordare, e che mi hanno molto arricchito. Penso inparticolar modo a coloro che mi hanno insegnato acoltivare un atteggiamento, uno stile per affrontare lesfide. In tal senso, prima di ricordare gli incontri lega-ti a Roma Tre, penso al mio maestro, il prof. ManlioRossi Doria, che tra le tante cose mi ha insegnatosempre a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Egli avevainfatti la straordinaria capacità di guardare al futuro edi proiettarsi in prima persona in quel futuro immagi-nato per migliorare il contesto in cui operava e proce-dendo sulla strada spesso faticosa della trasformazio-ne delle idee in realtà concrete. Venendo a Roma Tre,un punto di riferimento importante per me è stato An-tonio Ruberti, che fu anche ministro dell’Università edella Ricerca dal 1989 al 1992. Egli ebbe l’idea asso-lutamente coraggiosa e geniale di costruire una nuovaUniversità a Roma, partendo praticamente da niente emettendo in bilancio solamente cinquanta miliardi divecchie lire, lanciando anche lui, con intuizione e co-raggio, il cuore oltre l’ostacolo. Ruberti aveva un at-teggiamento estremamente pragmatico, unito ad unagrande forza immaginativa. Accanto a lui, ripercor-rendo i primi anni di Roma Tre, vorrei ricordare dueincontri, due persone: Biancamaria Bosco TedeschiniLalli, primo rettore di questo Ateneo, e lo scienziatoFrancesco Paolo Ricci, primo preside della nostra Fa-coltà di Scienze matematiche fisiche e naturali. Laprima ha tradotto l’idea di Ruberti con una energia,con una tenacia e una volontà impressionanti: da que-

sta donna ho imparato a stare sulle cose e a non mol-lare la presa fino a quando non si è raggiunto l’obiet-tivo. Lei lo sapeva fare con una energia particolareche penso di non aver mai avuto! E poi FrancescoRicci. Con lui è stata una sfida continua: battagliava-mo su tutto, ci contendevamo spazi, cattedre e proget-ti, ma con un alto rispetto reciproco, perché a muo-verci non era soltanto la nostra voglia di farcela, maera soprattutto l’impegno di aderire a un progetto piùgrande di noi, che sarebbe rimasto oltre la nostra stes-sa presenza. Roma Tre appunto. Di questo vivace rap-

porto, mi resta oltre al ricordo vivissimo, una bellafotografia che ci fu scattata alla fine della cerimoniadi inaugurazione del primo anno accademico di que-sto Ateneo: fummo sorpresi nel lancio dei nostri toc-chi, i volti soddisfatti e ridenti, gli sguardi rivolti alfuturo, come due ragazzini… Sapevamo di voler fareinsieme una bella cosa, ci univano gli ideali, e unafreschezza di atteggiamento, forse un po’ avventuro-so, oltre un senso profondo dell’impegno in comune.

Spiegare di nuovo le veleIntervista a Guido Fabianidi Alessandra Ciarletti

Guido Fabiani è stato rettore dell’Università degli Studi Roma Tre dal 1998al 2013 e presidente del Comitato regionale di coordinamento delle universitàdel Lazio (CRUL) da luglio 2006.È professore ordinario di Politica economica dal 1980, è stato Preside dellaFacoltà di Economia “Federico Caffè” di Roma Tre dal 1992 al 1998. Nel2010 è stato insignito del titolo di professore emerito. Laureato in Scienzeagrarie, si è specializzato in problemi dello sviluppo economico del Mezzo-giorno alla scuola di Manlio Rossi Doria di Portici e in Teoria della pianifica-zione. Ha studiato in particolare i problemi della pianificazione economica inURSS, come visiting researcher alla London School of Economics, con PeterWiles e Alfred Zauberman. I suoi principali lavori sono stati pubblicati con Il Mulino, Einaudi e FrancoAngeli. Ha collaborato sul piano scientifico con varie istituzioni nazionali e interna-zionali, tra cui: ISTAT, Formez, Ministero dell’Ambiente, Ministero dell’A-gricoltura, Cooperazione allo Sviluppo, UE, CNEL, ONU, FAO, IPALMO. Dal marzo 2013 è assessore allo Sviluppo economico e alle attività produttivedella Regione Lazio.

Il mio maestro, il prof. Manlio RossiDoria, tra le tante cose mi ha insegnato

sempre a gettare il cuore oltrel’ostacolo. Egli aveva infatti la

straordinaria capacità di guardare alfuturo e di proiettarsi in prima persona

in quel futuro immaginato permigliorare il contesto in cui operava eprocedendo sulla strada spesso faticosadella trasformazione delle idee in realtà

concrete

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Gli anni del suo mandato hanno coinciso con igrandi cambiamenti del sistema universitario ita-liano. Lei è stato parte attiva di essi, difendendospesso in prima persona il diritto alla formazione el’obbligo dell’istituzione all’eccellenza. Dalla suaprospettiva “privilegiata” questi cambiamenti sistanno rivelando opportuni alla formazione dellasocietà di domani?

L’università che lascio, non parlo di Roma Tre, madell’università in generale, è molto diversa da quellache conoscevo quando ho iniziato nel 1992 come pre-side della Facoltà di Economia e poi dal 1998 al 2013come rettore. In questi decenni nel sistema universita-rio italiano sono stati introdotti una serie di cambia-menti che, anche se pieni di limiti e di contraddizioni,sono stati determinanti per la trasformazione dell’uni-versità. Forse il più importante è stato introdotto conil concetto di autonomia, che a onor del vero partivada Ruberti; un’autonomia modulata sul piano finan-ziario, sul piano istituzionale e sul piano didattico. Leprime idee di autonomia sono state col tempo e convari interventi successivi abbastanza ridimensionate,per cui lo spirito iniziale di grande cambiamento si èandato via via atte-nuando. Ciò non-ostante, però, sullabase di questi tre fi-loni, l’università ita-liana è veramentecambiata molto; ob-bligati anche dallasituazione economi-ca e finanziaria delpaese, ci siamo abi-tuati a razionalizza-re, a riorganizzarci,a fare conto sulle ri-sorse disponibili perpoter progettare epianificare il futuro.Questo atteggiamen-to ha creato soprat-tutto una serie dicompetenze interneall’Università, inparticolar modo ne-

gli strati più giovani, che ha cambiato, io credo, persempre il volto dell’accademia. Sul piano della didat-tica la questione è un po’ diversa e più controversa,perché negli anni del cambiamento c’è stata una forteresistenza da parte del ceto accademico che, diciamo,ha messo tempo a organizzarsi e a recepire e a tradur-re e governare il senso della riforma. Ci hanno pensa-to, poi, anche i vari ministri – ognuno dei quali si èimpegnato a fare la propria riforma – a frenare il cam-biamento. Tuttavia sono convinto che, al netto dei li-miti e delle critiche che si possono fare al sistema at-tuale, esso stia entrando a regime e sicuramente fun-zionerà, anche solo per il semplice fatto che è un per-

corso che stiamo facendo insieme al resto dell’Europaper costruire comuni processi culturali e sociali. Aquesto riguardo, come diceva Ruberti, l’obiettivo ulti-mo è costruire uno spazio europeo dell’alta formazio-ne e della ricerca.Senza peccare di superbia possiamo dire – ed è in-negabile – che Roma Tre durante il suo rettorato

sia cresciuta mol-tissimo sia a livellonazionale che inter-nazionale. Cosa siporta a casa di que-sto lungo viaggio?È una domanda chemi procura moltaemozione! Penso dipoter dire che “l’av-ventura” Roma Trerappresenti l’espe-rienza più importan-te della mia vita. Hopartecipato e sonostato tra i protagoni-sti della costruzionedi questa nuova isti-tuzione, un viaggiopieno di difficoltà,ma anche di enormisoddisfazioni. Hoavuto l’opportunità

Venendo a Roma Tre, un punto diriferimento importante per me è statoAntonio Ruberti, che fu anche ministrodell’Università e della Ricerca dal 1989al 1992. Egli ebbe l’idea assolutamentecoraggiosa e geniale di costruire unanuova Università a Roma, partendopraticamente da niente e mettendo inbilancio solamente cinquanta miliardidi vecchie lire, lanciando anche lui, conintuizione e coraggio, il cuore oltre

l’ostacolo

51Guido Fabiani e Bianca Maria Bosco Tedeschini Lalli in occasione dell’inaugurazionedell’anno accademico 2012-2013, ventennale di Roma Tre

Noi oggi formiamo capitale umano cheperlopiù non viene accolto nel tessutoproduttivo e sociale del paese. Si poneun interrogativo lacerante per un

giovane: perché investire cinque, sei,sette anni della propria vita con cosìscarse prospettive? Perché chiediamoagli studenti un impegno, un sacrificio

così forte quando poi alla fine,soprattutto in questi ultimi anni, si

verifica che una, o forse anche un paiodi generazioni, vengano tenute aimargini della società? Tutto questopurtroppo genera un forte disagio

sociale che può essere anche esplosivo

di veder crescere e contribuire a far crescere questauniversità praticamente da zero. Ho avuto dei validis-simi compagni di viaggio, con i quali ho potuto con-dividere un ideale e la messa in opera dello stesso,pietra dopo pietra, è il caso di dire! Abbiamo contri-buito alla riqualificazione dell’intera zona Ostiense,favorendo, grazie alla presenza di ben quarantamilagiovani, una nascita spontanea di servizi e centri cul-turali, mettendo a disposizione dei nostri studenti maanche della popolazione di questo quartiere, struttureaccoglienti e servizi soddisfacenti. E perché no, met-tendo a disposizione della stessa città un teatro uni-versitario, il Palladium che, grazie anche alla collabo-razione con il Romaeuropa Festival, ha contribuito adinserirci nel panorama culturale nazionale e interna-zionale.Cosa vuol dire oggi, in un paese drammaticamentecoinvolto in una grave crisi economica, alta forma-zione?È un interrogativo che ci poniamo tutti noi che faccia-mo questo mestiere nell’attuale delicatissima fase stori-ca. Alta formazione significa creare capitale umano daimmettere nel processo produttivo, ovvero nel proces-so di crescita culturale, sociale, civile ed economica delpaese. Capitale umano in grado di competere anche alivello internazionale. Ma noi oggi formiamo capitaleumano che perlopiù non viene accolto nel tessuto pro-

duttivo e sociale del paese. Si pone un interrogativo la-cerante per un giovane: perché investire cinque, sei,sette anni della propria vita con così scarse prospetti-ve? Perché chiediamo agli studenti un impegno, un sa-crificio così forte quando poi alla fine, soprattutto inquesti ultimi anni, si verifica che una, o forse anche unpaio di generazioni, vengano tenute ai margini dellasocietà? Tutto questo purtroppo genera un forte disagiosociale che può essere anche esplosivo.

E che cosa direbbe ai giovani in questa delicatissi-ma situazione?Direi loro di non perdere l’entusiasmo, la volontà.Debbono saper lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Soche è molto difficile, ma la storia ci dice che anche le

peggiori crisi economiche e socialisi sono superate, sebbene con costienormi. Non bisogna cedere alladisperazione, ma insistere nel pro-prio progetto di vita e semmaiguardando all’estero, anche soltan-to per una parentesi, non perché lìsia più facile, ma perché è un’espe-rienza che conta e rende pronti atornare in Italia per sostenere la ri-presa del nostro paese. Perché essaè possibile e ci sarà e dipenderà daigiovani!Di recente ha assunto un nuovoimpegno istituzionale: il 22 marzou.s. è stato nominato Assessore al-lo sviluppo economico e alle atti-vità produttive della Regione La-zio. Una sfida importante in unmomento così complesso. Comepensa di affrontarla?In effetti è una sfida, non so se c’èanche un elemento di follia, perchéper certi aspetti sarebbe stato il mo-mento di raccogliere le vele e inve-ce le ho spiegate alla volta di unanuova avventura che si presenta al-tamente stimolante, perché si im-patta proprio con le difficoltà dellacrisi economica e sociale del paese.Al tempo stesso però sento questonuovo impegno in linea di continui-tà con quanto fatto finora: all’uni-versità si forma capitale umano, oradevo lavorare affinché i nostri gio-vani possano trovare accoglienzanel tessuto produttivo.

