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studi superiori / 000

psicologia

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A Tiziana Zalla

I lettori che desiderano informazioni sui volumi

pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a:

Carocci editoreCorso Vittorio Emanuele ii, 229

00186 Roma telefono 06 42 81 84 17

fax 06 42 74 79 31

Siamo su: www.carocci.it

www.facebook.com/caroccieditorewww.twitter.com/caroccieditore

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Psicopatologia e scienze della mente

Dalla psichiatria organicistica alla neuroscienza cognitiva clinica

A cura di Rossella Guerini e Massimo Marraffa

CCarocci editore

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1a edizione, xxxxxxxxxxx 2019 © copyright 2019 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Edimill, Bologna

Finito di stampare nel xxxxxxxxxxx 2019 da Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx

isbn 978-88-430-0000-0

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno

o didattico.

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Indice

Premessa 13 di Rossella Guerini e Massimo Marraffa

Parte prima La psichiatria tra scienze cognitive e

teoria dell’evoluzione: prospettive e problemi

1. La malattia mentale come disfunzione neurobiologi-ca. Storia delle idee, problemi e proposte 21

di Massimiliano Aragona

1.1. L’empirismo fenomenico di stampo naturalista 221.2. La fisiopatologia neurocognitiva 261.3. Una terza via: la costruzione dei sintomi mentali 311.4. Conclusioni 35

2. Sulla natura del disturbo mentale 37 di Maria Cristina Amoretti

2.1. Naturalismo vs normativismo 372.1.1. Naturalismo / 2.1.2. Normativismo / 2.1.3. Teorie ibride

2.2. Modello medico debole vs modello medico forte 452.2.1. Modello medico debole / 2.2.2. Modello medico forte

2.3. Conclusioni 49

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psicopatologia e scienze della mente

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3. Il problema della classificazione dei disturbi mentali 53 di Elisabetta Lalumera

3.1. Sul processo di inclusione o esclusione di disturbi dalla nosologia psichiatrica: il disturbo da accumulo 54

3.2. Sulla possibile scomparsa di Narciso 583.3. Conclusioni 61

4. Modelli di spiegazione del disturbo mentale 63 di Raffaella Campaner

4.1. La malattia mentale come oggetto di spiegazione 634.2. La spiegazione causale 65

4.2.1. Il modello biomedico e i meccanismi della malattia / 4.2.2. (Poter) intervenire per spiegare

4.3. Funzioni e disfunzioni 714.4. La spiegazione computazionale 734.5. Il ruolo dell’esperienza nella spiegazione della malattia 764.6. Conclusioni: un approccio globale? 78

5. Il paradosso dell’evoluzione: disturbi mentali e sele-zione naturale 83

di Elisabetta Sirgiovanni

5.1. La psichiatria evoluzionistica: storia e sviluppi 845.2. Tipi di spiegazione psichiatrico-evoluzionistica 88

5.2.1. Disturbo come danno / 5.2.2. Disturbo come dissonanza am-bientale / 5.2.3. Disturbo come persistenza adattiva

5.3. Critiche e risposte 93

Parte seconda Psichiatria e scienze cognitive in interazione

6. Mindreading e introspezione 99 di Rossella Guerini e Massimo Marraffa

6.1. Mindreading e disturbi dello spettro autistico 996.2. Introspezione i: la tesi della parità io/altro 107

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indice

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6.3. Introspezione ii: teorie del senso interno 1106.4. Introspezione iii: la variante sensoriale-interpretativa

della tesi della parità 1156.5. Conclusioni 125

7. Credenze deliranti 127 di Aurora Alegiani, Emiliano Loria e Massimo Marraffa

7.1. Il delirio come spiegazione di un’anomalia percettiva 1287.2. Il modello bifattoriale 1347.3. Il modello narrativista 1427.4. Conclusioni 149

8. La confabulazione 153 di Miriam Aiello

8.1. aaa. Storie false e malfondate cercano definizione af-fidabile e referenziata 153

8.2. Tipizzazioni interne, demarcazioni esterne, plurali-smo causale 157

8.3. Paradigma mnemonico 1618.4. Paradigma epistemico 1648.5. Confabulazione e filosofia delle scienze cognitive 1668.6. Conclusioni 168

9. La consapevolezza agentiva 171 di Mariaflavia Cascelli

9.1. Senso di agentività e senso di proprietà 1719.2. Controllo motorio, consapevolezza dell’azione e con-

sapevolezza del sé agente 1759.3. Il senso di agentività tra meccanismi “predittivi” e mec-

canismi “retrodittivi” nella schizofrenia e nella sindro-me dello spettro autistico 178

9.4. Deficit di soa nella psicosi: un’eccezione al principio di immunità? 181

9.5. Conclusioni 183

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psicopatologia e scienze della mente

10

10. Autocontrollo e dipendenze 185 di Stefano Canali

10.1. La definizione del concetto di dipendenza 18610.1.1. La perdita del controllo volontario del comportamento sulla sostanza come sintomo patognomonico

10.2. La dipendenza come disturbo cognitivo: un apprendi-mento patologico 188

10.3. Cos’è l’autocontrollo? 19010.4. Modelli teorici dell’autocontrollo e delle dipen-

denze 19010.4.1. Il modello dei due sistemi a bilancia / 10.4.2. Autocontrollo e scelte intertemporali / 10.4.3. L’autocontrollo come “forza di vo-lontà”

10.5. Neuroscienze cognitive dell’autocontrollo 19310.5.1. Sistemi neurocognitivi dell’autocontrollo nelle dipendenze

10.6. Nelle dipendenze quanto è compromesso il controllo sull’uso delle sostanze? 19510.6.1. Gli studi di Robins sui soldati in Vietnam / 10.6.2. La contin-genza di rinforzo e la gestione della contingenza

10.7. L’uso delle sostanze nelle dipendenze come effetto di processi decisionali 19810.7.1. Strategie per potenziare il controllo volontario del comporta-mento nelle dipendenze

10.8. Conclusioni 203

11. L’imputabilità degli psicopatici 205 di Luca Malatesti

11.1. La psicopatia: alcuni cenni storici e la sua misurazione 20611.2. L’obiezione contro l’imputabilità degli psicopatici

(oip) 20711.3. Lo status di malattia mentale della psicopatia 20911.4. La comprensione morale negli psicopatici 21011.5. La capacità di controllo negli psicopatici 21411.6. Conclusione 215

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indice

11

Parte terza Il contributo della psicologia dinamica alla psichiatria

in una cornice cognitivo-evoluzionistica

12. Attaccamento e motivazione 219 di Riccardo Williams

12.1. La nascita della teoria dell’attaccamento 22012.2. Il sistema comportamentale dell’attaccamento 22112.3. Sviluppo del sistema dell’attaccamento e differenze in-

dividuali 22512.4. I modelli operativi interni 22612.5. Attaccamento e psicopatologia 22712.6. I sistemi motivazionali nelle prospettive contempora-

nee 23112.6.1. Area della regolazione fisiologica / 12.6.2. Area della rabbia e dell’aggressività / 12.6.3. Il sistema sessuale-sensuale

12.7. Conclusioni 237

13. Le emozioni 239 di Cristina Meini

13.1. Emozioni: la storia recente 24013.2. bet e disturbo di Urbach-Wiethe 24113.3. Costruttivismo e introspezione emotiva 24313.4. Social biofeedback 244

13.4.1. Il narcisismo / 13.4.2. Ancora il social biofeedback

13.5. Conclusioni 251

14. Dissociazione e trauma 253 di Valentina Questa

14.1. La teoria della dissociazione di Pierre Janet 25414.1.1. Limiti della teoria di Janet

14.2. Inconscio freudiano e inconscio cognitivo 258

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psicopatologia e scienze della mente

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14.3. La tradizione psicodinamica, le neuroscienze e l’attua-le psicopatologia del trauma 261

14.4. Prospettive per la psicoterapia 26614.5. Conclusioni 268

15. Disturbi affettivi: trattamenti a confronto per pro-spettive future 271

di Carlo Lai, Emiliano Loria e Gaia Romana Pellicano

15.1. Neuroscienze cliniche e psicopatologia 27215.2. Epigenetica 27315.3. Analisi di trattamenti per la depressione maggiore 27515.4. Il ruolo della corteccia cingolata anteriore 278

15.4.1. La metanalisi di Kalsi e colleghi (2017) / 15.4.2. Risultati del-lo studio di Kalsi e colleghi / 15.4.3. Particolarità del paracingolato da un punto di vista anatomico e funzionale

15.5. Conclusioni 286

16. Disturbi dell’attaccamento e agire morale 289 di Silvia Inglese e Andrea Lavazza

16.1. L’agire morale e la sua genesi 29016.2. L’attaccamento come caso esemplare 29416.3. Attaccamento disfunzionale, comportamento e cura 29916.4. Due approcci all’agire morale patologico 30116.5. Conclusione: una via mediana 303

Bibliografia 305

Gli autori 357

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1. Nel 1995, Michael Gazzaniga ha curato per i tipi della mit Press The Cognitive Neurosciences, un volume di mole imponente che, offrendo una rassegna puntuale delle ricerche situate all’intersezione fra neuroscienza e scienza cognitiva, ha contri-

La psichiatria può essere intesa in almeno due sensi:

…in senso ampio […], cioè come la scienza generale dei disturbi psichici, come tale praticata sia dagli psichiatri, sia da una parte degli psicologi clinici; sia, in senso molto più ristretto, può esser vista come quella parte dello studio dei disturbi psichici che viene svolta da medici e presenta qualche addentella-to con lo studio del corpo ( Jervis, 1996, p. 180).

È solo nella prima – e più corretta – accezione che il termine sarà uti-lizzato in questo volume a più voci. Il suo scopo è quello di discutere se, ed eventualmente in quali modi, le scienze della mente e del cervello possano fornire teorie, metodi e dati utili per liberare la psichiatria da quelle antinomie che l’hanno afflitta fin dai suoi esordi. Da sempre, infatti, la psichiatria cerca di venire a capo della sua natura eterogenea, partecipe sia delle scienze biologiche sia delle scienze umane, a cavallo fra l’interpersonale e il personale, fra il sociale e l’individuale.

Il quesito va inquadrato storicamente.Nel corso degli ultimi quarant’anni la scienza cognitiva si è espansa

“in senso verticale”, verso il cervello: di conseguenza le neuroscienze sono divenute il principale interlocutore delle scienze psicologiche, andando a occupare nell’esagono cognitivo quel posto che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era stato dell’intelligenza artifi-ciale. Di qui la nascita della neuroscienza cognitiva, ovvero il progetto di collegare funzioni psicologiche e strutture neuronali approntando spiegazioni meccaniciste dei processi cognitivi1.

Premessadi Rossella Guerini e Massimo Marraffa

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Testo inserito
problema
Massimo Marraffa
Testo inserito
, negli anni Ottanta,
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psicopatologia e scienze della mente

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buito a definire il campo della neuroscienza cognitiva. Attualmente è in preparazione la sesta edizione del testo.

In precedenza, si era costituita, come settore della psicologia co-gnitiva, la neuropsicologia cognitiva. Lo studio dei deficit insorti in pazienti a seguito di lesioni cerebrali era qui rivolto primariamente alle inferenze che possono essere fatte riguardo l’organizzazione fun-zionale dei processi mentali, indipendentemente dalla loro localizza-zione anatomica (Caramazza, 1986). A partire dagli anni Novanta, tuttavia, la neuropsicologia cognitiva tende a ridefinirsi come parte della neuroscienza cognitiva, e quindi a prendere come proprio ogget-to d’indagine tanto l’organizzazione funzionale dei processi mentali quanto la loro localizzazione negli emisferi cerebrali e nelle struttu-re sottocorticali. In questa prospettiva, i risultati basati sui metodi di correlazione anatomo-clinica (per cui un particolare deficit neuropsi-cologico è correlato alla sede ed estensione della lesione cerebrale cui è associato) sono visti come strettamente complementari ai risultati ottenuti con le più recenti neurotecnologie: sia le tecnologie che pro-ducono “lesioni virtuali”, reversibili, come la stimolazione magnetica transcranica o la stimolazione cerebrale profonda, sia le tecniche della tomografia a emissione di positroni, della risonanza magnetica fun-zionale e dei potenziali evento-correlati, che consentono una precisa correlazione in vivo fra attività cognitiva e attivazione di specifiche re-gioni cerebrali.

Negli anni Ottanta e Novanta la neuropsicologia cognitiva prima e la neuroscienza cognitiva poi hanno interagito con la psichiatria. Fra i primi esemplari di questa interazione figurano la spiegazione neuro-psicologica di alcuni deliri da identificazione errata (Ellis, Young, 1990); l’ipotesi secondo cui l’insufficiente comprensione delle menti altrui riscontrabile in pazienti portatori di disturbi dello spettro au-tistico (ad alto funzionamento) sarebbe riconducibile alla compro-missione di meccanismi deputati alla mentalizzazione (Baron-Cohen, Frith, Leslie, 1985); la definizione della schizofrenia come “autismo a tarda insorgenza” (Frith, 1992); e infine la spiegazione delle condotte psicopatiche come l’esito dell’assenza o del malfunzionamento di un “meccanismo di inibizione della violenza” (Blair, 1995).

Alla luce di questi contributi pionieristici, alcuni studiosi comin-ciarono a nutrire la speranza che fosse possibile muovere verso una

Massimo Marraffa
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Negli anni Ottanta
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anche
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premessa

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2. La sua prima stesura (dsm-i) da parte dell’Associazione Psichiatrica Ameri-cana (apa) è del 1952. Da allora si sono succeduti: il dsm-ii del 1968, il dsm-iii del 1980, il dsm-iii-Revised del 1987, il dsm-iv del 1994, il dsm-iv-Text Revision del 2000 e il dsm-5 del 2013. Cfr. Sirgiovanni (2016a).

3. “Disturbo” e non già “malattia”. Nell’attuale letteratura scientifica internazio-nale non si parla più di malattie mentali, come nella prima metà del Novecento, ma si usa un termine più neutro e unificante: si parla, cioè, di disorders – disturbi deliranti, disturbi ansiosi, e così via.

4. In medicina il sintomo è la sintomatologia soggettiva, il vissuto del paziente come da esso riferito; il segno è invece la sintomatologia oggettiva, un criterio oggetti-vo che può essere rilevato dal clinico mediante la semplice osservazione o per mezzo di test.

tassonomia dei fenomeni psicopatologici fondata non già su criteri pu-ramente fenomenologici, come avviene nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (dsm)2, bensì sulle teorie e i metodi delle scienze della mente e del cervello. Nel dsm – così come negli altri prin-cipali manuali diagnostici (per esempio l’International Classification of Diseases, icd, oggi alla undicesima edizione) –, i disturbi mentali3 sono individuati sulla base di sindromi unitarie, vale a dire sulla base di sintomi e segni4 con un decorso, un esito e una risposta al trattamento tipici. Tali sindromi sono però tipicamente formulate nel linguaggio vago e impreciso della fenomenologia clinica, caratterizzata dalla pre-senza di concetti psicologici e clinici del senso comune (Poland et al., 1994). In questo senso, il dsm non rappresenta affatto un approccio descrittivo e ateorico come pure pretende di essere.

È in questo clima di svolta che nei primi anni Novanta si comin-cia a parlare di “neuropsichiatria cognitiva”. Hadyn Ellis è accreditato per essere stato il primo, nell’ottobre del 1991, a utilizzare in pubblico l’espressione cognitive neuropsychiatry per designare l’applicazione dei metodi della neuropsicologia cognitiva ai disturbi psichiatrici (Colt-heart, 2007, p. 1042). Quindi, in Cognitive Neuropsychology of Schizo-phrenia (1992), Cristopher Frith getta le basi per la neuropsichiatria cognitiva, mostrando in modo sistematico come i principi della neu-ropsicologia cognitiva possono essere applicati ai fini della compren-sione di sintomi psichiatrici quali i deliri e le allucinazioni. Nel 1996 viene pubblicato il volume, curato da Halligan e Marshall, Method in Madness: Case Studies in Cognitive Neuropsychiatry; e lo stesso anno esce il primo fascicolo della rivista “Cognitive Neuropsychiatry”. Più recentemente, in questa direzione si è mosso il National Institute of

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psicopatologia e scienze della mente

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Mental Health con il progetto rdoc (Research Domain Criteria), vol-to a elaborare un nuovo sistema di classificazione dei disturbi mentali fondato sull’integrazione di dati provenienti dalla genetica, l’epigene-tica e le neuroscienze.

Questo riorientamento della psichiatria dal descrittivo all’eziolo-gico è stato esaminato a fondo da Dominic Murphy (2006; cfr. anche Amoretti, Lalumera, 2018). Per questo filosofo, tale riorientamento equivale al superamento del modello medico “debole”, soggiacente al dsm, in favore di un nuovo paradigma medico “forte”, che definisce il disturbo mentale come un processo patologico che avviene nei sistemi cerebrali ed è individuato con i metodi d’indagine della neuroscienza cognitiva – per cui ora Murphy parla di «neuroscienza cognitiva clini-ca» anziché di «neuropsichiatria cognitiva».

È legittimo chiedersi a questo punto se la neuroscienza cognitiva sia davvero in grado di svolgere tutto il lavoro esplicativo richiesto dalla psichiatria. In particolare, ci si può domandare se la neuroscienza cognitiva possieda le risorse necessarie per occuparsi delle dimensioni di livello personale della disciplina. La rilevanza della domanda varierà a seconda delle opinioni in merito al rapporto che intercorre fra l’im-magine scientifica e l’immagine ordinaria di noi stessi. Ossia non co-stituisce un grande problema se nutriamo la convinzione che la visione di noi stessi come sistemi psicobiologici conduca alla radicale rettifica, se non addirittura all’eliminazione, di gran parte dell’immagine ordi-naria di noi stessi in quanto persone dotate di coscienza e razionalità. È invece un grosso problema qualora si ritenga che l’immagine ordinaria imponga un vincolo ineliminabile sulla teorizzazione scientifica. In tal caso, come osservano Broome e Bortolotti, si rende opportuna una politica delle pari opportunità: «non vi è dubbio che le neuroscienze abbiano contribuito in modo importante alla comprensione delle pa-tologie della mente»; ora, tuttavia, «è necessario riconciliare il discor-so neuroscientifico con altri quadri esplicativi in modo da cogliere tutti gli aspetti del comportamento delle persone che sono rilevanti per lo studio della psichiatria» (Broome, Bortolotti, 2009, p. 365).

A tutta questa intricata materia è dedicato il presente volume. È composto da tre parti così da consentire al lettore di meglio orientarsi nel fitto intrico di concetti e idee generato dall’interazione fra la psi-chiatria e le scienze della mente e del cervello. La prima parte compren-de capitoli di impianto storico ed epistemologico, che si interrogano sulle prospettive e i problemi del progetto di una neuropsichiatria co-

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premessa

17

gnitiva (o neuroscienza cognitiva clinica). La seconda parte esamina alcuni casi specifici di interazione tra psichiatria e scienze cognitive, inclusi i contributi pionieristici sopra menzionati. Infine, nella terza parte la teoria dell’attaccamento, in quanto tradizione psicodinami-ca di impianto etologico, cognitivo ed evoluzionistico, è presa come quadro di riferimento entro cui sono riesaminati temi psicoanalitici classici quali la regolazione delle emozioni, le difese, il trauma e la dis-sociazione.

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Parte prima

La psichiatria tra scienze cognitive e teoria dell’evoluzione: prospettive

e problemi

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Questo capitolo si concentra su due modi di concepire la malattia mentale intesa come prodotto di un’alterazione a livello cerebrale, sia essa strutturale o funzionale. Naturalmente quello “organicista” è solo un modo di concepire la patologia mentale, tra i tanti possi-bili. Però è tra quelli più forti e influenti nel dibattito psichiatrico degli ultimi due secoli, e il fatto che sia prepotentemente ritornato a esserlo nella nostra epoca rende particolarmente urgente un suo approfondimento. Per motivi di spazio non sarà un’analisi esaustiva ma piuttosto una storia delle idee, un modo di esemplificare attraver-so esempi storici, rendendole più evidenti, le due modalità che più hanno influenzato la psichiatria moderna e che in questo momen-to si fronteggiano. Nella parte finale si confronteranno tra di loro per sottolinearne il punto di diversità essenziale, e si concluderà con alcune considerazioni sul perché a giudizio di chi scrive entrambe siano metodologicamente carenti, proponendo dunque la necessità di uscire dal riduzionismo che le caratterizza. Si argomenterà che i fenomeni psicopatologici non sono semplici fatti da correlare ai dati delle neuroscienze, ma piuttosto il prodotto complesso e complessi-vo di un’attività ermeneutica, in gran parte implicita, che si attua a vari livelli. Vi è dunque il rischio che la ricerca nell’ambito delle neu-roscienze cognitive possa andare fuori strada qualora ai proxy neu-rofisiologici si tenti di correlare dei fenomeni, come quelli mentali, il cui eventuale nucleo neurobiologico è spesso stratificato sotto una spessa coltre semantica. Occorrerebbe dunque integrare nella ricerca modelli ermeneutici che consentano di caratterizzare meglio la com-plessità dei fenomeni mentali.

1

La malattia mentale come disfunzione neurobiologica.

Storia delle idee, problemi e propostedi Massimiliano Aragona

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psicopatologia e scienze della mente

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1. Luciano Del Pistoia, comunicazione personale.

1.1 L’empirismo fenomenico di stampo naturalista

Dire quando e come nasca la psichiatria non è cosa semplice, considera-to che una teorizzazione medica su condizioni come la melancolia, l’i-steria e la mania esisteva già nel mondo antico. Per pura preferenza per-sonale io tendo a farla nascere nel 1801, quando Philippe Pinel pubblica il Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale (Pinel, 1801). La ra-gione di questa scelta è che se prima vi erano, già a partire dal Seicento, vari medici che avevano iniziato a occuparsi di problematiche “mentali”, tuttavia spesso lo facevano con una modalità da fisiologo medico, senza una specificità di approccio come è, invece, nel caso di Pinel. Inoltre, come sottolinea Foucault (1961), per lungo tempo l’assistenza ai malati psichiatrici si era mescolata a varie forme sia di assistenzialismo che di repressione sociale, e in ogni caso gli internamenti erano caratterizzati da gestioni puramente amministrative, di solito senza il coinvolgimento dei medici. Solo con Pinel e con il suo atto di liberare i pazzi dalle catene si struttura in modo cogente l’attribuzione alla medicina della cura dei folli, e il manicomio sarà pensato da Pinel come luogo di cura specifico. Non è questa la sede per discutere il trattamento morale di Pinel, così come non vi è spazio per una comparazione tra la prima e la seconda edi-zione del trattato che rappresenta in qualche modo un “tradimento” di Pinel rispetto alle sue prime idee1. Invece occorre approfondire quali sia-no le idee fondamentali di Pinel che passarono ai posteri, e su quali basi esse si fondano. Egli fa due riferimenti teorici espliciti, mentre uno resta implicito. I riferimenti espliciti sono a Locke e Condillac, ovvero a una teoria della conoscenza di matrice sensista-empirista. Il riferimento im-plicito, invece, è a mio parere relativo alla moderna classificazione scien-tifica degli organismi viventi, operata nel Settecento da Carl Nilsson Linnaeus. Questi esemplifica in modo cogente come osservando atten-tamente le caratteristiche e le differenze fenomeniche si possa giungere a differenziare in modo chiaro e rigoroso le varie specie, indipendente-mente dalla variabilità intrinseca in ogni individuo. A prima vista Pinel sembra al di là di un approccio fenomenico, verso la spiegazione causale, come quando scrive: «Non si potrebbe capire il concetto stesso di alie-nazione se non si risalisse alla causa che più spesso la provoca, intendo

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dire passioni violente o esasperate dalle contraddizioni» (Pinel, 1809, trad. it. p. 28). Tuttavia, se diamo troppa enfasi a questa teoria delle pas-sioni rischiamo di perdere un punto fondamentale in Pinel, ovvero che la seconda edizione del suo trattato ruota attorno a questa asserzione:

Come è possibile intendersi se, sull’esempio dei naturalisti, non si designa ogni oggetto con segni chiari e distintivi per i sensi? L’alienazione mentale comprende innumerevoli forme; tuttavia in parecchi casi è possibile rintrac-ciare delle analogie che possono essere espresse in termini astratti che indivi-duano le loro caratteristiche specifiche (ibid.).

Dunque, sensismo, teoria empirista della conoscenza come astrazione progressiva per induzione, classificazione naturalista, sono i tre cardini del trattato medico-filosofico. Sulla stessa linea, Pinel nota che «stu-diando con attenzione i caratteri distintivi che si manifestano all’e-sterno […] si ha la certezza di procedere con il metodo comune alle scienze naturali» (ivi, p. 35), e infatti proprio «la descrizione accurata dei fenomeni particolari dell’alienazione mentale è stata nell’ospizio di Bicêtre il tema fondamentale delle mie ricerche» (ivi, p. 49). Ancora, «è necessario anche compiere osservazioni assidue per anni e descrive-re il decorso e la fenomenologia della malattia» (ivi, p. 55), «confron-tare il maggior numero possibile di casi di alienazione descritti dall’in-sorgenza fino all’esito conclusivo» (ivi, p. 56).

Concludendo, mi sembra che questa impostazione costituisca il nucleo di un primo modo di studiare la patologia mentale che chiame-rei “fenomenico”: ciò sia per differenziarlo dalla fenomenologia (che come orientamento filosofico è tutt’altra cosa), sia per sottolineare che il punto fondamentale è studiare accuratamente i fenomeni della sof-ferenza mentale (quelli che mi appaiono nel qui e ora ma anche la loro insorgenza, il decorso e l’esito). Su questa base si potranno enucleare le varie forme di patologia mentale, indipendentemente dalla variabi-lità individuale. L’approccio è dunque sostanzialmente descrittivo più che esplicativo, si parte dall’enucleare le patologie mentali in base alla loro presentazione fenomenica più che alle cause che le provocano. In Pinel questa prospettiva descrittivista emerge più o meno chiaramente a seconda che si ponga l’enfasi sulla sua teoria delle passioni o sulla de-scrizione fenomenica; ma in altri autori – lo vedremo – la prospettiva è adottata senza oscillazioni.

Con Pinel si entra nel xix secolo, che Zilboorg considera:

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l’età aurea della psichiatria descrittiva; infatti, in nessun periodo preceden-te lo psichiatra aveva avuto a sua disposizione un numero e una varietà così grande di malattie mentali. […] I francesi rivolsero per lo più la loro attenzio-ne a separare una serie di sintomi, o un gruppo di sintomi, che potevano co-stituire probabilmente un’entità clinica autonoma, una malattia ben distinta, così che non crearono nessuna teoria nuova, né alcun complesso nosologico (Zilboorg, Henry, 1941, trad. it. p. 344).

Quando, nella seconda metà del secolo, gli psichiatri tedeschi entrano sulla scena,

[i]l numero delle classificazioni crebbe. Il numero dei criteri aumentò con il numero delle tendenze individuali, che possono variare di volta in volta, quando lo sviluppo scientifico del classificatore subisce dei cambiamenti. Il creare una nosologia definitiva, il classificare con minuzia e con ordine, di-venne apparentemente l’ambizione nascosta di ogni psichiatra abile e pro-mettente (ivi, p. 398).

Si arriva così a fine Ottocento, quando questo approccio fenomenico toccherà il punto più alto nell’opera di Emil Kraepelin, il cui trattato vedrà varie edizioni e la cui influenza sulla psichiatria mondiale sarà (ed è tuttora) grandissima. Nella settima edizione dell’opera (1904) Kraepelin divide le patologie mentali a seconda che originino da cau-se esterne (per esempio pazzia infettiva e avvelenamenti), da malattie cerebrali (per esempio atrofia cerebrale arteriosclerotica, tumori cere-brali, traumi), da «una predisposizione patologica speciale dell’indi-viduo» (per esempio demenza senile, psicosi maniaco-depressiva, pa-ranoia e pazzia epilettica), da un arresto nello sviluppo (per esempio imbecillità e idiozia), o che siano su base “degenerativa” (per esempio nevrosi psicogene, pazzia coatta, personalità psicopatiche). Restano la demenza precoce e la paralisi progressiva, che Kraepelin mette vi-cino alle patologie autoimmuni della tiroide perché anch’esse, a suo giudizio, dipendono da autointossicazioni. Al primo sguardo questa classificazione appare basata fondamentalmente su criteri eziologici di tipo organicista. Eppure lo stesso Kraepelin sottolinea che i due car-dini dell’organicismo di allora (l’individuazione di lesioni anatomo-patologiche e di cause specifiche) sono problematici, ammettendo che «molto più frequentemente le alterazioni psichiche sono state classifi-cate a seconda dei loro caratteri clinici» (ivi, trad. it. p. 3), e che «solo il quadro complessivo del caso clinico, presente in tutto il suo decorso

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dal principio alla fine, può fornire la guida per l’analisi clinica e per la valutazione dei fenomeni morbosi» (ivi, p. 4). Anni dopo, Jaspers ana-lizzerà metodologicamente questo modo di procedere di Kraepelin, individuando nel concetto di unità morbosa, derivatogli da Kahlbaum, il criterio ordinatore primario:

Quadri morbosi che hanno le stesse cause, le stesse forme psicologiche fonda-mentali, lo stesso sviluppo e decorso, lo stesso esito e lo stesso reperto cerebrale, che quindi concordano nel quadro generale, sono le vere, naturali unità morbose ( Jaspers, 1959, trad. it. p. 609).

Occorre fare qui una distinzione tra piano ideale e piano di realtà: ideal-mente le patologie mentali di Kraepelin sono enti di natura individua-ti con rigore scientifico perché tutti i criteri sopraesposti coesistono e convergono; in realtà sono più spesso costrutti ipotetici che si basano su alcuni di essi, e là dove manca la conoscenza delle cause e il reperto cerebrale è aspecifico, i criteri fondamentali restano le caratteristiche dei sintomi, il decorso e l’esito. Idealmente è una classificazione fondata sull’eziologia, in pratica è invece una classificazione prevalentemente fenomenica (almeno per quel che riguarda le principali malattie men-tali, escludendo le sindromi psicoorganiche). Questa impostazione di fondo ha attraversato il Novecento, soprattutto con una grossa in-fluenza sulla psichiatria europea, per poi prendere quota anche negli Stati Uniti dove, negli anni Settanta, si afferma la cosiddetta “scuola neokraepeliniana”. Nell’originaria proposta di criteri diagnostici per la ricerca, avanzata da Feighner e colleghi (1972), i disturbi mentali anda-vano enucleati in base a cinque “fasi” che dovevano convergere: descri-zione clinica, analisi di laboratorio, diagnosi differenziale, follow-up e familiarità. Questa impostazione tramite criteri operativi diagnostici costituirà la base su cui si fonderà il dsm-iii e su cui si fondano ancora i criteri diagnostici correnti (oggi istanziati dal dsm-5). Anche qui, però, avviene ciò che abbiamo visto con Kraepelin, ovvero che i riferimenti alle cause somatiche (in questo caso i risultati delle analisi di labora-torio) non sono noti, e dunque la diagnosi si basa sostanzialmente su sintomi e decorso. Nella ricostruzione di Compton e Guze (1995), il neokraepeliniano dsm-iii è assimilabile all’approccio di Kraepelin per ciò che riguarda lo “stile diagnostico”, in particolare per l’utilizzo in en-trambi di chiare descrizioni dei sintomi (sia psichici che corporei), delle caratteristiche associate, dell’età di esordio, del decorso, dell’esito ecc.

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Riassumendo questo primo paragrafo, nonostante le ovvie diffe-renze vi è una linea di continuità che da Pinel passa per Kraepelin e ar-riva al dsm-5. Si tratta di un “approccio fenomenico” secondo il quale i disturbi mentali sarebbero enti di natura provvisoriamente enucleati in base al quadro clinico e al decorso (piano fenomenico), ma di cui si confida di trovare presto le cause (genetiche, neurologiche, chimiche ecc.) che li provocano, e quindi le terapie specifiche.

1.2 La fisiopatologia neurocognitiva

Anche di questo secondo approccio le tracce si perdono indietro nel tempo, ma per i nostri fini lo possiamo far originare intorno al 1792, quando Franz Joseph Gall iniziò a elaborare la sua teoria degli organi cerebrali, intesi come zone del cervello dove riteneva risiedessero le “fa-coltà” umane. La sua teoria si basava su studi di anatomia comparata, umana e animale, e tentava di mettere in connessione le sedi cerebrali specifiche, le corrispondenti (a suo giudizio) alterazioni rinvenibili nel-la forma del cranio, e le facoltà mentali specifiche risiedenti in tali sedi. In altre parole, lo studio dei crani e dei cervelli gli aveva fornito una te-oria locazionista ed evoluzionista ante litteram delle funzioni cerebra-li, intendendo con questo secondo termine che egli vedeva le facoltà mentali comparire progressivamente sia passando dagli animali infe-riori a quelli superiori sino all’uomo, a mano a mano che comparivano nuove strutture cerebrali, sia nella stessa specie nel corso della matu-razione personale dell’individuo. Un corollario interessante, seguendo questo filone, è che gruppi etnici diversi, categorie di individui e singoli individui, possono avere cervelli diversi, e di conseguenza facoltà men-tali differenti. Per Gall, le facoltà di uomini e animali erano in relazione diretta con l’aumento della massa cerebrale per cui, scriveva a un suo interlocutore, «un uomo come lei possiede più del doppio della quan-tità di cervello di uno stupido bigotto» (Gall, 1798). Il secondo punto è che le facoltà e disposizioni mentali erano viste come distinte e indi-pendenti tra loro. Il terzo, che per ognuna di queste distinte facoltà e disposizioni vi fosse il corrispondente “organo” cerebrale, ovvero ognu-na dovesse risiedere «in parti del cervello distinte e indipendenti l’una dall’altra» (ibid.). Questa è, per l’appunto, una chiara interpretazione locazionista del funzionamento cerebrale, con aree cerebrali specifiche

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responsabili di funzioni mentali corrispondenti e altrettanto specifi-che (27 in origine, che aumenteranno in scritti successivi anche a opera dell’allievo Spurzheim, il quale avrà un ruolo determinante nella diffu-sione della frenologia). Oggi l’idea di studiare i sistemi cognitivi misu-rando i “bernoccoli” sul cranio fa giustamente sorridere, però occorre sottolineare che questa teoria è stata considerata «l’origine delle mo-derne localizzazioni cerebrali» e «altrettanto influente, nella prima metà del xix secolo, di quanto lo fu la psicanalisi nella prima metà del xx» (Livianos-Aldana et al., 2007). In fondo la misurazione del cranio era solo un proxy, adeguato all’epoca, del funzionamento cerebrale, un po’ come dire che le immagini colorate che ci forniscono le tecniche di neuroimaging sono un proxy attuale dello stesso funzionamento cere-brale; in entrambi i casi non vediamo il cervello direttamente, ma solo indirettamente tramite un proxy. Concettualmente è la stessa cosa, anche se l’adeguatezza e la capacità rappresentativa del proxy scelto è ovviamente molto diversa oggi rispetto ad allora. Ciò che però conta è sottolineare che in Gall vediamo già chiaro un modello che influen-zerà la scienza degli anni a venire: si studia il funzionamento cerebrale, si mette in correlazione la funzione di un’area con un proxy, e quindi questo con la funzione specifica che quell’area cerebrale produce. Se è molto noto lo sviluppo che questo orientamento avrà nelle teorie dell’uomo delinquente di Lombroso (1876), meno nota ma paradig-matica è l’applicazione della frenologia alla classificazione psichiatrica operata da Biagio Miraglia (1847). L’autore dividerà le malattie men-tali a seconda se esse originino da una iperattività totale o parziale del funzionamento cerebrale (rispettivamente, mania e monomania), da una depressione totale o parziale del funzionamento (rispettivamente, melancolia e monomelancolia), da un’inerzia generalizzata o parziale delle funzioni cerebrali (demenza e demenza parziale), da un’alterazio-ne generalizzata o parziale della conformazione cerebrale (idiotismo e idiotismo parziale). Anche qui, la classificazione delle funzioni cere-brali alterate guida la classificazione, con le sindromi a livello fenome-nico che non sono altro che l’output delle alterazioni cerebrali di base (cfr. l’abstract in Miraglia, 2014).

Verso la fine dell’Ottocento questo orientamento acquisirà ben al-tri presupposti e credibilità scientifica grazie al lavoro di Meynert e poi di Wernicke. Il primo riconduce la psichiatria a «scienza delle malattie del cervello anteriore» (Meynert, 1884) e le patologie psichiatriche a effetto di alterazioni cerebrali congenite o su base vascolare. Nel suo

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modello fisiologico, infatti, il funzionamento dei neuroni dipende da una buona perfusione emodinamica che gli apporta sostanze nu-tritive, e quindi da un buon funzionamento del sistema circolatorio. Poste a questo livello le alterazioni fondamentali del funzionamento cerebrale, gli stati psicopatologici ne derivano come conseguenza (cfr. Berrios, Marková, 2002), per cui si può dire che gli «eventi psicologi-ci» sono «epifenomeni di quelli neurofisiologici» (Da Mota Gomes, Engelhardt, 2012, p. 895).

Dal canto suo, Wernicke fa propria l’idea di Meynert di un sistema di fibre nervose che si proietta dal tronco encefalico verso la corteccia. Su questa base, essendo anche fortemente influenzato dalle teorie asso-ciazioniste che dominavano la psicologia ottocentesca, egli costruisce un modello gerarchico con le più semplici funzioni neurologiche alla base e la coscienza e le funzioni intellettive superiori all’apice, cosic-ché una lesione focale al sistema di proiezione causerebbe le patologie neurologiche, mentre un danno ai sistemi associativi superiori sarebbe responsabile delle malattie mentali (Berrios, Marková, 2002). In un passaggio esemplificativo, Wernicke si chiede come sia possibile che nel caso del giardiniere Rother coesistano nello stesso cervello tante diverse idee false, in contrasto tra loro e rispetto alla realtà, nonostante che la logica, l’essere in possesso di sé e la comprensione della situa-zione siano corrette. La sua risposta è che una malattia acuta provoca un allentamento nella struttura associativa, e ciò a sua volta provoca la disgregazione dell’unitarietà dell’ego (o “disintegrazione dell’indi-vidualità”), per cui idee che normalmente sono coerentemente integra-te, si liberano e diventano semplicemente giustapposte l’una all’altra (Wernicke, 1900). Insomma, con Wernicke la teoria dello sviluppo dei sintomi psichiatrici a partire da disfunzioni cerebrali raggiunge un alto livello di raffinatezza, con un modello di fisiopatologia che spiega in modo coerente come da un’alterazione di struttura si passi all’altera-zione di funzioni integrative più complesse, e come queste spieghino la complessità della fenomenica psicopatologica. Questo approccio, applicato ai disturbi del linguaggio su base neurologica, porterà alla caratterizzazione delle afasie sensoriali e di conduzione, e costituirà anche negli anni a venire il modello più influente di interpretazione neurofunzionale della patologia mentale. Nonostante ciò, nella prima metà del Novecento la gran parte delle impostazioni organiciste in psi-chiatria seguirà più il modello kraepeliniano che quello di Wernicke.

Per avere una riproposizione forte del modello neurofisiopatologi-

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co occorrerà aspettare un secolo e, infatti, solo verso la fine del Nove-cento, e poi con sempre maggior vigore nel primo ventennio del xxi secolo, si verificheranno due condizioni favorevoli a una sua riproposi-zione. La prima è la crisi del modello neokrapeliniano. Con il dsm-iii si era prospettata un’era nuova per la psichiatria, un’era nella quale la definizione di diagnosi scientificamente valide avrebbe favorito la ricerca sulle cause genetiche, neuroanatomiche e neurofunzionali dei disturbi mentali. La gran parte dei ricercatori avrebbe dedicato le pro-prie energie a questo progetto, partendo con grande entusiasmo. Però già verso la fine degli anni Novanta alcuni dei proponenti di questo modello cominciarono a rendersi conto che molte delle scoperte at-tese non si stavano verificando; la conoscenza del cervello e del suo funzionamento aumentava progressivamente, però non stava avvenen-do una parallela crescita delle conoscenze sulle cause neurobiologiche dei disturbi mentali. Ci si è così iniziati a interrogare sulla possibilità che queste scoperte non arrivassero perché le diagnosi, nonostante lo sforzo di operativizzazione, non individuassero vere entità naturali ma rappresentassero solo un accordo tra ricercatori sul significato da dare a quei termini. Così, si iniziò a pensare che fenomeni come la comor-bidity tra diagnosi e la loro eterogeneità interna non fossero evidenze scientifiche ma artefatti del sistema diagnostico, vere e proprie “ano-malie” in senso kuhniano capaci di mettere in crisi il sistema (cfr. Ara-gona, 2006; 2009; 2015). Nello stesso periodo, le possibilità tecniche di studiare il cervello in vivo aumentavano enormemente con le nuove tecniche di neuroimaging, di registrazione dei potenziali elettrofisio-logici, e di stimolazione transcranica, aprendo prospettive inimmagi-nabili fino a pochi anni prima. Ciò ha comportato una spinta enorme alla ricerca in ambito neurocognitivo, e piano piano alla comparsa di modelli teorici neurocognitivi che si proponevano di riformulare la classificazione psichiatrica su basi neurofisiopatologiche. Tra di essi, Murphy (2006; 2008) prima, e Sirgiovanni (2009) subito dopo, han-no proposto di non basare la diagnosi psichiatrica né sul microlivello (geni e caratteristiche biomolecolari) né sul macrolivello delle carat-teristiche comportamentali o personologiche. Piuttosto, occorrerebbe focalizzarsi su un livello intermedio costituito dai moduli neurocogni-tivi di elaborazione delle informazioni, per cui i disturbi mentali sareb-bero la conseguenza di un fallimento (breakdown) di meccanismi neu-rocomputazionali. Addirittura, nella proposta di Murphy le unità di valutazione non sarebbero più le diagnosi ma i singoli sintomi visti in

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modo trasversale indipendentemente dalla diagnosi di cui fanno parte. Un esempio tipico è quello del delirio di Capgras (il paziente riconosce a livello visuo-semantico una persona ben conosciuta ma è convinto che sia stata sostituita da un sosia), ridefinito come output di un’alte-razione della via cerebrale che processa le informazioni relative al senso di familiarità nel riconoscimento dei volti (cfr. cap. 7). Va riconosciu-to che Sirgiovanni, che fa suo questo esempio, aggiunge anche che «al momento questo approccio non è in grado di fornire una sistematica riformulazione della tassonomia psichiatrica, però potrebbe suggerire interessanti direzioni per la futura ricerca psichiatrica» (ivi, p. 48).

Chiudo infine su un modello che è in linea con queste posizioni teoriche ma che ha l’ambizione e, sembra, la forza, per imporsi sul dibattito. Si tratta del cosiddetto progetto rdoc (Research Domain Criteria), lanciato negli Stati Uniti dal National Institute of Mental Health (Insel et al., 2010; Insel, 2014; Insel, Cuthbert, 2015). In que-sto modello vi sono cinque domini di base (denominati sistemi a va-lenza negativa, a valenza positiva, cognitivi, per i processi sociali e di attivazione/regolazione), a cui di recente è stato aggiunto un dominio sensimotorio (Harrison et al., 2019). Per ognuno di questi domini i ricercatori dovranno studiare i correlati a vari livelli: geni, molecole, cellule, circuiti, fisiologia, comportamento, autodescrizioni. Lo studio di ogni dominio potrà avvenire in modo transnosografico (cioè indi-pendentemente da quale sia il disturbo del dsm-5 in cui viene studia-to) e in modo dimensionale (cioè misurando il grado di divergenza rispetto alla funzione normale; cfr. Stoyanov et al., 2019). La speranza è che così facendo si possano accumulare sufficienti dati per arrivare a definire le sindromi psichiatriche in base alla fisiopatologia, partendo dalle disfunzioni nei domini neurocognitivi. Si è sottolineato altrove (Aragona, 2014) che, al di là dei possibili frutti che questo approccio potrà dare nel corso delle future ricerche, la sua introduzione solleva comunque una serie di questioni aperte sulle quali inevitabilmente ritorneranno la riflessione e la critica filosofica, a mano a mano che dalle enunciazioni di principio i ricercatori passeranno alla ricerca sul campo. Come tipo di modello, il sistema rdoc si situa nella tradizione che stiamo discutendo, essendoci «una chiara eco dell’approccio à la Meynert-Wernicke nell’enfasi dell’rdoc sull’attività dei circuiti come focus primario dell’attività cerebrale disregolata correlata alla psicopa-tologia» (Stoyanov et al., 2019, p. 59). Ciò che caratterizza tutti questi approcci è che impostano la ricerca sulla diagnosi non più partendo

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dall’analisi fenomenica (dai sintomi, decorso ecc.), bensì partendo da disfunzioni cognitive di base delle quali ci si propone di individuare tutti i correlati, inclusi i sintomi che tali disfunzioni producono.

1.3 Una terza via: la costruzione dei sintomi mentali

Nei due paragrafi precedenti sono state esposte due prospettive alter-native che si confrontano nella psichiatria odierna (quella dei dsm e quella dei rdoc), inserendole nella prospettiva storica che gli è con-cettualmente più affine. Naturalmente non sono le uniche prospettive possibili sulla psichiatria, nella cui storia ci sono stati periodi in cui hanno dominato anche modelli teorici psicogenetici, sociogenetici ecc. Però attualmente la maggioranza degli psichiatri viene formata su modelli neurobiologici della malattia mentale, per cui questo è il dibattito dominante, e non solo nel mondo accademico. Come si è vi-sto, i due approcci sono alternativi ma condividono l’idea di fondo che la sofferenza mentale sia una questione neurobiologica. Ciò che li differenzia è che, mentre per Kraepelin e i neokraepeliniani del dsm la scoperta dell’eziopatogenesi neurobiologica era il fine ultimo a cui tendere, partendo dall’osservazione fenomenica, per la prospettiva che va da Gall ai rdoc si parte dal funzionamento neurobiologico, dalla cui alterazione discendono i sintomi psichiatrici. Ciò che è invertita è insomma la direzione della correlazione: dai fenomeni all’indietro, verso la causa sottostante, nel primo caso; dalla neurobiologia in avan-ti, verso l’espressione fenomenica, nel secondo caso.

Come sottolinea anche de Leon (2014), una situazione simile si era realizzata già un secolo fa, quando a un giovane Jaspers fu commis-sionato di fare il punto sulla psichiatria dell’epoca, dando un ordine metodologico alla nascente psicopatologia generale. In quell’occasione Jaspers attinse proficuamente al coevo dibattito epistemologico sul-la specificità dei metodi delle scienze umane, importando nell’alveo della psichiatria un prospettivismo metodologico che legittimava un approccio pluralista. In questa visione jaspersiana l’essere umano non è conoscibile nella sua totalità, mentre vari punti di vista ne illuminano vari aspetti, consentendoci di progredire nella conoscenza purché re-stiamo consapevoli che essa non sarà mai una conoscenza totale e che ogni prospettiva dice cose legittime a patto che non trascenda i confi-

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ni del proprio metodo e del proprio campo di applicazione ( Jaspers, 1959). Jaspers poteva così criticare i due approcci visti sopra per due ragioni precise.

Quello à la Wernicke si applicava benissimo alle afasie, però in psi-chiatria incorreva in un “pregiudizio teoretico”, ovvero partiva da un modello teorico ipotetico del funzionamento neurocerebrale, su quel-la base concettualizzava le funzioni che dovevano dar vita ai fenomeni mentali, e sull’ipotesi di come potessero alterarsi queste funzioni pre-vedeva quali potessero essere i sintomi psicopatologici. Il modello in sé è coerente e lineare, ma Jaspers aveva buon gioco a far vedere che l’e-sito della sua applicazione era una “mitologia”, nel senso che in questo modo si prevedeva la comparsa di sintomi mentali che invece i clinici non ritrovavano, mentre al contrario i clinici rilevavano molti sintomi che il modello non prevedeva e per i quali non c’era dunque posto. Il motto della fenomenologia, “andare alle cose stesse”, era qui conver-tito in quello che Jaspers avrebbe potuto definire come un “andare ai fenomeni stessi”, ovvero a quelli realmente presenti, come lui diceva a proposito del suo “empirismo radicale”. E come la fenomenologia con l’epoché mette tra parentesi le precognizioni teoriche, così Jaspers chie-deva di astenersi da pregiudizi teorici sul funzionamento cerebrale per dedicarsi direttamente allo studio dei fenomeni psicopatologici per come essi si presentano nell’incontro clinico.

Sin qui la confutazione di Meynert e Wernicke, ma venendo ai gior-ni nostri, anche il modello rdoc ha lo stesso problema? Seppur con le dovute distinzioni, mi sembra che il far derivare la fenomenica psico-patologica dai domini neurocognitivi riproponga il rischio degli stessi effetti procusteani (forzare un fenomeno dentro una griglia tagliando le parti che non si confanno), e la stessa possibilità di tralasciare altri feno-meni se essi, pur emergendo nell’incontro clinico, non sono riconduci-bili al malfunzionamento di uno dei domini. D’altro canto, il fatto che il sistema con l’aggiunta di nuovi domini dimostri di essere un sistema aperto a revisioni, lascia sperare che almeno il secondo punto si possa ovviare, perché all’individuazione di nuovi fenomeni potrebbe conse-guire l’aggiunta del nuovo dominio da cui dipendono. Ciò sporchereb-be un po’ la purezza metodologica del sistema, perché in questo caso la direzione non sarebbe dalla funzione al fenomeno ma dal fenomeno alla dimensione, ma a mio avviso è un segno positivo di flessibilità.

Rispetto al modello medico, Jaspers criticava in vari modi il concet-to kraepeliniano di unità morbosa, ma per motivi di spazio si rimanda

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al suo testo per i dettagli. Qui ci concentriamo su una critica più gene-rale a tutti quegli approcci che vedono il sintomo mentale come l’effet-to di una supposta causa neurobiologica che lo ha provocato. Questa spiegazione in chiave eziopatogenetica, ci dice Jaspers, è sempre legit-tima dal punto di vista metodologico (ovvero ogni fenomeno psico-patologico può essere visto come l’effetto di una causa sottostante e si può impostare un progetto di ricerca per andare a scoprirla). Però non sempre è utile, sia perché a volte la causa non la troviamo (e in effetti della stragrande maggioranza dei sintomi psichiatrici non si conosce la causa che li provoca o il meccanismo neurobiologico attraverso cui si esplicano), sia perché spesso trovarla non è poi così rilevante. Infatti, in molti casi la questione non è per mezzo di quale attività neuronale, bensì per quale motivo la persona ha sentito, provato o fatto ciò. Siamo cioè non più sul piano della spiegazione del meccanismo ma su quello delle connessioni di significato. Qui Jaspers introduce il concetto di comprensione empatica e ci dice chiaramente che a volte ciò che conta non è descrivere obiettivamente un meccanismo, quanto entrare nelle esperienze vissute, ricostruire il senso che il fenomeno psicopatologico ha per la persona, nei rimandi motivazionali e di significato che legano tra loro i fenomeni significativi. In altre parole, per certi sintomi può avere senso chiedersi cosa li provoca a livello cerebrale e come si può modulare quella disfunzione per farli recedere. Per altri la questione è chiedersi perché ci si sente così, cosa può voler dire, che relazione c’è e che funzione ha con quello che si sta vivendo in questa particolare fase della vita ecc. La psichiatria si occupa e si deve occupare di entrambi gli ambiti.

Rispetto a questa distinzione fondamentale ma forse un po’ trop-po netta, più di recente (ma in linea con una tradizione, quella della psicopatologia fenomenologica, che ha comunque una lunga storia), si è approfondito il tema della relazione fra obiettivazione scientifica e comprensione empatica. Innanzitutto, si è sottolineato che anche i “fatti” obiettivi, come le cosiddette evidenze scientifiche e le diagnosi operazionalizzate dal dsm, sono comunque il prodotto finale di un atto ermeneutico (Aragona, 2009; 2013). Ciò non significa essere nietzschiano, sposare il pensiero debole o assumere un approccio an-tiscientifico, ma semplicemente sottolineare che le categorie scientifi-che con cui leggiamo il mondo influenzano il tipo di lettura che ne ri-caviamo. In questo senso i sintomi elencati dal dsm, su cui si basano le diagnosi dei vari disturbi mentali, non sono enti di natura che ci limi-

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tiamo a osservare e registrare, ma il prodotto di un osservare e descri-vere che ha già in sé un’attività ermeneutica, a volte esplicita e guidata da regole interpretative ma spesso implicita e culturalmente situata. In più, quest’attività ermeneutica non è solo da parte del clinico, ma anche da parte dello stesso paziente che, come sottolinea Stanghellini (2017), si ritrova a dover dare un senso all’alterità che è in sé e all’alte-rità che emerge dall’incontro con l’altro. Su una linea simile, ma con parole diverse e con la possibilità di una schematizzazione del modello di costruzione dei sintomi mentali, si situa la scuola di Cambridge (Berrios, 2013). In questa prospettiva, anche laddove vi sia un primo input derivante da una modificazione dell’attività di un network ce-rebrale che induce come conseguenza una modificazione del vissuto della persona, questo vissuto non è specifico del pattern neuronale, ma è inizialmente indeterminato, sfuggente, a volte perturbante pro-prio nella sua ambigua atmosfera di significatività senza chiaro riferi-mento (Aragona, Marková, 2016). Un esempio caratteristico è quello dell’iniziale perplessità del paziente nella Wahnstimmung, l’atmosfera predelirante nella quale gli oggetti e le situazioni usuali hanno perso la loro ovvietà e il loro significato diventa improvvisamente sospeso, con la persona che vive la sensazione che stia avvenendo qualcosa di ancora ignoto ma sinistro (Callieri, 1978). Di solito, in una situazione di questo tipo, come in tutti i casi in cui i vissuti sono del tutto nuovi, a un iniziale disorientamento segue uno sforzo della persona per dare un senso all’esperienza mai provata prima. Nel fare ciò, la risorsa a cui essa cerca di far ricorso sono le categorie di senso già disponibili, ed è in questo tentativo di dare senso che il fenomeno finale viene ad assu-mere una forma comunicabile all’interlocutore. Questa attività di dare senso al vissuto è un’attività “ermeneutica” implicita, una autointer-pretazione che si effettua sottoponendo il vissuto iniziale a una serie di “configuratori” che includono lo stile personale, familiare, sociale e culturale attraverso i quali si dà forma e si denominano le esperienze soggettive. Qui è probabile che i fattori coinvolti nel processo siano vari e in interazione reciproca. Tra di essi si possono menzionare il background sociale e culturale della persona, l’avere o meno vissuto in precedenza esperienze simili, il grado di intelligenza, le capacità e le conoscenze personali e generali, il tipo di contesto in cui la persona si trova immersa, gli stili familiari di risposta e i lessici familiari, le capa-cità verbali e concettuali dell’individuo, le capacità immaginative, la scelta di cosa esprimere e come dirlo ecc. Si è sottolineato che, attraver-

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1. la malattia mentale come disfunzione neurobiologica

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so questa attività di messa in forma, il vissuto originatosi a livello cere-brale viene “impacchettato” semanticamente e, una volta espresso nel colloquio, diventa un “sintomo” mentale (Aragona, Marková, 2016, p. 7). Ne consegue che uno stesso vissuto può venir caratterizzato in modi diversi (per esempio come umore depresso, piuttosto che come senso di fatica o come dolore), non solo a seconda di quale attivazione neurobiologica faccia scattare il processo, ma anche in base a vari fat-tori non biologici, personali e culturali, che configurano l’originario segnale biologico in qualcosa che sia denominabile come vissuto. E poi, nell’incontro con il clinico che ascolta, vi sarà un’ulteriore riela-borazione ermeneutica volta ad accomodare intersoggettivamente le due prospettive per arrivare, alla fine, a cristallizzare definitivamente quel vissuto come sintomo definibile, denominabile e, se possibile, misurabile. In altre parole, le componenti naturali (segnali cerebrali) e quelle semantiche (autointerpretazione e denominazione dell’espe-rienza, e poi negoziazione interpersonale di significato) sono entram-be presenti nella costruzione del sintomo mentale, il quale è dunque «semanticamente carico» (ivi, p. 8).

1.4 Conclusioni

In questo capitolo si è ricostruita la storia concettuale delle due prin-cipali correnti di interpretazione in chiave neurobiologica della pato-logia mentale. Nel farlo, si è cercato di scarnificare progressivamente i dettagli per fare emergere meglio il principale punto di differenza tra le due: la direzione in cui viene indagata la relazione tra piano feno-menico (i sintomi psicopatologici) e piano neurobiologico (il funzio-namento neurocognitivo). Benché i promotori del sistema rdoc non si pongano ufficialmente in opposizione al dsm, ma piuttosto come attività di ricerca integrativa, la dinamica è chiara e i due sistemi sono chiaramente alternativi (il dsm fondando le proprie diagnosi catego-riali sulla descrizione fenomenica, i rdoc sullo studio dei domini neu-rocognitivi studiati in modo transnosografico). Da un certo punto di vista, dunque, sembra che la tenzone sia partita anche se in questa pri-ma fase i rdoc hanno ancora pochi dati a supporto per poter sfidare apertamente il colosso dsm (per quanto tutti sappiano che ha i piedi d’argilla).

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Nell’ultimo paragrafo, però, si è aperta una questione che a mio avviso tocca in egual modo entrambi i sistemi. Il dsm ritiene le sue diagnosi oggettive perché basate su una descrizione fattuale dei sinto-mi; i rdoc danno per scontato che i domini cognitivi da loro indivi-duati siano la base oggettiva dalla cui disfunzione derivano i sintomi. Si è provato ad accennare che in entrambi i casi non ci si rende conto che molti dei sintomi psicopatologici non sono riducibili senza resto al piano neurobiologico, e ciò in quanto la costruzione del sintomo in psicopatologia è un processo complesso; anche laddove dovesse es-serci una disfunzione neurobiologica che provochi una modificazione nel vissuto della persona, quest’ultima dovrebbe comunque prender posizione di fronte al suo vissuto e autointerpretare ciò che prova per poterlo poi descrivere. Ne consegue, come visto, che l’originario se-gnale neurobiologico è incartato da progressivi strati semantici, e ciò che noi alla fine determiniamo come sintomo è il prodotto finale di questo processo, non il supposto nucleo. Per la ricerca neurocognitiva questo dovrebbe essere di grande interesse, perché indica che il grado di corrispondenza tra eventuale segnale neurobiologico originario da un lato, e il sintomo mentale come viene registrato alla fine del pro-cesso di valutazione dall’altro, varia ampiamente a seconda di quanto è “spessa” la stratificazione semantica. Quindi, voler correlare diretta-mente i dati del neuroimaging ai punteggi ottenuti con qualche rating scale appare illusorio e quanto più è spessa la stratificazione semantica, tanto più occorrerà approntare modelli più fini che tengano conto dei vari scivolamenti semantici occorsi fra questi due punti di repere posti agli estremi.

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Il capitolo intende esaminare le principali risposte filosofiche alla do-manda “che cos’è un disturbo mentale?” Per cominciare, tali risposte sono analizzate in base alla distinzione tra naturalismo e normativi-smo, quella forse più utilizzata per categorizzare le varie definizioni del concetto di malattia (Amoretti, 2015). In seguito, si prenderà invece in considerazione una diversa dicotomia, quella tra modello medi-co “debole” e modello medico “forte” in psichiatria (Murphy, 2013). Non si terrà invece conto delle posizioni esplicitamente eliminativiste, come quelle di Foucault (1961) e Szasz (1961), stando alle quali i di-sturbi mentali non sarebbero altro che miti o strumenti di controllo sociale. Occorre inoltre precisare come la domanda di cui sopra venga investigata esclusivamente al livello teorico, al fine di chiarire quale sia la reale natura, da un punto di vista metafisico, del disturbo mentale e poter così discriminare condizioni patologiche e non patologiche, non al livello pratico, che avrebbe invece lo scopo di orientare decisioni cli-niche, di tipo diagnostico e terapeutico.

2.1 Naturalismo vs normativismo

2.1.1. naturalismo

Le varie teorie naturaliste concordano sul fatto che la psichiatria, per-lomeno a livello teorico, sia una scienza a tutti gli effetti e che il suo concetto principe, quello di disturbo mentale, sia descrittivo e avaluta-tivo. Stando a simili posizioni, dunque, la nozione di disturbo mentale deve essere definita nei termini di una disfunzione mentale (il disturbo

2

Sulla natura del disturbo mentaledi Maria Cristina Amoretti

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mentale è o sottende una disfunzione), mentre non deve fare riferimen-to a concetti normativi di alcun genere, come quelli di male, danno o indesiderabilità, risultando così indipendente da giudizi di valore, sia-no essi individuali, culturali o sociali. Supponiamo, per esempio, che la schizofrenia sottenda effettivamente una disfunzione dei meccanismi mentali; per un naturalista ciò sarebbe sufficiente a considerare tale condizione un disturbo mentale, a prescindere dalla possibilità che il soggetto o la società la ritengano buona e desiderabile. Viceversa, ma-sturbazione e isteria, non sottendendo alcuna disfunzione, non po-trebbero essere classificate come disturbi mentali, nemmeno nel caso in cui esse fossero giudicate condizioni dannose e indesiderabili.

Gran parte del dibattito che divide i vari naturalismi si focalizza su come si debba caratterizzare la nozione di disfunzione. Sebbene vi sia-no molti modi di definire i concetti di funzione e disfunzione, è altresì possibile suddividere le varie teorie proposte in due macrocategorie: da una parte, le teorie eziologico-evolutive, dall’altra quelle sistemico-meccaniciste.

Stando alle teorie eziologico-evolutive, la funzione di un certo ele-mento all’interno dell’organismo è qualcosa che esso fa, un suo qual-che effetto, all’interno dell’organismo stesso. Più specificamente, si tratta di quel particolare effetto in virtù del quale, in passato, l’elemen-to in questione è stato selezionato dalla selezione naturale (Millikan, 1989; Neander, 1991). In questa prospettiva si ha un disturbo mentale nel momento in cui un qualche meccanismo mentale (affettivo, cogni-tivo, linguistico, motivazionale, percettivo ecc.) non sia più in grado di svolgere la funzione per cui è stato “disegnato” dalla natura, ovve-ro quel particolare effetto in virtù del quale esso, nel passato, è stato selezionato dalla selezione naturale. Ciò significa che gli standard e i fallimenti funzionali devono essere stabiliti in riferimento al modo in cui i vari meccanismi mentali si sono venuti a configurare nel passato in virtù della selezione naturale; occorre pertanto acquisire adeguata conoscenza della storia evolutiva dei vari meccanismi mentali, cono-scenza che ci giunge dalla biologia e dalla psicologia evoluzionista.

Sebbene alcune importanti teorie naturaliste, ma anche ibride, circa la natura del disturbo mentale si basino su una teoria eziologico-evolu-tiva, essa pone dei problemi rilevanti. In primo luogo, appare difficile riuscire a determinare la funzione evolutiva dei meccanismi mentali, tenendo anche conto che non ci si può basare su resti fossili (Roe, Murphy, 2011). Più rilevante da un punto di vista teorico, vi è inoltre il

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2. sulla natura del disturbo mentale

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fatto che si possono avere condizioni che vorremmo poter classificare come disturbi mentali, ma che non sono disfunzioni da un punto di vi-sta evolutivo (Kingma, 2013; Roe, Murphy, 2011). Ciò accade quando il meccanismo mentale compie l’effetto per cui è stato selezionato, ma è cambiato il contesto, oppure quando il meccanismo mentale svolge un effetto non selezionato (in questo caso non vi sarebbe alcuna funzione da un punto di vista eziologico-evolutivo né, di conseguenza, alcuna disfunzione); è questo il caso degli “esattamenti” (exaptations) biolo-gici o culturali, meccanismi che si sono evoluti per svolgere una parti-colare funzione ma ne assumono poi una nuova e indipendente dalla primitiva, degli spandrels (letteralmente “pennacchi”), meccanismi che si sono sviluppati come inevitabile conseguenza di altri e non sono perciò il risultato diretto della selezione naturale, oppure delle vestigia, meccanismi che hanno perso del tutto la loro funzione originaria. Vi è infine il problema posto dall’immaginare un organismo biologico che non abbia alcuna storia evolutiva – si pensi per esempio agli organi-smi artificiali, su cui si concentrano molte ricerche di biologia sintetica (Holm, 2014); i suoi meccanismi mentali, per quanto complessi, non sarebbero dotati di alcuna funzione in senso eziologico-evolutivo e, pertanto, non potrebbero essere disfunzionanti.

Passando alla seconda macrocategoria, le teorie sistemico-mecca-niciste concordano che la funzione di un certo elemento vada sempre valutata specificando il sistema di riferimento in cui esso si trova e consista nel contributo causale standard alla realizzazione di una certa capacità più generale di tale sistema (Cummins, 1975). Ciò significa che si ha un disturbo mentale quando un certo meccanismo mentale non contribuisce più in modo causale standard a una certa capacità più generale del sistema di cui fa parte. In quest’ottica, gli standard e i fallimenti funzionali devono essere stabiliti acquisendo adeguata conoscenza di tipo dinamico e meccanicistico rispetto al sistema com-plesso e gerarchico di cui un certo meccanismo mentale fa parte. In altre parole, occorre essere in grado di identificare sistemi, sottosistemi e relative parti: una conoscenza che ci giunge dalla fisiologia e dalla neurofisiologia.

Un esempio influente di teoria sistemico-meccanicista è la teoria biostatistica sviluppata da Boorse (1976; 1977). In questo caso il con-tributo causale standard è definito nei termini di efficienza statistica ti-pica, determinata convenzionalmente all’interno di una classe di riferi-mento (omogenea rispetto alla specie, il sesso e l’età degli individui che

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la compongono), e riferito alla realizzazione dei fini ultimi dell’organi-smo, vale a dire sopravvivenza o riproduzione. Si ha dunque un distur-bo mentale quando vi è una qualche disfunzione mentale, vale a dire quando un meccanismo mentale non contribuisce più con efficienza statistica tipica, bensì inferiore, alla sopravvivenza o alla riproduzione individuale dell’organismo. Idealmente, occorre pertanto delineare un quadro coerente di come le singole funzioni mentali contribuiscano nel loro complesso alla sopravvivenza o alla riproduzione individuale.

Anche la teoria biostatistica ha i suoi problemi (Boorse, 1997; 2014). In primo luogo, sembra che per determinare il contributo cau-sale standard occorra far riferimento a un qualche “disegno di specie”, rispetto al quale stabilire appunto quali funzioni e tratti siano normali; ma tale disegno sarebbe in contrasto con la variabilità individuale. Vi è poi la questione delle malattie endemiche: supponiamo per esempio che il disturbo d’ansia generalizzato sia largamente presente all’in-terno di una qualche classe di riferimento; in queste circostanze tale condizione rappresenterebbe la normalità statistica e, come tale, non potrebbe essere considerata un disturbo mentale. Vi è infine il proble-ma di determinare quale sia la classe di riferimento rilevante; ci si può chiedere infatti se e perché le tre variabili di specie, età e sesso debbano essere le sole da tenere presenti. Perché non considerare anche l’etnia, l’ambiente o altre ancora? E come distinguere variabili medicalmente rilevanti da altre palesemente arbitrarie, come per esempio quella dei miopi (Kingma, 2007)?

Mettendo a confronto teorie eziologico-evolutive e sistemico-meccaniciste, le seconde sembrano comunque meglio equipaggiate a definire il concetto di disturbo mentale, dal momento che le prime non sono in grado di valutare la presenza o meno di un disturbo mentale ri-spetto a tutti quei meccanismi che svolgono effetti non selezionati, per i quali non si può parlare né di funzione né di disfunzione (Kingma, 2013; Roe, Murphy, 2011). Senza contare poi che la psichiatria, in quan-to specialità della medicina, non è interessata a stabilire quale sia la fun-zione evolutiva di un meccanismo mentale, il perché esso sia presente nell’organismo, quanto piuttosto a capire quale sia il suo ruolo causale nell’economia complessiva dell’organismo, cosa esso faccia per contri-buire a una qualche capacità più generale del sistema di cui è parte.

Assumendo che si possa definire il disturbo mentale nei termini di una disfunzione, sorge però la domanda se lo stesso concetto di disfun-zione possa essere definito in termini puramente naturalistici. In altre

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2. sulla natura del disturbo mentale

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parole, se per un naturalista nozioni esplicitamente normative, come quelle di male, danno o indesiderabilità, non possono figurare come criteri espliciti della definizione di disturbo mentale, è tuttavia possi-bile che la nozione di disfunzione debba al suo interno far riferimento a un qualche giudizio di valore (Kingma, 2014). Elementi normativi potrebbero cioè essere necessari per operazionalizzare il concetto di disfunzione, insinuandosi così a un diverso livello della definizione ge-nerale di disturbo mentale.

Consideriamo per esempio il cosiddetto problema della soglia in riferimento alla teoria biostatistica. Per molti meccanismi mentali il confine tra output funzionali normali e patologici non è netto (si pensi, per esempio, al confine tra mera apprensione e disturbo d’ansia generalizzato); dove tracciare, in mezzo alla grande varietà di out put funzionali, la soglia tra funzione e disfunzione? Seguire Boorse soste-nendo che tale confine possa essere indicato convenzionalmente, ta-gliando la curva della distribuzione funzionale al di sotto di una certa percentuale fissa nella distribuzione della popolazione (poniamo il 5%), non sembra appropriato, dal momento che i disturbi mentali va-riano notevolmente rispetto alla loro prevalenza (Schwartz, 2007). Si può allora pensare di variare la percentuale a seconda delle conseguen-ze che l’output funzionale ha nella popolazione: se un gran numero di output ha conseguenze negative la percentuale aumenta (poniamo il 10%), in caso contrario diminuisce (poniamo il 2%). Ma parlare di conseguenze negative sembra introdurre un elemento valutativo all’in-terno della nozione di disfunzione (Kingma, 2014).

2.1.2. normativismo

Le teorie normativiste concordano sul fatto che il concetto di disturbo mentale sia intrinsecamente legato a giudizi di valore. Parlando di di-sturbo mentale ci si riferirebbe insomma a qualcosa che viene valutato negativamente, sulla base di norme individuali, culturali o sociali, ed è dunque considerato un male, un qualcosa di dannoso e indesiderabile per la persona considerata nella sua totalità. Ammettiamo, per esem-pio, che la schizofrenia sottenda una disfunzione dei meccanismi men-tali, ma che in una certa società o in un certo periodo storico essa sia ritenuta una condizione buona e desiderabile; per un normativista tali osservazioni di carattere valutativo sarebbero sufficienti per non classi-ficare la schizofrenia come un disturbo mentale, a prescindere dal fat-

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to che essa sia davvero una disfunzione. D’altro canto, masturbazione e isteria, pur non sottendendo alcuna disfunzione, potrebbero essere comunque considerate dei disturbi mentali qualora fossero giudicate condizioni dannose e indesiderabili da una certa società o in un certo periodo storico.

Alla base delle varie teorie normativiste si possono trovare diversi concetti normativi, quali per esempio quelli di disabilità (Nordenfelt, 1987), incapacità di agire (Fulford, 1989), danno (Clouser et al., 1981; Cooper, 2002) o esigenza di un trattamento medico (Cooper, 2002; Reznek, 1987), oppure esperienze soggettive, come quelle di disagio e sofferenza (Carel, 2008). Vista l’estrema eterogeneità di tali posizioni, prendiamo come esempio le due definizioni elaborate da Lennart Nor-denfelt e Rachel Cooper.

Secondo Nordenfelt, il disturbo mentale è una condizione interna alla mente (per esempio, un meccanismo mentale) coinvolta in un pro-cesso che, in circostanze standard, tende con alta probabilità a compro-mettere la capacità di una persona di raggiungere i propri scopi vitali, vale a dire, le condizioni individualmente necessarie e congiuntamente sufficienti al raggiungimento della felicità minima. In breve, la felicità minima è una nozione normativa che, sebbene debba essere ridetermi-nata per ogni singolo individuo, non è né arbitraria né soggettiva, dal momento che la sua definizione passa sì attraverso una valutazione, ma una valutazione rigorosa e coerente, effettuata in un contesto sociale e intersoggettivo. Dal punto di vista teorico, si tratta di una definizione olistica di malattia, che considera la persona nel suo complesso, non solo dal punto di vista biologico, ma anche psicologico e sociale. Seb-bene si tratti di una posizione piuttosto influente in ambito normativi-sta, essa non è esente da problemi.

Da una parte, la teoria di Nordenfelt si dimostra troppo esclusi-va, non riuscendo a rendere conto di disturbi mentali lievi, come per esempio i tic nervosi, che raramente compromettono gli scopi vitali di una persona. Dall’altra, essa lascia ampio spazio non solo al relativi-smo (legato soprattutto alle nozioni di scopo vitale e felicità minima), ma anche alla possibilità di medicalizzare condizioni che difficilmen-te sarebbero giudicate disturbi mentali, mostrandosi così troppo in-clusiva (Schramme, 2006). Consideriamo, per esempio, la pigrizia o la bassa autostima, che potrebbero ragionevolmente essere coinvolte in un processo che tende a compromettere la capacità di una persona di raggiungere i propri scopi vitali; tali condizioni dovrebbero allora

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2. sulla natura del disturbo mentale

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essere considerate dei disturbi mentali. La posizione di Nordenfelt, in-somma, non sembra essere in grado di tracciare una distinzione netta tra disturbi mentali e normalità, requisito che è invece fondamentale per una buona definizione teorica di disturbo mentale.

Passando invece alla posizione di Cooper, una certa condizione mentale è un disturbo mentale se e solo se: 1) è una cosa cattiva (bad thing) per l’individuo che ne è affetto; 2) l’individuo che ne è affetto è sfortunato (unlucky); 3) è qualcosa di potenzialmente trattabile dal punto di vista medico. Il primo requisito, esplicitamente normativo, sottolinea come i disturbi mentali debbano essere valutati negativa-mente  –  abbiamo già detto come ciò porti a non considerare come tali disturbi mentali molto lievi. Ma dal momento che tale valutazione deve essere fatta dal singolo soggetto, si introduce altresì un evidente elemento di relativismo: una stessa condizione, prendiamo per esem-pio la schizofrenia, potrebbe risultare indesiderabile per un individuo (o per la maggior parte degli individui o per l’individuo standard), ma desiderabile per un altro che, per ipotesi, giudicasse positivamente le allucinazioni uditive che la caratterizzano; tale condizione dovrebbe allora essere considerata un disturbo mentale nel primo caso, ma non nel secondo (Cooper, 2015).

Il successivo requisito sancisce che il disturbo mentale debba essere una condizione tale da rendere sfortunato l’individuo che ne è affetto, nel senso che questi avrebbe potuto ragionevolmente sperare di sta-re diversamente, cioè di stare meglio. In questo modo Cooper pensa di poter escludere le condizioni cattive che dipendono dalla biologia umana (come la dentizione), nonché i meri mali biologici (come l’es-sere di bassa statura).

Il terzo criterio, infine, stabilisce che il disturbo mentale debba es-sere una condizione potenzialmente trattabile dalla psichiatria, esclu-dendo così dalla classe delle malattie le sfortune generali, come l’essere povero o incarcerato. Quest’ultimo criterio rischia però di essere assai problematico in relazione ai disturbi mentali, dal momento che una certa condizione potrebbe cominciare a essere ritenuta un disturbo mentale conseguentemente alla scoperta di una “cura” di tipo medico: vista la sempre più grande disponibilità di farmaci, la nascita continua di diversi tipi di terapie, nonché le crescenti pressioni delle varie lobby farmaceutiche e professionali, molti normali problemi del vivere po-trebbero essere trasformati in sempre nuovi disturbi mentali. Per con-cludere, sembra che anche la definizione di Cooper non sia in grado di

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1. A essere precisi, la definizione di disturbo mentale del dsm-5 prevede che solo il criterio della disfunzione sia necessario, mentre quello del danno (disagio o disabi-lità) potrebbe anche non essere presente. Per una discussione cfr. Amoretti, Lalumera (2019b); Cooper (2015).

differenziare in modo adeguato disturbi mentali e normalità, come in-vece è richiesto da una buona definizione teorica di disturbo mentale.

2.1.3. teorie ibride

Fino a questo momento abbiamo considerato naturalismo e normati-vismo come due posizioni alternative; tuttavia, vi è anche la possibi-lità di optare per una teoria “ibrida”, che definisca il disturbo mentale tenendo conto tanto degli elementi descrittivi, di matrice naturalista, quanto di quelli valutativi, di matrice normativista. Un esempio in tal senso è la teoria della “disfunzione dannosa” che, per certi versi, sembra caratterizzare anche la definizione generale di disturbo mentale pre-sente nel dsm-5:

Un disturbo mentale è una sindrome [che] riflette una disfunzione nei pro-cessi psicologici, biologici o dello sviluppo che sottendono il funzionamento mentale. I disturbi mentali sono solitamente associati con un livello signifi-cativo di disagio o disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre importanti attività (apa, 2013, trad. it. p. 22)1.

L’idea generale delle teorie ibride, dunque, è che una buona definizione di disturbo mentale debba includere sia la nozione di disfunzione, per rappresentarne l’aspetto oggettivo e biologico, sia quella di danno, per introdurne il carattere normativo e valutativo. Si può poi dare maggiore enfasi all’una o all’altra componente. Da una parte, la teoria “dei due pas-si” (two-steps view) raccomanda di trovare prima la disfunzione e, in un secondo tempo, giudicare se tale disfunzione sia o meno dannosa o inde-siderabile; dall’altra, la teoria “prima la norma” (norm-first view) mette in evidenza il giudizio di valore, il fatto cioè che una certa condizione sia considerata dannosa e indesiderabile, per farlo seguire da un’indagine scientifica atta a individuare un’eventuale disfunzione (Murphy, 2015).

L’esempio più noto e discusso di teoria ibrida è senz’altro quello proposto da Jerome Wakefield (1992a), secondo cui si avrebbe un di-sturbo mentale quando un qualche meccanismo mentale non riesca

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2. sulla natura del disturbo mentale

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più a svolgere la sua funzione naturale (disfunzione) e questo fatto in-terferisca in modo dannoso con il benessere dell’individuo in questio-ne (danno). Nella teoria ibrida di Wakefield, la disfunzione è pensata in termini eziologico-evolutivi, mentre il danno è giudicato in base alle circostanze e agli standard della cultura cui appartiene il soggetto.

A prescindere dal modo in cui si vogliano definire disfunzione e danno, una teoria ibrida può avere dei vantaggi rispetto alle teorie na-turaliste pure, tra cui quello di riuscire a rendere conto del perché una condizione come l’omosessualità non debba essere classificata come un disturbo mentale: anche se non fosse possibile dimostrare il carattere non disfunzionale dell’omosessualità, tale condizione non deve co-munque essere considerata un disturbo mentale perché non può essere ritenuta dannosa. Rispetto alle teorie normativiste pure, quelle ibri-de non hanno invece il problema di relativizzare o ampliare troppo il concetto di disturbo mentale: anche se un certo soggetto o una certa società dovesse giudicare una qualche condizione dannosa e indeside-rabile, questa non potrebbe essere considerata un disturbo mentale a meno che non sottenda effettivamente una disfunzione. Detto questo, le teorie ibride rischiano di ereditare altri problemi delle teorie natura-liste e normativiste, primi tra tutti quelli che riguardano le definizioni di disfunzione e danno.

2.2 Modello medico debole vs modello medico forte

Alla domanda “che cos’è un disturbo mentale?” si può inoltre rispon-dere pensando alla distinzione tra modello medico “debole” e modello medico “forte” in psichiatria. Stando alla caratterizzazione datane da Murphy (2013), la psichiatria contemporanea tende ad aderire al co-siddetto modello medico, considerando i disturbi mentali alla stregua delle malattie somatiche e assumendo i modi di pensare e i metodi, spe-rimentali ed epidemiologici, che sono propri della medicina somatica. Una tale caratterizzazione del modello medico è tuttavia assai vaga e può essere meglio esplicitata distinguendo tra due sue diverse acce-zioni o, più precisamente, due sottoparadigmi teorici ed esplicativi, il modello medico debole e il modello medico forte, che si distinguono soprattutto per il modo in cui concettualizzano la nozione generale di disturbo mentale (Lalumera, Amoretti, 2018).

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2.2.1. modello medico debole

Secondo il modello medico debole, un disturbo mentale è caratterizza-to da un insieme di segni e di sintomi che si presentano insieme, evol-vono in modo caratteristico e reagiscono a una medesima terapia, cioè da una sindrome, il cui decorso si può descrivere, spiegare e prevedere senza dover fare riferimento ai meccanismi cerebrali che la sottendo-no. Si tratta insomma di una posizione antirealista circa la natura del disturbo mentale che, se è stata via via abbandonata dalla medicina somatica, è tuttavia ancora predominante all’interno della psichiatria.

Basti pensare a come il disturbo mentale viene esplicitamente de-finito all’interno del dsm-5: «Un disturbo mentale è una sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni o del comportamento di un individuo» (apa, 2013, trad. it. p. 22). La decisione di identificare il disturbo mentale con una sindrome riflette l’assunto di ateoreticità che, fin dalla sua terza edizione, caratterizza il manuale, che si dichiara infatti descrittivo e neutrale rispetto alle possibili eziologie dei disturbi mentali, per ambire a essere uno strumento di classificazione univer-salmente accettato e utilizzato da psichiatri di diverso orientamento. A dire il vero, la definizione del dsm richiede anche che la sindrome che identifica il disturbo mentale rifletta una disfunzione, da intendersi come la causa più prossima che sottende la sindrome, tenendo assieme i segni e i sintomi che la compongono. Nonostante ciò, accade altresì che – stando ai criteri del manuale – si possa diagnosticare un disturbo mentale senza preoccuparsi di identificare la disfunzione, che risulta allora un requisito inutile o quantomeno problematico (Amoretti, La-lumera, 2019a; Wakefield, 1992b; 1997).

