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LA POTESTÀ DI GOVERNO ( 129— 135) LA POTESTÀ ESECUTIVA ( 136— 144) Can. 129 § 1. Sono abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell’ordine sacro, a norma delle disposizioni del diritto. § 2. Nell’esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto. Can. 130 La potestà di governo di per sé è esercitata nel foro esterno, talora tuttavia nel solo foro interno, in modo tale però che gli effetti che il suo esercizio ha originariamente nel foro esterno, in questo foro non vengano riconosciuti, se non in quanto ciò è stabilito dal diritto per casi determinati. Can. 131 § 1. La potestà di governo ordinaria è quella che dallo stesso diritto è annessa a un ufficio; la potestà delegata, quella che è concessa alla persona stessa, non mediante l’ufficio. § 2. La potestà di governo ordinaria può essere sia propria sia vicaria. § 3. A chi si asserisce delegato, incombe l’onere di provare la delega. Can. 132 § 1. Le facoltà abituali vengono rette dalle disposizioni sulla potestà delegata. § 2. Purtuttavia se nella sua concessione non è disposto espressamente altro o non è stata scelta l’abilità specifica della persona, la facoltà abituale concessa all’Ordinario non è annullata venendo meno il diritto dell’Ordinario cui fu concessa, sebbene egli stesso abbia iniziato a eseguirla, ma passa a qualsiasi Ordinario che gli succede nel governo. Can. 133 § 1. Il delegato, che oltrepassa i limiti del suo mandato sia circa le cose sia circa le persone, agisce invalidamente. § 2. Non si reputa che il delegato oltrepassi i limiti del suo mandato se compie ciò per cui fu delegato in modo diverso da quello determinato dal mandato, a meno che il modo non sia stato imposto per la validità dallo stesso delegante. Can. 134 § 1. Col nome di Ordinario nel diritto s’intendono, oltre il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani e gli altri che, anche se soltanto interinalmente, sono preposti a una Chiesa particolare o a una comunità ad essa equiparata a norma del can. 368; inoltre coloro che nelle medesime godono di potestà esecutiva ordinaria generale, vale a dire i Vicari generali ed episcopali; e parimenti, per i propri membri, i Superiori maggiori degli istituti religiosi di diritto pontificio clericali e delle società di vita apostolica di diritto pontificio clericali, che possiedono almeno potestà esecutiva ordinaria. § 2. Col nome di Ordinario del luogo s’intendono tutti quelli recensiti nel § 1, eccetto i Superiori degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica. § 3. Quanto viene attribuito nominatamente al Vescovo diocesano nell’àmbito della potestà esecutiva, s’intende competere solamente al Vescovo diocesano e agli altri a lui stesso equiparati nel can. 381, § 2, esclusi il Vicario generale ed episcopale, se non per mandato speciale. Can. 135 § 1. La potestà di governo si distingue in legislativa, esecutiva e giudiziale. § 2. La potestà legislativa è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, e quella di cui gode nella Chiesa il legislatore al di sotto dell’autorità suprema, non può essere validamente delegata, se non è disposto esplicitamente altro dal diritto; da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore.

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LA POTESTÀ DI GOVERNO  ( 129— 135)

LA POTESTÀ ESECUTIVA  ( 136— 144)

Can. 129§ 1. Sono abili alla potestà di governo, che propriamente è nella Chiesa per istituzione divina e viene denominata

anche potestà di giurisdizione, coloro che sono insigniti dell’ordine sacro, a norma delle disposizioni del diritto.§ 2. Nell’esercizio della medesima potestà, i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto.

Can. 130La potestà di governo di per sé è esercitata nel foro esterno, talora tuttavia nel solo foro interno, in modo tale però

che gli effetti che il suo esercizio ha originariamente nel foro esterno, in questo foro non vengano riconosciuti, se non in quanto ciò è stabilito dal diritto per casi determinati.

Can. 131§ 1. La potestà di governo ordinaria è quella che dallo stesso diritto è annessa a un ufficio; la potestà delegata,

quella che è concessa alla persona stessa, non mediante l’ufficio.§ 2. La potestà di governo ordinaria può essere sia propria sia vicaria.§ 3. A chi si asserisce delegato, incombe l’onere di provare la delega.

Can. 132§ 1. Le facoltà abituali vengono rette dalle disposizioni sulla potestà delegata.§ 2. Purtuttavia se nella sua concessione non è disposto espressamente altro o non è stata scelta l’abilità specifica

della persona, la facoltà abituale concessa all’Ordinario non è annullata venendo meno il diritto dell’Ordinario cui fu concessa, sebbene egli stesso abbia iniziato a eseguirla, ma passa a qualsiasi Ordinario che gli succede nel governo.

Can. 133§ 1. Il delegato, che oltrepassa i limiti del suo mandato sia circa le cose sia circa le persone, agisce invalidamente.§ 2. Non si reputa che il delegato oltrepassi i limiti del suo mandato se compie ciò per cui fu delegato in modo diverso

da quello determinato dal mandato, a meno che il modo non sia stato imposto per la validità dallo stesso delegante.