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Penso di poter dire che “l’avventura”Roma Tre rappresenti l’esperienza più

importante della mia vita. Hopartecipato e sono stato tra i

protagonisti della costruzione di questanuova istituzione, un viaggio pieno di

difficoltà, ma anche di enormisoddisfazioni

Il Teatro Palladium

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Nel dibattito pubblico si ha a volte l’impressione che sivada sempre più accentuando la dicotomia fra saperee comunicare; fra filosofi, in senso lato, e sofisti, miviene da dire. La parola è sempre meno uno strumentodi analisi e ragionamento e sempre più una tecnica dicomunicazione? Si fa una grande confusione tra “comunicare” e “informare”.E tutto sembra ridursi al secondo termine. Comunicare,invece, significa prima di tutto ascoltare, porsi in ascolto,arrischiarsi di cambiare ascoltando, e poi esprimere ciòche questo processo ci porta a pensare. Attenzione! Lasofistica è una cosa molto seria! Non era affatto semplice-mente una tecnica di informazione (in questo caso nelseno di in-formare e anche educare), ma una scienza del-l’argomentazione, e cioè del ragionamento o dell’espressionechiara del pensiero. Altrimenti non si capirebbe come lostesso Socrate potesse essere confuso con i sofisti! Quandosi vuole semplicemente convincere con ogni mezzo o at-traverso facili frasi demagogiche non si è affatto VERISOFISTI, ma illusionisti.L’università è ancora in grado, a suo avviso, di giocareun ruolo nella formazione di un pensiero critico e diuna consapevolezza civile nelle generazioni che la at-traversano? Non vi è LA università. L’università è fatta di questistudenti e di questi docenti, nome e cognome. Se sonoanimati da spirito critico, se vogliono conoscere-e-comunicare,

l’università sarà critica, altrimentivi si può insegnare Adorno eHorkheimer da mane a sera erimarrà una morta gora accade-mica.Lei è stato a lungo sindaco diuna città per molti aspetti ec-cezionale come Venezia. Qualè il portato di una esperienzaaccademica e intellettuale comela sua nell’attività politica eamministrativa? Fare-pensare politica è necessario,fare il sindaco o il deputato etc.è occasionale. Essere animali

dotati di logos implica la relazione-comunicazione attraversoil linguaggio, con cui ognuno di noi si esprime, esprime ipropri pensieri, che sono soltanto i suoi. E perciò è necessariotrovare i modi di un accordo, sempre a rischio. Fare ilsindaco significa cercare di accordare i diversi linguaggi-ragioni della città. Compito in Italia di difficoltà estrema,poiché da noi UN popolo o UN ethosmai è esistito.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito in Italia ad unmutamento radicale delle culture politiche. Possiamoforse dire che oggi non ci sono più partiti politici comeli abbiamo conosciuti in passato, con strutture complessee articolate, perché non vi sono probabilmente più isoggetti sociali e politici che vi si riconoscevano. Perquali canali passa oggi la rappresentanza politica? È in crisi l’idea stessa di rappresentanza. Discorso ampioe difficile. Ne parlo anche nel mio libretto (Il potere chefrena, Adelphi, 2013). La crisi dei partiti è elemento diquesta, ben più generale. Certo, conta anche lo smottamentodella loro base sociale. Ma la spiegazione non è tanto“materialistica”, quanto proprio culturale: i partiti nonhanno saputo registrare il salto d’epoca, la globalizzazione,le nuove culture che avanzavano. Non saprei leggere ilfuturo.Una domanda a partire dal suo ultimo lavoro, Il potereche frena, edito da Adelphi. Volendo dare una chiavedi lettura contemporanea, quali sono in questo momentostorico le forme del potere che frena (o che non frena)?Il mio libretto conclude cercando di mostrare proprio iltramonto di ogni “potere che frena”. Le nuove potenzetecnico - economiche sono “s-catenate” - con le conseguenzeche viviamo. Attraverso quali “norme” ordinarne la vita?Hic sunt leones.

Il potere che frenaIntervista a Massimo Cacciari di Federica Martellini

Si fa una grande confusione tra“comunicare” e “informare”. E tuttosembra ridursi al secondo termine.

Comunicare, invece, significa prima ditutto ascoltare e arrischiarsi di cambiare

ascoltando

Massimo Cacciari, filosofo e politico. Ordinario di Estetica. Dal 1998 al 2006 è statoinoltre Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Accademia di Architettura dell’Universitàdi Lugano in Svizzera. Nel 2002 ha fondato la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e ne diviene primo preside. È stato deputato al Parlamentoitaliano dal 1976 al 1983; sindaco di Venezia dal 1993 al 2000 e dal 2005 al 2010 edeputato al Parlamento europeo nel 1999-2000. Collabora con l’Istituto italiano per glistudi filosofici di Napoli e il Collége de Philosophie di Parigi. È stato cofondatore econdirettore di alcune di riviste che hanno segnato il dibattito culturale, politico e filosoficoitaliano degli ultimi decenni, da Angelus novus a Contropiano, da Laboratorio politico aIl centauro, a Paradosso. È autore di numerose pubblicazioni. Il suo ultimo lavoro Ilpotere che frena (2013) è edito da Adelphi.

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Da metà febbraio a metà marzo 2013, l’Odin Teatret èrimasto a Roma, prima all’Auditorium Parco dellamusica, poi al Teatro Vascello. L’Odin mancava dallacapitale da una dozzina d’anni, anche se alcuni degliattori vi avevano fatto qualche rapida apparizione.Nella tournée del febbraio-marzo 2013, l’intero en-semble ha presentato il suo ultimo spettacolo: La vitacronica, accompagnato da seminari o incontri che sisono svolti in diversi luoghi, teatri, università, centrisociali. La costante affluenza degli spettatori e l’inte-resse di un pubblico giovanile, che in gran parte in-contrava l’Odin per la prima volta, hanno trasformatouna tournée in un avvenimento. Vista l’importanza di questo teatro, vista l’entità dellasua influenza – una delle più significative nell’am-biente teatrale del secondo Novecento - a Roma Treabbiamo organizzato nove incontri con gli attori edEugenio Barba, fondatore dell’Odin nel 1964 e suounico regista-drammaturgo fino ad oggi. Eugenio Barba ha portato ai nostri studenti una Ma-ster Class, nella quale, con l’attrice Julia Varley, hamostrato il modo tanto peculiare con cui l’Odin co-struisce i suoi spettacoli. L’attrice Iben Nagel Ra-smussen e Ferdinando Taviani, professore emerito distoria del teatro, hanno parlato dei “baratti”, una pra-tica inventata dall’Odin negli anni Settanta per entra-re in contatto con popolazioni spesso lontane dal tea-tro “scambiando” con loro forme spettacolari. KaiBredholt, attore, ha portato nelle nostre aule la sua or-chestra, la più giovane attrice dell’Odin che danzavasui trampoli, e il racconto del “teatro della reciproci-tà”: un modo di far teatro che egli organizza con an-ziani, bambini, disabili, apprendisti danzatori, virtuosidella motocicletta e cavalli. Jan Ferslev ha parlatodella sua storia di musicista-attore. Fausto Pro ha gui-dato gli studenti a visitare lo spazio della Vita croni-ca. Ha spiegato il modo in cui l’Odin costruisce le re-

lazioni spettacolo-spettatore non solo attraverso leazioni degli attori, o le scenografie, ma anche attra-verso la costruzione di uno spazio scenico particolare,ristretto e caratteristico, pieno di sorprese emotive pergli spettatori e di problemi tecnici per gli attori. Euge-nio Barba, regista, insieme a quattro studiosi di teatroche da decenni seguono le vicende dell’Odin (FrancoRuffini, Nicola Savarese, Mirella Schino e Ferdinan-do Taviani) ha parlato della storia dell’Odin. I respon-sabili dell’archivio dell’Odin (Francesca Romana Ri-etti, Valentina Tibaldi, Claudio Coloberti, Chiara Cru-pi e io) hanno mostrato come si possano preservaresenza troppo tradirle le tracce e la memoria dei moltipercorsi di questo teatro. Non solo dei suoi spettacoli. Il ciclo di incontri si è concluso con uno spettacolo di

Iben Nagel Rasmussen, donato dall’Odin a RomaTre. Si era aperto con una presentazione della rivista“Teatro e Storia”, della cui redazione fa parte lo stes-so Barba. “Teatro e Storia” non è soltanto una rivistadi studi teatrali, ma un ambiente in cui artisti di teatroe studiosi di teatro possono parlare una lingua comu-ne, e confrontare le loro esperienze. E’ uno dei valoridell’Odin aver creato relazioni nelle quali possonoconvivere studiosi e teatranti, non come osservatoried osservati, ma come persone ugualmente interessatea preservare e a trasmettere. Nove incontri sono molti, e l’università vive ormai

Il teatro come baratto culturale L’Odin Teatret a Roma Tre: intervista a Eugenio Barbadi Mirella Schino

Eugenio Barba è un regista teatrale, una delle figure di spicco del teatro con-temporaneo a livello internazionale ed è considerato uno dei maggiori intellettualieuropei. Allievo e amico di Jerzy Grotowski, è fondatore e direttore dell’OdinTeatret. Barba ha modificato il concetto di lavoro dell’attore avviato dal registapolacco, attraverso una pratica teatrale che porta l’attore a contatto con lapropria ricerca interiore.L’Odin Teatret promuove l’idea e la pratica del teatro come “baratto culturale”,uno scambio attraverso una performance con la comunità e un luogo non fisicodi dialogo e scambio tra diverse realtà. Eugenio Barba ha diretto 65 produzioni con l’Odin Teatret e il TheatrumMundi Ensemble. Tra i titoli più noti ci sono Ferai (1969), Le Ceneri di Brecht(1980), Il Gospel Secondo Oxyrhincus (1985), Talabot (1988), Kaosmos (1993)e Mythos (1998). Fra le produzioni più recenti Sale (2002), Grandi Città sottola Luna (2003) e Don Giovanni all’Inferno (2006) in collaborazione conl’Ensemble Midtvest. Nel 2000 gli è stato assegnato Premio Sonning.

Forse uno dei compiti principali, per gliintellettuali del teatro, studiosi o teatrantio studenti che siano, sta proprio nellosforzo di creare momenti così: trappolecapaci di catturare una vera esperienza.