La caratterizzazione in termini meramente sintomatici del disturbo mentale è compatibile inoltre con il modello dei symptoms networks, sviluppato da Denny Borsboom (2017). Secondo tale modello un di-sturbo mentale consiste in un insieme di sintomi che sia stabilmente e fortemente interconnesso attraverso un sistema complesso di relazioni causali. Tale insieme interconnesso di sintomi ha una struttura a rete, in grado di mettere in evidenza le relazioni causali tra i singoli sintomi, che sarebbero appunto i nodi della rete (per esempio, l’umore depres-so causa l’insonnia, che a sua volta causa affaticamento e mancanza di concentrazione, sintomi che sono causalmente connessi all’isolamen-to sociale e alla perdita di interesse, che a loro volta rinforzano l’umore

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depresso). L’idea centrale è che una volta che il network di sintomi si sia innescato – conseguentemente a un qualche fattore scatenante esterno di natura ambientale, come la perdita di un proprio caro o un evento traumatico, o di natura biologica, come un’infiammazione o una lesio-ne cerebrale – questo sarebbe poi in grado di autosostenersi in virtù delle relazioni causali che connettono i singoli sintomi, senza che sia necessario postulare alcuna “variabile latente”, alcuna causa comune o disfunzione che sottenda l’insieme di sintomi e che potrebbe essere erroneamente identificata con il disturbo mentale stesso. Detto in altri termini, invece di essere l’effetto di una causa comune, i sintomi che definiscono i vari disturbi mentali si causerebbero a vicenda.

Uno degli aspetti più convincenti di tale modello è che riesce ad ac-comodare la pluralità di cause e di livelli che caratterizza la spiegazione psichiatrica, dimostrandosi così estremamente utile per studi di tipo epidemiologico, nonché per migliorare la diagnosi e il trattamento dei disturbi mentali. Detto questo, occorre non confondere il livello epi-stemico di cui sopra (come diagnostichiamo, descriviamo, misuriamo e spieghiamo i disturbi mentali) con il livello metafisico (che cos’è un disturbo mentale), vale a dire con l’affermazione secondo cui i disturbi mentali sono insiemi interconnessi di sintomi, non le disfunzioni che li sottendono.

2.2.2. modello medico forte

Il modello medico forte sostiene invece che un disturbo mentale sia identificato con un processo patologico dei sistemi cerebrali, che devia-no dal loro normale funzionamento, vale a dire con la causa più prossi-ma, la patologia o la disfunzione appunto, che sottende e tiene assieme i vari segni e sintomi (Andreasen, 2001; Murphy, 2009). Si tratta di una concettualizzazione del disturbo mentale di chiara matrice reali-sta e riduzionista (in senso ontologico). Se la psichiatria adottasse il modello medico forte si allineerebbe alle altre specialità mediche, dal momento che la medicina somatica concepisce perlopiù la malattia nei termini della patologia o della disfunzione che sottende la sindrome.

Sebbene il dsm sia lontano dall’abbracciare il modello medico forte, questo è invece compatibile col progetto rdoc (cfr. cap. 1), un framework alternativo in cui i disturbi mentali sono esplicitamente concettualizzati come disturbi del cervello, vale a dire come disfun-zioni dei sistemi cerebrali. Il progetto rdoc mira infatti a integrare

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la psichiatria con i risultati delle più recenti ricerche genetiche, epi-genetiche, fisiologiche e neurofisiologiche al fine di realizzare una vera e propria psichiatria di precisione. Allo stato attuale sono stati individuati sei sistemi di alto livello (i sistemi della valenza negati-va, della valenza positiva, cognitivi, per i processi sociali, di arousal e sensomotori) all’interno dei quali sono raggruppati diversi costrutti psicologici dimensionali (tra cui, per esempio, perdita, attenzione, motivazione e sonno-veglia) che sono indagati a diversi livelli: gene-tico, molecolare, cellulare e circuitale (rilevanti da un punto di vista esplicativo), fisiologico, comportamentale e del self-report (utili a col-legare disfunzioni e sindromi). Si vengono così a creare delle matri-ci che contengono tutta l’informazione a oggi disponibile rispetto a ciascun costrutto. Astraendo dai singoli dettagli, si può affermare che il progetto rdoc è un chiaro esempio del modello medico forte, dal momento che si distingue per un impegno esplicito verso specifiche ipotesi causali, identificando i disturbi mentali con delle disfunzioni dei sistemi cerebrali.

Far coincidere il disturbo mentale con un processo patologico dei sistemi cerebrali è una tesi esplicitamente riduzionista, ma solo dal punto di vista ontologico. Nonostante molti critici abbiano sostenu-to che il modello medico forte “schiacci” la spiegazione psichiatrica al solo livello della neurofisiologia (Sullivan, 2017), occorre riconoscere come sposare il riduzionismo ontologico non implichi accettare il ri-duzionismo epistemologico: si può infatti continuare a pensare che vi siano generalizzazioni interessanti a livelli più alti di quello neurofisio-logico, generalizzazioni che abbiano un importante ruolo pragmatico e predittivo. Il riduzionismo ontologico è compatibile sia con un ridu-zionismo parziale, frammentario e multilivello, che cerchi di integrare meccanismi diversi a diversi livelli più bassi (Schaffner, 2013), sia con un pluralismo esplicativo non riduzionista, che prenda in considera-zione quelli che di volta in volta sono i livelli rilevanti alla spiegazione, siano essi più bassi o più alti (Kendler, 2012; Murphy, 2008). Se allo stato attuale il progetto rdoc si configura come una forma di ridu-zionismo parziale, dal momento che la matrice considera rilevanti dal punto di vista esplicativo soltanto i livelli più bassi rispetto a quello neurofisiologico, esso è altresì compatibile con il pluralismo esplicati-vo non riduzionista, nel caso in cui la matrice fosse integrata con livelli più alti, come per esempio il vissuto individuale, l’ambiente familiare o il contesto sociale (Cuthbert, 2014; Sanislow et al., 2010).

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Un’ulteriore difficoltà che può essere riscontrata nel modello me-dico forte è che difficilmente una singola disfunzione dei sistemi cere-brali può sottendere sindromi complesse, come quelle che identificano la maggior parte dei disturbi mentali del dsm-5. Questa preoccupazio-ne è legittima, ma un sostenitore del modello medico forte può pro-porre di creare dei sottotipi più specifici dei singoli disturbi mentali, per i quali sia possibile individuare la disfunzione sottostante; può inoltre decidere di guardare ai singoli sintomi, caratterizzati nel modo più preciso possibile; infine, può cercare di formulare una nosologia alternativa rispetto a quella del dsm, che sia esplicitamente orientata alla ricerca e alla definizione teorica del disturbo mentale. In realtà, ammettere più di una nosologia psichiatrica e più di una definizione di disturbo mentale, a seconda che ci si concentri su fini pratici o teorici, potrebbe essere un’alternativa da non sottovalutare (Amoretti, 2016; Cooper, 2014).

2.3 Conclusioni

Nel presente capitolo si è cercato di analizzare criticamente le principa-li risposte filosofiche alla domanda «che cos’è un disturbo mentale?».

In primo luogo, è stata presa in considerazione la dicotomia tra naturalismo e normativismo: se i naturalisti condividono l’idea che la nozione di disturbo mentale debba essere caratterizzata in termini de-scrittivi e avalutativi (nella misura in cui, ovviamente, possano essere descrittivi e avalutativi i concetti di altre scienze, quali per esempio la biologia), i normativisti concordano invece nel sostenere che si tratti di un concetto intrinsecamente legato a giudizi di valore. Per quan-to riguarda le posizioni naturaliste, il concetto di disturbo mentale viene perlopiù definito in termini funzionali, tanto è vero che gran parte del dibattito tra i vari naturalismi si focalizza proprio su come sia meglio caratterizzare la nozione di disfunzione. A tal proposito, le teorie sistemico-meccaniciste sembrano meglio equipaggiate rispetto a quelle eziologico-evolutive per rendere conto della nozione genera-le di disturbo mentale. Posto che il disturbo mentale venga definito nei termini di una mera disfunzione, occorre comunque domandarsi se il concetto stesso di funzione possa essere dato in termini puramen-te naturalistici o se, invece, per operazionalizzarlo non sia necessario

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far riferimento a un qualche giudizio di valore. Detto questo, occorre stare attenti a non confondere tale eventualità con quanto proposto dalle teorie normativiste, stando alle quali il disturbo mentale sareb-be qualcosa che viene valutato negativamente dall’individuo o dal-la società, essendo considerato un male, un qualcosa di cattivo. Alla base di tali posizioni si trovano diverse nozioni normative oppure esperienze soggettive, ma nessuna di queste sembra essere in grado di rendere pienamente conto di problemi quali la medicalizzazione e il relativismo, e di tracciare così una distinzione abbastanza precisa tra disturbi mentali e normalità (come è invece richiesto da una buona definizione teorica di disturbo mentale). Infine, vi è anche la possi-bilità di optare per una teoria ibrida, che tenga conto tanto degli ele-menti descrittivi, di matrice naturalista, quanto di quelli valutativi, di matrice normativista. Ma se tali teorie possono esibire dei vantaggi ri-spetto a quelle naturaliste o normativiste pure, esse ereditano altresì alcuni loro problemi, primi tra tutti quelli che riguardano le defini-zioni di disfunzione e danno.

Alla domanda «che cos’è un disturbo mentale?» si può inoltre ri-spondere pensando alla distinzione tra modello medico debole e mo-dello medico forte in psichiatria – assumendo, è ovvio, che la psichia-tria contemporanea tenda ad aderire al modello medico, considerando i disturbi mentali alla stregua di malattie somatiche. Detto questo, stando al modello medico debole, un disturbo mentale sarebbe carat-terizzato da un insieme di segni e di sintomi che si presenta ed evolve assieme, senza che si debba far riferimento a ciò che lo sottende (la patologia o la disfunzione sottostante). Si è visto come tale descrizione in termini sintomatici sia compatibile sia con la definizione di disturbo mentale presente nel dsm-5, sia con il modello dei symptoms networks, due posizioni antirealiste – seppur con forza diversa – rispetto alla na-tura del disturbo mentale. Viceversa, stando al modello medico forte, un disturbo mentale sarebbe identificato con un processo patologico dei sistemi cerebrali, vale a dire con la causa più prossima, la patologia o la disfunzione appunto, che sottende e tiene assieme i vari segni e sintomi. Tale concettualizzazione in termini disfunzionali, di chiara matrice realista e riduzionista (in senso ontologico), è invece compa-tibile col progetto rdoc, all’interno del quale i disturbi mentali sono esplicitamente considerati disturbi del cervello.

Se la domanda «che cos’è un disturbo mentale?» viene investigata al livello teorico, al fine di precisare quale sia la reale natura, da un

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punto di vista metafisico, del disturbo mentale e poter così differenzia-re condizioni patologiche e non patologiche, sembra che le teorie na-turaliste e il modello medico forte siano meglio equipaggiati rispetto alle loro alternative (Amoretti e Lalumera, in stampa). Detto questo, si può anche considerare l’eventualità di ammettere più definizioni di disturbo mentale, a seconda che si vogliano soddisfare scopi di ordine scientifico-teorico o clinico-pratico.

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La classificazione degli angeli illustrata da Tommaso d’Aquino nel-la Summa Theologica ne comprende nove tipi: serafini, cherubini, troni, dominazioni, virtù, potestà, principati, arcangeli e angeli. Essi sono organizzati gerarchicamente in tre sfere, a seconda di come ap-prendono le ragioni delle cose: gli angeli della prima sfera apprendo-no da Dio stesso, quelli della seconda attraverso le cause universali, mentre quelli della terza mediante l’applicazione agli effetti partico-lari. Ci sono due quesiti filosofici importanti che si possono porre rispetto a ogni sistema di classificazione: qual è il criterio di inclu-sione ed esclusione dei concetti appartenenti alla classificazione? Inoltre, essi corrispondono a categorie reali (o sono almeno utili, o esplicativi)? Così, potremmo chiederci riguardo alla classificazione di San Tommaso se essa comprenda davvero tutti e soli gli angeli (primo quesito), e se gli angeli esistono (secondo). Questo capitolo si occupa del primo quesito riguardo al dsm-5 (apa, 2013), la noso-logia più utilizzata in ambito psichiatrico. L’ultima edizione, come le precedenti, comprende nuovi costrutti diagnostici – nuove malat-tie – e altre sono scomparse o modificate. Il criterio di inclusione ed esclusione di una certa condizione dal novero delle malattie classifi-cate è, in parte, la definizione generale di disturbo mentale, discussa nel capitolo precedente di questo volume. Ma vedremo che la base di evidenza per questo tipo di decisioni è costituita soprattutto da un insieme eterogeneo di dati che vanno dal parere dei gruppi di esperti, agli studi preclinici, clinici e farmacologici, fino all’opinio-ne dei gruppi di pazienti e della società in senso più ampio. Come esempio di questa complessa costruzione dell’evidenza in psichiatria si tratterà del caso dell’introduzione, tra le nuove malattie, della di-sposofobia o disturbo da accumulo, e della discussione sull’elimina-

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Il problema della classificazione dei disturbi mentali

di Elisabetta Lalumera

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zione – poi non avvenuta – del disturbo di personalità narcisistica. Questo capitolo si occupa quindi di epistemologia sociale della psi-chiatria, sull’esempio del lavoro di filosofe come Miriam Solomon (2015) e Rachel Cooper (2014).

3.1 Sul processo di inclusione o esclusione di disturbi

dalla nosologia psichiatrica: il disturbo da accumulo

Secondo Thomas Kuhn una disciplina matura, nel suo stadio di “scienza normale”, fonda la propria trasmissione alle generazioni fu-ture su manuali che fissano il lessico, i problemi aperti e le direzioni di ricerca (Kuhn, 1962). Dall’inizio della sua storia, la psichiatria (o in generale l’insieme di discipline che si occupano dei disturbi men-tali, che comprende la psicologia clinica, in parte la neurologia, e oggi le neuroscienze e le scienze cognitive) lavora alla propria nosologia, e ogni nuova edizione del dsm – sebbene largamente utilizzata a livello internazionale in contesti di sanità privata e pubblica, giuridica e di ricerca – appare come un fragile compromesso, che suscita immanca-bilmente critiche interne, esterne e proposte di riforma radicale. Segno questo, secondo alcuni, di uno stato preparadigmatico della disciplina, per citare nuovamente Kuhn (Aragona, 2006).

A monte di molte critiche c’è la domanda filosofica menzionata in apertura: che cosa fa sì che una certa condizione sia inclusa oppure esclusa dal novero dei disturbi mentali? A quale procedura o criterio si affida la garanzia che la nosologia contenga (idealmente) tutti e soli i disturbi mentali? Le psicopatologie, come gli angeli, non sono enti-tà osservabili – almeno data la nostra attuale posizione epistemica – e quindi i concetti dei disturbi mentali non possono che essere in qual-che misura teorici. Cominciamo col notare un caveat contenuto nel dsm-5 stesso, nel capitolo Uso del manuale. Si dichiara che non tutte le psicopatologie sono caratterizzate, non c’è pretesa di esaustività:

la gamma di interazioni genetico/ambientali che, nel corso dello sviluppo umano, interessano le funzioni cognitive, emotive e comportamentali è vir-tualmente illimitata. Di conseguenza, è impossibile racchiudere l’intera gam-ma di psicopatologie all’interno delle categorie diagnostiche attualmente in uso (apa, 2013, trad. it. p. 22).

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3. il problema della classificazione dei disturbi mentali

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Dunque, non possiamo avere una classificazione che comprenda tutti i disturbi mentali; possiamo ancora chiederci cosa fa sì che nel dsm ci siano solo quelli, cioè situazioni che ha senso chiamare “malattie”. Qual è la teoria che informa la discriminazione dei disturbi dalle altre condi-zioni, e quali sono i suoi principi?

Allo stato attuale, e idealmente, la definizione generale di distur-bo mentale dovrebbe essere quella riportata sopra, nel paragrafo 2.1.3. Questa caratterizzazione – leggermente differente: con un’enfasi sulla componente valoriale del danno – è stata introdotta nel dsm-iii e ha permesso l’esclusione dell’omosessualità dalle condizioni patologiche del manuale nel 1973. Come scriveva Robert Spitzer, principale teorico del nuovo dsm e a capo del comitato per la definizione,

il comitato ha considerato le caratteristiche dei vari disturbi mentali e ha con-cluso che, a eccezione dell’omosessualità e forse delle altre cosiddette devia-zioni sessuali, tutti causano regolarmente disagio soggettivo o sono associati a impedimento generico nell’efficacia di funzionamento (Spitzer, 1981, p. 211).

Oggi, tuttavia, questa definizione non sembra avere un ruolo centrale nei cambiamenti della nosologia psichiatrica, in parte perché richie-dere l’accertata presenza di una disfunzione specifica per la maggior parte dei disturbi sarebbe un requisito troppo difficile da soddisfare, in parte per l’ambiguità e indeterminatezza delle componenti concet-tuali della definizione stessa, cioè disfunzione e danno (cfr. Amoretti, Lalumera, 2018; 2019; Lalumera, 2018).

L’inclusione di una nuova condizione tra i disturbi è al momento un processo di costruzione dell’evidenza che mette in gioco ragioni di varo tipo, sia epistemico che sociopragmatico. Consideriamo l’e-sempio del disturbo da accumulo o disposofobia, introdotto appunto nell’ultima versione del manuale nel capitolo Disturbo ossessivo-com-pulsivo e disturbi correlati, dopo circa una decina d’anni di dibattito e ricerche specifiche (Mataix-Cols et al., 2010). La sua caratteristica essenziale, indicata come criterio A per la diagnosi, è la persistente dif-ficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale o affettivo, con conseguente ingombro degli spazi vitali e possibile disagio arrecato a sé o agli altri (apa, 2013, trad. it. p. 289). Tipicamente gli accumulatori compulsivi si riducono a vivere som-mersi dai propri oggetti in casa, in situazioni igieniche e di sicurezza precarie. Nel dsm-iv-tr (apa, 2000) tale condizione aveva due collo-

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cazioni nosologiche: era indicata tra i sintomi del disturbo di persona-lità ossessivo-compulsiva (Obsessive-Compulsive Personality Disorder, ocpd), ed era inclusa nelle note per la diagnosi differenziale del distur-bo ossessivo-compulsivo (Obsessive-Compulsive Disorder, ocd), con una specificazione di grado alto di gravità, ma non identificava un’en-tità diagnostica indipendente. La prima ragione per la creazione di un nuovo disturbo viene dagli studi epidemiologici e clinici e dalle loro metanalisi. Sia tra la popolazione clinica che subclinica è stata identi-ficata una classe di persone con tendenza all’accumulo e all’ingombro delle proprie case, ma prive degli altri tipici sintomi del ocd, come per esempio l’ansia, la ruminazione di alcuni pensieri, l’esecuzione di rituali a scopo rassicurante, la sensazione di “intrusione di contenu-ti” nel proprio flusso di coscienza. Queste persone, senza un costrutto diagnostico appropriato, risultavano falsi negativi per ocd, e quindi non ricevevano adeguato trattamento. In un articolo ormai classico, Frost e Hartl (1996) hanno quindi proposto una caratterizzazione ope-razionale del fenotipo, nello stile dei criteri diagnostici del dsm, che ha orientato le ricerche successive.

Parallelamente è emerso che la tendenza all’accumulo compulsivo è scarsamente correlata con le caratteristiche centrali della personali-tà ossessivo-compulsiva, come il perfezionismo e l’intransigenza, e comunque non più che con gli altri disturbi di personalità, e che in generale il costrutto diagnostico ocpd risulta poco applicabile nella popolazione, e il disturbo scarsamente prevalente, se vi si include il sintomo dell’accumulo: con questo è tramontata l’ipotesi di lasciare i sintomi di accumulo tra i disturbi di personalità (Saskena et al., 2007).

A questo punto occorreva dare una base organica al nuovo costrut-to diagnostico indipendente, e qui hanno avuto un peso le ricerche sui processi psicologici e biologici correlati all’accumulo compulsivo. Dalla fine degli anni Novanta molti studi hanno mostrato, sia a livel-lo cognitivo che neuropsicologico, che gli accumulatori hanno defi-cit nei compiti di categorizzazione e di decision-making, quindi nella scelta degli oggetti da tenere o eliminare, nonché nella memoria e nel controllo delle emozioni – caratteristiche queste che si riscontrano in misura molto minore nella popolazione con diagnosi di ocd senza tendenza all’accumulo (Hough et al., 2016; Mackin et al., 2016).

Rachel Cooper, nel suo lavoro di analisi critica del dsm-5, riporta anche altre tre ragioni, non epistemiche, per la creazione della nuova entità nosologica del disturbo da accumulo. Una è il ruolo dei gruppi

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3. il problema della classificazione dei disturbi mentali

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di pazienti accumulatori e delle loro famiglie, molto attivi negli Stati Uniti anche a livello di fund-raising, che sono stati in grado di sensibi-lizzare l’opinione pubblica e in parte la comunità scientifica renden-do visibile e nota questa condizione, finché non era più possibile non considerarla come un disturbo. La seconda ragione ha a che fare con le caratteristiche esteriori del fenotipo dell’accumulatore: la condizio-ne di chi vive in una casa stracolma di oggetti inutili ammassati fino a ostruire porte e finestre è riconoscibile e suscita un misto di attrazione e disgusto, tanto da essere diventata argomento di diversi programmi televisivi di intrattenimento, tra cui due serie tv inglesi. La terza ragio-ne è l’interesse delle case farmaceutiche, che con il costrutto diagnosti-co indipendente del disturbo da accumulo possono pianificare ricerca e commercializzazione di farmaci specifici (Cooper, 2014, pp. 31-5).

Secondo Cooper, comunque, le ragioni sia epistemiche che non epistemiche non sarebbero sufficienti per sostenere la scelta di fare dell’accumulo compulsivo un disturbo mentale: secondo la filosofa si tratta di una condizione socialmente indesiderabile e potenzialmente pericolosa, ma non una malattia, cioè uno stato da medicalizzare. C’è una linea di confine arbitraria, argomenta Cooper, tra collezionismo e accumulo, e il valore degli oggetti è altamente soggettivo; inoltre, l’in-fluenza dell’ambiente in cui gli accumulatori si trovano (mondo occi-dentale relativamente ricco, frequente contesto di isolamento sociale) sarebbe preponderante rispetto alla base biologica, che potrebbe essere vista come semplice variante di alcuni parametri tipici relativi a cogni-zione, memoria, capacità decisionale. Inoltre, dato che spesso gli accu-mulatori compulsivi mancano di insight, e quindi non percepiscono sé stessi come portatori di un disagio, l’inserire la loro condizione nella nosologia potrebbe portare a casi di trattamento coercitivo. La con-clusione di Cooper è che la condizione degli accumulatori compulsivi sia una “cattiva abitudine” (bad habit), che il dsm-5 ha indebitamente inserito nella competenza medico-psichiatrica (ivi, p. 39).

A conclusione della discussione di questo caso, c’è da dire che gli stessi sostenitori del disturbo da accumulo come entità nosologica in-dipendente hanno mostrato consapevolezza di un delicato equilibrio fra pro e contro (Mataix-Cols et al., 2010). In effetti una ricerca an-che non sistematica sui database scientifici mostra che dal 2013 a oggi gli studi su questa condizione sono aumentati, e questo non può che andare a vantaggio dei pazienti stessi. Quanto al problema della medi-calizzazione, si può rispondere a Cooper che è e deve essere possibile

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negoziare forme accettabili di comunicazione e consenso partecipato anche con chi riceve una diagnosi psichiatrica, e che i trattamenti sani-tari obbligatori sono molto rari e legalmente complessi in molti paesi. La riflessione di Cooper è tuttavia illuminante per mostrare come, in mancanza di evidenza conclusiva sull’eziogenesi e patogenesi di una certa condizione svantaggiosa, l’intreccio tra ragioni scientifico-epi-stemiche e socioeconomiche sia rilevante.

3.2 Sulla possibile scomparsa di Narciso

Esiste il disturbo narcisistico di personalità e deve essere incluso nella classificazione delle patologie mentali? Il disturbo narcisistico di per-sonalità nella versione odierna del dsm-5 (o npd, Narcissistic Personal-ity Disorder, o narcisismo clinico) è un costrutto criteriale politetico, cioè la diagnosi si applica senza gradazione se la persona presenta cin-que su nove sintomi: sopravvalutazione della propria importanza e ta-lenti, fantasie di successo e grandiosità, desiderio di affiliazione con individui o istituzioni socialmente elevate, autolegittimazione delle proprie aspirazioni, mancanza di empatia, arroganza, invidia, tenden-za alla manipolazione e bisogno eccessivo di ammirazione (apa, 2013, pp. 669-72). Il narcisismo clinico così definito si differenzia da un lato dal concetto di matrice psicoanalitica freudiana, sviluppato princi-palmente, e con connotazioni differenti, da Kohut (1968), Kernberg (1970) e Winnicott (1965), rispetto al quale perde, oltre all’eziologia, tutti i sintomi che fanno capo alla vulnerabilità: fluttuazione dell’au-tostima, comorbilità con la depressione, tendenza al suicidio e paura. Entrambi questi costrutti – il narcisismo grandioso e quello vulnera-bile – si differenziano poi dal narcisismo in psicologia sociale, che non è un costrutto categoriale, bensì un tratto di personalità misurabile, che ammette gradazioni, e può essere associato a migliore autostima, efficacia negli obiettivi, successo nel lavoro e nelle relazioni (Raskin, Hall, 1979). Nella cultura generale c’è poi una concezione comune di narcisismo che si usa frequentemente in folk psychology e folk sociology, per cui si dice per esempio che viviamo nell’era del narcisismo (Twen-ge, Campbell, 2009).

Nonostante queste radici ramificate e il radicamento nella cultura generale, durante il lungo processo di realizzazione del dsm-5, a partire

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dal 2009 e per alcuni mesi, NPD venne eliminato come costrutto dia-gnostico indipendente. In una versione pubblicata online dal gruppo di lavoro sui disturbi di personalità del dsm (Personality and Personal-ity Disorders Working Group), e in particolare realizzata dal suo chair Andrew Skodol, tra i disturbi di personalità venivano elencati quelli borderline, antisociale, schizotipico, evitante e ossessivo-compulsivo, caratterizzati tramite prototipi narrativi, mentre tutte le altre condi-zioni prima classificate come disturbi di personalità, compreso npd, diventavano combinazioni graduabili di tratti. Ironicamente, scrisse in quel periodo il «New York Times», il destino di Narciso sembrava proprio quello di essere ignorato (Zanor, 2010). Vediamo perché, e so-prattutto per quali ragioni (nuovamente, non solo epistemiche) tale decisione fu poi modificata.

Le ragioni per eliminare npd come categoria nosologica distinta avevano a che fare innanzitutto con la scarsa evidenza empirica dispo-nibile: anche se oggi questa situazione è cambiata, nel 2008 si trattava del disturbo meno studiato sperimentalmente, sia a livello epidemiolo-gico che clinico, neurobiologico e genetico (Stinson et al., 2008; Miller et al., 2017). Si può sostenere che l’esistenza di diversi concetti distinti di narcisismo non abbia giovato alla validazione di nessuno di essi, e abbia disperso conoscenza utile accumulata nei vari ambiti di ricerca. Come scrivevano Pincus e Lukowitsky, «non esiste uno standard sul significato del costrutto e quindi quando viene descritto clinicamente o misurato empiricamente è difficile sintetizzare le osservazioni clini-che con i risultati empirici» (Pincus e Lukowitsky, 2010, p. 422). Inol-tre, per restare in ambito clinico, i criteri del dsm tendevano e tendo-no a individuare la variante di narcisismo grandioso a scapito di quello vulnerabile: utilizzando solo i criteri del dsm si esclude della diagnosi e della ricerca la popolazione con tratti di vulnerabilità e fluttuazione dell’autostima, e non solo grandiosità, arroganza e insensibilità e di conseguenza la prevalenza del disturbo appare minore negli studi epi-demiologici rispetto a quelli clinici (Pincus, Lukowitsky, 2010; Ron-ningstam, 2011).

Un altro problema rilevato dagli studiosi della patologia era la poca validità discriminativa della diagnosi di npd così com’è delineata nel dsm (in particolare della quarta versione), intesa come il grado in cui i criteri individuano una popolazione che non è individuata da altre categorie diagnostiche. In realtà, come spiega Ronningstam (2011), ti-picamente la persona che soffre di npd arriva al terapeuta e quindi alla

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1. L’icd-11 è l’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases, lo standard per la codifica delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità, uscita nel 2018 (https://icd.who.int/en/).

diagnosi spesso non spontaneamente né gradualmente, ma a seguito di una crisi, un evento interpersonale grave oppure spinto da parenti e partner, condizioni nelle quali è frequente che si manifestino anche altre condizioni, come la depressione o l’abuso di sostanze, per cui la doppia o tripla diagnosi è quasi inevitabile.

A questi problemi del costrutto npd sono possibili alcune risposte, che furono effettivamente avanzate contro la proposta di Skodol: per esempio, che la (relativa) assenza di evidenza empirica per una cate-goria diagnostica non corrisponde all’evidenza dell’assenza di quella categoria, e che è possibile ovviare al problema dell’ambiguità concet-tuale del narcisismo introducendone due varianti (grandioso e vulne-rabile) anziché eliminandolo (ibidem).

C’è da dire poi che la scomparsa temporanea di npd dalla noso-logia nella proposta del 2009 faceva parte del tentativo di introdurre un modello dimensionale, anziché categoriale, per i disturbi di per-sonalità, tentativo più volte auspicato in contesti di ricerca a parti-re dalla pubblicazione del dsm-iii (cfr. per esempio Frances, 1982 e Livesley, 2006), e oggi inserito come alternativa nella parte terza del dsm-5, nonché nel nuovo icd-11 (Tyrer et al., 2018)1. Più in detta-glio, la proposta di Skodol prevedeva che la diagnosi delle condizioni senza prototipi, tra cui npd, avvenisse utilizzando una doppia scala graduata: da un lato il deficit di funzionamento personale e inter-personale (da 0 a 4), dall’altro la presenza di una scelta tra 6 tratti di personalità patologica, ciascuno a sua volta suddiviso in 4 sottotratti (Skodol, 2011). Le ragioni per la temporanea eliminazione di npd come costrutto diagnostico indipendente si intersecano dunque in parte, e per motivi contingenti, con quelle del modello dimensionale proposto.

A supporto del modello dimensionale c’era la spinta a eliminare l’annoso problema delle soglie diagnostiche, che sono inevitabilmen-te, in qualche misura, interruzioni artificiali di un continuum; l’o-biettivo di unificare la ricerca sulla personalità patologica con quella sulla personalità non patologica; infine il desiderio di rendere mi-nimo il ricorso alle diagnosi di disturbo non altrimenti specificato

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(la combinazione di tratti rende infatti lo strumento diagnostico più personalizzabile). Contro il modello di Skodol invece operarono una serie di fattori non evidenziali, ma pertinenti al processo di costru-zione della conoscenza in psichiatria. Come documentano Zachar, Krueger e Kendler (2016) la proposta trovò innanzitutto resistenza all’interno dello stesso Personality and Personality Disorders Working Group, in cui non tutti i pareri si sentivano rappresentati – in parti-colare, i clinici meno degli psicologi accademici. Ci furono poi criti-che esterne all’intera modalità di realizzazione del dsm-5, accusata di essere poco trasparente (Blashfield, Reynolds, 2012), che portarono all’istituzione di un Comitato di revisione scientifica, con il compi-to di stabilire i criteri per effettuare cambiamenti nella nosologia, e successivamente di valutare se il lavoro dei vari gruppi di esperti vi si attenesse. I criteri stilati dal comitato sostennero una linea cosiddetta incrementale, e non revisionista: prevedevano che tutti i cambiamen-ti delle categorie diagnostiche dovessero essere preceduti da valida-zione prima dell’uscita del dsm, o almeno sostenuti dal consenso de-gli esperti (Kendler et al., 2009). Nel caso del modello dimensionale dei disturbi di personalità che escludeva npd, tuttavia, non si trovò accordo sulla procedura di validazione, e soprattutto era evidente la mancanza di consenso. Un’ulteriore e decisiva ragione fu l’obiezio-ne di scarsa utilità clinica del nuovo modello: i cambiamenti erano troppo radicali, troppo legati all’impostazione accademica della psi-cologia sperimentale e sarebbero stati di difficile implementazione nella pratica diagnostica dei terapeuti (Gunderson, 2013; Shedler et al., 2010).

3.3 Conclusioni

Come ricordano Zachar e Kendler (2012), due dei più attivi filosofi del-la psichiatria di provenienza psichiatrica, anche l’astronomia ha avuto bisogno di una decisione basata sul consenso degli esperti per dirimere la questione dell’introduzione o esclusione di Plutone dal novero dei pianeti. A fortiori ci si può aspettare che le controversie nosologiche in psichiatria siano orientate da ragioni sia epistemiche che non epi-stemiche, da questioni di evidenza ma anche di etica e sociologia della scienza, data la presenza di vari programmi di ricerca, di metodologie e

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psicopatologia e scienze della mente

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anche di agenti differenti che si focalizzano sul problema del disturbo mentale. I due casi qui brevemente considerati, quello della disposo-fobia e quello del disturbo di personalità narcisistica hanno mostrato, assieme al ruolo dell’evidenza empirica, da un lato il peso delle ragioni etiche dei gruppi di pazienti e di quelle culturali della società allargata, dall’altro le dinamiche del consenso tra esperti. Che i disturbi mentali siano o non siano generi naturali, la loro classificazione è un processo razionale complesso che comprende norme e deviazioni dalle norme di diverso tipo.

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Perché una malattia mentale insorge? Perché segue un certo andamen-to? Il capitolo intende mettere a fuoco il tema della spiegazione del di-sturbo psichiatrico, tema che si intreccia con numerose altre questioni teoriche, di tipo metodologico e concettuale. Nelle pagine che seguo-no verranno presentati alcuni dei principali modelli teorici di spiega-zione della malattia mentale, attraverso l’analisi di riflessioni maturate nell’ambito della psichiatria e della filosofia della psichiatria.

4.1 La malattia mentale come oggetto di spiegazione

Quando ci si occupa di spiegazione, è necessario anzitutto chiarire qua-le sia esattamente l’oggetto di indagine, ovvero l’explanandum: che cosa spieghiamo? Chiarire in modo preciso qual è l’oggetto della spiegazio-ne psichiatrica costituisce un primo passo fondamentale, e problema-tico, delle pratiche esplicative, e ne misura poi inevitabilmente il grado di validità e adeguatezza. Quello che verrà fornito come il resoconto esplicativo della malattia sarà strettamente legato alla descrizione di ciò che si è inteso spiegare, e, qualora accettato dalla comunità scientifica di riferimento, avrà poi a sua volta un impatto sulla descrizione del distur-bo – e quindi, potenzialmente, sulla sua classificazione. In altri termini, si instaura tipicamente una relazione critica e iterativa tra descrizione e spiegazione, che si influenzano e modificano a vicenda in modi rilevan-ti: data la complessità delle patologie, e in molti casi la variabilità delle loro definizioni, esse si configurano come una sorta di “bersagli mobili”, a cui ci si avvicina mediante la costruzione di modelli – anche esplicati-vi – via via più robusti (cfr. Chang, 2017; Tabb, Schaffner, 2017).

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Modelli di spiegazione del disturbo mentale

di Raffaella Campaner

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psicopatologia e scienze della mente

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Come ampiamente illustrato nei capitoli 2 e 3 di questo volume, la natura, la definizione e la classificazione del disturbo mentale sono temi ampiamente dibattuti e hanno suggerito posizioni diverse. Tra le caratteristiche della malattia psichiatrica su cui vi è convergenza, e delle quali qualunque teoria della spiegazione è chiamata a tenere conto, tro-viamo il carattere multifattoriale e multilivello del disturbo, nel quale si intrecciano aspetti genetici, neurofisiologici, psicologici, socioeco-nomici ecc. La malattia mentale si configura pertanto come oggetto di indagine su sfondi disciplinari differenti (per esempio genetica psichia-trica, neuroscienze, epidemiologia psichiatrica, neuropsicologia, psi-cologia clinica ecc.), e ciò non è privo di impatti sui modelli esplicativi che emergono: la molteplicità di possibili fattori contribuenti e la rete delle loro interazioni richiedono tipicamente – e auspicabilmente – il coinvolgimento di numerosi ambiti disciplinari diversi nell’ambito delle scienze della salute mentale, e, quindi, la costruzione di modelli esplicativi sfaccettati e in grado di tenere conto di apporti eterogenei. Il dibattito sulla diversità dei fattori che concorrono all’emergere di una patologia, e che sono poi responsabili del suo andamento, si in-treccia al dibattito sulle relazioni tra i diversi livelli della realtà, o di de-scrizione della realtà, a cui tali fattori sono riconducibili. Le riflessioni quindi sull’identificazione dei fattori rilevanti saranno accompagnate da domande quali: è possibile/necessario individuare e isolare tutti i fattori rilevanti dal punto di vista esplicativo? È possibile/opportuno tracciare delle gerarchie di “potere esplicativo” rispetto a un certo feno-meno patologico? Qual è il peso relativo di – per esempio – elementi organici ed esperienze personali individuali, di mutazioni genetiche e condizioni socioeconomiche, nelle varie prospettive disciplinari e, se possibile, in resoconti esplicativi interdisciplinari?

L’individuazione di approcci che, al netto delle differenze tra i sin-goli individui colpiti dalla malattia, consentano di chiarire che cosa significhi spiegare, per esempio, depressione, schizofrenia, disturbo da stress postraumatico, non può poi non tenere conto anche degli scopi ultimi a cui può essere volto un resoconto esplicativo: perché spiego? Quali sono gli obiettivi della mia ricerca? Quanto vicina o lontana da preoccupazioni applicative  –  terapeutiche o preventive  –  è l’indagi-ne esplicativa in questione? Le diverse prospettive teoriche su questi aspetti possono avere importanti conseguenze sulla modellizzazione della malattia, la promozione di linee di ricerca, l’elaborazione di pro-gnosi e la scelta di percorsi di cura.

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Posto il ventaglio di aspetti epistemologici interconnessi che ven-gono chiamati in gioco da un’analisi degli approcci esplicativi, ciò su cui ci concentriamo in questo capitolo sono le relazioni che legano i fattori esplicativi, ritenuti responsabili della patologia, all’oggetto di spiegazione, ovvero la patologia stessa. Senza la pretesa di fornire un quadro esaustivo, cercheremo di far emergere in quanto segue i princi-pali approcci teorici in merito che hanno trovato una certa risonanza anche in rapporto alle patologie psichiatriche.

4.2 La spiegazione causale

Una porzione ampia del dibattito sulle relazioni esplicative che ha vi-sto spesso intrecciarsi negli ultimi anni le riflessioni degli psichiatri e quelle dei filosofi della scienza si è focalizzata sulla spiegazione causale, la quale può a sua volta essere declinata secondo prospettive diverse. Nei due sottoparagrafi che seguono ci interrogheremo sulla possibilità di spiegare la malattia mentale attraverso: 1) l’identificazione di mecca-nismi; 2) l’individuazione di variabili causali mediante interventi (reali o possibili).

4.2.1. il modello biomedico e i meccanismi della malattia

In concomitanza con il successo che approcci meccanicistici alla cau-salità hanno avuto in filosofia della scienza negli ultimi decenni, e in parallelo con altri tentativi di indagarne la tenuta rispetto a contesti di-sciplinari diversi, vari autori hanno sostenuto che in ambiti quali la psi-cologia e le neuroscienze spiegare equivale a identificare i meccanismi responsabili del fenomeno indagato (sull’approccio meccanicistico, cfr. per esempio Bechtel, 2008; Murphy, 2006; 2010; 2011; 2013; Cra-ver, 2007; Kaplan, Craver, 2011; Kaplan, 2017a). Sarebbe anzi proprio la capacità di esplicitare i rapporti di causalità produttiva, di carattere probabilistico, responsabili della patologia mentale a distinguere un resoconto propriamente esplicativo da uno meramente descrittivo.

Sebbene vi siano delle differenze all’interno degli approcci mecca-nicistici, è possibile in generale legare la ricerca dei meccanismi della malattia ad almeno due istanze fondamentali espresse nell’ambito del dibattito epistemologico sulla psichiatria. In primo luogo, l’in-

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1. Secondo il modello biomedico forte, «è un errore dire che una malattia è cau-sata da un processo cerebrale. Essa è un processo cerebrale, ma il processo stesso am-mette molte cause» (ivi, p. 977, corsivo aggiunto).

tento è superare una nosologia di carattere unicamente sintomatico, quale quella che emerge dalle versioni del dsm, fornendo in linea di principio un supporto più solido alle definizioni stesse delle diverse patologie, in grado di ridurne la variabilità relativa a contesti storici, sociali e culturali. In secondo luogo – e legato al primo punto – una elaborazione di resoconti che rendano espliciti meccanismi eziolo-gici e processi fisiopatologici sottesi alla patologia consentirebbe di allineare sostanzialmente lo statuto epistemologico della psichiatria a quello di altri ambiti delle scienze biomediche nei quali la varia-bilità dei casi singoli non giunge a far mettere in dubbio l’esistenza della patologia sottostante e la presenza di alcune costanti nel suo sviluppo. Secondo Murphy (2011), per esempio, la ricerca di mecca-nismi porta ad affrontare le questioni relative alla malattia mentale sulla base dell’evidenza scientifica più aggiornata, elaborando ipo-tesi causali relative a elementi di anormalità nel funzionamento di sistemi neurobiologici: «l’interpretazione forte [del modello medi-co] sostiene che le malattie mentali sono causate da specifici processi fisiopatologici nel cervello»; ed essa «è più consona a far procedere la psichiatria nella direzione della scienza consolidata e di successo» (ivi, p. 425)1.

In un approccio meccanicistico, spiegare significa elaborare un mo-dello del fenomeno in esame che espliciti le entità che lo compongono, le loro attività, interazioni e organizzazione. Questi infatti sono gli ele-menti che si ritiene producano o mantengano il comportamento del sistema in oggetto, e, se il modello è costruito correttamente, «la rete di dipendenze tra gli elementi che il modello esprime corrisponde a relazioni causali sussistenti tra le componenti del meccanismo target» (Kaplan, 2011, p. 347). Il fenomeno da spiegare viene quindi presen-tato come risultante dalle interazioni delle componenti di un sistema e dalla loro specifica organizzazione. Quello che viene fornito è un exemplar, ovvero un modello generale, una sorta di paziente ideale che rappresenta le condizioni tipiche di una certa situazione patologica. Il singolo paziente non rispecchierà mai perfettamente il modello, ma si avvicinerà a esso in una certa misura.

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Spiegare entro un approccio causale meccanicistico significa chia-rire come effettivamente le cose funzionino, e in ambito psichiatrico ciò può presentare sia interessanti opportunità sia, viceversa, aspetti problematici. Lo sguardo sulle cause può essere di tipo eziologico, vol-to a individuare i fattori scatenanti, che hanno (probabilmente) inne-scato i processi patologici e portato allo scatenarsi della malattia, o di tipo costitutivo, indirizzato a chiarire il funzionamento della malattia, ovvero a comprendere perché, una volta attivato, il meccanismo del disturbo mentale funziona in un certo modo. Entrambe le prospetti-ve chiamano in gioco una serie di ulteriori questioni rilevanti. Come accennato sopra, quando si parla di meccanismi in rapporto alla ma-lattia si fa riferimento a strutture e funzioni che si manifestano su più livelli  –  per esempio genetico-molecolare, biochimico, psicologico, economico-sociale. Le entità che interagiscono in uno stesso mecca-nismo possono appartenere a diversi livelli descrittivi, e la definizio-ne dei confini stessi del meccanismo in oggetto dipenderà da quanti e quali livelli si intende considerare. Compito cruciale di un approccio esplicativo di tipo meccanicistico è comprendere non solo quali siano i fattori coinvolti attivamente in una situazione patologica, ma anche come di fatto questi fattori agiscano, e, pertanto, stabilire quali siano i reciproci rapporti fra livelli (Marraffa, Paternoster, 2011), chiarendo, per esempio, se le variabili cosiddette di basso e di alto livello, quel-le descritte in termini neurobiologici e quelle in termini psicologici, economici, sociali, presentino un potere causale autonomo le une ri-spetto alle altre.

I rapporti tra i livelli in cui si articola un meccanismo sono uno dei temi più problematici affrontati dagli approcci meccanicistici con-temporanei, e senz’altro tra quelli rilevanti quando ci si occupa di ma-lattia mentale. Da un lato, sono fiorenti gli studi che riconducono un comportamento patologico a varie forme di compromissione di mec-canismi neurofisiologici sottostanti; dall’altro lato, nel caso di molti disturbi sono, per esempio, esperienze esterne particolarmente forti e violente a risultare in grado di esercitare un potere di modifica su strutture neurologiche sottostanti. La trattazione stessa delle patolo-gie come sistemi complessi multilivello può essere interpretata in senso epistemico – assumendo i livelli come strumenti descrittivi – oppure in senso ontico – considerando i livelli e le entità che li definiscono come componenti oggettive della realtà. In generale, la problematicità dei rapporti tra i livelli e le modalità effettive di interazione tra le diver-

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se variabili coinvolte in una malattia sono legate alla concezione stes-sa della malattia che si abbraccia, nonché alle terapie che si scelgono. Un approccio filosofico che ha riscosso un certo consenso, proposto da Craver e Bechtel (2007), vede, per esempio, le relazioni autentica-mente causali come possibili soltanto nell’ambito dello stesso livello: mentre la causalità viene ritenuta una relazione intralivello, quelle in-terlivello sono definite come relazioni costitutive, e, in quanto tali, non coinvolte in processi né produttivi né estesi temporalmente. In questa prospettiva, si ritiene allora possibile individuare rapporti di intera-zione autentica tra entità neurologiche, o tra fattori sociali, e, insieme, sostenere che il livello che viene descritto come superiore è in ultima analisi costituito dai livelli inferiori.

Un ulteriore aspetto fondamentale di un approccio meccanicistico concerne la nozione di organizzazione: il funzionamento del sistema è tale in virtù della particolare organizzazione delle parti coinvolte, ovvero delle specifiche attività che svolgono, dei modi in cui il lavo-ro produttivo è suddiviso tra le parti, e delle mutue interazioni tra i diversi compiti svolti dalle parti. Comprendere come un meccanismo funziona significa comprenderne l’organizzazione interna. A questo scopo, spesso vengono suggerite in letteratura strategie epistemiche che consentano di scomporre il sistema e di localizzarne parti e fun-zioni. Posto che, al termine dell’indagine, si potrà capire come il si-stema funziona solo ricomponendo epistemologicamente ciò che si è scomposto, studiare il sistema isolandone alcune attività e componenti risulta efficace per raccogliere informazioni rilevanti, nonché per ri-durre progressivamente il numero dei resoconti meccanicistici com-patibili con l’evidenza empirica disponibile. In rapporto alle patologie psichiatriche la localizzazione e la scomposizione teoriche devono es-sere praticate con particolare cautela. Nei disturbi mentali – ma non solo – il grado di integrazione nel comportamento del sistema è tale da rendere in molti casi difficile, se non impossibile, localizzare l’attività o il circuito cerebrale che si ritengono causalmente coinvolti. Gli aspetti problematici della localizzazione e della scomposizione si presentano, ovviamente, a maggior ragione qualora si vogliano considerare come componenti causali rilevanti attività di livello superiore (per esempio situazioni sociali, personali o lavorative difficili) e/o si esaminino di-sturbi nei quali risultano svolgere un ruolo importante fenomeni quali la riserva cognitiva e la resilienza psichiatrica, in cui il sistema è coin-volto nel suo insieme.

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Se quindi la possibilità di elaborare spiegazioni meccanicistiche apre anche alla possibilità di fornire un supporto sempre più rigoroso delle scienze della salute mentale e di giungere, tra l’altro, all’identificazione di meccanismi transdiagnostici, come debba essere isolato il sistema da analizzare e quali siano i suoi confini, a quale livello lo si debba inda-gare, e quanto si riesca davvero a comprendere (almeno a oggi) della sua organizzazione restano aspetti controversi (tra le posizioni critiche, cfr. Campbell, 2013). L’individuazione dei meccanismi della malattia, anche dove possibile, non risulta, inoltre, di per sé sempre sufficiente a stabilire percorsi di cura. Un ulteriore approccio, quello fondato sulla causalità manipolativa, sostiene che essa non sia neppure necessaria.

4.2.2. (poter) intervenire per spiegare

La spiegazione meccanicistica richiede che venga chiarito come i fat-tori causali agiscono – e interagiscono – all’interno di un sistema, per produrne il comportamento complessivo. Le relazioni causali possono essere però concepite anche in altri modi. Tra gli approcci che hanno incontrato consenso anche in ambito psichiatrico si trova quello co-siddetto interventionist, secondo il quale la nozione-chiave per chiarire i nessi causali è quella di “invarianza nel caso di intervento”: siamo in presenza di una relazione causale tra due variabili X e Y nel caso in cui qualora si verifichi una modifica di X a seguito di un intervento, an-che Y risulti modificato, e la relazione tra X e Y rimanga invariata. Se, seguendo la posizione di Woodward (2003), decliniamo la causalità legandola all’intervento, saranno la sperimentazione – effettiva o sola-mente ipotetica – e la possibilità di controllare la comparsa e l’evolversi della malattia a giocare un ruolo importante nell’identificazione dei le-gami esplicativi. In questa prospettiva, “manipolativo-controfattuale”, spiegare equivale a chiarire what-if-things-had-been-different, ovvero a individuare i fattori in assenza dei quali quello che viene considerato l’effetto non si sarebbe verificato, o si sarebbe verificato con caratteri-stiche differenti. Gli interventi, in altri termini, identificano relazioni sistematiche tra variabili causali e loro effetti, relazioni in virtù delle quali le prime possono essere identificate come variabili di controllo del fenomeno analizzato.

Vari autori, quali Kenneth Kendler e John Campbell (cfr. per esem-pio Kendler, 2008; Kendler, Campbell, 2009) hanno declinato questo approccio alla spiegazione in riferimento allo studio di mente e cervel-

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2. La prospettiva interventionist si dichiara in grado di cogliere rapporti di cau-salità interlivello: «eventi ambientali di livello piuttosto alto (quali il nutrimento ricevuto mentre si è nel grembo materno) possono influenzare pattern di espressione genetica, di livello inferiore, i quali, a loro volta, possono influenzare processi neurali (per esempio un aumento di attività nell’amigdala), i quali alterano poi pattern men-tali o comportamentali a livello macroscopico (come una condizione di paura o di depressione)» (Woodward, 2008a, p. 147).

lo, e Woodward stesso ha chiamato in gioco nei suoi lavori discipline rilevanti per lo studio della patologia mentale, quali la psichiatria (cfr. per esempio Woodward, 2008a; 2008b), la neurologia e la neurobiolo-gia (Woodward, 2017). Tra i vantaggi che un approccio di tipo manipo-lativo può avere nell’affrontare le malattie mentali viene indicata la sua capacità di non privilegiare alcuni specifici livelli esplicativi rispetto ad altri, superando così forme di dualismo mente-cervello, o di riduzioni-smo (biologico o psicologico). L’approccio interventionist non pone infatti restrizioni sul tipo di variabili che possono figurare quali cause di un fenomeno, né richiede necessariamente di specificarne la natu-ra, e ciò viene valutato come un importante vantaggio teorico: purché legate da rapporti di invarianza nel caso di intervento, i relata causali possono essere di molteplici tipi2, a seconda dei contesti di indagine e degli scopi della spiegazione. In un ambito come quello psichiatrico, in cui spesso il funzionamento esatto della malattia resta – almeno in par-te – ancora ignoto, questa prospettiva consente di elaborare resoconti esplicativi adeguati, particolarmente fertili in senso terapeutico e, dove possibile, preventivo, senza richiedere quelli che Kendler (2005) giu-dica inutili impegni ontologici. Ragionare in termini interventionist a suo avviso permette di tenere conto di tutti i fattori causali, nonché di promuovere forme di integrazione tra diversi resoconti esplicativi.

Ricorrere alla nozione di intervento (reale o ipotetico) comporta riconoscere come esplicativi i fattori in assenza dei quali le cose sareb-bero andate diversamente, senza che sia necessario chiarire anche come tali fattori abbiano prodotto l’effetto – e, al tempo stesso, senza esclu-dere la rilevanza esplicativa anche di informazioni di quest’ultimo tipo. Sarà pertanto possibile riconoscere povertà e disoccupazione come fattori causali rispetto all’insorgere di una patologia senza esplicitare il “meccanismo” attraverso il quale esse agiscono sul paziente. Il fatto di non richiedere un impegno ontologico specifico, e di non privile-giare un livello rispetto a un altro, non significa comunque, in questa

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prospettiva, riconoscere tutti gli elementi esplicativi come ugualmen-te importanti. Un ruolo significativo viene riconosciuto al contesto. Per esempio, «sebbene l’umiliazione sia in ultima analisi espressa nel cervello, questo non significa che il livello neurobiologico sia il livello al quale è più efficiente osservare l’umiliazione» (ivi, p. 436). Sarà il contesto a guidarci. Al tempo stesso, non bisognerà scordare che una molteplicità di livelli è coinvolta contemporaneamente, e sarà impor-tante stabilire per quali patologie e condizioni possano essere effettuati interventi che impattino unicamente sul nesso causale su cui ci si sta focalizzando. I risultati esplicativi consentiranno anche di modulare di conseguenza gli interventi terapeutici. Le generalizzazioni causali, inoltre, possono avere un maggiore o minore spettro di applicabilità, ed essere più o meno stabili, ovvero si possono mantenere invarianti nel caso di una gamma più o meno ampia di possibili interventi. Com-promessi tra gradi di applicabilità e di stabilità verranno stabiliti a se-conda delle caratteristiche del caso particolare in esame.

A fronte dei suoi meriti, anche l’approccio manipolativo-controfat-tuale presenta alcuni aspetti critici. Come è noto, in ambito psichiatri-co, le possibilità di sperimentazione, o anche di intervenire in un senso più ampio, incontrano varie difficoltà, di carattere teorico, etico e pra-tico. Ricondurre l’individuazione di legami esplicativi a ipotetiche si-tuazioni sperimentali, nelle quali si ragiona sulle possibili conseguenze delle opportune manipolazioni che si potrebbero compiere, presuppone molti elementi. Tra l’altro, dovremmo avere una chiara valutazione di quelli che possono essere gli interventi adeguati (vs quelli non adegua-ti), dovremmo avere già formulato una serie di ipotesi causali relative alle variabili sulle quali è opportuno (ipoteticamente) interferire, e do-vremmo assumere la modularità di alcune relazioni sulle quali agire per testarne la portata esplicativa. Se, pertanto, è facile riconoscere l’utilità di questo approccio a scopi preventivi e terapeutici, la sua totale auto-nomia in senso propriamente esplicativo è controversa.

4.3 Funzioni e disfunzioni

Quella causale non è certo l’unica via alla spiegazione scientifica del-la malattia mentale. Il concetto di funzione svolge un ruolo impor-tante in vari approcci, sia alla concettualizzazione della malattia che

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alla sua spiegazione. Limitandoci a richiamare alcune delle definizioni che hanno incontrato successo nella letteratura filosofica, ricordiamo come secondo Wakefield un disturbo sia una disfunzione dannosa, dove «“disfunzione” è un termine scientifico che fa riferimento alla mancata esecuzione da parte di un meccanismo mentale di una fun-zione naturale alla quale è stato preposto dall’evoluzione» (Wakefield, 1992a, p. 373), mentre per Murphy – già ricordato sopra – le malattie mentali «sono processi distruttivi che hanno luogo in sistemi biolo-gici» (Murphy, 2009, p. 103), provocando così una qualche disfun-zione. Ancora più recentemente, Saborido e colleghi (2016) hanno proposto una nozione di normatività biologica interpretata come una caratteristica inerente i sistemi biologici, come possibile fondamento di una naturalizzazione della malattia. A questo fine, viene proposto un approccio teorico al concetto di “malfunzionamento” che si basa sui meccanismi adattativi dei sistemi viventi e spiega i modi in cui un tratto biologico è “mal funzionante”, o disfunzionale, nei termini non solo della attuale organizzazione del sistema ma anche della sua capaci-tà di riorganizzarsi, e, così, preservare il funzionamento in caso di per-turbazioni. Sebbene si tratti di posizioni diverse, queste caratterizzano il disturbo mentale come “disfunzionale”, ovvero si riferiscono a una serie di tratti che contribuiscono in modo essenziale all’automanteni-mento di un sistema, e definiscono il patologico come distruttivo di un qualche comportamento organizzato standard, ritenuto tipico di una condizione di salute. La malattia si impone come mancato esple-tamento di una o più funzioni, con ripercussioni sul comportamento complessivo della persona.

Se ci concentriamo sulla spiegazione funzionale, questa procede all’analisi di una certa capacità cognitiva nei termini di un insieme op-portuno di operazioni compiute da una certa architettura cognitiva. Svolgere tali operazioni «è una funzione dell’architettura cognitiva, e lo svolgimento di questa funzione spiega la capacità cognitiva» (Ma-ley, Piccinini, 2017, p. 236). Secondo alcune delle posizioni funzionali-ste più accreditate (cfr. per esempio Cummins, 1983; Roth, Cummins, 2017), l’indagine funzionale procede inoltre attraverso la scomposizio-ne di una certa capacità del sistema in oggetto in una serie di sotto-capacità e l’esame di come queste siano organizzate per garantire il comportamento del sistema stesso.

Gli approcci funzionali chiamano in gioco, tra l’altro, l’evolver-si dei complessi rapporti tra psicologia, scienze cognitive e neuro-

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scienze  –  rapporti sui quali proprio i rispettivi modelli di spiega-zione possono aiutare a gettar luce. In particolare, il dibattito sulla possibilità di riconoscere alla spiegazione funzionale un ruolo espli-cativo peculiare e autonomo include punti di vista diversi. Secon-do Piccinini e Craver (2011), la spiegazione funzionale fornisce, in ultima analisi, abbozzi di meccanismi. L’aggiunta di ulteriori detta-gli, a seguito dei progressi della conoscenza scientifica, gradualmen-te completerà le spiegazioni funzionali e le transiterà verso quelle meccanicistiche. Concepire le analisi funzionali come abbozzi di meccanismi viene visto, in questo approccio, come preludio alla costruzione di una scienza unificata della cognizione, perseguita at-traverso l’integrazione di psicologia e neuroscienze. In un approccio puramente funzionale, invece, si riterrà che siano l’organizzazione funzionale in sé e l’esecuzione di processi cognitivi a essere espli-cative, indipendentemente da come questi vengono implementa-ti da meccanismi neurali sottesi. In altri termini, alle spiegazioni funzionali viene riconosciuta la capacità di rendere conto delle ca-pacità cognitive anche in assenza di conoscenza relativa ai dettagli materiali. «La correlazione tra forma e funzione» – osserva per esempio Cummins (1983, p. 29)  –  «è certamente assente in molti casi, ed è perciò importante tenere l’analisi funzionale e l’analisi [meccanicistica] delle componenti concettualmente distinte». Su queste basi è possibile difendere, per esempio, l’autonomia della spiegazione funzionale in psicologia.

Se funzioni e meccanismi non sono certo concettualmente incom-patibili come fondamento di resoconti esplicativi, posizioni diverse in merito alla necessità o meno di esplicitare i dettagli della realizzazione del sistema che svolge – o che manca di svolgere – una certa funzione faranno propendere per concezioni diverse dei processi esplicativi, e segneranno rapporti diversi anche tra diverse discipline che si occupa-no di salute mentale.

4.4 La spiegazione computazionale

Se il dibattito teorico sulla spiegazione scientifica ha largamente messo al centro negli ultimi decenni la spiegazione causale, nelle sue varie ver-sioni, uno spazio crescente è stato recentemente occupato da posizioni

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volte a evidenziare il ruolo, invece, di resoconti non causali nell’am-bito delle scienze empiriche. In questo spirito, numerose sono oggi le riflessioni filosofiche volte a chiarire in che senso, ed eventualmente con quali limiti, quelle matematiche possano figurare come autenti-che spiegazioni di fenomeni naturali (per una panoramica di proposte filosofiche volte a rivalutare la spiegazione non causale, cfr. Reutlin-ger, Saatsi, 2018). Indichiamo in questo paragrafo due accezioni in cui approcci che chiamano in gioco strumenti computazionali si possono intrecciare attualmente con riflessioni rilevanti per lo studio della sa-lute mentale.

Per quanto concerne gli approcci scientifici alle patologie, l’ado-zione di strumenti matematici e statistici svolge un ruolo cruciale, in particolare, nell’ambito della cosiddetta “psichiatria computa-zionale” (cfr. per esempio Huys et al., 2011; 2016), il cui sviluppo è fortemente stimolato dall’avanzamento delle conoscenze soprattutto nell’ambito delle neuroscienze e, insieme, dalla costruzione di data-base, di ricerca e clinici, largamente condivisi. Si tratta di un ambito di studi che coinvolge vari ambiti disciplinari (neuroscienze, neu-roimaging, psicologia cognitiva ecc.), include l’utilizzo di approcci diversi (per esempio tecniche statistiche, machine learning ecc.) e, con l’ambizione di fornire utili supporti soprattutto nello studio dei circuiti neurobiologici coinvolti nel disturbo psichiatrico, si propone di fornire forme di integrazione di risultati sperimentali, analisi dei dati e costrutti teorici. Tali nuove forme di integrazione, persegui-te per esempio tramite modellizzazione matematica e algoritmi di clusterizzazione, vengono rese necessarie non solo dall’esigenza – già sottolineata sopra, in quanto trasversale ai vari approcci alla salute mentale – di coniugare diversi livelli di indagine (cellule, molecole, circuiti cerebrali, comportamento complessivo dell’individuo), ma dall’enorme mole di dati oggi disponibili. Alla modellizzazione ma-tematica viene assegnato il compito di fornire analisi a molteplici scale di indagine, capaci poi di mettere in relazione elementi mal funzionanti all’interno del sistema con le loro conseguenze dinami-che. La possibilità di costruire modelli matematici delle strutture e delle funzioni neurali è spesso accompagnata dalla convinzione che tali caratterizzazioni formali possano altresì chiarire le anomalie trat-tate in neurologia e psichiatria. «Idealmente, i modelli matematici forniscono il legame tra aspetti anatomici e fisiologici, chiarendo come le relazioni di connessione, insieme alle caratteristiche degli

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3. Le ambizioni esplicative della psichiatria computazionale sono legate ai suoi possibili risvolti clinici: «incorporando la modellizzazione compiuta nelle neuro-scienze computazionali in programmi di ricerca nelle neuroscienze traslazionali, sarà possibile sviluppare ipotesi più specifiche in merito alle disfunzioni dei circuiti neu-rali in atto in sistemi modello e in patologie psichiatriche» (Wang, Krystal, 2014, p. 639), tipicamente in una prospettiva transdiagnostica.

elementi neurali a cui sono associate, portino alle dinamiche che vengono osservate» (Dayan et al., 2015, p. 129)3.

Apporti diversi, ma nei quali risuona il medesimo interesse per possibilità di formalizzazione delle relazioni rilevanti, provengono dalla filosofia della scienza, con lavori intesi a mettere in discussione il primato dell’analisi meccanicistica di processi cerebrali. Riflessioni sui contributi di approcci computazionali alle neuroscienze, con un’at-tenzione prevalente per la ricerca scientifica sottolineano, a loro volta, come rappresentazioni formali di carattere matematico consentano di cogliere le condizioni di realizzazione di processi cerebrali e i loro vin-coli organici (per una posizione critica in merito, cfr. per esempio Ka-plan, 2017a). L’idea infatti è quella di impiegare forme di spiegazione non-meccanicistica per poter rendere adeguatamente conto della com-putazione neurale standard, che si basa su un ventaglio di meccanismi e circuiti neurali diversi. Ricerche concernenti l’ambito della compu-tazione neurale non richiedono di poggiare su una comprensione degli elementi biofisici sottesi al fenomeno in esame, e il carattere distintivo della tesi computazionale consiste proprio nel ritenere che ci siano ra-gioni di principio per analizzare i sistemi neurali in termini computa-zionali piuttosto che meccanistici. L’explanans è un algoritmo, e non un processo causale osservabile, e la relazione che si dichiara esista tra l’explanans e l’explanandum è una relazione di implementazione: il sistema neurale implementa uno specifico codice o una strategia di co-dificazione, e i dati fisiologici forniscono evidenza di tale implementa-zione. «La ragione per la quale il sistema neurale ha una certa proprie-tà è che esso è l’implementazione del sistema di codificazione che si è mostrato in teoria avere tale proprietà. Abbiamo così una spiegazione del perché il tessuto nervoso ha la proprietà in questione» (Chiri-muuta, 2018, pp. 166 e 168; cfr. anche Chirimuuta, 2014). In questa prospettiva, l’informazione veicolata da una certa attività neurale può essere decifrata attraverso rappresentazioni matematiche, e manipolata prescindendo dalle sue specifiche caratteristiche biologiche.

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4. I punti di vista in merito sono vari. Per esempio: «Nella peggiore delle ipotesi, i modelli computazionali rigurgitano incomprensibilmente fatti noti. A volte sono uno strumento statistico utile che consente di testare in modo rigoroso ipotesi complesse. Nel migliore dei casi, consentono di convogliare fatti apparentemente discordanti in una nuova cornice armonica, fornendo ispirazione a clinici e ricercatori» (Huys et al., 2016, p. 549).

L’apporto conoscitivo della psichiatria computazionale, e, più in generale, degli approcci computazionali entro le scienze empiriche, è oggetto di dibattito. Piccinini e Bahar (2013), per esempio, ritengono che, in quanto astraggono dai dettagli dell’implementazione materiale dei processi cerebrali, gli approcci computazionali non risultino adatti allo sviluppo di strategie farmaceutiche, mentre possono svolgere un ruolo nella costruzione di sistemi prostetici volti a sostituire zone di tessuto neurale danneggiato. Si tratterebbe, allora, di prospettive più utili dal punto di vista della predizione e del controllo che della spie-gazione vera e propria. È inoltre necessario approfondire in che senso la presenza di un vincolo, per esempio neurofisiologico, svolga un ruo-lo esplicativo, e, soprattutto, quali siano i criteri attraverso i quali di-stinguere tra vincoli che sono rilevanti dal punto di vista esplicativo e quelli che non lo sono. Più in generale, sostenere il potere esplicativo di modelli computazionali significa assumere altresì che le rappresen-tazioni matematiche valgano non come strumenti generici elaborati per facilitare la costruzione di conoscenza, bensì come strumenti in grado di cogliere autentiche strutture che caratterizzano i fenomeni in oggetto. Si tratta di stabilire se il ricorso a strumenti computazionali ci consenta di elaborare modelli dotati di buon potere predittivo, de-scrittivo, e, dato il nostro interesse in questo contesto, autenticamente esplicativo, o se garantiscano solo una migliore trattabilità della mole di dati disponibili, ed eventualmente l’individuazione della base neu-robiologica di una data categoria diagnostica4.

4.5 Il ruolo dell’esperienza nella spiegazione della malattia

Quale ruolo può svolgere l’esperienza stessa della malattia nell’elabo-razione di resoconti esplicativi? Se le posizioni ricordate sopra fanno riferimento ad apporti scientifici che attingono alle scienze empiriche

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5. Si pensi, per fare solo un esempio, al ruolo di eventi drammatici nell’insorgere del disturbo da stress postraumatico.

6. Il riferimento di Ratcliffe è ad autori quali Husserl e Merleau-Ponty. In merito all’utilizzo di categorie fenomenologiche ai fini della comprensione della patologia psichiatrica, cfr. per esempio Stanghellini (2004); Fuchs (2005); Gallagher (2005); Parnas, Zahavi (2002); Sass et al. (2011).

e che vengono oggettivati, posizioni diverse mettono in primo piano fattori che appartengono alla sfera strettamente personale. Questi pos-sono ovviamente valere sia come cause5, coinvolte nelle dinamiche di analisi scientifica cui ai paragrafi 4.3 e 4.4, sia essere valutati nell’ambi-to di prospettive che non facciano direttamente riferimento a metodo-logie osservative e/o sperimentali proprie delle scienze empiriche. C’è qualcosa di peculiare nel disturbo mentale che richiede anche l’ado-zione di prospettive esplicative particolari, diverse da quelle scelte, per esempio, nell’indagine dei fenomeni naturali?

La presa in carico di aspetti esperienziali – definiti a seconda dei casi come personali, psicologici, soggettivi ecc. – corrisponde a un fon-damentale scetticismo rispetto alla possibilità di esplicare la patologia psichiatrica in termini interamente subpersonali, senza residui. In altri termini, e semplificando molto rispetto alla vastissima letteratura in merito, a esperienze vissute in prima persona, quali traumi, delusioni, frustrazioni, disagio ecc., viene riconosciuto un autentico potere espli-cativo, un ruolo nell’insorgere della malattia e nel suo andamento non riconducibile a relazioni esplicitabili in termini, per esempio, di attivi-tà neurobiologica o di radici genetiche del comportamento.

Anche in questo caso è possibile identificare tra i filoni di ri-cerca che valorizzano l’esperienza personale indirizzi diversi. Tra quelli con una maggiore risonanza, ricordiamo l’approccio feno-menologico, secondo il quale un’analisi sistematica delle strutture dell’esperienza mentale è indispensabile per comprendere le malat-tie psichiatriche, molte delle quali sono caratterizzate da alterazioni di percezione della realtà. Varie patologie  –  quali, per esempio, la depressione – presentano modifiche di senso della realtà e della pro-pria appartenenza a essa, e per affrontare molte delle condizioni che Ratcliffe (2009) definisce “mutamenti esistenziali” viene suggerita un’interazione di prospettive fenomenologiche6 e neurobiologiche. Senza negare l’utilità di approcci neurobiologici, ma escludendo la possibilità che questi possano giungere con successo a una completa

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naturalizzazione della malattia, si auspica una corretta valutazione del peso che la percezione di sé, del proprio vissuto e della realtà esterna ha in contesto psichiatrico. In tutti i casi in cui la ricerca è interessata al correlato neurobiologico di una certa esperienza pro-blematica X – si sottolinea – non si può prescindere da una concet-tualizzazione fenomenologica dei caratteri peculiari di X in quanto oggetto di indagine (per esempio il senso di disagio, estraneità, per-dita ecc.). Bisognerà quindi sviluppare una rete di concetti in grado di cogliere, al tempo stesso, la ricchezza dell’esperienza individuale e alcuni invarianti o tratti comuni a più casi. Includere nell’analisi della malattia esperienze anomale relative a, per esempio, manifesta-zioni dell’intenzionalità, dell’autocoscienza, o dell’intersoggettività significherà non limitarsi a prestare attenzione ai contenuti dell’e-sperienza intesi in senso comune, ma anche ai suoi aspetti strutturali, nonché agli aspetti di unità in un soggetto e al suo sviluppo persona-le nel corso del tempo. La spiegazione, quindi, mirerà a evidenziare forme di dipendenza della patologia da esperienze irriducibilmente personali, alla luce delle quali la patologia stessa acquista senso e co-erenza (cfr. per esempio Parnas, Sass, 2008, pp. 263-70).

Se dal punto di vista descrittivo, diagnostico o terapeutico è indub-bia l’utilità di questo tipo di approccio, dal punto di vista di un’anali-si epistemologica dei processi esplicativi in ambito scientifico la sfida consiste nell’esplicitare e chiarire le relazioni tra aspetti strettamente esperienziali ed elementi di vario tipo – per esempio comportamentali, neurali, farmacologici ecc.  –  che vengono presentati da diverse pro-spettive disciplinari. Solo affrontando tale sfida sarà possibile chiarire se, per esempio, gli interventi su elementi personali, esistenziali, affet-tivi ecc. siano di fatto esercitati su componenti eziologiche o costituti-ve, o, invece, su sintomi, e, pertanto, quale possa essere la loro portata esplicativa e come si possa qualificare esattamente il guadagno conosci-tivo che comportano.

4.6 Conclusioni: un approccio globale?

Data la molteplicità degli approcci alla spiegazione presenti se si guar-da agli approcci alla malattia mentale, è altresì opportuno interrogarsi su quali siano i rapporti effettivi tra di essi, e quali i rapporti che è op-

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7. Ringrazio il dott. Angelo Fioritti per avermi segnalato questo contributo.

portuno promuovere ai fini dell’elaborazione di spiegazioni progressi-vamente più adeguate.

Se le scienze della salute mentale sono caratterizzate da una pluralità di approcci, parzialmente rappresentata nei precedenti paragrafi, quali implicazioni teoriche può avere la presenza di tale pluralità? (Cam-paner, 2014). Ritenendo che essa costituisca un vantaggio epistemico nell’affrontare patologie complesse come quelle psichiatriche, Kendler (2012a), per esempio, adotta un approccio genuinamente pluralista: per cogliere appieno l’eziologia dei disturbi mentali, gli psichiatri de-vono abbandonare qualunque approccio esplicativo di tipo monista e promuovere invece un pluralismo esplicativo su base empirica. In que-sto senso, verranno perseguiti quadri esplicativi via via più integrati, nei quali, grazie anche alla conciliazione di prospettive diverse (per esempio meccanicistiche e manipolative) verrà dato il giusto peso alle molteplici variabili in gioco. Questo obiettivo teorico dovrà andare di pari passo con lo sviluppo di una maggiore capacità da parte dei ricer-catori di lavorare anche al di fuori dei confini della propria specialità scientifica – obiettivo tutt’altro che scontato (Kendler, 2014).

Il supporto a una maggiore integrazione delle conoscenze  –  da ottenere attraverso lavoro transdisciplinare e collaborazione trans-nazionale  –  è stato recentemente ribadito dalla Lancet Commission on Global Mental Health and Sustainable Development (Pavel et al., 2018)7. Il piano Sustainable Development Goals (sdgs) è inteso come un’iniziativa globale, sollecitata dalla considerazione che, nonostante i notevoli passi avanti nella ricerca scientifica, questi stentano a trovare una traduzione efficace in termini di cura ed effetti reali nella vita dei pazienti. Il tutto è reso più urgente dalle condizioni critiche in molti Paesi, nei quali, a causa di rilevanti transizioni demografiche, tensioni sociopolitiche, difficoltà economiche e violazioni dei diritti umani, la salute mentale si trova in una situazione di grave sofferenza. Uno dei pilastri su cui poggiare una riqualificazione dell’agenda mondiale per la salute mentale è la consapevolezza che «la salute mentale di ogni individuo è il prodotto unico di influenze sociali e ambientali, soprat-tutto nei primi anni di vita, che interagiscono con processi genetici, neuroevolutivi, e psicologici e impattano sui pathway biologici cere-brali» (Pavel et al., 2018, p. 1553). La presa in carico dei vari elementi

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4. modelli di spiegazione del disturbo mentale

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8. Per una serie di riflessioni sulle possibilità di integrare approcci disciplinari diversi alle scienze della mente e del cervello, e sulle loro reciproche relazioni, cfr. Kaplan (2017b).

rilevanti avviene all’interno di un modello definito “convergente”, che tiene conto dell’intero corso della vita umana e si prefigge altresì di convogliare progressivamente in un quadro congiunto diversi approcci scientifici e culturali alla malattia (dal modello biomedico occidentale alle tradizioni locali) (cfr. fig. 4.1).

Se, da un lato, consente di includere e valorizzare molteplici pro-spettive, metodologie e approcci disciplinari8, dall’altro lato il plura-lismo è una proposta che apre a sua volta a varie opzioni epistemo-logiche, che ci riportano ai termini fondamentali della spiegazione enunciati nel paragrafo 1. In primo luogo, il pluralismo – è importante sottolinearlo – è genuinamente tale se le diverse prospettive prendono realmente in considerazione il medesimo oggetto di spiegazione. Se, infatti, l’explanandum non è lo stesso, quella che abbiamo è semplice-mente una pluralità di posizioni, che affrontano una serie di domande distinte, in quanto non rivolte allo stesso oggetto. Il pluralismo espli-cativo si presenta invece come un obiettivo teorico per far dialogare punti di vista focalizzati su un unico target, e può essere inteso come punto di vista permanente, che caratterizzerà sempre le scienze della salute mentale, oppure provvisorio, volto a essere superato da quadri esplicativi delle varie patologie integrati e unitari. Se quest’ultimo è l’obiettivo, sarà necessario chiarire anche come i fattori esplicativi evi-denziati da approcci differenti interagiscano e si modifichino l’un l’al-tro, chiarendo i rapporti anche tra i diversi tipi di relazioni esplicative. Questa sembra, in ultima analisi, una delle maggiori sfide aperte per la spiegazione scientifica della patologia mentale.

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Come mai ci sono le patologie mentali e perché persistono nel corso dell’evoluzione? Perché la selezione naturale non elimina alleli di su-scettibilità per disturbi ereditabili, comuni e dannosi? Si pensi a schi-zofrenia, autismo, depressioni, fobie, ritardo mentale, disturbi ossessi-vo-compulsivi e così via. Questi disturbi hanno un tasso di incidenza incredibilmente alto nella popolazione, sono invalidanti, ma persisten-ti geneticamente: la schizofrenia è ritenuta, per esempio, “componente duratura del genoma umano” (Stevens, Price, 1996, p. 142). Nel dibat-tito specialistico, per riferirsi a tale questione si parla di “paradosso” dell’evoluzione (Brüne, 2004; Keller, Miller, 2006; Adriaens, 2007). La selezione naturale, come ben noto, non persegue l’ottimalità dei tratti e tanto meno la salute, né una direzione prefissata e tanto meno degli scopi: è un processo materialistico ma creativo, che genera varia-bilità e prevede compromessi. Tutto ciò non sembra però sufficiente a giustificare l’alta presenza dei disturbi psichiatrici nella popolazio-ne, pur tenendo conto del moltiplicarsi delle diagnosi nella psichiatria occidentale a causa dell’impianto descrittivo del Manuale Diagnostico e Statistico (dsm, oggi 5), alla sua iperinclusività e al problema della comorbidità.

Ciò che chiamiamo provvisoriamente “disturbi” sono condizioni di interesse clinico, individuate nella popolazione sulla base di co-oc-correnze comportamentali, di cui è ignota l’eziopatogenesi. Sebbene l’ultimo dsm-5 faccia un vago riferimento ai “processi psicologici, bio-logici, o di sviluppo sottostanti” nella definizione del concetto distur-bo (apa, 2013, p. 20) e introduca biomarcatori come “adornamenti” in alcune categorie diagnostiche (Kirk et al., 2015, p. 65, n. 3), uno dei pro-blemi che investe storicamente la psichiatria fino a oggi è la chiarifica-zione delle cause che portano alle manifestazioni fenomenologiche che

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Il paradosso dell’evoluzione: disturbi mentali e selezione naturale

di Elisabetta Sirgiovanni

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chiamiamo, dalla tradizione, malattie mentali, in termini di eziologia (storia dei processi causali) e patogenesi (modi e processi di alterazio-ne dei meccanismi sottostanti). L’avvento delle neuroscienze cognitive cliniche, come discusso in altri capitoli di questo volume, ha prodotto l’affermarsi di un meccanicismo neurocognitivo per cui le ipotesi sui disturbi mentali vengono costruite ricercandone le cause a partire dal locus cerebrale, cioè riconducendoli al malfunzionamento di un siste-ma organizzato in parti e operazioni (il meccanismo) localizzato nel cervello a più livelli e studiato da discipline e prospettive diverse (Sir-giovanni, 2011; Marraffa, Sirgiovanni, 2014). Ereditare una categoriz-zazione costruita su un piano meramente descrittivo può determinare degli ostacoli alla ricerca clinica, perché in medicina non sempre, anzi quasi mai, il piano descrittivo e quello eziopatogenetico collimano.

Inoltre, il dsm tende a ritenere i disturbi deviazioni dalla norma statistica, ovvero manifestazione di funzionamenti che si discostano da quelli individuati mediamente nella popolazione. Peraltro, nel dsm, soprattutto dal dsm-iii, veniva utilizzata una misura statistica discu-tibile, il K di Cohen, basata sull’accordo raggiunto tra i giudizi quali-tativi dei clinici (Kraemer et al., 2007). In quanto “fuori dalla norma”, i disturbi mentali dovrebbero però mostrare, diversamente da quanto accade, bassa variabilità (Brüne et al., 2012).

Le considerazioni sulla base evoluzionistica di ciò che chiamiamo disturbi mentali propongono soluzioni rilevanti a tali questioni, ma continuano a non fare parte concretamente di progetti di riformu-lazione della tassonomia psichiatrica su base eziopatogenetica. Se ne astiene, per esempio, il progetto rdoc (Del Giudice, 2016; Cuthbert, 2014). Queste considerazioni sono oggetto del presente capitolo.

5.1 La psichiatria evoluzionistica: storia e sviluppi

Darwin (1872) aveva sostenuto che facoltà mentali e comportamento sono il risultato di pressioni selettive (Ghiselin, 1973). Non abbiamo modo di ricostruire come quest’affermazione darwiniana sia stata travisata, nell’Ottocento e nel primo Novecento, per avvalorare teo-rie ben distanti, da tale affermazione e tra di loro (quali la teoria della degenerazione, l’eugenetica, la psicobiologia di Adolf Meyer, la psicoa-nalisi di Freud-Jung), in modo tutt’altro che rigoroso e con esiti discu-

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tibili (Nesse, 1991; Adriaens, de Block, 2010). Identificare la psichiatria evoluzionistica contemporanea con queste derive è un fraintendimen-to storico.

Solo in anni più recenti, l’intuizione darwiniana è stata rafforzata empiricamente, nelle varie sintesi teoriche all’interno della biologia (Buss, 2009a; 2009b). Cruciale è stato l’apporto, negli anni Sessan-ta e Settanta del secolo scorso, della sociobiologia (Hamilton, 1964; Wilson, 1975; Dawkins, 1976), la quale ha spostato il discorso del-la sopravvivenza della specie al livello dei geni, in particolare di geni che garantiscono la sopravvivenza grazie all’espressione di certi tipi di comportamento sociale.

Nel 1985, Paul McLean, per avvalorare la suddivisione dell’encefa-lo in tre distinte strutture funzionali di origine ancestrale (rettiliano, paleomammaliano e neomammaliano), appena qualche mese dopo le considerazioni di Radolph Nesse (1984) su evoluzionismo e psichia-tria, utilizza l’espressione “psichiatria evoluzionistica”. Nesse già sotto-lineava la necessità di dar conto di tutti i fenomeni biologici, anche quelli psichiatrici, attraverso cause prossime e remote: nel primo caso, cause che spiegano una struttura o una capacità (o la sua mancanza) nell’organismo di un individuo (per esempio, quali sono i meccanismi dell’ansia?) e, nel secondo caso, che ne spiegano l’esistenza in tutti gli esemplari della specie (perché l’ansia si è evoluta tra gli esseri umani?). Stabiliva sei passaggi per la spiegazione in psichiatria, tra i quali solo i primi due erano allora (e spesso anche oggi) azioni tipiche in questa disciplina: 1-2) definire un fenomeno ed esplicitarne cause prossime (comportamentali, psicologiche, neurochimiche), 3) ipotizzare cause ultime, 4) fare predizioni da queste ipotesi, 5) testare tali predizioni con osservazioni contestuali, metodo comparativo o esperimenti, 6) appurare se il fenomeno è un adattamento o, se non lo è, se rappresenta una patologia, identificarne livello, natura, eziologia.