Can. 134§ 1. Col nome di Ordinario nel diritto s’intendono, oltre il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani e gli altri che,

anche se soltanto interinalmente, sono preposti a una Chiesa particolare o a una comunità ad essa equiparata a norma del can. 368; inoltre coloro che nelle medesime godono di potestà esecutiva ordinaria generale, vale a dire i Vicari generali ed episcopali; e parimenti, per i propri membri, i Superiori maggiori degli istituti religiosi di diritto pontificio clericali e delle società di vita apostolica di diritto pontificio clericali, che possiedono almeno potestà esecutiva ordinaria.

§ 2. Col nome di Ordinario del luogo s’intendono tutti quelli recensiti nel § 1, eccetto i Superiori degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica.

§ 3. Quanto viene attribuito nominatamente al Vescovo diocesano nell’àmbito della potestà esecutiva, s’intende competere solamente al Vescovo diocesano e agli altri a lui stesso equiparati nel can. 381, § 2, esclusi il Vicario generale ed episcopale, se non per mandato speciale.

Can. 135§ 1. La potestà di governo si distingue in legislativa, esecutiva e giudiziale.§ 2. La potestà legislativa è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, e quella di cui gode nella Chiesa il

legislatore al di sotto dell’autorità suprema, non può essere validamente delegata, se non è disposto esplicitamente altro dal diritto; da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore.

§ 3. La potestà giudiziale, di cui godono i giudici e i collegi giudiziari, è da esercitarsi nel modo stabilito dal diritto, e non può essere delegata, se non per eseguire gli atti preparatori di un qualsiasi decreto o sentenza.

§ 4. Per ciò che concerne l’esercizio della potestà esecutiva, si osservino le disposizioni dei canoni che seguono.Can. 136

Pur stando fuori del territorio, la potestà esecutiva si può esercitare validamente verso i sudditi, benché assenti dal territorio, a meno che non consti altro dalla natura della cosa o dal disposto del diritto; la si può esercitare verso i forestieri che si trovano attualmente nel territorio, se si tratta di concedere favori o di mandare ad esecuzione sia le leggi universali sia le leggi particolari, alle quali gli stessi sono tenuti a norma del can. 13, § 2, n. 2.

Can. 137§ 1. La potestà esecutiva ordinaria può essere delegata sia per un atto sia per un insieme di casi, a meno che non sia

disposto espressamente altro dal diritto.§ 2. La potestà esecutiva delegata dalla Sede Apostolica può essere suddelegata sia per un atto sia per un insieme di

casi, a meno che non sia stata scelta l’abilità specifica della persona o non sia stata espressamente proibita la suddelega.

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§ 3. La potestà esecutiva delegata da un’altra autorità che ha potestà ordinaria, se è stata delegata per un insieme di casi, può essere suddelegata soltanto in casi singoli; se invece è stata delegata per un atto o per atti determinati, non può essere suddelegata, se non per espressa concessione del delegante.

§ 4. Nessuna potestà suddelegata può essere nuovamente suddelegata, se ciò non fu concesso espressamente da parte del delegante.

Can. 138La potestà esecutiva ordinaria come pure la potestà delegata per un insieme di casi, è da interpretarsi in senso largo,

qualsiasi altra invece in senso stretto; tuttavia a chi è stata delegata la potestà, s’intendono concesse anche quelle facoltà senza le quali la medesima potestà non può essere esercitata.

Can. 139§ 1. Se non è stabilito altro dal diritto, per il fatto che uno si rivolga a qualche autorità competente, anche superiore,

non si sospende la potestà esecutiva dell’altra autorità competente, sia essa ordinaria oppure delegata.§ 2. Tuttavia l’inferiore non s’intrometta nella questione deferita all’autorità superiore, se non per causa grave e

urgente; nel qual caso avverta immediatamente il superiore della cosa.

Can. 140§ 1. Qualora siano stati delegati parecchi a trattare in solido lo stesso affare, chi per primo abbia iniziato a svolgere

l’affare esclude gli altri dal trattarlo, a meno che in seguito non sia stato impedito o non abbia voluto procedere ulteriormente nel condurlo a termine.

§ 2. Qualora siano stati delegati parecchi collegialmente a trattare un affare, tutti devono procedere a norma del can. 119, a meno che non sia stato disposto altro nel mandato.

§ 3. La potestà esecutiva delegata a parecchi, si presume delegata ai medesimi in solido.

Can. 141Qualora siano stati delegati parecchi successivamente, sbrighi l’affare colui, il cui mandato è anteriore, né fu poi

revocato.

Can. 142§ 1. La potestà delegata si estingue compiuto il mandato; trascorso il tempo o esaurito il numero dei casi per i quali

fu concessa; cessando la causa finale della delega; per revoca del delegante intimata direttamente al delegato come pure per rinuncia del delegato fatta conoscere al delegante e da lui accettata; non si estingue invece venendo meno il diritto del delegante, eccetto che ciò non appaia dalle clausole apposte.

§ 2. Tuttavia l’atto, proveniente da potestà delegata che si esercita nel solo foro interno, posto per inavvertenza dopo la scadenza del tempo di concessione, è valido.