Una memoria viva

una endemica carenza di fondi. Abbiamo voluto orga-nizzare questo ciclo a costo zero. Così, abbiamo otte-nuto un valore aggiunto, non previsto. Si è coagulato,fin dall’inizio, un gruppo di studenti che si sono occu-pati dell’organizzazione, della gestione dell’Aula Co-lumbus e dei rapporti con gli attori dell’Odin. Hannotrasformato la sala in una casa di teatro. Hanno diffu-so la notizia di questi incontri dentro e fuori le auleuniversitarie. Hanno aggiunto, ai mezzi canonici diinformazione, i loro, ormai altrettanto canonici - face-book o altri tam tam della rete. Il risultato è stato unpubblico sempre crescente, che veniva da tutte e tre leuniversità romane, e da scuole o gruppi di teatro. So-no intervenuti colleghi della Sapienza e di Tor Verga-ta. E personalità a vario titolo legate all’arte ed all’ar-tigianato scenico. Si è creato, per qualche settimana, un ambiente. E’ stato un risultato dovuto alla generosità dell’Odin ea quella dei nostri studenti. Due generosità capaci di

stimolarsi a vicenda. L’Odin Teatret ha quasi cinquant’anni di vita: è statofondato in Norvegia dall’italiano Eugenio Barba, oggitanto celebre, ma allora emigrante e autodidatta. Dal1966, l’Odin ha la sua sede stabile in Danimarca. Lalongevità di questo teatro, coniugata alla presenza diun gruppo stabile di attori ,alcuni dei quali sono pre-senti fin dalla fondazione,costituisce un caso unico,nella storia del teatro mo-derno. L’Odin ha profonda-mente influenzato il teatrodi ricerca mondiale con laforma particolare dei suoispettacoli, il modo di lavo-rare dei suoi attori, le mol-te attività praticate, le suestrategie. Ma il teatro è luogo diparadossi, la sua cultura èbasata sulla discontinuità:la fama dell’Odin Teatretnon impedisce che restisconosciuto a molti spetta-tori. Per la maggioranza deinostri studenti era un nomeesotico o ignoto. Per unaminoranza, il suo arrivo eraun avvenimento clamoroso,atteso con ansia. Per tutti,la sua presenza e il suo

spettacolo sono stati una esperienza forte. E’ raro sen-tirsi ringraziare tanto spesso e con tanto calore per unaattività nata all’interno d’uno o due corsi universitari,coi loro docenti, i loro programmi e le loro aule. Occuparsi di teatro non è facile. Come si fa a studiaree a far studiare qualcosa che viene costruito con gran-de cura, che comprende delicati e complessi sistemidi relazione, che vive per brevissimo tempo, e poiscompare? Come si fa a prendersi cura di un bene co-sì immateriale e tanto fuggitivo? Eppure a noi, intel-lettuali di teatro, spetta il compito di preservarne lamemoria. Di garantire una trasmissione al futuro an-che nei momenti - frequenti - in cui le tradizioni sispezzano, le tecniche si disperdono, e il teatro sembrasolo un costume del passato, apparentemente in statod’abbandono. La presenza dell’Odin a Roma ha permesso agli stu-diosi, agli studenti, alla gente di teatro venuta ad os-servare e partecipare, di vedere “il teatro” sotto formadi una complessa stratigrafia: lo spettacolo, e i molte-plici tipi di relazioni che può instaurare con i suoispettatori. Le attività con pubblici non canonici, e lapresenza del teatro nelle comunità sociali. Le relazio-ni tra gli attori, e quelle tra attori e regista. Il lavoro dipreparazione dell’attore, e la tortuosità delle vie cheportano alla creazione teatrale. Il senso del fare teatro.Così abbiamo potuto osservare come la comunicazio-ne, a teatro, non sia quella diretta. Come passi, inveceattraverso un uso voluto, sperimentato e vitale delDisordine, che si serve anche della incomprensione.Questi giorni di incontri ci hanno fatto capire il pesofecondo del teatro del passato nella vita di chi oggidifferentemente e autonomamente pratica un artigia-nato simile e diverso. Proprio questa stratigrafia complessa costituisce l’im-pronta che il teatro può lasciare. Lo abbiamo speri-mentato tutti insieme, teatranti, studenti e studiosi,con una parità che derivava dal lavoro comune. Forse uno dei compiti principali, per gli intellettuali

del teatro, studiosi o tea-tranti o perfino studentiche siano, sta proprio nellosforzo di creare momentisimili, trappole capaci dicatturare una vera espe-rienza. Una memoria viva. L’Odin non è solo un tea-tro. È un creatore di am-bienti, di relazioni ano-male, come quella tra chiil teatro lo pratica, e chilo studia. Per noi studiosiè stato importante. Lanostra lunga amicizia conl’Odin Teatret ci ha per-messo di capire nuoviproblemi da porci. Peresempio: qual è la dina-mica che tiene insiemeuna compagnia, un grup-po teatrale? Un interesseeconomico, affettivo, poli-tico? Qual è il punto verso cuitutte le persone che abitano 55

Gli attori con cui ho fondato l’Odinerano giovani non ammessi

all’accademia di teatro di Oslo. Anche ioero stato rifiutato da molti teatri.

Nessuno di noi ha potuto apprendere ilmestiere del fare teatro. Allora abbiamodovuto inventarcelo. Abbiamo inventatola ruota. Ma la nostra inesperienza ci ha

fatto inventare una ruota quadrata

La vita cronica, Tage Larsen, foto Jan Rüsz ©

un teatro, tutte queste individualità diverse, questi ca-ni randagi convergono, il perno che tiene insieme? Ecome poter sfruttare questa loro caratteristica di di-versità, e saperla tessere in un lavoro comune? Credo che quello che ci tiene insieme sia una ruotaquadrata.Quando l’Odin è nato, abbiamo dovuto inventarci ilteatro. Proprio come qualcuno che, oggi, inventi laruota. C’erano decine e decine di fabbriche intorno a noi,officine, negozi, tutti pieni di ruote. C’erano moltissi-me persone capacissime, bravissime a fare le ruote.Solo che nessuna di queste fabbriche ci ha preso conloro, nessuno ci ha detto: adesso vi insegniamo noicome si fa. Gli attori con cui ho fondato l’Odin erano giovaninon ammessi all’accademia di teatro di Oslo. Ancheio ero stato rifiutato da molti teatri quando, dopo ilmio apprendistato con Grotowski, in Polonia, avevocercato lavoro nel paese in cui vivevo, la Norvegia.Nessuno di noi ha potuto apprendere il mestiere delfare teatro. Allora abbiamo dovuto inventarcelo. Abbiamo inven-tato la ruota. Ma la nostra inesperienza ci ha fatto in-ventare una ruota quadrata. La ruota quadrata è stranissima, perché in realtà fun-ziona. Magari non in tutti i contesti. Ma la ruotadell’Odin in genere funziona, come un cingolato è ef-ficiente in terreni in cui una ruota rotonda affondereb-be. Spinge a una curiosità, una apertura, una bramosiaverso quello che possono avere (e darci) altre culture,altri saperi spettacolari. Il teatro quadrato, proprio peril suo complesso di inferiorità, per essersi sviluppatovia l’esclusione e per il suo essere stata reinventatosbilenco, guarda bramosamente verso l’esterno, perapprendere. Quando un giovane va all’accademia si sente subito ilsuccessore di Shakespeare, con in più un pizzico diCalderón della Barca, e anche un po’ di Pirandello. Sisente sicuro, inserito in una tradizione. Nel teatro.Quando sei un escluso, non rappresenti niente, sei so-lo te stesso. Devi confrontarti con la tua ignoranza.Devi insegnare a te stesso,da solo. E allora cerchi co-me un disperato, dappertut-to. Sei un po’ come un bambi-no di strada, nessuno ticuoce la minestra, e allorarubi una carota a destra,una cipolla a sinistra... È per questo che per voi èstato così costante il rap-porto con i libri, con glistudiosi, perfino con leuniversità?Gli studiosi sono tra i depo-sitari del sapere del teatro,soprattutto di quello scom-parso. Per me i libri di tea-tro sono stati uno dei luoghida cui prendere. Vivi, comesono vivi i teatri orientali... Tutta la storia dell’Odin,fin dagli inizi, è stata se-

gnata da un rapporto forte con gli studiosi, in sen-so anche pratico...Non solo pratico. All’inizio, spesso si è trattato di aiu-ti, che potevano sembrare casuali: studiavo sanscritoall’Università di Oslo quando ho fondato l’Odin, nel’64, ed è stato proprio il mio professore di sanscrito,Knut Kristiansen, a procurarmi il primo locale in cuiho lavorato con i miei attori: l’aula di una scuola ele-mentare. Poi c’è stato Christian Ludvigsen, che inse-gnava all’Università di Århus, in Danimarca. Ero en-trato in contatto con lui perché volevo far conoscereal mondo intero il lavoro di Jerzy Grotowski, alloraun oscuro regista che lavorava in una cittadina polac-ca, a Opole. È stato attraverso Christian che abbiamofinalmente avuto una vera casa, un teatro, in Dani-marca. E’ diventato il nostro primo consigliere lette-rario. In Italia il nostro primo legame è stato con FerruccioMarotti, docente alla Sapienza di Roma. Nel ‘69 ven-ne a Venezia, dove eravamo ospiti della Biennale, evide il nostro spettacolo, Ferai. Ci fece una lunghissi-ma intervista, la prima in cui ho accettato di parlare alungo del nostro lavoro. Più tardi, Marotti mandò danoi a Holstebro una sua studentessa, Angela Paladini,a seguire il processo di creazione di un nuovo spetta-colo, Min fars hus (La casa del padre). Così, all’iniziodegli anni Settanta, entrammo in contatto con tutto ilgruppo di giovani studiosi che si radunava intorno aMarotti, Ferdinando Taviani, Fabrizio Cruciani, Fran-co Ruffini, Nicola Savarese, Clelia Falletti. Ferdinan-do Taviani insegnava all’Università di Lecce, portò ilnostro spettacolo ai suoi studenti, ma non solo: ci aiu-tò ad organizzare una esperienza veramente anomala,la nostra lunga permanenza di sei mesi in Salento. Elo stesso ha fatto quando si è trasferito all’Universitàdell’Aquila, insieme a te: avete organizzato lunghisoggiorni di interazione coi vostri studenti, chiesto dipreparare delle dimostrazioni di lavoro, inventato se-minari particolari. Ci avete obbligato a preparare con-ferenze, per raccontare le nostre vite, le nostre espe-rienze. Gli attori hanno un sapere incorporato, per loro agire

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La vita cronica, Sofia Monsalve, Kai Bredholt, foto Jan Rüsz

è una comunicazione più naturale che parlare. Hannodovuto scoprire un linguaggio nuovo per raccontarela loro esperienza. Così gli attori dell’Odin si sonoimpegnati e hanno trovato criteri con cui spiegare illoro modo di procedere, conservando però un aspettospettacolare - la lingua propria all’attore. Era una sfi-da: farsi ponte tra due modi differenti di pensare co-municare e capire, quello degli attori e quello deglispettatori, dei giovani, degli studenti. È una delle pos-sibilità di trasmettere frammenti di memoria.

Questo vostro ultimo spettacolo, La vita cronica,che ora avete portato a Roma per un mese, e cheha saputo aggregare intorno a sé tanti giovani, èstato fatto da te con un gruppo di attori che lavo-rano insieme da decenni. C’è un unico attore nuo-vo, la giovanissima colombiana Sofia Monsalve.Come si fa a conservare vivo il senso e la motiva-zione lavorando sempre con gli stessi attori – oquasi - per cinquant’anni? Alla base di questo spettacolo c’è stato un desideriodi terremoto. Noi non partiamo da un testo teatrale.Ma sempre, quando ho cominciato a pensare a unospettacolo nuovo, pur aspettando i materiali che midovevano portare i miei attori, ho avuto una qualchespinta di partenza. Cominciavo a prepararmi, trovavolibri, episodi storici, racconti, idee, immagini…e tuttoquesto diventava stimoli da trasmettere ai miei attori.Di lì partivamo. Questa volta avevo solo una domanda di partenza:dopo quasi cinquant’anni, siamo ancora capaci di la-vorare insieme? Cinquant’anni sono tanti. I miei atto-ri sono ormai persone d’età, abituate a lavorare insie-me. Ho cercato di rompere questo eccesso di consue-tudine immettendo nello spettacolo due ragazze, gio-

vanissime, Elena Floris, che è entrata solo come mu-sicista, e Sofia Monsalve, una ragazza poco più cheventenne che aveva collaborato con noi ad altri nostriprogetti. Ognuno dei miei vecchi attori mi ha portato materialiche aveva preparato per conto suo. Da questi materia-li sono venute molte storie, alcune delle quali sonoconfluite nello spettacolo, pur cambiando in partevolto: quella della vedova del soldato che ha combat-tuto sempre in battaglie sbagliate, quella della profu-ga… A Sofia, invece, ho affidato una storia che vieneda un classico della letteratura messicana, Pedro Pá-ramo di Juan Rulfo. È la storia di un giovane che tor-na al villaggio in cui è nato, e da dove è stato allonta-nato bambino, per cercare il padre. Parla con moltis-sime persone, e alla fine scopre che sono tutti fanta-smi. Nel villaggio in cui è tornato non c’è più nessu-no in vita.Ma da dove viene il nome dello spettacolo? I suoitemi di guerra, e questo filo, che mi sembra esseresoprattutto quello del dolore femminile…Il titolo, La vita cronica, l’ho trovato in una poesia diLeminski, un poeta brasiliano che amo molto. Miaveva colpito: vita cronica. Che significa? Un titoloperfetto. È stato uno spettacolo a cui abbiamo lavorato a perio-di per quattro anni, ma solo alla fine c’è stato un pe-riodo continuativo. Prima, avevamo provato quandopotevamo, sempre molto poco, tra una tournée e l’al-tra, tra un progetto e l’altro. Ma intanto lo spettacolomaturava.Il punto di partenza era stato davvero un terremoto:avevo chiesto ai miei attori di preparare un funerale,ognuno di loro doveva creare una scena di funeralecosì come si fanno in Danimarca, con discorsi, aned-doti, risate, cibo… E il funerale era il mio. Alcunihanno eseguito, altri hanno reagito con fastidio, qual-cuno si è ribellato. E lentamente il mio funerale èscivolato via dallo spettacolo. Non mi interessavauno spettacolo autobiografico. Mi interessava il ter-remoto. Quello che sempre più ha preso a occuparmi, invece,