A determinare spinta e sviluppo della psichiatria evoluzionistica negli anni Novanta (Stevens, Price, 1996; McGuire, Troisi, 1998), con l’affermarsi contemporaneo di ipotesi sugli aspetti evoluzionistici in medicina generale (Nesse, Williams, 1995), è senza dubbio la nascita della psicologia evoluzionistica nell’ambito cognitivista (Cosmides, Tooby, 1987; cfr. Buss, 2015; 2016). Leda Cosmides e John Tooby de-finiscono le considerazioni evoluzionistiche “l’anello mancante” nella comprensione causale del comportamento, ed è questo leitmotiv che accompagnerà le difese di questo approccio, assieme alla constata-

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zione della riluttanza che molti scienziati nutrono nei suoi confron-ti. L’approccio meccanicistico ne è da subito il fulcro perché sono i meccanismi psicologici l’oggetto di studio della psicologia cognitiva, in quanto sistemi di elaborazione dell’informazione, sistemi che ge-nerano il comportamento manifesto e sistemi che evolvono attraverso le generazioni. In questo senso, la teoria dell’evoluzione, spiegando a monte come e perché l’information-processing realizza il comporta-mento, costituisce quello che questi studiosi chiamano “l’ordine sotto-stante” (la concatenazione è: evoluzione → meccanismo psicologico → comportamento). Secondo Cosmides e Tooby, gli studiosi delle scienze psicologiche e sociali hanno compiuto fino ad allora i seguenti errori: tentare di connettere direttamente la teoria evoluzionistica al comportamento, piuttosto che «usarla come una guida euristica per la scoperta dei meccanismi psicologici innati» (Cosmides, Tooby, 1987, p. 279); appiattire la variabilità del comportamento espresso dagli indi-vidui in un minimo comun denominatore, quando invece la variabilità individuale è predicibile dalla teoria della selezione naturale; ritene-re che l’ottimalità del comportamento manifesto (o la sua mancanza) fosse prova del paradigma evoluzionistico, quando invece la selezione naturale non risponde a un criterio di ottimalità ma di adattamento. Per Cosmides e Tooby, l’evoluzione del comportamento va indagata al livello cognitivo per comprendere per cosa (quale funzione) un mecca-nismo “è stato progettato” e va tradotta in termini computazionali per chiarire – questa la sfida del secolo – quali algoritmi un meccanismo deve eseguire per comportarsi adattivamente (da qui, lo studio dei co-siddetti algoritmi darwiniani).

La psichiatria evoluzionistica degli anni Novanta (Stevens, Pri-ce, 1996; McGuire, Troisi, 1998) è un connubio di queste idee (meccanicismo e adattamentismo), in cui il meccanicismo prende la forma del cosiddetto modularismo massivo (per esempio Sperber, 1996; Pinker, 1997; Carruthers, 2006), ovvero l’idea degli psicologi evolu-zionisti che l’intera mente – e non i soli sistemi periferici (sensoriale e motorio), come nell’ipotesi della modularità ristretta (Fodor, 1983; 2000) – sia scomponibile in sistemi specifici per dominio, localizzabili a livello neurale e isolabili computazionalmente, suscettibili di incor-rere in danni caratteristici. In un’ipotetica tassonomia evoluzionistica (Murphy, Stich, 2000; Marraffa, Meini, 2004), i disturbi psichiatri-ci sarebbero riconducibili a danni all’interno della persona (interni o esterni al modulo nel sistema cognitivo) o a mismatch di tipo am-

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bientale, cioè a cambiamenti tra l’ambiente ancestrale di selezione del modulo e quello contemporaneo. La teoria dell’evoluzione permette dunque di identificare e trattare condizioni, come le seconde, che pa-tologie in senso proprio non sono.

Negli anni seguenti, lo sviluppo delle neuroscienze cognitive ha fa-vorito modelli meccanicistici più riduzionistici (Bechtel, 2003; 2008), che pur dando rilevanza alle spiegazioni psicologiche, non prescindo-no dal sostrato biologico. In particolare le neuroscienze hanno chia-rito che l’architettura del cervello è costituita da meccanismi neurali organizzati in modo complesso e sistematico dai livelli di organizza-zione più piccoli a quelli più grandi (geni, molecole, cellule, reti, map-pe, sistemi), con effetti causali intralivello e un rapporto più stretto e imprescindibile tra struttura e funzione (Craver, 2007). La psichiatria evoluzionistica è oggi più vicina a questo tipo di spiegazioni localizza-zioniste, per quanto complesse, che non alle spiegazioni meramente funzionalistiche degli inizi, che hanno incontrato consenso limitato. Mantiene il nucleo adattamentista, sebbene in chiave biologista, per cui sono le strutture biologiche, inclusi i potenziali epigenetici (cam-biamenti nell’espressione dei geni che non alterano la sequenza del dna), a essere oggetto di selezione e adattamento. Tiene conto del fatto che le strategie di adattamento non prevedono alcuna consape-volezza o coscienza. La versione psicologista, concentrandosi sul mero piano funzionale, non permette di distinguere tra un concetto evo-luzionistico e una nozione comune di adattamento, ovvero di testare sul piano empirico quali sono strategie propriamente adattive evolu-tivamente in quanto trascritte nei geni e nelle loro espressioni e quali sono strategie comportamentali contingenti da parte dell’individuo in risposta al contesto e basate sull’apprendimento per rinforzo, non tra-smesse biologicamente alle successive generazioni. Le strategie adattive di tipo darwiniano di cui parleremo sono biologiche, non psicologiche né tantomeno nascondono giudizi valoriali (buono/cattivo, superio-re/inferiore), e «si riferiscono a modi in cui un tratto incrementa il successo riproduttivo» (Nesse, 1991, 25).

L’approccio evoluzionistico alla psichiatria è stato investito da cri-tiche ricorrenti ed è oggi un orientamento frammentato, che manca di una vera integrazione, sebbene alcuni testi recenti ne tentino una summa (Brüne, 2010; 2015; Del Giudice, 2018; Nesse, 2019; cfr. an-che Gluckman et al., 2009; Stearns, Medzhitov, 2015; Brüne, Schie-fenhövel, 2018) e altri ne discutano le basi concettuali (Adriaens, De

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Block, 2011). Eppure, le ipotesi evoluzionistiche sui disturbi mentali si sono insinuate localmente in molte ricerche.

La psichiatria evoluzionistica non ha avuto finora il concreto impatto, a cui aspiravano i sostenitori, sulla psichiatria mainstream (Brüne et al., 2012), e in particolare su tassonomia e diagnosi (Murphy, Stich, 2000; Nesse, Jackson, 2011; Nesse, Stein, 2012), terapia (Gilbert, Bailey, 2000) o applicata ad altri campi come quello forense (Duntley, Shakelford, 2008). Si tratta di una sfida ancora attuale. Vediamone le caratteristiche principali.

5.2 Tipi di spiegazione psichiatrico-evoluzionistica

Gli approcci darwiniani alla psicopatologia posseggono una serie di ca-ratteristiche identificative. In breve, includono e collegano cause pros-sime e remote, ritengono salute e malattia mentale fenotipi di mecca-nismi sottostanti, considerano il verificarsi di casualità e incongruenze in unità di espressione genetica a stadi diversi di processi fisiologici omeostatici dell’organismo, reputano che individualità e variabilità neurocognitiva siano il frutto dell’interazione delle basi genetiche, epigenetiche e fisiologiche di un organismo unico nel suo sviluppo con un dato ambiente e che le malattie si originino da incongruenze in tali interazioni, e inoltre considerano come il processo di selezione naturale permetta di apprendere comportamenti adattivi in risposta a stimoli inattesi (Corbellini, 2008).

Nell’ambito dell’approccio evoluzionistico, sono stati individuati e discussi tre macrotipi di spiegazioni dei disturbi psichiatrici (Murphy, 2005; 2006): in primo luogo, il disturbo psichiatrico come effetto di un danno (breakdown) di meccanismi neurocognitivi evoluti; in secondo luogo, il disturbo psichiatrico che deriva dalla dissonanza (mismatch) ambientale di meccanismi neurocognitivi evolutisi per ri-spondere ad ambienti con caratteristiche ben diverse da quello attuale; infine, il disturbo psichiatrico come persistenza (persistance) di tratti adattivi. Semplificando, nel primo caso il disturbo corrisponde a una dis-funzione, o meglio a un dis-adattamento, mentre negli altri due casi si tratta di una risposta mantenuta per selezione naturale perché vantaggiosa evolutivamente in certe condizioni ambientali, cioè di un adattamento.

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Centrale è l’idea che vi siano “funzioni proprie”, o meglio attività evolutivamente pertinenti, dei meccanismi biologici all’interno di un organismo, attività per cui tali meccanismi sono stati selezionati nel corso dell’evoluzione della specie (Millikan, 1984; 1989; Wakefield, 1999). Questa concezione della patologia, cosiddetta dell’effetto selet-tivo, si oppone alla concezione biostatistica (per esempio Boorse 1977; Cummins, 1975), per cui la patologia è intesa come una deviazione dal contributo statisticamente prevalente nella popolazione allo scopo (goal ) a cui il meccanismo tende (disposizione), una concezione che incontra diverse obiezioni, in particolare l’incapacità di riconoscere contributi contingenti (per una discussione cfr. Sirgiovanni, 2016b). Comprendere la funzione propria, l’attività evolutivamente pertinen-te, di un tratto o di un meccanismo neurocognitivo corrisponde invece a spiegarne la presenza in una data popolazione, e cioè a identificare gli effetti di quel tratto o meccanismo che hanno prodotto un poten-ziamento della fitness e per questo sono stati favoriti dalla selezione naturale. Si tratta di tentare di dare risposta a un quesito eziologico e backward-looking, che ha come obiettivo quello di spiegare le passate occorrenze, e non meramente delle disposizioni o proprietà presenti. La funzione o attività pertinente è definita in modo ricorsivo. Tale meccanismo deve cioè essersi originato dalla riproduzione o come pro-dotto di qualche altro sistema che eseguiva tale attività in passato (re-plicazione), ed esiste grazie a questa o queste attività (Millikan, 1989). Tale funzione sarebbe quindi purpose, nel senso di effetto, non goal, e ciò concettualmente non implica alcuna intenzionalità, come invece il concetto di disposizione.

5.2.1. disturbo come danno

Un meccanismo neurocognitivo può danneggiarsi in qualsiasi momen-to a vari livelli di organizzazione, eseguendo di conseguenza attività e operazioni che si discostano da quelle evolutivamente pertinenti. In tal caso, saremo di fronte a «un fallimento o inadeguatezza di un organo nel fare ciò per cui è causalmente diventato parte del nostro equipag-giamento attraverso la selezione naturale» (Woolfolk, 1999, p. 660). Questo paradigma, cosiddetto del deficit, si avvale dell’osservazione delle operazioni che risultano inibite, facendo un raffronto con come il meccanismo si comporta quando funziona in modo pertinente. Un danneggiamento di un meccanismo cerebrale può essere provocato da

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una lesione, da un trauma psicologico o fisico, o da eventi fisici o am-bientali, inclusi quelli sociali, perturbanti. L’interruzione dell’attività di una parte componente a un livello di organizzazione può precedere ed essere preceduta dall’azione di molte altre componenti a vari livelli, con un effetto a cascata, con significativi effetti di ritorno da stadi po-steriori a stadi precedenti. Questo tipo di spiegazioni meccanicistiche è oggetto delle neuroscienze cognitive ed è descritto in altri capitoli del volume.

Poiché un meccanismo cerebrale può danneggiarsi a vari livelli, va considerato che quando il danno si verifica a livello genetico ed epige-netico, ciò comporta l’ereditarietà di mutazioni del dna e delle pro-teine che ne costituiscono la struttura (istoni), e che tale danno verrà trasmesso alla prole nel corso delle generazioni (mutation load ). Non è da escludersi che alcune malattie mentali possano essere vere e proprie sindromi mendeliane, cioè mutazioni ereditate in modo mendeliano che causano effetti ampi e molto dannosi. Per gli evoluzionisti, che l’e-voluzione mantenga mutazioni di questo genere, cioè molto dannose, è raro, per quanto possibile.

In genere, viene ipotizzato un bilanciamento poligenico mutazio-ne-selezione (Keller, Miller, 2006). In sostanza, poiché possono oc-correre molte generazioni perché gli effetti dannosi (maladattamento) vengano bilanciati o rimossi da ricombinazioni casuali di dna, frutto di nuove riproduzioni tra individui portatori e individui non porta-tori, si ritiene che il danno venga mantenuto perché moderato (dal punto di vista evolutivo), promuove variabilità e soprattutto perché si associa a un pool di geni adattivi. Sono state tentate ipotesi di questo tipo, sebbene molto dibattute, anche per schizofrenia e autismo. Ste-vens e Price (1996) avevano suggerito che un genotipo schizoide fosse stato selezionato perché favoriva un individuo bizzarro o dissonante cognitivamente in quanto in grado di esercitare carisma socialmente, ma che le psicosi risultino carismatiche non è provato empiricamente (Murphy, 2006). Più recentemente è stato proposto che geni associa-ti alla schizofrenia siano prodotti maladattivi di adattamenti, sebbe-ne non sia stato chiarito quali tratti adattivi tali geni determinino, ed è stato proposto si tratti di immaginazione e creatività (Crespi et al., 2007). Per l’autismo, sappiamo che i tratti deleteri tipici di questo di-sturbo correlano positivamente dal punto di vista genetico con altri tratti associati ad alta (seppure sbilanciata su alcuni specifici domini) intelligenza cristallizzata (Crespi, 2016).

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5.2.2. disturbo come dissonanza ambientale

Esistono specifici contesti in grado di innescare stati depressivi: la per-dita di una figura di attaccamento, un’importante sconfitta sociale, l’impotenza in situazioni ad alto rischio, o quei casi in cui gli sforzi producono risultati molto modesti (cfr. Gilbert, 2015). Lo stesso vale per l’ansia, una paura anticipata che si attiva quando elementi minac-ciosi nell’ambiente fanno presagire un possibile pericolo (Horwitz, Wakefield, 2012).

I meccanismi che segnalano perdita delle risorse riproduttive o ri-schio di vita sono molto antichi e condivisi tra le specie, sono capacità universali (ovvero possedute da tutti gli individui e attivate in specifi-che circostanze avverse) e possono essere indotte con estrema facilità tramite condizionamento. Costituiscono indubbiamente un vantag-gio evolutivo perché legate in maniera evidente con sopravvivenza, ca-pacità di sviluppo e successo nell’accoppiamento, in particolare anche per alcuni tratti a cui sono associate, per esempio l’abilità a stimare errori sia in situazioni positive che negative (Garrett et al., 2014), il potenziamento di attenzione e di memoria di lavoro (Schweizer et al., 2018), e così via, tutti fattori determinanti per la fitness. Lo stato di allarme, le fobie per le altezze, per i luoghi aperti o affollati possono giustificarsi facilmente in un ambiente fisico pericoloso come quello dei cacciatori-raccoglitori (Marks, 1987; Marks, Nesse, 1994). Le ipo-tesi che rendono conto dell’umore depresso, per taluni meno ovvie, lo riconducono a situazioni sociali in cui per esempio era più vantaggioso per la propria incolumità e per la conservazione energetica scegliere di ritirarsi e non competere, o in cui è necessario che gli altri si accorgano che abbiamo bisogno di aiuto (Gilbert, 1992; Price et al., 1994; McGui-re et al., 1997; Kessler, 1997). Tuttavia, la pur pertinente attivazione dal punto di vista evolutivo di questi meccanismi di autoregolazione emotiva può risultare svantaggiosa, perfino invalidante, in esseri uma-ni che vivono al giorno d’oggi: questi meccanismi non si coniugano con conformazione e dinamiche dell’urbanizzazione contemporanea e con le esigenti richieste di partecipazione alla vita sociale ed esibizione di sé stessi delle società odierne. In poche parole, a essere mutato non è il meccanismo stesso ma l’ambiente in cui tale meccanismo opera.

Ciò non esclude che tali meccanismi non possano danneggiarsi, come descritto nel paragrafo precedente, ma distinguere tra risposta normale a una situazione ambientale dissonante e disturbo vero e pro-

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prio è arduo compito per i clinici (Horwitz, Wakefield, 2012). C’è poi una questione interessante: a seconda delle condizioni ambientali, non sempre queste tipologie di funzionamento emergono come mismatch, perché determinano alcune caratteristiche comportamentali adattive anche in alcuni specifici ambienti odierni. In sostanza, quella tra mis-match e persistence, oggetto del prossimo paragrafo, è una relazione che andrebbe concepita come continua.

5.2.3. disturbo come persistenza adattiva

Il caso più interessante è quello dei disturbi di personalità che si pen-sa diano luogo a pattern fenotipici di funzionamento favoriti anche nell’ambiente mutato (persistence). Il disturbo antisociale di persona-lità (apd), o comunemente psicopatia, è tra i più interessanti. Le spie-gazioni della psicopatia, un disturbo caratterizzato da irresponsabilità, violenza, impulsività, mancanza di empatia e rimorso, superficialità, grandiosità, manipolazione e carisma (Hare, 2003), prevedono com-plessi modelli architetturali multilivello, che includono predisposi-zioni genetiche, funzionamento atipico in strutture neuronali quali centri delle emozioni (sistema limbico) e lobi frontali, e circostanze ambientali scatenanti (Buckholtz, Meyer-Lindenberg, 2008). Due tipi di modelli adattamentisti sono rilevanti per l’apd (cfr. Glenn et al., 2011). Secondo un primo modello si ipotizza una cosiddetta selezio-ne stabilizzante (balancing selection), ovvero che il disturbo sia frutto di adattività di tratti che sono favoriti in più ambienti accomunati da certe condizioni. Questo può accadere per due motivi. Il primo è la cosiddetta eterogeneità ambientale in condizioni ottimali per la fitness (environmental heterogenity in fitness optima). Nel caso specifico, si pensa che i tratti machiavellici e narcisistici rendano gli individui anti-sociali vincenti in ambienti estremamente competitivi, siano essi la sa-vana o Wall Street (Babiak, Hare, 2006). Curiosamente, la psicopatia ha tassi minori in Europa che in Nord-America (Cooke, Michie, 1999) dove tratti individualistici sono culturalmente più tollerati. Essendo la psicopatia una costellazione di tratti, alcuni di essi potrebbero essere benefici in alcuni ambienti con caratteristiche similari e altri in altri ambienti accomunati da altre caratteristiche, per esempio che in alcuni ambienti sia vantaggioso il machiavellismo mentre in altri la ricerca del rischio e l’impulsività. Un secondo motivo per cui si pensa si verifi-chi selezione stabilizzante, motivo in qualche modo opposto al pre-

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questi tratti potrebbero portare a benefici in alcuni ambienti con caratteristiche similari, mentre altri tratti potrebbero farlo in altri ambienti con altre caratteristiche. Per esempio, in alcuni ambienti potrebbe essere
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5. il paradosso dell’evoluzione: disturbi mentali

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cedente, è la scarsa frequenza di un tratto in determinate popolazioni di individui ( frequency-dependent selection). Secondo questa ipotesi (Barr, Quinsley, 2004; Mealey, 1995), la strategia sociale parassitica de-gli psicopatici resisterebbe grazie al fatto che la maggioranza coopera e quindi è meno vigilante nei loro confronti. Ciò comporta un bilancia-mento costi-benefici associati ai tratti psicopatici (per esempio, scarsa stabilità relazionale vs successo nell’accoppiamento, esilio dal gruppo o punizione vs abilità di accaparrarsi risorse ecc., cfr. Glenn et al., 2011, Table 1).

Esiste poi un’altra categoria di persistenza adattiva oltre alla se-lezione stabilizzante, quella dei cosiddetti spostamenti contingenti (contingent shifts), che si verificano quando un tratto è flessibile e si presta a qualche altra attività imprevista. Questi spostamenti possono insorgere o come risposta all’ambiente, per esempio a seguito di situa-zioni stressanti come abusi parentali, maltrattamenti o violenze fisiche e psicologiche, modificando la traiettoria di sviluppo dei meccanismi socioaffettivi (Buckholtz, Meyer-Lindenberg, 2008), o in altre circo-stanze come allocazione di tempo e risorse in direzioni che si confanno ad altre caratteristiche ereditarie presenti, per esempio, nel caso della psicopatia, la mancanza di paura che spingerebbe a prendersi rischi e a ingannare gli altri.

5.3 Critiche e risposte

Le spiegazioni evoluzionistiche di fenomeni cognitivi e comporta-menti sono state investite ripetutamente, sin da fine anni Settanta, dal-la stessa tipologia di critiche, che ritengono si tratti di ipotesi narrative fantasiose e non propriamente falsificabili, di just-so-stories (Gould, 1978; Gould, Lewontin, 1979)  –  dal titolo del libro per bambini di Rudyard Kipling del 1902 che spiegava inverosimilmente alcune carat-teristiche negli animali.

L’evoluzione è un processo già avvenuto, quindi non osservabile direttamente, ma inferito dall’osservazione di tracce concrete, post-hoc. La cosa si complica quando si tratta di rilevare tracce per spiegare cognizione e comportamento. Per gli scettici, la psichiatria evoluzio-nistica si scontra con tre ostacoli (Kendler, 2013): non sappiamo per cosa l’evoluzione ha progettato i nostri sistemi di mente/cervello e

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psicopatologia e scienze della mente

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raramente possiamo fare esperimenti per risolvere la questione; assu-miamo che l’evoluzione abbia prodotto un singolo prototipo del fun-zionamento umano finendo col dimenticare che esistono diversi tipi di vulnerabilità ai disturbi psichiatrici (per esempio un individuo che ha una fobia per i gatti non avrebbe un disturbo se possiede i geni di ri-schio per l’ansia, poiché progettato così dall’evoluzione, mentre sareb-be disturbato chi ha la stessa fobia ma non genetica, acquisita a seguito di un’esperienza traumatica); non è chiaro come dovremmo compor-tarci se ambiente evolutivo e ambiente presente sono desincronizzati (negare copertura assicurativa ai pazienti dell’evoluzione?).

Per i critici, l’impostazione evoluzionistica sarebbe un “pan-adatta-mentismo” (Rose, 2007), evocando le accuse di pansessualismo al freu-dismo. Questa la posizione di Jerry Fodor (2007), a cui hanno risposto noti colleghi (fra cui, Simon Blackburn, Jerry Coyne, Daniel Dennett, Philip Kitcher, Tim Lewens, Steven Rose). Fodor attaccava, all’inter-no dell’impostazione filogenetica, la centralità della selezione naturale (cfr. anche Fodor, Piattelli-Palmarini, 2010). In particolare, criticava da un lato la nozione di “selezione per” (argomento teorico), che coinvol-ge tratti fenotipici coestensivi senza distinguerli da tratti adattivi (per esempio, il battito sordo del cuore e il pompare sangue sono entram-bi tratti del cuore, ma il primo è localmente coestensivo e comunque selezionato sebbene non adattivo); l’unica nozione plausibile sarebbe, per Fodor, quella di “selezione di”. Dall’altro lato, Fodor sosteneva che l’insistenza sulla relazione adattiva tra fenotipi e ambienti trascurereb-be altri fattori quali assimilazione e plasticità genetica, contingenza, esplosioni di nuove forme, regolazioni epigenetiche, e quant’altro (ar-gomento empirico).

La prospettiva evoluzionistica non è a tal punto ingenua da sug-gerire modelli adattamentistici in modo cieco, escludendo fattori di altro tipo, e ricomprende la distinzione tra adattamenti e meri trat-ti correlati, o tra causalità e correlazione, una questione che peraltro è ben conosciuta e anch’essa valutabile empiricamente (Sober, 2010; cfr. anche Block, Kitcher, 2010; Okasha, 2010; Papineau, 2010). So-ber (2010) cita un termine che descrive in genetica situazioni di questo tipo: “pleiotropia”, il fenomeno per cui un gene determina un aspetto da cui ne conseguono molteplici correlati. Generalmente, esperimenti volti a “silenziare” alcuni tratti lasciandone in opera altri, danno conto di quali sono i tratti causalmente rilevanti. Per esempio, creando orga-nismi con un cuore che non pompa sangue vs crearne con un cuore che

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5. il paradosso dell’evoluzione: disturbi mentali

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produce un suono diverso dal battito sordo, si rileva che solo il primo tratto costituisce una “selezione per”.

Questo ci riporta all’etichetta affibbiata da Gould: possiamo dire che si tratta di “fantasie”? Rispetto agli esordi funzionalistici guidati dalla psicologia evoluzionistica, la psichiatria evoluzionistica più re-cente si propone di vincolare tali ipotesi biologicamente (cfr. Gerrans, 2006; Panksepp, 2006; cfr. Del Giudice, 2018), per cui regolarità ri-scontrate al livello psicologico devono manifestare corrispondenze al livello biologico sulla base anche di comparazioni con dati provenienti da vari rami della biologia. Si tratta di “ipotesi” scientifiche, non di novelle, da confrontare e testare empiricamente nelle loro predizioni.

Che l’euristica adattamentista abbia pretese omnicomprensive è anche discutibile. Come nota Gilbert, «i teorici dell’evoluzione non suggeriscono che le manifestazioni odierne dei “disturbi” sono neces-sariamente adattive»; anzi, «molti processi corporei, incluse difese per liberare il corpo da tossine come la diarrea o il vomito, hanno un intervallo entro il quale sono adattive e al di fuori di tale intervallo possono non esserlo» (Gilbert, 2015, p. 230). L’adattamentismo è in questo senso un elemento che precisa la cornice meccanicistica delle neuroscienze cognitive: permette di valutare ipotesi circa quale sia il punto dello spettro adattamento-disadattamento (o persistenza-mi-smatch-danno) in cui una manifestazione psichiatrica specifica in un individuo potrebbe collocarsi.

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Parte seconda

Psichiatria e scienze cognitive in interazione

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Insieme ai deliri da riconoscimento erroneo (a cui sarà dedicato il cap. 7), l’ipotesi secondo cui le difficoltà relative all’interazione sociale ma-nifestate dai pazienti sofferenti di disturbi dello spettro autistico ad alto funzionamento sarebbero riconducibili alla compromissione di mecca-nismi neurocognitivi deputati alla comprensione delle menti altrui (Ba-ron-Cohen, Leslie, Frith, 1985), e a ruota la definizione della schizofrenia come “autismo a tarda insorgenza” (Frith, 1992), figurano tra le principali fonti dell’idea di neuropsichiatria cognitiva. In questo capitolo esamine-remo alcune delle tappe principali della storia ormai più che trentennale di questa tesi che assegna ai difetti di mentalizzazione un ruolo decisivo nell’eziopatogenesi di alcuni aspetti dell’autismo e della schizofrenia.

6.1 Mindreading e disturbi dello spettro autistico

L’espressione Theory of Mind denomina l’indagine sulle nostre capa-cità di “mentalizzare” o di “leggere la mente” (mindreading): per cui siamo in grado di considerare gli agenti come possessori di stati e pro-cessi psicologici inosservabili, nonché di prevedere e spiegare il loro comportamento in virtù dell’attribuzione di tali stati e processi (per cui – paradigmaticamente – diciamo che il tale ha fatto una certa cosa “perché aveva il desiderio di...” oppure “perché credeva che...”). Queste capacità mentalistiche sono anche denominate “psicologia ingenua” e sono ritenute essenziali ai fini dell’interazione sociale (Meini, 2008; Marraffa, Meini, 2016).

Storicamente, la spinta decisiva per il costituirsi di questa area di ri-cerca è venuta da tre risultati ottenuti in psicologia dello sviluppo negli

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Mindreading e introspezionedi Rossella Guerini e Massimo Marraffa

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psicopatologia e scienze della mente

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1 Il compito descritto nel testo fa parte dei compiti di falsa credenza standard, in cui si indaga la comprensione verbale delle credenze erronee. Tuttavia, studi recenti basati su una valutazione di indici comportamentali indiretti (per esempio la quan-tità di tempo in cui il bambino continua a guardare una scena nel paradigma di “vio-lazione dell’aspettativa”) hanno radicalmente retrodatato la capacità metarappresen-tazionale relativa agli stati di credenza: per esempio 15 mesi in Onishi e Baillargeon (2005), 13 mesi in Surian, Caldi e Sperber (2007), addirittura 7 mesi in Kovács, Téglás e Endress (2010) – su cui si veda però Phillips et al. (2015). Per una prima introduzio-ne a questa letteratura, cfr. Marraffa e Meini (2016, cap. 3).

anni Ottanta del secolo scorso. Primo, i bambini sono in grado di par-tecipare assai precocemente (in media a partire dai 18 mesi) ai giochi elementari di simulazione (come quando la madre porta una banana all’orecchio fingendo di avere l’intenzione di telefonare). Secondo, fra i 3 e i 4 anni il bambino diviene capace di superare compiti che certi-ficano la comprensione verbale della natura di uno stato di credenza. Terzo, la comprensione delle menti altrui è insufficiente nei pazienti con disturbi dello spettro autistico ad alto funzionamento.

In questo quadro, il compito della falsa credenza ha fornito alle ri-cerche sulla nostra capacità di leggere le menti altrui il fulcro di un paradigma sperimentale chiaro ed elegante (Fenici, 2013). Nella versio-ne canonica di questo test (il problema del trasferimento dell’oggetto: Wimmer, Perner, 1983), il bambino assiste alla seguente scenetta. Sally (una marionetta) mette una biglia in un cesto e quindi esce di scena. In sua assenza, Anne (un’altra marionetta) trasferisce la biglia dal cesto in una scatola. Al ritorno di Sally, al bambino viene chiesto dove Sally cercherà la biglia. Per svolgere il compito il bambino deve capire che Sally crede che la biglia si trovi ancora dove l’ha lasciata (nel cesto), ossia deve comprendere che Sally si è formata una rappresentazione scorretta della realtà, una credenza erronea per l’appunto. Ebbene, si è constatato che i bambini sotto i 3 anni forniscono una risposta sba-gliata, affermando che Sally cercherà la biglia nella scatola, ossia dove effettivamente si trova; intorno ai 3 anni alcuni bambini iniziano a ri-spondere correttamente; dopo i 4 la maggior parte dei bambini forni-sce la risposta corretta (Wellman, Cross, Watson, 2001)1.

Pertanto, verso i 4 anni i bambini mostrano di essere in grado di cogliere il carattere rappresentazionale degli stati di credenza; sanno cioè che uno stato psicologico non è una semplice registrazione passiva della realtà, necessariamente veridica come può esserlo una copia, ma

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6. mindreading e introspezione

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ne è invece una ricostruzione eventualmente scorretta. Ma che cosa si verifica intorno ai 4 anni che consente al bambino di accedere a tale comprensione? Differenti risposte a tale interrogativo corrispondono a differenti ipotesi circa la natura e lo sviluppo della capacità di leggere le menti altrui.

Una delle ipotesi più influenti è stata la “teoria della teoria”: siamo in grado di fare psicologia ingenua perché possediamo una teoria sponta-nea, o primaria, della mente, ovvero un corpus di conoscenze integrate e coerenti relative al dominio dei fenomeni psicologici. La natura di que-ste conoscenze, però, può essere intesa in almeno due modi differenti.

Secondo una prima famiglia di teorie della teoria, nota come la “teo ria del piccolo scienziato”, il corpus di conoscenze che consente l’e-sercizio della capacità di leggere le menti altrui possiede la medesima struttura di una teoria scientifica, ed è anche acquisita, immagazzinata e utilizzata come le teorie nel corso dell’evoluzione della scienza. Si tratta di una posizione che s’ispira al costruttivismo di Jean Piaget, che per primo ha caratterizzato lo sviluppo cognitivo nell’infanzia e nella prima adolescenza come la costruzione di una serie di teorie intuitive sempre più sofisticate. Un chiaro esempio di applicazione di questa im-postazione al tema della mentalizzazione ci viene da Wellman (1990), il quale ha sostenuto che intorno ai 4 anni il bambino diviene in grado di svolgere i compiti della credenza erronea perché abbandona una ele-mentare teoria della mente come “copia” per adottare una teoria della mente pienamente rappresentazionale, che gli consente di afferrare il ruolo esplicativo delle credenze erronee.

La teoria del piccolo scienziato eredita da Piaget non solo l’im-pianto costruttivista ma anche l’idea che lo sviluppo cognitivo è un processo che poggia su un meccanismo di apprendimento generale per dominio. Secondo il grande psicologo svizzero, infatti, a partire da un insieme di riflessi innati, i meccanismi di assimilazione, accomo-damento ed equilibrazione danno luogo al progressivo rafforzamento della capacità da parte del bambino di risolvere problemi in qualsiasi dominio cognitivo – fisico, biologico, psicologico e così via. Più di re-cente, questo meccanismo di apprendimento generale per dominio è stato definito come un meccanismo bayesiano che è in grado di rile-vare dipendenze statistiche fra eventi (cfr. per esempio Gopnik, Wel-lman, 2012; Gopnik, Bonawitz, 2015).

Perner (1991) ha applicato questa impostazione allo sviluppo di un concetto rappresentazionale di credenza. Tale sviluppo – egli sostie-

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psicopatologia e scienze della mente

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ne  –  trae origine dalla comprensione della natura delle rappresenta-zioni in generale, non specificamente di quelle mentali. Innanzitutto, il bambino impara a comprendere le proprietà delle rappresentazioni esterne o pubbliche (fotografie, disegni, mappe e soprattutto profe-rimenti e iscrizioni linguistiche); solo in un secondo momento egli estende, per analogia, queste proprietà alle rappresentazioni mentali. In particolare, il bambino diviene capace di superare i test della creden-za erronea allorché, fra i 3 e i 4 anni, l’apparato teorico che utilizza per ragionare sulle menti altrui si arricchisce di un concetto rappresenta-zionale di credenza precedentemente assente. Prima di allora il bambi-no possiede un concetto in cui coesistono indifferenziati i concetti di finzione (pretend) e di credenza (belief): il concetto di prelief, che consente di comprendere che una persona può agire come se qualcosa fosse in un certo modo (come se “la banana fosse un telefono”) quando in realtà non lo è (Perner, Baker, Hutton, 1994). È il concetto rappre-sentazionale di credenza che consente al bambino di comprendere che, al pari delle rappresentazioni pubbliche, anche le rappresentazioni in-terne possono descrivere erroneamente stati di cose.

A questa versione piagetiana della teoria della teoria ha fatto da contraltare una versione “chomskiana”, in cui la nozione di teoria non è più ricalcata sul modello delle teorie scientifiche, bensì si ispira a quel-la che è la conoscenza della grammatica secondo Chomsky. Il corpus di conoscenze che rende possibile l’esercizio della capacità di leggere le menti altrui è ora immagazzinato in uno o più meccanismi specifici per dominio e innati, che gradualmente divengono operativi nel corso dello sviluppo infantile.

In questa prospettiva, le diverse attività cognitive non vanno viste come l’applicazione a domini diversi di un’unica capacità generale e indifferenziata; al contrario la mente è organizzata in sottosistemi computazionali specializzati, ciascuno preposto allo svolgimento di un certo tipo di compito in uno specifico dominio. Nella forma che tale impostazione assume nelle ricerche di Elizabeth Spelke, la nostra men-te contiene quattro, forse cinque, “sistemi di base”, ognuno caratteriz-zato da un corpus di principi che individua le entità incluse nel dominio e consente di fare inferenze in merito alle loro interrelazioni e al loro comportamento (Spelke, Kinzler, 2007). Esempi di queste entità sono gli oggetti inanimati e le loro interazioni meccaniche (fisica intuitiva), gli agenti conspecifici e le loro azioni rivolte a uno scopo (psicologia ingenua), i luoghi nel continuo spaziale e le loro relazioni geometriche

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6. mindreading e introspezione

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(cognizione spaziale), gli insiemi e i loro rapporti numerici di ordina-mento, addizione e sottrazione (matematica ingenua). Un quinto, più controverso, sistema potrebbe rappresentare i membri dell’in-group, cioè “il noi”, in quanto distinti dai membri dell’out-group, “gli altri”.

In questo quadro, perciò, il bambino è visto subito orientarsi con competenza nel mondo psicologico. In particolare, secondo quanto teo rizzato da Leslie (1987; 1994; 2000; 2005; Wang, Leslie, 2016), già nel corso del secondo anno il bambino disporrebbe di un Theory-of-Mind Mechanism (tomm), una componente specializzata dell’intelli-genza sociale che riceve in ingresso informazioni concernenti le azioni presenti e passate di altri soggetti e su questa base ne computa i pro-babili stati psicologici. Gli output di tomm sono descrizioni di stati psicologici che hanno la forma di metarappresentazioni specificamente mentalistiche. Per esempio, per poter prender parte ai giochi di finzio-ne il bambino deve essere in grado di costruire una metarappresenta-zione del tipo: mamma fa finta (di) la banana (che) “è un telefono”. Si tratta, come si vede, di una descrizione del comportamento costitu-ita da una relazione che esplicita informazioni concernenti un agente (la mamma) + un atteggiamento (come l’agente usa la rappresentazio-ne: fa finta) + una rappresentazione primaria (questa è una banana) + una rappresentazione secondaria (questa banana è un telefono). La rappresentazione secondaria è resa possibile da un meccanismo di “di-saccoppiamento” che inserisce la rappresentazione primaria in un nuo-vo contesto nel quale le normali relazioni di riferimento sono sospese: il simbolo mentale “banana”, una volta disaccoppiato, non denoterà più il frutto, e potrà denotare un telefono.

Negli anni Ottanta l’ipotesi di tomm costituì la base per svilup-pare una prospettiva neuropsicologica sull’Autism Spectrum Disorder (asd). Nel dsm-5 i disturbi dello spettro autistico sono un gruppo di disturbi neuroevolutivi caratterizzati da compromissioni dell’intera-zione sociale e della comunicazione, accompagnate da comportamenti ripetitivi e stereotipati. Essi prendono il posto dei “disturbi pervasivi o generalizzati dello sviluppo” del dsm-iv (disturbo autistico, disturbo di Asperger, disturbo disintegrativo dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato). La revisione del dsm-5 eli-mina la caratterizzazione per sottotipi del dsm-iv e introduce la no-zione di spettro per sottolineare l’eterogeneità del disturbo e indicare un continuum in cui ciascun individuo presenta le proprie specificità. La specificazione clinica che qui più ci interessa è il livello di funziona-

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psicopatologia e scienze della mente

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mento: tra i pazienti asd alcuni presentano ritardo mentale associato, ma altri manifestano linguaggio fluente (sebbene deficitario sul piano pragmatico) e sviluppo cognitivo nella norma – in tal caso si parla di High Functioning Autism Spectrum Disorder. Questi sono i pazienti che hanno partecipato agli studi che ora prenderemo in esame.

I pazienti asd manifestano soprattutto incompetenza sociale, mo-deste capacità comunicative e incapacità di prender parte ai giochi di finzione. Dal momento che le capacità di mindreading sono alla base della competenza sociale, della comunicazione e della finzione, Baron-Cohen, Frith e Leslie (1985) ipotizzarono che le difficoltà in questione potessero essere il risultato di una compromissione di tomm. Questa ipotesi fu indagata in un esperimento in cui il compito della creden-za falsa fu somministrato a tre gruppi di bambini: 20 asd (età media = 11 anni), 14 Down (età media = 10 anni) e 27 con sviluppo tipico (età media = 4 anni e 5 mesi). L’85% dei Down e l’86% dei bambini con sviluppo tipico predissero correttamente la credenza falsa di Sally, mentre l’80% degli asd non ci riuscì. La buona prestazione dei Down confermava l’ipotesi che il deficit dei bambini autistici fosse specifica-mente collegato alla psicologia ingenua e non fosse semplicemente un problema di deficit intellettuale generale (il qi degli asd era 82, valore fra il medio e il normale, mentre il qi dei Down era 64).

Sulla traccia di questo studio, Christopher Frith (1992) ipotizzò che la compromissione di tomm fosse all’origine anche di alcuni sintomi della schizofrenia. Il problema qui era spiegare perché schizofrenia e autismo, pur risultando entrambe dal malfunzionamento di tomm, fossero condizioni affatto distinte – soprattutto spiegare perché i pa-zienti con asd non manifestassero i sintomi positivi della schizofrenia come le allucinazioni e i deliri di controllo. Frith propose che la causa di tali sintomi fosse la perdita di una capacità metarappresentazionale che però aveva avuto uno sviluppo tipico, laddove nel paziente con asd tale capacità era sempre stata, in varia misura, deficitaria. Il paziente schi-zofrenico, con alle spalle una storia di atti di mentalizzazione andati a buon fine, provava a interpretare gli stati mentali altrui; il fallimento era all’origine di varie esperienze di passività (deliri di controllo, inserimen-to o sottrazione o trasmissione di pensieri). Supponiamo, per esempio, che un paziente schizofrenico (s) formuli un pensiero sul pensiero che ( p) di un’altra persona (p): inferisca – poniamo – che “(p) pensa che (s) sia noioso”. A causa di un deficit a carico di tomm, però, l’operatore intenzionale “pensa che” si distacca dal contenuto proposizionale “(s)

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6. mindreading e introspezione

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2. Nel compito della foto datata una scena viene fotografata con una Polaroid, e quindi modificata mentre la foto si sta sviluppando. Al bambino viene domandato che cosa mostrerà la foto: la scena come era quando la foto è stata scattata oppure come è ora?

è noioso”; con la conseguenza che (s) esperisce tale contenuto come un pensiero indipendente che penetra nella sua coscienza – l’esperienza di passività nota come “inserimento del pensiero”.

Negli anni Novanta l’ipotesi di tomm aveva perciò mostrato un indubbio valore euristico nell’ambito della modellistica clinica; e però doveva risolvere un problema difficile. Come si è detto, Leslie ritiene che questo meccanismo neurocomputazionale maturi nei primi due anni di vita e costituisca la specifica base innata del nucleo fondamen-tale della psicologia ingenua. A sostegno di questa ipotesi egli menzio-na, fra l’altro, la sua analisi del gioco di finzione, che mostrerebbe che la capacità di metarappresentare l’atteggiamento proposizionale del fin-gere emerge durante il secondo anno di età. Questa analisi però solleci-ta una domanda: se tomm è operativo nel secondo anno di età, perché i test della credenza falsa non possono essere superati prima dei 4 anni? La tesi di Leslie è che, sebbene il concetto di credenza sia già presente in bambini di età inferiore a 4 anni, nei test della credenza falsa esso viene mascherato dall’immaturità di un’altra capacità necessaria per la corretta esecuzione del compito: il controllo inibitorio. Il parametro di default di tomm è l’attribuzione di credenze dotate di un contenuto che rispecchia lo stato di cose reale. Dunque, per svolgere il compito della credenza falsa è necessario inibire questo automatismo e selezio-nare un contenuto non fattuale. Questo è il compito di un meccanismo di attenzione selettiva (generale per dominio) che Leslie chiama Selec-tion Processing (sp). Dunque, i bambini di 3 anni falliscono nei compiti della credenza falsa perché posseggono tomm ma non ancora sp.

Ora, ciò che qui più ci interessa è che il modello tomm/sp ha cer-cato conforto in una serie di esperimenti che hanno sottoposto a con-trollo la comprensione di rappresentazioni mentali e pubbliche false in bambini con sviluppo tipico e bambini con asd. Lo studio di Leslie e Thaiss (1992) ha mostrato che i bambini con sviluppo tipico di 3 anni falliscono sia i compiti di falsa credenza standard sia due test meta-rappresentazionali non mentalistici, il compito della foto datata di Zaitchik (1990) e il compito della mappa falsa2. Invece, i bambini con

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asd sono al livello “soffitto” (o prossimi a esso) nei test metarappresen-tazionali non mentalistici, ma falliscono i compiti della credenza falsa. I bambini di 4 anni eseguono con successo tutti i compiti. Secondo Leslie e Thaiss, il modello tomm/sp è in grado di spiegare questi dati: i bambini di 3 anni possiedono tomm ma non ancora sp; i bambini con asd hanno un tomm compromesso ma un sp intatto; i bambini di 4 anni possiedono sia tomm che sp.

Questi risultati sembrano militare, invece, contro la tesi di Perner secondo cui i bambini prima comprendono le rappresentazioni pub-bliche, e quindi applicano questa comprensione ai fenomeni mentali. Se ciò fosse corretto, i bambini con asd dovrebbero trovare difficoltà con entrambi i tipi di rappresentazione; e infatti Perner (1993) pro-pone che il deficit autistico sia riconducibile a una compromissione genetica dei meccanismi deputati allo spostamento dell’attenzione, un danno che ostacola la formazione della base dati necessaria per lo svi-luppo di una teoria della rappresentazione in generale. Ma ciò che la prestazione dei pazienti con asd nei compiti metarappresentazionali

figura 6.1 La giunzione temporo-parietale

Fonte: Morin (2011).

La giunzionetemporo-parietale

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mentalistici e non-mentalistici pare mostrare è una dissociazione tra la comprensione di foto datate e di mappe false e la comprensione di credenze false. Un dato che può essere agevolmente spiegato nel qua-dro dell’approccio specifico per dominio alla mentalizzazione di Le-slie, secondo il quale i bambini con asd manifestano un deficit della comprensione specifico per la rappresentazione mentale ma non per la rappresentazione in generale.

A sostegno di questa interpretazione alcuni studi fmri hanno mo-strato che nella giunzione temporo-parietale destra si registra un segna-le bold elevato quando i partecipanti pensano a credenze false; e però, l’attività della regione è indistinguibile dai livelli a riposo quando i par-tecipanti pensano a foto datate, mappe o indicazioni stradali false (Saxe, Kanwisher, 2003; Saxe, Carey, Kanwisher, 2004; Koster-Hale, Saxe, 2013). Ciò induce a ipotizzare un sostrato neuronale per la dissociazione comportamentale tra la capacità metarappresentazionale mentalistica e quella concernente le rappresentazioni iconiche (cfr. fig. 6.1).

6.2 Introspezione i: la tesi della parità io/altro

Dopo una prima fase in cui le indagini sulla psicologia ingenua hanno avuto come interesse pressoché esclusivo il mindreading (la mentaliz-zazione “in terza persona”), da una decina d’anni a questa parte anche la mentalizzazione “in prima persona” (più comunemente detta “in-trospezione”) è stata fatta oggetto di indagine sistematica. Ciò ha de-terminato una sinergia con altre tradizioni di ricerca, prime fra tutte le indagini sulla dissonanza cognitiva e l’attribuzione causale in psicolo-gia sociale, nonché gli studi neuropsicologici sulla confabulazione (cfr. cap. 8). Lo sforzo di sistematizzare i dati sull’introspezione accumu-lati nel corso di tali indagini ha prevalentemente preso la forma di una teo ria della conoscenza di sé imperniata sull’idea di una “simmetria” o “parità” fra l’io e l’altro (Schwitzgebel, 2016).

In psicologia sociale Daryl Bem è stato il primo a concepire la cono-scenza di sé in termini di parità io/altro. Riferendosi all’orientamento metodologico di Skinner ma con una posizione che presenta affinità anche con l’interazionismo simbolico, la sua teoria della percezione di sé asserisce che gli agenti conoscono i propri stati interni in virtù di un processo del tutto analogo a quello che ha luogo quando si conoscono

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gli stati interni altrui: «gli individui “conoscono” i loro atteggiamenti, emozioni e altri stati interni in parte inferendoli dalle osservazioni del proprio comportamento esplicito e/o dalle circostanze in cui questo si verifica» (Bem, 1972, p. 222).

Nisbett e Wilson (1977) hanno poi sviluppato l’impostazione di Bem nel quadro della teoria della teoria: i dati comportamentali e contestuali sono ora gli input di meccanismi che utilizzano teorie che si applicano in egual misura a noi stessi e agli altri. Avvalendosi del paradigma “attore-osservatore”, Nisbett e Bellows (ibid.) hanno posto a confronto i rapporti introspettivi dei partecipanti (gli attori) con quelli dei controlli (gli osservatori), i quali dovevano basarsi su una descrizione generale della situazione per formulare una previsione in merito alla risposta degli attori. Le previsioni degli osservatori sono ri-sultate statisticamente indistinguibili dai rapporti “introspettivi” degli attori – e altrettanto inaccurate. Dal che si può arguire che i due gruppi hanno prodotto le risposte nel medesimo modo, ovvero «generando o applicando teorie causali simili» (Nisbett, Wilson, 1977, pp. 250-1).

Collocata nella prospettiva della teoria della teoria, la tesi della parità ha trovato consenso anche in psicologia dello sviluppo. Gopnik (1993), per esempio, prende le mosse dalla tesi secondo cui la medesima teoria soggiace il mindreading e l’introspezione, per formulare la seguente pre-visione: qualora la teoria non abbia ancora raggiunto il grado di sviluppo richiesto ai fini dello svolgimento di un compito di mindreading, essa non consentirà neppure l’espletamento del corrispondente compito introspet-tivo. Tale previsione è stata messa alla prova impiegando una variante del test della credenza falsa, nota come “compito degli Smarties” (Gopnik, Astington, 1988). Al bambino veniva mostrato un tubetto di caramelle Smarties e gli si chiedeva che cosa pensasse contenesse: la risposta non poteva essere che “Smarties”. Si apriva quindi la scatola e si mostrava che invece conteneva una matita. Si ricollocava la matita nella scatola che ve-niva nuovamente chiusa; e al bambino si rammentava che fuori della stan-za c’era un amico in attesa di entrare. A quel punto era posta la domanda test in terza persona: «Quando mostrerò al tuo amico la scatola, che cosa penserà che contiene?»; e subito dopo la stessa domanda era posta in pri-ma persona: «Quando la prima volta ti ho fatto vedere la scatola, prima che venisse aperta, che cosa pensavi ci fosse dentro?». I risultati hanno certificato una correlazione significativa fra la capacità del bambino di ri-spondere alla domanda in prima persona e la capacità di rispondere alla domanda riguardante l’altro bambino. Per Gopnik e Astington si tratta

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1977, cit. in Nisbett, Wilson 1977
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di un chiaro caso di prestazione parallela in un compito in prima persona e in un compito in terza persona, così come è previsto dalla tesi della pari-tà. A ciò si può aggiungere che la metanalisi di Wellman, Cross e Watson (2001) ha indicato che nello sviluppo tipico la prestazione nei compiti di credenza erronea in prima e in terza persona è praticamente identica a tutte le età (cfr. fig. 6.2); e che lo studio di Fisher, Happé e Dunn (2005) ha documentato che bambini con asd manifestano il medesimo ritardo nell’esecuzione delle due versioni del compito degli Smarties.

figura 6.2 Analisi di 235 condizioni (117 condizioni “sé” confrontate con 118 condizioni “al-tro”) da cui non emerge alcuna differenza fra le risposte corrette dei bambini a domande concernenti credenze erronee in prima e in terza persona

Fonte: Wellman, Cross, Watson (2001).

5

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3

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–530 40 50 60 70 80 90 100 110

Cor

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(Log

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Anche lo studio di Hurlburt, Happé e Frith (1994), che ha inda-gato la capacità introspettiva di tre adulti con asd, è stato portato a conferma della tesi della parità. I tre partecipanti differivano rispetto al livello di complessità del mindreading. Per superare un test di men-talizzazione del primo ordine si deve comprendere che un determinato agente ha una credenza erronea sul mondo; per superare un test del secondo ordine si deve capire che un agente ha una credenza erronea sulla credenza di un altro agente (questi compiti sono svolti a partire dai 7 anni di età). Robert era in grado di svolgere tutti i compiti del secondo ordine; Nelson riusciva a eseguirne solo alcuni; Peter superava soltanto i compiti del primo ordine. I rapporti introspettivi di questi soggetti sono stati indagati con la tecnica detta del “campionamento dell’esperienza” (Hurlburt, Schwitzgebel, 2007). Il metodo è molto semplice: i soggetti sono muniti di un dispositivo che, a intervalli di tempo prefissati, emette un bip; in quell’istante i soggetti devono cer-care di fissare la loro esperienza mentale e annotarla in un quaderno. I soggetti normali riportano esperienze interne riconducibili a quattro categorie: verbalizzazione interna, immagini visive, pensieri non sim-bolizzati (ossia pensieri senza parole o immagini) e sensazioni (localiz-zate nel corpo). I contenuti dei resoconti introspettivi dei tre pazienti con asd appaiono differenti. Dopo il segnale acustico, Robert e Nel-son hanno descritto soltanto immagini visive e sensazioni. Peter non è stato in grado di riportare alcun evento mentale interno; e se durante alcuni colloqui è stato possibile parlare con lui dell’esperienza interna che stava vivendo, anche in questo caso l’esperienza aveva un caratte-re prevalentemente visivo. Malgrado l’esiguità del campione, l’esperi-mento è stato citato da Carruthers (1996) e Frith e Happé (1999) a sostegno dell’ipotesi che i pazienti con asd abbiano gravi difficoltà ad accedere ai propri eventi mentali; il che confermerebbe che in que-sti pazienti il deficit a carico della teoria psicologica ingenua interessa tanto il mindreading che l’introspezione.

6.3 Introspezione ii: teorie del senso interno

Dunque, psicologia sociale, psicologia dello sviluppo e psicopatologia cognitiva forniscono prove in favore della tesi della parità. Tuttavia, benché sia Bem sia i teorici della teoria sottolineino la simmetria fra

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6. mindreading e introspezione

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l’auto- e l’eteroattribuzione mentalistica, essi lasciano un margine per un tipo di autoconoscenza qualitativamente diversa dalla conoscenza che si ha delle vite mentali altrui. Dunque, nessuno di loro sottoscrive una teoria della parità allo stato puro. Per esempio, Nisbett e Wilson (1977) tracciano una netta distinzione fra i “processi cognitivi” (ossia i processi causali soggiacenti i giudizi, le decisioni, le emozioni e le sen-sazioni) e il “contenuto” mentale (i giudizi, le decisioni, le emozioni e le sensazioni stesse). A questo contenuto il soggetto ha «accesso di-retto», e questo gli consente di conoscerlo «con certezza pressoché totale» (ivi, p. 255). Invece, ai processi che causano il comportamento non si ha alcun accesso (questo punto è ribadito da Wilson, 2002, pp. 17-8). Ma poiché i due psicologi non formulano ipotesi circa questa presunta autoconoscenza diretta, la loro teoria è incompleta.

Al fine di offrire una teoria di quella parte della conoscenza di sé che non ha natura interpretativa, alcuni studiosi hanno compiuto, con maggiore o minore radicalità, un ritorno a posizioni più tradizionali, intendendo l’introspezione come un processo che consente di accede-re in modo relativamente diretto e non interpretativo ad almeno alcu-ni eventi mentali. Secondo queste teorie del “senso interno”, l’intro-spezione non consiste nella consultazione di un repertorio teorico al fine di interpretare informazioni extramentali (dati comportamentali e contestuali); è piuttosto un’operazione che si avvale di meccanismi che ricevono informazioni concernenti il mondo interiore attraverso un canale relativamente diretto. Qui l’aggettivo “interno” non signi-fica necessariamente “non inferenziale”. Il canale di informazioni fra il ricevente (il meccanismo introspettivo) e la fonte (la propria mente) è relativamente diretto nel senso che non si avvale di alcuna “informa-zione esterna”; ma l’inferenza può nondimeno essere richiesta.

Il tentativo di conferire plausibilità psicologica alla concezione del senso interno si declina in varie forme. Secondo la versione elaborata da Nichols e Stich (2003), l’autoattribuzione mentalistica avviene in virtù di meccanismi che elaborano informazioni concernenti il profilo funzionale e il contenuto rappresentazionale degli stati mentali. I due studiosi distinguono fra il riconoscimento (la semplice attribuzione) di uno stato mentale e il ragionamento che su tale stato si può condurre, sottolineando poi come entrambe queste operazioni possono essere effettuate in prima e in terza persona. Ora, mentre il riconoscimento in terza persona e il ragionamento in prima e terza persona poggia-no sulla medesima teoria psicologica ingenua (da questi autori intesa

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come un corpus di informazioni concernenti la mente), i meccanismi deputati a rilevare i propri stati mentali sono del tutto autonomi dai meccanismi che si occupano degli stati mentali altrui. Più precisamen-te, elaborando l’idea di un monitor interno (Armstrong, 1968; Lycan, 1987), Nichols e Stich ipotizzano l’esistenza di due (o più) meccani-smi di monitoraggio (mm): uno (almeno) per monitorare e fornire conoscenza dei propri stati percettivi; un altro per monitorare e for-nire conoscenza dei propri atteggiamenti proposizionali. Dunque, per esempio, se S crede che p, e si attiva l’appropriato mm, questo “copia” la rappresentazione p contenuta nella scatola delle credenze di S, “in-colla” questa copia in uno schema rappresentazionale della forma “io credo che”, e ricolloca questa rappresentazione di secondo ordine nella scatola delle credenze di S.

Come si è detto, per quanto riguarda l’eteroattribuzione di stati mentali e il ragionamento mentalistico sia in prima che in terza perso-na, Nichols e Stich riconoscono la validità della teoria della teoria. Ciò consente loro di delimitare la portata degli esperimenti che attestano effetti di confabulazione: gli errori compiuti dai partecipanti a questi esperimenti riguardano non già l’autoattribuzione di stati mentali ma il ragionamento mentalistico in prima persona. Ossia: comprendere le cause del proprio comportamento richiede di ragionare sugli stati mentali, e questo è senz’altro un processo carico di teoria. Pertanto, se questa teoria (la teoria psicologica ingenua) non ha le risorse necessa-rie per dar conto di una determinata condotta, il soggetto commetterà errori inferenziali in relazione tanto agli stati mentali altrui che a quelli propri. Insomma, la conoscenza di sé può contare su due metodi: è vero, in talune circostanze il soggetto interpreta in base a una teoria (il che può dar luogo a discorsi confabulatori); ma è altresì vero che in altre occasioni egli gode di un accesso alla propria mente che è diretto e non interpretativo (Goldman, 2006).

Dal momento che la teoria degli mm asserisce che l’autoattribuzione mentalistica non si fonda sulla teoria psicologica ingenua, essa prevede la dissociabilità (diacronica e sincronica) fra le capacità di mentalizzare in prima e in terza persona. A conforto di ciò Nichols e Stich sostengo-no – contro Gopnik – che in relazione a taluni compiti sperimentali, in luogo del parallelismo previsto dalla tesi della parità, si riscontrano asincronie evolutive. Un esempio, a parere dei due studiosi, è lo stu-dio di Wimmer, Hogrefe e Perner (1988). Alcuni bambini guardavano o non guardavano dentro una scatola. Dopodiché gli veniva chiesto

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6. mindreading e introspezione

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«Sai o non sai che cosa c’è dentro la scatola?» – questa era la versione in prima persona del compito. Nella versione in terza persona i bambi-ni osservavano un altro bambino che guardava o non guardava dentro la scatola; e quindi gli veniva posta la domanda «Quel bambino sa o non sa che cosa c’è dentro la scatola?». Malgrado la somiglianza fra le due versioni del compito, i bambini riuscivano meglio nella versione in prima persona.

Nichols e Stich citano anche dati concernenti lo svolgimento del compito degli Smarties da parte di pazienti con asd che smentireb-bero quanto sopra asserito da Gopnik e Astington (1988), documen-tando una prestazione significativamente migliore con la domanda in prima persona (per esempio Perner et al., 1989). Nei pazienti con asd, dunque, la consapevolezza di sé potrebbe essere relativamente rispar-miata; una congettura questa che i due studiosi sviluppano nell’ipotesi di una doppia dissociazione fra schizofrenia e autismo. Nei pazienti con asd la capacità di riconoscere i propri stati mentali sarebbe in-tatta a dispetto del deficit che interessa la teoria psicologica ingenua; l’inverso si osserverebbe in pazienti schizofrenici con esperienze di passività.

Per sostenere questa tesi Nichols e Stich negano che lo studio so-pracitato di Hurlburt, Happé e Frith (1994) possa essere interpretato come prova in favore della tesi della parità. Il fatto che da questa ricerca emerga una marcata differenza fra lo spazio interno di un Asperger, prevalentemente popolato da immagini visive e sensazioni corporee, e quello di un soggetto normale, è pienamente congruente con la tesi che negli Asperger i meccanismi basati sulla teoria psicologica ingenua sono compromessi, mentre gli mm continuano a operare a livelli nor-mali. Infatti, a giudizio di Nichols e Stich, le anomalie riscontrate nei resoconti introspettivi dei tre Asperger vanno imputate al ruolo assai limitato che gli stati mentali svolgono nella vita di questi soggetti in conseguenza del deficit che affligge la capacità di mindreading.

A sostegno della loro posizione Nichols e Stich citano anche una serie di studi sulla metamemoria con bambini con sviluppo tipico, con asd e con ritardo mentale (Farrant, Boucher, Blades, 1999). In base alla tesi della parità ci si può aspettare che i bambini asd trovino più difficoltà dei controlli tanto nei compiti di credenza falsa che nei test di metamemoria. Poiché, al contrario, in questi studi non si è riscon-trata alcuna differenza significativa fra la prestazione metacognitiva dei pazienti asd e quella dei controlli, lo studio sembrerebbe portare

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psicopatologia e scienze della mente

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acqua al mulino della teoria degli mm: questa infatti prevede che, an-che in presenza di una compromissione dei meccanismi guidati dalla teoria psicologica ingenua, il riconoscimento dei propri stati mentali può essere intatto, e perciò in grado di garantire prestazioni metaco-gnitive normali.

Nel caso di pazienti schizofrenici con esperienze di passività si os-serverebbe invece la dissociazione opposta a quella osservata nei pa-zienti asd: la compromissione interesserebbe cioè gli mm ma non i meccanismi guidati dalla teoria psicologica ingenua. A tale proposito, Nichols e Stich citano uno studio condotto su quattro pazienti schi-zofrenici, di nuovo con il metodo di campionamento dell’esperienza (Hurlburt, 1990). Due pazienti riferirono esperienze e pensieri strani o “abborracciati” (goofe up); un terzo paziente, sintomatico per tutto il campionamento, si rivelò incapace di svolgere il compito; un quarto paziente fu in grado di svolgere il compito ma solo fino al momento in cui divenne sintomatico. Sembra dunque che in fase sintomatica gli ultimi due soggetti non avessero alcun accesso alla loro esperienza in-terna.

Ciò che ci eravamo aspettati di scoprire nel caso di Joe era che le sue esperien-ze interne fossero inconsuete, magari caratterizzate da immagini “abborrac-ciate” come quelle che aveva descritto Jennifer, o da varie voci che parlavano nello stesso tempo così da non essere intelligibili, o da qualche altro tipo di esperienza interna anormale che avrebbe spiegato […] i suoi deliri. Tuttavia, non si è trovato nulla di tutto questo: Joe, invece, non era capace di descrivere alcun aspetto della propria esperienza (Hurlburt, 1990, pp. 207-8).

Si noti il contrasto tra questa affermazione di Hurlburt e quella di Hurlburt, Happé e Frith (1994) relativa agli Asperger. Il primo si aspet-tava che gli schizofrenici sintomatici fossero in grado di descrivere le loro esperienze interne, mentre i secondi si aspettavano che gli Asper-ger fossero incapaci di farlo. I risultati degli esperimenti testimoniano l’esatto opposto. Gli Asperger, ma non gli schizofrenici sintomatici, sono stati in grado di descrivere le loro esperienze mentali. Se a questo si aggiunge che alcuni studi suggeriscono che i pazienti con sintomi di passività siano in grado di svolgere compiti che misurano la capacità di mentalizzare in terza persona (Corcoran, Mercer, Frith, 1995; Frith, Corcoran, 1996), ecco che la tesi di una doppia dissociazione prende corpo.

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6. mindreading e introspezione

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6.4 Introspezione iii: la variante sensoriale-interpretativa

della tesi della parità

Come abbiamo visto, Nichols e Stich concepiscono l’introspezione come un senso interno, ovvero come un canale quasi-percettivo e di-retto, che consente di accedere a informazioni sulla propria vita psi-cologica. In opposizione al progetto di sviluppare una teoria neuro-cognitiva del senso interno, Carruthers (2011; 2015) ha elaborato una variante della tesi della parità: una teoria della natura e delle fonti della conoscenza di sé che chiama in causa tanto l’accesso sensoriale che l’in-terpretazione – d’ora in poi “teoria isa” (Interpretive Sensory-Access).

Secondo la teoria isa, l’accesso non interpretativo è possibile sol-tanto in relazione a una gamma limitata di stati percettivi; invece, in accordo con la tesi della parità, la conoscenza dei propri pensieri – ossia gli eventi di atteggiamento proposizionale che sono episodici (piutto-sto che persistenti) e dotati di un formato non sensoriale (amodali) – è sempre il frutto di un processo di autointerpretazione che si avvale de-gli stessi canali sensoriali che vengono utilizzati quando si inferiscono gli stati mentali altrui.

Per dar conto della possibilità dell’accesso cosciente agli stati percet-tivi, la teoria isa adotta un’architettura funzionale nota come “spazio di lavoro globale” (global workspace). Inizialmente proposta da Baars (1988; 1997), sulla scorta di ipotesi formulate da Tim Shallice e Micha-el Posner, l’architettura è stata poi sviluppata da Dehaene (2014; Deha-ene et al., 2006) come teoria dello “spazio di lavoro neuronale globale”. Questa teoria postula due spazi neurocomputazionali, ognuno caratte-rizzato da un diverso pattern di connettività. Il primo spazio è costitui-to da una vasta rete di elaboratori modulari, ognuno dei quali è specia-lizzato nel trattare un particolare tipo di informazione (per esempio, nella corteccia occipito-temporale l’elaborazione del colore ha luogo in v4, l’elaborazione del movimento in mt/v5, l’elaborazione dei volti umani nell’area fusiforme delle facce). Le elaborazioni di questi modu-li si avvalgono di connessioni locali limitate e di medio raggio.

I moduli competono fra loro per accedere al secondo spazio, uno spazio di lavoro neuronale globale costituito da un insieme distribuito di neuroni corticali, tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, particolarmente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle re-gioni parietali. Questo circuito fronto-parietale rompe il fronte della

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psicopatologia e scienze della mente

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modularità del sistema nervoso. Quando, in virtù dell’amplificazione attentiva top down, un elaboratore modulare è mobilitato e integrato nello spazio di lavoro globale neuronale, le informazioni da esso elabo-rate (per esempio, i dati sensoriali provenienti dall’ambiente, i dati rela-tivi a eventi interni come le immagini mentali e il monologo interiore, i dati somatosensoriali e propriocettivi) sono “trasmesse” (broadcast) a una folta schiera di sistemi esecutivi, concettuali ed emozionali, i quali “consumano” le informazioni sensoriali per trarre inferenze, costruire ricordi, generare risposte emozionali, formulare giudizi, prendere deci-sioni, pianificare azioni e fornire resoconti verbali (cfr. fig. 6.3).

Tra i sistemi concettuali che formano giudizi (cioè eventi di for-mazione di credenze) vi è un sistema (multicomponenziale) deputato alla mentalizzazione che, guidato dal quadro teorico della psicologia ingenua, genera credenze di ordine superiore sugli stati mentali altrui e propri. Il sistema di mentalizzazione riceve in ingresso gli stati per-cettivi diffusi globalmente, ed è dunque in grado di riconoscere questi percetti e di produrre autoattribuzioni della forma “vedo qualcosa di rosso”, “ho sete”, e così via.

figura 6.3 Lo spazio di lavoro globale e i sistemi consumatori

Fonte: Carruthers (2011).

Multiplo

Sensorio

Spazio di lavoro

Sistemi

Multiplo

Esecutivo

Sistemi

Multiplo

Motorio

Sistemi

Memoriadi lavoro

Sistemi concettualie a�ettivi multipli

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6. mindreading e introspezione

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3. Nel caso della visione, per esempio, le aree sensoriali di livello intermedio sono le regioni extrastriate v2, v3, v4 e mt, che elaborano stimoli visivi per il contrasto, la forma, il colore e il movimento; l’elaborazione soggiacente il riconoscimento ca-tegoriale ha luogo invece nelle aree visive di alto livello, che nel caso della visione comprendono la corteccia temporale ventromediale e quella laterale.

Si noti che la disponibilità dei dati percettivi al sistema di menta-lizzazione è ciò che è legittimo attendersi alla luce dell’ipotesi secondo cui il mindreading si sarebbe evoluto in modo da garantire un vantag-gio adattivo nel perseguimento di finalità sociali: anticipare (e talvolta manipolare) il comportamento di conspecifici (Byrne, Whiten, 1988; Whiten, Byrne, 1997); oppure migliorare il coordinamento in attività cooperative (Richerson, Boyd, 2005; Hrdy, 2009). In modo del tutto evidente, per poter interpretare le azioni altrui i meccanismi di mind-reading devono poterne elaborare la rappresentazione percettiva.

Il sistema di mentalizzazione, allora, può accedere a una gran massa di informazioni percettive, ma non può attribuirsi direttamente pen-sieri (eventi quali “giudicare che qualcosa è vero”, “decidere di fare qual-cosa”, o “intendere attivamente di fare qualcosa”): questi infatti non possono essere diffusi globalmente. Ciò si spiega alla luce del fatto che la diffusione globale ha luogo solo quando i segnali attentivi vengo-no diretti verso le aree cerebrali sensoriali di livello intermedio3. Ne consegue che soltanto eventi mentali dotati di un formato sensoriale possono risultare accessibili alla coscienza. Ne consegue altresì che gli output dei sistemi concettuali consumatori, essendo dotati di un for-mato amodale, sono sempre inconsci.

L’attenzione top down rivolta verso le regioni percettive mediane è necessaria non solo per la percezione cosciente ma anche per de-terminare l’ingresso di contenuti nella memoria di lavoro. Poiché la memoria di lavoro è il sistema che è alla base delle forme coscienti di ragionamento e presa di decisione, tutti i processi riflessivi coscien-ti – contrapposti ai processi intuitivi inconsci – devono avere un fon-damento sensoriale.

Dal momento che non vi sono vie causali fra i sistemi consumatori e il sistema di mentalizzazione, quest’ultimo deve utilizzare le informa-zioni percettive diffuse globalmente, unitamente ad alcune forme di conoscenza cristallizzata, per inferire i pensieri dell’agente impegnato nella mentalizzazione, esattamente come avverrebbe nel caso dell’at-tribuzione di pensieri a un altro agente. Pertanto, quando un agente

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si attribuisce un pensiero ciò avviene sempre in virtù di un’inferenza interpretativa istantanea e inconscia, fondata sulla consapevolezza sen-soriale di dati concernenti il proprio comportamento, dati contestuali e/o elementi sensoriali contenuti nella memoria di lavoro (per esem-pio, un’immagine visiva o una frase del linguaggio interno).

Oltre ai dati sperimentali circa la natura e il fondamento sensoriale della diffusione globale e della memoria di lavoro, Carruthers difende la teoria isa mostrando che predice la confabulazione dei pensieri; e questa è la sua previsione più importante giacché la distingue sotto il profilo empirico dalla teoria del senso interno. Quest’ultima, infatti, può anche spiegare la confabulazione dei pensieri ma solo postulando un duplice accesso a essi, introspettivo e anche interpretativo, rendendo così più involuto l’apparato concettuale.

Consideriamo lo studio di Wegner e Wheatley (1999). Due sog-getti (un partecipante e un complice) appoggiavano le dita su una ta-voletta montata sul mouse di un computer, muovendo un cursore su uno schermo dove comparivano una cinquantina di piccoli oggetti tratti dal libro I Spy (cfr. fig. 6.4). I soggetti dovevano continuare a muovere il mouse finché non giungeva loro un segnale di stop (ogni 30 s circa); a quel punto dovevano assegnare un punteggio su una scala da 0 (“Non sono intervenuto nell’arresto”) a 100 (“Ho avuto l’intenzione di provocarne l’arresto”) per quantificare la percezione dell’intenzione di arrestare il cursore. Il partecipante udiva parole in cuffia (per esempio “cigno”) che avevano la funzione di attivare idee relative agli oggetti sullo schermo. Il complice, invece, in alcune pro-ve udiva l’istruzione di bloccare il cursore accanto a un certo oggetto (“stop forzato”), ma in tutte le altre prove doveva lasciare libero il partecipante di decidere dove posizionare il cursore (“stop liberi”). Ora, secondo la teoria della causazione mentale apparente di Wegner (2017), se un’azione è coerente con un pensiero che l’agente ha avuto in precedenza, e se altre cause potenziali dell’azione non sono pre-senti o salienti, l’agente sperimenterà un senso di agency per l’azione. Ma perché questa esperienza possa aver luogo i pensieri devono fare la loro comparsa entro una specifica finestra temporale. Nello stu-dio I Spy la variabile manipolata dagli sperimentatori è precisamente questa finestra temporale, ovvero l’intervallo intercorrente fra l’a-scolto della parola e l’arresto del cursore: nel caso degli stop forzati, il partecipante udiva in cuffia il nome dell’oggetto bersaglio 30 s, 5 s o 1 s prima dello stop, oppure 1 s dopo.

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Ne è risultato che i partecipanti giudicavano la loro intenzione di bloc-care il cursore accanto a un oggetto più elevata quando avevano udito il nome dell’oggetto 5 s o 1 s prima di essere forzati all’arresto rispetto

figura 6.4 In alto, due soggetti (un partecipante e un complice) appoggiano le dita su una tavoletta (ispirata alla tavola Ouija) montata sul mouse di un computer, e muo-vono il cursore su uno schermo dove compare una foto raffigurante una cinquan-tina di piccoli oggetti. In basso, fluttuazioni nella percezione di intenzionalità a seconda del momento in cui viene udita la parola: se il partecipante ha udito il nome dell’oggetto 5 s o 1 s prima che il cursore si blocchi accanto all’immagine dell’oggetto nominato, giudica la propria intenzione di bloccare il cursore più elevata rispetto a quando sente il nome 30 s prima o 1 s dopo lo stop

Fonte: Wegner (2017).

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Secondi intercorsi tra pensiero e azione

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a quando avevano udito il nome 30 s prima o 1 s dopo lo stop forza-to. Secondo Carruthers, questi risultati sono esattamente ciò che ci si aspetterebbe in base alla teoria isa: quando la parola è udita poco pri-ma che il complice blocchi il cursore accanto all’immagine dell’ogget-to nominato, il sistema di mentalizzazione del partecipante interpreta la coincidenza dell’arresto accanto all’oggetto appena nominato come prova dell’intenzione di arrestare il cursore in quel punto.

Si noti: nell’esperimento appena esaminato non è stata presa alcuna decisione; è stato invece causato un comportamento che ha portato il partecipante a credere di aver preso una decisione. Ma allora un teorico del senso interno potrebbe obiettare: non si può avere introspezione di quello che non c’è. È solo nei casi in cui non c’è una decisione (e di qui generalizzando: in cui non si è formato alcun pensiero) che il soggetto interpreta sé stesso; invece, ogni volta che una decisione c’è, è possibi-le prenderla a oggetto di introspezione. Si tratta però di un’obiezio-ne fragile. Supponiamo pure che vi siano due metodi distinti con cui attribuia mo decisioni a noi stessi (uno introspettivo e l’altro interpreta-tivo). Ma non è strano che il metodo interpretativo debba sempre pre-valere nei casi in cui non viene presa alcuna decisione? Un meccanismo introspettivo non dovrebbe avere difficoltà a rilevare un’assenza; e se tale meccanismo segnala che non è stata presa alcuna decisione, mentre nel contempo il sistema di mindreading dà luogo all’autoattribuzione di una decisione, non si capisce perché dovrebbe essere il secondo ad avere sempre la meglio sul primo, dando luogo a risposte confabulate alle domande dello sperimentatore. Insomma, l’introspezione di per sé non ha alcuna proprietà che possa far ipotizzare che la macchina interpretativa prenda il sopravvento tutte le volte che il meccanismo introspettivo segnala che nessuna decisione è stata presa. Una simile ipotesi potrebbe aggiungersi alla teoria che postula l’impiego di due metodi per autoattribuirsi le decisioni solo come un assunto ausiliare puramente ad hoc.

Nella misura in cui la teoria isa riconduce introspezione e mind-reading all’operato di un unico sistema di mentalizzazione, essa ne esclude la dissociazione – prevista invece da Nichols e Stich (2003).

Consideriamo innanzitutto i pazienti schizofrenici con esperienze di passività. Al contrario di quanto sostengono Nichols e Stich, la let-teratura documenta una stretta associazione fra schizofrenia e deficit di mindreading (Brüne, 2005; Sprong et al., 2007). Inoltre, uno stu-dio fmri ha mostrato che alcuni pazienti schizofrenici con esperienze

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di passività sono effettivamente riusciti a svolgere semplici compiti di mentalizzazione in terza persona, ma ciò è stato realizzato mobilitan-do una rete di aree cerebrali diversa da quella utilizzata dal gruppo di controllo composto da soggetti normali. Si può pertanto affermare che questi pazienti non possiedono un sistema di mentalizzazione norma-le, anche se poi riescono in vari modi a compensare (parzialmente) l’anomalia.

Un altro argomento contrario alla tesi di Nichols e Stich consiste nel far rilevare che la compromissione di un sistema deputato alla men-talizzazione in prima persona non è il modo migliore per spiegare le esperienze di passività. Un’ipotesi alternativa chiama in causa la com-promissione del cosiddetto sistema comparatore (cfr. cap. 9).

Quando un comando motorio è inviato dal centro alla periferia per dar luogo a un’azione, viene creata una “copia” delle istruzioni motorie, da cui si origina un modello che predice le conseguenze sensoriali del movimento (ossia una rappresentazione del suo esito previsto). Questo modello predittivo è inviato, per l’appunto, a un sistema comparatore, che riceve feedback sensoriali dall’azione in corso di svolgimento. Nel momento in cui il sistema identifica discrepanze fra l’esito previsto e quello che di fatto si sta delineando, attiva un algoritmo che consente di apportare rapide correzioni alle istruzioni motorie (e, conseguente-mente, alle contrazioni dei muscoli in periferia), in modo da ottenere una corrispondenza più stretta. Secondo Frith e colleghi (2000), la sensazione dell’essere soggetto agente è riconducibile ai meccanismi del sistema comparatore. L’ipotesi è che una congruenza fra lo stato previsto e quello effettivo viene utilizzata dal sistema cognitivo per re-gistrare un evento sensoriale come causato dall’agente stesso, laddove un’incongruenza porta a registrare tale evento sensoriale come causato esternamente.

Ora, uno degli effetti normali del sistema comparatore è quello di “attutire” l’esperienza di tutte quelle informazioni percettive in ingres-so che corrispondono alle previsioni del modello anticipatorio. Il che è ragionevole: se tutto procede secondo le attese, non occorre che vi si faccia attenzione. Di norma, allora, l’esperienza sensoriale che faccia-mo dei nostri movimenti è fortemente attenuata – e questo spiega per-ché in condizioni normali è impossibile farsi il solletico da soli. Ma se non viene creato alcun modello anticipatorio, le percezioni derivanti dall’azione sono esperite senza alcun filtro, come se i movimenti fosse-ro stati prodotti da un’altra persona. L’assenza di un modello anticipa-

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torio potrebbe essere perciò all’origine delle esperienze di passività nel paziente schizofrenico.

Veniamo ora ai pazienti con asd. Tornando allo studio sull’intro-spezione dei tre Asperger, si può innanzitutto osservare che i risultati attestano una stretta correlazione fra la capacità di eseguire i compiti di mindreading e la capacità introspettiva. Questo è un dato problemati-co per la tesi che nei pazienti asd l’introspezione è preservata mentre il mindreading è compromesso. Inoltre, la teoria isa prevede che questi pazienti saranno perfettamente in grado di riferire percezioni, imma-gini e sensazioni corporee: questi eventi sono infatti trasmessi global-mente e quindi resi direttamente accessibili alle capacità mentalistiche dei pazienti asd, che, sebbene danneggiate, sono ancora parzialmente operative. A conferma di tale previsione, si può osservare che i resocon-ti introspettivi di Robert e di Nelson contenevano soprattutto imma-gini visive e sensazioni fisiche, mentre le descrizioni dei pensieri ten-devano a essere estremamente generiche (“stavo pensando…” piuttosto che “stavo decidendo…”). Peter invece non è stato in grado di riferire alcun pensiero.

È legittimo avanzare dubbi anche sull’impiego dello studio sulla metamemoria come prova dell’integrità della metacognizione nei pazienti asd, e per almeno due ragioni. Innanzitutto, quasi tutti i pa-zienti asd che hanno preso parte alla ricerca sono stati in grado di ese-guire compiti di credenza erronea del primo ordine; pertanto nulla im-pedisce al teorico della parità di prevedere che questi pazienti abbiano conservato una capacità residua di lettura della propria mente, e con essa la capacità di superare semplici test di metamemoria. In secondo luogo, e cosa ancor più rilevante, nessuno dei test di metamemoria ri-chiedeva al soggetto di attribuirsi pensieri; al contrario, questi compiti potevano essere svolti da chiunque fosse stato in possesso dei concetti mentali necessari e avesse adottato una strategia comportamentista. Per esempio, un test era volto a stabilire se i bambini asd comprende-vano che fra due insiemi di figure quello contenente il minor numero di elementi era il più semplice da apprendere. Nessuno ha avuto diffi-coltà a superare questo test, e ciò si spiega facilmente alla luce del fatto che in questo esperimento l’età media dei bambini asd era di 11 anni e quindi, nel corso degli anni di scuola, essi avevano avuto senz’altro l’opportunità di stabilire una correlazione attendibile fra il numero di elementi studiati in un compito e il numero di risposte poi valutate come corrette.

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Pertanto, i dati sull’autismo proposti da Nichols e Stich non con-fermano l’ipotesi di una dissociazione fra introspezione e mindread-ing. Ma ancor più decisivo è il fatto che disponiamo di altri dati che evidenziano una chiara difficoltà da parte dei bambini autistici nell’au-toattribuzione di pensieri. Uno studio di Williams e Happé (2010) ha indagato la capacità di attribuire le intenzioni sia in terza che in prima persona. In un esperimento, i partecipanti (bambini con disturbi dello spettro autistico e controlli dallo sviluppo tipico e atipico) erano invi-tati a completare un disegno su una pellicola trasparente (per esempio, un ragazzo che canta in un coro ed è privo di un orecchio). All’insaputa del bambino, un secondo trasparente su cui compariva un altro dise-gno incompleto (per esempio, una tazzina da caffè priva del manico) era stato sovrapposto in cima al primo trasparente. In tal modo, i par-tecipanti finivano inintenzionalmente col completare il disegno nella parte superiore del trasparente, ossia il manico della tazzina, piuttosto che il disegno nella parte inferiore, ovvero l’orecchio del ragazzo. Una volta rivelato lo stratagemma, al bambino veniva posta la domanda test: «Che cosa avevi intenzione di disegnare?». In una fase successiva, i bambini guardarono un video in cui lo stesso compito era eseguito da un altro bambino; e la stessa domanda test gli fu posta in terza persona. Ebbene, in relazione alla capacità di identificare le intenzioni proprie e altrui i bambini asd hanno fornito una prestazione significativamente peggiore rispetto ai bambini dallo sviluppo atipico (ma “associati” per abilità) (cfr. fig. 6.5). E in entrambi i gruppi il successo è risultato for-temente correlato col successo in un certo numero di compiti della cre-denza erronea. Da questi dati sembra possibile arguire che nei bambini asd la capacità di attribuire intenzioni è deficitaria tanto in prima che in terza persona, e che entrambi i deficit discendono dalle difficoltà che questi bambini hanno con la mentalizzazione in generale.

Williams e Happé (2009) hanno anche riconsiderato la questione della prestazione dei bambini autistici nel compito degli Smarties, che sopra abbiamo visto essere controversa. I due studiosi hanno ragionato che siccome nel compito degli Smarties viene chiesto al partecipante di dire che cosa pensava fosse contenuto nel tubetto prima della sua apertura, egli potrebbe eseguire il compito ricordando ciò che ha detto in precedenza, e non già ricordando o ragionando sulla sua precedente credenza. È stata perciò approntata una versione del compito in grado di suscitare la credenza spontaneamente, senza ricorrere all’espressio-ne verbale. All’inizio del colloquio lo sperimentatore fingeva di essersi

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Testo inserito
di falsa credenza
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figura 6.5 In alto, due trasparenti utilizzati nell’esperimento di Williams e Happé. In basso, percentuale (e numero) di bambini con asd (disturbi dello spettro autistico), dd (con ritardo evolutivo) e td (con sviluppo tipico) che hanno risposto corretta-mente a due domande test: 1) «Che cosa intendevi disegnare?» (Significato); 2) «Quando stavi disegnando, che cosa pensavi di star disegnando?» (Pensiero). Nella condizione in prima persona (Sé) i partecipanti asd hanno offerto una prestazione significativamente inferiore a quella dei partecipanti dd in relazione alla domanda Significato ma non a quella Pensiero. Nella condizione in terza per-sona (Altro) gli asd hanno fornito una prestazione significativamente inferiore a quella dei dd sia in relazione alla domanda Significato sia alla domanda Pensiero

Fonte: Williams, Happé (2010).

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sul pensiero
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Terza persona: domanda sul pensiero
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6. mindreading e introspezione

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ferito un dito e chiedeva al soggetto di prendergli un cerotto in un am-biente in cui differenti tipi di contenitore erano ben visibili ma fuori della portata dello sperimentatore. Quando il bambino apriva la scato-la dei cerotti, scopriva che conteneva matite colorate. Furono quindi poste le consuete domande in prima e in terza persona; e si constatò che i bambini autistici fornivano in entrambe le versioni del compito una prestazione peggiore di quella dei controlli.

L’ipotesi di una doppia dissociazione fra autismo e schizofrenia ap-pare dunque estremamente problematica.

6.5 Conclusioni

In questo capitolo abbiamo ripercorso alcune delle tappe principali nella storia ormai più che trentennale della tesi che assegna ai difetti di mentalizzazione un ruolo decisivo nell’eziopatogenesi di alcuni aspetti dell’autismo e della schizofrenia.

Nel caso della conoscenza delle menti altrui abbiamo visto come i disturbi dello spettro autistico siano stati impiegati come banco di prova nel dibattito che ha visto contrapposto l’approccio innatistico-chomskiano di Alan Leslie a quello costruttivista-piagetiano di Josef Perner.

Nel caso invece della conoscenza della propria mente abbiamo visto come ai dati relativi all’autismo e alla schizofrenia sia stato attribui-to un ruolo decisivo nel dirimere la controversia tra teoria della parità e teoria del senso interno. Infatti, la teoria della parità nella raffinata versione elaborata da Carruthers (2011) sarebbe confutata qualora si fornissero prove di una dissociazione fra introspezione e mindreading. La teoria isa, infatti, esclude la possibilità di tale dissociazione nella misura in cui sostiene che la comprensione della propria mente e quella della mente altrui si basano sulla stessa facoltà di mentalizzazione e gli stessi canali sensoriali (sebbene talvolta ricorrano a dati differenti, come il discorso interno o le immagini visive nel caso dell’introspezio-ne). Al contrario, Nichols e Stich (2003) sostengono che i dati relativi a pazienti con esperienze di passività e pazienti con asd avvalorano precisamente l’esistenza di una doppia dissociazione fra introspezione e mindreading.

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Nel 1923 Capgras e Reboul-Lachaux studiarono il caso di una donna sposata di 53 anni (Madame M.) che manifestava ciò che chiamarono “illusione del sosia”. Madame M. presentava una storia di 10 anni di psicosi ed era stata ricoverata nei 5 anni precedenti. La paziente espri-meva la credenza delirante che persone da lei conosciute bene fosse-ro state rimpiazzate da impostori che lei stessa definiva “sosia”. Tale credenza faceva parte di un sistema delirante ben elaborato con due temi fondamentali: lei era stata sostituita alla nascita e non era vera-mente sé stessa ma l’ereditiera di una grande fortuna; c’era un intricato complotto contro di lei per rubare la sua proprietà e la sua eredità che comportava furti e avvelenamenti come pure sostituzioni di una per-sona con un’altra e che implicava anche la sparizione di persone. La sostituzione con dei sosia coinvolse tutti i membri della sua famiglia inclusa sé stessa, così come anche molti altri individui presenti nel suo ambiente. Migliaia di persone erano state duplicate e questi impostori la perseguitavano.

Oggi la sindrome di Capgras è descritta nei manuali di psicopatolo-gia descrittiva (per esempio Oyebode, 2018) come una forma di delirio lucido, circoscritto (ossia relativamente non elaborato) e monotemati-co, appartenente alla famiglia delle sindromi deliranti che comportano una identificazione errata (Delusional Misidentification Syndromes). Si tratta di un insieme di disturbi deliranti accomunati dalla convinzione che l’identità di un oggetto, di una persona o di un luogo sia stata in qualche modo alterata (Christodoulou, 1991). Accanto alla sindrome di Capgras, si possono menzionare il convincimento di non essere più in vita (il delirio di Cotard); la credenza che individui differenti sia-no in realtà un solo individuo che altera le proprie sembianze al fine di perseguitare il paziente (il delirio di Fregoli); la convinzione che la

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Credenze delirantidi Aurora Alegiani, Emiliano Loria e Massimo Marraffa

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psicopatologia e scienze della mente

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persona che si osserva allo specchio sia in realtà qualcun altro (la misi-dentificazione di sé stessi allo specchio).

In questo capitolo ci concentreremo sul delirio di Capgras. Dopo un primo tentativo di spiegare questo disturbo delirante secondo cate-gorie psicodinamiche, la constatazione che il 35% dei deliri di Capgras evidenzia una chiara eziologia organica (un danno all’emisfero de-stro  –  Signer, 1994), unitamente all’applicazione di un preesistente modello funzionale del riconoscimento dei volti (Bruce, Young, 1986), condussero a una spiegazione eziopatogenetica a carattere neuroco-gnitivo. In una relazione dal titolo The cognitive neuropsychiatric ori-gins of the Capgras delusions, presentata nel 1991 a Londra da Hadyn Ellis nel contesto dell’International Symposium on Neuropsychology of Schizophrenia, venne proposto quello che sarebbe poi diventato il paradigma di un’indagine di “neuropsichiatria cognitiva” (termine che qui compare per la prima volta) (Coltheart, 2007; Sirgiovanni, 2014).

7.1 Il delirio come spiegazione di un’anomalia percettiva

La relazione di Ellis era un’esposizione del modello neurocognitivo del de-lirio di Capgras elaborato da Ellis e Young (1990). Come osserva Coltheart (2007), questo articolo, insieme a Stone e Young (1997) e Frith (1992), fa parte dei contributi che sono all’origine della neuropsichiatria cognitiva.

La cornice di riferimento di Ellis e Young (1990) è la concettua-lizzazione del delirio proposta dallo psichiatra Brendan Maher: «Un delirio è un’ipotesi volta a spiegare fenomeni percettivi inconsueti e sviluppata in virtù dell’operare di processi cognitivi normali» (Maher, 1974, p. 103; cfr. anche Maher, 1988; 1992; 1999). Più precisamente, Maher formula quattro ipotesi. 1. I deliri sono credenze e, al pari delle normali credenze, nascono dal tentativo di spiegare l’esperienza. 2. I processi attraverso cui i pazienti deliranti ragionano dall’esperien-za alla credenza non sono differenti in modo significativo dai processi dei soggetti normali. 3. Non è un ragionamento difettoso su una normale esperienza perso-nale a costituire il contributo primario per la formazione della creden-za delirante, ma è la natura e l’intensità dell’esperienza fenomenologi-ca a differenziare la credenza delirante dalla credenza non delirante.

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7. credenze deliranti

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4. L’origine dell’esperienza anomala è da ricercarsi in qualche disfun-zione neuropsicologica.

La concezione del delirio proposta da Maher adotta un approccio bottom up, per cui la spiegazione causale muove dall’esperienza verso la credenza, diversamente da quanto accade nell’approccio top down in cui la direzione della spiegazione causale s’inverte (cfr. Bortolot-ti, 2018, par. 3.2). Tra le possibili disfunzioni neuropsicologiche da cui origina il delirio, Maher elenca vari tipi di deficit a carico del sistema sensoriale. Il delirio è quindi un disturbo percettivo; e il pa-ziente delirante non è irrazionale; al contrario, è alla ricerca di una spiegazione razionale per i propri percetti anomali. Per il sostenitore dell’approccio top down, invece, il delirio è «un disturbo che interes-sa alcune credenze fondamentali del soggetto, che può di conseguen-za influenzare esperienze e azioni» (Campbell, 2001, p. 89).

In questo quadro teorico, Ellis e Young (1990) formulano l’ipo-tesi secondo cui la sindrome di Capgras è la condizione speculare della prosopoagnosia. In seguito a lesioni unilaterali dell’emisfero destro o, più spesso, a lesioni bilaterali delle zone posteroinferiori degli emisferi (soprattutto del giro fusiforme), il paziente prosopoa-gnosico perde apparentemente la capacità di riconoscere visivamente i volti delle persone note – nei casi più gravi non riconosce neppure il coniuge o i propri figli, e persino la propria immagine riflessa nello specchio. A dispetto di tale incapacità, tuttavia, questi pazienti sono ancora in condizione di fornire intense risposte di conduttanza cu-tanea di fronte a foto di volti noti (vs volti sconosciuti) (Bauer, 1984; Tranel, Damasio, 1985). In altri termini, i pazienti prosopoagnosici sono in grado di riconoscere implicitamente (covertly) i volti noti, malgrado non siano in condizione di riconoscerli esplicitamente (overtly).

Se la prosopoagnosia è il risultato della compromissione del si-stema deputato al riconoscimento esplicito dei volti, che lascia però intatto un sistema di riconoscimento implicito (un meccanismo che identifica emozionalmente il volto noto, dando luogo a un senti-mento di familiarità), il neuropsicologo può chiedersi se esista la dissociazione opposta. Per Ellis e Young (1990) questo è il caso del paziente Capgras: il suo riconoscimento esplicito è intatto, mentre il riconoscimento implicito è compromesso. La credenza delirante che una persona bene conosciuta sia stata sostituita da un imposto-re potrebbe essere allora una strategia di razionalizzazione dell’e-

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psicopatologia e scienze della mente

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sperienza anomala: il paziente riconosce che la persona che ha di fronte ha le sembianze della persona ben conosciuta, ma la normale sensazione di familiarità è assente (vi è anzi una sensazione di non familiarità).

La conferma dell’ipotesi secondo cui i pazienti Capgras ricono-scono esplicitamente i volti familiari in assenza però della risposta autonomica è venuta da uno studio di Ellis e colleghi (1997), in cui a cinque pazienti Capgras furono mostrati volti noti e volti sconosciu-ti. La figura 7.1 riassume i risultati: l’incremento di risposta ai vol-ti noti riscontrato nei due gruppi di controllo (5 pazienti psichiatrici non-Capgras e 5 soggetti normali) si è rivelato assente o quanto meno fortemente ridotto nei pazienti Capgras. Hirstein e Ramachandran (1997) hanno replicato il risultato; e Brighetti e colleghi (2007) hanno

figura 7.1 Grafico che mostra le risposte di conduttanza cutanea (Skin Conductance Re-sponse, scr) medie a volti noti (barre chiare) e volti sconosciuti (barre scure) in tre gruppi di soggetti. I normali e i pazienti psichiatrici non-Capgras forniscono risposte più intense ai volti noti che a quelli sconosciuti. Questa differenza è as-sente nei Capgras

Fonte: Ellis e Lewis (2001).

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7. credenze deliranti

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figura 7.2 Il modello dell’elaborazione delle facce “a una via” proposto da Bruce e Young. Le informazioni concernenti l’identità del volto sono ricavate da meccanismi situati lungo un singolo cammino, che è parallelo ai cammini in cui vengono elaborati l’espressione del volto e i codici analogici dell’immagine

Fonte: Bruce, Young (1986).

Analisidell’espressione Descrizioni

centrate sulla vista

Analisilinguaggio

facciale

Elaborazionevisiva

diretta

Unitàdi riconoscimento

facciale

Nodidi identitàpersonale

Generazionedi nomi

Descrizioniindipendenti

dall’espresione

Sistemacognitivo

Decodi�castrutturale

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espressione
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delle facce
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Produzione
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nome
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centrate sull'osservatore
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Analisi delle informazioni relative al volto utilizzate ai fini della comprensione linguistica
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psicopatologia e scienze della mente

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mostrato che l’inefficacia della familiarità del volto sulla risposta auto-nomica alle facce nel delirio di Capgras si osserva quando i volti noti non sono volti famosi ma piuttosto i volti dei membri della famiglia del paziente, ossia i volti delle persone su cui verte il delirio.

La doppia dissociazione osservata nei pazienti Capgras e nei pro-sopagnosici fra il riconoscimento esplicito dei volti e quello autono-mico non consapevole imponeva una revisione dell’influente modello di elaborazione delle facce “a una sola via” proposto da Bruce e Young (1986 – cfr. fig. 7.2) in favore di un modello “a due vie”.

Nel già citato studio di Bauer (1984) il fatto che il prosopoagnosico fosse capace di discriminazione autonomica dei volti in assenza di rico-noscimento esplicito aveva fatto ipotizzare l’esistenza di due cammini neuronali deputati al riconoscimento visivo dei volti distinti e indipen-denti. Il primo, legato al riconoscimento esplicito dei volti sulla base di informazioni semantiche, coinvolge le strutture “ventrali” situate lun-go il fascicolo longitudinale fra la corteccia visiva e il sistema limbico. Il secondo, legato al riconoscimento implicito dell’aspetto emozionale del volto familiare, è un cammino “dorsale” che parte dalla corteccia visiva, passa attraverso il solco temporale superiore (sts), il lobo parie-tale inferiore (ipl) e il giro del cingolo, per giungere al sistema limbico (soprattutto all’amigdala). Dunque, se nel prosopoagnosico è la via ventrale a essere danneggiata, nel Capgras la lesione sarà a carico della via dorsale (cfr. fig. 7.3).

Nel valutare il modello di Bauer è importante distinguere la tesi generale secondo cui il riconoscimento implicito e quello esplicito richiedono vie dissociabili dalle specifiche proposte in merito all’im-plementazione cerebrale. La neurologia ipotizzata da Bauer è stata infatti criticata da Breen, Caine e Coltheart (2000), in linea con precedenti commenti di Hirstein e Ramachandran (1997) e Tranel, Damasio e Damasio (1995). Nel cammino visivo dorsale non sono identificabili strutture in grado di riconoscere volti o produrre ri-sposte emozionali a stimoli familiari – è oramai un dato consolidato che il cammino dorsale è associato al controllo visivo dell’azione, mentre il cammino ventrale è associato all’identificazione di un og-getto. Piuttosto, sostengono Breen, Caine e Coltheart, il riconosci-mento esplicito dei volti può essere opera di strutture situate lungo il solo cammino ventrale, mentre le risposte emozionali ai volti sono prodotte da strutture limbiche ventrali (in particolare l’amigdala). Questi studiosi hanno quindi proposto un modello di elaborazione

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7. credenze deliranti

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delle facce a due vie in cui dalle “unità di riconoscimento dei volti” postulate dal modello di Bruce e Young (cfr. fig. 7.2) si diparto-no due cammini, verosimilmente realizzati dalle strutture ventra-li appena menzionate. Il primo cammino a è diretto a un sistema contenente informazioni semantiche e biografiche relative al volto (i nodi dell’identità personale); l’altro cammino b media la risposta emozionale/autonomica ai volti familiari (cfr. fig. 7.4). A tale mo-dello Ellis e Lewis (2001) hanno aggiunto un apparato deputato a integrare gli output delle due vie di elaborazione.

Un’anomalia a carico della via a determinerà la perdita della capa-cità di riconoscere esplicitamente le facce ed è perciò una spiegazione della prosopoagnosia. Un’anomalia a carico della via b determine-rà invece una compromissione della risposta emozionale a un volto. L’apparato di integrazione confronterà allora la risposta emozionale

figura 7.3 I due cammini neuronali ipotizzati da Bauer (1984). Il cammino visuolimbico dorsale – legato al riconoscimento implicito dell’aspetto emozionale del volto familiare – è costituito dalla corteccia associativa visiva (vis), il solco temporale superiore (sts), il lobo parietale inferiore (ipl), il giro del cingolo (cg) e l’ipo-talamo (hy). Il cammino visuolimbico ventrale – deputato al riconoscimento esplicito delle facce – è costituito dalla corteccia associativa visiva (vis), il lobo temporale inferiore (it), l’amigdala (a) e l’ipotalamo (hy). La via ventrale è dan-neggiata nel prosopagnosico; nel Capgras la lesione è a carico della via dorsale

Fonte: Breen, Caine, Coltheart (2000).

IPLCG

HYA

IT

STSVIS

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delle facce
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psicopatologia e scienze della mente

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attesa con la risposta effettiva (ridotta); ciò determinerà un processo di attribuzione che darà luogo alla credenza delirante del paziente Capgras.

7.2 Il modello bifattoriale

Il modello della sindrome di Capgras proposto da Ellis e Young è una versione monofattoriale dell’approccio bottom up al delirio. L’unica compromissione sofferta dal paziente è di ordine percettivo; operano

figura 7.4 Il modello di riconoscimento delle facce a due vie ricavabile dalle proposte di Breen, Caine, Coltheart (2000) e Ellis, Lewis (2001)

Fonte: Berti (2010).

Inputvisivo

Codi�ca strutturale

Analisiespressione

Codicilinguistici

Codicivisivi

A B

C

Apparatodi integrazione

Processidi attribuzione

Unità di riconoscimentodei volti

Produzionedel nome

Recuperodel nome

Unitàdi informazione

semantica

Rispostaa�ettiva/

autonomicaai volti

Rispostadi conduttanza

cutanea

Nododell’identità

personale

Rispostadi allerta

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delle facce
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emotiva
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7. credenze deliranti

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1. Nel modello in fig. 7.4 si cerca di spiegare la prestazione di questi pazienti contemplando l’eventualità di una lesione nella via c, che darà luogo alla perdita della risposta di conduttanza cutanea differenziale per i volti familiari/non familiari senza esitare nel delirio.

invece normalmente i processi centrali di fissazione delle credenze, os-sia i processi che assumono in ingresso stati percettivi per generare in uscita stati doxastici.

Si è però obiettato che l’anomalia percettivo-emozionale non è suf-ficiente, da sola, a generare il delirio (per esempio Coltheart, 2007; Davies et al., 2001). Qualora lo fosse, ogni paziente neuropsicologico che presenta una disconnessione fra il sistema di riconoscimento dei volti e il sistema autonomico dovrebbe manifestare anche il delirio di Capgras – il che non avviene. Tranel, Damasio e Damasio (1995) han-no mostrato che pazienti con lesioni alle regioni ventromediali della corteccia frontale sono simili ai pazienti Capgras in quanto anche nel loro caso non si riscontra un incremento della risposta autonomica di fronte a volti noti (vs volti sconosciuti); tuttavia essi non professano credenze deliranti1.

Si noti che questa difficoltà a carico dell’ipotesi monofattoriale non riguarda soltanto il delirio di Capgras. A ogni paziente che produ-ce una credenza delirante per razionalizzare un’anomalia esperienziale conseguente a un danno cerebrale, sembra corrispondere un paziente neuropsicologico che, pur esperendo la medesima anomalia, non è de-lirante (cfr. la tabella riportata da Coltheart, Menzies, Sutton, 2010, pp. 267-8). Per esempio, una lesione cerebrale che ha reso il sistema autonomico del paziente iporeattivo a tutti gli stimoli dà luogo all’as-senza di una risposta emotiva al proprio ambiente; nulla riesce più ad avere una qualche rilevanza emotiva per il paziente, al punto che l’u-nico modo per lui di spiegarsi razionalmente questa totale assenza di emozioni rimane quello di credere di esser morto (il delirio di Cotard). Anche in questo caso, però, vi sono studi su pazienti neuropsicologici in cui all’assenza di reattività autonomica a qualunque stimolo non si accompagna alcuna credenza delirante (Heims et al., 2004; Magnifico et al., 1998).

Questa difficoltà in cui si avvolge l’ipotesi monofattoriale ha mo-tivato l’elaborazione di versioni bifattoriali dell’approccio bottom up al delirio. Il modello bifattoriale segue Maher sia nel ritenere che un’esperienza anomala sia un fattore nell’eziologia del delirio sia nel

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psicopatologia e scienze della mente

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ricondurre tale esperienza a un deficit o a un’anomalia neuropsicolo-gica – pertanto la spiegazione causale procede ancora dall’esperienza alla credenza. Il modello però respinge la tesi di Maher secondo cui l’esperienza anomala è normalmente sufficiente per la produzione del delirio; al deficit percettivo si aggiunge un problema che affligge i pro-cessi centrali di formazione e mantenimento della credenza (il pensie-ro dunque, piuttosto che la percezione).

Si noti che entrambe le versioni, mono- e bifattoriale, dell’approc-cio bottom up al delirio condividono una “tesi di razionalità”: la cre-denza delirante è una risposta in larga misura razionale all’esperienza estremamente insolita del paziente (Pacherie, Bayne, 2004). È vero, di-versamente da Maher i “bifattorialisti” ammettono che il paziente de-lirante non è completamente razionale – non sempre egli è sensibile alle tensioni fra la credenza delirante e le altre sue credenze come dovrebbe esserlo un soggetto razionale. Questo discostarsi dalle norme della ra-zionalità epistemica non è però così grave da impedire di concepire il delirio come «un’interpretazione comprensibile (ossia sensata) di un deficit percettivo» (Stone, Young, 1997, p. 357).

Organica alla tesi di razionalità è la distinzione fra deficit e bias (Bentall, 1995). Un deficit cognitivo rispecchia un certo grado di inca-pacità nell’elaborare un certo tipo di informazione, mentre un bias co-gnitivo riflette una tendenza a utilizzare tale informazione in un modo particolare. La distinzione è importante perché si possono ricondurre i deficit alla compromissione di meccanismi normali, mentre i biases si limitano a rispecchiare il particolare modo di operare di quelli che altrimenti sono meccanismi affatto normali. Il ricorso ai biases riduce perciò la distanza tra credenze normali e deliranti, situandole in un continuum piuttosto che nelle categorie del “razionale” e del “chiara-mente folle”.

Secondo alcuni sostenitori del modello bifattoriale, allora, le cre-denze deliranti hanno origine dall’interpretazione erronea che il pa-ziente elabora della propria anomalia esperienziale; e questa interpre-tazione è il prodotto di qualche forma di bias cognitivo (Stone, Young, 1997, p. 341).

Innanzitutto, Philippa Garety e colleghi (Garety, Helmsley, Wes-sely, 1991; Garety, Hemsley, 1994; Garety, Freeman, 1999; Fine et al., 2007) hanno osservato che i pazienti deliranti manifestano spesso un bias nella raccolta di informazioni. Il paziente non assegna sufficien-te peso alle possibilità alternative e/o richiede meno informazioni

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7. credenze deliranti

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circa l’esito probabile di un evento prima di trarre una conclusio-ne: tende cioè a “saltare alle conclusioni” ( jump to conclusion). Nel caso specifico del delirio di Capgras, questo bias potrebbe far sì che il paziente, una volta convintosi che l’ipotesi “mio padre è stato so-stituito da un impostore” sia una spiegazione plausibile della propria esperienza, muova troppo rapidamente al giudizio che questa ipotesi è in effetti vera.

Il bias del jump to conclusion non spiega però il particolare conte-nuto dell’ipotesi adottata dal paziente delirante. Indicazioni a tale riguardo vengono dagli studi condotti da Richard Bentall e colleghi sui biases attributivi – biases riguardanti le spiegazioni che il sogget-to fornisce del proprio e altrui comportamento. Per esempio, Kaney e Bentall (1989; 1992) hanno mostrato che, rispetto ai soggetti normali, i pazienti che soffrono di deliri di persecuzione tendono a incolpare altre persone degli eventi negativi e a prendersi il merito degli even-ti positivi. Qui sarebbe perciò all’opera un self-serving bias, ovvero un meccanismo per mantenere l’autostima.

I pazienti che soffrono di deliri di persecuzione manifestano altresì un bias nell’impiego di risorse attentive e mnemoniche in favore di stimoli correlati a minacce. Questi pazienti non riescono a evitare di rivolgere l’attenzione al significato di parole che si riferiscono a mi-nacce. In modo simile, le parole che si riferiscono a tratti negativi sono particolarmente salienti per i pazienti che soffrono di depressione. Il dato che i pazienti che soffrono di deliri di persecuzione manifestano il medesimo effetto in relazione alle parole che si riferiscono a tratti ne-gativi consolida l’idea che questi pazienti hanno un concetto di sé ne-gativo implicito ma negato esplicitamente (Bentall, Kinderman, 1998, p. 130; cfr. anche Lyon, Kaney, Bentall, 1994). Secondo Bentall, i biases osservati inducono a ipotizzare che i deliri di persecuzione abbiano la funzione di proteggere il paziente da sentimenti cronici di bassa auto-stima (Bentall, 1994, p. 353).

Poiché il paziente Capgras tende a essere sospettoso, essendo por-tatore di inclinazioni paranoidi premorbose, Stone e Young (1997) in-cludono nel loro modello del delirio di Capgras alcuni biases con cui Bentall spiega il delirio di persecuzione. Anche nei pazienti Capgras sarebbe all’opera un eccessivo self-serving bias, per cui l’evento negativo viene imputato a un cambiamento in una fonte esterna (per esempio il parente stretto) piuttosto che a un mutamento in loro stessi (Candido, Romney, 1990; Beck, Proctor, 2002; Freeman, Garety, 2004).

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psicopatologia e scienze della mente

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Secondo Stone e Young (1997), i biases relativi alla raccolta di in-formazioni e allo stile di attribuzione sono esempi particolari di un bias “verso l’adeguatezza osservativa”. Il processo di formazione delle credenze è normalmente retto dalla ricerca di un equilibrio fra i due imperativi del conservativismo e dell’adeguatezza osservativa (Fodor, 1987; 1989). Innanzitutto, la formazione della credenza è un processo conservativo: le credenze, una volta che si sono formate, manifestano una certa inerzia; di conseguenza, allorché i dati empirici premono per una revisione del sistema di credenze, le modifiche che vengono appor-tate sono quelle che riducono al minimo la ristrutturazione del sistema. Si tende dunque a respingere le ipotesi incoerenti con molte credenze preesistenti, specialmente quando questi impegni epistemici godono di una forte centralità in seno alla rete delle nostre credenze. D’altro canto, il principio dell’adeguatezza osservativa ci spinge a modificare le credenze in linea con i dati forniti dall’esperienza. Ebbene, nel pa-ziente Capgras si avrebbe una tendenza sistematica (un bias) a risolvere la tensione fra conservativismo e adeguatezza osservativa prediligendo la seconda. Il paziente allora assegnerà un peso eccessivo all’esperienza percettiva dell’estraneità del proprio coniuge, adottando la credenza delirante malgrado il radicale conflitto di questa con altre sue credenze.

Dopo l’influente lavoro di Stone e Young (1997), il modello bifat-toriale è stato sviluppato da Davies e Coltheart (2000), Davies e col-leghi (2001), Langdon e Coltheart (2000), Coltheart (2007; 2010), Davies e Davies (2009), Coltheart, Langdon e McKay (2011), McKay (2012) e Davies e Egan (2013).

In questo paragrafo ci soffermeremo su Davies e Davies (2009), che hanno elaborato un quadro di riferimento per la comprensione delle patologie della credenza che postula due fattori e tre stadi. Qui i fattori eziopatogenetici della credenza delirante sono da un lato l’anomalia esperienziale con la conseguente formazione di una credenza estrema-mente implausibile e, dall’altro lato, il mantenimento della credenza delirante a dispetto dell’accumularsi di prove contrarie. In tal modo, i due fattori postulati da Stone e Young –  l’anomalia esperienziale e l’adozione della credenza delirante – divengono due “stadi” a cui se ne aggiunge un terzo riguardante il mantenimento della credenza.

Il secondo stadio, lo stadio di formazione della credenza (ovvero l’insieme dei processi che assumono in ingresso stati percettivi per generare in uscita stati doxastici), potrebbe avvenire in due modi dif-ferenti (Davies et al., 2001). Innanzitutto, abbiamo il modello espli-

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7. credenze deliranti

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2. Ossia le spiegazioni del delirio possono essere concepite in termini di varia-zione parametrica all’interno di un singolo quadro esplicativo così come le lingue naturali possono essere concepite in termini di variazione parametrica all’interno di un’unica grammatica universale (Lasnik, Lohndal, 2010).

cativista. Il contenuto dell’esperienza del paziente è meno ricco del contenuto del delirio e non verte affatto su (poniamo) il coniuge; tale contenuto può essere solo una sensazione strana, che in modo contin-gente viene correlata con la percezione visiva del coniuge. Il paziente adotta allora la credenza delirante nel tentativo di spiegare perché vive questa esperienza insolita ogni volta che guarda il coniuge; egli pensa fra sé e sé: «la ragione per cui vivo questa strana esperienza ogni volta che guardo questa persona è perché è un impostore».

Abbiamo poi il modello dell’endorsement, per cui l’esperienza del paziente ha un contenuto che giustifica direttamente la credenza deli-rante. Il contenuto della percezione visiva della (poniamo) moglie da parte del paziente Capgras è «la donna che sto guardando non è mia moglie». Il passaggio da questa esperienza alla credenza delirante è af-fine al passaggio dall’esperienza visiva che, poniamo, di fronte a voi c’è un gatto, alla credenza che di fronte a voi c’è un gatto: potrebbe non esserci una perfetta corrispondenza tra il contenuto dello stato percet-tivo e quello dello stato doxastico (il primo può avere un contenuto non concettuale e il secondo un contenuto concettuale), ma vi sarà co-munque una relazione molto stretta fra i due. In questo caso, il delirio non è una spiegazione dell’esperienza bensì un endorsement di essa: la formazione della credenza delirante consiste in un’adesione doxastica al contenuto dell’esperienza insolita.

Se una teoria della formazione della credenza delirante debba adottare il modello esplicativista o quello dell’endorsement è materia controversa (cfr. per esempio Pacherie, Bayne, 2004). Davies e Davies ipotizzano che il modello dell’endorsement e quello esplicativista abbiano entrambi ap-plicazione ma a differenti tipi di delirio. Se ciò è corretto, lo stadio di ela-borazione che dall’esperienza porta alla credenza delirante sarà «un locus di variazione parametrica all’interno del quadro bifattoriale per la spie-gazione delle patologie della credenza» (Davies, Davies, 2009, p. 294)2.

Si può allora supporre che la fissazione del parametro endorsement/spiegazione sia una questione di grado. E quando (o nella misura in cui) il percorso dall’esperienza alla credenza richiede un processo espli-cativo di generazione e conferma dell’ipotesi, tale processo sarà il lo-

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psicopatologia e scienze della mente

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cus di un’altra variazione parametrica: la formazione dell’ipotesi che è confermata come credenza può essere normale, distorta da un bias, oppure compromessa.

Nel terzo stadio entra in gioco il secondo fattore. L’ipotesi deliran-te può aver avuto origine come spiegazione necessaria di un’esperienza anomala, ma tale ipotesi può – e da un punto di vista normativo do-vrebbe – essere respinta. Pertanto, è necessario postulare un secondo scostamento dalla normalità, una compromissione del sistema di valu-tazione delle credenze, per spiegare perché il paziente non riesce a re-spingere l’ipotesi adottata malgrado questa non sia sorretta dalle prove disponibili e sia implausibile alla luce delle sue credenze di sfondo.

La valutazione che consentirebbe al paziente di rifiutare la credenza delirante richiede due tipi di risorse. In primo luogo, il paziente deve esercitare un controllo su imperativi cognitivi quali i principi dell’ade-guatezza osservativa e del conservativismo sopra discussi. A tal fine, è necessario inibire i biases che conferiscono priorità alle informazioni in prima persona a cui si accede direttamente tramite i sensi; e si devono “reinalizzare” le ipotesi in competizione per dotarle di eguale priorità (Langdon, Coltheart, 2000). In secondo luogo, il paziente deve valu-tare le ipotesi soppesando la loro plausibilità e le prove in loro favo-re. A tal fine, egli deve considerare l’esperienza anomala, una massa di ulteriori prove resesi disponibili successivamente, le conoscenze e credenze di sfondo preesistenti, e altre conoscenze disponibili grazie alla famiglia, agli amici e allo staff medico.

In questo quadro, la valutazione che consentirebbe al paziente di respingere la credenza delirante chiama in causa tanto i processi esecu-tivi inibitori che le risorse della memoria di lavoro deputate al mante-nimento e alla manipolazione delle informazioni. La valutazione della credenza è perciò un compito di memoria di lavoro esecutiva (Engle, 2002); e il secondo fattore nel quadro bifattoriale per la comprensione dei deliri consiste in una compromissione della memoria di lavoro.

I compiti cognitivi che richiedono di condurre una valutazione analitica mentre si controllano influenze euristiche sono l’oggetto di indagine primario delle teorie dei processi duali. Secondo tali teorie, vi sono due tipi differenti di processi sottostanti al ragionamento, al giudizio e alla presa di decisione: i primi sono processi euristici o in-tuitivi, cioè automatici, rapidi e richiedenti un dispendio minimo di risorse cognitive (gli imperativi del conservativismo e dell’adeguatezza osservativa trovano qui la loro collocazione); i secondi sono processi

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7. credenze deliranti

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analitici, richiedenti un maggior dispendio di risorse cognitive essendo riflessivi, lenti e seriali (è qui che va collocato il processo di confronto e valutazione delle ipotesi).

Questi due tipi di processi possono entrare in conflitto fra loro. Ciò emerge chiaramente nel caso del cosiddetto effetto del bias della cre-denza, cioè la tendenza a giudicare la validità di un’argomentazione in base alla credibilità o meno della sua conclusione. Qui il processo analitico (relativo alla validità logica) deve prevalere su quello intuiti-vo (relativo alla credibilità delle conclusioni), inibendo la riposta ba-sata sulle credenze precedenti del soggetto. Ebbene, sostiene De Neys (2006), l’inibizione della risposta generata dal processo intuitivo e la focalizzazione analitica sulla validità logica chiamano in causa le risor-se della memoria di lavoro e i processi esecutivi di inibizione.

Goel e Dolan (2003) hanno indagato la base neurale di questo conflitto analitico/intuitivo. Il loro studio fmri ha preso in esame la prestazione dei partecipanti a un esperimento sul bias della creden-za. Quando i partecipanti cedevano all’influenza delle loro credenze pregresse e fornivano la risposta logicamente scorretta, si osservava l’attivazione della corteccia prefrontale ventromediale; quando inve-ce inibivano il bias della credenza e fornivano la risposta logicamente corretta, si osservava l’attivazione della corteccia prefrontale inferiore destra. Questo risultato è congruente con l’ipotesi formulata da Colt-heart che una lesione della regione frontale dell’emisfero destro sia «il correlato neurale della compromissione della valutazione della creden-za [il secondo fattore]» (2007, p. 1052).

Un passo avanti nell’indagine sui meccanismi cerebrali coinvolti nell’eziopatogenesi delle credenze deliranti è stato compiuto da Darby e colleghi (2017). Le loro ricerche si basano sulla metodologia del Le-sion Network Mapping, la quale estende l’analisi delle lesioni cerebrali alle aree di connettività funzionale (Boes et al., 2015). I ricercatori han-no innanzitutto individuato 17 casi di delirio da identificazione errata determinati da lesioni e hanno mappato i siti delle lesioni su un atlante del cervello. Il Lesion Network Mapping è stato quindi impiegato per individuare le regioni cerebrali connesse funzionalmente ai siti delle lesioni. Infine, avvalendosi di metanalisi di precedenti studi fmri, sono state individuate regioni coinvolte nella percezione di familiarità e nel processo di valutazione delle credenze. Ebbene, tutti e 17 i siti di lesio-ne sono risultati connessi funzionalmente alla corteccia retrospleniale sinistra, la regione maggiormente attiva negli studi fmri sulla familia-

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rità; 16 dei 17 siti di lesione sono risultati connessi funzionalmente alla corteccia frontale destra, la regione più attiva negli studi fmri sulla vio-lazione delle aspettative, una componente del processo di valutazione delle credenze. Infine, 15 lesioni responsabili di altri tipi di delirio sono risultati connessi alla violazione delle aspettative ma non alle regioni della familiarità, mostrando una specificità per il contenuto del delirio.

Tirando le somme, i risultati dello studio di Darby e colleghi (2017) sono congruenti col modello bifattoriale dal momento che le lesioni cerebrali associate ai deliri da identificazione errata sono connesse funzionalmente sia alle regioni deputate al riconoscimento di familia-rità che alle regioni deputate alla valutazione delle credenze. Inoltre, la connettività alle regioni della familiarità è specifica per i deliri da identificazione errata ma non per altri deliri.

7.3 Il modello narrativista

Al modello bifattoriale Philip Gerrans ha contrapposto una teoria se-condo la quale, all’origine dei deliri, vi sarebbero anomalie a carico dei processi deputati alla costruzione di una risposta narrativo-autobio-grafica all’esperienza: «I pazienti deliranti non sono tanto scienziati folli quanto narratori inattendibili» (Gerrans, 2014b). Lo studioso mette a punto un quadro esplicativo che pone in relazione tre livelli di meccanismi: rilascio e disregolazione della dopamina, navigazione mentale nel tempo e costruzione di narrazioni autobiografiche inat-tendibili. L’ambizione di Gerrans è presto detta: fornire una teoria ge-nerale della formazione dei deliri che integri livelli di descrizione neu-rali, cognitivi e fenomenologici. Il perno di questa teoria narrativa dei deliri è costituito da particolari processi cognitivi, che Gerrans chiama default thoughts, ovvero blocchi elementari di pensiero che sarebbero prodotti dal cosiddetto Default Mode Network (dmn), inteso come un potente sistema immaginativo che si è evoluto al fine di consentire la simulazione di esperienze (Gerrans, 2014a; 2014b). I default thoughts sono, in breve, simulazioni, frammenti di narrazioni autobiografiche, che il dmn produrrebbe incessantemente sollecitato dall’esigenza di una coerenza narrativa (Gerrans, 2014b, p. 69).

Il termine default network è stato introdotto nei lavori di Gusnard e colleghi (2001) e Raichle e colleghi (2001), nei quali veniva indagato il

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7. credenze deliranti

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ruolo delle regioni della corteccia prefrontale mediale associate ai pro-cessi di autoriferimento in condizioni di assenza di qualunque attività diretta a uno scopo – il cosiddetto resting state, termine che deriva dall’a-cronimo rest (Random Episodic Silent Thought) coniato da Andreasen e colleghi (1995). Quando si presta attenzione all’ambiente circostante e si è impegnati nel focalizzare obiettivi, progettare strategie per raggiun-gerli, risolvere problemi astratti, la rete neurale che delinea il default net-work non sembra essere attiva. Di contro, come hanno messo in evidenza Whitfield-Gabrieli e Ford, il dmn è associato «al pensiero indipenden-te dallo stimolo e all’autoriflessione» (Whitfield, Gabrieli, Ford, 2012, p. 49). E non solo: sembra che una maggiore soppressione del dmn sia «associata a prestazioni migliori in compiti che richiedono uno sforzo attentivo» (ibidem.).

Il dmn si configura allora come un meccanismo preposto alla costru-zione di elementi narrativi, di storie tramite le quali si rende l’esperienza intellegibile in termini di scopi e motivazioni. Come ha proposto Pace-Schott (2013), il dmn può essere pensato come il sostrato della capaci-tà, tipicamente umana, di rappresentare la realtà in una forma narrativa. Esso fornisce una prospettiva temporale sulle esperienze, permettendo agli individui di rappresentarsi nel passato dei loro vissuti e configurare le proprie azioni in scenari futuri. In tal modo, il dmn rappresenta il sostra-to neurale ai processi di “navigazione mentale nel tempo” (Mental Time Travel, mtt) che sono alla base della narrazione autobiografica (Debus, 2014; Suddendorf, Corballis, 2007; Suddendorf, Addis, Corballis, 2009).

Il cuore del default network è costituito dalla corteccia cingolata posteriore (pcc) e dalla sezione ventrale della corteccia cingolata ante-riore (vacc), che mostrano in resting-state una connettività con speci-fiche aree cerebrali: la pcc, in particolare, con la corteccia mediale pre-frontale (mpfc), la corteccia orbitofrontale (ofc), la sezione sinistra della corteccia prefrontale dorsolaterale (dlpfc), la corteccia parietale inferiore (ipc), la sezione sinistra della corteccia temporale inferola-terale (itc) e la sezione sinistra del giro paraippocampale (phg). La sezione ventrale della corteccia cingolata anteriore sembra avere una significativa connettività in resting-state con mpfc, con la corteccia or-bitofrontale (ofc), il nucleus accumbens (nc) e l’ipotalamo (per un approfondimento, cfr. Greicius et al., 2003) (cfr. fig. 7.4).

Al fine di creare una storia, ovvero una rappresentazione narrativa coerente degli eventi, il default network necessita di un grado di super-visione che viene esercitata da altri sistemi cognitivi, i quali elaborano

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psicopatologia e scienze della mente

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le stesse informazioni ricevute dall’ambiente circostante in maniera “neutra” e “imparziale” (Gerrans, 2014a; 2014b). Sono sistemi deputa-ti a ragionamenti cognitivamente sofisticati, atti a computare anche il bagaglio di conoscenze pregresse, analizzare il contesto e determinare l’attivazione di funzioni esecutive adeguate agli scopi. Questi processi sono detti di decontestualizzazione e si attivano in maniera anticorrelata al dmn. La decontestualizzazione, secondo Gerrans, non è meramente

figura 7.5 Aree cerebrali che svolgono ruoli importanti nel default network

Fonte: Domhoff (2018).

Emisfero destro, vista laterale

Cortecciafrontale

superiore

Girofrontaleinferiore

Lobo temporale

Giroangolare

Giroposteriore

sopramarginale/giunzione

temporoparietale

Cortecciatemporo-laterale

Emisfero sinistro, vista mediale

Cortecciaposteriorecingolata

Cortecciaretrospleniale

Formazione ippocampale

Cortecciaprefrontale

dorso-mediale

Cingoloanterorostrale

Cortecciaprefrontale

anteromedialeCorteccia

prefrontaleventromediale

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7. credenze deliranti

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3. In estrema sintesi, Kapur (2003; Kapur, Mizrahi, Li, 2005) definisce il delirio come la risposta di pazienti che stanno cercando di dar senso alle proprie esperienze di “salienza aberrante”, esperienze prodotte dalla disregolazione a carico della trasmis-sione della dopamina (cfr. Howes et al., 2013).

4. Il network di salienza (sn) comprende principalmente l’insula anteriore (ai) e la sezione dorsale della corteccia cingolata anteriore (dacc), oltre a tre strutture sottocorticali: l’amigdala, lo striato ventrale e l’area tegmentale ventrale. Singolar-mente, tutte le aree che compongono il sistema di salienza sono mobilitate in un’am-pia gamma di processi cognitivi ed emotivi (Menon, 2015).

una forma specifica di inferenza, semmai la necessaria precondizione a tutte quelle forme di cognizione che lavorano indipendentemente dal contesto (per esempio, il pensiero simbolico). La funzione del proces-so di decontestualizzazione (decontextualized processing, d’ora in poi dp) è quella di valutare i default thoughts. Il dp è, dunque, deputato alla supervisione del dmn. Attivandosi in maniera anticorrelata, tra dmn e dp avviene una ridistribuzione di risorse cognitive. È in questo senso che Gerrans intende i deliri «una spettacolare dis-allocazione di risor-se cognitive» (Gerrans, 2014b, p. 40).

In poche parole, è necessario che il dmn venga disattivato per met-tere in campo i processi di decontestualizzazione, i quali, da un punto di vista neuroanatomico, pare investano soprattutto alcune aree –  le aree prefrontali – dell’emisfero destro. Lesioni in queste aree possono portare, quindi, a compromissioni del sistema di decontestualizzazione (deficit nella memoria autobiografica, deficit a livello di funzioni ese-cutive ecc.). A causa di tali compromissioni, il soggetto che ne è colpito si ritrova – secondo la teoria di Gerrans – a essere ostaggio dei propri pensieri di default, dei propri “impulsi narrativi”. Da questa prospet-tiva, i deliri rappresentano la conseguenza di una iperattivazione del dmn (cfr. anche Whitfield-Gabrieli et al., 2011). In un soggetto sano, infatti, il rapporto di supervisione del processo decontestualizzante è calibrato in modo che le narrazioni soggettive vengano revisionate co-stantemente e adeguate alla realtà. In una mente delirante, invece, il livello di supervisione è compromesso, lasciando il soggetto in balia dell’incessante lavoro del proprio sistema di default thinking, monopo-lizzato da un’informazione ipersaliente (Gerrans, 2014b, p. 38).

Il concetto di salienza, che deriva dalla neurobiologia e che Gerrans mutua dai lavori di Kapur sul rapporto tra dopamina e psicosi3, è de-cisivo, dacché sarebbe proprio il “sistema di salienza” (sn)4, a sua volta

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psicopatologia e scienze della mente

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5. Contrariamente a quanto avviene per altri sistemi, i neuroni del sistema do-paminergico non sono ampiamente diffusi nel sistema nervoso centrale. Essi sono organizzati in quattro vie maggiori: il sistema tubero-infundibolare, il sistema nigro-striatale, quello mesa-limbico e mesocorticale. La compromissione della via nigro-striatale è coinvolta nel morbo di Parkinson e nella corea di Huntington, la terza e la quarta via sembrano svolgere un ruolo importante nella sintomatologia delle patolo-gie psichiatriche (Nobile et al., 1994; Laruelle, Abi-Dargha, 1999).

regolato dal sistema dopaminergico5, a determinare quali informazio-ni restano sullo sfondo e quali possono impegnare le risorse cogniti-ve dell’uno o dell’altro sistema. I livelli di dopamina, nello specifico, avrebbero la funzione di attribuire valenza alle informazioni interiori ed esteriori. Una disfunzione di tali livelli porterebbe, di conseguenza, a uno sbilanciamento tra le risorse allocate nel dmn e quelle nel dp. Quando il dp è, per varie ragioni, compromesso nell’attività di super-visore del dmn, l’individuo resta imbrigliato nella prigione dei suoi pensieri esagerati, senza che essi possano essere adeguatamente decon-testualizzati e posti sullo sfondo, o al limite rifiutati.

Dal punto di vista della neuroanatomia dei deliri Devinsky (2009) indica nell’emisfero sinistro dell’encefalo la sorgente del pensiero de-lirante, anche se le lesioni cerebrali riscontrate nella maggioranza dei soggetti deliranti (almeno in quelli affetti da deliri da identificazione errata), riguardino per lo più l’emisfero destro. Sebbene Gerrans non menzioni la proposta speculativa di Devinsky, le ricerche di quest’ul-timo hanno molto in comune con le conclusioni teoretiche avanzate dal filosofo australiano. Infatti, Devinsky (2009, p. 80) fa esplicito ri-ferimento a un “narratore creativo” che avrebbe origine nell’emisfero sinistro dell’encefalo e che attingerebbe risorse informative dalle atti-vità di automonitoraggio, dalla memoria, dalla realtà elaborate dalle aree dell’emisfero destro frontale lesionate. Secondo Devinsky, l’emi-sfero destro domina vari aspetti della rappresentazione cosciente di sé, relativi alla propriocezione e alla sfera emotiva interna in rapporto al mondo esterno. All’emisfero destro pertiene la sfera dell’autoricono-scimento e la capacità di delineare i confini dell’Io rispetto al mondo esterno. Si pensi, ricorda sempre Devinsky, a quegli individui colpiti da ictus nell’emisfero destro; se sentono, come riportato in alcuni casi clinici, dei comandi impartiti dal medico a un vicino di letto d’ospeda-le – comandi quali per esempio aprire la bocca o simili – essi eseguono i comandi come se fossero rivolti a loro, mostrando una incapacità di

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7. credenze deliranti

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6. Compromissioni a carico dei processi di monitoraggio della realtà pare riflet-tano, nella schizofrenia, specifiche disfunzioni a livello della corteccia prefrontale (Garrison et al., 2015; 2017; 2018). Si vedano a tale proposito anche i lavori di Yücel et al. (2002) e di Palaniyappan et al. (2011).

comprendere la direzione dell’informazione verbale, come se si verifi-casse uno sconfinamento dell’Io.

In sintesi, con la compromissione funzionale di alcune specifiche aree dell’emisfero destro, possono generarsi informazioni interne con-flittuali, di fronte alle quali il soggetto risponderebbe con forme deli-ranti. Il delirio, in questo senso, è inteso come una risposta individuale tesa a risolvere un conflitto interiore. Nel caso del delirio di Capgras, Devinsky (ivi, p. 84) suggerisce che la perdita di familiarità potrebbe essere ricondotta a lesioni che coinvolgono la corteccia perininale de-stra, mentre l’iperfamiliarità (che caratterizza, per esempio, il delirio di Fregoli) potrebbe essere associata a una iperstimolazione o mancata inibizione, della corteccia perininale destra.

Se combiniamo la proposta teorica di Devinsky con il più avanzato modello narrativo di Gerrans, troveremo la comune tendenza a una generalizzazione delle cause sull’insorgenza dei deliri, abbattendo così, almeno da un punto di vista programmatico, la nominale distinzione tra deliri neurologici (ovvero quelli provocati da un’evidente lesione cerebrale dovuta a ictus, trauma, degenerazione ecc.) e deliri psichiatri-ci (come quelli che si riscontrano nei casi di schizofrenia, per esempio). Una distinzione  –  afferma Devinsky  –  ormai artificiale, visto che le odierne tecniche di neuroimaging danno la possibilità di riscontrare disfunzioni neuroanatomiche anche nei pazienti schizofrenici6.

Diversi sono stati finora gli studi condotti per i casi di schizofrenia sugli effetti di un’organizzazione disfunzionale del sistema di salienza. Sulla relazione causale tra disfunzione del sistema di salienza e psico-patologie, Menon (2011; 2015) propone un’interessante schematizza-zione di correlazioni neurali a larga scala applicabile a gran parte delle patologie psichiatriche. Data la significativa interconnettività tra sn, dmn e il network delle funzioni esecutive (cen), sarebbe sufficiente un aberrante indice di salienza che, a catena, avremo un coinvolgimen-to disfunzionale sia del cen che del dmn.

In merito al rapporto tra schizofrenia e disfunzioni neuroanatomi-che, merita di essere menzionato, pur se brevemente, il recente studio

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psicopatologia e scienze della mente

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7. Cenni sulla struttura neuroanatomica del paracingolato e della limitrofa cor-teccia cingolata anteriore sono esposti nel capitolo dedicato ai disturbi affettivi.

di Garrison e colleghi (2018), che mette in relazione la morfologia del solco paracingolato (pcs) con l’incidenza di fenomeni allucinatori7. Lo studio è stato condotto mettendo a confronto 50 soggetti psicoti-ci che hanno manifestato allucinazioni, 50 soggetti senza diagnosi di psicosi ma che hanno riportato fenomeni allucinatori, con un gruppo di controllo di 50 individui sani. La lunghezza del pcs nei pazienti psi-chiatrici è risultata inferiore sia rispetto ai soggetti non-psicotici con allucinazioni, sia ai soggetti sani. Inoltre, tra questi ultimi due grup-pi non è stata riscontrata una significativa differenza morfologica del pcs. Questi risultati suggeriscono che una specifica conformazione del pcs potrebbe essere associata a una compromissione della capacità di monitoraggio della realtà, attestata nei pazienti schizofrenici. Inoltre, questi risultati vanno collegati a quelli di Howes e colleghi (2013), da cui è emerso che le disfunzioni a livello del sistema dopaminergico ri-scontrate in soggetti schizofrenici, non sono state riscontrate nei sog-getti non-clinici affetti da allucinazioni. In sintesi, l’insieme di questi dati suggerirebbe l’esistenza di disfunzioni sia a livello neurobiologico che al livello neuroanatomico associabili a compromissioni di processi di discriminazione della realtà.

Per concludere, seguendo l’approccio narrativo delineato da De-vinsky e perfezionato da Gerrans, possiamo schematizzare l’insorgenza di deliri come un rapporto di sbilanciamento di elaborazioni di infor-mazioni tra differenti sistemi cognitivi. Ma al netto di alcune impor-tanti differenze terminologiche, non siamo – a ben guardare – molto lontani dai modelli doxastici che abbiamo esposto più sopra. I default thoughts del modello di Gerrans ricoprono, bene o male, la stessa fun-zione che le ipotesi abduttive svolgono nella teoria dei due fattori, quali precorritrici delle credenze (normali o patologiche). Il ruolo e la costituzione neurobiologica di dp sembrano essere identici a quelli del sistema di fissazione delle credenze nel modello bifattoriale di Davies e colleghi (2001), sistema che deve valutare e collegare l’ipotesi abdut-tiva alle altre credenze pregresse per farla assurgere a credenza vera e propria. Come per le ipotesi abduttive, analogo è il destino dei default thoughts: devono passare al vaglio del sistema di monitoraggio perché siano adeguati alla realtà e intessere una storia coerente. In tal modo, a

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7. credenze deliranti

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nostro giudizio, l’approccio narrativo ai deliri non riesce a costituire, almeno così come è stato delineato finora, una forte alternativa al mo-dello doxastico.

Per concludere, nella definizione di “deliri” non sembra possibile liquidare  tout court  il concetto di “credenza patologica” in favore di una “inadeguata narrazione autobiografica” (Gerrans, 2014b), sebbene quest’ultima colga più sfumature e gradazioni nell’elaborazione soggettiva della realtà, tanto da consentire di mettere definitivamente tra parentesi la distinzione tra pensiero razionale e irrazionale, fallacemente rinvenibile nelle credenze deliranti, come abbiamo visto.

A conti fatti, tracciare un’eguaglianza tra credenza patologica e credenza irrazionale non solo risulta inesatto, ma è addirittura fuor-viante, come hanno messo bene in evidenza Bortolotti, Gunn e Sulli-van-Bissett (2017, p. 48), dacché, a volte, non è così tangibile e netto il confine tra credenze irrazionali diagnosticate clinicamente e credenze irrazionali che, pur condividendo molte caratteristiche epistemiche con i deliri, non sono diagnosticate, né tantomeno considerate come patologiche.

7.4 Conclusioni

Nel paragrafo 7.1. abbiamo visto come la neuropsichiatria cognitiva ha sviluppato la teoria monofattoriale di Maher nel caso del delirio di Capgras. La doppia dissociazione fra riconoscimento delle facce esplicito e implicito osservata nei pazienti Capgras e prosopoagno-sici ha imposto di modificare l’influente modello di riconoscimento delle facce a una via proposto da Bruce e Young in favore di un mo-dello a due vie: una via visuo-semantica che costruisce un’immagine visiva che codifica informazioni semantiche relative alle caratteristiche facciali; e una via visuo-emozionale che identifica emozionalmente il volto conosciuto, generando una sensazione di familiarità. L’ipotesi di Ellis e Young – un paradigma di neuropsichiatria cognitiva – è che la prosopoagnosia sia il risultato della compromissione della prima via, deputata al riconoscimento esplicito dei volti, che lascia intatta la se-conda via, deputata al riconoscimento implicito. Nel paziente Capgras lo schema si capovolge: egli riconosce esplicitamente i volti noti ma la risposta autonomica è assente, dal che si inferisce la compromissio-

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psicopatologia e scienze della mente

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ne della capacità di riconoscimento implicito. La credenza delirante potrebbe perciò essere la razionalizzazione di un’anomalia percettiva: la persona di fronte al paziente possiede le sembianze della persona conosciuta, ma la sensazione di familiarità è assente (vi è piuttosto una sensazione di estraneità).

Nel paragrafo 7.2 abbiamo visto che però il ricorso alla sola espe-rienza percettiva anomala non è sufficiente. Oltre al fattore esperien-ziale, nel paziente Capgras deve essere all’opera anche un secondo fattore in grado di spiegare perché l’anomalia esperienziale conduca il paziente ad acquisire e mantenere la credenza delirante. Secondo Sto-ne e Young, nel processo di aggiornamento del sistema di credenze i pazienti deliranti assegnerebbero la priorità a quelle credenze che sono adeguate dal punto di vista dell’osservazione (che soddisfano cioè un principio di adeguatezza osservativa) a scapito del principio di conser-vativismo. È, questa, la capostipite di una serie di teorie bifattoriali, in cui anomalie dell’esperienza e dinamiche distorsive del ragionamento sono implicate in varia misura nell’eziopatogenesi del delirio. Come abbiamo visto, altri candidati al ruolo di secondo fattore sono la di-sposizione a saltare alle conclusioni e il possesso di un particolare stile attributivo.

Nell’importante contributo di Davies e Davis, il quadro bifatto-riale diviene il contesto entro cui l’eterogeneità delle spiegazioni delle credenze deliranti può essere vista come una variazione parametrica. Inoltre, per rimediare alla mancanza di una soddisfacente caratteriz-zazione neurocognitiva del secondo fattore nell’eziopatogenesi del delirio, gli autori propongono un’analisi del compito che convincente-mente incardina la valutazione della credenza sulla memoria di lavoro e i processi esecutivi di inibizione. Quindi essi esaminano gli studi spe-rimentali e di neuroimmagine che hanno indagato il belief-bias effect nel contesto di teorie del ragionamento che fanno riferimento a tipi (o livelli) di processi. Queste ricerche sono interpretate come una con-ferma dell’ipotesi che il secondo fattore sia una compromissione della memoria di lavoro e dei processi esecutivi di inibizione conseguente a una lesione della corteccia prefrontale destra.

Infine, nel paragrafo 7.3 abbiamo preso in esame la teoria neuro-computazionale del ruolo della corteccia prefrontale nella patogene-si delle credenze deliranti proposta da Philip Gerrans. Nel tentativo di colmare lo scarto fra, da un lato, la fenomenologia e la psicologia del delirio e, dall’altro, la teoria della salienza di Shitij Kapur, Gerrans

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7. credenze deliranti

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respinge la concezione canonica delle credenze deliranti come il pro-dotto di un bias della conferma in un sistema di controllo delle ipo-tesi. Lo studioso propone invece che tali credenze siano prodotte da disfunzioni a carico dei processi deputati alla costruzione di una rispo-sta narrativo-autobiografica all’esperienza. Nei deliri la disregolazione dopaminergica induce la corteccia prefrontale a rendere ipersalienti alcune esperienze anomale, che quindi monopolizzano i processi di mtt soggiacenti la narrazione autobiografica. Si delinea così un qua-dro esplicativo che intreccia meccanismi a tre livelli differenti: rilascio di dopamina e disregolazione, mtt e costruzione di narrazioni auto-biografiche inattendibili.

Al di là dei limiti sopra segnalati, il modello di Gerrans è una valida indicazione di come la piena integrazione nelle scienze neurocognitive potrebbe consentire alla psichiatria di mediare più efficacemente fra le sue componenti personali e subpersonali.

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Cosa potrebbero avere in comune la malattia d’Alzheimer, la discon-nessione interemisferica, l’anosognosia per emiplegia, la sindrome di Capgras o l’ignaro soggetto sperimentale capitato presso lo stand del-le calze di nylon di Nisbett e Wilson? Da un punto di vista organico e psicopatologico evidentemente nulla, se non un unico potenziale “sintomo” comune. Infatti, i soggetti nelle condizioni menzionate po-trebbero produrre delle “confabulazioni”: dei report falsi e in buona fede circa i loro processi cognitivi superiori (ricordo, identificazione, intenzione, decisione, azione). Questo capitolo mira a tracciare gli assi fondamentali che informano la ricerca empirica e teorica circa la con-fabulazione, con particolare attenzione all’eterogeneità delle condizio-ni cliniche in cui essa insorge e ai problemi in termini di definizione, di tipizzazione, di demarcazione tassonomica e di modellizzazione ezio-logica che ne conseguono.

8.1 aaa. Storie false e malfondate cercano definizione

affidabile e referenziata

Da alcuni decenni al centro di un vasto dibattito interdisciplinare, i fe-nomeni confabulatori appaiono come manifestazioni comportamen-tali o verbali che esprimono un’elaborazione erronea di dati esperien-ziali o un mancato accesso a informazioni rilevanti per l’elaborazione di una risposta a una sollecitazione. Qualche esempio clinico può aiu-tarci a inquadrare questa particolare condizione.

Consideriamo il caso di hw, 61enne la cui memoria autobiografi-ca è stata gravemente danneggiata in seguito alla rottura di un aneu-

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La confabulazionedi Miriam Aiello

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risma nell’arteria comunicante anteriore (d’ora in poi, acoa): spo-sato da 30 anni, ha quattro figli già grandi. Quando gli viene chiesto da quanto tempo sia sposato, hw afferma di essere sposato da circa 4 mesi e quando gli viene chiesto quanti figli abbia hw risponde correttamente di averne quattro, di età compresa tra i 22 e i 32 anni. Il clinico gli chiede allora come abbia fatto ad avere quattro figli adulti in 4 mesi e hw risponde di aver fatto ricorso all’adozione. Gli viene dunque chiesto se abbiano scelto di adottare degli adulti subito dopo il matrimonio e hw risponde che «uno, anzi due figli» sono stati adottati prima del matrimonio e due subito dopo (Moscovitch, 1989; 1995).

Consideriamo il caso di ds: il paziente è affetto dalla sindrome di Capgras discussa sopra, nel cap. 7. ds si dà ragione della presenza del padre, da lui percepito come impostore, affermando che forse «è stato pagato dal mio vero padre per prendersi cura di me» (Hirstein, Rama-chandran, 1997, p. 438). Come ds, altri soggetti affetti da sindrome di Capgras tendono a confabulare quando incalzati a spiegare il rappor-to che intrattengono con l’impostore: a supporto della loro credenza, questi pazienti avanzano spesso spiegazioni tanto dettagliate quanto inverosimili, sostenendo magari che i sosia hanno «occhi di un colore diverso», una «diversa tessitura della pelle e una diversa lunghezza del naso» (O’Reilly, Malhotra, 1987, p. 264).

Consideriamo ancora il caso della sindrome di Anton, una condi-zione di anosognosia sulla cecità, in cui il soggetto è affetto da cecità corticale almeno parziale, ma afferma di poter vedere chiaramente. Di fronte a compiti di riconoscimento visuale di eventi e oggetti e di evita-mento di ostacoli, il paziente ovviamente produce identificazioni sba-gliate e urta rovinosamente gli oggetti. Di fronte a tali insuccessi, non è raro che il soggetto adduca spiegazioni come, per esempio: «non è una giornata particolarmente luminosa», o come: «non sto indossando il paio di occhiali più indicato» (Benson, 1994, p. 87).

Consideriamo infine il celebre caso di ps (Gazzaniga, Ledoux, 1978), paziente sottoposto a callosotomia – resezione parziale o totale del corpo calloso che si effettua su pazienti con forme di epilessia gravi e farmacoresistenti. ps viene sottoposto a un compito di associazione: gli vengono presentate simultaneamente due immagini in modo late-ralizzato, rispettivamente una zampa di gallina all’emisfero sinistro e un paesaggio innevato all’emisfero destro; gli viene poi chiesto di se-lezionare da una serie di immagini poste di fronte a lui un’illustrazio-

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ne da associare in modo logico a ciascuna immagine lateralizzata (cfr. fig. 8.1). ps indica correttamente con la mano destra una gallina e con la sinistra una pala da neve. Ma quando gli scienziati gli chiedono di spiegare le ragioni della sua scelta, incredibilmente ps afferma: «ah, è facile! La zampa di gallina va con la gallina e ci vuole una pala per pulire il pollaio» (Gazzaniga, 1995, p. 225).

In via provvisoria e da un punto di vista strettamente operativo, per-ché si dia confabulazione, oltre a una qualche alterazione neurologica o neuroanatomica, devono verificarsi due condizioni: 1. che il soggetto produca affermazioni, storie o resoconti falsi o mal-fondati rispetto all’evidenza disponibile; 2. che tali resoconti narrativi siano creduti veri dal soggetto: dunque il soggetto né intende mentire, né ha motivi nascosti per mentire.

Ma, assumendo questi criteri minimi, da un lato risulta inevasa la questione circa l’eziologia della confabulazione, dall’altro è problema-tico distinguere la confabulazione da altre forme di falsa credenza “in buona fede”. Si tratta di aspetti fenomenici necessari, ma non sufficien-

figura 8.1 L’emisfero destro del paziente ps elabora informazioni nel campo visivo sinistro (scena con paesaggio innevato); il suo emisfero sinistro elabora informazioni nel campo visivo destro (zampa di gallina). Con la mano destra ps indica una galli-na; con la mano sinistra una pala, coerente con la scena con paesaggio innevato presentata all’emisfero destro

Fonte: Volz e Gazzaniga (2017).

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ti a delineare una definizione di confabulazione univoca e sufficiente-mente perspicua.

Nella storia della ricerca clinica, il termine “confabulazione” (Kon-fabulation) venne adoperato per la prima volta all’inizio del Novecen-to da Karl Bonhoeffer per denotare i peculiari e fantasiosi resoconti narrativi di una serie di pazienti osservati da Sergei Korsakoff, affetti da una grave sindrome amnesica a portamento anterogrado – succes-sivamente conosciuta come sindrome di Korsakoff – che è causata da una grave avitaminosi della tiamina (vit. B1) e che si correla al danneg-giamento dei nuclei medio-dorsali del talamo, dei corpi mammillari e di alcune porzioni di lobo frontale: se interrogati su come avessero trascorso la giornata precedente, questi pazienti, ignorando o defor-mando la condizione di ospedalizzazione, fornivano delle spiegazioni inesatte e più o meno inverosimili (per esempio sostenendo di essere tornati da un lungo viaggio o di aver fatto una gita in barca), perlopiù richiamando eventi passati e collocandoli in modo errato nel presente. Inizialmente, dunque, il termine “confabulazione” si riferiva esclusi-vamente a resoconti narrativi falsi di pazienti con deficit mnemoni-ci secondo l’ipotesi che tali resoconti inesatti avessero una funzione compensativa, di riempimento della memoria compromessa dal punto di vista neurologico (ipotesi del gap-filling). Analoghe confabulazioni di tipo mnemonico sono registrate in soggetti con sindromi da acoa, che riportano dunque danni bilaterali alla corteccia orbitofrontale, e malattia di Alzheimer, caratterizzata da una perdita diffusa di neuroni e di connessioni sinaptiche a livello corticale temporale, parietale e, in parte, frontale (Schnider, 2008).

Tuttavia, durante il secolo scorso si è assistito a una progressiva estensione referenziale del termine “confabulazione”: infatti, il lem-ma è stato sollecitato per denotare anche i resoconti errati di pazienti con deficit percettivi e sindromi da identificazione errata – connessi a condizioni quali l’anosognosia per emiplegia (Feinberg et al., 1994), la somatoparafrenia (Sandifer, 1946), la sindrome di Anton (Stuss, Ben-son, 1986), la sindrome di Capgras (Hirstein, Ramachandran, 1997) –, i resoconti errati di pazienti split-brain ( Joseph, 1986) e di pazienti in condizioni psichiatriche come la schizofrenia (Nathaniel-James, Frith, 1996)  –  questo volume, cap. 9  –  e, addirittura, i resoconti errati di persone clinicamente normali – in particolare, bambini, soggetti ipno-tizzati e soggetti in particolari setting sperimentali (Nisbett, Wilson, 1977; Haidt, 2001).

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8. la confabulazione

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Si delineano allora due macroconcezioni della confabulazione, dove tale bipartizione alimenta definizioni in competizione tra loro: da un lato, figurano definizioni “ristrette” legate strettamente alla compromis-sione mnemonica e alla nozione di falso ricordo, per le quali le confabu-lazioni costituiscono forme di distorsione della memoria associate a tipi di amnesie con una base organica (Berlyne, 1972); dall’altro, figurano definizioni “estese” che associano la confabulazione a condizioni psico-patologiche legate non solo a deficit amnesici, ma anche a compromis-sioni della percezione e dell’identificazione, e che includono confabu-lazioni relative alle intenzioni, alle emozioni, alle ragioni delle azioni. In questa prospettiva “estesa”, le confabulazioni sono descritte in termini di narrazioni false, inaccurate o malfondate che veicolano informazioni circa il sé o la realtà (Berrios, 1998; Coltheart, 2017; Hirstein, 2005).

Sebbene il primo approccio abbia ricevuto una maggiore ufficializza-zione e diffusione (apa, 2000), non vi è attualmente consenso sulla na-tura della confabulazione e pertanto in letteratura non si dispone di una definizione univoca. Infatti, da un lato, si registra confabulazione sia in una varietà di condizioni cliniche che differiscono tra loro quanto a base neurobiologica, sia in soggetti normali; dall’altro, le differenze nell’e-ziologia e nella base organica non corrispondono a differenze sostanziali negli aspetti manifesti della confabulazione (Bortolotti, Cox, 2009).

Se per i sostenitori della definizione ristretta il problema è rendere conto della presenza di confabulazione in psicopatologie non legate alla compromissione della memoria e addirittura in soggetti non pa-tologici, per i sostenitori della prospettiva estesa la sfida consiste nel fornire una definizione che, da un lato, sia sufficientemente capiente da includere un’ampia gamma di occorrenze cliniche e che, dall’altro, sia saldamente demarcata da altre forme di falsa credenza generica.

8.2 Tipizzazioni interne, demarcazioni esterne,

pluralismo causale

Sospendendo momentaneamente la ricerca di una definizione com-plessiva, è possibile articolare la fisionomia della confabulazione attra-verso una serie di distinzioni che attengano ai suoi tratti manifesti.

Una prima distinzione interna al fenomeno della confabulazione può essere tracciata rispetto al contenuto di falsità o di inesattezza di tali

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resoconti: si distinguono infatti le confabulazioni d’imbarazzo o mo-mentanee, plausibili e spesso transitorie, da quelle severe o fantastiche che sarebbero assolutamente bizzarre, inverosimili, floride (Berlyne, 1972) ed eccedenti «le necessità imposte dal deficit di memoria» (Papagno, 2015). Una seconda distinzione, più accreditata della prima, riguarda invece la fonte della produzione di tali resoconti: si distingue infatti tra confabulazioni spontanee, anch’esse inverosimili, spesso osservate in pa-zienti schizofrenici, e confabulazioni indotte, che sono risposte a solle-citazioni esterne, in genere domande del clinico (Kopelman, 1987). Una terza distinzione relativa all’ordine logico di confabulazioni successive viene tracciata tra confabulazioni primarie e secondarie, dove queste ultime sono funzionali a giustificare le incoerenze contenute nelle pri-me (Moscovitch, 1995). È per esempio il caso di ds che si dà ragione della presenza del familiare “impostore” (confabulazione primaria) di-cendo che è stato pagato dal familiare “originale” per prendersi cura di lui (confabulazione secondaria). È opportuno notare che, da un lato, il discrimine tra queste tipologie di confabulazione sembra essere affet-to da un incomprimibile margine di arbitrarietà (Metcalf et al., 2007), dall’altro risulta ancora controverso se le confabulazioni spontanee sia-no necessariamente più bizzarre di quelle indotte (Hirstein, 2009).

Se la tipizzazione descrittiva delle confabulazioni non permette di pervenire a una definizione più esatta e scevra da controversie, è utile procedere a distinguere il campo operativo della confabulazione, non-ché i suoi tratti manifesti, da altre forme, patologiche e non, di falsa credenza o di credenza irrazionale: si tratta in particolare di sceverare la nozione di confabulazione da quella di falso ricordo, di menzogna, di autoinganno, di menzogna patologica e di delirio.

Se si adotta una definizione ristretta, il nesso tra confabulazione e falsi ricordi risulta ovviamente molto stretto: le confabulazioni co-stituiscono letteralmente l’atto di produzione e di espressione di fal-si ricordi. Viceversa, in una prospettiva estesa che contemperi anche confabulazioni non mnemoniche, i contenuti espressi dalla confabu-lazione non sono necessariamente falsi ricordi: infatti, in sindromi mnemoniche sono talvolta legati alla memoria semantica, cioè alla co-noscenza impersonale di eventi, concetti e oggetti, mentre in sindromi non mnemoniche sono connessi a deficit di elaborazione epistemica ed esecutiva delle informazioni.

Rispetto a una menzogna semplice, tradizionalmente definita come un’affermazione intenzionalmente contraria alla verità, enunciata in

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piena consapevolezza, il soggetto che confabula non ha intenzione di mentire né coscienza di mentire, requisiti che invece qualificano il mentitore: il confabulatore sarebbe dunque un “mentitore onesto” (Moscovitch, 1995, p. 226).

Assai più rarefatto è il confine tra confabulazione e autoinganno: l’autoinganno può essere definito operativamente come una menzogna rivolta verso sé stessi. Da un punto di vista filosofico, tale definizione apre un ampio ventaglio di problemi: come è possibile mentire a se stes-si senza postulare un conflitto doxastico tra credenza che p e credenza che non p, tra “io ingannante” e “io ingannato”? Tradizionalmente si fronteggiano due tipi di approccio all’autoinganno: il primo, ricondu-cibile a Davidson (1985), afferma che il conflitto doxastico è effettivo, le credenze contraddittorie coesistono in uno stato di incapsulamento reciproco, alimentandosi dinamicamente; il secondo, riconducibile a Mele (2001), è una concezione deflazionistica dell’autoinganno, che è reso possibile semplicemente da attività non intenzionali di evitamen-to o di scorretta (biased) interpretazione delle informazioni che porta-no alla formazione di una credenza falsa, senza che dunque sia creduta in alcun modo la credenza contraddittoria (Marraffa, 1999). Per alcuni autori la confabulazione, in particolar modo da anosognosia, costitui-rebbe una forma estrema di autoinganno nei termini definiti da Mele, e le due nozioni si collocherebbero in una qualche continuità (Hirstein 2005; 2009).

Un altro terreno rispetto a cui condurre l’identificazione differen-ziale della confabulazione è definito dalla menzogna patologica (psu-dologia fantastica o mitomania): questa categoria nosografica, spesso associata al disturbo antisociale di personalità (aspd), si connette di-rettamente alla costruzione della personalità, ne è un tratto caratteriz-zante, è cronica e prevede una abituazione a mentire: caratteristiche che non si riscontrano nel soggetto confabulante, il quale produce espressioni false e malfondate in modo estemporaneo. Tuttavia, nella menzogna patologica l’intenzione di mentire è radicalmente affievo-lita e, nei casi più gravi, del tutto rimossa: in questo senso, il mitoma-ne non ha più una chiara coscienza della propria attività menzognera, condizione che riallinea la sua figura a quella del confabulatore.

Ancora più frastagliato e problematico è il rapporto tra confabu-lazione e delirio  –  formazione patologica di cui si è discusso sopra, cap. 7. Se si adotta la differenziazione tra confabulazioni d’imbarazzo e confabulazioni severe e quella tra confabulazioni spontanee e provo-

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cate, da un punto di vista clinico potrebbe essere assai difficile distin-guere le confabulazioni severe o spontanee dal delirio. Al di là della semplice constatazione osservativa per cui i deliri appaiono tenaci, impermeabili alla correzione e persistenti nel tempo, e diversamente le confabulazioni sembrano meno pervicaci e tendono a essere dimen-ticate velocemente, risulta piuttosto complesso fornire solidi criteri di diversificazione a partire dai contenuti delle credenze deliranti o confabulatorie. Sembra abbastanza accettato che le confabulazioni possano essere prodotte da delirio, o associarsi a delirio, soprattutto nelle sindromi da identificazione errata e nella schizofrenia. Tuttavia, per alcuni autori, la confabulazione è morfologicamente e tassonomi-camente distinta dal delirio, dal momento che la prima si associa più marcatamente a disfunzioni esecutive (cfr. Kopelman, 1999); mentre per altri, da un punto di vista manifesto delirio e confabulazione non si differenziano in modo significativo: pertanto, queste due formazioni discorsive si situerebbero in un continuum e andrebbero idealmente spiegate attraverso il medesimo modello neuropsicologico (Coltheart, Turner, 2009; Metcalf et al., 2007).

Sembrerebbe dunque che – allo stato attuale delle ricerche – non si disponga di strumenti teorici e clinici per demarcare in modo assoluto la confabulazione dal delirio, dalla menzogna patologica, dall’autoin-ganno: queste formazioni discorsive sembrano collocarsi, se non in continuità, almeno in una evidente contiguità.

Come notano Bortolotti e Cox (2009), anche i tentativi di fornire una prospettiva unitaria sulla confabulazione a partire dall’eziologia, cioè dall’identificazione dei meccanismi alla base del fenomeno, risen-tono dell’assenza di un sufficiente consenso teorico circa la natura e la fisionomia della confabulazione.

Si distinguono due fondamentali famiglie di spiegazioni. La prima è costituita da spiegazioni motivazionali o psicodinamiche che valo-rizzano le implicazioni emotive e sottolineano nella confabulazio-ne la presenza di un bias emotivo positivo che svolgerebbe dunque la funzione di meccanismo di difesa del sé, in particolare sul terreno del rafforzamento e della coerenza dell’identità: la confabulazione espri-merebbe dunque un wishful thinking funzionale al mantenimento del benessere psichico del soggetto (Turnbull et al., 2004; Fotopoulou et al., 2007; Fotopoulou, 2008).

La seconda famiglia raccoglie una moltitudine di modelli neuro-psicologici, monofattoriali e bifattoriali, i quali si focalizzano su varie

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8. la confabulazione

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tipologie di deficit  –  mnemonici, esecutivi e di integrazione intere-misferica delle informazioni  –  e le relative basi neurali. Alcuni mo-delli si focalizzano sul malfunzionamento della memoria di recupero e della memoria ricostruttiva, altri sulla perdita del corretto ordine cronologico dei ricordi, altri modelli ancora individuano deficit a ca-rico delle funzioni esecutive, in particolar modo quelle di controllo e monitoraggio; e infine esistono modelli “laterali”, che spiegano la confabulazione in termini di un qualche grado di disconnessione tra i due emisferi del cervello e di conseguente organizzazione differen-ziale degli stessi: essa risulterebbe dunque dall’incapacità di comuni-care, scambiare e integrare adeguatamente le informazioni e sarebbe integralmente ascrivibile all’emisfero sinistro, associato al linguaggio (Geschwind, 1965; Joseph, 1986; Gazzaniga, 1985; 1995). Vanno svi-luppandosi, inoltre, tutti quei modelli bifattorali che diano conto del-la confabulazione attraverso una dualità di fattori di deficit (modelli della doppia lesione), da un lato deficit di accesso o di recupero di ricordi o delle percezioni, dall’altro deficit a carico dei processi ese-cutivi (Stuss et al., 1978; Metcalf et al., 2007; Hirstein, 2005). Sono presenti inoltre approcci “ibridi” per i quali vi sarebbe un concorso tra aspetti motivazionali e base neuropsicologica, dove i primi sarebbero in grado di determinare il contenuto della confabulazione e la secon-da causalmente responsabile della sua insorgenza (Fotopoulou et al., 2007).

Resta tuttavia evidente che, se si accetta il fatto che la confabula-zione insorge in una vasta gamma di situazioni cliniche che divergono tra loro rispetto alla base neurobiologica o addirittura in assenza di qualsiasi compromissione neurologica, non sembra esserci un singolo meccanismo responsabile del fenomeno. Per quanto riguarda dunque il piano eziologico della confabulazione si tende a un pluralismo cau-sale (Bortolotti, Cox, 2009).

8.3 Paradigma mnemonico

Per il paradigma mnemonico le confabulazioni sono produzioni er-rate e falsificate di ricordi e richiedono come condizione necessaria, ma non sufficiente, che dal punto di vista organico vi sia amnesia. Per questa prospettiva, le condizioni cliniche in cui la confabulazione si

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manifesta in forme eminenti sono la sindrome di Korsakoff, le sindro-mi da acoa e la malattia di Alzheimer.