è stato capire: chi sono levere vittime della guerra?Mia madre è una vedova diguerra. Tu parli del doloredelle donne, ma a me inte-ressava anche il dolore dilunga durata, quello che hain sé anche un lato solare.C’è la gioia di quando par-lano della vita col marito,con gli occhi che brillano.O la tenerezza con cui par-lano ai figli del padre, an-che se il padre è stato unterrorista, o ha combattutosempre guerre sbagliate. Io, nello spettacolo, più an-cora del dolore vedo que-sto: sensualità, gioia di vi-vere. Che procede a fiancodel dolore, come un’om-bra. La gioia non cancellail dolore. 57La vita cronica, Iben Nagel Rasmussen, foto Jan Rüsz

Io, in Vita cronica, più ancora del dolorevedo questo: sensualità, gioia di vivere.Che procede a fianco del dolore, come

un’ombra. La gioia non cancella il dolore

58 «I servitori della musica»Elizabeth Sombart e la pedagogia Résonnancedi Valentina Cavalletti

Quale ruolo ha nella sua formazione l’insegnamen-to del maestro Celibidache che, oltre come composi-tore e direttore d’orchestra, ricordiamo anche e so-prattutto come grande pedagogo?Il ruolo del maestro Celibidache è fondamentale nellacreazione della pedagogia Résonnance. Grazie a lui hoimparato la fenomenologia del suono e della musica,seguendo le sue lezioni all’Università di Mainz in Ger-mania e a Parigi in Francia e collaborando insieme perpiù di 10 anni. La nostra associazione ha poi sviluppa-to la fenomenologia non soltanto del suono ma anchedel gesto. In cosa consiste la pedagogia Résonnance da lei fon-data? La pedagogia si suddivide in due parti: la fenomenolo-gia del suono, che studia le leggi dei fenomeni sonori ele loro relazioni, con lo scopo di ridurre all’unità lamolteplicità di tutti i parametri che compongono un’o-pera musicale; la fenomenologia del gesto, che si basasull’utilizzo della respirazione e del diaframma nell’e-secuzione pianistica, vocale e strumentale, affinché ilgesto integri e unifichi il fraseggio musicale. Ispirando-ci allo stesso maestro Celibidache e agli insegnamentidi Hilde Langer–Rühl, ilgesto musicale diventa laconseguenza di un respirointeriore messo al serviziodel fraseggio. Non si suonail pianoforte con le sole di-ta: la forza misteriosa delrespiro e la sua padronanzasono le chiavi che consen-tono di unificare gesto efraseggio.Come cambia l’ascolto ela produzione della mu-sica con l’approccio fe-nomenologico al suono eal gesto di cui l’associa-

zione si fa portavoce? È difficile descrivere il portato delle nostre acquisizionisenza poterlo mostrare mediante un pianoforte. Tutta-via si può sostenere che l’ascolto cambia perché assu-me un ruolo fondamentale e primario che ci permettedi essere obbedienti alla relazione giusta tra i fenomenisonori, senza cercare di riprodurre meramente un’in-tenzione emozionale. Per fare questo la nostra associa-zione propone un nuovo incontro con la musica, in pri-mo luogo insegnando a dimenticare se stessi. Dicosempre che ci sono due possibilità: i suoni si esprimo-

no o in una comunicazione orizzontale o diventano co-munione all’interno della relazione tra chi li produce echi li ascolta. Sarebbe molto facile suonare meccanica-mente al pianoforte ma, grazie al nostro metodo, noi

intendiamo unificare talerelazione in una logica pre-cisa che è completamente alservizio della musica. L’associazione Réson-nance opera in diversipaesi europei e in Libanocon l’obiettivo di portarela musica classica in queiluoghi di disagio sociale,case di riposo per la ter-za età, ospedali pediatri-ci, carceri, case di curaspecializzate, dove poteralleviare la sofferenzadelle persone. Qual è il

Nel 1998 Elizabeth Sombart crea la Fondazione Résonnance, con la mis-sione di «offrire la musica nei luoghi dove non arriva», ospedali, residen-ze sociali-assistenziali e carceri. La Fondazione Résonnance promuoveinoltre scuole di pianoforte gratuite senza esami e senza limiti d’età perl’insegnamento della Pedagogia Résonnance. Elizabeth da oltre venti annisi dedica alla formazione di professori e di pianisti mediante master-classpresso università e scuole di alta formazione musicale in Svizzera e all’e-stero. Nel 2006 le è stato conferito dallo Stato Francese il titolo di Cava-liere dell’Ordine Nazionale del Merito per l’insieme della sua opera e nel2008 il titolo di Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere per la suacarriera artistica. Dal 2009 è docente presso l’École Polytechnique Fédé-rale de Lausanne per la fenomenologia della musica, creando inoltre ilCentro Résonnance-CIEPR. Parallelamente conduce la sua attività con-certistica.

Non si suona il pianoforte con le soledita: la forza misteriosa del respiro e la

sua padronanza sono le chiavi checonsentono di unificare gesto e fraseggio

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luogo in cui, più di ogni altro, ha sentito che lamissione dell’associazione ha trovato un riscontroimmediato? Non posso dire che l’ascolto sia migliore nelle carceripiuttosto che nelle case di cura, ciò che importa è l’e-sperienza nuova e meravigliosa di chi ascolta con grati-tudine e in completa libertà. Celibidache invitava le per-sone ad andare ai concerti lasciando all’ingresso nonsolo i cappotti ma anche tutta la loro cultura: parados-salmente, meno la gente conosce, meglio sa ascoltareed emozionarsi per la grandezza della musica. È proprioquando non si rimane nella seduzione di un rapportoorizzontale con l’altro che si raggiunge veramente quel-la comunione tra chi suona e chi ascolta, che la fenome-nologia chiama l’incontro della soggettività. Ci può raccontare una sua particolare esperienza? Considerando che da 20 anni eseguo più di 200 concer-ti all’anno in luoghi di disagio, non è facile rintracciarenella memoria il ricordo più significativo. Uno dei piùtoccanti forse è questo: ero a Parigi, in una casa di finevita, dove solitamente i malati vengono condotti alconcerto nei loro letti, in modo che tutti possano parte-

cipare. Quella volta ero arrivata in anticipo ma unadonna era già con il suo letto nella sala del concerto:dormiva e l’infermiera mi raccontò che aveva chiestoinsistentemente di partecipare, anche se ormai non par-lava quasi più. Questa donna aveva un apparecchio at-taccato al suo corpo, che emanava una specie di bip:era il rumore della vita che ancora pulsava. Pensai cheavrei dovuto integrare quel rumore nel mio inconscio,per non esserne disturbata. Comin-ciai il mio concerto e alla fine suonaila Berceuse di Chopin. Terminato ilbrano, mi accorsi di non sentire piùil bip. Con grande apprensione, mivoltai per cercare con lo sguardo ladonna, che era una persona di colo-re, e mi accorsi che era diventata to-talmente trasparente, quasi dorata.Era morta e c’era ancora una lacrimasulla sua guancia. Mi accostai a lei epensai alla fine della Berceuse diChopin, che termina con due accordisui quali dico sempre Gra-zie. Fino aquel momento non potevo immagi-nare che questo grazie si sarebbe ca-ricato di un significato e di una di-mensione così alta, come quella diaccompagnare qualcuno nell’aldilà. Un altro ricordo riguarda la vostracittà. Quando andai a suonare al Re-gina Coeli i carcerati mi dissero chedurante il concerto avevano vissuto

una sorta di evasione. Questo è il significato del lavorodella nostra associazione: permettere alla musica di at-testare veramente la propria missione, che è anchequella di rendere possibile un’evasione spirituale. Il maestro Sergiu Celibidache, con cui ha lavoratoper lungo tempo, non amava la musica registrata,ritenendo la musica dal vivo condizione imprescin-dibile per la musica stessa. Oggi viviamo nell’era di-gitale, in cui il modo di fruire la musica si è comple-tamente modificato, per certi versi semplificato. Inquesto contesto, educare all’ascolto della musica dalvivo è forse sempre più prioritario ma anche piùdifficile. L’avversione del maestro rumeno in questosenso era fondata?Se qualcuno mi dicesse che ascolta la musica solo suidischi, io gli direi che è meglio il silenzio. Il disco do-vrebbe essere utilizzato come uno yogurt, con una datadi scadenza. Il disco è fisso e rimane sempre uguale ase stesso mentre l’ascoltatore non lo è, cambia conti-nuamente. Può essere utilizzato a scopi didattici o for-mativi, oppure per spronare ad andare a un concerto.Ma invece tanta gente preferisce stare a casa ad ascol-tare il proprio disco, accantonando l’esperienza vivadel concerto che, come diceva il Maestro, è un’espe-rienza imprescindibile. Rendere la musica eterna in undisco significa andare contro la sua stessa essenza, per-ché la musica è in continuo movimento. A mio parere,è invece corretto il discorso contrario: l’ascolto dellamusica dal vivo dà la possibilità ad ognuno di incontra-re l’eterno che è dentro si sé. Eliminare questo aspetto,significa boicottare la missione stessa della musica. In che modo le nuove tecnologie influenzano o pos-sono influenzare la missione della vostra associazio-ne e della vostra pedagogia? La possibilità di divulgare attraverso internet in modopiù coinvolgente ed economico facilita la comunica-zione interna ed esterna sulla nostra missione. Tuttavianell’ambito della pedagogia non cambia molto perchénon ammettiamo concessioni nell’insegnamento dellafenomenologia: il cammino è lungo, è soprattutto uncammino interiore che permette di diventare servitoridella musica.