Superando l’antica e intuitiva ipotesi del gap-filling per la quale le narrazioni confabulatorie svolgono la funzione di riempire una lacuna nella memoria autobiografica, le confabulazioni in questa prospettiva vengono spiegate attraverso una molteplicità di disordini specifici re-lativi alla compromissione della memoria; si possono distinguere quat-tro principali filoni di modellistica neurocomportamentale.1. Teorie del recupero: per queste prospettive la confabulazione è cau-sata da deficit e insufficienze nel richiamo strategico dei ricordi, con conseguente perdita dell’ordine temporale dei ricordi, delle fonti di tali ricordi, dei tempi e luoghi in essi rappresentati (Moscovitch, 1989; 1995).2. Teorie del contesto temporale: teorie che sottolineano la presenza di una scorretta dislocazione temporale o contestuale di informazioni recuperate; per questo modello, la cognizione del tempo è intatta, il soggetto è consapevole delle diverse dimensioni temporali – passato, presente e futuro – ma non riesce a discriminare abitudini personali e routine da ricordi episodici e progetti (Dalla Barba, 1993); in questo solco si collocano prospettive che enfatizzano l’incapacità di inibire e sopprimere tracce mnemoniche non rilevanti che quindi appaiono al confabulatore come indiscriminatamente connesse alla situazione pre-sente (Schnider, 2008). 3. Teorie esecutive o del monitoraggio della fonte: in questa famiglia si collocano tutte quelle prospettive che attribuiscono l’insorgenza del fenomeno a disfunzioni esecutive – associate alla corteccia prefronta-le – e in particolare alla compromissione della funzione chiamata “mo-nitoraggio della realtà”, che permette sia la distinzione delle differenti fonti e canali di acquisizione delle informazioni, sia la rilevazione di incoerenze nelle rappresentazioni ( Johnson, Raye, 1981; Johnson et. al., 1993). Questa modellistica, virtualmente compatibile anche con l’approccio epistemico, spiega in particolare i casi di confabulazione basati sulla fabbricazione ex nihilo di eventi mai accaduti, ma presen-tati e percepiti come realmente esperiti dal soggetto, categoria in cui rientrano tipicamente le confabulazioni infantili: infatti, nei bambini la corteccia prefrontale non è ancora pienamente sviluppata.4. Teorie della doppia lesione: per queste prospettive ciò che caratteriz-za la confabulazione oltre alla presenza di un’amnesia è la presenza di un danno frontale, dunque vi sarebbe tanto un deficit a livello mnemo-

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8. la confabulazione

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nico, quanto un deficit esecutivo a carico dei processi di monitorag-gio e controllo delle rappresentazioni (Stuss et al., 1978; Metcalf et al., 2007).

I modelli mnemonici, tuttavia, incorrono in una serie di obiezioni e di dati empirici problematici: vi è infatti una cospicua letteratura che presenta dati per scindere il nesso di correlazione necessaria tra amne-sia e confabulazione.

In primo luogo, vi sono numerosi casi di pazienti amnesici, pazienti con sindrome di Korsakoff e malati di Alzheimer che, pur avendo nu-merosi problemi nel determinare l’ordine temporale dei propri ricordi, non confabulano (Kopelman, 1989). Anche studi su pazienti frontali affetti da alterazioni della memoria (Shimamura et al., 1990), come pure studi su pazienti acoa, hanno evidenziato l’assenza di confabu-lazione. Alcuni autori hanno pertanto suggerito che i deficit di me-moria non sono né necessari né sufficienti a generare confabulazione (Nedjam et al., 2000).

Inoltre, deficit mnemonici e confabulazione possono seguire corsi di remissione differenti (Stuss et al., 1978): tipicamente, sia in pazienti di Korsakoff, sia in pazienti acoa la confabulazione può regredire e l’amnesia aggravarsi, mentre, in altri casi, accade il contrario: la con-fabulazione persevera e l’amnesia migliora. Anche su questo terreno sembra non esserci «una correlazione discernibile tra la propensione alla confabulazione e la gravità dell’amnesia» (Talland, 1965, p. 44) ed è stato suggerito che confabulazione e amnesia siano causate da danni a differenti sistemi neurali (DeLuca, 1993). Quantunque esistente, la correlazione tra amnesia e confabulazione è forse meno forte ed esclu-siva di quanto i teorici dei modelli mnemonici concedano.

E ancora, il paradigma mnemonico è soggetto anche a obiezioni di altro segno. Rispetto alla definizione classica che tende a presentarle come «narrazioni false legate alla distorsione dei ricordi», è stato no-tato che le confabulazioni non solo non sono necessariamente legate a ricordi, ma anche che non sono necessariamente false – talvolta gli eventi riportati sono realmente accaduti o altre volte i confabulatori possono accidentalmente produrre affermazioni vere – è il caso di hm che afferma correttamente di avere quattro figli adulti senza per questo smettere di confabulare: pertanto, la falsità come criterio di qualifica-zione della confabulazione risulterebbe troppo forte e fuorviante, e gli andrebbe preferito quello di “malfondatezza”. Inoltre, alcune evidenze empiriche tendono a negare che confabulazioni siano necessariamen-

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psicopatologia e scienze della mente

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1. Descrivere la confabulazione come un fenomeno che sottende deficit di co-noscenza permette di mappare nel seguente schema le sindromi che presentano una sintomatologia confabulatoria: deficit di conoscenza del corpo e dell’ambiente che lo circonda (anosognosia, somatoparafrenia, emianopsia); deficit di conoscenza di eventi recenti che riguardino un soggetto (sindrome di Korsakoff, sindromi acoa, morbo d’Alzheimer); deficit nella conoscenza di altre persone (sindromi di misi-dentificazione); deficit nella conoscenza della propria mente (pazienti split-brain, stimolazione cerebrale, soggetti normali in particolari setting sperimentali); deficit di conoscenza derivata dalla percezione visiva (sindrome di Anton). Cfr. Hirstein, 2005; 2009.

te verbali (cfr. anche Talland, 1961; Berlyne, 1972): in letteratura sono state registrate infatti confabulazioni averbali, di tipo tattile in pazienti sottoposti al test di Wada e di tipo grafico in soggetti sottoposti a test di riproduzione figurativa (Hirstein, 2009).

8.4 Paradigma epistemico

Il paradigma epistemico della confabulazione muove dall’esigen-za di individuare e isolare un denominatore comune alle occorrenze eterogenee e disparate del fenomeno confabulatorio, occorrenze che risulterebbero inconciliabili se si ammettesse che la confabulazione trova fondamento solo in deficit a carico della memoria. Secondo la formulazione di Hirstein (2005), l’autore che ha elaborato e difeso maggiormente questo modello, la confabulazione è essenzialmente un problema epistemico e dipende, dunque, da un deficit di conoscenza, generato entro due distinte fasi di errore nell’elaborazione cognitiva di una risposta, dove il primo malfunzionamento avviene in uno dei sistemi epistemici del cervello – tendenzialmente nel lobo temporale o parietale –, mentre il secondo malfunzionamento avviene a livello dei processi esecutivi, dunque a livello prefrontale. In questo senso, per Hirstein l’eziologia tipica della confabulazione è duale e deve contem-perare danni a livello temporale, in processi mnemonici o percettivi, e un danno a livello prefrontale1.

Nei termini del modello, un soggetto confabula circa l’istanza p se e solo se verifica le seguenti condizioni: a) il soggetto afferma che p; b) il soggetto crede che p; c) il pensiero del soggetto che p è infondato; d) il

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soggetto non sa che il suo pensiero è infondato; e) il soggetto dovrebbe sapere che il suo pensiero è infondato; f ) il soggetto è sicuro che p.

Per la condizione a), il verbo affermare è in grado di contemperare un’ampia varietà di espressioni verbali e non verbali (indicare, dise-gnare ecc.). Il criterio b) intercetta la buona fede del confabulatore. Il criterio c) introduce un terreno oggettivo di controllo e segnala la distorsione generata dalla confabulazione: tale distorsione costituisce una prima componente nel processo di errore sotteso alla confabula-zione. Il criterio d) segnala l’incapacità da parte del confabulatore di monitorare, controllare e, eventualmente, correggere la risposta da lui prodotta, e definisce il secondo momento – disesecutivo – di costitu-zione della risposta confabulatoria. Il criterio e) esprime un elemento di normatività controfattuale: se il soggetto avesse un normale funzio-namento cerebrale si troverebbe perfettamente in condizione di rico-noscere la malfondatezza della sua affermazione e credenza che p. Il criterio f ) si riferisce a un aspetto clinicamente evidente: la granitica certezza con cui il confabulatore afferma e crede che p.

Anche il modello epistemico non è esente da critiche di ordine concettuale: in primo luogo, è stata messa in discussione la tenuta del-la condizione e): ovvero il criterio per cui il soggetto che confabula dovrebbe sapere che l’affermazione che p è infondata. È stato notato infatti che «i soggetti hanno un vincolo epistemico a sapere che la loro credenza è malfondata solo se possono acquisire quella conoscenza» e, più precisamente, che «possono acquisire la conoscenza che la loro credenza è malfondata solo se hanno accesso all’informazione che con-sente loro di valutare la bontà dei fondamenti della loro credenza», dove tale accessibilità, se si guarda alla letteratura sulla confabulazione sugli split-brain e sulla confabulazione nei soggetti normali, non sem-bra esser data in alcun modo né nella confabulazione con base patolo-gica, né in quella osservata in soggetti non patologici (Bortolotti, Cox, 2009, p. 957).

In secondo luogo, il modello non è in grado di fornire un criterio di demarcazione solido tra confabulazione patologica e confabulazione non patologica – criterio che invece si renderebbe estremamente utile nella pratica clinica – né è in grado di demarcare la confabulazione da altre forme di falsa credenza dal momento che le condizioni congiun-tamente assunte si applicano ad altre forme di affermazioni infondate ed enunciate in buona fede, per esempio alle credenze derivate da fonti inaffidabili (per esempio, il sogno) (ivi).

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Infine, il modello non riconosce in modo adeguato i vantaggi epi-stemici della confabulazione e, in particolare, la sua funzionalità alla costruzione di una immagine di sé positiva, all’integrazione di infor-mazioni legate all’identità, al mantenimento di un sé socialmente vali-do (ibid.; Bortolotti, 2017).

8.5 Confabulazione e filosofia delle scienze cognitive

Anche se la comprensione scientifica della confabulazione è lontana dall’essere compiuta e a fortiori definitiva, questo curioso sintomo co-stituisce un fertile collettore di domande circa la struttura profonda della conoscenza e della mente umana.

In primo luogo, per molti autori, proprio nelle evidenti disfunzio-ni cognitive che caratterizzano i fenomeni confabulatori, traspaiono con la massima evidenza delle tendenze tipiche della mente umana: in particolar modo l’esigenza di significazione causale dell’esperienza, la natura narrativa dell’identità, il fondamento adattativo e sociale della stessa attitudine narrativa.

Nella scia di Gopnik, Coltheart (2017, pp. 67-8) sostiene che la con-fabulazione esprime una inestricabile «pulsione alla comprensione dell’esperienza in termini causali»: pertanto, ciò che accomuna le di-verse occorrenze di confabulazione tra loro e al ragionamento normale è sia la presenza fisiologica di una catena di inferenze abduttive nella generazione di una risposta a una sollecitazione, sia il sollievo che ne consegue: in questa prospettiva la confabulazione non è che «una ri-sposta normale a situazioni cognitivamente anormali», in cui la plau-sibilità della risposta è irrilevante rispetto alla legittimità dei processi abduttivi.

Per Dennett (1991, p. 418) tutta l’attività narrativa alla base della creazione e della presentazione pubblica dell’Io è in qualche modo inconsapevolmente confabulatoria: questi flussi narrativi, con i qua-li guadagniamo consistenza ontologica, ci presentano generalmente come soggetti – intelligenti, in controllo della propria vita, dei propri pensieri e delle ragioni alla base delle azioni – e come agenti, affidabi-li e responsabili. L’Io è un’entità fittizia, dalla natura essenzialmente confabulatoria, dalla cui presentazione si ricavano benefici in termini sociali, nella misura in cui essa stimola l’ascoltatore a postulare l’esi-

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8. la confabulazione

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stenza di un “centro di gravità narrativa”, di un agente unificato alla base di queste narrazioni.

Per Ramachandran e Blakeslee (1998) la confabulazione esprime l’esigenza, in ultima istanza adattativa e sociale, che le persone hanno di determinare la loro situazione presente e di agirci sopra velocemen-te, ovviando a tutti quei lussi cognitivi, assai pericolosi in termini adat-tativi, rappresentati per esempio dal dubbio e dalla discriminazione riflessiva dei dettagli e di tutti i possibili corsi d’azione.

In secondo luogo, la complessa articolazione neuropsicologica del-la confabulazione si presta a utili inferenze circa la configurazione ge-nerale della cognizione umana, in particolare sul ruolo dei processi di mindreading, sull’architettura della coscienza e della razionalità.

Come è noto, talvolta i filosofi hanno trovato utile il concetto di confabulazione per denotare i report che i soggetti forniscono circa i propri processi mentali durante certi compiti sperimentali, nella mi-sura in cui tale concetto fa da sponda all’idea che i soggetti non di-spongano di un accesso introspettivo privilegiato e affidabile ai propri stati e processi mentali e che, in mancanza di questo, confabulino, fab-brichino cioè risposte plausibili facendo ricorso a teorie causali social-mente condivise (Nisbett, Wilson, 1977), somigliando così, dal punto di vista operativo, ai pazienti split-brain in cui l’emisfero sinistro spe-cula in forma confabulatoria sui compiti impartiti all’emisfero destro.

In questa tradizione di critica all’introspezione, la capacità di pre-dire e di spiegare i fenomeni confabulatori è uno degli argomenti a supporto del modello isa di Carruthers (2011) per il quale – come si è visto sopra, nel cap. 6 – la confabulazione, come classe di attribuzioni di stati mentali in prima persona generate da un processo interpretati-vo piuttosto che da un processo introspettivo, risulta soggettivamente indistinguibile dai casi di presunta introspezione.

Nella letteratura sperimentale sulla confabulazione sembrano esserci evidenze a supporto del coinvolgimento dei meccanismi di mindread ing (Hirstein, 2005; 2009): le aree cerebrali tipicamente danneggiate nel confabulatore, sono confinanti o parzialmente so-vrapposte alle aree tipicamente associate alle attività di mindreading, in particolare la corteccia parietale inferiore destra e la corteccia or-bitofrontale. La confabulazione sembra dunque potersi agevolmente associare all’incapacità di leggere la mente degli altri e, di conseguenza, la propria. Se le capacità di mindreading sono danneggiate viene meno un’importante funzione inibitoria nell’elaborazione cognitiva, si di-

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2. Occorre notare però che percorrere tale traccia di ricerca indebolisce, o quan-tomeno complica, l’adozione della prospettiva deflazionistica sull’autoinganno a cui si ricorre per determinare una continuità tra autoinganno e confabulazione (Hir-stein, 2005; 2009).

venta incapaci di simulare le reazioni e gli stati mentali degli altri e di evocare gli standard sociali che orientano la formazione e il controllo delle credenze.

Hirstein (ibid.) ha inoltre suggerito che l’analisi della confabula-zione sia utile per formulare ipotesi relative al ruolo della coscienza: se nella coscienza del confabulatore sono presenti vaste lacune di cui egli è completamente all’oscuro, in che misura il processo di errore dua-le, epistemico ed esecutivo, implicato dalla confabulazione interferi-sce con la funzione globale della coscienza? Quali inferenze relative al ruolo della coscienza è possibile avanzare prendendo in considerazione i fenomeni confabulatori?

L’esistenza della confabulazione è utile anche per interrogarsi sul-la natura e sui limiti della razionalità umana. In particolare, essa sem-brerebbe costituire un potenziale pericolo per le teorie olistiche della razionalità, che escludono l’esistenza di “atolli” di irrazionalità nella rete di credenze. Quando infatti i pazienti confabulatori sono messi di fronte alle contraddizioni veicolate dalle loro affermazioni non sem-brano esserne minimamente scossi, non fanno esperienza di ansia o di tensioni di alcun tipo e danno piuttosto mostra di sovrana indifferenza (Moscovitch, 1995). La letteratura empirica su soggetti confabulatori potrebbe pertanto indicare che il nostro insieme di credenze non sia omogeneo ma, al contrario, articolato in domini separati e relativa-mente impermeabili (Hirstein, 2005; 2009)2.

8.6 Conclusioni

Nel corso del capitolo sono state delineate le principali direttrici ana-litiche che orientano la ricerca empirica e teorica sulla confabulazione, intesa come sintomo comportamentale e verbale che accompagna una varietà di condizioni patologiche  –  neuropsicologiche e psichiatri-che – e non patologiche. Nella confabulazione si coniugano due aspet-ti fondamentali: da un lato, un’elaborazione erronea di informazioni

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8. la confabulazione

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esperienziali rilevanti nell’ambito della situazione di rilevazione data e rispetto agli stimoli somministrati, che porta il soggetto a produrre narrazioni e report falsi o malfondati rispetto all’evidenza; dall’altro, la granitica convinzione soggettiva nella verità di tali affermazioni esclude che tali report erronei siano formulati in malafede, cioè con intenzione e coscienza di mentire.

A partire dalla considerazione di alcune istanze cliniche, è stato im-postato il problema della definizione: l’analisi delle definizioni opera-tive, ristrette e allargate, finora disponibili in letteratura non si rende capace di fornire un terreno descrittivo univoco e consensuale. L’anali-si delle distinzioni interne tra sottotipi di confabulazione (d’imbaraz-zo/severe, spontanee/provocate, primarie/secondarie) e dei problemi di demarcazione rispetto ad altre forme di falsa credenza (autoingan-no, menzogna patologica, delirio) si rivela relativamente inconclusiva ai fini della determinazione dello statuto dei fenomeni confabulatori. Di conseguenza, in letteratura la modellistica eziologica (motivaziona-le e neuropsicologica) è notevolmente ampia e differenziata.

Sono stati esaminati in particolare due paradigmi esplicativi fon-damentali: il paradigma mnemonico che raccoglie modelli eterogenei accomunati dal fatto di indicare come condizione necessaria per la confabulazione la presenza di un deficit a livello delle funzioni mne-moniche; il paradigma epistemico, per il quale la confabulazione espri-me un deficit epistemico, prodotto da un doppio errore – percettivo o mnemonico e di monitoraggio esecutivo – nell’elaborazione episte-mica delle credenze. Sebbene entrambi i paradigmi siano, per ragioni diverse, esposti a obiezioni empiriche e concettuali rilevanti, si è vo-luto sottolineare come la ricerca sulla confabulazione costituisca un terreno estremamente fertile tanto per isolare e problematizzare delle tendenze fisiologiche della mente umana, quanto per esaminare in via differenziale sia meccanismi e circuiti mentali specifici, sia l’assetto e l’architettura di funzioni mentali complesse.

Massimo Marraffa
Barra
Massimo Marraffa
Testo inserito
dimostra
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Un contributo significativo al dibattito contemporaneo sulla fenome-nologia dell’azione è dato dalla letteratura sperimentale e psicopato-logica sull’agency, che da diversi decenni rende possibile l’analisi dei diversi elementi coinvolti nel processo che presiede all’esecuzione di un’azione. Scopo del presente capitolo è far emergere, alla luce di alcu-ni dati neuropsicologici e psichiatrici, la specificità, la complessità e la dipendenza dal contesto dei meccanismi cognitivi soggiacenti la consa-pevolezza agentiva o senso di agentività (self-agency o Sense of Agency).

Verranno distinte due componenti determinanti nella fenomeno-logia dell’azione a partire da alcune evidenze neurofisiologiche (cfr. par. 9.1). Si presenterà poi un modello neurocognitivo, concepito alla luce della sintomatologia della schizofrenia, secondo il quale anche in circostanze non patologiche il senso di autoefficacia causale non coin-cide con i meccanismi del controllo motorio né con la consapevolezza dell’azione (cfr. par. 9.2). Saranno confrontate le due principali ipo-tesi presenti in letteratura sull’origine del senso di agentività, con ri-ferimento alle disfunzioni del senso di agency nella schizofrenia e nel disordine dello spettro autistico (cfr. par. 9.3). Infine, si esaminerà bre-vemente il dibattito sull’uso del pronome di prima persona e sulle di-sfunzioni del Sense of Agency nelle esperienze psicotiche (cfr. par. 9.4).

9.1 Senso di agentività e senso di proprietà

Per introdurre la definizione di Sense of Agency (d’ora in poi soa) sarà utile presentare uno dei casi più noti della letteratura sulla compro-missione dell’autoattribuzione dell’azione: la sindrome della mano

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La consapevolezza agentivadi Mariaflavia Cascelli

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anarchica (anarchic hand syndrome: cfr. Marchetti, Della Sala, 1998). I pazienti affetti da questo disturbo – solitamente attribuibile a una lesione al lobo frontale nell’emisfero opposto a quello collegato alla periferia corporea – eseguono movimenti che vengono percepiti come indipendenti dal loro controllo intenzionale. Questa disfunzione neu-rofisiologica permette di riconoscere distintamente l’eterogeneità tra due aspetti fenomenologici fondamentali: il soa e Sense of Ownership (d’ora in poi so).

Il senso di agentività è la consapevolezza da parte di un agente della paternità, quindi dell’autorevolezza, delle proprie azioni (Gal-lagher, 2013). La percezione di autoefficacia, cioè la consapevolez-za che l’agente ha di essere la causa delle proprie azioni, costituisce il fondamento dell’agentività. La sensazione di essere causalmente determinante nel produrre degli effetti può senz’altro declinarsi nel senso dell’appartenenza corporea, ma è il senso di authorship, di au-toefficacia dell’atto, quindi l’ascrivibilità a sé della propria azione, a determinare l’autoconsapevolezza agentiva, non essendo  –  come ve-dremo  –  la propriocezione corporea condizione sufficiente, né ne-cessaria. Il soa coincide con il senso di sé in quanto agente respon-sabile dell’esecuzione di azioni, indipendentemente dalla loro natura intenzionale e dalla loro volontarietà (Marcel, 2003). Il paziente af-fetto dalla sindrome della mano anarchica non ha controllo sull’arto, che viene avvertito come dotato di vita propria, un’entità autonoma svincolata dal governo della volontà. In questo disturbo neurologico sono quindi chiaramente dissociati soa, del tutto o completamente assente, e so, inteso come la percezione del soggetto agente di essere il luogo ove si svolge il movimento, il senso di appartenenza corporea, la consapevolezza propriocettiva come percezione e rappresentazione del proprio corpo nello spazio.

L’eterogeneità fra queste due componenti coinvolte nella fenome-nologia dell’azione si manifesta anche in circostanze non patologiche, per esempio nell’ipnosi, dove gli agenti sembrano valutare le azioni come qualcosa che capita loro; o in circostanze ordinarie, per esempio negli automatismi.

Il senso di agentività comporta una forte componente efferente, relativa ai comandi che il cervello invia al corpo, mentre il senso di proprietà coinvolge una componente afferente, quindi si determina principalmente attraverso la ricezione nel cervello dei segnali della pe-riferia corporea, visivi e somatosensoriali (Tsakiris, Haggard, 2005): la

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9. la consapevolezza agentiva

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consapevolezza di un movimento involontario relativamente al quale non esperiamo soa deriva da un feedback sensoriale, da informazio-ni propriocettive-cinestetiche che restituiscono l’immagine del corpo in movimento anche quando il soggetto non si percepisce causa del moto. Il ruolo svolto dalla visione dei correlati corporei coinvolti nel movimento nel determinare tanto il senso di agentività quanto il sen-so di proprietà emerge in alcuni esperimenti nei quali la percezione visiva viene manipolata e il senso di ownership corporea viene altera-to. Nel paradigma dell’illusione della mano di gomma (Botvinick, Cohen, 1998) il feedback visivo di una mano in movimento che non è quella del soggetto sperimentale è sufficiente a produrre il so. Nel set sperimentale il soggetto siede a un tavolo osservando una mano di gomma che viene stimolata ripetutamente e simultaneamente a quella reale del soggetto, che è però nascosta alla sua vista. Allorché i tocchi percepiti sono simultanei ai tocchi osservati sulla mano di gomma, il soggetto riporta l’esperienza localizzandola nella mano di gomma (cfr. fig. 9.1).

Questa situazione sperimentale mostra l’integrazione multisenso-riale e il contributo della correlazione fra visione, tatto e proprioce-zione al possesso di una forma di autocoscienza corporea (de Vigne-mont, 2007; Metzinger, 2009). È interessante notare come ciò che è alla base dell’illusione non sia la propriocezione come senso interno di appartenenza del corpo, ma l’integrazione fra questa e la visione: il paradigma permette quindi di rilevare come la visione influenzi significativamente la percezione interna del corpo (Clark, Jacobsen, Haggard, 2004). Un altro dato significativo rilevato relativamente all’integrazione tra gli input che determinano l’illusione è la simul-taneità della stimolazione di arto finto e arto reale, necessaria per l’illusione sensoriale. Benché sia stato osservato che l’illusione ha luogo anche senza stimolazione, quindi tramite la sola osservazio-ne dell’arto finto (Bruno, Pavani, Zampini, 2010), essa non si veri-fica nel caso in cui lo sperimentatore stimola le due mani in modo asincrono (Tsakiris, Haggard, 2005). Permettendo di individuare i meccanismi coinvolti nel processo di autoattribuzione dei correlati corporei, questo paradigma sembra minare l’idea che vi sia una dif-ferenza epistemica tra la percezione del proprio corpo dall’interno e la percezione del proprio corpo dall’esterno (Bermúdez, 1998; Dokic, 2003; de Vignemont, 2011).

Disfunzioni relative all’autoattribuzione di esperienze corporee si

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rilevano anche nella somatoparafrenia, disturbo in cui un danno cere-brale nel lobo parietale dell’emisfero destro determina l’attribuzione dell’arto a un altro individuo o fantasie riguardo i propri arti paretici (Balconi, 2012). Nella sindrome della mano aliena, per esempio, riscon-trabile in casi di lesione posteriore del corpo calloso (e non anteriore, come nel caso della mano anarchica), oltre a mancare il senso di agen-tività relativamente all’arto, si osserva una parziale emisomatoagnosia, ovvero la perdita della percezione del proprio corpo (Marchetti, Della Sala, 1998).

Sindrome della mano anarchica, ipnosi e movimenti involontari sono circostanze nelle quali il senso di proprietà non è accompagnato dal senso di agentività.

Al contrario, nel fenomeno degli arti fantasma (Wegner, 2002, pp. 40-4) i soggetti non percepiscono sensazioni di ritorno dai muscoli, pur percependo lo sforzo dell’invio del comando agli stessi, e il senso di agentività è intatto anche se mancano segnali di ritorno dalla periferia corporea. In simili condizioni, il senso di proprietà, di appartenenza del proprio muscolo passivo può essere affidato a un monitoraggio vi-sivo continuo, senza il quale il soggetto perderebbe la consapevolezza dei movimenti come propri.

figura 9.1 L’illusione della mano di gomma

Fonte: Metzinger (2009).

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9. la consapevolezza agentiva

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9.2 Controllo motorio, consapevolezza dell’azione

e consapevolezza del sé agente

La disfunzione del senso di agentività vista nel caso clinico della mano anarchica offre uno spunto per interrogarsi sulle condizio-ni necessarie affinché un movimento possa essere classificato come azione. L’analisi della forma di autocoscienza coinvolta nella feno-menologia dell’azione è al centro del dibattito sulla consapevolezza agentiva. Siamo inclini a considerare il movimento della mano anar-chica come un’azione, nonostante il paziente lo percepisca alla stre-gua di un riflesso, non riconoscendo la responsabilità e il controllo relativamente a esso. Eppure, è stato notato come i movimenti della mano aliena non sono quasi mai privi di senso, quanto complessi e orientati a scopi facilmente intuibili a un occhio esterno, nonché ben eseguiti ai fini degli “obiettivi della mano”, e questo aspetto ren-de problematico classificare il caso come un automatismo (Wegner, 2002).

Si è accennato come nei pazienti affetti dal disordine dell’arto fantasma, in mancanza di informazioni propriocettive e di feedback sensoriale corporeo venga preservato il sentimento di agentività, la percezione quindi di poter inviare comandi a un corpo assente: in che momento dell’interazione tra cervello e corpo si origina quindi la sensazione di autoefficacia? Con le parole di Wegner:

La sensazione ( feeling) di muovere un dito […] nasce allorché il cervello invia al dito un impulso lungo le fibre nervose motorie o efferenti? Oppure la sen-sazione nasce nel momento in cui il muscolo invia al cervello un impulso di ritorno lungo le fibre nervose sensoriali o afferenti? (ivi, p. 36).

Intuitivamente, l’atteggiamento intenzionale dovrebbe prescindere dal possesso di abilità concettuali, riflessive o metarappresentazio-nali, e la percezione e l’azione sembrano domini dove l’organismo è coinvolto anzitutto tramite una sensazione immediata di essere l’autore o il “luogo” di un movimento (Howhy, 2007). Eppure, la comprensione dei meccanismi neurocognitivi sottostanti la fenome-nologia dell’azione (Roessler, Eilan, 2003), ha spesso contribui to a mettere in discussione l’idea che la consapevolezza agentiva sia un

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dato immediato della coscienza, immune da errore, garanzia dell’a-simmetria epistemica tra prima e terza persona (Carruthers, 2009), e suggerito una riconsiderazione delle forme che l’autocoscienza assume nei processi decisionali (si pensi ai noti esperimenti di neu-rofisiologia di Libet, citatissimi nella letteratura sul libero arbitrio e sull’illusorietà del soa). Se per un verso, quindi, l’azione è un in-dicatore diretto di “presenza”, che dovrebbe definire senz’altro lo spazio di una forma di autocoscienza semplice, corporea; per altro verso, la letteratura suggerisce che spesso la sensazione di autoeffi-cacia causale è individuata in un processo di riappropriazione e rie-laborazione a posteriori delle ragioni inconsce che hanno portato al processo decisionale (Wegner, 2002). Le spiegazioni, talvolta molto elaborate, fornite dai soggetti split brain, dai pazienti con sindrome della mano anarchica e da altri numerosi casi clinici sono un esem-pio della natura spesso confabulatoria dell’autoattribuzione del soa (cfr. cap. 8).

Nella sintomatologia schizofrenica è stato notato, per esempio, che le disfunzioni del senso di agentività non sembrano riducibili a deficit di monitoraggio dell’azione, né alla mancanza di consapevo-lezza della stessa, dal momento che i disturbi cognitivi riguardano i livelli complessi della ri-appropriazione a posteriori dell’azione: in altre parole, il senso di agentività, ma non altri elementi coinvolti nell’esperienza agentiva, deriverebbe da una differenziazione, non immediata né automatica, tra il soggetto agente e gli altri agenti (de Vignemont, Fourneret, 2004).

Si pensi inoltre ai pazienti frontali che eseguono automatica-mente l’azione compiuta da un agente che stanno osservando, per-dendo la capacità di distinguere tra le loro intenzioni e le intenzioni dell’altro. Questo si verifica anche in circostanze non patologiche, per esempio nell’imitazione, interpretabile come uno «stato neu-tro» nel quale il parametro dell’agente non è specificato. Il feno-meno, secondo alcuni psicologi presente sin dalla nascita (Meltzoff, Gallagher, 1995), individuerebbe una sorta di ponte di raccordo sul quale “viaggia” l’informazione interpersonale (de Vignemont, Fourneret, 2004), implicando un meccanismo innato che individua il dominio della rappresentazione condivisa dell’azione. Il processo imitativo dovuto all’attivazione della stessa area corticale nell’ese-cuzione e nell’osservazione dell’azione è quindi considerato come un «momento neutrale relativamente all’agente»: la rappresenta-

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9. la consapevolezza agentiva

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zione dell’azione è condivisa in termini di attivazione cerebrale. Le rappresentazioni condivise sono definite “pragmatiche” ( Je-annerod, 1994): inglobando le proprietà del sistema motorio per l’ottimizzazione dell’esecuzione dell’azione, così come le proprietà dell’oggetto percepite come rilevanti per una interazione efficace dell’agente con esso (le affordances), non prevedono descrizioni se-mantiche dell’oggetto, o la consapevolezza del movimento da una prospettiva in terza persona. Tuttavia, la prospettiva in prima perso-na coinvolta nelle rappresentazioni condivise di azione non veicola informazioni sull’autore dell’azione. Il soa dovrebbe quindi essere considerato come appartenente a un livello funzionale diverso da quello responsabile del meccanismo del controllo dell’azione e del-la consapevolezza dell’azione, come emerge, si è detto, da riscontri empirici dalla neuropsicologia della schizofrenia, che individua i di-sturbi a livello dell’appropriazione dell’azione, rilevando un’intatta capacità di monitoraggio sulla stessa. Da queste evidenze deriva la proposta di considerare un’eterogeneità tra tre momenti solo appa-rentemente uniformi nella fenomenologia dell’azione: il control-lo motorio, la consapevolezza dell’azione e la consapevolezza del sé agente in quanto autore dell’azione (de Vignemont, Fourneret, 2004). I modelli neurocognitivi che scaturiscono dalla disamina di questi casi studio delineano uno scenario di ricerca nel quale il modo in cui diveniamo consapevoli della paternità di un’azione è indagato scomponendo i diversi livelli coinvolti nella fenomeno-logia dell’azione. La consapevolezza immediata del fatto che ci muoviamo, e che dunque la sensazione di essere agenti attivi de-rivi dalla consapevolezza delle azioni che compiamo, sembrerebbe intuitivamente necessaria per garantirci quel senso di autoefficacia causale che abbiamo definito “autoconsapevolezza agentiva”. Eppu-re, la neuropsicologia della schizofrenia suggerisce l’esistenza di un processo cognitivo sottostante il soa (Who System – cfr. Geor gieff, Jeannerod, 1998), il cui corretto funzionamento viene meno, per esempio, nei fenomeni di delirio di controllo (Frith, 1992). L’ipo-tesi che questo sistema sia alla base del soa riceve conforto, fra l’al-tro, dagli esperimenti sull’empatia, che stabilendo una simmetria fra l’esecuzione e l’osservazione delle azioni a livello dei meccanismi sottostanti, pongono il problema della discriminazione, da parte del soggetto, tra fonti interne ed esterne della rappresentazione (Geor-gieff, Jeannerod, 1998).

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9.3 Il senso di agentività tra meccanismi “predittivi”

e meccanismi “retrodittivi” nella schizofrenia e nella sindrome dello spettro autistico

L’origine del soa può quindi ricercarsi tanto nell’informazione pro-veniente dalla periferia corporea, dunque dalla percezione visiva e pro-priocettiva, quanto nell’origine e nella pianificazione delle azioni. Le ricerche sui meccanismi alla base dell’agency si occupano della forma-zione del processo decisionale, del suo risvolto pratico, e degli effetti di ritorno dell’azione sull’autoconsapevolezza agentiva. L’indagine si rivolge dunque al momento anteriore l’esecuzione dell’azione e ai feedback visivi e somatosensoriali della stessa alla sensazione di effica-cia causale. Oltre ad analizzare il contributo delle intenzioni e dei co-mandi efferenti che dal cervello inviano segnali al corpo, si considera il modo in cui l’esecuzione-visualizzazione delle azioni contribuisce a rafforzare o indebolire il senso di proprietà delle stesse o quello di au-toefficacia causale (Balconi, 2012).

Il dibattito sulla fenomenologia dell’azione intenzionale, al cro-cevia di scienze cognitive e psicopatologia, consiste nel confronto fra due modelli esplicativi. Secondo il paradigma del sistema comparato-re (cfr. cap. 6), il confronto tra un segnale afferente e uno efferente e la corrispondenza tra i due genererebbe il senso di agentività. Tale modello comparatore individua nella previsione delle conseguen-ze sensoriali del movimento l’elemento che permette di percepire le azioni come autogenerate. Il senso di agentività sarebbe garantito dalla corretta elaborazione della copia efferente e dal centro compa-ratore, mentre il senso di appartenenza dal feedback sensoriale, ovvero dall’informazione sensoriale afferente. La distinzione tra compara-tore anticipatorio ( feedforward) e comparatore sensoriale di ritorno ( feedback) coincide con la distinzione tra sense of agency e sense of ow-nership. Secondo il paradigma del comparatore, il deficit del senso di agentività nel paziente schizofrenico è imputabile a un’alterazione nel sistema di controllo regolato dal meccanismo del feedforward. Una di-mostrazione sperimentale di questo modello è proposta da uno studio nel quale vengono messi a confronto pazienti schizofrenici con allu-cinazioni uditive e soggetti normali (Frith, 2002). Viene applicato un microfono collegato a un sistema in grado di alterare il timbro di voce

Massimo Marraffa
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Massimo Marraffa
Testo inserito
(Johns et al., 2001)
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dei soggetti di entrambi i gruppi, i quali sentiranno la propria voce ri-prodotta nelle cuffie. L’esperimento consiste nell’alterare il timbro di voce sia dei soggetti schizofrenici sia dei soggetti del gruppo di con-trollo e verificare le reazioni di entrambi i gruppi. Mentre i soggetti normali reagiscono senza stupore all’alterazione del loro timbro, in-ferendo che questo sia stato modificato da un’apparecchiatura, i sog-getti schizofrenici non riconoscono la propria voce. In questa situa-zione sperimentale viene alterato il feedback, ovvero l’informazione di ritorno che i soggetti si aspettano. L’ipotesi è che questo accada a causa del mancato funzionamento del sistema di controllo anticipa-torio (modello a feedforward) da cui dipende l’elaborazione della con-sapevolezza dell’intenzione di agire e la capacità di riconoscersi come agente delle proprie azioni. Il senso di agentività deriverebbe quindi dalla percezione di una congruenza tra effetti attesi ed effetti rilevati; laddove viene registrata un’incongruenza, il senso di paternità dell’a-zione decade.

Eppure, altre evidenze suggeriscono che il più delle volte in assenza di una predizione interna coerente con i feedback sensoriali, i pazienti tendano ad autoattribuirsi la paternità dell’azione. Inoltre, il modello comparatore non sembra esaustivo nello spiegare il fatto che l’auto-attribuzione fallimentare di agentività sia deficitaria in circostanze si-gnificative relativamente alla biografia degli individui. Che il modello del comparatore non possa esaurire le spiegazioni relative alla genesi del soa si evince anche dalla fenomenologia ordinaria: molto spesso il fatto che sperimentiamo il soa pur non avendo previsto di effettuare alcuna azione sembra minare l’ipotesi che questo dipenda dalle previ-sioni delle conseguenze sensoriali dell’azione.

L’ipotesi che alla base del senso di agentività vi sia il confronto tra conseguenze sensoriali previste e conseguenze effettive è quindi pro-blematica per diversi motivi. Anzitutto, come si è detto, spesso com-piamo dei movimenti incongruenti rispetto alle nostre previsioni, pur riconoscendoli come nostri prodotti; inoltre, il senso di agentività è spesso indipendente da qualsiasi output; infine, spesso è possibile per-cepire una sensazione di autoefficacia senza che si verifichi azione alcu-na (Wegner, Sparrow, Winerman, 2004; Synofzik, Vosgerau, Newen, 2008) (cfr. fig. 9.2). La condizione necessaria affinché si dia senso di agentività, quindi, potrebbe non essere la congruenza tra effetti atte-si ed effetti rilevati (Wegner, 2002). È stato notato come il modello comparatore si adatti alla spiegazione del controllo motorio, che non

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coincide con il senso di agency, dal momento che possiamo controllare automaticamente un’azione senza percepirne la paternità (de Vigne-mont, Fourneret, 2004).

Come alternativa all’ipotesi della comparazione è stato proposto un approccio radicalmente top down, secondo il quale condizione ne-cessaria per esperire la sensazione di volontà cosciente è che essa sia riportata dal soggetto a posteriori, che sia riconosciuta, razionalizzata. L’autocoscienza agentiva, in questo modello, è il prodotto di un’at-tività interpretativa, di un’autoattribuzione a posteriori, retrodittiva, spesso confabulatoria e difensiva (Wegner, 2002, p. 130).

figura 9.2 Lo studio di Wegner, Sparrow, Winerman (2004). Un soggetto (la partecipante) teneva le braccia lungo i fianchi, mentre dietro di lei, nascosta da uno schermo, un secondo soggetto (l’aiutante) estendeva le braccia in avanti in modo che ap-parissero (viste di fronte) come quelle della partecipante. A entrambi i soggetti furono date delle cuffie. Gli aiutanti udirono istruzioni per eseguire una serie di movimenti con le mani (per esempio fai il segno “ok” con entrambe le mani). I partecipanti furono divisi in tre gruppi, a seconda di ciò che udivano. Un gruppo (il gruppo sperimentale) udiva le istruzioni che riceveva l’aiutante, mentre gli altri gruppi (i gruppi di controllo) o non udivano nulla oppure udivano l’istru-zione di eseguire un movimento incoerente con quello che udiva l’aiutante. Il ri-sultato è stato che i membri del primo gruppo riferirono la sensazione dell’essere soggetti agenti in relazione alle azioni dell’aiutante in misura maggiore rispetto a entrambi i gruppi di controllo. Lo studio solleva un grosso problema per il mo-dello del comparatore. Il soggetto non esegue alcuna azione; dunque, non vi è motivo di ritenere che esso formuli una previsione basata sui comandi motori

Fonte: Wegner, Sparrow, Winerman (2004).

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La clinica dell’agentività offre l’opportunità di apprezzare entram-be le interpretazioni presenti in letteratura: si è detto come il danneg-giamento dei meccanismi alla base di una corretta attribuzione del soa nella sindrome schizofrenica sia legato alla disfunzione della struttu-ra narrativa del sé. Al contrario, è stato osservato come nei disordini dello spettro autistico il soa poggi su un’intatta capacità di fabbricare giudizi e narrazioni a posteriori, essendo deficitari tanto il sistema an-ticipatorio e predittivo quanto il meccanismo di controllo. Se interpel-lato per una valutazione sull’esecuzione di un’azione e sul controllo esercitato su di essa, il paziente tende a ricorrere a giudizi a posteriori relativamente alla propria performance, inglobando nel processo di au-toattribuzione di agentività indizi e giustificazioni esterne, ambientali (Zalla, Sperduti, 2015).

L’eterogeneità fra autoattribuzione dell’azione e controllo moto-rio rende quindi il modello comparatore deficitario se inteso come esplicativo del complesso sistema che determina il soa, ma il model-lo narrativo non rende conto in modo adeguato del soa preriflessivo, minimale (Bayne, Pacherie, 2007; Synofzik, Vosgerau, Newen, 2008). Entrambi colgono aspetti importanti, differenti e separabili, della fe-nomenologia dell’azione.

9.4 Deficit di soa nella psicosi:

un’eccezione al principio di immunità?

I disordini mentali descritti dalla letteratura psicopatologica si mani-festano il più delle volte come forme di precarietà dell’autocoscienza. Nei deliri psicotici quali l’inserzione di pensiero, l’allucinazione udi-tiva o la delusione di controllo, i soggetti riportano la sensazione che il proprio corpo e i propri pensieri siano sotto controllo di altri, e si percepiscono come spettatori della propria vita mentale (Stephens, Graham, 1994). Un contributo interessante alla comprensione della consapevolezza agentiva proviene dalle ricerche sull’uso del prono-me di prima persona in questi casi clinici, e, più in generale, sulla forma di autocoscienza coinvolta nell’autoattribuzione dell’azione (Hobson, 2011). L’ambito della patologia mentale sembrerebbe rap-presentare un’eccezione al cosiddetto principio di immunità (Shoe-maker, 1968), secondo cui, nell’uso del pronome “Io”, il soggetto che

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lo impiega non può commettere errori relativamente al soggetto cui è riferito. Normalmente siamo inclini a pensare che non vi siano casi in cui qualcuno usi il pronome di prima persona come soggetto (“Io ho i capelli rossi”) e si sbagli nel riferimento del soggetto (Campbell, 1999; Gallagher, 2000; Coliva, 2002). L’autoattribuzione di proprie-tà corporee così come l’uso referenziale di espressioni singolari am-mettono errori nell’identificare il referente: l’io come oggetto non è immune dall’errore per lo stesso motivo per il quale è possibile sba-gliarsi nell’individuare l’oggetto cui si riferisce un’espressione singo-lare, e cioè perché l’identificazione ammette ipso facto la possibilità di mala identificazione. Al contrario, nel caso di io come soggetto, è impossibile sbagliare il riferimento: «Non v’è questione di rico-noscimento d’una persona quando dico d’avere il mal di denti. Sa-rebbe assurdo domandare: “Sei sicuro d’essere tu ad aver dolore?”» (Wittgenstein, 1983, p. 95).

Eppure, i fenomeni di misconoscimento corporeo presentati nel paragrafo 9.1, e i numerosi riscontri empirici sull’attribuzione defici-taria dell’agency (cfr. parr. 9.2 e 9.3) suggeriscono che l’infallibilità epistemica delle autoattribuzioni possa vacillare non solo a livello di propriocezione corporea ma anche a livello del senso di autoefficacia causale  –  analogo fenomenologico dell’uso linguistico, soggettivo del pronome in prima persona  –  e sembrano riguardare anche l’i-dentificazione del sé. Intuitivamente, siamo disposti ad ammettere che in un giudizio del tipo “penso che X” possiamo essere in errore su X, ma siamo “cartesiani” nel non dubitare del fatto che quando proferiamo “penso” ci stiamo riferendo a io, non mettendo in discus-sione il fatto che potremmo sbagliarci nel riconoscere il soggetto del pensiero. Tuttavia, proponendo un’ipotesi “simulazionista” riguardo i meccanismi coinvolti nell’autoidentificazione e nelle autoattribu-zioni di agentività, e osservando quindi come la simulazione fornisca le basi per il riconoscimento e l’attribuzione delle azioni, il problema dell’autoidentificazione sembra porsi, secondo questa ipotesi, tanto per il sé come soggetto quanto per il sé come oggetto ( Jeannerod, Pacherie, 2004).

Su questo aspetto come sull’interpretazione degli usi del pronome in prima persona nei casi clinici le ipotesi in letteratura sono numerose e il dibattito è naturalmente aperto: è possibile, per esempio, indivi-duare nei fenomeni psicotici quali l’inserzione di pensiero esempi di eccezioni al principio di immunità (Campbell, 1999), o al contrario

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osservare come il mancato riconoscimento dei pazienti in questi casi riguardi unicamente il soa (la percezione di aver causato il pensiero), ma non quello di so (la percezione che il proprio corpo sia il luogo dove il pensiero risiede) (Gallagher, 2007; 2013).

9.5 Conclusioni

Se è vero che entrambi i modelli esplicativi relativi all’autoconsapevo-lezza agentiva colgono importanti aspetti del fenomeno e presentano difficoltà – da diversi anni infatti è molto apprezzata nella letteratu-ra una posizione conciliatoria, che include tanto la lettura bottom-up quanto quella top-down, congiuntamente ritenute esaustive per rende-re conto dell’architettura complessa dell’autoconsapevolezza agentiva (Bayne, Pacherie, 2007) – una conquista del confronto con la psicopa-tologia e la scienza dell’agentività riguarda senz’altro l’individuazione di una “tassonomia” dei diversi livelli coinvolti nella fenomenologia dell’azione (de Vignemont, Fourneret, 2004). L’autonomia dei livelli del controllo e del monitoraggio dell’azione, che come si è visto sono indipendenti dai livelli della consapevolezza dell’azione e dall’auto-consapevolezza agentiva tanto nella fenomenologia ordinaria quanto nella sindrome schizofrenica, suggerisce di considerare lo sviluppo della consapevolezza del sé agente come un passaggio graduale da un nucleo identitario minimale e da una forma basilare di prospettiva in prima persona, alle forme più complesse e relazionali dell’identità personale. Questo non significa che non si diano forme di agentività come esperienza immediata, preriflessiva, non dipendente né mediata da un atteggiamento introspettivo del soggetto, e che l’agentività sia solo il risultato di meccanismi inferenziali di livello superiore, riflessi-vi: «il concetto di agency è il senso presente del sé-in-azione, e il senso continuato del sé-in-esistenza» (Gallagher, 2000). Il senso di agency è senza dubbio preriflessivo nel senso che riguarda una componente fenomenologicamente recessiva dell’esperienza: la consapevolezza di essere l’autore dell’azione non è qualcosa di cui sono cosciente continuamente e in modo esplicito durante l’esecuzione delle azioni. L’esperienza di agentività è tacita data la recessione fenomenologica dell’attenzione rivolta all’autore dell’azione, a favore dell’attenzione prestata al contenuto dell’azione e dell’impegno nel controllo motorio.

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Le sue disfunzioni mostrano d’altra parte la specificità, la complessità e la dipendenza dal contesto dei meccanismi cognitivi a essa soggiacenti, e come controllo motorio, propriocezione somatica e coscienza dell’azione “neutra” possono sussistere inalterati e indipendentemente dalla percezione di autoefficacia causale.

Le ricerche sulle disfunzioni del soa nella sintomatologia della schizofrenia e nella sindrome dello spettro autistico sembrerebbero suggerire senz’altro una complementarietà dei due modelli interpre-tativi sulla fenomenologia dell’azione, mostrando come i processi an-ticipatori e i meccanismi retrodittivi rendano conto di un’architettura cognitiva complessa, e come le disfunzioni e le alterazioni riscontrabili nei casi clinici e nella fenomenologia ordinaria riguardino livelli diver-si, corrispondenti a diverse forme e gradi di coscienza e autocoscienza.

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La perdita del controllo volontario sull’uso di una sostanza psi-coattiva o su un comportamento, come nel caso del gioco d’az-zardo, costituisce il nucleo definitorio dell’attuale concetto di dipendenza. Questa idea pone dunque al centro il tema dell’au-tocontrollo e dell’autoregolazione nella comprensione di questo disturbo del comportamento. Per questa ragione, i diversi mo-delli teorici dell’autocontrollo elaborati dalle scienze cognitive offrono nuove interessanti prospettive per la ricerca sulle dipen-denze e la loro comprensione. Tuttavia, le ricerche etnografiche, le osservazioni cliniche sui soggetti dipendenti e gli stessi svilup-pi delle scienze e delle neuroscienze cognitive dell’autocontrollo sembrano suggerire che le dipendenze non possano essere consi-derate una compromissione del controllo volontario del compor-tamento, una patologia dell’autocontrollo rispetto agli impulsi correlati alle sostanze.

Alla luce di queste evidenze, il capitolo propone una inter-pretazione dei comportamenti dei soggetti con dipendenza come esito di processi decisionali. L’uso delle sostanze scaturirebbe cioè da una forma di scelta, dalla computazione contingente e dalla composizione esplicita e implicita di fattori viscerali, soma-tici, emotivi, motivazioni, desideri, valori personali, norme socia-li, ricompense, punizioni, vantaggi e svantaggi. Ed è una dinami-ca che, sebbene condizionata da un pregiudizio verso l’oggetto della dipendenza, lascia sempre un margine di libertà e quindi di responsabilità alla persona. Nel capitolo vengono anche discus-se le implicazioni di questo modello interpretativo nella pratica clinica.

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Autocontrollo e dipendenzedi Stefano Canali

Massimo Marraffa
Testo inserito
tale
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psicopatologia e scienze della mente

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10.1 La definizione del concetto di dipendenza

Negli ultimi 20 anni circa il concetto di dipendenza ha subito una profonda trasformazione. Le manifestazioni fisiopatologiche della sindrome di astinenza e la tolleranza, da sempre ritenute condizioni necessarie e sufficienti per la diagnosi di questa condizione, sono state messe ai margini dalla nuova preminenza data agli aspetti di tipo mo-tivazionale, cognitivo e comportamentale.

Questa transizione teorica ha avuto un primo importante impulso nel 1995 con la pubblicazione del dsm-iv. In questa edizione del ma-nuale viene sottolineato il fatto che «né la tolleranza né l’astinenza sono necessari e sufficienti per una diagnosi di dipendenza dalla so-stanza» (apa, 2000, p. 178). Tuttavia, nel dsm-iv questi due sintomi continuano a essere i primi due tra i sette criteri diagnostici indicati.

Il nuovo approccio definitorio permetteva di dar conto di alcune persistenti anomalie teoriche, tra le quali: 1. l’assenza di franchi episodi di tolleranza o astinenza in diverse for-me compulsive di consumo di sostanze; 2. la dipendenza fisica con presenza della tolleranza e di sintomi asti-nenziali nei pazienti in terapia del dolore con oppioidi ma senza segni di ricerca e uso compulsivo della sostanza; e soprattutto: 3. la persistenza del desiderio della sostanza e la frequenza delle ricadute anche dopo una completa disintossicazione, una peculiarità evidentemen-te legata a processi mnestici e di conseguenza a precedenti apprendimenti.

Nel dsm-5 è aumentata la numerosità dei criteri diagnostici, con l’espansione delle condizioni che hanno a che fare con le dimensioni emotive, motivazionali e cognitive dei comportamenti di ricerca e consumo delle sostanze; mentre i soli due criteri fisiopatologici, tolleranza e sindrome d’astinenza, ancora elencati per primi nel dsm-iv, scivolano in coda all’elenco delle 11 condizioni diagnostiche del disturbo.

10.1.1. la perdita del controllo volontario del comportamento sulla sostanza

come sintomo patognomonico

Nel nuovo elenco dei criteri diagnostici il tema della perdita del controllo diventa l’elemento portante della definizione di dipen-denza:

Massimo Marraffa
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legate alle
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al lungo elenco dei sintomi con cui diagnosticare il
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10. autocontrollo e dipendenze

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1. 1) La sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolunga-ti rispetto a quanto previsto dal soggetto; 2) Desiderio persistente o tentativi infrut-tuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza; 3) Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per esempio, recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per esempio, fumando “in catena”), o a riprendersi dai suoi effetti; 4) Craving o forte desiderio o spinta all’uso della sostanza.

La caratteristica essenziale di un disturbo da uso di sostanze è un cluster di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici che indicano come l’indi-viduo continui a fare uso della sostanza nonostante i significativi problemi correlati alla sostanza (apa, 2013, trad. it. p. 565).

Gli estensori del capitolo indicano in modo esplicito che la com-promissione del controllo volontario è descritta nel primo raggrup-pamento di criteri, dall’uno al quattro, quelli relativi al desiderio della sostanza e alla sua regolazione1. In realtà, è piuttosto chiaro che anche i criteri relativi alla compromissione sociale (5-7) e all’uso rischioso (8-9) riguardano il venir meno dei processi di autocontrol-lo. Peraltro, il riferimento alla perdita del controllo è all’inizio del capitolo:

[…] tutte le sostanze che vengono assunte in eccesso hanno in comune l’at-tivazione diretta del sistema cerebrale di ricompensa, che è coinvolto nel rafforzamento dei comportamenti e nella produzione di ricordi […] Inoltre individui con livelli inferiori di autocontrollo, che può riflettere compro-missioni dei meccanismi cerebrali inibitori, possono essere particolarmente predisposti a sviluppare disturbi da uso di sostanze, a suggerire che le radici dei disturbi da uso di sostanze, per alcuni individui, possono essere osservate attraverso specifici comportamenti molto prima dell’esordio dell’uso attuale della sostanza stessa (ivi, p. 563).

L’icd-11 fornisce una descrizione specifica della dipendenza per ogni sostanza psicoattiva con potenziale d’abuso. Il nucleo centrale della definizione è tuttavia lo stesso e identico per tutte le singole definizio-ni e coincide con quello del dsm: è la compromissione del controllo volontario. Secondo l’icd-11 una dipendenza è un disturbo della re-golazione dell’uso di una sostanza causato dal ripetuto e continuati-vo utilizzo della sostanza stessa. L’elemento caratteristico è una forte motivazione interna a consumare la sostanza che si manifesta nell’in-

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psicopatologia e scienze della mente

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capacità di controllare l’uso, una crescente priorità data all’uso sulle altre attività e la persistenza dell’uso a dispetto dei danni e delle con-seguenze negative. Queste esperienze sono spesso accompagnate dalla sensazione soggettiva di un’urgenza, di un potente desiderio di consu-mare la sostanza.

Analogamente al dsm, la definizione generale dei “Disturbi do-vuti all’uso delle sostanze o dipendenze comportamentali”, l’icd-11 rimanda anche al carattere appreso del disturbo, come risultato della ripetizione del consumo delle sostanze o di specifici comportamenti associati al rinforzo e alla ricompensa.

10.2 La dipendenza come disturbo cognitivo:

un apprendimento patologico

Nella ricerca clinica e di base oggi coesistono diverse ipotesi sui particolari meccanismi patogenetici della dipendenza come malat-tia (cfr. per esempio Berridge, Robinson, 2016; Koob, Kreek, 2007; Lubman, Yücel, Pantelis, 2004). Tuttavia, a dispetto di alcune dif-ferenze sui meccanismi in gioco, come per le classificazioni nosolo-giche, anche tutte queste ipotesi concordano sul fatto che il segno cardinale della dipendenza sia la diminuzione o la perdita del con-trollo volontario dell’uso della sostanza come effetto di un appren-dimento patologico. La dipendenza in tal senso sarebbe un disturbo cognitivo.

Dal punto di vista neurocognitivo, come ha dimostrato tra i pri-mi Gaetano Di Chiara, la dipendenza rappresenterebbe un disordine dell’apprendimento strumentale causato dalla reiterata attivazione del sistema cerebrale della ricompensa, in particolare dal rilascio for-zato di dopamina indotto dalle sostanze d’abuso (Di Chiara, 1999; Di Chiara et al., 1999). L’uso di sostanze recluta infatti gli stessi cir-cuiti neurali che naturalmente, attraverso i processi di ricompensa (Hyman, 2007), servono a modellare i comportamenti finalizzati alla sopravvivenza dell’individuo e della specie e in generale i com-portamenti adattativi e strumentali (Hyman, 2005; Koob, Volkow, 2010). Tuttavia, la capacità delle sostanze di stimolare il sistema della ricompensa e il rilascio di dopamina in modo più acuto e prolungato

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10. autocontrollo e dipendenze

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rispetto alle ricompense naturali, amplifica in maniera patologica la forza delle associazioni tra consumo e stimoli correlati e di conse-guenza la loro salienza attenzionale e motivazionale rispetto agli altri stimoli normali.

Per effetto del condizionamento classico, durante questo processo di apprendimento finiscono per essere associati al consumo anche tutti gli stimoli incondizionati ma concomitanti, interni (fisiologi-ci, emotivi, cognitivi) o ambientali (Lazev, Herzog, Brandon, 1999). Per esempio, certi ambienti (il bar dove beve abitualmente l’alcolista o dove un giocatore gioca alla slot machine), certi stati d’animo o pensieri (gli stati d’ansia o di tristezza, il ricordo stesso dell’uso), cer-te persone (le persone con cui viene spesso consumata la sostanza), certi orari, determinati odori o sapori (l’odore del fumo o anche il sapore di caffè per chi fuma), certe attività (iniziare un compito che richiede concentrazione per un tabagista, i preparativi per la serata e la notte di un fine settimana per chi consuma abitualmente sostanze stimolanti come cocaina e amfetaminici ecc.). Gli stimoli associati al consumo sarebbero così trasformati in elementi predittivi di una ricompensa. Quando questo tipo di apprendimento si stabilisce gli stimoli associati alle sostanze e al loro uso si caricano di una intensa valenza incentivante e la loro presenza può portare a un pregiudizio attenzionale, al desiderio dell’uso (il craving) e, talora anche in assen-za di craving  –  in modo inconsapevole e automatico (Bargh, Char-trand, 1999; Tiffany, 1990; Tiffany, Carter, 1998; Tiffany, Conklin, 2000)  –, all’innesco degli schemi comportamentali del consumo (Curtin et al., 2006), aggirando i controlli inibitori (Suhler, Chur-chland, 2009). Per queste ragioni, all’inizio l’uso è volontario ma poi con la ripetizione del comportamento si costruisce uno schema di rea zione compulsiva in cui la ricerca e il consumo di sostanze tendo-no a essere controllati e innescati dagli stimoli associati alle sostanze (Hogarth et al., 2013).

Questo sarebbe nella sostanza il loop patologico della dipendenza.Per ogni individuo, a causa del lungo e complesso processo di ap-

prendimento patologico, è teoricamente illimitato il numero degli sti-moli che possono associarsi al consumo delle sostanze e diventare così inneschi per il craving o per l’attivazione delle memorie procedurali che avviano in automatico la ricerca e il consumo della sostanza. Ciò rende estremamente ardui il controllo del consumo e l’astinenza per i soggetti dipendenti.

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10.3 Cos’è l’autocontrollo?

Esistono posizioni molto eterogenee nella comunità scientifica su come definire e misurare il costrutto dell’autocontrollo (De Ridder et al., 2012; Duckworth, Kern, 2011), ma in generale tutte le teorie con-cordano nel riferirsi all’autocontrollo come alla capacità di inibire im-pulsi ad agire comportamenti indesiderati o potenzialmente dannosi e disadattativi, nonché di regolare comportamenti, pensieri ed emozioni (Bandura, 1989; Carver, Scheier, 1981; 1982; Metcalfe, Mischel, 1999; Rothbaum, Weisz, Snyder, 1982; Tangney, Baumeister, Boone, 2004; Vohs, Baumeister, 2004). Si potrebbe altrimenti dire che l’autocon-trollo è l’abilità di frenare una tendenza impulsiva o automatica verso una risposta quando questa sia in contrasto con la realizzazione di un obiettivo a lungo termine, col perseguimento di valori preferiti. L’au-tocontrollo sarebbe così anche la funzione che permette nel caso di dominare il desiderio di consumare una ricompensa immediatamente disponibile al fine di ottenerne una futura cui però viene consapevol-mente attribuito un valore più elevato, per esempio per un alcolista che ha deciso di smettere, rinunciare a bere un bicchiere di vino perché pensa che l’astinenza potrà garantirgli una salute migliore, migliori rapporti con gli altri e una maggiore efficienza in futuro.

10.4 Modelli teorici dell’autocontrollo e delle dipendenze

Sebbene si focalizzino su elementi e dinamiche diverse, le diverse teo-rie sull’autocontrollo sembrano accomunate da ciò che è stato anche definito come “assunto dell’opposizione” (Berkmann, 2018).

10.4.1. il modello dei due sistemi a bilancia

Il modello esplicativo di fondo rimanda all’idea di bilancia, richiama la metafora dell’altalena, immagina insomma l’autocontrollo come una specie di macchina semplice, una leva di primo genere, un’asta rigida con un fulcro tra due forze dove pesi e braccia tendono a cambiare con-tinuamente facendo prevalere a turno il lato della potenza e il braccio della resistenza. Dal lato della potenza si potrebbe situare un sistema

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caldo, di tipo affettivo/impulsivo e teso alla gratificazione immedia-ta e all’azione motivata dalle spinte viscerali e dalla reattività emotiva. Dal lato della resistenza invece lavora un sistema freddo, cognitivo e razionale (Loewenstein, 1996; Metcalfe, Mischel, 1999; Mischel, Sho-da, Rodriguez, 1989) che, in sinergia con le altre funzioni esecutive come l’attenzione esecutiva, la flessibilità cognitiva, la pianificazione, la memoria di lavoro, medierebbe l’effettivo autocontrollo e rendereb-be possibile il raggiungimento degli obiettivi a lungo termine piani-ficati. Questo modello esplicativo generale peraltro rimanda a diversi aspetti della teoria del prospetto formulata da Kahneman (2011) in cui vengono immaginati due sistemi decisionali e di pensiero concorrenti: sistema 1 e sistema 2 (cfr. cap. 7).

La natura opposizionale di questi due sistemi interagenti permette-rebbe di spiegare gli episodi di perdita del controllo, per esempio usare cocaina per chi ha deciso di restare astinente, o attraverso una eccessiva attivazione dei processi dal basso verso l’alto (una soverchia intensità dell’impulso o della motivazione all’uso) o per effetto dell’insufficien-te regolazione dall’alto verso il basso (per esempio disattenzione ver-so lo stimolo innesco, scarso controllo inibitorio ecc.) o infine a causa di una combinazione di queste due condizioni (Heatherton, Wagner, 2011). Le spiegazioni della perdita del controllo all’interno di questo paradigma opposizionale prevedono anche la possibilità che i due di-versi sistemi possano reciprocamente sabotarsi, vale a dire possano far prevalere o l’atto impulsivo o il controllo inibitorio anche modulando i processi computazionali del sistema opposto non soltanto per effetto del prevalere di pesi e forze maggiori (Metcalfe, Mischel, 1999).

10.4.2. autocontrollo e scelte intertemporali

Come abbiamo già visto, anche la dimensione del tempo è un piano importante nelle caratterizzazioni teoriche dell’autocontrollo ed è un piano particolarmente indagato nell’ambito delle ricerche di economia comportamentale, in particolare sullo sconto temporale delle ricom-pense nei processi decisionali caratterizzati da impulsività. In questa prospettiva l’autocontrollo è sostanzialmente equiparato alla capacità di scegliere una ricompensa posticipata di maggior valore rispetto a una ricompensa immediata ma minore (Carver, Scheier, 1998). L’au-tocontrollo sarebbe così associato a una migliore capacità di valutare costi e benefici delle scelte nella loro dimensione temporale, soprattut-

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to a un più ridotto sconto del valore che le ricompense e le preferenze subiscono quando immaginate nel futuro (Rachlin, 2000). Analoga-mente, in questa prospettiva l’autocontrollo ha anche a che fare con la capacità di valutare in modo più congruo e razionale i rischi e i costi futuri potenzialmente associati alle ricompense immediate (Frederick, Loewenstein, O’Donoghue, 2003), come sono quelli legati alle grati-ficazioni istantanee ottenibili con l’assunzione di sostanze psicoattive o col gioco d’azzardo.

10.4.3. l’autocontrollo come “forza di volontà”

È il modello esplicativo sviluppato da Roy Baumeister e considera l’autocontrollo come una forza piuttosto che una funzione computazionale (Baumeister, Heatherton, Tice, 1994; Baumeister, Heatherton, 1996). Secondo questo modello, l’esercizio del controllo inibitorio su un comportamento, un’emozione, un desiderio, sul pen-siero stesso richiede una fatica, il consumo di una forma di energia, secondo Baumeister, la forza di volontà (willpower), che è una risorsa limitata. Così, ogni atto di controllo dell’attività mentale e del com-portamento (inibire una distrazione, resistere a un desiderio, a una tentazione, inibire un automatismo, inibire il desiderio di una sostan-za, eseguire una scelta, regolare un’emozione ecc.) consumerebbe par-te delle risorse date di autocontrollo sino al punto in cui interviene uno stato di Ego-depletion, di “esaurimento dell’Io”. Tale stato rende probabile l’espressione di un comportamento impulsivo appena si presenta uno stimolo innesco nell’ambiente, nell’organismo o a livello soggettivo (Baumeister et al., 1998; Muraven, Tice, Baumeister, 1998). L’autocontrollo sarebbe così come un muscolo che con l’esercizio si affatica sino a diventare incapace di sostenere ulteriormente una nuo-va contrazione (Muraven, Baumeister, 2000). Processi e stimoli che scaricano le risorse cognitive necessarie a regolare le azioni sono quin-di fortemente ubiquitari e diffusamente presenti. Per queste ragioni l’autocontrollo è un compito così complesso e faticoso, e, data anche la vasta pluralità di domini comportamentali dove è necessario, piut-tosto frequente il suo fallimento.

Per i soggetti dipendenti, lo scaricamento dell’Io potrebbe essere una delle cause principali delle ricadute. Queste persone sono costrette a mantenere il controllo sulla pervasiva presenza del desiderio della so-stanza. Nelle dipendenze, infatti, il craving è alimentato da una potente

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e duplice fonte. Da un lato agiscono i sintomi di astinenza che inter-vengono con l’esaurirsi dell’effetto della sostanza, i quali suscitano il bisogno, la necessità, l’urgenza di consumare di nuovo per contrastare l’affiorare delle sensazioni penose. L’altra origine del craving dipende dalle associazioni apprese tra stimoli (esterni e interni) ed effetti gra-tificanti della sostanza. A causa di questo patologico apprendimento, l’incontro con gli stimoli associati riattiva la memoria della ricompen-sa facendo da innesco al desiderio e quindi ai comportamenti di ri-cerca e consumo. L’estesa ubiquità degli stimoli associati costringe il soggetto con dipendenza a vivere in un ambiente esterno, ma anche a confrontarsi con processi interni, densi di inneschi. Di conseguen-za egli sarà costretto a un costante sforzo di regolazione cognitiva, di controllo dell’attenzione, di inibizione degli appetiti insorgenti e del pensiero desiderante. Da qui un continuo drenaggio delle energie disponibili per successivi atti di autocontrollo che alla lunga, soprat-tutto se si aggiungono ulteriori processi di regolazione emotiva, stress o fatica, determinano lo scaricamento dell’Io e la ricaduta, a dispetto dell’intenzione di restare astinente.

10.5 Neuroscienze cognitive dell’autocontrollo

In generale si può dire che l’attivazione dei centri e delle vie del sistema limbico, soprattutto amigdala, nucleus accumbens, striato, sono im-plicate nell’innesco degli impulsi mentre le regioni prefrontali della corteccia, soprattutto le aree laterali prefrontali, sono associate alla re-golazione e al controllo inibitorio.

Gli studi di neuroimmagine suggeriscono che tra queste strutture cerebrali esista un accoppiamento funzionale inverso. In particolare, è stato osservato che l’attivazione delle aree prefrontali laterali correla con la disattivazione funzionale delle aree limbiche “calde”, impulsive, appetitive, emotive e che questa relazione opposizionale si manifesta durante l’esercizio dell’autocontrollo, nell’inibizione di un impulso (Buhle et al., 2014). Per esempio, in compiti di autoregolazione attra-verso reappraisal cognitivo di emozioni e di stimoli appetitivi legati al cibo, si attiva la corteccia prefrontale dorsolaterale e ventrolaterale e corrispondentemente diminuisce l’attivazione dell’amigdala e dello striato ventrale, la struttura limbica che media l’implementazione mo-

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toria dell’impulso (Giuliani et al., 2014; Ochsner, Gross, 2008); allo stesso tempo aumenta l’accoppiamento funzionale inverso tra i due sistemi (Banks et al., 2007).

Altri studi hanno correlato sistematicamente il successo in compiti inibitori con l’attività prefrontale e la connessione inversa con le regio-ni cerebrali emotive e impulsive profonde (Ochsner et al., 2004). Ana-loghi schemi di accoppiamento funzionale inverso sono stati misurati nei tabagisti impegnati a regolare il craving per la sigaretta (Kober et al., 2010), per i consumatori di cocaina durante il controllo del deside-rio per questa sostanza (Volkow et al., 2010).

10.5.1. sistemi neurocognitivi dell’autocontrollo nelle dipendenze

Antoine Bechara ha compendiato i modelli dell’autocontrollo e una serie di evidenze neuropsicologiche proponendo una sintesi utile a in-terpretare i comportamenti apparentemente irrazionali e discontrol-lati delle dipendenze. Bechara ha ipotizzato che la dipendenza potes-se essere legata a una compromissione dei processi di autocontrollo e delle decisioni simile a quella osservata sui pazienti con sindrome da lesione della corteccia prefrontale ventromediale. L’idea di Bechara si sviluppa dall’ipotesi del marcatore somatico avanzata da Antonio Damasio, dall’interazione tra afferenze somatiche e viscerali e cortec-cia prefrontale nei processi decisionali e di autoregolazione (Damasio, 1994).

Secondo Bechara, nei soggetti vulnerabili, l’azione delle sostanze sul sistema della ricompensa e sugli altri centri cerebrali coinvolti nei comportamenti emotivi/impulsivi produrrebbe nel tempo una abnor-me risposta viscerale e somatica e quindi il potenziamento delle atti-vazioni affettive e motivazionali in risposta a stimoli legati ai compor-tamenti di consumo (Bechara, Damasio, 2002). Più specificamente, l’esagerata risposta viscerale indicherebbe una iperattività dell’amig-dala, la sua ipersensibilità verso le ricompense immediate ottenibili col consumo della sostanza. Allo stesso tempo i segnali afferenti alla corteccia prefrontale da questa sproporzionata reazione somatica com-prometterebbero l’elaborazione dei processi decisionali e dei meccani-smi di controllo del sistema riflessivo, provocando una “miopia per il futuro” (Bechara, Dolan, Hindes, 2002). Per questo, secondo Bechara (2005), le sostanze avrebbero la capacità di sequestrare e porre fuori

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gioco le funzioni cognitive necessarie a esercitare la volontà di resistere al desiderio della droga.

D’altra parte, numerosi studi di neuroimmagine indicano che l’uso cronico di sostanza induce l’attenuazione delle funzioni della cortec-cia prefrontale, fenomeno che verosimilmente riduce l’azione inibito-ria che queste aree dovrebbero esercitare sugli impulsi al consumo e sul craving elaborati dai sistemi cerebrali profondi (Goldstein et al., 2004).

Dunque, allo stesso modo della nosologia psichiatrica, anche la ricerca clinica enfatizza la compromissione dell’autocontrollo, del controllo volontario del comportamento rispetto alla sostanza nelle dipendenze. Tuttavia, questa tesi, peraltro così centrale, non appare confermata dagli studi sull’effettivo comportamento dei soggetti che vivono questa condizione.

10.6 Nelle dipendenze quanto è compromesso

il controllo sull’uso delle sostanze?

Una quantità di studi etnografici sul comportamento dei soggetti di-pendenti sembra suggerire un’immagine assai diversa del rapporto che queste persone hanno con le sostanze psicoattive o con i comporta-menti da cui dipendono. Le evidenze indicano un tipo di relazione in cui la perdita del controllo sembra esclusa o comunque marginale: un rapporto con le sostanze e i comportamenti oggetto della dipendenza caratterizzati da una serie di complessi fenomeni di regolazione (cfr. per esempio Heyman, 2017; Moore et al., 2017). Per esempio, i sogget-ti con dipendenza possono sospendere per brevi periodi il consumo della sostanza al fine di diminuire la tolleranza e così poter usare dosi minori per ottenere gli stessi effetti, risparmiando. Anche il prezzo delle sostanze modula i livelli di consumo: più è elevato minore ri-sulta l’uso. Il consumo sembra modulato anche dalle modificazioni dello status legale delle sostanze, come conclusivamente dimostrato dagli studi estensivi sui repentini effetti sul consumo delle riforme in tema di sostanza psicoattive. Negli Stati Uniti, l’Harrison Narcotics Tax Act che nel 1914 criminalizzava l’uso non medico degli oppioidi e della cocaina riduceva il consumo di oppio e derivati del 50% negli anni successivi (Courtwright, 1982; Kolb, Du Mez, 1981). Mentre la

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proibizione della produzione, importazione e vendita dell’alcol impo-sta negli Stati Uniti tra 1920 e 1933 portò negli usa a un drastico decre-mento dell’alcolismo, come indicato dalla caduta verticale del numero di cirrosi epatiche registrate (Miron, Zwiebel, 1991; Seeley, 1960). Le ricerche storiche ed epidemiologiche indicano anche che la stessa co-noscenza delle conseguenze dell’uso delle sostanze può influenzare la regolazione del consumo. L’11 gennaio 1964, Luther Terry, Surgeon General degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Kennedy, pubblica-va il report “Smoking and Health” (Luther et al., 1964) che riportava l’associazione causale tra fumo e cancro ai polmoni, bronchite cronica, enfisema, disturbi cardiovascolari. L’effetto di questa comunicazione era una stabile e lineare diminuzione della prevalenza del fumo nono-stante buona parte degli allora fumatori consumassero almeno un pac-chetto al giorno, fossero cioè francamente tabagisti (U.S. Department of Health & Human Services, 1990; 1994).

Nelle dipendenze il consumo varia anche in funzione dei livelli di stress, aumentando quando il vissuto di disagio è più acuto. Ciò sugge-risce, come postulato dalla teoria dell’automedicazione, che la sostan-za piuttosto che compulsivamente assunta, consumata fuori controllo, è anche, almeno in parte, strumentalmente usata per regolare gli stati affettivi e contrastare quelli più penosi (Khantzian, 1985; 1997; Khant-zian, Halliday, McAuliffe, 1990).

10.6.1. gli studi di robins sui soldati in vietnam

Altra impressionante, quanto sottovalutata, confutazione dell’idea della dipendenza come malattia cronica caratterizzata dalla perdita del controllo volontario del comportamento viene dalle vastissime ricer-che di epidemiologia psichiatrica condotte da Lee Nelken Robins sulle truppe americane impegnate nella guerra del Vietnam (Robins, 1973; 1974; Robins, Davis, Nurco, 1974; Robins, Helzer, Davis, 1975).

Nel 1971, uno studio aveva dimostrato che il 43% dei soldati statu-nitensi impegnati in quel teatro di guerra faceva uso di eroina e che il 20% aveva sviluppato dipendenza. Contrariamente alle attese però, nel follow-up condotto l’anno successivo al rimpatrio, Robins accertava che solo il 12% di tutti i soggetti dipendenti era restato tale, vale a dire che il 78% dei soldati eroinomani aveva smesso senza alcun intervento terapeutico. Questo dato veniva confermato in un successivo studio di due anni dopo.

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Che cosa era successo? Perché questi soldati erano usciti dalla di-pendenza, senza far ricorso a trattamenti? Nelle interviste fatte da Robins emergeva un fatto particolare. I reduci che avevano sviluppa-to la dipendenza dall’eroina affermavano di aver smesso perché erano cambiati contesto e significato del consumo. Al fronte l’uso era assai comune, sembrava lecito e serviva ad attenuare l’ansia, lo stress, la fa-tica, talora il dolore. Anche la dipendenza in quelle condizioni diven-tava strumentale, non una compulsione o una perdita del controllo. In patria l’uso di eroina invece era associato ad ambienti sordidi, all’ille-galità, e costituiva un comportamento fortemente stigmatizzato. Dun-que, il cambiamento del set, l’ambiente d’uso, le finalità, il significato dell’uso di una sostanza (Zinberg, 1986), avevano mutato il quadro di riferimento motivazionale, emotivo e cognitivo, rendendo possibile la forma più compiuta e conclusiva di autocontrollo nelle dipendenze: la remissione.

Anche gli elevati tassi di efficacia della cosiddetta gestione della contingenza di rinforzo nel trattamento delle dipendenze (Prender-gast et al., 2006) sembrano dimostrare che la dipendenza non costi-tuisce una condizione di compromissione del controllo volontario sull’uso della sostanza.

10.6.2. la contingenza di rinforzo e la gestione della contingenza

La gestione della contingenza di rinforzo è una tecnica di condiziona-mento operante con cui si può modellare un comportamento usando rinforzi positivi e negativi, ricompense e punizioni. Quando utilizzata per sostenere il recupero dei soggetti dipendenti essa per esempio può prevedere, nel caso di astinenza comprovata con test random, l’imme-diata (appunto contingente) assegnazione di ricompense: piccole som-me di denaro, voucher per acquisto di beni e servizi e così via (Higgins et al., 1991; Higgins, Budney, Bickel, 1994); o al contrario, nel caso di ricadute, la sollecita erogazione di una sanzione, in alcuni casi anche una breve carcerazione, come per esempio nel programma hope (Ha-waii’s Opportunity Probation with Enforcement) (Hawken, Kleiman, 2009).

Una revisione sistematica e di metanalisi di 47 studi di efficacia su diversi tipi di intervento sui comportamenti d’abuso condotta nel 2006 sembra indicare che la gestione della contingenza sia uno dei più

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efficaci approcci per ottenere e mantenere l’astinenza e suggerisce l’u-tilizzo di questo protocollo per potenziare gli effetti del trattamento e facilitare la partecipazione e il coinvolgimento del paziente negli altri aspetti dell’intervento in clinica (Prendergast et al., 2006).

Tutte queste diverse evidenze etnografiche, epidemiologiche e cli-niche sembrerebbero quindi indicare che la dipendenza viene mante-nuta non perché sia venuto meno il controllo volontario degli impulsi, non come conseguenza della rottura degli equilibri dei due sistemi a bilancia nella cronica prevalenza delle spinte viscerali e degli automa-tismi, ma probabilmente come effetto dello sbilancio tra motivazioni e incentivi.

10.7 L’uso delle sostanze nelle dipendenze

come effetto di processi decisionali

Piuttosto che effetto della perdita del controllo volontario del com-portamento, i comportamenti d’uso e anche le ricadute dei soggetti dipendenti che decidono di smettere potrebbero essere visti come espressione di decisioni, scelte risultanti da computazioni più o meno esplicite, dalla composizione vettoriale di appetiti, emozioni, motiva-zioni, credenze, incentivi, sanzioni, utilità e svantaggi.

Questa idea sembrerebbe confortata dall’osservazione che i sogget-ti dipendenti allo stesso tempo: a) sono consapevoli dei danni associa-ti alla reiterazione del comportamento di consumo, b) hanno l’inten-zione di smettere, c) decidono di consumare, organizzano e avviano i comportamenti di consumo.

Peraltro, come suggeriscono recenti studi neurocognitivi sul con-trollo del craving nelle dipendenze da sostanze e comportamentali, l’autocontrollo e l’autoregolazione sono correlati a interazioni e mec-canismi molto più complessi di quelli suggeriti dal modello dei due sistemi a bilancia. Per esempio, l’attivazione di processi top-down dalla corteccia laterale prefrontale è stata riscontrata anche durante il falli-mento dell’autocontrollo, in soggetti con disturbi del comportamen-to alimentare sotto restrizione dietetica sottoposti a stimoli appetitivi dopo aver assunto un frullato, dopo cioè aver violato il regime alimen-tare prescritto (Demos, Kelley, Heatherton, 2011). Anche nei fuma-tori l’attivazione della corteccia prefrontale generalmente implicata

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nell’autocontrollo può accompagnare il discontrollo sul fumo (David et al., 2005). Gli stessi risultati sull’attività corticale durante i proces-si di autoregolazione stanno suggerendo una visione più sofisticata, indicando una dinamica complessa e una più vasta rappresentazione anatomica delle aree reclutate durante l’autocontrollo (Berkman, Lie-berman, 2009). Ciò evidentemente dipende dal fatto che esercitare il controllo volontario su un impulso, una emozione, un desiderio, sulla ricerca e l’uso di una sostanza ha a che fare con molti e diversi nodi funzionali.

Un singolo atto di autocontrollo, come quello di resistere al craving nelle dipendenze, mette in gioco l’attenzione, l’intensità del desiderio, le sue dinamiche viscerali ma anche il significato che il desiderio e l’og-getto del desiderio (la sostanza nelle dipendenze) ha nel sistema dei valori del soggetto, nella sua esperienza. Allo stesso tempo un singolo atto di controllo prevede un conflitto con obiettivi a lungo termine, quindi con la rappresentazione nel tempo dei valori del comporta-mento; un conflitto la cui soluzione dipende da processi cognitivi ma anche da fenomeni di tipo motivazionale, dalla capacità di controllo del comportamento del soggetto, ma anche dalla motivazione verso il controllo; dalla percezione soggettiva di queste capacità, dal senso di autoefficacia e infine da una serie di variabili di tipo contingente e contestuale che sono allo stesso tempo rappresentate a livello affettivo, motivazionale e cognitivo, codificate in strutture, schemi funzionali complessi e operazioni di calcolo all’interno del cervello.

Per queste ragioni appare epistemicamente conveniente inquadrare i comportamenti nelle dipendenze all’interno di un modello più arti-colato e sistemico di quello dell’autocontrollo, facendo riferimento al dominio complesso dei sistemi decisionali.

L’uso delle sostanze nelle dipendenze sarebbe così un tipo di de-cisione tra una o un insieme di possibili risposte comportamentali fi-nalizzate a obiettivi a lungo termine (per esempio una salute miglio-re con l’astinenza) e una o un insieme di possibili azioni finalizzate a obiettivi immediati (per esempio cedere al craving per ottenere uno stato euforico o l’evitamento dei sintomi astinenziali). Le risposte fi-nalizzate a obiettivi a lungo termine, come l’inibizione del comporta-mento di ricerca e consumo e l’astinenza, coinciderebbero col succes-so nell’autocontrollo. La decisione di resistere o meno a un impulso all’uso, al craving, che può anche essere un processo non consapevole, scaturirebbe dalla computazione di tutte le diverse variabili contingen-

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ti processate dai differenti meccanismi in gioco, dal livello percettivo, viscerale, somatico, attenzionale, emotivo, motivazionale e cognitivo, quindi anche dalla rappresentazione soggettiva dei fattori ambientali, sociali, normativi, della percezione dello sforzo necessario al controllo dell’uso, dell’identità, dell’autoefficacia percepita rispetto all’ambien-te e alla sostanza e così via. E ognuna di queste variabili avrà un valore negativo e positivo per ciascuna delle due opzioni comportamentali: uso e astinenza. Vale a dire che ognuna delle variabili in gioco, dal pia-no neurofarmacologico a quello sociale, allo stesso tempo potrà avere un valore incentivante verso il consumo e verso l’astinenza, ma anche un costo, un valore disincentivante per il consumo e per l’astinenza. Di conseguenza ogni opzione di scelta rispetto all’oggetto della dipen-denza potrà avere molte, diverse e concorrenti fonti di ricompensa e di costo, in certo senso peraltro codificate da specifiche “valute” psico-biologiche.

A complicare il quadro, il valore di ogni variabile afferente muta co-stantemente nel tempo in relazione ai cambiamenti nella disponibilità delle risorse interne ed esterne, del focus attenzionale, degli stati visce-rali, somatici ed emotivi di un individuo, dei suoi bisogni, della diversi-tà delle relazioni interpersonali e degli ambienti in cui un individuo si muove, della fluttuazione che nei diversi ambienti subiscono le norme e i significati associati al repertorio di scelte possibili. Allo stesso tem-po, il valore di ognuna di queste variabili è parzialmente modificato da processi di feedback, dalla retroazione che si produce con la computa-zione di un fattore operante su un piano diverso ma integrato, come per esempio succede all’attivazione emotiva col reappraisal cognitivo.

Le informazioni provenienti da queste diverse fonti di costo e in-centivo sarebbero infine convogliate o direttamente mediate e com-putate da funzioni e strutture differenti, sebbene sempre integrate, del sistema nervoso centrale (Rangel, Camerer, Montague, 2008). È stato ipotizzato che la corteccia prefrontale ventromediale sia la struttura all’interno della quale viene svolta la conversione e l’unificazione delle diverse “valute” in cui sono espressi i possibili costi e le ricompense associabili alle diverse opzioni di scelta e quindi il computo finale del loro valore soggettivo (Levy, Glimcher, 2011). Dall’iterazione di que-sto calcolo complesso scaturirebbe infine il vettore comportamentale: l’uso o meno della sostanza in una determinata contingenza. Questo modello esplicativo di matrice neocomportamentista è in parte coe-rente con la cosiddetta teoria della dipendenza razionale formulata nel

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1988 da Gary S. Becker, che poi prenderà il Nobel nel 1992 per l’eco-nomia, e Kevin Murphy, un modello economico delle dipendenze fon-dato sulla struttura concettuale della teoria della scelta o dell’azione razionale (Becker, Murphy, 1988).

È chiaro che gran parte delle variabili processate durante questo ciclo decisionale è condizionato dalle modificazioni plastiche, dagli adattamenti e dalle trasformazioni che la sostanza ha prodotto nelle strutture e nelle funzioni cerebrali che mediano la codifica e la computazione del valore che queste variabili hanno nella contingenza. Questo condizionamento, come è ovvio, si riverbera anche sui sistemi emotivi, motivazionali e cognitivi che mediano i rapporti coi comportamenti di consumo. C’è un effetto cumulativo neurofarmacologico e psicologico della reiterazione nel tempo di singole scelte contingenti a consumare che determina un pregiudizio verso l’uso. Tuttavia, la complessità e la variabilità dei fattori in gioco nelle decisioni di usare, come abbiamo visto, lascia uno spazio cospicuo alla scelta dell’astinenza e al controllo del consumo della sostanza anche agli individui che soffrono le condizioni più serie.

10.7.1. strategie per potenziare il controllo volontario del comportamento nelle dipendenze

Numerosi studi hanno dimostrato che un soggetto con dipendenza può attuare una serie di deliberate operazioni cognitive in grado di attenuare il craving e quindi la spinta al consumo. Per esempio il reap-praisal cognitivo nei fumatori (stimolato dalla suggestione sui danni associati al fumo) porta a una riduzione del craving percepito indotto da uno stimolo innesco in un setting sperimentale e a una correlata at-tivazione delle aree prefrontali e alla disattivazione delle regioni cere-brali profonde associate all’impulso verso l’uso e ai comportamenti di consumo come lo striato ventrale, l’amigdala, il nucleus accumbens e l’area ventrale tegmentale (Kober et al., 2010; Zhao et al., 2012), nuclei integrati dalle fibre dopaminergiche e impalcatura fondamentale del sistema cerebrale della ricompensa. Anche operazioni di tipo metaco-gnitivo come l’osservazione consapevole e non giudicante del deside-rio della sostanza, il decentramento e la defusione dalle emozioni me-diata dai training mindfulness producono analoghi effetti psicologici e riscontri simili negli studi in brain imaging (Westbrook et al., 2013; Witkiewitz et al., 2014).

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Qualora invece risultasse impervio il controllo del craving, un in-dividuo può preventivamente manipolare l’ambiente o controllare l’esposizione agli stimoli associati all’uso, in modo da ridurre le possi-bilità di innesco del desiderio. Diversi studi suggeriscono che il succes-so nel controllo dell’uso e nella remissione della dipendenza è legato non alle intenzioni o alle motivazioni ma al numero e alla qualità delle strategie comportamentali conosciute e usate dai soggetti dipendenti per limitare l’esposizione alla sostanza, il desiderio e il suo consumo (Snoek, Levy, Kennett, 2016). Tra queste, piuttosto efficaci risultano le strategie comportamentali capaci di sfruttare le stesse dinamiche di apprendimento della dipendenza. La tecnica dell’implementazione delle intenzioni utilizza gli stimoli ambientali per costruire risposte apprese e automatiche verso il controllo e l’evitamento del craving. Come per le dipendenze, il controllo del comportamento viene in parte delegato a stimoli ambientali che però innescano azioni di evita-mento e distrazione dal craving. In questo modo la spinta al consumo non dovrà essere consapevolmente e volontariamente contrastata, ag-girando così anche il problema della debolezza dell’esercizio dell’au-tocontrollo nelle condizioni di Ego depletion che invece favoriscono le ricadute (Gollwitzer, 1999; Gollwitzer, Sheeran, 2006). È anche possibile modificare il sistema delle credenze legato all’autocontrol-lo e al controllo dell’uso della sostanza al fine di rafforzare i processi di inibizione dell’impulso al consumo. Per esempio, l’elaborazione e l’espressione verbale articolata di intenzioni e piani d’azione per il cambiamento del comportamento, come il cosiddetto change talk nel colloquio motivazionale, si è dimostrata efficace nel recupero delle persone con dipendenza (Lindson-Hawley, Thompson, Begh, 2015; DiClemente et al., 2017). Il change talk come indicatore dell’avvio di un percorso di riabilitazione sembra peraltro dimostrato dagli studi di brain imaging. Questi indicano che durante l’espressione del change talk si attivano le aree cerebrali che mediano i processi di rinforzo e l’autocontrollo (Feldstein et al., 2011; 2014).

Analogamente, come ha dimostrato Albert Bandura, la credenza di essere in grado di raggiungere certi obiettivi è fondamentale perché un individuo provi ad attuare le sue intenzioni. L’autoefficacia percepita è determinante anche nella regolazione del rapporto con le sostanze ed è manipolabile nell’individuo e anche attraverso interventi socia-li in grado di migliorare l’efficacia collettiva all’interno della quale è inscritta e modulata l’efficacia che un individuo si attribuisce (Bandu-

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10. autocontrollo e dipendenze

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ra, 1999). D’altra parte, ridotti livelli di credenza nel libero arbitrio e nell’autocontrollo sono associati a un più elevato uso di droghe, a un minor numero di tentativi di smettere e anche a un numero più elevato di tentativi infruttuosi (Vonasch et al., 2017). Ciò suggerisce che l’idea della dipendenza come compromissione cronica dell’autocontrollo sulla sostanza non solo rappresenta in modo inaccurato questa con-dizione ma può anche contribuire a sabotare l’efficacia dei percorsi di recupero e il trattamento dei soggetti dipendenti. Questa concezione infatti mina la credenza dell’autocontrollo, accresce il potere percepito delle sostanze che creano dipendenza e diminuisce la percezione della propria capacità di scelta, la propria responsabilità, favorendo così una profezia che si autoavvera.

10.8 Conclusioni

Gli sviluppi delle scienze cognitive dell’autocontrollo e i riscontri delle ricerche etnografiche e cliniche sul comportamento dei sogget-ti dipendenti, suggeriscono il superamento dell’idea della dipendenza come perdita del controllo volontario sull’uso di una sostanza o su un comportamento. Piuttosto che a una patologia dell’autocontrollo ver-so gli impulsi correlati all’oggetto della dipendenza, questa condizione sembra rimandare a dinamiche decisionali di natura circolare che van-no dal piano somatico a quello emotivo-motivazionale sino al livello cognitivo e alla sua proiezione sul piano sociale. Queste dinamiche restano sempre per l’individuo parzialmente accessibili alla manipola-zione di uno o più dei fattori che le alimentano: il controllo sull’uso di una sostanza non viene mai perso del tutto.

La spiegazione delle dipendenze all’interno del quadro dei processi decisionali, come scelta condizionata dall’apprendimento di un certo tipo di rapporto con una sostanza, ma pur sempre scelta, possiede pe-raltro una importante ricaduta nella pratica clinica. Nel percorso di riabilitazione è fondamentale l’autoefficacia e questa esiste se chi vive una dipendenza continua a credere di avere una possibilità di control-lo, se i sistemi di cura e la società riproducono questa credenza e rendo-no la sua attuazione possibile, desiderabile, chiaramente vantaggiosa.

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Una caratterizzazione recente e influente della psicopatia è dovuta alla Psychopathy Checklist-Revised (pcl-r), uno strumento di misu-ra elaborato da Robert Hare (Hare, Caretti, 2014). Secondo questa misura, la psicopatia coinvolge dei comportamenti devianti e crimi-nali persistenti e una personalità caratterizzata da egocentrismo e da una limitata capacità di provare l’empatia e il rimorso.

Alcuni filosofi e degli esperti di giurisprudenza hanno discusso il problema se gli psicopatici che commettono reati siano criminal-mente o moralmente responsabili (Kiehl, Sinnott-Armstrong, 2013; Malatesti, McMillan, 2010). Alcuni hanno sostenuto che il profilo clinico degli psicopatici e i risultati sperimentali che rivelano delle specificità nei loro comportamenti, nelle loro capacità affettive e cogni tive, e nella loro anatomia e fisiologia cerebrale, suggeriscono che questi soggetti, quando commettono crimini, non sono respon-sabili o hanno una responsabilità limitata (Fine, Kennett, 2004; Levy, 2014; Morse, 2008).

Lo scopo principale di questo capitolo è difendere, invece, la tesi, recentemente avanzata da alcuni autori, secondo la quale le cono-scenze scientifiche correnti non autorizzano la conclusione che la psicopatia debba scusare, completamente o parzialmente, il compor-tamento criminale ( Jalava, Griffiths, 2017; Jefferson, Sifferd, 2018; Jurjako, Malatesti, 2018; Maibom, 2008). La discussione si concen-trerà soprattutto su alcune difficoltà derivanti dal connettere la parte della psicologia del senso comune, che informa le teorie e le formu-lazioni legali della imputabilità o responsabilità criminale, con i dati sperimentali sulle peculiarità neuropsicologiche di questa classe di criminali.

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L’imputabilità degli psicopaticidi Luca Malatesti

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psicopatologia e scienze della mente

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11.1 La psicopatia: alcuni cenni storici e la sua misurazione

L’individuazione clinica delle personalità antisociali ha una notevole tradizione (Horley, 2014; Sass, 2014). Tuttavia, c’è una certa unanimità sul fatto che Hervey Cleckley, con il libro The Mask of Sanity (1988; ed. orig. 1941) abbia avuto un ruolo fondamentale nella concettualizza-zione contemporanea della psicopatia. Il suo lavoro clinico ha ispirato l’iniziale formulazione della pcl-r di Robert Hare (1980; 2003) che costituisce un’operazionalizzazione di molti dei tratti alla base del co-strutto proposto da Cleckley. Ricerche psicometriche successive hanno portato alla formulazione della pcl-r le cui caratteristiche principali sono rappresentate nella tabella 11.1.

La valutazione con la pcl-r si conduce per mezzo di interviste semi-strutturate e investigando la storia del soggetto, che si desume, solitamen-te, da dossier personali stilati dalla polizia, dalle istituzioni penitenziarie, scolastiche o dai datori di lavoro. La pcl-r contiene 20 caratteristiche che tendono a correlarsi in due fattori principali (cfr. tab. 11.1)1.

Nella valutazione, ogni caratteristica può ricevere tra 0 e 2 punti. Mentre con 0 punti si indica l’assenza di una caratteristica, 2 punti in-dica la sua presenza e 1 punto il fatto che, per quanto ci siano degli indizi per la presenza della caratteristica essi non sono completamente sicuri. Il punteggio totale è 40 punti. Negli Stati Uniti e in Canada, il valore di soglia per la diagnosi della psicopatia è di 30 punti. In Europa, un punteggio di 25 è spesso usato come valore soglia (Hare, 2003).

La pcl-r si è imposta come uno strumento di misura unificante entro lo studio scientifico della psicopatia (Patrick, 2018). A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, vi è stata, infatti, una cresci-ta impetuosa di ricerche che utilizzano questa misura per studiare le caratteristiche del comportamento, il profilo neurocognitivo, la neuroanatomia, la neurofisiologia e la costruzione genetica degli psi-copatici. Alcuni di questi studi sperimentali, ma anche la caratteriz-zazione clinica offerta da Hare, hanno avuto l’impatto maggiore nei

1. I fattori nella tabella sono il risultato di studi psicometrici sulla correlazio-ne tra i punteggi che i soggetti ricevono nelle differenti caratteristiche della pcl-r (Hare, Neumann, 2008). È importante ricordare qui che gli specialisti sono divisi sulla fattorizzazione esatta del costrutto che è diagnosticato dalla pcl-r (Cooke, Mi-chie, 2001).

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costituzione
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11. l’imputabilità degli psicopatici

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dibattiti sulla responsabilità degli psicopatici. Passiamo a considerare nelle prossime sezioni una famiglia di argomenti contro la loro im-putabilità.

11.2 L’obiezione contro l’imputabilità degli psicopatici (oip)

Molti degli argomenti per la conclusione che gli psicopatici non sono criminalmente responsabili (o parzialmente responsabili) sono va-rianti di quello che si può chiamare l’obiezione all’impunibilità de-

tabella 11.1 pcl-r elementi

Fattore 1 Fattore 2

Sfaccettatura 1 tratti interpersonali:1. Loquacità/fascino superficiale2. Senso di sé grandioso4. Menzogna patologica5. Impostore/manipolativo

Sfaccettatura 3 caratteristiche stile di vita:3. Bisogno di stimoli / propensione alla

noia9. Stile di vita parassitario13. Assenza di obiettivi realistici e a lun-

go termine14. Impulsività15. Irresponsabilità

Sfaccettatura 2 tratti affettivi:6. Assenza di rimorso o senso di colpa7. Affettività superficiale8. Insensibilità/assenza di empatia 16. Incapacità di accettare la responsabi-

lità delle proprie azioni

Sfaccettatura 4 tratti antisociali:10. Deficit del controllo comportamen-

tale12. Problematiche comportamentali

precoci18. Delinquenza in età giovanile19. Revoca della libertà condizionale20. Versatilità criminale

Elementi che non rientrano in alcun fattore:11. Comportamento sessuale promiscuo17. Numerosi rapporti di coppia di breve

durata

Fonte: Hare (2003).

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psicopatologia e scienze della mente

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gli psicopatici, che possiamo abbreviare con oip ( Jurjako, Malatesti, 2018)2. La forma di questo argomento, nel caso si difenda la non im-putabilità degli psicopatici, è la seguente.1. La presenza di certe capacità psicologiche al momento di commet-tere il crimine sono un prerequisito necessario per l’imputabilità.2. L’evidenza empirica mostra che negli psicopatici queste capacità sono assenti.

Quindi:3. Gli psicopatici non sono imputabili.

Consideriamo in dettaglio le premesse dell’oip.La prima premessa dell’oip considera le incapacità psicologiche che

garantiscono (o dovrebbero) garantire la non imputabilità per i crimini violenti. Notoriamente, l’assunto che sono imputabili solo gli indivi-dui che, al momento di commettere il reato, hanno certe capacità psi-cologiche, sia cognitive che di controllo, fa parte della tradizione legale occidentale (Robinson, 1996). In Italia, il Codice penale stabilisce con l’art. 85 che: «Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era impu-tabile», e nel comma successivo che: «È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere». I codici penali di molti Stati contengono simili formulazioni che, tuttavia, variano nell’esatta caratterizzazione delle ca-pacità rilevanti e sulle procedure atte a determinare la loro assenza o di-minuzione (Simon, Ahn-Redding, 2006). Resta il fatto, che si ricono-scono capacità cognitive che hanno a che fare con la capacità dell’agente di essere in contatto con la realtà che è rilevante per il crimine commes-so. Una persona che commetta un delitto sulla base di una allucinazione psicotica, per esempio, non è considerata imputabile. Similmente una persona che commetta un delitto perché è incapace di controllare il pro-prio comportamento, come nel caso di uno spasmo involontario im-prevedibile, non è ritenuta imputabile. Di conseguenza, le varie istanze dell’oip fanno riferimento a capacità cognitive e di controllo.

2. Gli argomenti di questo tipo potrebbero anche costituire obiezioni alla re-sponsabilità penale e alla colpevolezza degli psicopatici. La plausibilità di queste estensioni, tuttavia, dipende dal fatto che si possa ritenere l’imputabilità un prere-quisito per queste altre nozioni. Dato che su quest’ultima questione vi sono delle dottrine contrastanti (Franceschetti, 2017), qui si considera la formulazione meno impegnativa di questa famiglia di argomenti. Ringrazio Alberto Donnini per aver richiamato la mia attenzione su questo punto.

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11. l’imputabilità degli psicopatici

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La seconda premessa dell’oip è una tesi “ponte” che collega le for-mulazioni legali sull’imputabilità con i dati sperimentali riguardanti gli psicopatici. È importante notare la forza di tale tesi. Essa, infatti, implica che la diagnosi di psicopatia offre, come tale, l’evidenza rilevante per giu-dicare che al momento di commettere il crimine la persona non aveva le capacità psicologiche necessarie per essere imputabile. Questa premessa richiede che la psicopatia si associ con delle incapacità che sono sufficien-temente generali e indipendenti dalle particolari circostanze del delitto.

Per formulare e difendere la seconda premessa dell’oip, si richiede la soluzione di almeno tre problemi. Il primo è il problema generale di connettere il dominio legale con quello neuropsicologico (Malatesti, Ju-rjako, 2016; Sifferd, 2013). Le formulazioni legali, infatti, non specificano in dettaglio le capacità psicologiche richieste per l’imputabilità e non descrivono la loro relazione con i dati comportamentali e con le ipo tesi neuroanatomiche o neurofisiologiche rilevanti per stabilirne la presenza o assenza. Molti autori hanno sostenuto che la nozione di razionalità può servire a mettere in relazione questi domini (Morse, 2000; Reznek, 1997; Aharoni et al., 2008; Duff, 2010; Glannon, 2011; Hirstein, Sifferd, 2011). Pertanto, molte formulazioni dell’oip sono usate per concludere che gli psicopatici sono incapaci, o hanno una capacità diminuita, di riconoscere alcune ragioni o di controllare il loro comportamento sulla loro base.

Il secondo problema che si deve affrontare per formulare la secon-da tesi dell’oip è quello di individuare gli studi sugli psicopatici che siano rilevanti per la questione della loro imputabilità. Questi studi dovrebbero basarsi sull’uso di paradigmi sperimentali che misurino comportamenti che possono essere indicativi dell’assenza (o presenza), in questi soggetti, delle capacità psicologiche che sono necessarie per l’imputabilità. Considereremo nei paragrafi successivi gli esperimenti che hanno avuto più influenza nella formulazione dell’oip.

Infine, il terzo problema, di cui tratta il paragrafo successivo, è quello di chiarire il ruolo che la nozione di malattia mentale può e deve avere in questi argomenti.

11.3 Lo status di malattia mentale della psicopatia

Nelle formulazioni legali concernenti la non imputabilità per infermità mentale si richiede che le incapacità che sono rilevanti per l’impunibilità debbano essere spiegate dalla presenza di una malattia mentale (Simon,

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psicopatologia e scienze della mente

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Ahn-Redding, 2006). Pertanto, alcuni hanno investigato se la psicopatia rappresenti una malattia mentale per stabilire quindi, indipendentemen-te dalla presenza delle incapacità epistemiche e di controllo rilevanti, se almeno una condizione necessaria per la non imputabilità sia soddisfatta dagli psicopatici (Nadelhoffer, Sinnott-Armstrong, 2013).

La questione se la psicopatia sia una malattia mentale è comples-sa perché si interseca con il problema fondamentale della definizione della malattia in generale e della malattia mentale, che ha prodotto dif-ferenti teorie (cfr. cap. 2). Per esempio, sulla base del modello molto influente della malattia mentale come disfunzione dannosa di Wake-field (1992a), è stato sostenuto che la psicopatia non è una malattia mentale ma una strategia di vita adattiva ( Jurjako, 2019) contro quanti sostengono che sia una condizione biologicamente disfunzionale (Na-delhoffer, Sinnott-Armstrong, 2013). Il modello della malattia mentale di Wakefield, tuttavia, non è unanimemente accettato e vi sono pro-poste per investigare la questione dello status di malattia mentale del-la psicopatia muovendo da caratterizzazioni normative della malattia mentale (Graham, 2013; Malatesti, 2014).

In ogni caso, anche se si concedesse che la psicopatia non è una malattia mentale ma un tipo di personalità non patologica, resterebbe aperta la questione se essa implichi delle incapacità che minano l’im-putabilità. Vale qui la pena osservare che l’importanza di quest’ultima ricerca si può anche motivare sulla base di proposte teoretiche (Slobo-gin, 2014), e codici penali come quello svizzero, che formulano forme di difesa per infermità mentale che si concentrano sulle capacità psi-cologiche presenti al momento di commettere il delitto indipendente-mente dall’essere causate da una malattia mentale. Per questo motivo, nei paragrafi seguenti, ci concentreremo sulle formulazioni dell’oip che non prendono in esame la questione dello status patologico della psicopatia.

11.4 La comprensione morale negli psicopatici

Alcuni filosofi e penalisti hanno avanzato formulazioni dell’oip che si focalizzano sulla condizione epistemica dei criteri di imputabilità. Nel-la pratica legale, di solito, questi criteri si applicano ai soggetti psicotici, vale a dire soggetti che soffrono di allucinazioni o difetti nelle capacità

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11. l’imputabilità degli psicopatici

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di ragionamento che minano la capacità di comprendere le circostanze rilevanti per afferrare la natura criminale dell’atto. Tuttavia, le delu-sioni e gli altri sintomi psicotici non sono associati con la psicopatia. Pertanto, questi autori propongono una formulazione normativa della prima premessa dell’oip che prescrive una precisa interpretazione del-la condizione epistemica per l’imputabilità. Per esempio, è stato so-stenuto che il diritto penale dovrebbe ritenere imputabili gli individui che hanno certe capacità emotive o empatiche che sono alla base della comprensione della natura delle proprie azioni e del loro significato morale (Duff, 2010; Glenn, Raine, Laufer, 2011; Morse, 2008).

Queste proposte si inseriscono nel contesto delle discussioni con-cernenti l’interpretazione, nei sistemi legali anglosassoni, delle formu-lazioni dei criteri per le difese per infermità mentale che si ispirano alle regole di M’Naghten. Queste regole menzionano come prerequisito per l’imputabilità la capacità di comprendere l’immoralità dell’atto criminale (Yannoulidis, 2012). Quest’assunzione è controversa nella pratica legale. Infatti, alcuni difendono l’idea che la condizione episte-mica non richieda nel soggetto imputabile una sofisticata capacità di apprezzare le ragioni morali, quanto quella più semplice di riconoscere che la legge punisce certe trasgressioni (ibidem., pp. 14-6). Comunque, anche se si concedesse questa premessa prescrittiva, sembra che il pro-blema principale di questa versione dell’oip derivi dall’evidenza speri-mentale che è stata addotta per concludere che gli psicopatici mancano delle capacità rilevanti per l’imputabilità.

Alcuni, sulla base di studi condotti da James Blair e colleghi (Blair, 1995; 1997) che sembravano mostrare il fatto che gli psicopatici man-cassero completamente o in parte della comprensione morale, hanno so stenuto che questi soggetti non sono moralmente (Kennett, 2010; Levy, 2007; Malatesti, 2010) o legalmente imputabili (Fine, Kennett, 2004; Litton, 2008; 2013). Gli studi di Blair e colleghi usavano il paradigma sperimentale delle trasgressioni “convenzionali” e “morali” (Turiel, 1983). Questo paradigma investiga come il soggetto valuti le trasgressioni riguardo alla loro gravità, se coinvolgano o meno una vit-tima, la loro universalità, vale a dire se siano o meno accettabili in vari contesti, e quanto la loro non permissibilità dipenda dall’esistenza e prossimità di una autorità che le proibisce. Studi empirici sembrano aver dimostrato che i soggetti, anche i bambini dopo i quattro anni di età, in differenti culture distinguano sulla base di questi fattori due classi di trasgressioni (Smetana, 1981; Smetana et al., 1990; 2012). Al-

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cune trasgressioni, quelle morali, sono giudicate più gravi, universali e indipendenti dalla presenza di un’autorità, di quelle convenzionali. Le ricerche di James Blair e collaboratori sembravano provare il fatto che gli psicopatici, e i bambini che manifestano tendenze psicopatiche, non distinguono queste due classi di infrazioni (Blair, 1995; 1997).

Queste formulazioni dell’oip sono state giustamente criticate perché degli studi sperimentali recenti non hanno replicato i risultati di Blair e colleghi (Borg, Sinnott-Armstrong, 2013; Jalava, Griffiths, 2017; Jurjako, Malatesti, 2018). Infatti, è stato rilevato che gli esperi-menti di Blair non erano in grado di evitare il ruolo dell’impression management da parte dei soggetti sperimentali, che, essendo incar-cerati, erano motivati nelle loro risposte a dare una buona immagine della loro moralità e quindi a errare per eccesso nel dichiarare anche le infrazioni convenzionali come morali. Studi basati su esperimenti finalizzati a evitare questo problema hanno dimostrato che gli psi-copatici distinguono tra infrazioni morali e convenzionali come i controlli (Aharoni, Sinnott-Armstrong, Kiehl, 2012; 2014). Vi sono inoltre studi che usano altri paradigmi sperimentali volti a misurare la competenza morale, come quelli basati sul problema di decidere di sacrificare un individuo per dirottare un carrello ferroviario, che altri-menti avrebbe ucciso un certo numero di altri individui, che sembra-no indicare che la comprensione morale degli psicopatici non differi-sce da quella degli individui nei gruppi di controllo (Cima, Tonnaer, Hauser, 2010).

Altre formulazioni dell’oip sono basate su altri dati empirici con-cernenti certe peculiarità emotive degli psicopatici. Alcuni autori hanno, per esempio, sostenuto che gli psicopatici mancano di com-prensione morale perché durante il loro sviluppo dei deficit emozio-nali hanno impedito loro di temere, e quindi essere motivati, dalle punizioni associate alle trasgressioni morali o criminali (Fine, Ken-nett, 2004; Gillett, Huang, 2013; Prinz, 2006). In effetti c’è una ric-ca serie di studi empirici che mostra che gli psicopatici potrebbero soffrire un deficit nel regolamento del comportamento da parte della paura. Un pionieristico studio di Lykken (1957), confermato da uno studio successivo (Flor et al., 2002), aveva mostrato negli psicopatici una minore suscettibilità al condizionamento basato sulla paura delle punizioni. Anche le risposte autonome riguardo a stimoli minacciosi sembrano avere un profilo caratteristico negli psicopatici (Hare, 1982; Hoppenbrouwers, Bulten, Brazil, 2016; Ogloff, Wong, 1990), come

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e dirette ad infrangere norme più
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11. l’imputabilità degli psicopatici

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anche le risposte di riflesso di trasalimento a stimoli inaspettati (Pat-rick, Bradley, Lang, 1993).

La seconda premessa dell’oip, tuttavia, non può basarsi su questi studi. In primo luogo, ci sono dubbi sul fatto che la socializzazione morale e la formazione di una coscienza morale dipendano dalla for-mazione di condizionamenti basati sulla paura e che dunque il com-portamento criminale degli psicopatici dipenda dai loro deficit (Blair, Mitchell, Blair, 2005, pp. 73-76; Jalava, Griffiths, 2017). Infatti, alcuni studi empirici scoraggiano l’idea che l’uso delle punizioni e la paura di essere puniti siano alla base della socializzazione e della formazione del-la coscienza morale (Baumrind, 1983; Brody, Shaffer, 1982; Hoffman, 2001; Hicks-Pass, 2009). Inoltre, gli studi sui deficit emotivi degli psi-copatici non sembrano dimostrare la presenza di una incapacità tanto generalizzata che possa essere rilevante per le formulazioni dell’oip. Un’ampia rassegna critica di questi studi (Hoppenbrouwers, Bulten, Brazil, 2016) suggerisce che gli psicopatici manifestano un’insensibili-tà, altamente contestuale, a segnali di paura che vengono elaborati da meccanismi che operano a livello sub-personale.

Altre formulazioni per l’oip hanno fatto riferimento a deficit nel-la capacità degli psicopatici di riconoscere la paura o l’infelicità nel-le facce del prossimo, che vengono interpretate come una mancanza di empatia (Fine, Kennett, 2004; Levy, 2014; Prinz, 2006). Secondo queste linee di ragionamento, gli psicopatici sono incapaci di provare le emozioni negative osservando persone che hanno queste emozio-ni. Tuttavia, questi argomenti si basano su premesse che sono proble-matiche sia dal punto di vista concettuale che da quello empirico. Per esempio, Maibom (2014) sostiene in modo convincente che non è chiaro che gli esperimenti classici sul riflesso di trasalimento (Patrick, 1994) e la reazione cutanea galvanica degli psicopatici a immagini di persone che soffrono (Blair et al., 1997) siano indicativi di deficit empatici. Maibom (ibidem) sostiene in modo plausibile che le misure adottate in questi esperimenti rilevano la risposta a stimoli stressanti piuttosto che la capacità empatica.

Inoltre, dal punto di vista empirico, si deve notare che alcuni studi non hanno replicato i risultati concernenti i deficit degli psicopatici nel riconoscimento delle emozioni come paura, rabbia, felicità e tri-stezza (Kosson et al., 2002; Glass, Newman, 2006). Altri studi, inve-ce, mostrano che questi deficit sembrano manifestarsi in condizioni sperimentali molto specifiche (Hamilton, Racer, Newman, 2015). Re-

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centemente, Newman con collaboratori (Newman et al., 2010) e Ba-skin-Sommers (Baskin-Sommers, Newman, 2012) hanno dimostrato che se l’attenzione degli psicopatici è diretta verso certi tratti del viso, essi riconoscono normalmente le manifestazioni della paura. Queste discordanze nei risultati e la loro variabilità sembrano dipendere dalle specificità dei vari contesti sperimentali (Larson et al., 2013).

Si può, dunque, concludere che formulazioni dell’oip che si con-centrano sulle capacità cognitive degli psicopatici incontrano seri osta-coli concettuali ed empirici. Comunque, sono state anche avanzate formulazioni dell’oip che si concentrano sulle capacità degli psicopa-tici di controllare le loro azioni. Il prossimo paragrafo offre una rasse-gna critica delle formulazioni principali di questi argomenti.

11.5 La capacità di controllo negli psicopatici

Alcuni hanno sostenuto che la psicopatia si correla con incapacità o diminuite capacità di controllare le proprie azioni che potrebbero es-sere significative per la non imputabilità (Focquaert, Glenn, Raine, 2015; Glenn, Laufer, Raine, 2013; Sifferd, Hirstein, 2013). In particola-re, questi autori hanno sostenuto che gli studi sperimentali dimostra-no delle anomalie nelle funzioni esecutive di questi soggetti (Fisher, Blair, 1998; Hiatt, Newman, 2006). Nella scienza cognitiva contem-poranea, si assume che le funzioni esecutive regolino i processi che controllano il sistema cognitivo. Tra le funzioni esecutive si annovera-no quelle che hanno a che fare con l’allocazione dell’attenzione a in-formazioni rilevanti, la pianificazione gerarchica dei mezzi e dei fini, l’elaborazione di strategie e l’inibizione di risposte comportamentali inadeguate.

Vi sono studi che hanno mostrato problemi nelle funzioni ese-cutive degli psicopatici. Alcuni studi dimostrano che gli psicopatici hanno difficoltà nel rispondere ai compiti di estinzione. In questi compiti, i partecipanti imparano a rispondere a uno stimolo che su-scita una ricompensa e quindi imparano a evitare di rispondere allo stesso tipo di stimolo quando suscita la punizione. Newman, Pat-terson e Kosson hanno stabilito che rispetto ai non-psicopatici con-trolli, psicopatici adulti e bambini con tendenze psicopatiche hanno difficoltà, durante dei giochi che coinvolgono delle ricompense mo-

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11. l’imputabilità degli psicopatici

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netarie, nell’inibire un tipo di risposta che dopo essere stata inizial-mente premiata diventa progressivamente perdente (Newman et al., 1990; O’Brien, Frick, 1996).

Inoltre, vi sono studi che mostrano che questi soggetti hanno dif-ficoltà nell’apprendere, sempre in giochi che coinvolgono dei premi, la cosiddetta “inversione di strategia” (Lapierre, Braun, Hodgins, 1995; Mitchell et al., 2002). In questi esperimenti si misura la capaci-tà di passare da una strategia inizialmente premiata, che dopo un de-terminato numero di prove viene punita, a una strategia inizialmente punita e poi premiata. Infine, rispetto ai soggetti nel gruppo di con-trollo, gli psicopatici manifestano carenze nel cosiddetto compito del gioco d’azzardo dello Iowa che misura le capacità decisionali quan-do le contingenze (punizione o ricompensa) associate a certe rispo-ste cambiano (Bechara et al., 1994; Blair, Colledge, Mitchell, 2001; Mitchell et al., 2002).

Si deve, tuttavia, notare che l’evidenza empirica mostra che le pe-culiarità degli psicopatici non ammontano a incapacità generalizzate che possano essere utilizzate per formulare l’oip. I risultati sulle inca-pacità degli psicopatici, infatti, dipendono da fattori specifici dei tipi di esperimenti (Brazil et al., 2013; Hamilton, Racer, Newman, 2015; Koenigs, Newman, 2013; Jurjako, Malatesti, 2016; Baskin-Sommers, Curtin, Newman, 2015). Sembra che, in generale, le prestazioni degli psicopatici dipendano da come la loro attenzione sia diretta ai requisiti del compito sperimentale (Koenigs, Newman, 2013).

11.6 Conclusione

In conclusione, vi sono studi sperimentali che hanno individuato al-cune relazioni significanti tra l’essere classificati come psicopatici, per mezzo della pcl-r, e alcune risposte comportamentali peculiari. Tuttavia, queste peculiarità sembrano essere relegate a condizioni spe-rimentali che sono troppo specifiche per essere rilevanti per decidere riguardo l’imputabilità di un soggetto.

La difficoltà principale consiste nel fatto che le varie versioni dell’oip si basano su studi ed esperimenti che poggiano su paradig-mi che non sono direttamente predisposti per investigare le capacità rilevanti per l’ascrizione dell’imputabilità criminale. Sembra che que-

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sta difficoltà sia un’istanza di un problema più generale. Come alcuni hanno notato, al momento non abbiamo delle operazionalizzazioni delle capacità rilevanti per l’imputabilità che siano allineate con i re-centi sviluppi delle scienze del comportamento (Buckholtz, Reyna, Slobogin, 2016). Di conseguenza, non ci sono paradigmi sperimentali, soprattutto nell’area della neuropsicologia, che possano essere applica-ti agli psicopatici per stabilire se abbiano o meno le capacità che rap-presentano prerequisiti per l’imputabilità3.

3. Ringrazio l’avv. Alberto Donnini e il prof. Filip Čeč per i loro preziosi commenti a versioni precedenti di questo capitolo. Questo lavoro è un risultato del progetto Le risposte alle personalità antisociali nella società democratica (rad), che è finanziato dalla Fondazione Croata per la Scienza (hrzz) (finanziamento: ip-2018-01-3518).

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Parte terza

Il contributo della psicologia dinamica alla psichiatria in una cornice

cognitivo-evoluzionistica

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Le prospettive psicopatologiche del Novecento, e in particolare quella psicodinamica, hanno assegnato una posizione speciale alla comprensione dei processi motivazionali nell’ambito dello studio dello sviluppo normale e patologico della personalità e dei disturbi mentali. L’idea che ha ispirato questa prospettiva è che i sintomi e le strutture patologiche del carattere siano il prodotto di una visio-ne di sé e degli altri significativi che trae origine dalle risposte che l’individuo riceve nel corso dello sviluppo a una serie di motiva-zioni di base che orientano il suo rapporto con le proprie figure di riferimento.

Il concetto di motivazione, tuttavia, ha subito delle importan-ti revisioni nel corso della psicologia scientifica durante il secolo scorso. Lo scopo di questo capitolo è descrivere il contributo che le scienze cognitive e le neuroscienze affettive hanno fornito alla ridefinizione progressiva del concetto di motivazione nell’ambito dell’approccio naturalistico di studio della mente caratteristica della prospettiva darwiniana. Nell’affrontare questo innovativo contribu-to allo studio della motivazione, sarà possibile indicare anche una nuova cornice di comprensione della psicopatologia, con riferimen-to specifico allo studio dello sviluppo della personalità. In parti-colare, vedremo come l’integrazione della prospettiva della teoria dell’attaccamento con le più recenti indicazioni provenienti dalle neuroscienze delle emozioni e dagli studi osservazionali sul bambi-no, permetta di intraprendere un percorso di studio delle principali problematiche psicopatologiche alla luce di una nuova e scientifica-mente solida prospettiva di comprensione sull’interazione dinamica fra i diversi sistemi motivazionali nel corso dell’ontogenesi indivi-duale.

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Attaccamento e motivazionedi Riccardo Williams

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12.1 La nascita della teoria dell’attaccamento

Il primo tentativo di studiare la psicopatologia alla luce dei processi mo-tivazionali e affettivi, come è noto, va riferito alla teoria psicoanalitica freudiana e agli sviluppi che da essa sono scaturiti soprattutto attraverso autori come Melanie Klein, Wilfred Bion, Donald Winnicott. Bowlby si trova a operare come clinico in questo terreno teorico ma è ampia-mente insoddisfatto dell’impianto scientifico psicoanalitico proprio in merito alla teoria della motivazione su base pulsionale. L’insoddisfazio-ne di Bowlby nei confronti della psicoanalisi è sostanzialmente riferibile alla incompatibilità tra il modo in cui la psicoanalisi fino a quel momen-to aveva spiegato i comportamenti istintivi con l’impianto scientifico che si era andato affermando nel secondo dopoguerra, soprattutto at-traverso la rivoluzione darwiniana. Benché John Bowlby con l’introdu-zione della teoria dell’attaccamento, come vedremo a breve, realizzi una rottura essenziale con la teoria psicoanalitica della motivazione, è op-portuno segnalare che Bowlby attraverso la sua innovazione teorica fos-se intenzionato ad approfondire alcuni aspetti messi in luce dalla teoria psicoanalitica riguardo all’influenza che i processi motivazionali legati all’eredità biologica avessero sulla vita mentale e sulla psicopatologia. A tal proposito, il suo allievo e biografo, Jeremy Holmes sostiene sintetica-mente che il più grande merito di Bowlby è stato quello «di unificare la psicoanalisi e la biologia evoluzionista per mezzo dell’etologia» (Hol-mes, 2014, trad. it. p. 32). In particolare, ciò cui Bowlby non rinunciò mai del suo background psicoanalitico può essere sintetizzato in quattro punti: a) le motivazioni e le emozioni e pensieri a carattere prevalen-temente inconscio a esse collegate hanno un ruolo determinante nella vita mentale; b) le motivazioni e le emozioni inconsce sono espressione dell’eredità biologica della specie rappresentata dagli istinti; c) le vicis-situdini della vita emotiva ed emozionale sono plasmate dalle esperien-ze infantili; d) le vicissitudini evolutive che plasmano l’organizzazione delle motivazioni nella vita mentale sono determinanti per orientare lo sviluppo della personalità e il funzionamento psichico in senso normale o patologico. Se Bowlby riteneva che questa impostazione fondamen-tale della psicoanalisi fosse coerente con gli assunti dell’evoluzionismo darwiniano, egli certamente nutriva molta insoddisfazione per come la psicoanalisi freudiana e kleiniana avevano concettualizzato l’istin-

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1. Per una disamina approfondita del rapporto fra teoria dell’attaccamento e psi-coanalisi classica, cfr. Ortu, Pazzagli, Williams (2005).

to1. In particolare, Bowlby riteneva che la teoria delle pulsioni elaborata da Freud fosse in evidente contrasto con alcuni elementi essenziali del pensiero scientifico contemporaneo e dell’evoluzionismo darwiniano. Possiamo riassumere il dissenso in due punti fondamentali.

In primo luogo, Freud partiva dal presupposto di un sistema nervoso centrale come sistema chiuso che riceveva energie dagli stimoli prove-nienti da specifiche aree del corpo e che il compito precipuo della vita psichica fosse la scarica di questa energia corporea. La vita mentale ri-sultava avere dunque come fonte di attivazione e come meta specifica la scarica dell’energia istintuale. Questo modello, definito idraulico, a par-tire dagli anni Quaranta del secolo scorso apparve sempre più inadegua-to a spiegare il funzionamento del sistema nervoso, considerato ormai un sistema aperto. L’affermarsi della cibernetica aveva inoltre offerto una teoria alternativa in grado di spiegare attraverso un modello qualita-tivo fondato sulla trasmissione di informazione (i sistemi a feedback di cui parleremo a breve) come un organismo potesse tendere a uno scopo motivazionale senza avere bisogno di un’energia primaria di attivazione.

In secondo luogo, l’ipotesi che la motivazione primaria dell’appa-rato mentale fosse la scarica dell’energia psichica (il principio di piace-re) in essenziale contrasto con le condizioni della realtà esterna era in aperta contraddizione con la posizione darwiniana che presupponeva che l’eredità istintuale e psicologica dell’individuo fosse stata premiata dalla selezione naturale proprio nella misura in cui favoriva le capacità di adattamento (fitness) dell’individuo alle circostanze ambientali.

Per questi motivi, Bowlby orientò la propria ricerca teorica attra-verso i nuovi modelli di comprensione del comportamento istintivo elaborati nell’etologia moderna, attraverso essenzialmente il contribu-to di Nico Timbergen.

12.2 Il sistema comportamentale dell’attaccamento

Per Timbergen l’evoluzione biologica ha selezionato delle mete comportamentali (set-goal), vale a dire degli obiettivi da raggiunge-re nell’interazione con l’ambiente esterno, il cui ottenimento assu-

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me una funzione specifica nell’incrementare la sopravvivenza e/o le capacità riproduttive dell’individuo e, in senso più ampio, della sua specie nel proprio ambiente di adattamento. Gli istinti dunque vanno riconcettualizzati come sistemi comportamentali orientati a mete prefissate dall’evoluzione biologica. Nel corso dell’evoluzio-ne di una specie sono stati selezionati anche quei comportamenti che permettono all’individuo di giungere alla meta prefissata. Tali comportamenti possono, come avviene nelle specie dotate di sistemi nervosi centrali poco sofisticati, essere fissati in una sequenza rigida. Nelle specie con sistema nervoso più complesso la sequenza dei com-portamenti può essere variabile e relativamente flessibile in funzione delle mutate circostanze ambientali in cui è necessario raggiungere la meta stabilita. Tale flessibilità è garantita da un sistema di con-trollo comportamentale a feedback assimilabile a quello che regola il funzionamento di molti congegni meccanici e di altre funzioni di regolazione fisiologica dell’organismo. Tale sistema prevede in-nanzitutto la percezione di una condizione ambientale discordante con la condizione ideale che costituisce la meta prefissata del sistema comportamentale. A questo punto, viene attivato automaticamen-te il sistema comportamentale attraverso l’elaborazione di un piano d’azione finalizzato a ristabilire la concordanza tra stato effettivo dell’organismo in rapporto all’ambiente e meta prefissata. Quando il piano comportamentale viene attuato, il sistema nervoso centrale riceve un feedback (un segnale) che indica la congruenza tra la meta prefissata e l’esito comportamentale effettivo. Se permane l’incon-gruenza, viene elaborato un altro piano che opera delle modifiche o sulla sequenza d’azione impiegata o sull’esecuzione specifica delle componenti del piano d’azione. I sistemi istintivi così funzionanti vengono detti goal directed behavioral systems. Tale concettualizza-zione del comportamento istintivo come sistema corretto rispetto a uno scopo ha il grande vantaggio rispetto alla visione classica propo-sta da Lorenz (1977), di prevedere la plasticità delle condotte istin-tive. Inoltre, il fatto che, soprattutto nell’essere umano, la struttu-razione delle componenti d’azione di un sistema comportamentale tenga conto sia della maturazione cognitiva sia delle diverse forme di apprendimento (incluso quello simbolico) rende i sistemi istintivi ulteriormente plastici e adattabili alle mutate condizioni ambienta-li. Questa plasticità peraltro, nella visione di Bowlby, è in grado di rendere conto anche di come il funzionamento mentale possa essere

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condizionato dalle mete dei sistemi comportamentali, al di là delle condizioni specifiche di attivazione del sistema e del piano d’azione predisposti alla nascita di ciascun individuo dall’evoluzione biolo-gica. Anche i processi mentali più evoluti e meno apparentemente legati al perseguimento di singoli obiettivi comportamentali posso-no infatti rientrare nel piano d’azione che porta al raggiungimento della meta stabilita.

L’analisi comparata delle reazioni di piccoli umani e dei primati non umani aveva inizialmente indicato a Bowlby l’esistenza di alcu-ni comportamenti ricorrenti in presenza di separazioni o distacchi dalle figure di accudimento primario: la protesta, segnali di disagio, l’aggrappamento e altri facilmente riscontrabili tanto nei primati non umani che nell’uomo. Bowlby giunse dunque a teorizzare l’esi-stenza di un sistema comportamentale che regolasse questi eventi di separazione. La funzione generale di tale sistema per la sopravviven-za era quella di garantire stabilmente la presenza di una protezione da parte delle figure di riferimento davanti ai pericoli rappresen-tati dalle istanze di regolazione dei bisogni corporei, ma in misu-ra ancora maggiore davanti ai pericoli esterni, che nell’ambiente medio di adattamento dei primati erano rappresentati soprattutto dai predatori. Tali esigenze di protezione dovevano aver assunto, secondo Bowlby, un rilievo ancora maggiore nella specie umana in cui il periodo di neotenia, vale a dire la dipendenza della progenie dalle figure di accudimento per le proprie esigenze di sopravvivenza a causa del prolungato processo di maturazione cerebrale, appare esporre gli individui a una finestra molto ampia e prolungata di vulnerabilità.

Secondo Bowlby (1969), pertanto, l’evoluzione biologica aveva selezionato un sistema comportamentale la cui meta stabilita era quella di mantenere la prossimità ottimale tra il piccolo e la propria figura di riferimento. Tale sistema comportamentale, nell’ipotesi di Bowlby, sarebbe attivato ogni qual volta si determinano due minacce potenziali: la separazione (o anche semplicemente l’allontanamento fisico) del genitore o la presenza di figure estranee, non riconosciute né riconoscibili e dunque assimilate in automatico a dei potenziali predatori. Secondo Bowlby, il sistema comportamentale dell’attac-camento si compone di alcuni schemi comportamentali di base che si arricchiscono e crescono in complessità nel corso dello sviluppo. Alcuni di questi comportamenti compaiono già nelle prime fasi del-

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lo sviluppo, quali, per esempio, la reazione di paura di fronte all’e-straneo (in realtà, questo comportamento è considerato precursore e prima evidenza dell’emergere del sistema dell’attaccamento), il pianto, l’aggrapparsi e il cercare con lo sguardo il genitore. Succes-sivamente, compaiono la reazione di seguitamento del genitore da parte del bambino, la reazione di protesta e, con la comparsa del lin-guaggio, il chiamare il genitore. I dati osservazionali a disposizione permisero a Bowlby di verificare che il sistema dell’attaccamento si struttura intorno ai 12 mesi. In questa fase, difatti, il bambino attiva compiutamente e organicamente i diversi comportamenti d’attac-camento davanti alle due condizioni stimolo di minaccia percepita (separazione e presenza dell’estraneo). Il comportamento osservato che rende conto di questa organizzazione è quello di base sicura. Tale comportamento prevede un bilanciamento ottimale tra il siste-ma dell’attaccamento e il sistema comportamentale dell’esplorazione che si attiva per favorire l’ampliamento della gamma di esperienza del bambino e di consentirgli l’attivazione di strategie comporta-mentali di padroneggiamento dell’ambiente sempre più complesse. In presenza del genitore il bambino mantiene il sistema dell’attacca-mento disattivato ed è libero di dedicarsi all’esplorazione dell’am-biente circostante. Davanti all’allontanamento del genitore o alla presenza di un estraneo nell’ambiente di esplorazione, il bambino disattiva il sistema di esplorazione e attiva i comportamenti specifici che compongono il sistema dell’attaccamento al fine di ravvicinare il genitore e ottenere il suo conforto. Il concetto di bilanciamento dei due sistemi comportamentali considerati da Bowlby, diviene fon-damentale per comprendere alcuni aspetti essenziali dello sviluppo della personalità e segna un contributo specifico che lo studio della motivazione in ottica evoluzionista fornisce alla comprensione dei processi psicologici che sottendono la psicopatologia. L’attivazione del sistema d’attaccamento in presenza della separazione è anche l’indicatore della relazione preferenziale che si è stabilita tra il bam-bino e il genitore, ciò che Bowlby definirà legame di attaccamento. La costruzione, il mantenimento e la potenziale dissoluzione e sosti-tuzione di tale legame d’attaccamento costituiscono le vicende in-torno a cui ruotano le vicende psichiche individuali, da cui discende l’equilibrio mentale per tutto il corso dell’esistenza di una persona. Gli sviluppi della teoria dell’attaccamento hanno consentito di so-stanziare e meglio precisare questa posizione.

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12. attaccamento e motivazione

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2. Le osservazioni della Ainsworth avvennero inizialmente in modo non siste-matico attraverso uno studio di campo che ella condusse in Uganda, e successivamen-te attraverso l’impiego di un paradigma di laboratorio detto della Strange Situation che consentiva di osservare sia la reazione del bambino davanti alle due minacce della separazione e della presenza dell’estraneo, sia di verificare la risposta successiva che il bambino offriva al momento del ricongiungimento con il genitore; per una presenta-zione completa di questo materiale sperimentale, cfr. Ainsworth et al., 1978.

12.3 Sviluppo del sistema dell’attaccamento

e differenze individuali

Benché Bowlby inizialmente ritenesse che l’attivazione del sistema comportamentale dell’attaccamento fosse una caratteristica essenzia-le dell’evoluzione biologica della mente umana e il comportamento di base sicura fosse osservabile universalmente, i dati osservazionali forniti da Mary Ainsworth (Ainsworth et al., 1978), sua principale allieva, contribuirono a modificare questo punto di vista e con esso la concettualizzazione sullo sviluppo del sistema dell’attaccamento. In particolare, la Ainsworth ebbe modo di constatare che alcuni bam-bini che affrontavano delle minacce percepite alla propria sicurezza (presenza dell’estraneo, allontanamento del genitore) non esibivano la ricerca di conforto che sarebbe stato lecito attendersi a partire dal modello comportamentale della base sicura. Alcuni di questi bambini evitavano sistematicamente il contatto e, in luogo di esso, mostrava-no un’accentuazione dei comportamenti esplorativi, di gioco e anche di interazione con l’estraneo. Altri bambini al contrario, apparivano molto inibiti nel comportamento di esplorazione e non sembrava-no in grado di beneficiare del conforto del genitore, esasperando le condotte di protesta, richiamo, pianto. In entrambi i casi dunque sembrava essere perduto il bilanci amento motivazionale tra attac-camento ed esplorazione, a favore ora dell’uno ora dell’altro. Tale osservazione appariva dunque in stridente contrasto con l’ipotesi bowlbiana dell’universalità del ricorso all’attaccamento in situazioni di minaccia specifiche. L’innovazione che introdusse la Ainsworth2, a cui lo stesso Bowlby si rifece successivamente, era che l’attivazione del sistema di attaccamento, come nel caso di altri sistemi compor-tamentali, avveniva attraverso delle strategie condizionali, strategie, cioè, che tenevano conto delle esperienze pregresse per realizzare la

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migliore condizione di adattamento per l’individuo. Nel caso del si-stema dell’attaccamento, le strategie condizionali dovrebbero tenere conto di quelle che sono state le esperienze reali rispetto alla sensibi-lità del genitore nel cogliere i segnali di disagio e paura del bambino, la sua disponibilità ed efficacia nel prestare conforto. La Ainsworth ne dedusse che se in alcuni bambini si verificava uno sbilanciamento verso il sistema esplorativo era perché il bambino aveva sperimen-tato nella relazione di accudimento delle risposte di scarsa sensibi-lità e disponibilità emotiva da parte della propria figura di attacca-mento. Così, al fine di evitare una probabile frustrazione che non avrebbe fatto altro che incrementare la propria ansia di separazione, il bambino classificato come evitante cercava di ridurre al minimo i segnali interni ed esterni del sistema dell’attaccamento ed esaltava le attività esplorative. In modo speculare, quei bambini, classificati come ansioso-resistenti, che mostravano un’esacerbata attivazione dei segnali dell’attaccamento dovevano aver avuto delle esperienze di accudimento fortemente incoerenti. In tali condizioni, la strate-gia migliore per incrementare la probabilità di ricevere conforto era quella di mantenere il sistema di attaccamento costantemente atti-vato a scapito delle attività di esplorazione. Per concepire il passag-gio dalle precoci esperienze di accudimento alla selezione successiva delle strategie condizionali coerentemente esibite dai bambini nelle condizioni di minaccia, la Ainsworth e Bowlby attinsero al concetto di mappa cognitiva mutuato dalle scienze cognitive.

12.4 I modelli operativi interni

Secondo questa prospettiva cognitiva, dunque, l’adattamento di un or-ganismo al proprio ambiente si basa sulla possibilità, da parte dell’or-ganismo, di costruirsi un’adeguata mappa conoscitiva, o meglio un ac-curato modello operativo delle caratteristiche dell’ambiente capace di guidare e regolare i successivi scambi tra organismo e ambiente. Dalla concordanza del modello con i dati disponibili, dalla sua flessibilità, cioè da quanto può servire in situazioni nuove e adattarsi a realtà nuo-ve, non ancora sperimentate e dalla sua coerenza interna, cioè dalla congruenza delle parti che lo costituiscono, dipenderà l’adeguatezza delle previsioni che è possibile avanzare sulla base del modello stesso

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mentre dalla sua comprensività il numero di situazioni a cui tali previ-sioni saranno applicabili.

Il concetto di modello operativo interno (moi) permette una concettualizzazione più compiuta dell’influenza delle esperienze di attaccamento sull’adattamento e sulla psicopatologia (Bowlby, 1969; 1973; Ainsworth et al., 1978; Bretherton, Munholland, 1999; 2008). A ciascun moi difatti corrispondono delle rappresentazioni sufficien-temente stabili e coerenti di interazione con l’altro e delle aspettative precise sul sentirsi degno o non degno di cure e conforto, sulla dispo-nibilità degli altri nell’offrire tali cure e sulle modalità attraverso cui è possibile far fronte ai propri bisogni di sicurezza. Ciascun moi inoltre indica le strategie comportamentali che permettono il mantenimento, anche in condizioni non ottimali, di un livello minimo di sicurezza in-terna, contribuendo ai processi di regolazione e mantenimento dell’e-quilibrio affettivo. Al fine di mantenere tale equilibrio, oltre a quelle strategie condizionali che permettono di disattivare o iperattivare il sistema di attaccamento, vengono utilizzate delle operazioni difensi-ve che rendono conforme quanto più possibile l’informazione prove-niente dall’interno e dall’esterno con il moi esistente. Informazioni incongruenti o incompatibili con il modello operativo interno, difatti, renderebbero instabile la strategia complessiva di mantenimento della sicurezza percepita generando un incremento del segnale dell’angoscia di separazione. Tali operazioni costituiscono per Bowlby l’equivalen-te dei meccanismi di difesa ipotizzati dalla psicoanalisi classica e sono le principali responsabili della tendenza alla continuità evolutiva che caratterizza i modelli dell’attaccamento. Le nuove esperienze affettive tendono in modo inerziale a essere distorte e assimilate dalle rappre-sentazioni preesistenti.

12.5 Attaccamento e psicopatologia

Lo studio dei modelli dell’attaccamento ha permesso di ridefinire sem-pre meglio il ruolo che la comprensione dei processi motivazionali e delle loro vicissitudini evolutive ha per lo sviluppo della personalità e la psicopatologia. Si presuppone che i modelli insicuri dell’attac-camento offrano una base di sviluppo della psicopatologia promuo-vendo la stabilizzazione di rappresentazioni negative di sé e dell’altro,

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psicopatologia e scienze della mente

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determinando una distorsione di informazioni emotive rilevanti, cre-ando un processo di regolazione emozionale adattivo per il contesto di interazioni pregresse, ma altamente disfunzionale rispetto a quello attuale poiché rigido e almeno relativamente instabile rispetto a quello sicuro, determinando uno sbilanciamento nell’assetto motivazionale dell’individuo dove possono essere sovrarappresentate istanze relative alla ricerca dell’attaccamento o alla sottovalutazione della propria si-curezza in favore dell’esplorazione, generando modelli di interazione altamente disfunzionali nelle relazioni con figure significative degli anni successivi alla prima infanzia (Sroufe, 2005).

In primo luogo, è di fatto possibile concepire il ruolo dei moi nei termini di aspettative che influenzano, tendenzialmente in modo sta-bile nel tempo, l’attivazione dei sistemi comportamentali dell’esplora-zione e dell’attaccamento in diversi contesti sociali e quindi di definir-ne l’impatto sull’adattamento generale dell’individuo.

Tra le misure considerate ci sono l’autonomia psicologica dell’in-dividuo nella risoluzione di compiti cognitivi e interpersonali (Sroufe, 1996; Mikulincer, 1998a; 1998b; Weinfield et al., 1999), la capacità di regolazione emotiva di fronte a situazioni stressanti e, in modo prati-camente sovrapponibile, le capacità di coping, la tolleranza alla frustra-zione, la riuscita scolastica, l’autostima, le capacità di comprensione delle situazioni interpersonali, la capacità di comprensione dei propri stati interni, l’intelligenza, le abilità linguistiche (Sroufe, 2006). Come ovvio, una particolare attenzione è stata prestata alla relazione tra qua-lità dell’attaccamento e quelle dimensioni cui la teoria della personali-tà assegna un ruolo privilegiato nello sviluppo sociale della personalità e nel dominio interattivo. Gli aspetti di “fiducia di base” che sarebbero intrinseci allo sviluppo del comportamento di base sicura sono così stati accostati alle dimensioni della prosocialità (Sroufe, 1996) e della gradevolezza e nevroticismo intese secondo il modello dei big five di Costa e Mcrae (Hagekull, Bohlin, 2003; Kelly, 2004). Un’area partico-larmente importante per lo sviluppo della personalità riguarda le capa-cità riflessive e di mentalizzazione (cfr. cap. 6). In particolare, Fonagy (Fonagy, Target, 1996; Fonagy et al., 2002) ha proposto un’estensione del concetto di attaccamento come contesto di sviluppo privilegiato della funzione riflessiva. Nella sua prospettiva, in particolare, egli ri-tiene che gli scambi comunicativi che caratterizzano l’interazione tra il bambino e il caregiver nel corso dei primi anni di vita costituiscano la matrice essenziale entro cui si cimenta quel processo di regolazione

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affettiva che è alla base della sicurezza dell’attaccamento. Tale processo di regolazione si fonderebbe proprio sulla possibilità da parte del bam-bino di interiorizzare delle rappresentazioni mentalizzate dei propri stati affettivi. Dallo sviluppo di questa sicurezza dell’attaccamento e delle capacità di mentalizzazione deriverebbe inoltre la possibilità di costruire basi sufficientemente solide del senso della propria identità, altrimenti definito in psicologia dinamica, come sé.

Proprio l’accento posto nella ricerca evolutiva informata dalla cor-nice teorica dell’attaccamento ha permesso di articolare ulteriormente la comprensione dei rapporti tra attaccamento e psicopatologia. Già Bowlby aveva evidenziato come i segnali dell’ansia di separazione po-tessero essere elaborati secondo processi difensivi che avevano il fine di ristabilire l’equilibrio emotivo, o attraverso l’esclusione selettiva dell’informazione relativa all’attaccamento, o attraverso il processo opposto di ipersensibilizzazione o, infine, di tipo dissociativo. Nella visione contemporanea, come poc’anzi evidenziato, è messo in eviden-za come a ciascun modello operativo interno corrispondano stile di elaborazione dell’informazione emotiva, processi di mentalizzazione e costruzione di rappresentazioni di sé e dell’altro sufficientemente sta-bili (anche se non necessariamente coerenti e integrati). Si ritiene che nell’insieme siano questi processi relativi all’attaccamento a costituire la base di alterazioni stabili nei processi della regolazione affettiva che predispongono l’individuo a perdere la capacità di modulazione dello stress con conseguenze varie sul piano comportamentale, sintomatico e relazionale.

Sulla base di queste considerazioni si è ipotizzata una relazione specifica tra tipologie dell’attaccamento insicuro e le diverse forme psicopatologiche. Sul piano empirico tale impostazione, tuttavia, sem-bra aver prodotto dei risultati ambigui. È, difatti, possibile constatare come una stessa categoria dell’attaccamento risulti correlata a diverse tipologie di disturbi che pur condividendo, almeno in linea teorica, dei tratti psicopatologici differiscono tra loro per altri importanti aspetti. Di fatto, al momento appare difficile stabilire una precisa connessione tra le strategie di regolazione affettiva che dovrebbero corrispondere ai diversi moi e le caratteristiche dei processi mentali corrispondenti ai vari disturbi psichiatrici o ai diversi disturbi di personalità (Chiesa et al., 2017).

Un secondo approccio fondamentale alle relazioni tra attacca-mento e psicopatologia è quello che si inscrive nell’orientamento

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generale della psicopatologia dello sviluppo. In tale prospettiva di studio, come abbiamo detto nel precedente capitolo, ciascun fatto-re non è investito mai del ruolo di causa unica di un certo distur-bo, ma svolge la sua azione patogena (o di protezione) sempre in associazione ad altre cause, comunque secondo un modello di pre-visione di tipo probabilistico che non fornisce mai certezze assolu-te sulla relazione tra un fattore o una combinazione di fattori e lo sviluppo eventuale di una condizione patologica. Nella prospettiva della moderna psicopatologia dello sviluppo, dunque, si preferisce ricondurre la psicopatologia a configurazioni di fattori di rischio e fattori protettivi. Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, l’at-taccamento ha occupato in questa impostazione un ruolo privilegia-to. L’insicurezza dell’attaccamento valutata in vari modi costituisce di certo un fattore di rischio rilevante, ma non necessariamente una causa di malattia e, comunque, non certamente l’unica causa. Così, nei diversi studi è possibile constatare che le diverse classificazioni dell’attaccamento insicuro non sempre sono associate a diagnosi di disturbi psichiatrici che, d’altra parte, possono comparire anche in presenza di un attaccamento sicuro. Per essere precisi, la probabilità di ricevere una diagnosi psichiatrica in presenza di un attaccamento insicuro è di quattro volte superiore a quella che si avrebbe in pre-senza di un attaccamento sicuro (Dozier et al., 1999). L’unica area psicopatologica che sembra presentare una pressoché inevitabile as-sociazione con l’insicurezza dell’attaccamento è quella dei disturbi d’ansia (Egeland, Carlson, 2004). Un discorso a parte merita il con-cetto di attaccamento disorganizzato. Esso, come abbiamo visto nel capitolo precedente, si è sviluppato proprio nell’ambito di campioni a rischio psicosociale o con soggetti che avevano già ricevuto una diagnosi psicopatologica. Per di più, come abbiamo evidenziato nel precedente capitolo, la disorganizzazione dell’attaccamento prevede per definizione l’esistenza di un processo patologico di natura dis-sociativa. Non stupisce, quindi, il dato che tale classificazione alla Strange Situation risulti fortemente predittiva di svariate condizioni patologiche in età successive, prime fra tutte la diagnosi di disturbi dissociativi. Queste evidenze hanno spinto alcuni autori a segnalare la sostanziale sovrapposizione tra la disorganizzazione dell’attaccamen-to e il disturbo di personalità borderline (Barone, 2003; Gabbard, 2004; Hoffman, McGlashan, 2004). Anche in questo caso, tuttavia, la natura di tale nesso va interpretata con cautela. In primo luogo, gli

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studi empirici non sembrano segnalare una sostanziale coincidenza tra le due condizioni (Agrawal et al., 2004).

12.6 I sistemi motivazionali nelle prospettive contemporanee

Una proposta recente di espansione della prospettiva motivazionale dell’attaccamento che deriva dalla ricerca etiologica e osservazionale sul comportamento infantile è stata introdotta da Lichtenberg (1989). Questi ha proposto di modificare il costrutto bowlbiano di sistema comportamentale nel concetto di sistema motivazionale. Ciascun si-stema motivazionale, come il sistema comportamentale, è diretto a uno scopo e ciascuno scopo motivazionale è fissato dall’evoluzio-ne biologica portando dei vantaggi per la sopravvivenza individuale e del gruppo. Tuttavia, i sistemi motivazionali non sono concepiti come piani di comportamento che si dispiegano meccanicamente in riferimento al feedback percettivo che paragona l’esito del comporta-mento con la meta stabilita. Ciascun sistema motivazionale è difatti attivato e guidato da un’emozione specifica, dalle rappresentazioni di sé-in-rapporto-all’altro-significativo associate a questa emozione, dai ricordi e dal piano d’azione elaborato in modo sempre nuovo dall’in-dividuo. La novità di questa prospettiva è l’importanza che assumono nel funzionamento motivazionale le singole emozioni. Le emozioni specifiche caratteristiche di ciascun sistema motivazionale sono difat-ti responsabili a) dell’attivazione del sistema; b) del recupero di rap-presentazioni rilevanti che guidano il piano comportamentale; c) di segnalare l’eventuale successo o fallimento del piano comportamen-tale. In tali condizioni, inoltre, si suppone che il mantenimento o la soppressione del singolo stato emotivo connesso a un sistema divenga nel tempo lo scopo intrinseco del sistema motivazionale. Si ritiene che nel corso dello sviluppo sia le esperienze interpersonali, sia lo sviluppo cognitivo, sia la creazione di significati culturali possano contribuire a modificare le rappresentazioni costruite nelle esperienze primarie di interazione, ma il nucleo affettivo di queste rappresentazioni rimanga immutato (Lichtenberg et al., 2011). Il rendersi attuale delle rappre-sentazioni di eventi passati interattivi, affettivamente connotati, nel contesto attuale dell’esperienza definisce il motivo che orienta il com-portamento effettivo della persona. Lo stato affettivo specifico in sé

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verrebbe a costituire il nesso tra lo scopo comportamentale istintuale originario selezionato dall’evoluzione e l’esperienza mentale dei mo-tivi reali della persona. In questa prospettiva sono dunque gli affetti e non gli scopi comportamentali istintivi in sé a guidare il compor-tamento e a creare i significati personali. Questo modello dunque si presta ancora meglio a qualificare la varietà dei motivi individuali che orientano i processi decisionali, tenendo conto dell’influenza che sulla costituzione dei motivi possono svolgere l’apprendimento, la cultura e i processi simbolici.

Pur con alcune differenze teoriche, gli approcci neuroscientifici contemporanei sono in linea con la nozione di sistemi motivazionali e forniscono ulteriori indicazioni circa il ruolo delle emozioni nel gui-dare il comportamento umano. In primo luogo, le neuroscienze han-no evidenziato che i processi decisionali e i comportamenti motivati sono la risultante dell’attivazione di circuiti neuroanatomici che sono specificamente dedicati al rilevamento ed elaborazione di segnali rile-vanti per la sopravvivenza individuale (Panksepp, 1998). Tali strutture sottocorticali sono responsabili di risposte rapide di adattamento che hanno mantenuto un ruolo fondamentale nel funzionamento psichi-co, nonostante l’emergere nella storia evoluzionistica di modalità più sofisticate di analisi degli stimoli e risposte comportamentali. Si ritiene che ciascuna struttura neuroanatomica sottocorticale sia responsabile delle risposte alle condizioni che coinvolgono i bisogni omeostatici dell’organismo e per la sua riproduzione. Inoltre, tali sistemi di risposta adattiva rapida hanno incluso i comportamenti sociali che hanno un impatto diretto sulla sopravvivenza attraverso le interazioni di gruppo (il caso dell’attaccamento è un esempio fondamentale, in questa pro-spettiva). La prospettiva neuroscientifica ha inoltre evidenziato come i circuiti neuroanatomici che presiedono alle risposte affettive coinci-dono con quelli dei sistemi di adattamento rapido (Panksepp, 1998). Nel complesso, i neuroscienziati interpretano le risposte affettive e le relative strategie di adattamento rapido come facenti parte di sistemi di sopravvivenza (LeDoux, 2014) che garantiscono dei sistemi com-portamentali di base in grado di garantire la conservazione dell’inte-grità dell’organismo individuale di fronte al mutare delle condizioni nel milieu interno ed esterno dell’adattamento.

Si ritiene, infine, che attraverso le connessioni neuroanatomiche stabilitesi nel corso delle fasi più recenti dell’evoluzione biologica, i sistemi di sopravvivenza ed elaborazione di risposte rapide dell’adat-

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tamento interagiscano con le strutture corticali in grado di offrire un più complesso livello di elaborazione degli stimoli e una più flessibile gamma di risposte comportamentali. Tale interazione è bidirezionale. Da un lato, l’attivazione dei sistemi di sopravvivenza offre alle parti più evolute del sistema nervoso centrale gli obiettivi finali da persegui-re nell’adattamento e definisce il ruolo preminente che l’attivazione delle emozioni gioca nel guidare i ragionamenti e i processi decisio-nali (Panksepp, Biven, 2012). Dall’altro lato, l’attivazione dei sistemi di sopravvivenza è indirizzata dall’incremento nella capacità di discri-minazione degli stimoli percettivi, attraverso i processi di categorizza-zione simbolica e linguistica, il confronto tra le condizioni presenti e l’esperienza precedente (i sistemi di memoria più complessi delle re-gioni corticali superiori), una più elevata specializzazione e sofistica-tezza dell’elaborazione dei piani comportamentali. In tale prospettiva, nell’essere umano un ruolo essenziale nell’acquisizione e produzione di risposte adattive guidate dalle emozioni e dai sistemi motivazionali è giocato dall’apprendimento e dalla trasmissione culturale (LeDoux, 2014).

La ricerca sia in ambito osservazionale che neuroscientifico ha ri-volto la propria attenzione agli altri possibili sistemi istintuali che, svolgendo la loro funzione per la sopravvivenza e la riproduzione, han-no un’influenza motivazionale specifica. Più che esaminare le diverse teorie si farà riferimento ad alcune aree motivazionali, sintetizzando i contributi che per ciascuna area derivano dai diversi approcci di studio.

12.6.1. area della regolazione fisiologica

La ricerca osservazionale e neuroscientifica ha sempre più messo in evi-denza il valore motivante che il sistema di regolazione dell’omeostasi fisiologica svolge nelle interazioni precoci. A tale necessità di regola-zione psicofisiologica delle diverse istanze fisiologiche è assegnato un ruolo prevalente nel fissare le caratteristiche di regolazione del sistema dello stress (Lyons-Ruth et al., 2009). La regolazione del sistema dello stress è giudicata fondamentale nel porre le basi per i successivi processi di regolazione emotiva delle fasi successive dello sviluppo. In particola-re, a tali processi di regolazione delle esigenze psicofisiologiche si deve l’organizzazione precoce dell’equilibrio tra i processi di attivazione del sistema nervoso autonomo nelle sue componenti simpatiche e para-simpatiche che influenzeranno il complesso delle transazioni affettive

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tra il bambino e il caregiver e che si organizzeranno in rappresentazioni delle interazioni sé-altro che orientano la qualità attuale della vita so-ciale dell’individuo. In una recente re-interpretazione degli eventi che segnano l’emergere dei moi e dell’organizzazione del sistema dell’at-taccamento, i processi di regolazione psicofisiologica sono considerati il materiale di base su cui il bambino struttura la mappa fondamentale delle proprie aspettative circa la sensibilità e disponibilità del genitore nell’offrire conforto e benessere al bambino (Schore, 1994). Vi sono evidenze che una disregolazione essenziale nel sistema di regolazione condivisa dell’asse dello stress influenzi in modo determinante non solo il livello di organizzazione dei processi dell’attaccamento, ma an-che lo sfondo del livello di attivazione e modulazione delle tensioni emotive individuali. I cosiddetti “traumi nascosti” (Lyons-Ruth et al., 2009) che si verificano al livello precoce della regolazione dello stress sono alla base dello sviluppo dell’attaccamento disorganizzato che orienta in modo duraturo l’organizzazione della personalità costituen-do la “diatesi relazionale” di importanti disturbi dell’organizzazione comportamentale (per esempio condotte antisociali, impulsività, con-dotte autoaggressive) che spesso si inseriscono nel quadro dei disturbi gravi di personalità.

12.6.2. area della rabbia e dell’aggressività

Per circa un secolo le impostazioni psicopatologiche hanno conside-rato l’aggressività il frutto di una motivazione di base di natura istin-tuale. L’approccio dei sistemi motivazionali consente oggi una visione più articolata delle condotte aggressive e delle funzioni di tali con-dotte nella regolazione affettiva dell’individuo. Da un punto di vista filogenetico, le strutture che sovrintendono alle risposte della rabbia sembrano essersi evolute in risposta a condizioni ambientali di forte disagio cui l’organismo non si poteva sottrarre. La reazione di base che corrisponde alla condizione della rabbia sembra essere rappresen-tata prototipicamente dalla situazione di intrappolamento che la pre-da sperimenta davanti al predatore (Panksepp, Biven, 2012). Il corso successivo dell’evoluzione biologica sembra avere in qualche modo co-optato tale reazione di base per far fronte a esigenze motivazionali di tipo diverso. Il sistema della rabbia ha assunto primariamente una modalità di reazione al pericolo ed è elemento essenziale di risposta alle minacce percepite, costituendo l’elemento preparatorio alle rea-

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zioni di attacco-fuga davanti a un predatore. Successivamente, nel cor-so dell’evoluzione biologica, la reazione di rabbia è stata utilizzata da sistemi motivazionali più complessi. In particolare, la rabbia entra in tutte le dinamiche di relazione sociale che prevedono la competizione, l’agonismo e la lotta per le posizioni di rango (Liotti, Fassone, Monti-celli, 2017). In modo ancora più peculiare la rabbia è entrata a far parte delle strategie comportamentali che provvedono al sistema motivazio-nale di perseguimento degli obiettivi. Il sistema acquisitivo a sua volta è strettamente collegato al sistema di esplorazione che, come abbiamo visto, permette agli individui di padroneggiare l’ambiente circostante e ottenere gli scopi dell’autonomia dell’adattamento (Williams, 2017). Questi intrecci complessi rendono il sistema difensivo della rabbia par-ticolarmente rilevante ai fini della comprensione dello sviluppo della personalità e delle sue deviazioni psicopatologiche. Così, per esem-pio, individui che sperimentino un senso di estrema vulnerabilità ed esposizione ai pericoli proprio nell’ambito delle relazioni precoci di attaccamento, oltre a vivere l’insicurezza di fondo di queste esperienze possono risultare ipersensibilizzati alla percezione di minacce nell’am-biente circostante e particolarmente inclini a esibire manifestazioni di aggressività reattiva. La letteratura clinica e di ricerca, per esempio, in-dica come i pazienti con disturbo borderline di personalità siano carat-terizzati dall’iperattività dei sistemi motivazionali dell’attaccamento e dell’aggressività difensiva. Questi pazienti sono costantemente sospesi tra l’esigenza di far fronte alle proprie angosce abbandoniche e il timo-re di essere perseguitati dalle figure di attaccamento presso cui cercano protezione e conforto, incrementando ulteriormente il senso di insta-bilità e precarietà dei propri riferimenti affettivi. Spesso tali pazienti mostrano esplosioni di rabbia che possono essere diretti agli altri o, più spesso, contro sé stessi, come compromesso rispetto al terrore di rima-nere ulteriormente tagliati fuori dai rapporti significativi (cfr. cap. 13).

In altri contesti di sviluppo, alcuni individui sperimentano che le relazioni interpersonali sono di fondamentale ostacolo all’espres-sione di sé stessi e al perseguimento degli scopi personali. In queste condizioni gli individui arrivano a sperimentare che l’unico modo di padroneggiare l’ambiente e affermare sé stessi è quello di stabilire un dominio aggressivo degli altri e un atteggiamento predatorio nei con-fronti dell’ambiente, sostenuto dalla potente attivazione del sistema della rabbia. Una dinamica motivazionale di questo genere appare ca-ratterizzare le personalità narcisistiche, centrate sul diniego aggressivo

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e sadico delle relazioni di dipendenza dalle figure significative e da una marcata tendenza allo sfruttamento e alla manipolazione delle situa-zioni interpersonali per il raggiungimento delle gratificazioni perso-nali.

12.6.3. il sistema sessuale-sensuale

Il tema dello sviluppo della motivazione sessuale è stato il fulcro dell’indagine psicoanalitica. Già Bowlby con la teoria dell’attacca-mento aveva voluto mettere in discussione l’assunto per cui l’angoscia principale che sottende gli stati nevrotici dipendesse dalla mancata scarica delle energie sessuali, puntando sul ruolo organizzante dell’an-goscia di separazione. La ricerca più recente (Lichtenberg, 1989) ha identificato delle tappe di sviluppo specifiche per la sessualità infantile che in buona parte si differenziano da quelle indicate da Freud. Ancor più precisamente, gli autori contemporanei trascurano il ruolo esclusi-vo della motivazione sessuale come asse fondamentale di sviluppo della personalità e insistono semmai sull’interazione che, in particolare nel corso del ciclo di vita, tale sistema motivazionale può assumere con altri sistemi, segnatamente quello dell’attaccamento. È stato posto l’ac-cento su un aspetto conflittuale essenziale che sussisterebbe tra le espe-rienze di relazione che nutrono il sistema dell’attaccamento e quello della sessualità. Se, difatti, la sicurezza del legame dell’attaccamento necessita di risposte affidabili e prevedibili da parte dell’altro signifi-cativo, il sistema della sessualità è attivato e mantenuto dall’elemento della curiosità della novità relativo al proprio partner (Eagle, 2013). In questo senso, l’adolescenza costituirebbe una fase di riequilibrio motivazionale molto delicata. Per ragioni intrinsecamente legate allo sviluppo puberale, difatti, il sistema motivazionale sessuale tende ad assumere la preminenza che fino a quel momento era stata del sistema dell’attaccamento e, in misura bilanciata, di quello dell’esplorazione. Le indicazioni cliniche sembrano porre in evidenza come esperienze di attaccamento insicure nella prima infanzia o anche uno scarso so-stegno al sistema dell’assertività-esplorazione possono pregiudicare un adeguato sviluppo dell’integrazione della motivazione sessuale nell’ar-chitettura della personalità in crescita. Tale distorsione può portare a una marcata instabilità delle relazioni successive, dove la necessità di provvedere all’interno di un legame adulto soprattutto alle istanze relative alla sicurezza può penalizzare la componente erotica del rap-

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porto e comprometterne lo sviluppo. All’opposto il timore di essere ipercoinvolti nelle vicissitudini dell’attaccamento può determinare una difficoltà a stabilire relazioni durature.

12.7 Conclusioni

L’evoluzione delle conoscenze in ambito etologico, delle scienze co-gnitive e degli studi osservazionali in ambito evolutivo, ha consenti-to di ridefinire il concetto di motivazione in una prospettiva ispirata alla cornice di studio delle scienze naturali e, in particolare dell’evo-luzionismo darwiniano. Il passo fondamentale in questa direzione è stato compiuto con l’elaborazione della teoria dell’attaccamento. Tale prospettiva ha permesso di costruire un nuovo modello esplicativo dell’influenza fondamentale che i sistemi motivazionali sviluppati nella nostra specie come esito dell’evoluzione filogenetica hanno sul funzionamento mentale, sullo sviluppo della personalità e sui processi che sottendono alcuni disturbi psicopatologici. Le più recenti ricerche in ambito neuroscientifico e osservazionale, attingendo anche al patri-monio di conoscenze cliniche derivate dalla tradizione psicoanalitica, hanno aggiornato la prospettiva sui sistemi motivazionali. Esiti princi-pali di questi recenti avanzamenti sono l’accento posto sul ruolo che le emozioni di riferimento per ciascun sistema motivazionale hanno nel guidare i processi dell’adattamento, e la necessità di considerare l’intreccio che nel corso dello sviluppo ontogenetico si determina tra le diverse istanze motivazionali. Una nuova descrizione dei processi psicopatologici e dello sviluppo della personalità deve essere aggiorna-ta proprio rispetto allo studio di queste interazioni affettivo-motiva-zionali. Si tratta di una nuova prospettiva di studio che può tradursi in un nuovo e interessante terreno di confronto tra l’esigenza di giungere a teorie sistematiche della motivazione e dello sviluppo e gli spunti di osservazione che derivano dalla clinica.