Celibidache invitava le persone adandare ai concerti lasciando all’ingressonon solo i cappotti ma anche tutta la lorocultura: paradossalmente, meno la gente

conosce, meglio sa ascoltare edemozionarsi per la grandezza della

musica

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Perseguitate, picchiate, violentate nel corpo e nell’ani-ma. Uccise. Questa è la storia di tante donne, una sto-ria che si ripete tragicamente e incessantemente, inmille varianti ma, sempre più spesso, con la stessa ter-ribile conclusione. Questa è una storia che rivive inmille storie, lontano da noi o nell’appartamento accan-to al nostro, proprio là dove avevamo voluto vederesolo una famiglia felice. Questa è una storia che nonrisparmia nessuno. Non è questione di etnia, territorioo classe sociale, perché le donne vittime di violenzasono sempre di più. E sempre di più sono i loro carne-fici. Quotidianamente il bollettino di guerra delle don-ne uccise viene aggiornato dai mezzi di comunicazio-ne. Il fenomeno ha assunto dimensioni così ampie chesono nate intere trasmissioni per raccontare, con fred-da accuratezza, i femminicidi. Questo vocabolo è statoconiato per dare un’identità verbale alla strage cheogni giorno si va compiendo. Una strage fatta di tantevicende individuali che non possono e non devonoperdersi nell’oblio, immediatamente sostituite da altridrammatici e sconvolgenti racconti. Perché se è veroche le violenze perpetuate contro le donne si consuma-no spesso nei microcosmi delle vite familiari o dei rap-porti di coppia, èl’intero contesto cul-turale che ci circon-da ad essere chiama-to in causa, ad esseredirettamente coin-volto. Ed è proprioper questo coinvolgi-mento, per questaimpellente necessitàdi fare qualcosa cheSerena Dandini, unadelle più apprezzatedonne dello spettaco-lo italiano, ha decisodi dare voce a chinon poteva ormai più

farsi sentire. Lo ha fatto attraverso il mezzo che le èpiù congeniale, la scrittura teatrale, a cui ha affidato laresponsabilità di raccontare la vicenda delle tante don-ne su cui si è scatenata la spietata violenza di mariti,compagni, ex fidanzati, padri. Con lei, nel doloroso la-voro di ricerca ed elaborazione dei testi, c’è stata Mau-ra Misiti, ricercatrice del CNR. Ne è nato il progettoteatrale, Ferite a morte, che è già una forma di lotta al-la violenza, una denuncia contro quella mentalità ma-schilista che continua a percepire la donna solo comeuna proprietà su cui esercitare incessanti forme di con-trollo e oppressione. Ad interpretare questi monologhi,poi raccolti in un libro dall’omonimo titolo, si sono al-ternate nel tempo alcune delle più importanti attriciitaliane e rappresentanti della società civile che hannopermesso alle storie di transitare e essere conosciute invarie parti d’Italia. Lo scorso 16 maggio i monologhisono arrivati anche presso l’Aula Magna della Facoltàdi Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre, per ini-ziativa del Comitato pari opportunità e della delegatadel Rettore Francesca Brezzi, che hanno voluto in talmodo coinvolgere la comunità universitaria tutta control’inaccettabile fenomeno della violenza sulle donne, co-

me tappa ulterioredel percorso di for-mazione che il CPOe la delegata alle pariopportunità hannoproposto in questi ul-timi anni a RomaTre.Nel foyer dell’aulamagna è stata anchepresentata la mostrafotografica dedicataalla Campagna disensibilizzazione IONO alla violenzacontro le donne. Lefoto rappresentano il

Ferite a morteIntervista a Serena Dandini sul progetto teatrale che ha dato voce alle donne vittime di violenzadi Francesca Gisotti

Serena Dandini è autrice e conduttrice televisiva. Inizia la sua carriera alla finedegli anni Settanta in radio. Dai primi anni Ottanta collabora con la Rai aprogrammi televisivi e radiofonici. È ideatrice su Radio 2 di La vita di MaeWest, a cui ha lavorato con Laura Betti. Con l’autore Marco Di Tillo firma duepuntate di Professione Jazz curato da Adriano Mazzoletti. Nel 1986 partecipa aItalia sera, in cui cura la sezione musicale. Fra le trasmissioni da lei scritte econdotte ricordiamo La TV delle ragazze, Avanzi, Pippo Chennedy Show, L’ottavonano, Parla con me. Dal 2001 è direttore artistico del Teatro Ambra Jovinelli diRoma. Nel 2011 pubblica il suo primo libro Dai diamanti non nasce niente(Rizzoli), in cui racconta la sua passione per il giardinaggio attraverso aneddotie citazioni. Tra il 2012 e il 2013 mette in scena il suo primo testo teatrale, Feritea morte, ispirato a fatti di violenza sulle donne realmente avvenuti. Nel 2013 iltesto teatrale diventa anche un libro, edito da Rizzoli.

contributo offerto alla campa-gna da alcuni testimonial ma-schili del mondo dello spetta-colo, della scienza e della po-litica.Hanno indossato una t-shirtper esprimere il loro IO NOalla violenza contro le donneil calciatore della RomaFrancesco Totti, il neo presi-dente della Regione, NicolaZingaretti, lo showman Ro-sario Fiorello, il poeta e scrit-tore Moni Ovadia, i Rettoridelle Università romane. Ad interpretare il testo – que-sta la particolarità dell’even-to a Roma Tre - sono statequesta volta le studentesse eil personale universitario che,insieme all’autrice del pro-getto e alle attrici Orsetta DeRossi e Giorgia Cardaci, han-no recitato, con un’intensitàtoccante, alcune delle paginepiù significative dell’opera.Una profonda commozioneha attraversato l’Aula Magna, gremita di studenti, pro-fessori e figure istituzionali, partecipi tutti di uno stes-sa dolorosa emozione. Prima della messa in scena ab-biamo intervistato proprio Serena Dandini, presenteanche in veste di interprete di uno dei monologhi.

Come è nata l’idea di questo spettacolo, che toccauna tematica molto attuale e delicata? C’è statoun evento in particolare che l’ha colpita e che l’haspinta a farlo o è stato il risultato di un processodi metabolizzazione graduale di tutte le dramma-tiche vicende degli ultimi tempi?Un po’ entrambe le cose. Io ho avuto sempre una sen-sibilità particolare verso questo fenomeno che mi face-va particolarmente rabbia e che non capivo perché ve-nisse ignorato. Adesso le cose stanno cambiando, men-tre prima si parlava solo in termini di delitto passiona-le, raptus, questioni di famiglia in cui non mettere ilnaso. E allora mi è venuto in mente che tanti studiscientifici, tanti convegni, forse, non arrivavano alpunto e che usando il teatro si poteva arrivare allo sto-maco delle persone. Ho cominciato a scrivere questimonologhi delle donne morte un po’ alla Spoon River,pensando di dar loro quella possibilità di parlare chenon hanno più. Ecco allora che racconti anche una vita

più articolata e interessantedi quella che spesso emergenelle cronache dei giornali,dove s’insiste in manieramorbosa sugli ultimi mo-menti della vittima, solo sullaloro morte e non sulla lorovita. Poi c’è stato l’omicidiodi Carmela Petrucci a Paler-mo, uccisa mentre tentava didifendere la sorella dall’ac-coltellamento dell’ex fidan-zato. Dopo questa tragedia,le ragazze del centro antivio-lenza con cui io collaboro mihanno chiesto di fare qualco-sa di concreto. Da questa ri-chiesta è nato il progetto tea-trale. Ne siamo stati moltofelici. Anche perché adesso,tramite il sito di Ferite amorte, stiamo raccogliendole firme per chiedere al go-verno l’immediata convoca-zione degli stati generali con-tro la violenza sulle donne.Grazie a persone come Jose-

fa Idem, Ministro delle pari opportunità, e Laura Bol-drini, Presidente della Camera, finalmente si sta smuo-vendo qualcosa.Quasi sempre queste situazioni si verificano all’in-terno delle famiglie. Quindi, mi viene da pensareche ci sia proprio un problema legato all’affettività,ai legami sentimentali delle persone nella quotidia-nità. Non sarebbe perciò necessaria, secondo lei,una rieducazione all’affettività?Certamente e infatti non è un caso che oggi siamo al-l’interno dell’Università. Mi ha fatto molto piacerequesto invito di Francesca Brezzi, perché ci siamo resiconto, girando per l’Italia, che il problema grosso deglistereotipi di genere, della diseducazione ai sentimentie della mancanza di rispetto verso le donne è qualcosadi endemico fra i giovani. È perciò una rivoluzioneculturale che dobbiamo fare. Se da una parte servonodei provvedimenti urgenti per la protezione delle don-ne, serve anche un’azione di rieducazione a partire dal-le scuole e dall’università. Questo è un modo per af-frontare il problema e far tornare a casa un pensiero.In quanto donna di spettacolo, non pensa che anchei mezzi di comunicazione abbiano una responsabili-tà nello strumentalizzazione del corpo femminile?La deriva estetica dell’immagine è terrificante. Si èdiffusa l’idea che basta avere un bell’aspetto per farecarriera, una cosa che sembrava superata con il femmi-nismo. Io non sono per la censura, ma bisogna far ca-pire che ci sono altri modelli, altre possibilità per esse-re forti, sexy, autorevoli, intelligenti.Ci sono stati dei momenti in cui il coinvolgimentopersonale verso le storie è stato così forte da senti-re quasi un problema nel rappresentarlo e rac-contarlo?Il problema di rappresentazione è stato enorme, per mecome per le attrici. Ma quest’emotività è giusta; nonpossiamo solo vivere di “smile” e “mi piace”. Dobbia-mo anche farci scuotere nell’interiorità. 61

Mi ha fatto molto piacere questo invitoqui all’università, perché ci siamo resi

conto, girando per l’Italia, che ilproblema grosso degli stereotipi di

genere, della diseducazione ai sentimentie della mancanza di rispetto verso ledonne è qualcosa di endemico fra igiovani. È perciò una rivoluzioneculturale che dobbiamo fare

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Un incontro duplice, con Laura Betti e con Paso-lini attraverso di lei. Una metamorfosi. Un’ini-ziazione. “Una storia quasi vera”. Una scritturache si muove su un filo sottile che sta fra narrati-va e saggistica. Qualcosa di scritto che genere dilibro è?Non possiedo il “respiro” del romanziere, e mi sonosempre piaciuti i libri dove tutti i generi letterari so-no presenti - ognuno dando una mano all’altro nella

mia personale ricerca di senso. “Una storia quasi ve-ra” invece è un’espressione dell’editore, per quantomi riguarda abbastanza melensa. Scriveva Italo Svevo che«il passato è sempre nuo-vo: come la vita procedeesso si muta perché risal-gono a galla delle partiche parevano sprofonda-te nell’oblio mentre altrescompaiono perché ora-mai poco importanti. Ilpresente dirige il passatocome un direttore d’or-chestra i suoi suonatori.Gli occorrono questi oquei suoni, non altri. E

perciò il passato (…) risuona o ammutolisce. Nelpresente riverbera solo quella parte ch’è richia-mata per illuminarlo o per offuscarlo». In Qual-cosa di scritto lei prende le mosse da un periodotrascorso, nel 1994, fra le carte e le presenze delFondo Pier Paolo Pasolini. Cosa risuona diquell’esperienza nel libro e, più in generale, nellasua scrittura? Perché lo ha scritto ora?Sono completamente d’accordo con Svevo. Possosolo aggiungere che a un certo punto le cose risalgo-no alla coscienza, come una bollicina d’aria in un li-quido. È inutile andarle a cercare, sono loro che si

presentano al momento giusto. Che per altri versi èanche il momento “sbagliato”, in un certo senso,perché l’arte non è una terapia, al contrario può an-che intasare la coscienza di fantasmi sgradevoli epaure inconfessabili. Ma non è detto che dobbiamosempre stare a “curarci” come se abitassimo nellaMontagna incantata di Tomas Mann.

Pasolini, come voce nar-rativa e come figura in-tellettuale, è a suo parereuna eredità viva nel pre-sente?Questa domanda mi è sta-ta rivolta molte volte, e misuscita sempre un certoimbarazzo, perché non mipiace affatto la maniera incui Pasolini rimane in vitaattraverso una serie di ci-tazioni molto scontate edestratte dal loro contesto.

Qualcosa di scrittoLa letteratura come forma di conoscenza del mondo:intervista a Emanuele Trevi di Federica Martellini

Emanuele Trevi è scrittore e critico letterario. Ha esordito come au-tore di narrativa con I cani del nulla (Einaudi, 2003) e ha pubblicatoper la collana Contromano di Laterza Senza verso (2005) e L’ondadel porto (2005). Dopo Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010),è arrivato secondo al Premio Strega 2012 con Qualcosa di scritto. Èautore di numerose curatele e saggi, fra cui Istruzioni per l’uso dellupo (Castelvecchi, 1994). Ha inoltre pubblicato i libri-intervista In-vasioni controllate (con Mario Trevi, Castelvecchi, 2007) e Lettera-tura e libertà (con Raffaele La Capria, Fandango, 2009). Collaboracon il Corriere della Sera e Il manifesto. È conduttore di programmiradiofonici per Rai Radio 3.