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Dopo essere state per quasi un secolo oggetto di ostracismo  –  o quantomeno di grave sospetto – da parte della filosofia di impian-to positivistico, le emozioni sono oggi al centro del dibattito delle scienze cognitive. L’argomento viene considerato per così dire “in-tegrativo”, poiché nella sua complessità invita alla collaborazione diverse discipline fino a chiamare in causa, seppur timidamente, la psicologia clinica, che da sempre studia e cura la mente, ma il cui rigore scientifico è stato guardato, non sempre a torto, con mal dissimulato sospetto. Oggi comincia ad alzarsi la voce di chi è persuaso che senza uno sguardo clinico certamente si evitano delicati problemi epistemologici, ma si perde la ricchezza offerta dalla possibilità di integrare compiutamente le dimensioni cogni-tiva e motivazionale. Da parte loro, le stesse scienze cognitive del-le emozioni hanno ormai raggiunto un discreto livello di maturi-tà, superando l’originaria visione aprioristicamente riduzionistica e unidimensionale del dominio affettivo a favore di un approccio tendenzialmente in grado di prendere in carico la complessità del fenomeno. Un’emozione è concepita come, al contempo, uno sta-to (neuro)fisiologico, una propensione a un comportamento, un giudizio, uno stato fenomenico; e ogni approccio teorico che la appiattisca su uno di questi elementi pare oggi semplificatore e in definitiva, anacronistico. In questo senso, le scienze cognitive sono ormai in grado di offrire modelli esplicativi della psicopato-logia che superano la concezione puramente categoriale, basata su segni e sintomi e paradigmaticamente espressa dagli standard dia-gnostici internazionali (apa, 2013; cfr. anche Lalumera, Amoretti, 2018; Murphy, 2006).

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Le emozionidi Cristina Meini

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psicopatologia e scienze della mente

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13.1 Emozioni: la storia recente

Si potrebbe iniziare dalla filosofia antica, come fa per esempio Nussbaum (2001) richiamando l’etica stoica; per i nostri scopi è tuttavia sufficiente ricercare i termini della questione nel pensiero del xx secolo, quando il positivismo logico bandì dal dominio di competenza della scienza tutto ciò che non è verificabile empirica-mente tramite osservazione. La svolta impressa negli anni Cinquan-ta, quando in particolare Popper propose la nozione di falsificabi-lità come criterio di scientificità di una teoria, incontrò le esigenze epistemologiche del cognitivismo che oggi chiamiamo “classico”. Le rappresentazioni mentali e i processi computazionali postulati – tra-endo ispirazione dal modello della macchina di Turing – per supera-re le secche esplicative del comportamentismo, diventarono legittimi oggetti di scienza: entità teoriche come la grammatica universale o la memoria a breve termine, pur postulando rappresentazioni men-tali e processi computazionali inosservabili, erano infatti suscettibili di essere smentite dai fatti  –  falsificate, appunto. All’epistemologia popperiana si accompagnò la metafisica funzionalistica: gli stati mentali sono stati funzionali, definiti non dal sostrato fisico, bensì dalla relazione con gli input percettivi, gli output comportamentali e con gli altri stati mentali.

Eppure una descrizione meramente funzionale di un’emozione – il fatto che la gioia abbia tipicamente certi antecedenti causali, certi rap-porti con altri stati mentali e la tendenza a indurre determinati com-portamenti – non sembra sufficiente a catturare la complessità della situazione. Un’emozione possiede per natura una dimensione intrin-seca, qualitativa – fa un certo effetto – di cui le relazioni funzionali non possono in alcun modo rendere conto. Non a caso, quando in quei decenni la filosofia si occupò di emozioni, ne diede tipicamente una connotazione epistemica, concettualizzandole come vere e proprie forme di ragionamento (cfr. per esempio Solomon, 1976; per un cor-rispettivo almeno parziale nelle teorie psicologiche, Lazarus, 1991). La paura, per esempio, consisterebbe nel pensare che qualcuno o qualcosa mi sta minacciando.

Una figura di rilievo nell’evidenziare la natura complessa e sfac-cettata delle emozioni è stato Griffiths (1997), che ha difeso fra l’al-

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13. le emozioni

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tro l’opportunità di suddividere il dominio d’indagine fra emozioni semplici e complesse. Oggi, vale a dire in una fase in cui il dibattito sulla natura delle emozioni è talmente florido e variegato da rendere pressoché impossibile tirarne le fila in uno spazio ridotto, può essere utile partire proprio da alcune sue distinzioni, riconducendole ai due approcci attualmente più “popolari”, la Teoria delle Emozioni di Base (bet) e il Costruttivismo emotivo. Nelle pagine che seguono ci rifare-mo pertanto a tale dicotomia, esaminandone il rapporto con alcune tipologie di disturbo mentale.

13.2 bet e disturbo di Urbach-Wiethe

Secondo la bet, le emozioni di base (nella classificazione di Ekman, 1999: paura, rabbia, disgusto, gioia, tristezza e sorpresa) sono rispo-ste articolate, coordinate e automatiche a eventi ambientali, composte da variazioni scheletro-muscolari (mimica facciale, postura, timbro della voce) e neuro-fisiologiche (sistema endocrino, sistema nervoso autonomo). A coordinare questi elementi in schemi ricorrenti e rico-noscibili sono gli affect programs, meccanismi neurocomputazionali di natura modulare, come tali caratterizzati da specificità di dominio, risposta rapida, obbligata e impermeabile ad altri processi cognitivi: come osservò Darwin stesso, pur sapendo che un vetro ci protegge dal serpente non possiamo che ritrarci immediatamente assistendo a un suo movimento repentino verso di noi. Come tutti i sistemi modulari, i programmi affettivi sono ipervigilanti, portandoci talvolta a reagire eccessivamente agli stimoli, ma – considerando l’ambiente ancestrale in cui hanno avuto origine – aiutandoci a sopravvivere.

La psichiatria ha ormai da anni adottato, più o meno consapevol-mente a seconda dei casi, un approccio modularista per spiegare alcuni disturbi – o, quantomeno, alcuni aspetti di più complesse patologie. Tralasciando per ragioni di spazio il tema del rapporto, nel disturbo psichiatrico, tra deficit percettivo e cognitivo (ma cfr. Ellis, Young, 1998; Gerrans, 2014b), consideriamo il disturbo di Urbach-Wiethe (uwd), rarissima patologia causata da una disfunzione genetica che attualmente si stima colpire 100 persone nel mondo intero, con un’in-cidenza di circa il 50% dei casi nell’Africa del sud. Ai più tipici sintomi di carattere dermatologico si affianca talvolta un processo di calcifica-

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1. Proprio il buon livello cognitivo è alla base del felice esito di strategie compen-sative, testimoniato da uno studio intensivo di due donne tedesche, gemelle omozi-gote (Patin, Hurleman, 2016).

2. Poiché, al contrario, non paiono compromesse l’esperienza di paura derivante da fonti interne (per esempio, a seguito dell’inalazione di dosi elevate di co2 s.m. ha paura e diventa ipervigile), né la paura per altri che si trovano esposti a situazioni pericolose, occorre supporre che non tutta l’elaborazione della paura passi per l’amig-dala. Piuttosto, l’amigdala si connota come il centro deputato all’esperienza di paura originata da stimoli esterni.

3. Sorvoliamo qui su distinzioni pur importanti, come la dissociazione tra ri-cordi di natura sociale e non sociale, rispetto ai quali s.m. ha prestazioni che non si discostano dalla media. In questo senso, la uwd potrebbe esercitare un fattore protettivo nei confronti del disturbo post traumatico da stress (Feinstein et al., 2016; cfr. anche lo studio di Koenigs et al. (2008) sui veterani di guerra con danni all’amigdala).

zione cerebrale che colpisce selettivamente l’amigdala lasciando il qi pressoché intatto1.

La più nota paziente con uwd è senza dubbio s.m. (Feinstein et al., 2016; van Honk et al., 2015), donna di origini africane più volte citata anche nelle monografie di Damasio come esempio di “persona senza paura”. s.m. è incapace di riconoscere le espressioni impaurite, pur sapendo riconoscere l’identità delle persone. Esposta a situazioni spaventose2, non reagisce né con atteggiamenti di paura né attraverso resoconti verbali che menzionino tale sentimento – piuttosto, riferi-sce di sentirsi eccitata o curiosa. Tali risultati sono confermati da stu-di condotti utilizzando la tecnica di campionamento dell’esperienza, in cui si chiede al paziente di annotare, in momenti casuali della vita quotidiana indicati da un segnale sonoro, lo stato mentale corrente. Mentre le altre emozioni sono riferite con una frequenza in linea con la media della popolazione, la paura è pressoché assente.

A testimonianza del valore evoluzionistico dell’esperienza di pau-ra è il fatto che s.m. si sia trovata più volte in situazioni pericolose. Ciò ha avuto un impatto significativo sulla sua vita, sentimentalmente confusa come non di rado accade a questi pazienti. E nondimeno le esperienze negative non hanno segnato o indirizzato il comportamen-to successivo: in situazioni analoghe s.m. dichiara di sentirsi, piuttosto che impaurita, arrabbiata3. Il deficit di funzionamento dell’amigdala ha quindi un impatto anche sulla memorizzazione di eventi emotiva-mente significativi, annullando quella capacità di attribuire priorità e

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rilevanza agli stimoli con valenza emotiva che, in condizioni non pa-tologiche, favorisce la successiva memorizzazione dichiarativa a lungo termine a carico dell’ippocampo.

Complessivamente, lo studio dei casi clinici sembra confermare una dissociazione tra un’empatia più viscerale, che, coinvolgendo l’amig-dala, è marcatamente disfunzionante nei pazienti uwd, e un’empatia cognitiva, che, avvalendosi di altri circuiti neurali, non è significativa-mente deficitaria (Baron-Cohen, 2011). Si tratta di un quadro clinico complementare a quello tipico delle persone autistiche, che difettano di empatia cognitiva pur con una preservazione dell’empatia “prima-ria”, viscerale. Assomiglia piuttosto, limitatamente all’aspetto empati-co, al quadro caratteristico dei disturbi di comportamento antisociali (Blair, 2008), dei quali tuttavia non condivide gli esiti violenti.

13.3 Costruttivismo e introspezione emotiva

L’idea di ricondurre il disturbo mentale, o almeno alcuni suoi sintomi, al danno di un modulo emotivo, se in alcuni casi è stata estremamente fruttuosa, per altri versi costringe in una dimensione esplicativa ina-deguata a rendere conto di psicopatologie complesse, che, pur avendo eventualmente origine in una predisposizione innata, sono caratteriz-zate da una eziopatogenesi lenta e, soprattutto, fortemente influenzata da variabili relazionali. Prima di entrare nei dettagli del disturbo qui preso in esame – il narcisismo patologico – è opportuno spendere alcu-ne parole per descrivere la teoria delle emozioni che meglio sembra es-sere esplicativamente coerente con esso: il costruttivismo. La teoria del social biofeedback contribuirà quindi ad arricchire il quadro esplicativo.

Il costruttivismo emotivo nega che esistano emozioni di base fondate sull’attività di meccanismi neurocognitivi innati e specifici. All’opposto, tutte le emozioni sono costruite attraverso la sovrapposi-zione di una griglia concettuale a un’esperienza elementare di core af-fect, caratterizzata da un livello di attivazione (arousal) e da una valenza collocata lungo la dimensione positivo-negativo.

Per quanto raramente sottolineato (ma cfr. Caruana, Viola, 2018), va detto che bet e costruttivismo sono mossi da interessi largamente distinti. bet è per sua natura, nonché per le ricerche sperimentali che la connotano, prevalentemente focalizzata sul riconoscimento delle emo-

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zioni altrui; l’aspetto esperienziale, ovvero che cosa significhi provare un’emozione, si colloca invece al centro della riflessione costruttivista, sebbene con importanti distinzioni. Secondo Lisa Barrett (2006), ogni esperienza emotiva mobilita concetti: non si può provare un’emozio-ne –  la paura, la gioia –  senza possedere il concetto corrispondente. Addirittura, Barrett fa riferimento al possesso di termini linguistici, collocandosi così nell’alveo di un pericoloso relativismo ormai spazza-to via da importanti e numerosissimi studi sulle competenze emotive (e non solo) di infanti e animali non umani (Banaji, Gelman, 2013).

In una prospettiva più moderata e a mio avviso più interessante, James Russell (2015) ritiene che a essere costruita sia la capacità non già di fare esperienza, ma piuttosto di riconoscere un’emozione. Si tratta di un punto che va effettivamente considerato con attenzione e richie-de di operare ulteriori distinzioni che possano portare chiarezza a un problema complesso. Da una parte, infatti, l’esistenza di meccanismi specifici deputati non solo al riconoscimento delle espressioni emotive altrui, ma anche all’esperienza emotiva in prima persona è suffragata da un’ingente mole di dati neurologici, psicologici e neuropsicolo-gici (cfr. per esempio Panksepp, 1998); in questo senso, il rifiuto, da parte della letteratura costruttivista, di riconoscerne la validità e per-tinenza pare francamente pretestuoso. Ben altra questione, tuttavia, è la competenza innata di riconoscimento discriminatorio dei propri sta-ti emotivi, per la quale non esistono dati dirimenti, ma solo una forte presupposizione teorica da parte di una tradizione di carattere neofe-nomenologico-cartesiano (Marraffa, Meini, 2016; 2019; per una critica della letteratura sull’imitazione neonatale e sulla neofenomenologia, cfr. anche Di Francesco et al., 2017). L’esercizio di una necessaria cau-tela epistemologica ci induce pertanto, relativamente a questo aspetto, a guardare in una direzione di indagine che del costruttivismo accolga alcune istanze, come la teoria del social biofeedback (sb) sviluppata da G. Gergely e J.S. Watson.

13.4 Social biofeedback

Il modello del sb assume che gli infanti non abbiano accesso intro-spettivo alle proprie emozioni, ma avvertano solo un sentire confuso e non accessibile alla discriminazione (Gergely, Watson, 1999, p. 110),

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4. La protoconversazione è la più tipica modalità di scambio affettivo-comuni-cativo precoce tra bambino e adulto, fatto di caratteristici e ben documentati turni durante i quali i partner si esprimono reciprocamente attraverso segnali multimodali (Trevarthen, 1979).

una sorta di core affect (Marraffa, Meini, 2019) che può trasformarsi in emozione distinta grazie al ripetersi dell’esperienza interpersonale con l’adulto. Durante un tipico scambio protoconversazionale4, l’adul-to – ovvero l’unico ad avere pieno accesso introspettivo alle proprie emozioni  –  è portato spontaneamente a rispecchiare le espressio-ni emotive del bambino in modo marcato. Per esempio, a una certa espressione del bambino l’adulto tende a offrire una “risposta” coeren-te ma in qualche modo schematica ed esagerata. Non di rado la risposta contiene anche un elemento incoerente, come accade quando l’adulto risponde a un bambino che manifesta tristezza con un’espressione ac-corata che, tuttavia, a un momento iniziale di vero rispecchiamento fa rapidamente seguire un sorriso, oppure quando risponde a un bambi-no gioioso con un’espressione che a elementi di gioia mescola sorpresa e tenerezza.

Questo comportamento svolge una prima importante funzione etero-regolativa, mitigando reazioni emotive eccessive che portereb-bero un bambino inizialmente triste a esperire una tristezza sempre più marcata (la sua originaria più quella proveniente dal contagio emotivo nel vedere il genitore esprimere genuina tristezza) o, viceversa, a una sovreccitazione del bambino gioioso.

Sembra tuttavia verosimile supporre che il rispecchiamento mar-cato svolga la seconda e non meno importante funzione pedagogica di alimentare il processo di sb. Mettendo in luce aspetti salienti della manifestazione emotiva e contemporaneamente segnalandone il carat-tere fittizio, l’adulto incoraggia il bambino a separare l’espressione dal suo portatore: l’espressione è – poniamo – di gioia, ma non è il papà a essere veramente felice. Una volta operato lo sganciamento referenzia-le, il bambino si trova a dover dare un senso all’espressione dell’adulto, riconducendola “a qualcuno”. Lo sguardo dell’adulto, sempre ostensi-vamente marcato e diretto verso di lui, lo aiuta ad ancorare lo stimolo allo stato che egli stesso sta esperendo (Gergely, Watson, 1999). È in tale processo che il bambino diventa progressivamente capace di rico-noscere i propri stati emotivi.

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Viceversa, laddove la relazione tra adulto e bambino sia gravemente disfunzionale e incoerente, l’adulto, preso dalla sua stessa sofferenza, non marca sufficientemente le proprie espressioni e tende anzi a farsi contagiare dalle espressioni del piccolo. Il processo di sb non raggiun-ge il suo scopo naturale: il bambino nota le emozioni sul volto altrui e avverte confusamente le proprie, ma in assenza di segnali di finzione non riesce a raffinare la propria capacità discriminatoria e raggiungere una competenza introspettiva adeguata. Nella distorsione del processo viene compromesso anche lo sviluppo del senso di agentività, quella sensazione di essere, tanto come ente corporeo quanto come ente psi-cologico, parte attiva in una relazione, gettando così le basi per lo svi-luppo di una condizione patologica.

Non sorprende che il ripetuto fallimento del sb sia stato collegato ai disturbi di personalità, in particolare al disturbo borderline (dbp; cfr. Fonagy, Bateman, 2006; 2008; Fonagy, Luyten, 2009). Le ripetu-te disfunzioni del rispecchiamento, e con esse la distorsione e il falli-mento dell’intero processo di sb, provocano nel paziente borderline conseguenze a cascata, la più significativa delle quali è la regressione, nei momenti di difficoltà emotiva, a modalità prementalistiche di pen-siero e, quindi, di interazione. Il paziente esperisce un senso di equi-valenza nel quale le emozioni altrui sono assimilate alla propria realtà psichica, con un conseguente senso di onnipotenza, una sensazione di sapere tutto ciò che passa nella mente altrui perché coincide con ciò che passa nella sua mente. In altre situazioni la regressione a uno stadio prementalistico porta a interpretare la condotta altrui sulla base non già di stati mentali, ma di ciò che si vede, dei comportamenti concreti. La persona si trova dunque nella necessità di monitorare e manipolare la realtà, unico modo per avere prove della benevolenza o dell’ostili-tà altrui (Fonagy et al., 2002). Queste operazioni di esteriorizzazione della mente, compiute in assenza di un senso maturo di agentività, ren-dono ancora più sfumati i confini di un self che può quindi trovarsi a fare esperienza delle caratteristiche sensazioni di vuoto e talora a iden-tificarsi con l’altro.

Il modello del sb pare quindi ben equipaggiato per spiegare l’origi-ne di quel senso di identità diffusa che Kernberg per primo utilizzò per descrivere il quadro sintomatico tipico del dbp. Si tratta di un’iden-tità malferma, dai confini incerti che generano instabilità emotiva e comportamentale. Tali caratteristiche sono richiamate dal dsm-5, che fa riferimento soprattutto all’instabilità emotiva, al disturbo delle re-

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5. Interessante, come indicazione di approfondimento in questo senso, la ricerca di (Brummelman e colleghi (2015), ampio studio longitudinale su 565 bambini dai 7 anni (epoca di emergenza dei primi segnali disfunzionali) ai 12 anni. Secondo questo studio il calore genitoriale predice il livello di autostima, mentre la sopravvalutazione predice la sovrastima narcisistica di sé.

lazioni interpersonali, ai problemi comportamentali e all’alterazione dell’identità.

In queste pagine vorrei andare oltre l’interessante riflessione di Fo-nagy e colleghi, per esaminare la relazione con un diverso disturbo di personalità, il narcisismo (dnp). L’impresa si presenta complessa sin dall’inizio, a causa della varietà e persino apparente tensione delle ma-nifestazioni superficiali della patologia. Dedicherò quindi il prossimo paragrafo a una rassegna dei sintomi e delle principali prospettive cli-niche sul narcisismo, per tornare infine a esaminare in che misura il disturbo possa essere legato a un reiterato fallimento del sb.

13.4.1. il narcisismo

A dispetto della classificazione di Kernberg della struttura di persona-lità narcisistica come una possibile caratterizzazione del dbp, oggi si parla di patologie autonome (apa, 2013). Ronningstam (2009) vede nel senso di grandiosità5 l’elemento di maggior discrimine, sebbene nella pratica clinica quotidiana la principale differenza sia probabil-mente individuata nella contrapposizione tra instabilità e disintegra-zione del sé. Laddove i pazienti borderline hanno bisogno degli altri per regolare il loro sé frammentato ed evitare, nelle situazioni di stress emotivo, la regressione al pensiero prementalistico (Fonagy et al., 2002), il sé narcisistico non può proprio esistere senza una proiezione grandiosa nell’altro, e gli stili di funzionamento arcaico sono costante-mente predominanti. La disgregazione del sé sembra dunque in questo caso strutturale, non limitata a eventi emotivamente forti. A fronte di questa incompetenza introspettiva, i pazienti con dnp sono general-mente lettori – e abili manipolatori – della mente altrui.

Nonostante importanti differenze (in primo luogo, tra la forma overt, caratterizzata da estroversione, arroganza e aggressività, e la variante covert, caratterizzata da introversione, fragilità e insicurez-za  –  Akhtar, Thomson, 1982), tutte le forme di dnp sono conno-tate da un senso di sé ipertrofico, con fluttuazioni significative tra

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(Brummelman et al., 2015).
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6. Winnicott rappresenta una figura peculiare nella psicologia clinica, avendo insistito sull’importanza della relazione interpersonale, e segnatamente del rispec-chiamento genitoriale, nello sviluppo del senso di sé. La convinzione che l’attenzione sia fin dalla nascita diretta al mondo esterno, e in particolare al mondo interpersona-le, lo ha portato a dubitare dell’esistenza di una forma primaria di narcisismo.

autostima e senso di minaccia (Ronningstam, 2009), orgoglio e di-sperazione.

Una ricostruzione della storia clinica del dnp non può che iniziare da Freud, che in un percorso teorico non privo di tensioni (1914; 1931) distinse tra narcisismo primario e secondario. Il primo è tipico di una fase precoce dello sviluppo, quando, nel processo di differenziazione dall’Es, l’Io è investito dalla libido. Segue generalmente una fase in cui l’investimento libidico è reindirizzato verso gli oggetti esterni ma, qua-lora tale processo venga bloccato e l’energia libidica continui a occupa-re l’Io, ne scaturisce il narcisismo secondario.

Fin dai primi scritti sul narcisismo – costrutto che, va detto, origi-nariamente denotava più genericamente di quanto avvenga oggi aree di funzionamento psicotico che inglobano tra l’altro la paranoia, l’i-pocondria, le parafrenie, la psicosi maniaco-depressiva, l’animismo e la melanconia – Freud ne ha sottolineato la funzione di preservazione del sé, così introducendo il tema della natura conservativo-difensiva del disturbo e dei suoi esiti aggressivi e antiempatici. L’esistenza di un continuum tra fisiologia e patologia, così come la natura difensiva del narcisismo, sono solo due dei temi freudiani divenuti centrali negli anni successivi. La prospettiva della difesa del sé è condivisa, pur con accenti significativamente diversi e spesso in polemica tra loro, da di-versi autori, tra cui Winnicott, Kohut e Kernberg. In particolare, l’idea di Winnicott (1971)6 di un adulto che nella relazione rispecchia il sé del bambino – e, di conseguenza, l’idea che la qualità del rispecchia-mento influisca sulla costruzione del sé – si ritrova (ancora una volta, in diversa misura) nella teorizzazione di Kernberg e Kohut.

Tra gli eredi della riflessione freudiana, Otto Kernberg (1975) è probabilmente colui che più ha insistito sulle funzioni difensiva e compensatoria del narcisismo. Pur con una chiara attenzione, di chia-ra matrice kleiniana, sui meccanismi di funzionamento intrapsichico, anche in Kernberg le radici della patologia sono saldamente ancorate nell’infanzia, in particolare in relazioni con caregivers freddi, general-mente ostili ma talvolta intrusivi, con attese eccessivamente alte nei

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confronti del bambino. A dispetto di un dichiarato investimento nel “bambino brillante”, il loro stile genitoriale è emotivamente dismissing, fondamentalmente evitante, ma talvolta intrusivo. Ciò che il bambino percepisce nello sguardo dei genitori freddi e dalle pretese irrealisti-camente alte non sono sane immagini speculari che promuovano la costruzione del sé, ma piuttosto immagini irrealistiche che non com-baciano con l’autonoma percezione di sé. Tale frattura tra le immagini di sé endogena e rispecchiata porta alla generazione di un sé non già realistico, frutto dell’integrazione di immagini positive e negative di sé, ma patologicamente – e protettivamente – grandioso, dal quale le memorie esperienziali negative sono espunte. Data questa dinamica, un’aggressività non integrata diventa centrale nell’analisi del narcisi-smo patologico di Kernberg (1984), una forza distruttiva che in alcuni casi sfocia in una forma di narcisismo maligno frequentemente associa-ta al comportamento antisociale, alla psicopatia e alla violenza.

Heinz Kohut è l’autore che ha introdotto la categoria di disturbo narcisistico di personalità, proponendone l’introduzione nel dsm. Ri-chiamando l’ipotesi freudiana di una fase narcisistica benefica, Kohut considera il dnp non come una frattura intrapsichica, ma come un arresto del normale processo di sviluppo. A differenza di Kernberg, che invoca una distorsione dello sviluppo nella eziopatogenesi del dnp, Kohut vede le origini del disturbo in un fallimento del proces-so fisiologico di interiorizzazione delle immagini parentali idealizzate (Kohut, 1971; 1977).

Richiamandosi a Freud, anche Kohut (1966) fa riferimento al nar-cisismo primario, inteso come uno stato precoce indifferenziato nel quale un sé ancora non strutturato e il mondo esterno non sono per-cepiti come separati. In condizioni ottimali, il rispecchiamento geni-toriale empatico struttura progressivamente sia l’idealizzazione delle figure parentali sia un positivo senso di sé che assume e fa propri, inte-riorizzandoli, gli standard genitoriali. Il sostegno dei genitori, che nel rispecchiamento permettono al bambino di avvertire la propria forza e i propri limiti, unito al senso di frustrazione che il bambino prova quando viene temporaneamente lasciato solo, strutturano e modulano un senso di sé positivo, ma realistico e integrato. In condizioni ottimali il processo favorisce, nell’età adulta, un sano amore di sé, precondizio-ne importante per sviluppare qualità umane fondamentali come hu-mour, saggezza, interesse estetico, ma anche un’accettazione dei limiti inevitabili e della propria caducità.

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Viceversa, l’assenza di mirroring legata a uno stile genitoriale freddo ed evitante ostacola l’intero processo di differenziazione del sé e prepa-ra la strada per l’esito patologico. Gli adulti patologicamente narcisisti adottano modalità relazionali “arcaiche”: come nel narcisismo infantile, usano gli altri per strutturare e modulare il loro sé immaturo, alimentan-do quell’ammirazione incondizionata di sé che è l’unica condizione per sentirsi vivi. Viceversa, quando l’ammirazione non è incondizionata, la reazione può essere violenta. Gli atteggiamenti antiempatici, la rabbia o l’atteggiamento distruttivo sono quindi reazioni secondarie alle feri-te narcisistiche, in qualche modo necessarie per superare i sentimenti di ansia o di colpa e, in ultima analisi, per ristabilire l’integrazione del sé. In altre parole, la violenza è “solo” un modo di esprimere l’ansia.

13.4.2. ancora il social biofeedback

Come abbiamo visto, nonostante l’ipotesi unificante inizialmente espressa da Kernberg, dnp e dbp sono oggi oggetto di diagnosi distin-te (apa, 2013). Il narcisismo viene inteso come un disturbo di integra-zione del sé assai più radicale e strutturale, nel quale la stessa esistenza del senso di sé dipende dalla possibilità di operare una proiezione pato-logicamente grandiosa. Ne segue che le situazioni di minaccia dell’in-tegrità personale suscettibili di scatenare le modalità di introspezione prementalistiche, già esaminate in riferimento al disturbo borderline, nella patologia narcisistica sono assai più frequenti.

Una predisposizione genetica ormai attestata da numerose ricer-che (cfr. lo studio estensivo sui gemelli condotto da Torgersen et al., 2000; cfr. anche Ronningstam, 2005) favorisce lo sviluppo della pa-tologia quando incontra gravi e continuative disfunzioni relazionali dai caratteri peculiari, comprovati da decenni di osservazioni cliniche. In particolare, mentre il disturbo borderline tipicamente correla con vari stili di attaccamento insicuri (Bucheim, George, 2011; Miljkovitch et al., 2018; Scott et al., 2009), la stessa breve rassegna sopra proposta pare attestare una relazione prevalente, nel caso del narcisismo, con uno stile di accudimento evitante. La congiunzione di sopravvaluta-zione e freddezza, quando rappresentano un atteggiamento costante e protratto nel tempo, rendono tipico un particolare stile di marcatu-ra, caratterizzata, per così dire, da “disattenzione e desintonizzazione”. Poiché, per ipotesi, il processo di differenziazione del sé dall’altro non può funzionare in condizioni di marcatura costantemente disfunzio-

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7. Si noti che le conseguenze patologiche possono avere anche un’emergenza precoce, dato che il dnp è suscettibile di essere diagnosticato già nell’infanzia (Ker-berg, Bardenstein, 2009).

nale, il processo di sviluppo che porta all’autoconsapevolezza emotiva fallisce, e con esso fallisce un pezzo importante della costituzione del senso di sé, che finisce per essere dipendente dagli altri7.

Raccogliendo quanto detto finora, vorrei suggerire che il dnp pos-sa rappresentare, per la prospettiva che vede il sb al centro dello svi-luppo del senso di sé, un caso di studio non meno interessante, e anzi più estremo, del disturbo borderline. In entrambi i casi il processo di costruzione del sé viene bloccato da serie disfunzioni relazionali che attivano strategie prementalistiche come quelle indicate da Fonagy e colleghi. La differenza principale potrebbe derivare dal fatto che, nel disturbo narcisistico, lo stile genitoriale è più univocamente collocato nella dimensione evitante ed è allo stesso tempo più pervasivo, laddo-ve gli scambi relazionali precoci predisponenti al disturbo borderline sono meno costantemente disfunzionali, tanto nel tempo quanto nello stile. Lo stesso processo – il sb – sarebbe identico, mentre la differenza starebbe nella qualità della marcatura che lo alimenta. Si tratta, eviden-temente, di un’ipotesi che va indagata empiricamente.

Nella misura in cui la mia ipotesi si concentra sulle differenze di stile genitoriale e, di conseguenza, di marcatura, supponendo tuttavia che il medesimo processo di sb svolga un ruolo cruciale, sto implicitamente sug-gerendo che, a uno sguardo più profondo e attento ai meccanismi causali soggiacenti, i due disturbi che, da Kohut in poi, sono stati considerati in-dipendenti potrebbero invece condividere un fondamento comune, e che di conseguenza la stessa differenziazione del dsm-5, basata su una ateo-rica distinzione di segni e sintomi, andrebbe attentamente riconsiderata.

13.5 Conclusioni

La rassegna condotta in questo capitolo, per quanto forzatamente parziale, rinvia a una concezione articolata delle emozioni, quale ori-ginariamente suggerita da Griffiths e più di recente sviluppata da Sca-rantino (2015). In particolare, la New-bet proposta da Scarantino si richiama alla bet nel rivendicare la natura innata e specializzata delle

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8. Tengo a ringraziare Stefano Iacone, Massimo Marraffa e Riccardo Williams, che con uno sguardo benevolo mi hanno incoraggiato a tentare un’incursione nell’af-fascinante ma assai complesso (e conflittuale) terreno della psicologia clinica. Va da sé che ogni residua imprecisione è responsabilità unicamente mia.

emozioni di base, promuovendo nel contempo una prospettiva inte-grata che, pur contenendo importanti elementi costruttivistici, ne ri-fiuta le derive concettualistiche e persino relativistiche cui talvolta ab-biamo assistito. Griffiths e Scarantino invitano entrambi a considerare come, al di là delle emozioni di base, si apra l’universo delle emozioni complesse, intrinsecamente permeabili all’influenza proveniente dal mondo esterno e segnatamente dalla dimensione interpersonale e cul-turale. Per rendere conto della natura e dello sviluppo di tali emozioni la prospettiva costruttivistica pare decisamente più adeguata.

La propensione teorica verso una lettura pluridimensionale delle emozioni ha conseguenze sull’analisi del rapporto con la psicopatolo-gia. In questo articolo la uws è stata presa in esame come caso esemplare di ciò che consegue dalla disfunzione di un’emozione di base, la paura. L’ambizione della scienza cognitiva odierna, tuttavia, si spinge fino a vo-ler contribuire alla costruzione e al raffinamento di modelli esplicativi di disturbi emotivi complessi, legati, nella loro eziopatogenesi, alla dimen-sione interpersonale e, come tali, difficilmente riconducibili a una teoria delle emozioni come bet. In questo capitolo ho voluto offrire un contri-buto alla riflessione indicando il processo di sb come elemento centrale nella costruzione dell’autocoscienza emotiva, e il suo ripetuto fallimento come causa di conseguenze serie, che possono sfociare in veri disturbi del-la personalità. Se la letteratura che lega il dbp al fallimento del sb rappre-senta ormai una linea interpretativa accreditata, la proposta di leggere in termini analoghi il dnp resta tutta da elaborare.

Concludendo, questa breve rassegna ha l’ambizione di richiamare l’attenzione sull’insieme dei processi e dei meccanismi soggiacenti i segni e sintomi del disturbo mentale, utilizzando gli strumenti epistemologici più raffinati a nostra disposizione per riflettere sul valore e sui limiti delle classificazioni proposte dai manuali statistico-diagnostici internazionali. Questo sguardo più in profondità è ormai imprescindibile, a mio avviso, non solo per lo sviluppo della ricerca teorica, ma anche per individuare nuove e più consapevoli linee di intervento clinico8.

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Pierre Janet, con L’automatisme psychologique (1889) elabora la pri-ma opera sistematica sulle cause traumatiche dell’isteria e della désa-grégation (poi tradotto “dissociation” da William James), dando vita, insieme ad altri studiosi, a una prima forma di psicologia dinamica (El-lenberger, 1970).

La ripresa del dibattito intorno al pensiero di Janet, in particolar modo in rapporto alla psicoanalisi di Sigmund Freud, offre lo spun-to per una serie di osservazioni che rendono alcuni aspetti del pen-siero di questi due grandi studiosi validi e fecondi per alcune aree di ricerca delle scienze cognitive (Liotti, 2014). Ne è un esempio la loro contrapposizione proprio in merito al tema della dissociazione: Janet la concepisce come un sintomo psicopatologico; Freud la considera la condizione ordinaria della psiche. Tale fondamentale divergenza è il tema del presente capitolo.

Nel discutere le teorie di Janet e Freud daremo particolare risalto ai loro sforzi compiuti per emanciparsi dal modello cartesiano di mente. Secondo il modello cartesiano, l’essere umano è costituito di due parti. Da un lato c’è l’organismo (il corpo-macchina), dall’altro un insieme spirituale e strettamente unitario di facoltà primarie, donate all’uomo: la coscienza, la ragione, il linguaggio, la volontà, l’intelligenza, il libe-ro arbitrio, la facoltà di capire e di giudicare moralmente, la facoltà di produrre arte e cultura. Questo insieme unitario non dipende dal corpo, ma anzi lo trascende e perfino può in certi aspetti controllarlo, pur essendone anche, in qualche misura, influenzato.

In antitesi a tale modello, vedremo che Freud, con il concetto di Es e le sue osservazioni sulla non-unità dell’Io, contempla la pos-sibilità che l’immagine di un individuo primariamente integrato, o unitario, possa essere un’illusione. Delle teorie di Janet, invece,

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Dissociazione e traumadi Valentina Questa

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evidenzieremo i punti di convergenza con dati emersi dalla neuro-scienza cognitiva e dalla clinica del trauma. Infine, sosterremo che l’attenzione rivolta da ambedue gli studiosi agli aspetti corporeo-af-fettivi del self implicito è un’eredità raccolta dalle odierne ricerche sui processi di costruzione dell’identità e sulla comunicazione implicita fra terapeuta e paziente.

14.1 La teoria della dissociazione di Pierre Janet

La dissociazione rimanda a una varietà di forme di discontinuità della coscienza, differenti per modalità e grado. La continuità dell’esperien-za soggettiva è interrotta da lacune mnestiche, stati alterati di coscienza o improvvisi cambiamenti nella condotta di cui il soggetto conserva poca o nessuna memoria. Il vissuto del soggetto è che l’unità dell’Io sia minacciata. Con le parole del dsm-5, i disturbi dissociativi sono ca-ratterizzati «dalla sconnessione e/o dalla discontinuità della normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emotività, percezione, rappresentazione corporea, controllo motorio e comportamento» (apa, 2013, trad. it. p. 337).

In Francia i fenomeni della scissione o dello sdoppiamento della personalità erano già noti all’epoca dei primi magnetizzatori e ipnoti-sti, tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Il termine “dissociazione” si diffonde negli Stati Uniti per opera di William Ja-mes (1890) che, come si è detto, traduce con “dissociation” il termine “désagrégation” di Janet. Secondo lo studioso francese i fenomeni dis-sociativi costituiscono il cuore dei sintomi isterici e sono riconducibili a ciò che definisce “idee fisse subconsce”.

La nozione di idea fissa era già presente negli studi neuropsichiatri-ci di Jean-Martin Charcot, maestro di Janet. Charcot aveva richiamato l’attenzione sull’esistenza di fenomeni isterici la cui origine non poteva essere in alcun modo ricondotta a cause organiche; la loro origine era piuttosto riconducibile a esperienze traumatiche poi tradottesi in sin-tomi che imitavano malattie e lesioni organiche (paralisi, mutismi, con-vulsioni, crisi di soffocamento ecc.). Il neurologo aveva definito “idee fisse” gli effetti dello shock nervoso prodotto dall’evento traumatico.

Erano questi i primi tentativi di dar vita a una psichiatria dinamica, cioè di fornire una risposta scientifica e secolarizzata a tutta una serie

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di fenomeni sintomatici derubricati come casi di possessione demonia-ca e trattati dalle autorità ecclesiastiche attraverso la pratica dell’esor-cismo (Ellenberger, 1976). Mentre però Charcot si poneva ancora al confine fra la nuova psichiatria dinamica e la tradizionale psichiatria organicista, Janet mise in atto il primo tentativo di spiegazione siste-matica della patologia mentale in termini di cause psicologiche.

Secondo Janet, le forti emozioni generatesi in seguito a un evento traumatico causavano lo stato di shock di cui aveva parlato Charcot; e in seguito a ciò, gruppi di idee (le “idee fisse subconsce” o «fram-menti scissi della personalità») si ponevano fuori dalla sfera della consapevolezza e andavano a costituire sistemi psicologici separati o aspetti della personalità “disaggregati”. Questi complessi ideo-affettivi si generavano in una condizione di “debolezza” o “miseria psicologica” dell’individuo, una forma di energia psicofisica che produce un inde-bolimento del libero arbitrio che può portare alle allucinazioni e al de-lirio. I frammenti di personalità, scissi dalla sfera della consapevolezza, condizioneranno l’individuo dal punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale lungo l’intero arco di vita, secondo il grado del loro isolamento dagli altri aspetti della personalità, determinando un re-stringimento del “campo di coscienza”. I vari sintomi dissociativi del quadro isterico erano le manifestazioni di queste idee fisse subconsce: «le idee che restano escluse dalla coscienza personale [sono] mor-bi [che] si sviluppano in un angolo della personalità inaccessibile al soggetto, operano subconsciamente, e danno origine a tutti i disturbi dell’isteria» ( Janet, 1889, p. 436). Più il paziente era traumatizzato, più grave era la disaggregazione della sua personalità. Il caso più grave era “il disturbo da personalità multipla”, in cui le idee fisse subconsce si organizzavano in veri e propri nuclei di personalità secondari, scissi dalla personalità primaria e in grado di prendere il sopravvento su di essa.

Nella Autobiographie psychologique (1946) Janet scrive che la parte che sarebbe rimasta la più interessante della sua opera concerneva le numerosissime osservazioni che aveva potuto raccogliere su individui normali e su pazienti. La descrizione di casi come quello di Léonie (un caso di personalità multipla), quelli riportati nell’Automatisme psycho-logique, quelli di Justine e Irène (sofferenti di isteria) o quello di Achil-les (un caso di “possessione”) divennero famosi per la sistematicità del-le osservazioni e la capacità di basarvi la classificazione di stati psichici raggruppati sotto l’etichetta di “automatismo psicologico” (dalla cata-

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lessia all’ipnosi, alla scrittura automatica, alle azioni ossessive, alle idee fisse, e così via).

Qui ci interessa particolarmente il caso di Irène. La paziente, nel corso di ripetute crisi di sonnambulismo spontaneo, ricorda, con i toni emotivi dell’orrore, i dettagli della morte della madre, colpita da tu-bercolosi polmonare. Sente la sua voce e la vede durante gli episodi di delirio e le allucinazioni che le occorrono in stato di veglia:

Se parlo a qualcuno sono turbata perché al suo posto mi compare mamma […] non oso schiacciare o toccare una mosca, un piccolo animale, perché mi sembra che sia mamma, mi sembra di calpestarla […]. È stupido, va a finire che non mi muovo assolutamente e che così mi lascio morire […] il rubinetto dell’acqua gridava, l’ho sentito come se fosse mamma che gridava, l’acqua era il suo sangue e le mie mani erano tutte rosse ( Janet, 2016, p. 33)

Questi deliri e allucinazioni sono ricchi di dettagli sugli avvenimenti riguardanti la madre; ma nello stato di veglia Irène non ne conserva alcuna memoria emotiva:

So bene, dice, che mia madre è morta nel mese di luglio, me lo hanno detto, e deve essere vero, perché sono in lutto e non la vedo vicino a me […]. Certa-mente so bene che devo avere avuto una madre e che sicuramente mi assomi-gliava, doveva essere bruna come me (ivi, p. 35).

Si determina così una profonda dissociazione fra la memoria intellet-tuale e quella emotiva:

Mi sono messa in testa che mamma sia morta […]. Che vuole, dico che è mor-ta per dire come tutti, ma io non ne so nulla […] mi sembra che sia in viaggio, che debba tornare, che non sia il caso di preoccuparsene e non ci penso più […]. Sobbalzo se bussano alla porta, se la porta si apre, credo sempre che sia lei che rientra […]. Del resto se lei fosse veramente morta, ne avrei un dolore enorme perché io non l’ho mai lasciata e l’adoravo […] e invece non sento niente (ivi, p. 36).

Janet ripristina i ricordi della paziente attraverso il sonno ipnotico, no-tando come quelli più dolorosi siano anche i più lenti a ricomparire. La loro rievocazione nello stato di veglia produce la scomparsa dell’amne-sia dissociativa e, conseguentemente, degli altri sintomi isterici.

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Il buon esito del cosiddetto trattamento catartico delle nevrosi – così formulato da Janet, prima ancora che da Freud, all’interno del suo me-todo di “analisi psicologica” – non risiede tanto nel portare alla luce le idee fisse subconsce e gli eventi traumatici che le hanno generate, ma nella elaborazione e integrazione di tali idee con gli altri aspetti della personalità dell’individuo, per il tramite del rapporto che si instaura fra terapeuta e paziente. Tali processi rientrano, nei termini di Janet, nelle attività di sintesi superiori della coscienza e si contrappongono all’attività automatica della mente, che si svolge fuori dalla sfera della consapevolezza e della volontà.

14.1.1. limiti della teoria di janet

Il concetto di dissociazione nell’opera di Janet rimanda a una com-presenza di elementi di conservatorismo e modernità, sia dal punto di vista della storia delle idee, sia rispetto all’attuale dibattito in seno alle scienze cognitive. Innanzitutto, Janet promuove una concezione della psicologia come scienza sperimentale, distante dall’impostazione speculativa, metafisica e interpretativa della psicoanalisi freudiana. I fenomeni psicologici sono inferibili dall’osservazione dei fatti, cioè dal comportamento o dal linguaggio. In tal modo, Janet rifiuta il metodo introspettivo adottato dalla scuola sperimentale tedesca, e con esso il principio cartesiano dell’autotrasparenza della mente, la possibilità di un accesso diretto ai suoi contenuti e di una conoscenza indubitabile degli stati psichici – la coscienza, infatti, «non ci fa conoscere tutti i fenomeni psicologici che avvengono in noi» ( Janet, 1889, trad. it. p. 22). E tuttavia, egli parla di fatti psicologici che appartengono a un livello non già “inconscio” bensì “subcosciente”; e ciò per sottolineare il carattere empirico della propria teoria e prendere le distanze dalla metafisica dell’inconscio che aveva informato l’opera di filosofi come Arthur Schopenhauer o Eduard von Hartmann.

La psiche janetiana si compone di una serie di funzioni caratteriz-zate da differenti gradi di consapevolezza, legati all’attività di sintesi dell’Io. A una visione metafisica o trascendente, essenzialista, unitaria dell’anima di matrice cartesiana si sostituisce un self storico, compo-sto e definito dalle proprie esperienze, emozioni, ricordi, oscillante fra attività automatiche non consapevoli e attività di sintesi. La coscienza è suscettibile di divisione, come mostrano i casi di doppia o multipla personalità, che rappresentano la cartina di tornasole di questa nuova

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concezione secolarizzata ed empirista della mente. Al tradizionale mo-dello associativo, come processo meccanico di composizione di idee e contenuti mentali, si sostituisce una concezione moderna, costruttiva e integrativa della mente, impegnata in un’incessante attività di sintesi dei propri contenuti.

Ciononostante, per Janet i fenomeni dissociativi rappresentano sta-ti psicopatologici di una mente che, per sua natura, tende all’unità. La spiegazione dei fenomeni psicopatologici non è basata sulle normali modalità di funzionamento della mente e tanto i fenomeni dissociati-vi che l’intera attività automatica costituiscono i segnali di uno stato morboso. Ma soprattutto la psiche subcosciente di Janet può ancora essere interpretata in un modo che consente di preservare la tesi carte-siana dell’identità fra mente e coscienza. Essa lascia cioè aperta la pos-sibilità di sostenere che i fenomeni isterici, quantunque effettivamente di natura mentale, non possono essere considerati realmente inconsci; si tratta piuttosto di casi in cui si è verificata una scissione o dissocia-zione o sdoppiamento della coscienza. Con le parole di William James, che respingeva l’idea di una mente inconscia, «la coscienza possibi-le totale» può «essere scissa in parti che coesistono e purtuttavia si ignorano reciprocamente» (1890, p. 206). Da questo punto di vista la coscienza esaurisce in sé la propria spiegazione e legittimazione razio-nale, conservando una propria autonomia rispetto ai fatti di natura e al corpo.

14.2 Inconscio freudiano e inconscio cognitivo

Il concetto di inconscio, e il significato che esso assumerà nell’opera di Freud, contribuirà in modo decisivo alla revisione dello spiritualismo dualista e a quella sempre più radicale crisi del soggetto di conoscenza che attraverserà la filosofia del Novecento.

La psiche freudiana è costituita da contenuti e istanze psichiche che risultano in larga parte non consapevoli. L’inconscio è la sede di pul-sioni conflittuali innate, definite come rappresentazioni mentali che hanno origine nel corpo, a confermare la necessaria interrelazione fra biologia e psicologia, già istituita da Darwin come elemento episte-mologico e ontologico costitutivo della natura dell’essere umano. La natura conflittuale di contenuti, istanze psichiche e pulsioni estende

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il concetto di dissociazione da elemento confinato alla psicopatolo-gia, nella descrizione che ne offre Janet, a elemento strutturale della psiche in generale. L’Io, nell’individuo sano come in quello affetto da psicopatologia, è una struttura fragile, precaria, con una funzione di mediazione e integrazione fra pulsioni inconsce e fra inconscio e dati di realtà, in una forma di equilibrio dinamico instabile e domina-to dall’incertezza. Nelle opere freudiane della maturità l’Io è colto in un progressivo arretramento di fronte all’Es, che guadagna sempre più spazio all’interno dell’economia psichica. Scrive Freud nel Disagio del-la civiltà: «nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto a ogni altra cosa». Si tratta però di una «apparenza fallace»: l’Io è or-ganizzazione ma non autonomia; e solo in parte è cosciente. La mente comprende infatti, oltre alla parte conscia e a quella inconscia dell’Io, anche l’Es, che è pulsionalità totalmente inconscia e non organizzata, con cui l’Io è in continuità «senza alcuna delimitazione netta» e ri-spetto alla quale «esso funge per così dire da facciata» (Freud, 1930, p. 559). In sintesi, l’Io è una struttura polifunzionale ed eminentemente difensiva, costituito da parti consce e inconsce, la cui unitarietà non è altro che una “fallace” apparenza fenomenologica.

La funzione difensiva dell’Io risiede nella sua capacità di integrare in modo coerente i contenuti inconsci conflittuali confezionandone versioni che possono risultare accettabili all’individuo e alla società. Il duplice radicamento della coscienza nell’inconscio e della mente nel corpo comporta sia una progressiva demistificazione della psico-logia del senso comune, non più considerata come fonte indubitabile di conoscenza, sia –  secondo il progetto primigenio di Freud (1892-1899) – la naturalizzazione della psicologia come scienza empirica che trova il suo posto accanto alle altre scienze della natura.

Il progetto freudiano di una teoria dell’inconscio in grado di scio-gliere definitivamente il legame fra mente e coscienza ha trovato com-pimento nella rivoluzione cognitivista. È qui che viene elaborata una nozione di inconscio che radicalizza l’ambizione psicoanalitica alla de-mistificazione del pensiero logico consapevole e l’immagine di un Io che “non è più padrone in casa propria”. L’inconscio è ora un insieme di processi neurocognitivi intrinsecamente inconsci (cioè non passibili di divenire consapevoli), multipli e paralleli, i cui contenuti emergono alla consapevolezza a opera di processi di selezione dell’informazione. In questo senso, i concetti di dissociazione e integrazione assumono

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un significato che si estende oltre il dominio della psicopatologia per descrivere la natura e la struttura della mente neurocomputazionale. E se la costruzione dei significati non presenta sempre un carattere pre-cipuamente difensivo, cioè legato all’effetto di eventi traumatici, cio-nondimeno manifesta una natura adattiva che emerge nella costruzio-ne di una storia biografica individuale, tesa a mostrare i caratteri della coerenza e dell’accettabilità sociale.

Nel momento in cui interpretiamo l’identità come un processo at-tivo di continua costruzione e integrazione dei dati di realtà e la dis-sociazione come la condizione strutturale di partenza della psiche, è la costruzione dell’Io a dover essere spiegata. Ossia: è la costruzione dell’unità dell’esperienza soggettiva a costituire l’oggetto di indagine, a tal punto che l’Io diviene, in alcune teorie filosofiche, un’istanza psi-chica priva di realtà, una vera e propria illusione.

Se già in Hume (1739-1740) l’indagine teorica sull’Io non rivela altro se non un fascio di percezioni e la sensazione di unità non è che un’illusione, ritroviamo, per vie differenti, lo stesso concetto di un Io illusorio in alcuni modelli attuali di architettura computazionale della coscienza, come quello delle “molteplici versioni” di Dennett (1991). Il sé è definito da questo filosofo come un centro di gravità narrativa. È, cioè, il prodotto di un continuo processo di selezione e sintesi di informazioni inconsce che assumono la forma di flussi narrativi paral-leli continuamente soggetti a revisione e in competizione per accedere allo spazio della coscienza. Alcune caratteristiche, come la ridondanza dell’informazione, facilitano l’accesso alla consapevolezza di alcuni contenuti. Il cervello non è programmato per rilevare questa disconti-nuità ma per elaborare un punto di vista soggettivo sull’esperienza che ci fornisca un quadro interpretativo integrato della realtà. Tuttavia, non esiste una cabina di regia che ospiti l’Io o uno spettatore nel teatro cartesiano della mente. L’Io è il prodotto di questi processi inconsci, non la loro condizione di possibilità.

Quando il processo di integrazione risulta particolarmente dif-ficile e le discontinuità della memoria, della coscienza e dell’iden-tità superano una certa soglia, parliamo di disturbi dissociativi. In riferimento al disturbo di personalità multipla, Dennett afferma che l’idea di un singolo corpo abitato da più io non è metafisicamente più stravagante dell’idea di un singolo io per ciascun corpo, se è vero che l’Io è una costruzione a partire da una molteplicità (Humphrey, Dennett, 1989).

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14.3 La tradizione psicodinamica, le neuroscienze

e l’attuale psicopatologia del trauma

Per Janet i sintomi isterici sono la conseguenza di aspetti di vulnerabilità costituzionale e, insieme, della qualità delle esperienze precoci che, qua-lora di natura traumatica, possono costituirsi in complessi ideoaffettivi non passibili di sintesi e quindi non accessibili a livello della consapevo-lezza. Alcuni studi riconducono fenomenologicamente i sintomi disso-ciativi a stati simili a processi di trance ipnotica autoindotta, in cui si può verificare l’assorbimento dell’attenzione in una ricca attività immagina-tiva che, nei casi più estremi (quelli per cui si parla di disturbo dissocia-tivo dell’identità), può spingersi fino alla creazione di altre identità. Per quanto attiene all’elemento della vulnerabilità genetica, tali studi hanno dimostrato una forte correlazione fra la disposizione innata a entrare in simili stati di trance e lo sviluppo di sintomi dissociativi, tanto rispetto a una popolazione normale che rispetto a popolazioni con diverse diagno-si di disturbo mentale (cfr. per esempio Bliss, 1986).

Per quanto concerne il ruolo che Janet attribuisce alle esperien-ze traumatiche precoci nell’eziopatogenesi dei disturbi dissociativi, queste agiscono inibendo la funzione di sintesi dei relativi contenuti, impedendo loro di assurgere allo stato di consapevolezza. La natura bottom-up di questi processi, che avvengono sotto la soglia della co-scienza, ha trovato conferma tanto nella neuroscienza cognitiva che nell’odierna clinica del trauma. Vediamo alcuni esempi.

Secondo Schore (2003), gli eventi relazionali precoci sono registra-ti e permangono come memorie emotive implicite, tracce psicobiolo-giche che si conservano al di fuori dalla sfera della consapevolezza. Se tali eventi si verificano in periodi molto precoci dello sviluppo, gli epi-sodi emozionali, codificati dall’emisfero destro, rimangono confinati a questo emisfero, che svolge un ruolo dominante nei primi tre anni di vita, in quanto le strutture dell’emisfero sinistro, che presiedono al linguaggio, e le connessioni interemisferiche risultano a uno stadio ancora immaturo del neurosviluppo. I traumi precoci, in questo caso, non possono essere rimossi dalla coscienza, come sosteneva Freud, in quanto non sono passibili di codifica a questo livello, e in questo senso risultano necessariamente esclusi, cioè dissociati, dall’esperienza con-sapevole dell’individuo.

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1. Scrivono Breuer e Freud: «…quanto più abbiamo continuato ad occuparci [dei fenomeni isterici], tanto più sicura è divenuta la nostra convinzione che quella scissione della coscienza così sorprendente nei noti casi classici di double conscience, esiste in stato rudimentale in ogni isteria, e che la tendenza a tale dissociazione e quindi al manifestarsi di stati anormali della coscienza […] è il fenomeno basilare di tale nevrosi» (1892-95, p. 183).

Nella affective neuroscience di Jaak Panksepp (Panksepp, Biven, 2012) i processi emotivi di base sono affects primari esperiti fenome-nologicamente dal punto di vista soggettivo, cablati dalla filogenesi in specifici circuiti sottocorticali omologhi nei mammiferi e direttamen-te correlati con schemi comportamentali che assolvono una funzione di sopravvivenza. Essi si esprimono inizialmente in modo automatico, non riflessivo e svincolato dai processi del linguaggio e della coscienza.

Secondo la teoria polivagale di Porges (2011), i sistemi di difesa dell’organismo sono regolati a livello psicofisiologico da strutture del tronco encefalico che governano le diverse parti del sistema nervoso autonomo in risposta alla percezione di un pericolo ambientale: il parasimpatico dorsovagale induce l’immobilizzazione, mimando la condizione di morte apparente dell’organismo, che promuove l’even-tuale insorgenza di processi dissociativi; il sistema simpatico governa le reazioni di mobilizzazione (attacco-fuga); infine, il parasimpatico ventrovagale regola le funzioni dei comportamenti di attaccamento e cooperativi.

Anche in Janet la gestione inconsapevole e automatizzata degli aspetti traumatici rimanda a processi bottom-up che mostrano un’af-finità con l’attuale visione delle neuroscienze e col concetto evoluzio-nistico di difesa come meccanismo automatizzato e non consapevole. Anche se Janet non fa esplicito riferimento a una funzione difensiva della dissociazione all’interno dell’economia psichica, appare chiaro il ruolo che il restringimento del campo di coscienza svolge nell’arginare le emozioni troppo dolorose che l’individuo non è in grado di gestire, salvaguardando così un nucleo di integrità e coerenza della personalità.

Saranno Freud e Breuer (Freud, Breuer, 1892-95; Freud, 1896) a par-lare esplicitamente di dissociazione nei termini di una difesa dell’Io rispetto al trauma, riconosciuto inizialmente da Freud come fattore eziologico dell’isteria, prima che il concetto di rimozione sostituis-se quello di dissociazione e la teoria edipica succedesse alla teoria del trauma1.

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Ma le difese nella metapsicologia freudiana sono concettualizzate come processi top-down caratterizzati da una matrice personalistica, volontaristica e intenzionale. Il concetto di rimozione rimanda infat-ti all’esclusione dei contenuti traumatici dalla sfera della coscienza, mentre per Janet i processi traumatici impediscono ai contenuti sub-coscienti di accedere a uno stato di consapevolezza proprio in quanto i processi di sintesi risultano inibiti.

Da un punto di vista evoluzionistico gli stati simili a trance, che costituiscono le esperienze dissociative, sono selezionati filogenetica-mente per rispondere a situazioni di pericolo o danno con una fun-zione analgesica e anamnesica. Essi comportano, infatti, una riduzione degli stati dolorosi e un’amnesia degli eventi traumatici avvenuti du-rante la trance al fine di arginare l’intensità delle emozioni e riacquisire in questo modo un controllo del comportamento (Liotti, 2000).

La rilevanza accordata da Janet ai traumi precoci trova riscontro, a cominciare dalla psicodinamica interpersonale postfreudiana, soprat-tutto negli studi sull’attaccamento, secondo cui i sintomi dissociativi sono il prodotto di relazioni precoci disfunzionali.

Secondo la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), le memorie emozionali traumatiche del bambino prodotte all’interno di una re-lazione con un caregiver abusante e/o negligente influiscono sui pro-cessi di attaccamento e sugli schemi inconsci che il bambino costrui-sce di sé e delle relazioni con gli adulti significativi, in modalità più o meno disadattative. Il paradigma sperimentale della Strange Situation, che prevede una serie alternata di separazioni e riunioni tra la figura di accudimento e il bambino, mostra il bambino disorganizzato, nelle interazioni con il caregiver, in uno stato alterato di coscienza, che può manifestarsi con l’immobilità, lo sguardo fisso perso nel vuoto o l’ado-zione di posture e comportamenti tra loro contraddittori (Ainsworth et al., 1978).

Gli eventi che confluiscono in dinamiche di attaccamento di tipo disorganizzato danno luogo a rappresentazioni multiple e contraddit-torie che sono all’origine del cosiddetto triangolo drammatico in cui la figura di accudimento è vista come spaventata/spaventante e il sé e l’altro assumono alternativamente il ruolo di vittima, persecutore e salvatore.

I sistemi motivazionali antagonisti di attaccamento e difesa si atti-vano contemporaneamente, dando luogo a una situazione paradossale in cui il bambino cerca protezione dalla stessa figura di accudimento

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che è fonte di paura. L’attaccamento disorganizzato differisce infatti dalle altre forme di attaccamento insicuro proprio in quanto impedi-sce al bambino l’espressione di una strategia comportamentale unitaria e coerente in riferimento a un sé integrato. In base a siffatte esperien-ze il bambino costruisce modelli operativi interni, cioè schemi stabili di sé, dell’altro e della relazione fondamentalmente dissociati (Liotti, 2001). Da questo punto di vista, l’attaccamento disorganizzato rappre-senta la prima forma di processo mentale dissociato (Liotti, 2009). Le rappresentazioni cognitive multiple, incoerenti e contraddittorie im-pediranno perciò, nei termini janetiani, i processi di sintesi nell’unità di memoria e coscienza dando luogo ai processi di “disaggregazione”.

Alcuni studi longitudinali dimostrano un incremento della ten-denza a produrre esperienze dissociative in adolescenti e giovani adulti con esperienze precoci di attaccamento disorganizzato (Carlson, 1998; Ogawa et al., 1997). Inoltre, l’attaccamento disorganizzato costituisce un modello per rispondere con sintomi dissociativi a eventuali suc-cessivi traumi o a eventi fortemente stressanti (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 1999). Infatti, come afferma Janet (1909), i traumi producono i loro effetti negativi in proporzione alla loro intensità, durata e ripetizione, un concetto che sembra anticipare quello odierno di trauma comples-so, che si configura proprio in quei casi di abuso infantile reiterato nel tempo, considerato come fattore eziopatogenetico i cui effetti sono cu-mulativi rispetto all’eventuale comparsa di futuri disturbi dissociativi.

Le prime due versioni del dsm, nel solco della psicopatologia classi-ca, riportano la diagnosi di “nevrosi isterica”, sottotipizzata in “di con-versione” e “dissociativa”, proprio in base all’ipotesi di una comune ori-gine traumatica infantile di entrambi i disturbi. Le edizioni successive adottano un approccio più descrittivo che eziopatogenetico e distin-guono tra disturbi postraumatici, di conversione e dissociativi, gene-rando l’impressione di tre condizioni cliniche indipendenti. Al contra-rio, il dsm-5, malgrado la collocazione dei disturbi dissociativi in una specifica categoria nosografica, restituisce un maggior riconoscimento alla comune origine traumatica dei vari sintomi che “si riscontrano fre-quentemente nel periodo successivo a un trauma”. La nosografia com-prende: il disturbo dissociativo dell’identità, l’amnesia psicogena (che include la fuga psicogena), il disturbo da depersonalizzazione/derea-lizzazione e il disturbo dissociativo non altrimenti specificato.

La forma più grave è il disturbo dissociativo dell’identità, che so-stituisce ciò che nella precedente nosografia era denominato “disturbo

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di personalità multipla”. Il cambiamento di nome risponde all’esigenza di rendere conto del disturbo non già nei termini della costituzione di più personalità bensì in quelli di una mancanza di integrazione dei vari aspetti di sé in un unico soggetto d’esperienza (Hacking, 1995). Dun-que, i frammenti scissi di esperienza che si costituiscono in personalità secondarie possono essere interpretati come aspetti non integrati di una singola personalità. La continuità dell’esperienza cosciente è in-terrotta dall’emersione di una o più personalità (alter) che assumono il controllo, con pensieri, memorie, emozioni, condotte, stile di vita di-versi da quelli della personalità primaria (host). La personalità primaria risulta emotivamente appiattita e non ha consapevolezza della presen-za e delle esperienze vissute dagli alter, anche se la memoria semanti-ca è condivisa. La transizione da una personalità all’altra si configura attraverso uno stato alterato di coscienza simile a una trance ipnotica spontanea e automatica, mentre il “ritorno” alla personalità primaria è accompagnato spesso da una violenta cefalea e da amnesia più o meno completa dell’esperienza vissuta dall’alter.

Nell’amnesia dissociativa si assiste all’impossibilità di rievocazione di importanti informazioni autobiografiche relative a periodi di tempo troppo lunghi perché si possa parlare di una normale dimenticanza. Può essere associata o meno alla fuga psicogena, caratterizzata da un improvviso allontanamento del soggetto dal proprio ambiente abitua-le di vita, dall’amnesia autobiografica e dall’assunzione di una nuova identità.

Il disturbo da depersonalizzazione/derealizzazione è costituito, nel caso della depersonalizzazione, da esperienze di irrealtà e distacco ri-spetto al sé attraverso alterazioni percettive, un senso distorto del tem-po, un senso di sé irreale o assente, nonché un senso di ottundimento fisico e/o emotivo; nel caso della derealizzazione, da esperienze di ir-realtà e distacco rispetto all’ambiente circostante. L’esame di realtà è conservato e l’individuo percepisce come una minaccia la perdita della continuità dell’esperienza cosciente.

Il disturbo dissociativo non altrimenti specificato è diagnosticato ogniqualvolta la presenza di sintomi dissociativi non rimanda ad alcu-na delle precedenti diagnosi.

La natura polisintomatica dei disturbi dissociativi crea quadri cli-nici in continuità con diverse sindromi psicopatologiche, spiegabili in relazione alla comune causa eziopatogenetica relativa a un’origine traumatica precoce. Tra i sintomi notiamo, per esempio, quelli legati

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allo spettro ansioso, ai disturbi dell’umore, alle somatizzazioni, ai com-portamenti antisociali, ai comportamenti alimentari disfunzionali, all’abuso di alcol e sostanze, a relazioni interpersonali instabili, ai sin-tomi positivi schizofrenici (allucinazioni e deliri). Secondo questa in-terpretazione le diverse sindromi si possono considerare come disturbi postraumatici cronici collocabili nosograficamente lungo una linea dimensionale continua che può includere il disturbo postraumatico da stress, i disturbi somatoformi, il disturbo borderline di personalità e i disturbi dissociativi (van der Hart, Nijenhuis, Steele, 2006). Se si considera primaria l’importanza delle funzioni integrative allora, ogni volta che sintomi, che potrebbero rimandare ad altre diagnosi, sono accompagnati da disturbi delle funzioni integratrici di memoria, co-scienza o identità, ci si dovrebbe pronunciare in favore di una diagnosi di disturbo dissociativo, che assume un carattere sovraordinato rispet-to ad altre diagnosi, come sostenuto da alcuni clinici (Liotti, 2001).

14.4 Prospettive per la psicoterapia

Sia le neuroscienze che la teoria dell’attaccamento dimostrano l’im-portanza fondamentale degli aspetti impliciti del self del bambino nel suo processo di costruzione dell’identità. Una buona capacità di sintonizzazione e rispecchiamento tra caregiver e bambino riguarda aspetti di tipo corporeo (sguardo, postura, espressioni facciali, pro-sodia), fisiologico (stati di attivazione neurovegetativa) ed emoziona-le (inizialmente in forma di stati edonici con una valenza positiva o negativa). Tale capacità è propedeutica alla costruzione di una mappa corporea, alla capacità di discriminare e modulare gli stati affettivi e alle abilità di mentalizzazione che presiedono alla costruzione di un sé integrato nei suddetti aspetti. La mentalizzazione non si riferisce solo alla capacità di leggere i propri e gli altrui stati mentali intenzio-nali ma può avere per oggetto sia il corpo che le emozioni in una fase dello sviluppo presimbolica. L’impossibilità da parte del bambino di sperimentarsi in forme adeguate di rispecchiamento lascia spazio sia a emozioni di inadeguatezza, colpa e vergogna che all’utilizzo della dissociazione come difesa di fronte a stati del sé incompatibili e in-tollerabili, nel tentativo di preservare un minimo senso di coerenza e integrità dell’esperienza soggettiva (Bromberg, 1998). L’uso pervasivo

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della dissociazione comporta un difetto della capacità di mentalizza-zione che può avere effetti negativi sulle capacità di controllo, identi-ficazione e regolazione degli stati affettivi (Caretti, Capraro, Schim-menti, 2013). L’importanza dei fattori del sé implicito nei modelli di sviluppo ontogenetico e l’incapacità a mentalizzarli rende gli stessi fattori centrali nel percorso di cura all’interno della relazione tra te-rapeuta e paziente. La costituzione di una buona alleanza terapeutica costituisce il fattore propedeutico capace di intervenire sugli aspetti disfunzionali relativi al sé implicito. A questo proposito sono state elaborate tecniche psicoterapeutiche bottom-up come la psicoterapia sensomotoria, la mindfulness e l’emdr.

La psicoterapia sensomotoria utilizza come via di accesso alle me-morie traumatiche e all’inconscio del paziente la sua esperienza soma-tica, che si interfaccia alle esperienze di tipo emotivo e cognitivo.

Di fronte a esperienze traumatiche, il sistema di difesa rimane sen-sibilizzato su livelli di iperattivazione (ipervigilanza, sensazioni ed emozioni intrusive, comportamenti autolesivi e a rischio, ansia e pani-co) o ipoattivazione (affettività appiattita, ottundimento emozionale, funzionamento cognitivo rallentato, sensazioni di vuoto e di morte, vergogna, disprezzo di sé, immobilità tonica) anche quando la minac-cia è cessata, in presenza di trigger neutri, percepiti come minacciosi, o quando le memorie traumatiche vengono rievocate. Gli stati di iper/ipoarousal impediscono il processo di integrazione. La finestra di tolle-ranza (Siegel, 1999), in cui sensazioni, emozioni e pensieri sono tollera-bili e le capacità di mentalizzazione sono funzionali, si mostra ristretta e le abilità di autoregolazione risultano compromesse. Il terapeuta, at-traverso il monitoraggio verbale esplicito delle espressioni somatiche del paziente (iper/ipoarousal, stati di tensione, postura, gesti, impul-si), soprattutto quelle che indicano l’attivazione dei sistemi di difesa (attacco, fuga, freezing, morte simulata), incrementa le sue abilità di automonitoraggio e, favorendo l’instaurarsi di connessioni tra la nar-rativa somatica, le emozioni e i pensieri corrispondenti, riporta l’arou-sal entro la finestra di tolleranza, promuovendo l’integrazione. Inoltre, incoraggia nel paziente l’assunzione di un atteggiamento mindfulness, esortandolo a osservare le manifestazioni somatiche, le emozioni e i pensieri senza interpretarli e a focalizzarsi sul presente con un atteg-giamento non interpretante e non giudicante. Sono inoltre utilizzate alcune tecniche somatiche al fine di riportare il paziente iper o ipoatti-vato all’interno della finestra di tolleranza.

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La mindfulness è una pratica meditativa di tradizione orientale, utilizzata come tecnica psicoterapeutica per promuovere la consape-volezza presente della propria integrità psicocorporea. In questo senso, favorisce l’elaborazione delle esperienze traumatiche, riducendo l’at-tivazione dei sistemi di difesa di tipo dissociativo. La focalizzazione dell’attenzione sul qui e ora della propria esperienza a livello corporeo-fisiologico, emotivo e cognitivo, con un atteggiamento di osservazione e accettazione, favorisce le capacità di mentalizzazione e la regolazione degli stati del sé. L’orientamento consapevole dell’attenzione sull’espe-rienza viscerale e somatica e sull’elaborazione in parallelo degli aspetti emotivi e cognitivi favorisce la distanza riflessiva e ha un valore intrin-secamente regolatorio.

L’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (emdr) conside-ra tutti gli aspetti di un’esperienza stressante o traumatica, sia quelli co-gnitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. È una tecnica psicoterapeutica evidence-based utilizzata per trattare le memo-rie traumatiche, i cui meccanismi di funzionamento non sono ancora ben noti. La stimolazione bilaterale alternata degli emisferi cerebrali durante la rievocazione di memorie traumatiche in qualche modo fa-cilita l’integrazione degli aspetti fisiologici, emotivi e cognitivi legati a tali esperienze, mostrando un effetto desensibilizzante sull’individuo.

L’elaborazione di queste tecniche è il segno di un cambiamento di paradigma nei diversi approcci terapeutici che risulta dall’estensione e integrazione del lavoro top-down centrato sulla funzione narrativa e cognitivo-simbolica delle esperienze riprodotte dal paziente al lavoro sugli aspetti corporeo-affettivi inscritti nella sua memoria procedurale. L’analisi di questi ulteriori aspetti è il prodotto del necessario dialo-go della pratica psicoterapeutica con i risultati delle ricerche di tipo neurobiologico e neuroscientifico all’interno della cornice della teoria dell’attaccamento e di una concezione naturalizzata della mente.

14.5 Conclusioni

In questo capitolo abbiamo visto come la ripresa di interesse per il pen-siero di Janet, soprattutto in relazione alla psicoanalisi freudiana, offra lo spunto per una serie di osservazioni sul contributo che questi due grandi studiosi hanno apportato alla psicologia intesa come discipli-

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na appartenente alle scienze della natura. L’automatismo psicologico è un’opera di psicologia sperimentale in cui la mente è concepita come una pluralità di funzioni disposte gerarchicamente a seconda del gra-do di minore o maggiore capacità di sintesi consapevole dell’Io. Una concezione della mente, questa, che rifiuta l’introspezione e che taglia i ponti con la mente monadica e trasparente a sé stessa di matrice car-tesiana. Tuttavia, mentre in Janet la mente normale tende all’unità e la dissociazione non è che una manifestazione della patologia, Freud de-scrive un inconscio di pulsioni che rimandano a istanze psicobiologi-che multiple e conflittuali, componendo il quadro di una mente strut-turalmente dissociata. Infatti, il concetto di subconscio janetiano non trova un radicamento nella biologia ma rimanda a forme di coscienza parallele; l’inconscio freudiano, invece, collegando la psiche alla bio-logia, mette capo a una prima concezione di mente naturalizzata e di un Io con una funzione di mediazione adattativa fra le istanze dell’Es e i dati della realtà. Nell’ambito delle scienze cognitive il concetto di inconscio subirà un’ulteriore radicalizzazione in senso anticartesiano: non è più la coscienza a spiegare l’inconscio, come in Freud, ma è la co-scienza, considerata il prodotto di processi intrinsecamente inconsci, a necessitare di una spiegazione.

Ciò malgrado, i concetti di dissociazione e trauma psicologico ja-netiani oggi hanno cittadinanza nella neuroscienza cognitiva e nella psicopatologia del trauma basata sulla teoria dell’attaccamento, men-tre il concetto freudiano di rimozione non è più considerato valido dal punto di vista scientifico. Il riconoscimento dell’importanza delle esperienze precoci registrate nei circuiti psicobiologici del self implici-to, che non trovano una traduzione diretta a livello verbale, ha avuto importanti ripercussioni non solo sulla modellistica clinica ma anche sulle tecniche psicoterapeutiche sviluppate negli ultimi decenni. Que-ste ultime si basano sulla comunicazione implicita fra paziente e tera-peuta, che pone al centro la gamma di significati corporei legati alle sensazioni e allo stato di attivazione dell’organismo, di cui l’individuo non è ordinariamente consapevole, e che vengono monitorati e inte-grati con i livelli emotivo e cognitivo favorendo tanto l’autoregolazio-ne corporeo-affettiva, a partire da processi bottom-up, che le capacità di mentalizzazione.

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Dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quando Eysenck (1952) pubblicò una rassegna di studi sulla valutazione dell’efficacia del-la psicoterapia, si aprì l’importante filone di ricerca concernente l’esito dei vari trattamenti psicoterapici (Outcome Research) (Mes-sina, 2017, p. 47). Ancora oggi esso costituisce un aspetto cruciale, come si può ben immaginare, sia nella ricerca clinica che in ambito teorico. L’esito della terapia viene definito fondamentalmente «in termini di diminuzione della presenza o della gravità dei sintomi» (ivi, p. 48).

L’avvento delle neuroscienze ha sancito anche in questo campo di studi una svolta importante, tanto che, ormai, la neuroscienza è un imprescindibile alleato della psicopatologia. Infatti, grazie ai recenti progressi delle tecniche di neuroimaging, gli scienziati sono in grado di identificare correlati neurali non soltanto di disturbi mentali, ma anche di cambiamenti associati a interventi terapeu-tici (Fuchs, 2004; Marano et al., 2012). Questi ultimi sono cate-gorizzabili, in linea molto generale, in trattamenti psicoterapici e in trattamenti farmacologici. Nel solco dell’Outcome Research, lo scopo degli studi di neuroimaging è quello di tracciare e confronta-re i processi neurobiologici attivati a seguito di differenti approcci terapeutici, e studiare così l’impatto del trattamento sui possibi-li network neurali coinvolti (Linden, 2006; 2008; Carrig et al., 2009).

In questo capitolo cercheremo di confrontare gli effetti che le due macrotipologie di trattamenti terapeutici procurano a livello neuro-biologico, soffermandoci maggiormente sul caso della depressione maggiore.

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Disturbi affettivi: trattamenti a confronto per prospettive future

di Carlo Lai, Emiliano Loria e Gaia Romana Pellicano

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15.1 Neuroscienze cliniche e psicopatologia

I risultati disponibili, grazie a pluridecennali ricerche, documentano chiaramente «l’efficacia della psicoterapia anche a livello di funziona-mento neurobiologico» (Messina, Viviani, 2017, p. 245; Beauregard, 2014, p. 79; Etkin et al., 2005; Linden, 2006; Messina et al., 2013; Lai et al., 2007). Come illustrava già Fuchs (2004), gli studi effettuati con neuroimaging non mostrano solamente che la psicoterapia è associata a significative modificazioni delle funzioni cerebrali, ma che tale asso-ciazione è diversa nel caso della farmacoterapia.

Le tecniche non invasive utilizzate per investigare tali processi neu-rali sono state diverse nel corso degli anni; per citare le principali: la pet (Positron Emission Tomography), ovvero la tomografia a emissione di positroni (antielettroni); la spect (Single Photon Emission Compu-ted Tomography), ovvero la tomografia computerizzata a emissione di fotone singolo; e infine la fmri (Functional Magnetic Resonance Ima-ging), la risonanza magnetica funzionale. Questi metodi permettono di misurare cambiamenti del flusso sanguigno che accompagnano le attività neurali (Marano et al., 2012, p. 445), ma mentre le prime due si basano sostanzialmente sulla somministrazione di un tracciante radio-attivo che si distribuisce seguendo il flusso ematico – per cui maggiore è la concentrazione del tracciante, maggiore è lo sforzo metabolico di particolari aree cerebrali  –, la fmri permette la visualizzazione della risposta emodinamica grazie alle proprietà magnetiche date dal livello di ossigenazione del sangue (Messina, Viviani, 2017, pp. 227-8).

Gli interventi psicoterapici, oltre a modulare processi neurobiolo-gici, potrebbero anche indurre cambiamenti strutturali (Beauregard, 2014, p. 79). A tale riguardo, è stato condotto uno studio con l’utilizzo di tecniche di visualizzazione biomedica a tensore di diffusione (dti: Diffusion Tensor Imaging) (Wang et al., 2013) per indagare tale pos-sibilità. La tecnica dti è impiegata in neurochirurgia perché rappre-senta un efficace strumento di visualizzazione della sostanza bianca, in modo che si possano mappare in maniera accurata localizzazione, orientamento e cambi di direzionalità (anisotropia) dei tratti e dei fa-sci di fibra nervosa. Ottenere una misurazione scalare dell’anisotropia (Anisotropia Frazionale, fa) permette, per esempio, un’approssima-zione ottimale delle proprietà microstrutturali della sostanza bianca

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15. disturbi affettivi: trattamenti a confronto per prospettive

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(quali la mielinizzazione, il calibro dell’assone, la densità della fibra). Pazienti con diagnosi di depressione maggiore sono stati sottoposti a indagine dti prima e dopo un trattamento psicoterapico di 4 setti-mane, e nei soggetti che avevano registrato una significativa riduzione dei sintomi si era riscontrato un innalzamento dei valori fa nel talamo destro, e a un primo stadio di intervento terapeutico un maggiore va-lore di fa era stato trovato in una parte del lobo frontale associata alla regolazione emotiva (Beauregard, 2014, p. 80).

15.2 Epigenetica

Uno dei modi in cui l’esperienza della psicoterapia può portare a possi-bili cambiamenti sia strutturali sia funzionali, attraverso modifiche nei pattern delle connessioni neurobiologiche, può essere ben illustrato dal modello sperimentale dell’epigenetica comportamentale.

Negli ultimi dieci anni, infatti, la ricerca neuroscientifica si è foca-lizzata anche sui cambiamenti epigenetici come possibile manifesta-zione delle variazioni del comportamento umano a livello molecolare. L’epigenetica è lo studio dell’interazione dell’ambiente con il genoma, mediato da composti molecolari che regolano l’espressione genica sen-za modificare il dna di base (Hurd, 2011). I fattori ambientali pos-sono agire sul dna ereditato, attraverso meccanismi che facilitano o impediscono la trascrizione genica. I meccanismi di acetilazione degli istoni, per esempio, consentono l’ingresso dei fattori di trascrizione, portando a un aumento dell’espressione genica, mentre i meccanismi di metilazione e di deacetilazione provocano una riduzione della tra-scrizione genica.

In un certo senso, un cambiamento epigenetico può essere consi-derato come una modifica adattativa operata dalle cellule, talvolta fi-siologica, come nel caso della plasticità neurale implicata in processi di apprendimento e memoria, talvolta patologica, come avviene, per esempio, nel caso delle formazioni neoplastiche.

Alcune ricerche condotte nel campo dell’epigenetica compor-tamentale hanno riguardato lo studio dei meccanismi d’azione dei farmaci. Nel contesto della risposta al trattamento antidepressivo, i meccanismi epigenetici possono essere coinvolti principalmente in due modi differenti. Nel primo, attraverso la reciproca interazione tra

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1. Un interessante studio condotto su un campione di meditatori esperti ha mo-strato come, a parità di luogo in cui erano posti i partecipanti, coloro che avevano condotto una meditazione di 8 ore mostravano cambiamenti a livello dell’espressione di geni coinvolti in processi infiammatori (Kaliman et al., 2014).

stimoli ambientali e genoma, essi possono indurre alterazioni a lungo termine nell’espressione dei geni target dell’intervento farmacologi-co, influenzando la disponibilità del gene a essere trascritto e dunque influenzando l’efficacia del trattamento stesso. Nel secondo caso, può esserci un effetto diretto sullo stato dell’epigenoma da parte della so-stanza usata nel trattamento antidepressivo; per esempio alcuni stabi-lizzatori dell’umore risultano efficaci attraverso la deacetilazione degli istoni o alterando i livelli di metilazione, che a loro volta, a cascata, in-fluenzano l’espressione del gene (Mora et al., 2018; Csoka, Szyf, 2009; Boks et al., 2012; Lisoway et al., 2018).