A un certo punto le cose risalgono allacoscienza, come una bollicina d’aria inun liquido. È inutile andarle a cercare,sono loro che si presentano al momentogiusto. Che per altri versi è anche il

momento “sbagliato”, in un certo senso,perché l’arte non è una terapia, al

contrario può anche intasare la coscienzadi fantasmi sgradevoli e paure

inconfessabili

In fondo, tutti i libri sono libricontemporanei, nel senso in cui, comediceva il vecchio Croce, ogni storia è

storia contemporanea, viva a partire dalpunto di vista del presente

Pier Paolo Pasolini con Laura Betti e Goffredo Parise

Quindi rispondo sempre, a costo diessere antipatico, che quello chemi interessa è il modo in cui Paso-lini è vivo per me. Del resto, ionon nutro molto interesse per lapolitica o il cosiddetto “impegno”,quindi mi viene molto facile pen-sare in maniera individuale e sog-gettiva.In un’intervista ha detto: «La vi-ta che vale la pena di esserescritta è la vita che mette in con-dizione il personaggio di impara-re qualcosa, di stupirsi, attraver-so un amore, un viaggio, un li-bro, un incontro: quando il tes-suto delle abitudini, che è unacorazza ma anche una prigione,si rompe perché qualcosa di ine-dito ci appare. E anche se lo fug-giamo sappiamo che esiste». Laletteratura contemporanea sa es-sere, come lei scrive, «una forma di conoscenzadel mondo»?Tutti i libri contemporanei che mi convincono sonouna “forma di conoscenza del mondo”. Ma in fondo,tutti i libri sono libri contemporanei, nel senso incui, come diceva il vecchio Croce, ogni storia è sto-ria contemporanea, viva a partire dal punto di vistadel presente, che è l’unico punto di vista umana-mente possibile. Per esempio, l’altro giorno ho letto

un bel saggio di Virginia Woolf su Henry James. Maquel James lì, non esiste più, si è trasformato inun’altra cosa. Quindi anche un cosiddetto “classico”in realtà funziona come un libro appena uscito in li-breria. L’unico vantaggio del tempo è che selezionain un modo molto severo, quindi è difficile che citrasmetta, a distanza di tanti anni, dei casi di soprav-valutazione o delle fregature belle e buone che inve-ce riceviamo sempre dal presente.

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Roma, primi anni Novanta. Mentre i sogni del No-vecento volgono a una fine inesorabile e Berlusco-ni si avvia a prendere il potere, uno scrittore tren-tenne cinico e ingenuo, sbadato e profondo assie-me trova lavoro in un archivio, il Fondo Pier PaoloPasolini. Su quel dedalo di carte racchiuso in unpalazzone del quartiere Prati, regna una bisbeticaLaura Betti sul viale del tramonto: ma l’incontrocon la folle eroina di questo libro, sedicente eppu-re autentica erede spirituale del poeta friulano,equivale per il giovane a un incontro con Pasolinistesso, come se l’attrice di Teorema fosse plasma-ta, posseduta dalla sua presenza viva, dal suo iti-nerario privato di indefesso sperimentatore sessua-le e dalla sua vicenda pubblica d’arte, eresia e pro-vocazione.Qualcosa di scritto racconta la linea d’ombra diquesto contagio e l’inevitabile congedo da esso –un congedo dall’adolescenza e da un’intera epoca;ma racconta anche un’altra vicenda, quella di un’i-niziazione ai misteri, di un accesso ai più ripostied eterni segreti della vita. Una storia nascosta inPetrolio, il romanzo incompiuto di Pasolini che vi-de la luce nel 1992 e che rivive qui in un’interpre-tazione radicale e illuminante. Una storia che con-durrà il lettore per due volte in Grecia, alla sacraEleusi: come guida, prima il grandioso libro postu-mo di Pier Paolo Pasolini, poi il disincanto dellanostra epoca – in cui può tuttavia brillare ancora ilparadossale lampo del mistero. (da www.pontedel-legrazie.it)

PopsceneIn territorio nemico: nuove forme di scrittura collettiva e nuove forme di romanzodi Ugo Attisani

È uscito da poco per i ti-pi della Minimum Faxun romanzo che, attra-verso le vicende di trepersonaggi e in partico-lare seguendo quella delsottoufficiale di MarinaMatteo Curti nel suo ten-tativo di risalire la peni-sola da Gaeta a Milano,racconta anche la storiadel nostro Paese durantela seconda guerra mon-diale e la resistenza al-l’occupazione nazista

dopo l’armistizio dell’8 settembre. Il titolo del roman-zo è In territorio nemico e quello che lo rende oltremo-do particolare è il fatto di essere stato scritto non da unsolo autore ma da una collettività composta da oltrecento persone, a vario titolo coinvolte nella realizzazio-ne del romanzo. In territorio nemico è infatti il primoromanzo frutto del metodo di scrittura SIC, ovveroScrittura Industriale Collettiva, ideato dagli scrittoriGregorio Magini e Vanni Santoni nel 2007 e che finoad ora aveva dato origine a sei racconti, tutti pubblicaticon licenza Creative Commons sul sito dell’associazio-ne sorta per promuovere l’iniziativa. La scrittura collet-tiva non è certo una novità, soprattutto nel panoramaletterario italiano che, grazie ai collettivi Luther Blis-sett prima e Wu Ming poi, nelle sue varie incarnazioni,è anzi uno di quelli che piùha riconosciuto successo, an-che commerciale, alle operefrutto di queste particolarientità creative. La novità el’originalità di questo esperi-mento sono però da rintrac-ciare non tanto nel grandenumero di scrittori coinvoltinella realizzazione di questoromanzo (al momento il piùgrande mai registrato nellaletteratura mondiale) ma nel-l’elaborazione di un metodoscientifico in grado di pro-muovere da un lato la prassidella scrittura collettiva algrande pubblico e dall’altroquello di realizzare un “gran-de Romanzo Aperto” che siaanche un buon libro. Conquesto proposito, che si ponequindi oltre le già sperimen-tate esperienze collettive discrittori, e mutuando strutturedi lavoro simili a quelle del

teatro e del cinema, si è elaborato un metodo di scrittu-ra che parte dalla suddivisione in singole schede diogni componente del romanzo stesso, ovvero perso-naggi, luoghi ed eventi. Queste schede, elaborate dapiccoli gruppi di tre o più scrittori, vengono poi trasfor-mate da un direttore artistico, una figura particolarmen-te importante e innovativa, attraverso vari passaggi diassemblaggio, verifica e ristesura, nel prodotto finale.Il direttore artistico rappresenta un attore terzo e impar-ziale in questo processo, in quanto non partecipa diret-tamente alla scrittura ma coordina e segue il lavoro de-gli scrittori. Per questo romanzo in particolare sonostati coinvolti in tutto ben otto direttori artistici, 78scrittori e 20 tra revisori, storici e traduttori dialettali.Non è certo un caso che un simile processo lavorativotrovasse poi il suo più congeniale ambito di applicazio-ne nella forma del romanzo storico che, come hannonotato i due fondatori di Scrittura Industriale CollettivaMagini e Santoni, è già quasi di per sé, in quanto scrit-tura basata sulle fonti, una scrittura collettiva. Probabil-mente ancor meno casuale è la scelta di trattare l’argo-mento resistenziale che, sempre secondo le parole diMagini e Santoni, rappresenta il grande vuoto nella let-teratura italiana contemporanea dato che non sarebbeancora stato scritto il romanzo definitivo sulla vicendadella Resistenza che, invece, ha saputo dare una sintesipolitica di sé nella Costituzione repubblicana. In terri-torio nemico sembra quindi inserirsi a pieno nella defi-nizione creata da Wu Ming 1 di New Italian Epic, e inparticolare rispettare il terzo punto delle sue caratteri-

stiche principali enunciatonel Memorandum 1993-2008: narrativa, sguardoobliquo, ritorno al futuro,ovvero «Complessità narrati-va, attitudine popular». Que-sto romanzo è quindi un veroe proprio Unidentified Narra-tive Object, un Oggetto Nar-rativo Non Identificato, perrimanere sempre a quantocodificato con New ItalianEpic da Wu Ming 1, catego-ria che in qualche modo sem-bra contrapporsi ai “libroidi”che, secondo la definizioneche ne ha dato Gian ArturoFerrari, per anni direttoredella divisione libri del Grup-po Mondadori, sono «queglioggetti che dei libri hannotutte le fattezze ma non l’ani-ma» e che hanno assunto unruolo centrale nell’ormai an-tico dibattito sulla crisi del-l’editoria.

Ugo Attisani

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iche

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In Italia garantire il di-ritto allo studio univer-sitario è un compito co-stituzionale affidato alleRegioni, le quali si av-valgono dell’opera dispecifici organismi, co-me per il Lazio è Lazio-disu, ente dipendentedalla Regione, per ge-stire le diverse attività,che vanno dalle borse distudio alle residenzeuniversitarie, dallemense ai provvedimenti

a favore dei diversamente abili. Ebbene tutti questienti sono collegati tra loro dall’Associazione nazio-nale A.N.DI.S.U. (Associazione Nazionale per il Di-ritto agli Studi Universitari), di cui fanno parte i pre-sidenti o i direttori degli enti regionali di tutta Italiache si occupano di erogare i servizi di supporto aglistudenti universitari.Scopo fondamentale dell’associazione è quello di fa-vorire un efficace “dialogo” tra i diversi enti regiona-li, in modo da ottenere un confronto utile tra le varieattività che essi svolgono e quindi individuare effica-ci linee di intervento a livello nazionale e anche in-ternazionale. In pratica, A.N.DI.S.U. promuove emantiene i contatti tra gli organismi per il diritto allostudio universitario, collabora con le regioni, le uni-versità ed il Ministero dell’Università e della ricercascientifica al fine di realizzare un più efficace coordi-namento nelle attività di indirizzo e di gestione, stu-dia un miglior uso delle risorse disponibili, volto arimuovere gli ostacoli per il pieno accesso agli studiuniversitari da parte dei più meritevoli e privi dimezzi così come disposto dagli articoli 3 e 34 dellaCostituzione. Per fare il punto su tali risultati, l’As-sociazione promuove anche periodici eventi a livellonazionale e la partecipazione a incontri all’estero, co-me quello svoltosi nel 2011 a Aix-en-Province periniziativa franco-tedesca.In questo quadro l’A.N.DI.S.U. promuove a Bolognanei giorni 12, 13 e 14 Giugno 2013, il terzo Forumeuropeo del diritto allo studio universitario, dopo leedizioni di Perugia del 2008 e di Padova del 2010,nella consapevolezza di quanto sia diventato neces-sario interpretare in chiave internazionale il dirittoallo studio, proiettandolo in un contesto europeo, an-che attraverso un utile e costruttivo confronto con lerealtà universitarie degli altri paesi.Ad esso prenderanno parte rappresentanti di vari Sta-ti europei, delle associazioni studentesche anche dialtri Paesi e di centri di ricerca statistica nazionale edeuropea, con l’obiettivo di approfondire i temi por-tanti del diritto allo studio in chiave europea, soffer-

mandosi in particolare su uno scambio di esperienzee quadri normativi a livello continentale, sulla mobi-lità internazionale degli studenti, sull’implementa-zione di politiche che favoriscano gli sbocchi occu-pazionali più idonei ai neo laureati coerenti con laformazione ricevuta. In questo contesto l’attenzionesarà anche portata sulle realtà extracontinentali, siadel continente americano, sia dei paesi del Mediter-raneo e del Medio ed Estremo Oriente.Come dichiarato dal Presidente dell’ A.N.DI.S.U.Marco Moretti, che è presidente dell’Ente per il dirit-to allo studio della Toscana, «l’auspicio è che daquesto forum emerga l’importanza del DSU nella co-struzione di uno spazio comune europeo entro il qua-le gli studenti abbiano capacità di crescere e appren-dere senza incontrare barriere di nessun tipo. Solocosì gli studenti potranno godere di una piena cittadi-nanza europea basata su uguali diritti e avere la cer-tezza di poter accedere ad un sistema di benefici uni-voci in tutto il continente». Il forum di Bologna rappresenta quindi un importan-te appuntamento per porre le basi di “uno spazio eu-ropeo dell’istruzione superiore”, per la creazione delquale occorre riformare il Diritto allo Studio, non piùcome assistenza prevalente nell’ambito di politichesociali, quanto piuttosto sistema di servizi agli stu-denti come fattore di crescita e sviluppo economicodei territori attraverso la valorizzazione della forma-zione degli studenti nei diversi campi del sapere enei diversi settori di attività.Uno dei punti fondamentali che saranno trattati a Bo-logna – attraverso un proficuo scambio di esperienze– sarà quello del rapporto tra formazione e lavoro, te-ma su cui l’Italia si presenta particolarmente sensibi-le, come i dati sulla disoccupazione giovanile dimo-strano. La comparazione tra i diversi sistemi univer-sitari e tra i diversi interventi nel campo di un dirittoallo studio veramente capace di sostenere ed incenti-vare le diverse attitudini e la capacità d’impegno de-gli studenti potrà fornire indicazioni quanto mai utilinel difficile momento che stiamo attraversando.

Gianpiero Gamaleri

Ultim’ora da LaziodisuGate università, destinazione europea: il Forum europeo di Bologna sul Diritto allo studio universitario di Gianpiero Gamaleri

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Nel 2006 il Sistema bib-liotecario di Ateneo hainiziato a usufruire dellaLegge 64/2001 che isti-tuiva il Servizio civilenazionale, con il proget-to La biblioteca per tut-ti. Aattraverso la collab-orazione dei volontaricivili si voleva renderepiù facile a tutti gli uten-ti l’uso della biblioteca:migliorare gli strumentidi comunicazione, elet-tronici e tradizionali;

ampliare gli orari del servizio per permettere ancheagli studenti lavoratori di usufruirne; creare situazionied eventi che avvicinassero l’utente alla biblioteca at-traverso un linguaggio amichevole, piacevole, creativoe artistico. Il progetto ha funzionato. All’interno della parola “tutti” ci sono gli utenti chehanno possibilità diverse di accesso all’informazionenecessaria per lo studio perché portatori di una dis-abilità. Per loro la biblioteca può essere un serviziodifficile se non addirittura inaccessibile. Ci siamoquindi impegnati, insieme all’Ufficio studenti con dis-abilità, in un ulteriore progetto che abbiamo chiamatoLa Biblioteca facile. All’interno del Catalogo bibliografico generale di Ate-neo si individua un settore di testi in formato specialee nel regolamento di accesso ai servizi di prestito sonostati dati privilegi speciali agli utenti con disabilità. Inbiblioteca l’attività più ampia riguarda la lettura e ob-bligatoriamente un’attenzione particolare è stata dataagli utenti con disabilità visive. Glistrumenti tecnici per permettere lorodi “leggere” un libro e studiarlosono ormai ad un livello talmentealto di evoluzione che per questo as-petto il percorso è stato veramentefacile. Le Biblioteche umanistica edi scienze della formazione, checontano un maggior numero di uten-ti con disabilità visiva, e la Piazzatelematica sono ora dotate dipostazioni speciali per ipo e non ve-denti.Più difficile è stato ottenere i libri distudio in formato elettronico. Verifi-cata la resistenza di quasi tutti glieditori ad inviarceli, abbiamo apertoun canale di comunicazione con laBiblioteca italiana per ciechi “Regi-na Margherita” che ha portato allafirma di una convenzione tra RomaTre e la Biblioteca. La convenzione

e le modalità di fruizione del progetto sono consulta-bili alla pagina http://www.sba.uniroma3.it, quindinon mi dilungo sui contenuti. Vorrei invece sottolin-eare qual è, a nostro avviso, l’importanza di questaconvenzione.La Biblioteca “Regina Margherita”, fa un servizio apagamento, anche se sostenibile, per gli studenti condisabilità visiva che, come gli studenti vedenti, pos-sono quindi acquistare i loro libri e studiarli a casa congli strumenti a loro disposizione. Obiettivo del Sis-tema bibliotecario e dell’Ufficio studenti con disabilitàè però quello di mettere tutti gli utenti nella stessacondizione di fruibilità dei servizi. Lo studente senzadisabilità può comprare il libro di testo e studiarlodove vuole, oppure trovarlo in biblioteca e condi-videre con i colleghi momenti di studio, di scambi cul-turali, di chiacchiere anche, e quindi di crescita per-sonale e collettiva. Questo deve essere possibile ancheper gli studenti che hanno delle disabilità. Noi cerchiamo di rendere sempre più facile il rapportotra utente e biblioteca, siamo certi che faciliti a suavolta l’esperienza di confronto e di rispetto dell’altro,la capacità di chiedere, di farsi comprendere, discegliere l’informazione giusta tra tutta quella propos-ta da internet. Questa convenzione è un grosso passoavanti.Ci sentiamo di aver rispettato le cinque leggi dellabiblioteconomia di S. R. Ranganathan, bibliotecarioindiano della prima metà del Novecento, ancora oggiineccepibili e adatte al tempo e alla società in cui vivi-amo: 1.I libri sono fatti per essere usati; 2. Ad ogni let-tore il suo libro; 3. Ad ogni libro il suo lettore; 4. Nonfar perdere tempo al lettore; 5. La biblioteca è un orga-nismo che cresce. Soprattutto la seconda e la quinta.

Non tutti sanno che...La Biblioteca facile e per tutti: una convenzione tra Roma Tre e la Biblioteca italiana per ciechi “Regina Margherita”di Maria Palozzi

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Maria Palozzi

Postazione per utenti con problemi visivi presso la Biblioteca di Scienze della formazione

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Nel pensare comune,scienza e letteratura so-no spesso consideratediscipline in contrappo-sizione fra loro, l’unacostruita su dati certi,sostenuti da test di labo-ratorio e costantementesottoposti a nuove veri-fiche, e l’altra espressio-ne della soggettività edella creatività indivi-duale. C’è chi però havoluto gettare un pontefra queste due espres-

sioni dell’essere umano, entrambe fondamentali perla crescita e lo sviluppo della società. Con questoobiettivo, infatti, nel 2002 è partito il Premio Merck(precedentemente Merck-Serono), volto a premiarequei saggi e romanzi, pubblicati in italiano, che han-no sviluppato in maniera originale la relazione framondo scientifico e letterario. Nato per iniziativa del-la società farmaceutica di cui porta il nome, in pochianni il Premio si è trasformato in un vero e proprioevento culturale, coinvolgendo esponenti importantidel mondo artistico, accademico e dei media. Scor-rendo i nomi dei vincitori delle passate edizioni è fa-cilmente riscontrabile l’alto livello qualitativo delleopere scelte. Fra queste spiccano ad esempio: Lo stra-no caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Had-don, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giorda-no, Io non ricordo di Stefan Merrill Block. Si tratta diveri e propri casi letterari, che dimostrano l’aperturadel Premio a una svariata molteplicità di possibili in-terpretazioni del tema. Inoltre l’attenzione del lettorecomune verso argomenti considerati, per troppo tem-po, poco accessibili o ostici, ha testimoniato la neces-sità di superare vincoli mentali frutto di convinzioniormai superate. Anche per quanto riguarda la saggi-stica ci sono state belle sorprese. È il caso ad esempiodi L’uomo che credeva di essere morto ed altri casiclinici sul mistero della natura umana del neuroscen-

ziato Vilayanur S. Ramachandran. Una vera e propriaindagine sui rapporti fra corpo, mente ed emozioni,con un’attenzione particolare verso pazienti con difet-ti fisici o lesioni celebrali. Ecco allora che il PremioMerck sembra aver realmente raggiunto il dupliceobiettivo che si era prefissato: avvicinare i lettori adun mondo non poi così lontano dalla quotidianità edincentivare l’allargamento degli orizzonti creativi de-gli scrittori, offrendo loro anche un premio in denaro(10.000 euro, sia per il saggio che per il romanzo). Agiudicare i lavori partecipa un numeroso gruppo dirappresentanti del mondo scientifico e letterario cheperò non vogliono in alcun modo togliere la scena aiveri protagonisti del Premio: gli scrittori. Ed è propriopensando ai più giovani fra loro che, nel 2006/2007,Merck ha voluto creare un concorso parallelo al Pre-mio, rivolto a tutti gli studenti delle scuole superiori.La scienza narrata, questo il titolo dell’iniziativa,mette i ragazzi alle prese con una bella sfida: scrivereun racconto in cui emerga una propria originalissimavisione della scienza e delle sue molteplici applica-zioni. L’evento, nella sua prima edizione, ha visto lacollaborazione del Liceo Classico Tasso di Roma.Presso l’istituto sono stati attivati laboratori di scrittu-ra creativa tenuti da professionisti del mondo siascientifico che letterario. Il successo dell’esperimentoe la grande passione con cui gli studenti vi hannoaderito hanno spinto gli organizzatori ad estendere ilaboratori anche ad altri istituti d’Italia. Quest’annoinoltre è stato anche aperto un blog contenente mate-riale didattico e consigli di scrittura, un profilo face-book e uno twitter, per favorire ancora di più il coin-volgimento dei ragazzi. La presentazione ufficialedell’edizione 2013 si è tenuta il 29 gennaio scorsopresso il Teatro Palladium ed ha visto la partecipazio-ne di alcune delle figure centrali del concorso. Innan-zitutto Antonio Tosco, direttore Health Outcomes &Market Access di Merck Serono S.p.A. e responsabiledell’iniziativa, che ha voluto sottolineare l’importan-za di una partecipazione attiva delle aziende all’inter-no della sfera sociale. Toccando argomenti delicati,quali quello della fecondazione assistita, ha inoltre

La scienza narrataPotenzialità di un racconto ancora tutto da scriveredi Francesca Gisotti

Francesca Gisotti

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posto l’accento sul concetto di responsabilità, che do-vrebbe essere uno dei principi ispiratori delle aziendeche operano in questo settore. Introdotti dal modera-tore dell’evento, lo scrittore Giovanni Nucci, hannopoi preso la parola il filosofo della scienza Telmo Pie-vani, vincitore di una menzione speciale del PremioMerck nel 2012, e la sceneggiatrice Patrizia Carrano.Con estrema chiarezza espositiva e al tempo stessogrande precisione scientifica, Pievani è riuscito a pre-sentare agli studenti in sala una visione alternativadella teoria evoluzionistica. Lungi dall’essere qualco-sa di assodato, su cui ormai non c’è più nulla da sco-prire, secondo il filosofo la storia della specie uomanasarebbe invece espressione di tantissime storie poten-ziali, molte delle quali ancora da scrivere e su cui po-ter esercitare anche la propria immaginazione. Da quil’invito a gettare il proprio sguardo oltre l’apparenzadel reale, assecondando un approccio alla ricerca ingrado di stimolare sempre nuove domande e riflessio-ni. Una metodologia di lavoro condivisa, in tutt’altroambito, anche dalla sceneggiatrice e giornalista Patri-zia Carrano. È lei, nel corso del dibattito, a ribadirel’importanza di ricercare la scienza nella propria vitadi tutti i giorni, allo scopo di colmare quella distanzatroppo spesso frapposta fra noi e l’oggetto del nostrostudio. A rendere ancora più stimolante il dibattito so-no intervenuti anche i ragazzi, invitati da GiovanniNucci ad avanzare dubbi e riflessioni sul lavoro da in-traprendere in vista del concorso. Affascinanti alcunedelle proposte emerse, come quella di scrivere un rac-conto avente come fulcro la luce e ambientato su unpalcoscenico teatrale o quella di ispirarsi alla vita diqualche scienziato importante per costruire un rac-conto fra l’autobiografia e il romanzo. Da parte degliesperti due preziosi suggerimenti: essere il più precisipossibili, qualora si decida di far riferimento a teoriescientifiche e matematiche, e fare della chiarezzaespositiva uno dei propri principali obiettivi di scrit-

tura. Suggerimenti che richiamano, fra l’altro, i “36consigli per scrivere bene” di Umberto Eco, pubblica-ti sul sito del concorso e punto di riferimento fonda-mentale per qualsiasi scrittore in erba. Su questo emolto altro hanno avuto modo di confrontarsi i ragaz-zi delle scuole in cui sono stati attivati i laboratori eche, in questa settima edizione, hanno potuto assisterea quattro lezioni speciali. Oltre a quella romana del29 gennaio, quella del 7 febbraio a Vicenza tenuta dalprof. Edoardo Boncinelli, sul tema Che cos’è la vita?,del 15 febbraio a Napoli tenuta dal prof. MaurizioFerraris, sul tema Anima e iPad, umano e automa equella del 20 febbraio a Milano tenuta dal prof. CarloAlberto Redi e dal dott. Piergiorgio Odifreddi, sul te-ma Umano e Postumano. Argomenti di estrema attua-lità, su cui potersi sbizzarrire attingendo direttamentedalla propria esperienza quotidiana di osservatori.Come nel caso del Premio Merck, a stabilire i vinci-tori, sarà una giuria di qualità. Tre i premi in denaroche saranno assegnati: 1.000 euro al primo classifica-to, 750 al secondo e 500 al terzo. Inoltre tutti i rac-conti migliori saranno editati e raccolti in una pubbli-cazione. Leggendo quelli delle passate edizioni si re-sta veramente stupiti della forza narrativa e della ma-turità stilistica di questi giovani. Un caso esemplare èrappresentato dalla vincitrice dello scorso anno, lastudentessa del Liceo Classico Cavour di Torino, Ce-cilia Guiot. Nel suo Sistema, Cecilia rappresenta lasua classe come un organismo perfetto in cui ognistudente incarna un elemento necessario, in continuainterazione con gli altri. Solo lei è ancora in cercadella sua identità, è forse potrà trovarla solo al di fuo-ri del sistema. Considerati i traguardi raggiunti, c’è daaugurarsi che iniziative del genere coinvolgano sem-pre più ragazzi, favorendone uno sviluppo non sola-mente didattico bensì sempre più improntato ad unaconcreta applicazione del sapere e allo sviluppo dellapropria personalità.