Da studi precedenti è emerso che i trattamenti psicofarmacologici nei disturbi affettivi attivano l’espressione dei geni legati ai fattori neu-rotrofici, come il Brain Derived Neurtrophic Factor (bdnf), riattivan-do dunque processi di neuroplasticità e aumentando la resilienza dei circuiti neurali (Cattaneo et al., 2010; Brunoni et al., 2008; Vance et al., 2010; DeSocio, 2016).

Studi recenti hanno mostrato come anche diversi tipi di esposizio-ni ambientali possano modulare la connettività sinaptica, stimolare la neuroplasticità e ristabilire il potenziale di crescita neurale (Mil-ler, 2017). Con esposizione ambientale, nell’ambito dell’epigenetica comportamentale, si intendono sia l’arricchimento/impoverimento dell’ambiente circostante da un punto di vista fisico (per esempio una maggiore esposizione a stimoli cognitivi o una deprivazione sensoriale), sia le diverse qualità di un ambiente sociale. Ai fini della presente tratta-zione, è bene evidenziare che più delle caratteristiche oggettive dell’am-biente, sembra che sia la percezione soggettiva dell’ambiente la variabile che determina l’influenza ambientale sui processi epigenetici1.

Da recenti studi, sembra che le esperienze ambientali possano es-sere considerate, dunque, buoni esempi di fattori epigenetici. Studi retrospettivi suggeriscono come le esperienze sociali precoci possano influenzare le traiettorie di sviluppo, mediante meccanismi di “accen-sione” o “silenziamento” dell’espressione genica, e, a volte, risultare in disturbi psicopatologici (Tsankova et al., 2007). Tuttavia, il nostro si-stema neurale sembra mantenere un certo grado di plasticità durante

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15. disturbi affettivi: trattamenti a confronto per prospettive

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l’intero arco di vita, e negli ultimi anni, si è visto come anche in età adulta, in presenza di stimolazioni ambientali si possono produrre mo-dificazioni a livello dell’espressione genica.

La psicoterapia è stata considerata come «un tipo specifico di am-biente arricchito che promuove lo sviluppo sociale ed emotivo, l’in-tegrazione neurale e l’elaborazione della complessità» (Cozolino, 2010). Un quadro esplicativo nascente dall’epigenetica comportamen-tale ha associato il nuovo “contesto di apprendimento” proposto dai trattamenti psicoterapici con un aumento della neuroplasticità, in par-ticolar modo delle strutture ippocampali (DeSocio, 2016; Xue, Tang, Posner, 2011). Alcuni innovativi studi condotti negli ultimi anni han-no mostrato come a seguito di un trattamento psicoterapeutico possa-no verificarsi dei cambiamenti nell’espressione dei geni che regolano il funzionamento dei neurotrasmettitori monoamine (Schiele et al., 2018; Ziegler et al., 2016; Roberts et al., 2014), una modifica nei geni che codificano per i fattori di trascrizione implicati nei processi antin-fiammatori (Muñoz e Larkey, 2018) e una variazione nell’espressione genica dei fattori di crescita neuronali associati alla plasticità sinaptica (Thomas et al., 2018).

Da questa ulteriore prospettiva proveniente dalla ricerca neurobio-logica, sembrerebbe emergere come, laddove i trattamenti psicofar-macologici possano essere impiegati per ripristinare alcuni meccani-smi biologici della neuroplasticità cerebrale, fornendo una maggiore disponibilità di “materiale neurale”, i trattamenti psicoterapeutici po-trebbero apportare un corollario di esperienze ambientali che, ricche di nuovi significati emotivi, permetterebbe agli individui di direzio-nare quel materiale neurale potenziale in una nuova organizzazione sinaptica.

15.3 Analisi di trattamenti per la depressione maggiore

Nelle pagine che seguono, cercheremo di confrontare gli effetti delle due macrotipologie di trattamenti terapeutici che si associano a livello di circuiti e networks neurali nel caso specifico della depressione mag-giore. A tale proposito, alcune ricerche hanno già indagato, a livello neurobiologico, i risultati di interventi terapeutici  –  sia trattamenti psicoterapici che farmacologici. Da esse sono emersi, per entrambi i

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2. La terapia interpersonale cerca di migliorare le capacità relazionali della per-sona, lavorando sull’efficacia comunicativa, la manifestazione appropriata delle emo-zioni, e sulla adeguata capacità assertiva da adottare negli appropriati contesti sociali e lavorativi (Marano et al., 2012, p. 447).

trattamenti, significativi cambiamenti nell’attività neurale di regioni corticali e sottocorticali. Tuttavia, è ragionevole supporre che, nono-stante la psicoterapia e la psicofarmacologia conducano a un risultato neurobiologico comune, esse agiscano e coinvolgano nel processo te-rapeutico diversi sistemi neurali (Messina et al., 2013; Cuijpers et al., 2012; Quidé et al., 2012; Beauregard, 2014; De Rubeis et al., 2008; Boccia et al., 2016). Se da una parte la psicofarmacoterapia agisce (o tenta di agire) direttamente – secondo un approccio bottom-up – sulla reattività emotiva attraverso il risanamento dell’equilibrio chimico di deputati neurotrasmettitori in grado di condizionare l’attività neurale; dall’altra parte, la psicoterapia lavora affinché vengano (ri)costruiti ed elaborati significati autobiografici che possano regolare sistemi attenti-vi, mnemonici e abilità metarappresentazionali del paziente (Guerini, Marraffa, Paloscia, 2015). In altre parole, attraverso un approccio top-down, il risultato a livello neurobiologico della psicoterapia consiste-rebbe nella riorganizzazione delle funzioni del sistema limbico e dei livelli di connettività con le strutture superiori, in modo da ridurre la disregolazione emotiva (Kalsi et al., 2017, p. 2; De Rubeis et al., 2008; Quidé et al., 2012).

Data l’estrema complessità e connettività del cervello umano, il pri-mo (arduo) compito delle neuroscienze è quello di individuare qua-li siano questi percorsi comuni e quali quelli divergenti, in modo da poterli auspicabilmente integrare nel percorso terapeutico del singolo paziente.

I primi studi di outcome research che hanno utilizzato tecniche di brain imaging su soggetti affetti da depressione maggiore sono stati condotti da Brody e colleghi (2001). Essi impiegarono la tecnica pet su 24 pazienti e 16 soggetti di controllo prima e dopo dodici setti-mane di trattamento con paroxetina (farmaco inibitore della ricapta-zione della serotonina all’interno della terminazione presinaptica), e terapia interpersonale (una terapia a breve termine spesso impiegata nei casi di depressione2). A seguito dei trattamenti, i soggetti affetti da depressione maggiore mostravano un’attivazione metabolica più simile a quella del gruppo di controllo nelle regioni cerebrali iden-

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15. disturbi affettivi: trattamenti a confronto per prospettive

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3. I soggetti trattati con paroxetina hanno avuto una diminuzione media maggiore nel punteggio della Hamilton Depression Rating Scale (61,4%) rispetto ai soggetti trattati con psicoterapia interpersonale (38,0%), ma entrambi i sottogruppi hanno mostrato variazioni metaboliche a livello della corteccia prefrontale, del giro del cingolo anteriore sinistro e del lobo temporale sinistro.

4. Dodici adulti affetti da depressione maggiore e 15 soggetti di controllo.5. Gli autori si riferiscono a tale riduzione utilizzando il termine “normalizza-

zione” (p. 153).

tificate come maggiormente coinvolte nei fenomeni depressivi (in generale, la corteccia prefrontale, il giro cingolato anteriore e il lobo temporale)3.

Un altro caso degno di nota è stato quello riportato da Dichter e colleghi (2009) incentrato su un sintomo particolare della depressio-ne, l’anedonia, ovvero l’incapacità di provare piacere, affrontato con una particolare psicoterapia, detta di attivazione comportamentale. Si tratta di una psicoterapia volta a ottenere rinforzi positivi dall’am-biente riducendo i comportamenti di evitamento del piacere. Nello studio in questione, grazie all’impiego di fmri, veniva valutata l’ef-ficacia della terapia somministrando ai partecipanti4 un compito che aveva le caratteristiche di un gioco d’azzardo. La riorganizzazione di quelle aeree cerebrali implicate nella risposta a stimoli piacevoli (giro paracingolato, corteccia orbitofrontale e caudato), che fu osserva-ta, venne interpretata come il miglioramento messo in campo dal paziente nel rispondere positivamente a stimoli piacevoli (Messina, Viviani, 2017, p. 236).

D’altro canto, trattamenti anche brevi con farmaci inibitori selet-tivi della ricaptazione della serotonina (ssri) portano di consueto a una riduzione della risposta dell’amigdala in pazienti con depressio-ne5 (Alexopoulos, Doering, 2014, p. 153). Dopo un ragionevole arco di tempo, anche gli effetti della psicoterapia cognitiva sembrano esse-re associati a una simile riduzione dell’attività dell’amigdala quando il paziente è posto, per esempio, di fronte a emozioni facciali negative. In concomitanza, però, è stato riscontrato un aumento dell’attività di quelle aree preposte al controllo della regolazione emotiva con effetti inibitori sulle aree limbiche (amigdala, ippocampo e insula in parti-colare).

Ancora una volta, dunque, il risultato neurobiologico dei due trat-tamenti sembra essere il medesimo: una riorganizzazione della risposta

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6. Con la terapia cognitivo-comportamentale i pazienti sono indotti a modifica-re credenze e interpretazioni negative per gli eventi attuali e passati e scenari futuri. La cbt include gestione dei sintomi e delle fonti di stress, desensibilizzazioni alle fonti di stress che procurano angoscia e spavento (Marano et al., 2012).

emotiva. Mentre la psicoterapia raggiungerebbe tale obiettivo attraver-so un controllo top-down dei vissuti emotivi, il farmaco agirebbe attra-verso un percorso bottom-up. Tuttavia, il meccanismo alla base di tale modello (chiamato in letteratura dual-process model ) è tutt’altro che lineare, e le più recenti metanalisi su ampi campioni di pazienti affetti da depressione maggiore hanno restituito un quadro molto più com-plesso e articolato (cfr. Marwood et al., 2018; Ma, 2015) che proveremo a sintetizzare.

15.4 Il ruolo della corteccia cingolata anteriore

Nel 2004, Kimberly Goldapple e colleghi misero a confronto i risultati neuroscientifici su pazienti trattati con antidepressivi (paroxetina) e terapia cognitiva comportamentale (cbt)6, notando che con quest’ul-tima non si otteneva un evidente incremento dell’attività metabolica a carico della corteccia prefrontale (dorsolaterale e ventromediale) come ci si sarebbe aspettato secondo il modello del processo duale. Nel grup-po di pazienti sotto trattamento cbt si riscontrò invece un incremento delle attività della corteccia cingolata anteriore, e nell’ippocampo, as-sociate a un decremento delle attività cortico-prefrontali. Nel gruppo di soggetti trattati con il farmaco si osservò una minore attività nell’ip-pocampo e nelle regioni paraippocampali, associata a un decremento dell’attività anche a carico della corteccia cingolata posteriore della se-zione ventrale della corteccia cingolata anteriore. Gli autori interpreta-rono questo dato ipotizzando che gli effetti positivi della terapia aves-sero ridotto il fenomeno della ruminazione (Yoshimura et al., 2013) e dell’iperprocessamento di informazioni socioambientali irrilevanti per il soggetto. L’incremento a livello della corteccia cingolata ante-riore, e in particolare della sezione dorsale, stava a significare, secon-do i ricercatori, una migliore regolazione delle informazioni emotive autoriferite. Goldapple e colleghi (2004) proposero così il modello di anticorrelazione (top-down e bottom-up) riferito ai percorsi di azione

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7. Comparando pazienti affetti da disturbi affettivi prima e dopo trattamenti psicoterapici, il modello terapeutico del processo duale prevede un cambiamento dell’attività a livello delle aree prefrontali. Tale cambiamento rifletterebbe proprio gli effetti positivi delle terapie psicologiche nell’incrementare la volontaria regola-zione emotiva. Tuttavia, la metanalisi di Messina e colleghi non ha mostrato un così evidente coinvolgimento della corteccia prefrontale dorsolaterale, area che in lettera-tura viene associata alla memoria di lavoro, all’attenzione esecutiva e alla regolazione volontaria delle emozioni.

delle differenti terapie, psicoterapiche e farmacologiche, sui networks cerebrali deputati alla regolazione emotiva. Le loro ricerche comincia-rono a mettere in discussione la rilevanza del ruolo svolto dalla cortec-cia prefrontale nel percorso di cura psicologica.

I risultati provenienti dalla metanalisi sui correlati neurali rela-tivamente alle psicoterapie nei disturbi affettivi compiuta dal team di Messina e colleghi (2013) evidenziano un cruciale coinvolgimento delle strutture mediane, ovvero della corteccia cingolata anteriore, deputata al processamento delle informazioni autoriferite, senza che fosse riscontrato un altrettanto diretto e marcato coinvolgimento della corteccia prefrontale dorsolaterale (dlpfc) (Messina et al., 2013, p. e74657)7.

Nella depressione maggiore è emerso sempre più chiaramente un rilevante interessamento della corteccia cingolata anteriore (acc), so-prattutto in termini della sua connettività con l’amigdala (Mayberg, 2003; Mayberg et al., 1997; Costafreda et al., 2013). Molto è da inda-gare sul ruolo giocato dalle componenti della corteccia cingolata ante-riore estremamente connesse sia alle aree di controllo della corteccia prefrontale, sia alle strutture limbiche più profonde. In particolare, la sezione subgenuale (o ventrale, vacc) ascrivibile all’area 25 di Broad-man (ba 25) mostra un notevole incremento metabolico con cam-biamenti di volume nei casi di depressione maggiore (Greicius et al., 2007; Lueken, Hahn, 2016). Nei pazienti che rispondono alle cure psi-cologiche e farmacologiche è stato riscontrato, infatti, un decremento dell’attività di tale area. Mayberg e colleghi (2005) riportano come, nei casi di resistenza ai trattamenti, l’utilizzo della stimolazione elettrica (deep brain stimulation) a carico dell’area ventrale del cingolato ante-riore (ba 25), si associ a una diminuzione di alcuni sintomi tipici della depressione, quali disordini del sonno, alimentari, sessuali, disfunzioni endocrine (ibid.).

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8. Un totale di 200 partecipanti adulti di età compresa tra i 18 e i 65 anni a con-fronto con 116 soggetti di controllo.

La corteccia cingolata anteriore  –  distinta nel cingolato da quel-la mediale (mcc) e posteriore (pcc) – è suddivisibile a sua volta in 3 sezioni in base a diversificate caratteristiche citoarchitettoniche e di connettività: una zona rostrale (racc) che vogliamo qui delimitare, seguendo Devinski e colleghi (1995), all’area di Brodmann 24 (ba 24 a-c) senza includere l’area ba 32, ascrivibile a una parte del paracin-golato, secondo quanto suggerito da Gallagher e Frith (2003). Bush e colleghi (2000) e Pizzagalli (2011), per esempio, comprendono nella sezione rostrale anche la ba32. Si tratta, comunque, di una zona di con-fine con la corteccia prefrontale, che riteniamo tuttavia di distinguere, con le dovute cautele del caso, dalla acc in senso stretto, proprio per il suo peculiare comportamento nel trattamento di alcune psicopato-logie. Oltre a racc, si annoverano la sezione dorsale (o pregenuale) (dacc), ascrivibile alla ba 24’ (a’-c’) contigua a ba 32’ e una sezione ventrale, o subgenuale (vacc) ascrivibile a ba 33 e ba 25, di cui abbia-mo già fatto cenno.

Devinski e colleghi (1995) proposero una macro suddivisione fun-zionale di acc che negli anni ha trovato riscontro (cfr. per esempio Bush et al., 2000, o il più recente Caruana et al., 2018). Le sezioni ro-strale e ventrale sarebbero deputate alla sfera più prettamente emotiva processando la salienza delle informazioni provenienti dalle contigue aree limbiche. La sezione dorsale, dacc, fortemente connessa alla cor-teccia prefrontale dorsolaterale e alla contigua sezione ba 32 del para-cingolato, regolerebbe funzioni cognitive connesse a informazioni di memoria esecutiva rispetto a compiti visuospaziali, attentivi, sequenze di apprendimento e così via (Bush et al., 2000).

Tra le più recenti metanalisi focalizzate solamente sugli effetti neurali delle psicoterapie ricordiamo quella effettuata da Marwood e colleghi (2018), che pone l’accento sul decremento dell’attività meta-bolica a carico di acc e dell’insula con un inatteso minor coinvolgi-mento di dlpfc, nonché la metanalisi compiuta dai gruppi di ricer-ca inglesi di Sankar e colleghi (2018). Ai fini del nostro discorso vale la pena soffermarsi brevemente sui risultati ottenuti da quest’ultimi. Il loro studio metaanalitico e di revisione sistematica qualitativa si è focalizzato solo sui casi di depressione maggiore8 trattati con le se-

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9. L’attivazione comportamentale è una psicoterapia basata sull’evidenza, limi-tata nel tempo e strutturata per il trattamento della depressione. Tale intervento mira ad aumentare i comportamenti che portano il paziente in contatto con i rinforzi am-bientali e mira a ridurre i comportamenti che precludono il contatto con il rinforzo positivo, tra cui l’inattività e l’evitamento.

10. Gli approcci psicodinamici, che discendono direttamente dalla psicoanalisi, interpretano il sintomo psicopatologico come manifestazione di un malessere ori-ginato da aspetti della personalità e vissuti autobiografici anche lontani nel tempo.

guenti terapie, cognitiva comportamentale, o terapia di attivazione comportamentale9, o terapia interpersonale o psicodinamica10, e che includevano varie tecniche di neuroimaging (fmri, pet, spect e ri-sonanza magnetica spettroscopica) prima dell’inizio di ogni terapia, durante gli interventi e dopo diversi periodi di trattamenti (tra le 16 e le 30 settimane per la terapia comportamentale, 11 settimane per la terapia di attivazione comportamentale, tra le 12 e le 16 settimane per la terapia interpersonale e fino a 15 mesi per terapia psicodinamica). Dalla revisione qualitativa è emerso, a seguito della terapia cognitiva, in condizione di resting state (cfr. cap. 7), un decremento dell’attivi-tà della corteccia prefrontale (sia la sezione ventromediale che quelle dorsolaterale e dorsomediale) (Goldapple et al., 2004; Kennedy et al., 2007). Analogo decremento delle aree prefrontali si è riscontrato an-che a seguito della terapia psicodinamica e di quella interpersonale. A livello della corteccia cingolata anteriore si è osservato un incremen-to dell’attività in particolare a carico della sezione dorsale e rostrale, sia in condizione di resting state sia in risposta a compiti visivi con va-lenza emotiva. Le aree interessate da questo incremento sono state la ba 24 e ba 32, quindi quell’area liminale del paracingolato. Invece, la sezione ventrale di acc sembra registrare un decremento dell’attivi-tà nella condizione di resting state, sia a seguito di terapia cognitivo comportamentale che di terapia psicodinamica (Kennedy et al., 2007; Bucheim et al., 2012). A livello dell’amigdala si è osservato un decre-mento dell’attività durante compiti di risposta a stimoli emotivi in tutte le terapie. Per quanto riguarda i risultati della metanalisi, gli au-tori enfatizzano un significativo incremento dell’attività della sezione rostrale della corteccia cingolata anteriore (ba 32) durante i compiti di risposta emotiva, soprattutto a seguito della terapia cognitiva com-portamentale, in linea con altri precedenti risultati (Fu et al., 2013; Pizzagalli, 2011). Tale incremento a carico di ba 32 sembra suggerire

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11. I criteri di selezione dei saggi selezionati per la metanalisi sono stati: origina-lità; coinvolgimenti di pazienti sottoposti a neuroimaging prima e dopo i trattamenti terapici in modo da compararne gli effetti; aver riportato le coordinate cerebrali in atlanti standard del cervello; avere un campione di pazienti adulti di età compresa tra i 18 e i 65 anni.

un indicatore importante dell’efficacia del trattamento clinico, anche perché associato a un ridotto rischio di ricaduta comparabile con trat-tamenti farmacologici di mantenimento (Sankar et al., 2018).

Per quanto riguarda, invece, il trattamento farmacologico della depressione, ci pare opportuno menzionare la poderosa metanalisi di Ma (2014), che ha preso in esame ben 60 studi per un totale di 1565 casi analizzati con il trattamento di antidepressivi. I dati emersi hanno messo in luce come, a seguito del trattamento farmacologico, i parte-cipanti mostravano un aumento dell’attività metabolica nei network cerebrali coinvolti nell’elaborazione emotiva (amigdala, talamo e cor-teccia cingolata anteriore) in risposta a stimoli emotivi positivi e una riduzione di tale attività in risposta a stimoli emotivi con valenza ne-gativa. Indipendentemente dalla valenza dello stimolo, in risposta sia a stimoli positivi sia negativi, gli antidepressivi sembrano portare a un incremento dell’attività del dlpfc.

15.4.1. la metanalisi di kalsi e colleghi (2017)

Dopo aver ricordato studi longitudinali che mettevano a confronto per lo più casi di trattamento psicologico o farmacologico, è oppor-tuno presentare più dettagliatamente la ricerca metanalitica realizza-ta da Kalsi e colleghi (2017) sulla base di studi pubblicati tra il 2000 e il 2016 e focalizzati sui trattamenti psicoterapici e farmacologici di soggetti affetti da disturbi di ansia e depressione11. Si hanno ormai a disposizione elaborati metodi metanalitici al fine di poter riassumere efficacemente le evidenze empiriche ottenute da diversi studi, riu-scendo a quantificare l’ampiezza dell’effetto degli interventi, ovvero a desumere quell’indice di incidenza terapeutica sulle manifestazioni sintomatiche del paziente che in letteratura viene definito effect size. La metanalisi, in questo caso, rappresenta la misurazione dell’effect size, da intendersi innanzitutto come misura indipendente dalla di-mensione dei campioni su cui viene calcolata, e indicante la differen-za tra gruppi di trattamento e gruppi di controllo, espressa in unità

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12. Grazie a calcoli statistici, un effect size pari 0,9 viene considerato senz’altro un effetto forte; mentre 0,5 rappresenta un punteggio medio e 0,2 un effetto poco significativo.

13. Per brevità, menzioniamo quella di Cuijpers et al. (2013) che ha preso in esa-me ben 40 studi incentrati sui casi di depressione e 27 focalizzati sui disturbi d’ansia. Il generale effect size riferito alla differenza tra psicoterapia e farmacoterapia dopo i trattamenti in tutte le terapie era statisticamente poco rilevante (g = 0,02). La far-macoterapia è risultata più efficace rispetto alla psicoterapia nei casi di distimia (g = 0,30), inversamente, la psicoterapia è risultata più efficace della farmacoterapia nel disturbo ossessivo-compulsivo (g = 0,64).

14. La metanalisi è stata condotta su studi pubblicati tra il 2000 e il 2016. Sono impiegati come termini della ricerca “imaging” “fmri”, “pet” e “spect” in combinazione con il nome del disturbo (ansia, fobie, panico, postraumatico da stress, depressione). Le variabili registrate per gli articoli nella metanalisi sono riferite alla dimensione del campione, sesso, età media dei partecipanti (adulti tra i 18 e i 65 anni).

di deviazioni standard (Messina, 2017, pp. 62, 64)12. Diverse sono state le metanalisi che hanno combinato ad ampio raggio trattamenti psicoterapici e farmacologici13. Nel caso specifico di Kalsi e colleghi (2017), è stato possibile prendere in esame un campione molto vasto di pazienti e comparare i loro correlati neurali pre e posttrattamento psicoterapico o farmacologico. La farmacoterapia comprendeva la famiglia degli antidepressivi; le psicoterapie prese in considerazione erano quelle psicodinamiche e quelle cognitivo-comportamentali. L’attività cerebrale tracciata negli esperimenti avveniva durante resting-state, o durante una stimolazione emotiva. Sono stati effet-tuati i seguenti confronti: a) cambiamenti pre e posttrattamento nelle attivazioni delle regioni cerebrali dovute alla psicoterapia; b) cambiamenti posttrattamento nelle attivazioni delle regioni cere-brali dovuti alla terapia antidepressiva; c) cambiamenti posttratta-mento nelle attivazioni di aree cerebrali dovute alla psicoterapia (che includevano trattamenti di tipo cognitivo e trattamenti dinamici) vs terapia antidepressiva. I test venivano effettuati sottoponendo i partecipanti a stimoli con forte valenza emotiva. Successivamente, sono stati eseguiti gli stessi confronti ma solo per gli studi focaliz-zati sui cambiamenti avvenuti in modalità resting state, registrando le fluttuazioni spontanee a bassa frequenza nel segnale bold (Lee et al., 2013). Gli effetti significativi per tutti i contrasti sono stati considerati in entrambe le direzioni, ovvero aumento e diminuzione dell’attività metabolica dopo il trattamento14.

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15.4.2. risultati dello studio di kalsi e colleghi

Confrontati i dati ottenuti dopo i singoli trattamenti con quelli ricavati prima degli interventi terapeutici, si è notato in generale, in tutti i pazienti, un decremento dell’attivazione del giro frontale inferiore destro, del giro frontale superiore bilaterale, del cingolato anteriore bilaterale, e della parte destra dell’insula (Kalsi et al., 2017, p. 4). Nei pazienti trattati con le psicoterapie è emerso un incremen-to dell’attivazione del giro paracingolato destro e del precuneo, e una diminuita attivazione della sezione destra dell’ippocampo, del giro paraippocampale destro, della parte destra dell’amigdala, dell’o-percolo rolandico destro, della sezione destra del putamen, del polo temporale destro, del giro temporale superiore destro, e della cortec-cia cingolata anteriore.

Le terapie farmacologiche a base di antidepressivi hanno incre-mentato l’attivazione di aree corticali quali il giro frontale destro mediano, mentre hanno indotto un decremento dell’attivazione dell’area motoria supplementare, del giro paracingolato e del nucleo caudato. Il dato più interessante è stato, come si evince da questa sintesi, l’opposto schema di attivazione del giro paracingolato de-stro a seconda del tipo di trattamento: se le psicoterapie indicano un incremento della sua attività, le farmacoterapie antidepressive ne mostrano invece una diminuita attività (ibid.). Cruciale, a questo punto, è stata la comparazione tra i due tipi di intervento sulla base di quegli studi condotti soltanto in resting state, affinché si potesse relativizzare l’effetto del compito somministrato nei test. Ebbene, la comparazione degli studi di neuroimaging condotti soltanto sulla base di attività di resting state ha confermato la maggiore attivazione del giro paracingolato destro a seguito di un intervento di psicotera-pia (Kalsi et al., 2017, p. 4).

15.4.3. particolarità del paracingolato da un punto di vista anatomico e funzionale

Il paracingolato mostra aspetti peculiari nell’evoluzione anatomica del nostro cervello. Secondo gli studi di Paus e colleghi (1996; Paus, 2001) grande è la variabilità anatomica tra persona e persona, e addirittura sembra che il solco paracingolato sia presente soltanto nel 30-50% de-gli individui. Il volume del solco paracingolato è maggiore nell’emi-

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sfero sinistro; tale asimmetria potrebbe essere correlata al coinvolgi-mento della regione paracingolata nel linguaggio (Paus, 2001, p. 417). Seppure possiamo ancora ritenere che la corteccia cingolata sia una tra le componenti più ancestrali del cervello umano, dobbiamo ricono-scere al contempo che lo sviluppo delle aree corticali prefrontali deve aver modificato, strutturalmente e funzionalmente, in tempi filogene-ticamente più recenti, la corteccia cingolata anteriore e quella cruciale area di confine tra acc e corteccia prefrontale. Nimchinsky e colle-ghi (1999) ritengono che la corteccia cingolata anteriore sia una delle componenti filogeneticamente più recenti, essendo presente soltanto negli esseri umani e nei bonobo (i primati più vicino agli ominidi) con le medesime caratteristiche citoarchitettoniche. In acc si nota-no, infatti, delle cellule neuronali fusiformi che nei primati non umani non sono state riscontrate con la stessa forma e densità, eccezion fat-ta, appunto, in grandi scimmie come i bonobo (cfr. anche Allman et al., 2001). L’evoluzione di acc e delle sue connessioni con le regioni limbiche da una parte e le varie sezioni della corteccia prefrontale, del solco temporale superiore (sts) e della giunzione temporo-parietale (tpj) ha condotto allo sviluppo del network su cui si fonda la cogni-zione sociale. Secondo Apps e colleghi (2016; cfr. anche Wittmann et al., 2018), la corteccia cingolata anteriore (con particolare riferimen-to all’area dorsale) giocherebbe un ruolo cruciale nell’elaborazione di comportamenti sociali, con particolare riferimento alla sfera della mo-tivazione propria e altrui al raggiungimento di scopi.

Tornando ai risultati sperimentali di Kalsi e colleghi (2017), per spiegare la contrapposizione dei valori a carico del paracingolato a seconda del tipo di trattamento, gli autori ipotizzano che le psico-terapie, inducendo un maggiore rivolgimento dell’attenzione del paziente verso i propri stati interni, conducano a un incremento dell’attività del paracingolato destro. Crediamo, allora, sulla base di quanto finora esposto, che il trattamento psicoterapico possa indur-re un riadattamento del processo di informazioni autoreferenziali, riorganizzando le relazioni tra il sistema di salienza delle informa-zioni e il sistema esecutivo (Menon, 2011). Le terapie psicologiche non possono, dunque, tradursi unicamente in un ferreo controllo cognitivo e una regolazione emotiva volontaria determinati mecca-nicisticamente da una lineare relazione tra regioni limbiche e pre-frontali, come vorrebbe il modello del dual process. D’accordo anche con quanto avanzato da Messina e colleghi (2016), e sottolineato an-

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che da Marwood e colleghi (2018), possiamo, invece, postulare che, attraverso l’attribuzione di nuovi significati, un’esperienza di psico-terapia possa fornire una implicita regolazione emotiva, coinvolgen-do quelle regioni cruciali responsabili di processi di elaborazione di informazioni autoriferite.

15.5 Conclusioni

Alcune riflessioni conclusive in merito alle future direzioni da intra-prendere. La durata dell’efficacia terapeutica è la nuova sfida della ricerca e della clinica: quanto e come possono essere resi stabili, a livello neurobiologico, i benefici delle terapie, per garantire un’effi-cacia duratura degli interventi nella vita dei pazienti? Molta è ancora la strada da percorrere affinché l’outcome research possa rispondere a questi interrogativi. Per tale motivo crediamo che uno dei fonda-mentali apporti delle neuroscienze alla psicopatologia clinica non può che risiedere nel potenziale predittivo che gli affinati metodi diagnostici, combinati con pluridecennali risultati di ricerche mira-te, possono mettere in campo per determinare tipologie e modalità di intervento specifiche a seconda della patologia e degli individui. Per fare solo un esempio, la ricerca di Petersen (2006) ha posto già l’attenzione sul fatto che l’aggiunta di una psicoterapia a un tratta-mento farmacologico in fase acuta di depressione non potenzia l’effi-cacia del farmaco. Invece, la combinazione dei due trattamenti nella fase di mantenimento non solo abbrevia la remissione dei sintomi, ma garantisce un’efficacia nel tempo.

In previsione di ulteriori indagini, crediamo importante fare te-soro di alcuni principi derivati dalla ormai consolidata tradizione psicopatologica. Ecco allora che, muniti di una sana cautela episte-mologica, all’utilizzo del concetto di “normalizzazione” – molto in voga negli studi neuroscientifici riportati nel presente saggio  –  ab-biamo preferito il termine “riorganizzazione”, riferendoci alle aeree cerebrali maggiormente compromesse dai disturbi affettivi. Il con-cetto di “normalizzazione” implica, infatti, una supposta normalità standardizzata di strutture e livelli di funzionalità cerebrale estesa e universale, valida per tutti gli individui, indipendentemente dal loro sviluppo ontogenetico e dalle loro esperienze, cui il malato “anorma-

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le” deve tendere e recuperare. Al contrario, non abbiamo voluto im-plicare questo astratto dato di partenza, del tutto abbandonato dalla odierna psicopatologia, che non classifica più il malato in termini di normalità contrapposta ad anormalità. Piuttosto, si vuole dare rilievo alle peculiarità del soggetto-paziente di cui le neuroscienze applicate alla psicopatologia devono, sempre più in futuro, prendersi carico (Panksepp, Solms, 2012; Northoff, 2011; Northoff et al., 2014; Solms, 2015).

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Nelle fasi di transizione scientifica, nelle quali si realizza un cambio di paradigma, rimangono coesistenti approcci diversi e, a volte, divergen-ti (Kuhn, 1962). Nell’ambito delle patologie del comportamento uma-no e delle sue cause, ad approcci più classici si è andato affiancando, con una prospettiva spesso totalitaria e sostitutiva, l’approccio delle neuroscienze cognitive, che riconduce al livello di spiegazione del fun-zionamento elettrochimico del cervello l’intero spettro della condotta umana. Ciò si traduce in protocolli terapeutici che sono principalmen-te orientati a ripristinare un alterato equilibrio dei neurotrasmettitori. In questo breve contributo, si vuole mettere a fuoco la contrapposi-zione tra un monismo esplicativo e un approccio multifattoriale, che si declina tipicamente nella psicoterapia. Si tratta, come è noto, di un tema amplissimamente trattato, senza un approdo a oggi definitivo.

Un modo per esemplificare la contrapposizione su un terreno forse meno esplorato è quello dell’agire morale dentro la condizione patolo-gica. Esso, oltre agli ovvi aspetti teorici e clinici, ha anche forti e imme-diate ricadute pragmatiche a livello sociale e di politiche criminali. Se, infatti, prevale l’approccio neurologico ad (almeno alcuni) disturbi del comportamento, ne discende che il soggetto è vittima della sua pato-logia e ha scarse, se non nulle, possibilità di agire su di essa, all’infuori della terapia farmacologica (o strumentale, che al giorno d’oggi si de-clina in varie forme di elettrostimolazione). Il livello esplicativo delle intenzioni (che qui equipareremo al mentale), pur meno libere a causa della psicopatologia, viene scavalcato a favore dei meccanismi di base.

L’esempio dei disturbi dell’attaccamento e delle loro ricadute com-portamentali disfunzionali può essere paradigmatico nell’argomenta-re a favore di un approccio multilivello che consideri il mentale come un aspetto relazionale della soggettività e della motivazione al com-

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Disturbi dell’attaccamento e agire morale

di Silvia Inglese e Andrea Lavazza

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portamento. Tale aspetto può avere una sua autonomia esplicativa e costituire un livello di azione terapeutica diverso rispetto all’agire sul versante neurologico. In questo senso la dimensione cognitiva della psicopatologia si colloca a un livello intermedio, che non nega quello di base della morfologia e della funzionalità cerebrale, ma rivendica un suo spazio che non sembra essere comprimibile, se non a prezzo di una perdita di capacità di intervento terapeutico.

Ciò non significa che non si diano condizioni patologiche in cui la compromissione oggettiva di strutture o di meccanismi del sistema nervoso centrale (o anche di altre componenti fisiologiche che sem-brano avere influenze rilevanti, come il microbiota) impedisce di agi-re efficacemente sul livello mentale. In quei casi, si può ipotizzare che un intervento di ripristino, tramite interventi terapeutici di carattere neurologico, permetta di riportare il soggetto alla capacità di riflettere sulla propria condizione, di rientrare in uno spazio delle ragioni, pur alterato dalla psicopatologia, in cui possa lavorare, guidato da un tera-peuta, sulle sue intenzioni e motivazioni per quanto riguarda l’agire morale.

16.1 L’agire morale e la sua genesi

Sono ormai noti gli esperimenti di filosofia sperimentale che mirano a cogliere le intuizioni non raffinate della maggioranza delle persone, al fine di poterne parlare in modo informato (non soltanto presup-ponendo quello che in genere la gente pensa) e di confrontarle con la riflessione filosofica più approfondita. Una di queste rilevazioni in-tercetta alcuni dei temi che saranno qui rilevanti. In media, se a un gruppo di volontari si racconta prima la storia di un imprenditore che ordina ai suoi manager di ottenere il maggiore profitto possibile con una strategia che segue la tendenza attuale del mercato, cioè la sensi-bilità ecologica, e in tal modo migliora l’ambiente; e poi la storia di un imprenditore che ordina ai suoi manager di rispettare l’ambiente prima di cercare il maggiore profitto possibile in un mercato che è co-munque sensibile ai temi ecologici, e in tal modo migliora l’ambiente, la maggioranza dei partecipanti all’esperimento esprimerà apprezza-mento per il primo imprenditore e biasimo per il secondo. Anche se il risultato che producono è lo stesso ed è positivo.

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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Si può discutere della coerenza di queste valutazioni. Ciò che qui interessa è che il risultato indica come l’azione morale sia composta, anche per l’attore morale non filosoficamente istruito, da un’intenzio-ne e da un comportamento, che può o meno raggiungere il suo scopo. Il diritto penale incorpora queste intuizioni in modo esplicito e meno contraddittorio. Prevede infatti che vi sia un comportamento che viola la legge perché la macchina della giustizia possa mettersi in moto, ma distingue e richiede anche un’intenzione che l’individuo deve avere avuta ben consapevole. Se ferisco il vicino di casa perché mi è partito un colpo mentre pulivo la pistola, non si tratta di tentato omicidio. E se rompo un prezioso vaso cinese che stava sul tavolino del neurologo che provava i miei riflessi colpendomi il ginocchio con un martelletto, non sono soggetto a un’azione penale né a una civile. Sono certamente stato io a provocare materialmente il danno, eppure questa non è ma-teria per il diritto perché il mio corpo si è mosso per un puro riflesso, senza la mia partecipazione cosciente a indirizzare quel movimento.

Anche la filosofia morale distingue tra ciò che è un’azione da ciò che è un semplice movimento corporeo che provoca conseguenze non direttamente volute dal soggetto (De Caro, 2008). E ciò ci riporta al tema, complesso e dai confini sfumati, che vogliamo qui trattare. Le azioni morali sono quelle che hanno la doppia componente di inten-zione cosciente ed esplicita (almeno in linea di principio, vedremo più avanti la specificazione rispetto a ciò che si può definire abitudine e automatismo) e di comportamento. In prima istanza e in senso genera-le, la qualificazione di moralità o immoralità riguarda l’essere le azioni in oggetto obbligate, permesse o vietate, secondo intuizioni o sistemi etici più o meno condivisi, rispetto ai quali può esservi dissenso più o meno esteso. E tali intuizioni o sistemi si giustificano in modi diversi, dovendo in genere rispettare almeno i criteri di razionalità, coerenza e generalizzabilità.

La cognizione sembra quindi parte integrante dell’azione morale e del nesso intenzione-comportamento, sia come elemento di sostegno primario all’azione sia come processo che conduce alla formazione di un’intenzione, al giudizio su di essa (può nascere in noi un’intenzione come nasce un pensiero, ma possiamo assecondarla, mutarla o repri-merla) e alla sua messa in atto.

La psicopatologia, nell’accezione più ampia, può interferire con la sfera dell’agire morale del soggetto. Il punto controverso riguarda il ruolo della cognizione, che ci ha fatto parlare in precedenza di tema

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psicopatologia e scienze della mente

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complesso e dai confini sfumati, per due ordini di ragioni presenti nel dibattito contemporaneo. Il primo riguarda le basi dell’agire morale, che una linea influente di ricerca tenta di riportare alla biologia e alla storia evolutiva della nostra specie, con il risultato di dare la prevalen-za ad atti di natura emozionale rispetto al ragionamento. Il secondo concerne la stessa impostazione dello studio dei disturbi del compor-tamento, con un progressivo annullarsi (di fatto e negli auspici di molti scienziati) della separazione tra psichiatria e neurologia.

Un esempio dell’approccio neurobiologico è quello di Patricia Churchland (2011; 2019), secondo la quale la moralità trae origine dalla configurazione del nostro cervello per come si è evoluto secondo la se-lezione naturale per ottimizzare le nostre capacità di vivere in gruppo:

La verità sembra essere che i valori radicati nel circuito del prendersi cura – del proprio benessere, di quello della prole, dei compagni, dei familiari e di al-tri – plasmano il ragionamento sociale in molte occasioni: risoluzioni di con-flitto, pacificazione, difesa, commercio, distribuzione di risorse e molti altri aspetti della vita sociale in tutta la sua vasta ricchezza. Questi valori e la loro base materiale non solo vincolano la soluzione di problemi in ambito sociale, ma essi sono allo stesso tempo fatti che forniscono sostanza al processo di sco-perta di cosa fare – fatti come quelli per cui i nostri bambini sono importanti per noi, abbiamo cura del loro benessere e abbiamo a cuore il nostro clan. A proposito di tali valori, alcune soluzioni sono meglio di altre, come dato di fatto; in relazione a tali valori, la linea di condotta pratica nel prendere le decisioni può essere negoziata (Churchland, 2011, trad. it. 2012, p. 21).

La stessa nascita della coscienza morale si regge sulla spiegazione evo-luzionistica, secondo la quale il sistema di ormoni ossitocina-vasopres-sina-arginina, che modula i comportamenti di accoppiamento e di protezione materna, nei mammiferi si sarebbe progressivamente svi-luppato ed esteso per successivi adattamenti, con lo scopo di favorire la vita sociale, fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo della specie Homo sapiens.

In questa prospettiva, sono più fondamentali i valori delle regole, perché i primi sono il frutto dei meccanismi che producono il gioco delle emozioni e delle risposte comportamentali, mentre le seconde possono essere esplicitate in un secondo tempo o rimanere assenti. Così la compassione empatica potrebbe essere un’estensione del senso di forte disagio e malessere che nasce nei mammiferi quando i piccoli stanno male o vengono separati dai genitori e quando piangono oppure

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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si lamentano. Se, come sostiene Churchland, negli esseri umani il cer-chio della cura materna si è allargato per estendersi a compagni, paren-ti e vicini (sempre sulla base della biochimica cerebrale appropriata), allora ciò non richiederebbe uno speciale meccanismo di simulazione per immaginare e valutare ciò che accade o potrà accadere agli altri. La conferma starebbe anche nel fatto che, in genere, la sofferenza della prole ci muove assai più della sofferenza di estranei al nostro gruppo.

Anche se non sappiamo come la coscienza morale, che è conside-rata un’interiorizzazione delle regole del gruppo, venga realizzata nel cervello e come sia plasmata dalla selezione naturale, secondo Chur-chland possiamo comunque essere fiduciosi che siano i meccanismi neurobiologici di base a dettare il passo della nostra vita morale. La patologia è allora qualcosa che ha a che fare con l’alterazione di proces-si basilari, anche se Churchland non sottovaluta il ruolo che ambiente e cultura esercitano costantemente. Ciò che sembra escluso è il livello del mentale, inteso come un livello cognitivo, pur implementato dalla base cerebrale, che ha un suo spazio di autonomia e di specifica analisi epistemica e clinica.

Si lega strettamente a questa visione l’approccio autorevolmente descritto da Eric Kandel, secondo cui «gli psichiatri ora vedono la no-stra mente come una serie di funzioni svolte dal cervello, e vedono tutti i disturbi mentali, sia psichiatrici sia da dipendenza, come disturbi ce-rebrali» (Kandel, 2018, trad. it. p. 36). Si considera che a questo quadro abbiano contribuito principalmente alcuni avanzamenti scientifici. Il primo è stato la scoperta dell’almeno parziale ereditarietà dei disturbi psichiatrici e quindi il ruolo della genetica nello spiegare tali patologie, legandole alla loro natura biologica. In secondo luogo, le neuroimma-gini e l’azione fine di nuove molecole in ambito farmacologico hanno permesso di mostrare come i diversi disturbi psichiatrici coinvolgano circuiti cerebrali distinti e come agire su tali circuiti possa modificare la condizione del paziente e i suoi comportamenti manifesti. Infine, l’utilizzo di modelli animali ha consentito di effettuare esperimenti controllati, agendo su geni, ambiente e la loro interazione, al fine di comprendere il modo in cui le modificazioni di un elemento possono influenzare sviluppo cerebrale, apprendimento e comportamento. E ciò non solo a proposito di quelli che erano diagnosticati come danni neurologici, ma anche per patologie quali la depressione.

Alla luce di quanto detto finora, gli esempi recenti più noti dell’in-fluenza della psicopatologia sull’agire morale sono legati a quelli che

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psicopatologia e scienze della mente

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un tempo si sarebbero detti danni neurologici. Il caso ampiamente citato di Phineas Gage, l’operaio delle ferrovie americane la cui per-sonalità – si dice – cambiò radicalmente dopo che una barra di ferro ebbe trafitto il suo cranio danneggiando la corteccia prefrontale ven-tromediale e la corteccia orbitofrontale, fa dire allo stesso Kandel che si tratta della prima indicazione dell’esistenza di un legame tra funzio-ni morali e cervello (2018, trad. it. p. 223). Probabilmente, si tratta di un’iperbole, dato che la storia di Gage risale al 1845 ma è stata resa nota dal gruppo di Antonio Damasio 25 anni fa (1994). Ma ciò che rileva per noi, in questa sede, è la conclusione che Kandel trae anche sulla base degli esperimenti circa il dilemma del carrello condotti da Joshua Greene (2013):

Questa ricerca rivela i modi sorprendenti in cui i nostri giudizi morali sono modellati dalle nostre emozioni inconsce […], corrobora la teoria che diversi tipi di moralità sono incorporati in diversi sistemi cerebrali (quello intuiti-vo e deontologico e quello razionale conseguenzialista, NdA) […]. Normal-mente nelle persone queste moralità sono in competizione fra loro, ma nelle persone con il tipo di danni cerebrali di Gage un sistema è stato eliminato e l’altro è rimasto intatto (Kandel, 2018, trad. it. pp. 227-8).

Ma questo ci deve condurre ad affermare che alterazioni dell’agire mo-rale in ambito patologico siano mediate soltanto da danni cerebrali che influenzano i meccanismi cerebrali emozionali? La situazione, come detto, sembra più complessa. La cognizione ha un ruolo nell’a-gire morale, e a essa ci possiamo appellare quando consideriamo gli aspetti normativi dell’etica, cioè quello che le persone dovrebbero fare.

Si può allora provare a mostrare come una psicopatologia “classica” possa costituire un interessante caso di studio del legame tra cognizio-ne alterata e comportamento morale, senza scendere immediatamente al livello dei meccanismi cerebrali di base.

16.2 L’attaccamento come caso esemplare

Come è noto, in psicologia, l’attaccamento rappresenta un sistema complesso e dinamico di comportamenti ed emozioni che concorro-no alla definizione di un legame specifico fra due persone. La teoria

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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dell’attaccamento fu sviluppata da John Bowlby focalizzandosi princi-palmente su un punto di vista evolutivo (cfr. cap. 12). Bowlby studiò le basi profonde del vincolo tra il bambino nei suoi primi anni di vita e la figura di accudimento (in genere, la madre) assumendolo come mo-dello di tutte le relazioni intime che egli sperimenterà una volta adulto.

Il sistema dell’attaccamento può costituire un esempio paradigma-tico per il discorso che vogliamo qui sviluppare, perché con tutta evi-denza può coinvolgere l’agire morale in una dimensione patologica, ma non sembra, almeno per ora, riducibile a una lettura esclusivamen-te neurologica, sia nella sua eziologia sia negli approcci terapeutici più efficaci.

È utile introdurre subito una distinzione tra tre concetti simili tra loro che costituiscono la teoria sviluppata da Bowlby: attaccamento, comportamento di attaccamento e sistema dei comportamenti di attaccamento.

“Attaccamento” si riferisce al tipo di attaccamento sviluppato dal soggetto, che può essere sicuro o insicuro. Avere un attaccamento si-curo significa sentirsi protetti, mentre avere un attaccamento insicu-ro comporta verso la figura di accudimento un insieme di emozioni coesistenti e contrastanti, quali amore, dipendenza, paura del rifiuto, vigilanza, irritabilità.

Il “comportamento di attaccamento” è definito da Bowlby (1969) come ogni forma di comportamento che appare in una persona che riesce a ottenere o a mantenere la vicinanza a un individuo preferito. In tal sen-so, il comportamento viene attivato da una situazione di separazione dalla figura primaria, o dalla semplice minaccia, e viene spento con il ritorno della figura stessa.

Infine, con “sistema dei comportamenti di attaccamento” si indi-ca la modalità con la quale il bambino, e poi l’adulto, si mantiene in relazione con la sua figura di attaccamento, facendo ricorso ai propri modelli operativi interni (moi), ossia l’insieme di schemi di rappre-sentazione interna di sé e della figura di attaccamento. L’attaccamento e il comportamento di attaccamento si basano, quindi, sul sistema dei comportamenti di attaccamento. Per Bowlby, infatti, il legame tra il bambino e la madre è il prodotto dell’attività di diversi sistemi di com-portamento, costantemente attivi con il fine di mantenere una vicinan-za tra lui e la madre.

In questa prospettiva, sono le primissime esperienze di attacca-mento che determinano la capacità futura del soggetto di individuarsi

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psicopatologia e scienze della mente

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e influenzano lo sviluppo della sua personalità. Un attaccamento sano sperimentato nell’infanzia permette la creazione, in primis, di una buona autostima che poggia sul ritenersi degni di essere amati, ma an-che della capacità di stare in relazione intima con l’altro pur mante-nendo la propria autonomia (ne è un esempio il bambino che resta sufficientemente tranquillo quando la mamma si allontana perché ha maturato in sé l’esperienza che ella tornerà). Al contrario, un attac-camento non sano potrà dare origine a modalità relazionali adulte rigide in cui bisogno di vicinanza e bisogno di autonomia non sono in equilibrio: potrà prevalere il bisogno di essere indipendenti sul bi-sogno di intimità oppure si sacrificherà la propria autonomia in nome del legame.

Gli studi sull’attaccamento (Ainsworth, Bowlby, 1965; Ainsworth et al., 1978) classificano i comportamenti osservati nei bambini in quattro stili di attaccamento (sicuro, ansioso-evitante, ansioso-am-bivalente, disorganizzato-disorientato), ciascuno caratterizzato da specifici comportamenti del bambino e del caregiver e da determina-ti moi che, come detto, guidano la rappresentazione di sé e dell’altro nella relazione di attaccamento, organizzano percezioni, pensieri e ri-cordi e guidano i futuri comportamenti di attaccamento nelle relazio-ni adulte.

Gli studi e le osservazioni che hanno esaminato direttamente il le-game tra stili di attaccamento ed eventuale sviluppo di una patologia psicologica o psichiatrica nell’età adulta (Rosenstein, Horowitz, 1996; Dozier et al., 2008) mostrano l’esistenza di un possibile legame diretto tra stili di attaccamento e presenza di disturbi della personalità o altre forme di disagio psicologico. Storie infantili di gravi abusi e depriva-zioni affettive possono dunque essere rilette anche attraverso la teoria dell’attaccamento che può dare una spiegazione dell’instaurarsi in età adulta di un ampio spettro di problemi psicologici o di disturbi di per-sonalità.

In questo senso sono indicativi i primi studi di Bowlby fatti su bambini che avevano trascorso in sanatorio un periodo da 5 a 24 mesi (senza una sostituzione per le cure materne) quando avevano meno di 4 anni. I bambini (all’epoca dell’osservazione di età compresa tra 7 e 13 anni) erano più violenti della media, mostravano meno spirito di iniziativa, erano più eccitabili, ma meno competitivi di quelli che avevano avuto un’infanzia a contatto con la madre. La deprivazione materna, secondo Bowlby, può persino produrre “una psicopatia anaf-

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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fettiva”: una condizione psichiatrica che rende le persone insensibili agli altri e incapaci di costruire relazioni personali. Bowlby ha anche scoperto un’aumentata incidenza di reati e comportamenti antisociali tra coloro che avevano sofferto di separazione materna, privazione o perdita.

Dunque, per acquisire una buona regolazione delle emozioni (Fo-nagy et al., 2000) il bambino deve sviluppare la capacità di mentaliz-zazione, ossia deve essere in grado di riflettere sui propri stati men-tali e su quelli degli altri. Tale capacità si sviluppa se il bambino ha sperimentato una  relazione di attaccamento sicuro, mentre in caso di attaccamento insicuro, e in particolare nell’attaccamento disorga-nizzato, la capacità di mentalizzazione risulta spesso compromessa. Quando la figura di attaccamento non è in grado di prendersi cura del bambino perché non risponde in modo idoneo ai suoi bisogni, il bambino non potrà sperimentare il rispecchiamento emotivo (Win-nicott, 1965) e da adulto non riuscirà a sviluppare il processo di rego-lazione delle emozioni.

Un attaccamento insicuro (ansioso-evitante, ansioso-ambivalente o disorganizzato) non necessariamente determina lo sviluppo di pro-blemi psicologici, ma diventa un fattore di rischio che tali problema-tiche si verifichino (Fonagy et al., 1996; Rosenstein, Horowitz, 1996; Atkinson, Zucker, 1997; Zeanah et al., 1997). A supporto di un model-lo di sviluppo della psicopatologia influenzato anche dalle esperienze relazionali con le figure di cura parentale, possiamo citare lo studio di Rosenstein e Horowitz (1996) su 60 adolescenti ospedalizzati in trattamento psichiatrico. Sono stati rilevati gli stili di attaccamento dei soggetti e delle coppie adolescente-madre. In 27 coppie è stato osser-vato uno stile di attaccamento insicuro. In particolare, gli adolescenti con uno stile di attaccamento ansioso-evitante avevano più probabi-lità di fare abuso di sostanze, di sviluppare un disturbo di personalità narcisistico o antisociale o tratti di personalità narcisistica, antisocia-le e paranoide. Mentre gli adolescenti con uno stile di attaccamento ansioso-ambivalente avevano più probabilità di sviluppare un disturbo dell’umore, un disturbo di personalità ossessivo-compulsivo, istrioni-co, borderline o schizotipico e tratti di personalità evitanti, ansiosi e distimici.

In particolare, in ambito psicopatologico, uno stile di attaccamento insicuro sembra poter influenzare lo sviluppo di: disturbi dell’umore, in primis la depressione (Krystal et al., 1998; Shuchter, Downs, Zisook,

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psicopatologia e scienze della mente

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1996); bassa autostima, scarsa fiducia in sé e negli altri; dipendenza o al contrario autosufficienza compulsiva e distacco (Bowlby, 1979; Par-kes, Stevenson-Hinde, Marris, 1991); disturbi d’ansia, in particolare il disturbo di panico (Bowlby, 1979; Liotti, 1991; Main, Hesse, 1992); in-capacità di gestire adeguatamente un lutto in età adulta (Parkes, 1991), disturbi somatoformi; disturbi della sfera sessuale quando la percezio-ne delle sensazioni e delle emozioni è stata ripetutamente associata a condizioni di vulnerabilità e di pericolo; disturbi dell’alimentazione (Rodin, de Groot, Spivak, 1998).

Nell’ambito della strutturazione della personalità, è possibile iden-tificare all’interno dei disturbi di personalità (apa, 2013) le caratteri-stiche e gli esiti di specifici stili di attaccamento patologico. Il distur-bo schizotipico di personalità, per esempio, è caratterizzato da una compromissione della capacità di stabilire relazioni sociali e affettive, eccentricità nella cognizione, nella percezione e nel comportamento. Il soggetto ha una immagine di sé distorta e obiettivi personali inco-erenti, oltre a sospettosità e ridotta capacità di espressione emotiva. Secondo la teoria dell’attaccamento, l’origine del disturbo schizoti-pico è associata a una figura di attaccamento nell’infanzia trascuran-te, incompetente, incapace di empatizzare con i bisogni profondi del bambino e genera uno stile di attaccamento di tipo ansioso-evitante. L’individuo, infatti, per difendersi dall’esperienza angosciante del ri-fiuto in un’esperienza emotiva, diventa freddo e distaccato, preferendo la solitudine, l’isolamento e attività ripetitive e abitudinarie.

I disturbi antisociale, borderline e narcisistico sono tre disturbi di personalità che hanno in comune l’incapacità di operare un controllo emotivo e l’uso dell’emotività come modalità espressiva e relaziona-le. In particolare, il disturbo di personalità antisociale è caratterizzato dall’incapacità a conformarsi al comportamento sancito dalla legge ed etico e da un’insensibile mancanza di preoccupazione per gli altri, ac-compagnata da falsità, irresponsabilità, manipolatorietà e/o tendenza a correre rischi. Il tratto che accomuna questi tre disturbi di personalità è la presenza nell’infanzia di una figura di attaccamento incapace di contenere emotivamente il bambino, di funzionare da regolatore del controllo (per fragilità o mancanza di volontà) e di stabilire limiti e confini e che genera lo sviluppo di uno stile di attaccamento ansioso-ambivalente. Il bambino, non avendo esperito la funzione di controllo del caregiver, ha reazioni di panico, confusione, rabbia o senso di on-nipotenza.

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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16.3 Attaccamento disfunzionale, comportamento e cura

La genesi nell’ambito della teoria dell’attaccamento di questi distur-bi del comportamento – che hanno un’implicazione anche per l’agire morale patologico, ossia non specificamente orientato a colpire l’altro, ma sostanzialmente disfunzionale per il soggetto e il suo prossimo in violazione delle norme comuni  –  si iscrive quindi in una cornice di relazioni che sembrano vincolare anche la terapia a un intervento che ripristini quelle capacità cognitive ed emotive che nella psicopatologia sono state compromesse.

Fino agli anni Novanta del secolo scorso i disturbi di personalità venivano considerati una condizione grave e sostanzialmente incu-rabile (Sperry, 1995). Negli ultimi venti anni, invece, la concettualiz-zazione dei disturbi di personalità è diventata più articolata e ricca. Oggi, infatti, la tendenza è quella di concettualizzarli consideran-do non solo gli aspetti caratteriali e di personalità, ma anche quelli temperamentali. Con temperamento, si intende l’influenza genetica e costituzionale esercitata sulla personalità, mentre con carattere si fa riferimento all’influenza appresa tramite il processo di socializ-zazione.

In passato era quasi esclusivamente la psicoanalisi classica a trat-tare i disturbi di personalità e la finalità era prevalentemente quella di modificare il carattere adottando un approccio passivo ed esplo-rativo da parte del terapeuta e con l’utilizzo dell’interpretazione. Oggi i trattamenti sono più strutturati e i terapeuti assumono un ruolo molto più attivo. Oltre a terapie di stampo psicodinamico, come per esempio l’approccio basato sulle relazioni oggettuali (Clarkin, Yeomans, Kernberg, 2011) o il trattamento basato sulla mentalizzazione (Bateman, Fonagy, 2004), per alcuni aspetti secon-dari dei disturbi di personalità si sono dimostrate efficaci la terapia cognitiva, la terapia interpersonale e, solo in alcuni casi, le terapie dinamiche di gruppo. La terapia cognitiva, in particolare, risulta funzionale nelle prime fasi di una terapia per il controllo della sin-tomatologia spesso associata a un disturbo di personalità come gli aspetti depressivi o ansiosi.

A differenza del passato, scopo dei trattamenti di stampo psicodi-namico non deve essere necessariamente l’interpretazione, molto dif-

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psicopatologia e scienze della mente

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ficile per pazienti con un esame di realtà spesso molto precario e con una motivazione molto bassa se non inesistente. Sono molto pochi, infatti, i soggetti che autonomamente richiedono un aiuto psicotera-peutico. In generale, essi arrivano a un trattamento su sollecitazione dell’ambiente. Il primo obiettivo del terapeuta deve essere pertanto la creazione di un’alleanza, base necessaria per il proseguimento del trat-tamento.

Si prende come esempio il disturbo schizotipico. Esso è caratteriz-zato da una compromissione della capacità di stabilire relazioni sociali e affettive. L’esame di realtà è più o meno conservato, con presenza di difficoltà nelle relazioni interpersonali e lievi disturbi del pensiero. La difesa principale è costituita dall’isolamento. Infatti, il bambino che inizialmente percepisce la madre come rifiutante può ritirarsi dal mon-do. Ma il suo bisogno della madre permane e diventa sempre più forte. Tuttavia, per paura di divorare la madre con il suo bisogno di affetto, preferisce non interagire per non distruggerla. Tali pazienti tendono perciò a isolarsi e a vivere ai margini della società, in quanto la loro caratteristica specifica è il loro apparente non essere in relazione con gli altri.

Il lavoro psicoanalitico indica che questi pazienti nutrono senza dubbio sentimenti e passioni verso il loro prossimo, ma sono congelati sul piano evolutivo a un precoce stadio di relazione (Lawner, 1985). Rimangono isolati nella convinzione che il loro fallimento nel riceve-re ciò di cui avevano bisogno dalle loro madri implichi che essi non possono in alcun modo tentare di ricevere altro da figure significative incontrate in età adulta.

I pazienti schizotipici possono trarre beneficio da una psicote-rapia individuale di tipo supportivo, da una psicoterapia dinamica di gruppo o da una combinazione delle due (Stone, 2014). Il mec-canismo dell’azione terapeutica si basa sull’introiezione di una re-lazione terapeutica piuttosto che sull’interpretazione del conflitto (Gabbard, 2004).

E il compito del terapeuta è quello di sciogliere le relazioni ogget-tuali interne congelate del paziente fornendogli una nuova esperienza di relazione. Un compito non facile e dal successo per nulla assicurato. Ma si tratta di un livello terapeutico che, se pur prende sul serio anche gli aspetti temperamentali, non rinuncia alla cura della parola intesa come ristrutturazione del vissuto e delle relazioni, con la partecipazio-ne intenzionale e mentalistica del paziente.

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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16.4 Due approcci all’agire morale patologico

Nella patologia si può distinguere un comportamento moralmente ri-levante, definibile immorale o amorale, ma non criminale e non preda-torio, dal fatto che esso si ritorce almeno in parte contro chi lo mette in atto, perché non è malizioso come quello del sano, anche se spesso danneggia gli altri. Il caso di Gage per come è descritto da Damasio è esemplificativo perché mette in luce il fatto che nel cervello umano esi-stono sistemi deputati al ragionamento e in particolare alle dimensioni personali e sociali del ragionamento (Damasio, 1994, trad. it. 1995, pp. 40-1). Un danno cerebrale può comportare la fine dell’osservanza di regole etiche e di convenzioni sociali acquisite in precedenza. E ciò avviene anche nel caso non vi sia una lesione alle regioni deputate al linguaggio o ad altri aspetti della cognizione.

Secondo la descrizione del suo medico Harlow e nella ricostruzione posteriore di Damasio, Phineas Gage non teneva più conto dell’etica e nello stesso tempo del suo stesso interesse. Non aveva preoccupazione per il proprio futuro né per il benessere degli altri. La domanda è allo-ra se l’incidente nel caso del ferroviere, o altre modificazioni cerebrali patologiche in pazienti dagli stessi esiti comportamentali, causino un cambiamento dei valori che ispirano la condotta o se i valori preceden-temente fatti propri non siano più disponibili al soggetto. La risposta di Damasio è che parte dei valori rimane e che può essere ancora richia-mata per una valutazione in astratto, ma abbia perso «i legami con le circostanze della vita reale».

L’implicazione è così sintetizzata da Ehrenberg:

I tratti normali distrutti dalla patologia non producono i sintomi dell’uomo colpevole trascinato inconsciamente entro conflitti tra ciò che è lecito e ciò che è proibito, ma piuttosto quelli di un soggetto pratico nel senso in cui il suo cervello, essendo malato, associa irrazionalmente mezzi in vista di fini e falli-sce sistematicamente l’azione agendo contro il proprio interesse. Tale soggetto mette in gioco il nostro concetto di autoregolazione (2018, trad. it. pp. 25-6).

Infatti, lo stesso Damasio trae la conclusione in cui ci siamo già im-battuti: «La distinzione tra malattie del “cervello” e della “mente”, tra disturbi “neurologici” e disturbi “psicologici” o “psichiatrici” è una ma-laugurata eredità culturale» (Damasio, 1994, trad. it. 1995, p. 79).

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psicopatologia e scienze della mente

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Questa eredità culturale, che ingloba, si deve presumere, gran parte della psicologia precedente le neuroscienze cognitive,

riflette un’ignoranza radicale della relazione tra cervello e mente. I disturbi del cervello sono visti come tragedie inflitte a individui che non possono es-sere biasimati per la loro condizione, mente quelli mentale, specie se influi-scono sulla condotta e sulle emozioni, sono visti come disagi sociali dei quali chi ne soffre deve in buona misura rispondere (ibid.).

In questo senso è pertinente il richiamo all’ipotesi estensiva richiamata da Ehrenberg, all’interno della quale anche psicopatia e sociopatia, ca-ratterizzate da disprezzo per le regole morali o sociali, irresponsabilità e assenza di rimorso, possono «essere associate a lesioni nelle regioni prefrontali» (Anderson et al., 1999).

Se Damasio coglie nel segno circa un dualismo mente e cervello in vecchio stile cartesiano, ciò che invece sembra perdere la linea monista cui nei brani citati dà autorevolmente voce (anche se nel complesso la sua opera risulta assai più sfumata) è la capacità di cogliere e di agire sul livello intermedio tra cervello e comportamento. Si tratta dell’ele-mento intenzionale, che storicamente è stato identificato con la mente. La teoria dell’attaccamento sembra dirci proprio questo. Non tutti i disturbi manifesti della condotta hanno origine in una lesione focale cerebrale o in uno sbilanciamento dell’equilibrio tra neuromodulatori. Esperienze di relazione diadica o sociale hanno un impatto emotivo, simbolico e culturale, certamente basati e incarnati nel substrato ce-rebrale, ma non necessariamente localizzati in un’area trattabile lo-calmente a livello neurologico, come può accadere per alcuni tipi di lesioni.

C’è un’intenzione consapevole su cui si può agire, anche se forse non completamente libera, nella psicopatologia, mentre siamo di fron-te a un’intenzione senza alternative nel disturbo neurologico, dove la possibilità di intervenire con un lavoro sulla cognizione (nella forma della psicoterapia) sembra perdersi per la stessa natura del deficit, tem-poraneo o permanente, da cui si è colpiti.

Da questa prospettiva, si può ipotizzare certamente che vi siano situazioni in cui la patologia di mente/cervello agisce sul compor-tamento morale e sia necessario un doppio percorso per riportare il soggetto dentro uno “spazio delle ragioni”, in cui il comportamento morale risponda a motivazioni coerenti (quale ne sia l’esito) e non sia

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16. disturbi dell’attaccamento e agire morale

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amorale nel senso visto precedentemente di condotta che danneggia sia gli altri sia il soggetto, poiché quest’ultimo ha perso il controllo del sistema intenzione-comportamento sia dal punto di vista cognitivo sia dal punto di vista emotivo.

Se nel disturbo di attaccamento ci si muove prevalentemente, se non esclusivamente, al livello intermedio di cui abbiamo detto, pos-sono esservi situazioni in cui la psicopatologia è aggravata da aspetti neurologici sui quali è necessario intervenire con strumenti pertinenti. Siano gravi attacchi esplosivi d’ira o dipendenze da sostanze, si pos-sono somministrare neurolettici o sostanze come il Disulfiram che diminuiscono l’assunzione di alcol per ottenere una remissione par-ziale e consentire al soggetto di entrare nel territorio della risposta alle ragioni, cioè nell’ambito di una cognizione morale in cui l’intenzione può essere modulata con la partecipazione attiva del soggetto stesso. Cosa che accade nella psicoterapia, ma non si verifica nel trattamento farmacologico.

16.5 Conclusione: una via mediana

Negare radicalmente gli approcci che tendono a naturalizzare l’agire morale sarebbe un’impresa antiscientifica velleitaria e di scarsa uti-lità anche per il benessere dei pazienti colpiti da una psicopatologia che modifica il loro comportamento. Un approccio che riconnette in modo plausibile la teoria dell’attaccamento con una visione che non sia esclusivamente social-relazionale e culturalista è quello che prende sul serio l’evoluzione, senza farne tuttavia l’unico criterio esplicativo.

Come abbiamo visto nell’ipotesi di Patricia Churchland, l’agire morale sorge come espansione dei comportamenti di cura e accudi-mento madre-figlio a una cerchia sempre più ampia. Semplificando molto, il meccanismo di selezione che agisce è legato all’efficienza dei legami di gruppo, i quali permettono di migliorare la fitness comples-siva, aumentando le prestazioni generali a favore dei singoli individui.

Si tratta di una ricostruzione che trova oggi molti altri sostenito-ri (per esempio Tomasello, 2000). Si può quindi pensare che anche i meccanismi di attaccamento si siano andati formando sulla base di una selezione durante il processo evolutivo nel mondo animale, arrivando a essere specifico nell’Homo sapiens per una serie di circostanze concor-

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psicopatologia e scienze della mente

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renti che caratterizzano l’essere umano, a partire dalla lunga fase in cui ha bisogno di nutrimento e protezione.

Ciò significa che le modalità di attaccamento hanno una radice biologica e un ambiente di riferimento preciso. Non si può quindi prescindere dai mutamenti radicali che sono avvenuti in società in cui anche l’infanzia è vissuta non più in una savana piena di pericoli ma in contesti artificiali ricchi di artefatti e recentemente di schermi digitali. Come tendenze innate a ingerire la massima quantità possibile di cibi calorici – sviluppatesi nel contesto evolutivo originario povero di ri-sorse facilmente raggiungibili – continuano a manifestarsi in individui che hanno invece a portata di mano grandi quantità di prodotti appeti-bili e si rivelano profondamente disfunzionali, così non si può ignorare la base evolutiva dei meccanismi dell’attaccamento in nuovi ambienti sociali e relazionali.

In questo senso, gli aspetti mentali e intenzionali che abbiamo evi-denziato, in particolare nell’ambito dell’attaccamento disfunzionale, come eccedenti il livello della spiegazione e della terapia neurologica non possono prescindere da un’equilibrata considerazione dello sguar-do naturalizzato sulla psicopatologia, i disturbi comportamentali che si riflettono sull’agire morale e sulla modalità di cura che per essi sono più adeguati. Gli aspetti evoluzionistici che sottendono ai meccanismi di attaccamento sono la base su cui elementi mentalistici e intenzionali possono manifestarsi in una ricchezza di esiti di cui la sola analisi neu-rologica non sembra poter dare conto. Ma ogni rigido schematismo di interpretazione e spiegazione della psicopatologia rischia di portarci in un vicolo cieco. Tanto più grave quando è in gioco l’agire morale.

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Una diagnosi di attaccamento disfunzionale e una psicoterapia conseguente possono essere sia euristicamente sia esistenzialmente molto più efficaci di strumenti di analisi e di cura a livello neurologico. La via mediana è allora proprio questa: la consapevolezza che oggi è ancora utile una pluralità di approcci, giustificati da una obiettiva valutazione scientifica di ciò che sappiamo e di ciò che possiamo fare realmente.
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Linea
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massi
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miriam aiello ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia presso l’Università Roma Tre e collabora con l’insegnamento di filosofia teo-retica presso la medesima università. Si occupa degli aspetti filosofici ed epistemologici della teoria sociale di Pierre Bourdieu, dell’epistemologia della psicologia sociale e, in particolare, di temi quali l’identità persona-le, l’autoinganno e la confabulazione nelle scienze sociali e psicologiche, con specifico riferimento alle tradizioni filosofico-psicologiche di critica all’introspezione.

aurora alegiani ha conseguito la laurea magistrale in filosofia presso l’Università Roma Tre con una tesi dal titolo The modularity of mind and the flexibility of thought. I suoi interessi vertono su temi all’intersezione della filosofia della psichiatria e la filosofia della mente: da un lato, il paradigma della psichiatria computazionale; dall’altro lato, le potenzialità esplicative e chiarificatrici che tale paradigma può avere in merito alla complessa e dibat-tuta nozione di computazione.

m. cristina amoretti è ricercatrice presso l’Università degli Studi di Ge-nova e vicedirettrice del centro interuniversitario PhilHeaD, Philosophy of Health and Disease. Negli anni ha svolto periodi di ricerca presso la Univer-sity of Malta, il King’s College, London, la Ruhr-Universität Bochum e la Technische Universität München. Le sue principali linee di ricerca riguarda-no la filosofia della scienza, in particolare la filosofia della medicina e della psichiatria. Per i tipi di Carocci ha pubblicato Filosofia e medicina. Pensare la salute e la malattia (2015).

massimiliano aragona, psichiatra, psicoterapeuta e filosofo, lavora come psichiatra nel Sistema Sanitario Nazionale. I temi di ricerca di cui si occupa includono l’epistemologia della diagnosi in psichiatria, la filosofia della psi-copatologia, la psicopatologia fenomenologica ed ermeneutica, la psicopato-

Gli autori

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logia delle migrazioni e dei disturbi dell’alimentazione. Dirige la rivista open access «Dialogues in Philosophy, Mental and Neuro Sciences».

raffaella campaner è professore associato di filosofia della scienza pres-so il Dipartimento di filosofia e comunicazione dell’Università di Bologna. I suoi temi di ricerca includono le teorie contemporanee della causalità, le concezioni della spiegazione scientifica, e l’elaborazione di modelli, con par-ticolare riferimento alla filosofia della medicina e della psichiatria. Tra i vo-lumi pubblicati, Philosophy of Medicine: Causality, Evidence and Explanation (2012) e La spiegazione scientifica (con M. C. Galavotti, 2012).

stefano canali è ricercatore del laboratorio interdisciplinare della SISSA, responsabile del settore di neuroetica e insegna storia delle scienze della men-te e del cervello presso l’Università Roma Tre. È coordinatore del comitato scientifico della Società Italiana Tossicodipendenze; cofondatore della So-cietà Italiana di Neuroetica e Filosofia delle neuroscienze; condirettore della collana MeFiSto - Medicina, Filosofia e Storia per i tipi della ets, Pisa; editor delle riviste Medicina & Storia e Medicina delle Dipendenze. Ha scritto circa cento lavori fra articoli e monografie sulla storia delle neuroscienze e la filoso-fia delle scienze mediche, in particolare sul tema delle dipendenze.

rossella guerini ha conseguito una laurea in psicologia a indirizzo neu-ropsicologico presso Sapienza Università di Roma, un dottorato in scienze cognitive presso l’Università di Trento e una specializzazione in psicoterapia presso l’Associazione di Psicologia Cognitiva, Roma. Lavora privatamente in qualità di psicologa clinica e forense e collabora in qualità di consulente tec-nico con il tribunale ordinario di Tivoli. È collaboratrice di ricerca e cultrice della materia presso l’Università Roma Tre. I suoi interessi in ambito di ricer-ca vertono principalmente sui temi legati alla teoria della mente, l’identità personale, l’autocontrollo e i processi decisionali.

silvia inglese è psicoterapeuta a orientamento psicodinamico e neuropsico-loga presso l’Ospedale Policlinico di Milano. Suoi principali campi di interesse sono la diagnosi precoce di deterioramento cognitivo, lo studio dei correlati anatomo-funzionali delle funzioni cognitive e il sostegno psicologico alle fami-glie dei malati di demenza. È autrice di articoli scientifici in ambito psicologico e neuropsicologico su riviste nazionali e internazionali. Con Andrea Lavazza ha scritto Manipolare la memoria (Mondadori Università, 2013).

carlo lai è specializzato in psicologia clinica presso la Facoltà di psicolo-gia della Sapienza Università di Roma, dottore di ricerca in ricerche e meto-

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Mariaflavia Cascelli ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia presso l'Università Roma Tre, collaborando con l'insegnamento di filosofia della mente. I suoi interessi di ricerca vertono soprattutto sulla fenomenologia e l'ontogenesi dell'autocoscienza, con particolare attenzione per l'identità personale alla luce della psicologia dello sviluppo, delle teorie della percezione ecologica e delle scienze cognitive dell'azione.
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dologie avanzate in psicoterapia presso l’Istituto di psichiatria e psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. È attualmente professore associato in psicologia clinica, responsabile del laboratorio di psicologia clini-ca e coordinatore del dottorato di ricerca presso il Dipartimento di psicologia dinamica e clinica della Sapienza Università di Roma. Le attuali ricerche si occupano dell’esito clinico e neurobiologico degli interventi psicologici.

elisabetta lalumera è ricercatrice di Filosofia del linguaggio e dal 2006 lavora presso il Dipartimento di psicologia dell’Università di Milano-Bicoc-ca, dove insegna filosofia della scienza. La sua ricerca verte su problemi con-cettuali e metodologici della medicina, e in particolare i suoi progetti correnti vertono sulla nosologia psichiatrica e sull’imaging diagnostico. Si è occupata di filosofia della psicologia e delle scienze cognitive, soprattutto della natura dei concetti e del rapporto tra pensiero e lingua. Su questi temi, in italiano, è autrice dei volumi Che cos’è il relativismo cognitivo (Carocci, 2013), Cosa sono i concetti (Roma-Bari, 2009), Pensare (con A. Coliva) (Carocci, 2006).

andrea lavazza è senior research fellow al Centro universitario interna-zionale di Arezzo. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla neuroetica, alla confluenza tra scienze cognitive, filosofia morale e filosofia della mente. Ha pubblicato oltre 60 articoli in riviste scientifiche italiane e internaziona-li. Tra i suoi libri, Siamo davvero liberi? (curato insieme a M. De Caro e G. Sartori, Codice, 2019); Filosofia della mente (La Scuola, 2015); Manipolare la memoria (con S. Inglese, Mondadori Università, 2013).

emiliano loria ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia della men-te presso il Consorzio fino (Università di Genova) con una tesi dedicata alla revisione della teoria della pedagogia naturale, in cui propone un’architettura della mente infantile che coniuga precoci abilità mentalistiche con capacità di apprendimento sociale (Per una revisione della teoria della pedagogia na-turale, in “Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia”, 2017; Learning Through Others, di prossima pubblicazione per i tipi dell’Accademia Univer-sity Press). Si occupa di filosofia e storia della psichiatria, con particolare ri-ferimento all’ospedale psichiatrico di Roma, città in cui svolge anche attività di archivista-bibliotecario.

luca malatesti è professore associato di Filosofia presso il Dipartimento di filosofia della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Fiume (Rije-ka), Croazia. Si occupa di filosofia delle mente e filosofia della psichiatria. Tre le sue pubblicazioni: Psychopathy and Responsibility: Interfacing Philosophy Law and Psychiatry (curato insieme a J. McMillan, Oxford University Press,

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2010); The Knowledge Argument and Phenomenal Concepts (Cambridge Scholars, 2012); Neuropsychology and the Criminal Responsibility of Psycho-paths: Reconsidering the Evidence (con M. Jurjako), in “Erkenntnis”, 2017; The Moral Bioenhancement of Psychopaths (con E. Baccarini), in “Journal of medi-cal ethics”, 2017.

massimo marraffa ha ricevuto la sua formazione in filosofia e in psico-logia presso la Sapienza Università di Roma. Allievo dello psichiatra Gio-vanni Jervis, ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia all’Università Roma Tre, dove ora insegna filosofia della mente e filosofia della psichiatria. È iscritto all’ordine degli psicologi del Lazio. Da anni impegnato a riflettere sui fondamenti teorici delle scienze psicologiche e sull’interazione fra psico-patologia e scienze cognitive, le sue pubblicazioni più recenti comprendono: L’identità personale (con C. Meini, Carocci, 2016), The Self and its Defenses (con M. Di Francesco e A. Paternoster, Palgrave-Macmillan, 2017) e Filosofia della mente. Corpo, coscienza, pensiero (con M. Di Francesco e A. Tomasetta, Carocci, 2017).

cristina meini insegna filosofia della mente e filosofia della comunicazio-ne all’Università del Piemonte Orientale. Si occupa con uno sguardo mul-tidisciplinare di natura, sviluppo e patologia della mentalizzazione, con un interesse particolare per la conoscenza della propria mente. Questo percorso la porta a guardare alle emozioni, e più in generale alla dimensione motiva-zionale, come elemento centrale del processo, non secondario rispetto alla dimensione cognitiva. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni italiane e in-ternazionali. L’ultima monografia è L’identità personale (con M. Marraffa, Carocci, 2016).

gaia romana pellicano è psicologa clinica e dottoranda di ricerca pres-so il Dipartimento di psicologia dinamica e clinica della Sapienza Università di Roma. I suoi studi si focalizzano su un approccio multidisciplinare allo studio della psicologia clinica, con particolare attenzione all’epigenetica del comportamento. È autrice di diverse pubblicazioni su riviste scientifiche in-ternazionali.

valentina questa ha conseguito le lauree in filosofia e in neuroscienze cognitive e riabilitazione psicologica presso Sapienza Università di Roma. È iscritta all’ordine degli psicologi del Lazio. Frequenta il dottorato di ricerca in filosofia gestito congiuntamente dall’Università Roma Tre e l’Università di Roma “Tor Vergata”. Collabora agli insegnamenti di filosofia della mente e filosofia della psichiatria presso l’Università Roma Tre. I suoi attuali interes-

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gli autori

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si di ricerca vertono sulla questione della naturalizzazione della soggettività nella cornice della teoria evoluzionistica, del neosentimentalismo etico e del-la tradizione psicodinamica.

elisabetta sirgiovanni è ricercatrice di tipo A presso Sapienza Univer-sità di Roma. Dottore di ricerca in Scienze Cognitive, con formazione in filosofia della scienza, è stata assegnista presso il Consiglio Nazionale della Ricerche, Fulbright Research Scholar presso la New York University (usa), cnr-Short Term Mobility Scholar presso la City University of New York (usa) e Honorary Research Associate presso l’Università di Birmingham (uk). È socio fondatore e membro del Consiglio Direttivo della Società di Scienze Umane in Medicina (sisuMed). È autrice di Tutta colpa del cervello: un’introduzione alla neuroetica (con G. Corbellini, Mondadori 2013), insi-gnito del Premio per la Divulgazione Scientifica e del Premio per la Cultura “Mario Tiengo” nel 2014.

riccardo williams, psicologo clinico, è allievo dell’Istituto Nazionale di Training della Società Psicoanalitica Italiana, ricercatore presso il Dipar-timento di psicologia dinamica e clinica della Sapienza Università di Roma e quivi docente di psicologia dinamica presso il corso in psicopatologia dina-mica dello sviluppo. Autore di pubblicazioni nazionali e internazionali sui temi dello sviluppo della patologia di personalità nel ciclo di vita, e ai proces-si motivazionali e di rappresentazione inconscia che operano la trascrizione dell’esperienza traumatica nello sviluppo delle organizzazioni patologiche della personalità.

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