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Il 5 aprile scorso presso la Facoltà di Economia si ètenuto il seminario Ecuador: La costruzione di unmodello alternativo di sviluppo e le minacce alla so-vranità dello Stato. La Revolución Ciudadana ed ilBuen Vivir organizzato dalla Red de Amigos de laRevolución Ciudadana.La Red è un’iniziativa nata dall’esperienza di ungruppo di giovani molto eterogeneo, composto dastudenti, ricercatori, militanti in diverse realtà politi-che, singoli rappresentanti della società civile chehanno avuto l’opportunità di visitare l’Ecuador ehanno deciso di portare la propria esperienza nei pae-si di origine formando dei comitati internazionali conl’intenzione di diffondere gli ideali e il progetto poli-tico della Revolución Ciudadana. Per inaugurare le attività del comitato italiano, loscorso 8 febbraio, la Red de Amigos ha organizzatoun concerto gratuito presso il teatro Tendastrisce diRoma, durante il quale anche la comunità ecuadoria-na ha espresso il suo sostegno all’iniziativa.L’obiettivo del seminario è stato quello di diffonderela conoscenza del concetto di Buen Vivir, analizzarnele implicazioni nel contesto sociale, politico ed eco-nomico e comprendere se possa essere consideratoun modello alternativo di sviluppo o un modello al-ternativo allo sviluppo. Per rispondere a questo inter-rogativo abbiamo invitato ad intervenire al seminarioPasquale De Muro (docente di Economia dei paesi invia di sviluppo), Salvatore Monni (docente di Econo-mia dello sviluppo) e Massimo Pallottino (ricercatorepresso il CISP di Pisa), che si occupano da diversotempo di questi temi e ne hanno fatto oggetto di stu-dio ed esperienza diretta.Ma che cos’è il Buen Vivir? Il Buen Vivir, o SumakKawsay in lingua quechua – che significa letteral-mente “vita in armonia” – è un paradigma comunita-rio presente nella maggior parte delle popolazionioriginarie che, considerando ogni elemento come in-terconnesso ed interdipendente, propone uno sfrutta-mento sostenibile delle risorse naturali; questo impli-ca il rispetto di un codice etico ed il riconoscimentodei diritti di tutti gli uomini, un meccanismo accen-tuatamente pluralista nella presa delle decisioni, unarichiesta di partecipazione e un ascolto profondo del-le esigenze della collettività. A questo proposito nellanuova Costituzione del2008 l’Ecuador si definisceuno stato «plurinazionale emulticulturale» e stabiliscecome doveri fondamentalidello stato «La pianifica-zione dello sviluppo nazio-nale, lo sradicamento dellapovertà, la promozionedello sviluppo sostenibile,l’equa distribuzione delle

risorse e della ricchezza, affinché tutti possano rag-giungere il Buen Vivir».Può il Buen Vivir rappresentare un’alternativa al mo-dello di sviluppo capitalistico? Le istituzioni economi-che internazionali consigliano ancora misure di politi-ca economica omogenee per ogni paese portando ipaesi ad una perdita cospicua della capacità di prende-re le proprie scelte ed assecondare le proprie esigenze.In Ecuador, invece, dal 2006, grazie ad una congiuntu-ra positiva di movimenti sociali e politici, l’esperienzadella Revolución Ciudadana sta sperimentando un si-stema che ha riportato il paese ad essere in grado diorientare le proprie scelte, riappropriandosi della pro-pria sovranità, adattando i propri investimenti ai setto-ri più utili alla comunità e dimostrando empiricamentela validità del proprio modello.Partendo dai dati forniti dalla Banca Centrale ecua-doriana, è stato osservato che negli ultimi due anni ladisoccupazione è diminuita del 3% e che l’aumentodel PIL nel 2012 è stato del 4.8%. Questo risultato èstato possibile grazie ad un forte intervento dello Sta-to attraverso una regolamentazione del mercato, amaggiori sussidi per la popolazioni e ad investimentiproduttivi.Cosa possiamo imparare dall’esperienza della Revo-lución Ciudadana? Dal 2006 l’Ecuador ha affrontatodue processi che hanno rivoluzionato la sua econo-mia ed il suo contesto sociale: il processo di riformacostituzionale e la promozione di una commissioneper la revisione del debito estero (per la prima voltanella storia creata da un governo) che ha dettato nuo-ve condizioni ai propri creditori (principalmente ban-che ed FMI).Per questo, citando le parole del Presidente Correa,possiamo affermare che «la Revolución Ciudadana èstato un cambiamento radicale e rapido della struttu-ra vigente».È ancora presto per capire dove porti l’esperienzaecuadoriana, quello che si può affermare è che, con-siderando il passato dell’Ecuador, i risultati raggiuntinegli ultimi sei anni si possono ritenere particolar-mente soddisfacenti.

Le pratiche del Buen VivirUn paradigma di sviluppo alternativo in Ecuador di Genny Sangiovanni e Chiara Scarcello

Di un artista come YvesKlein si pensa ormai disapere tutto. Ogni movi-mento ed episodio dellasua breve e intensa vita èstato passato al setaccio.Ma ai cercatori di oro, diblu klein e di monopinkper anni è sfuggita la pe-pita più grossa, l’ex votoper Santa Rita da Cascia,riapparso nel mondo se-colare dopo anni di silen-zio nel 1979.Nella pieghe di una vita

che si fonde con l’arte assoluta e con un impegno socia-le utopistico e pioneristico al tempo stesso (la costruzio-ne di una nuova famiglia umana basata sulla sensibilitàe la climatizzazione di spazi abitati da architetture ae-ree), si nasconde un’intima propensione alla spiritualità,nata nella culla di una tradizione familiare, che l’artistavive lontano dai clamori dell’arte e nel più grande se-greto: è nel pantheon del mondo mistico di Klein che sicolloca la devozione per Santa Rita da Cascia.Nel più completo anonimato, nel febbraio del 1961, unanno prima della prematura morte e accompagnato solodalla moglie Rotraut, Yves Klein si recò a Cascia perdonare una piccola scatolina di plexiglass contenente ilsuo credo, il suo testamento umano ed artistico: unapreghiera per Santa Rita, sua protettrice, i pigmenti del-la sua ormai consacrata trinità cromatica – I.K.B., mo-nopink e monogold – i lingotti d’oro frutto delle primecessioni di immaterialità pittorica, ultima frontieradell’arte concettuale e mistica di Klein.Un forte terremoto nel 1979 scosse la Val Nerina inUmbria e il complesso del monastero di Santa Rita daCascia fu danneggiato. In occasione dei lavori di restau-ro furono chiamati anche Giacomo Manzù e ArmandoMarocco per realizzare rispettivamente il primo nuoviarredi sacri per il presbiterio e una cancellata, il secondole vetrate. Trovandosi nellanecessità di utilizzare del-l’oro, Marocco chiese allesuore se per caso non neconservassero una piccolaquantità e queste gli propo-sero di usare dei lingottid’oro contenuti in una certascatolina di plexiglass. Ar-mando Marocco nel suopercorso aveva avuto occa-sione di esporre presso duedelle gallerie milanesi cheavevano presentato il lavorodi Klein a fine anni Cin-quanta e così riconobbe im-

mediatamente in quel piccolo oggetto un’opera ineditae dall’inestimabile valore: l’ex voto di Yves Klein perSanta Rita da Cascia.Dopo diciotto anni da quel viaggio a Cascia, e sul qualela moglie aveva mantenuto il segreto, la storia dell’artesi è vista consegnare una sorta di testamento postumodell’artista con il quale ci racconta il suo essere un uo-mo di fede. Ma si apriva anche un capitolo inedito dellasua biografia. Cercando nei magazzini del convento furitrovato un monocromo blu consegnato in un prece-dente viaggio, sul verso infatti l’opera reca la data 1958.Eppure nonostante il terreno così fertile le ricerchesull’ex voto si sono fermate e negli anni a seguire le in-formazioni sull’opera si sono limitate a quelle fornite daPierre Restany nel momento in cui autenticò l’opera nel1980, ed anzi nelle varie pubblicazioni che seguironoda allora molte furono le ipotesi sulla cronologia deiviaggi veri o presunti di Klein a Cascia.Un paziente e appassionato lavoro d’archivio, l’incon-tro con Armando Marocco, la madre badessa e la madrevicaria del convento di Santa Rita e l’incontro con lavedova di Yves Klein, Rotraut Klein Moquay, mi hannopermesso di ricostruire con prova documentaria treviaggi certi di Klein a Cascia, ovvero un primo nel set-tembre del ‘58 quando vi si recò con la zia Rose Ray-monde che per prima lo pose ancora bambino sotto laprotezione della santa, a testimonianza del quale abbia-mo un monocromo blu conservato presso il monasteroe datato sul verso; un secondo e fino ad ora non docu-mentato viaggio a maggio del ‘59 in concomitanza del-le celebrazioni per la festività di santa Rita, a testimo-nianza del quale esistono alcune lettere per le quali fafede il timbro postale spedite da Klein alla propria gal-lerista Iris Clert; infine l’ultimo viaggio a febbraio del‘61 quando consegnò l’ex voto.Oltre alla presenza fisica di Klein a Cascia esiste anchela presenza di santa Rita nelle opere di Klein. La fotoscattata per il Dimanche, le journal d’un seul jour, daltitolo Le saut dans le vide, è stata fatta al numero 3 dirue Gentil-Bernard, Fontenay-aux-Roses, nei pressi di

una chiesa dedicata a santaRita; l’opera Ci-Gît l’Espa-ce si presenta come un mo-nocromo oro con in alto unaspugna blu e in basso alcentro un mazzo di rose ar-tificiali color rosa, e le roserosa sono i fiori che nell’i-conografia rappresentano lasanta; la chiesa nella qualeYves Klein e Rotraut Uec-ker si sposarono a gennaiodel 1961 è Saint Nicolas desChamps a Parigi, chiesa nel-la quale vi è una cappellaper santa Rita.

Arte e spiritualitàL’ex voto di Yves Klein per santa Rita da Casciadi Martina Stoppioni

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Martina Stoppioni

Yves Klein, ex voto per Santa Rita da Cascia, 1961, courtesy YvesKlein archives Paris

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e dei media), Maria Palozzi (responsabile Ufficio di coordinamento cen-

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Università degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it A