Can. 143§ 1. La potestà ordinaria si estingue con la perdita dell’ufficio cui è annessa.§ 2. Se non sia disposto altro dal diritto, la potestà ordinaria è sospesa, qualora si appelli legittimamente o

s’interponga un ricorso contro la privazione o la rimozione dall’ufficio.

Can. 144§ 1. Nell’errore comune di fatto o di diritto, e parimenti nel dubbio positivo e probabile sia di diritto sia di fatto, la

Chiesa supplisce, tanto nel foro esterno quanto interno, la potestà di governo esecutiva.§ 2. La stessa norma si applica alle facoltà di cui ai cann. 882, 883, 966, e 1111, § 1.

1.  La missione e i poteri della Chiesa1)  La Chiesa continuazione del CristoLa Chiesa è essenzialmente legata al Cristo, suo Fondatore divino e Capo. Ne estende la presenza nel tempo e nello spazio, e

ne continua nel mondo la missione di salvezza.La Chiesa è, in un certo senso, l’Incarnazione continuata del Cristo. È il Cristo prolungato e comunicato (Bossuet). Le sue

funzioni e i suoi poteri non si differenziano da quelli del Cristo stesso: ne sono la diretta espressione e partecipazione.2)  La triplice essenziale funzioneNel grande Discorso della Cena, Gesù, annunziando agli Apostoli il suo prossimo distacco, afferma solennemente: “Io sono

la Via, la Verità e la Vita” (Gv. 14, 6). In questa dichiarazione del Cristo sono delineate le tre fondamentali funzioni della Chiesa.

Cristo è la Verità, e la Chiesa ha il compito di portare al mondo il suo messaggio di salvezza.Cristo è la Vita, e la Chiesa ha la missione di trasmettere la grazia attraverso i sacramenti.Cristo è la Via, e la Chiesa ha la missione di guidare il Popolo di Dio nel cammino verso la Patria celeste.Sono questi i tre compiti essenziali della Chiesa, detti tradizionalmente potestà o poteri(potestates): di magistero, d’ordine e

di governo. La classica distinzione figura anche nell’attuale Codice, che tuttavia, parlando unitariamente dei tre poteri, usa di preferenza il termine munus (funzione, ufficio, servizio): munera docendi, sanctificandi et regendi (cfr. 375, § 2; 519; 1008, ecc.). È la terminologia adoperata dal Concilio Vaticano II, che, con la parola “munus” ha inteso mettere in evidenza il

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carattere di “servizio” proprio della “potestà ecclesiastica”, conferita da Cristo agli Apostoli e ai loro successori (Lc. 22, 24—27). In effetti la potestà non è direttamente nella Chiesa una “dignità” o un “onore”, ma è essenzialmente un “servizio”, che si presta a Dio e ai fratelli.

I tre poteri o funzioni affidati alla Chiesa, rispondono ai tre aspetti messianici del Cristo stesso: il Cristo Maestro: munus docendi; Pontefice: munus sanctificandi; Pastore: munus pascendi (cfr. Costituzione Lumen Gentium, n. 21, 2).

1. La funzione d’insegnare costituisce l’oggetto proprio del III libro del Codice( 747— 833). La funzione di santificare, l’oggetto proprio del IV libro ( 834— 1253). La funzione di governo non ha un libro proprio, ma di essa, possiamo dire, tratta il Codice in ogni suo titolo e capitolo. Le norme del presente titolo sono inserite nel I libro per il loro carattere generale: si applicano infatti a tutto il diritto della Chiesa (Communicationes, a. 1977, p. 234, tit. V, 1° cpv).

3)  L’unità della potestà ecclesiasticaNella teologia e nel diritto, le tre funzioni della Chiesa sono affermate distintamente, con una propria configurazione e un

proprio contenuto specifico. Ma esse sono intimamente connesse fra di loro, sì da costituire in effetti un’unica sacra potestà, come unica è la potestà del Cristo, che ne è la fonte divina e umana, e unica è l’opera di salvezza, che essa è chiamata ad attuare fra gli uomini.

Sotto questo aspetto unitario, la potestà della Chiesa può essere denominata sacramentale, perché, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, come Cristo è con la sua umanità il grande sacramento di Dio, così la Chiesa, è a sua volta, il grande sacramento di Cristo: sacramento universale di salvezza.

4)  Chierici e laiciLa triplice funzione della Chiesa, fondata sulla potestà e sulla missione del Cristo, non appartiene solo ai ministri sacri,

divenuti tali mediante il sacramento dell’Ordine, ma a tutti i cristiani, in forza del battesimo, che li incorpora a Cristo stesso, costituendoli sue “membra” vive e rendendoli partecipi del suo triplice ufficio sacerdotale, profetico e regale ( 204, § 1). Ovviamente la partecipazione è diversa, ma reale, in rapporti d’intima connessione, poiché la Chiesa è una “comunione gerarchica” (Decr. Presbyterorum Ordinis, n. 15, 2; cfr. anche 336 e 375, § 2).

1°  Il sacerdozio dei fedeli è un sacerdozio comune ( 836), che differisceessenzialmente e non solo di grado dal sacerdozio ministeriale o gerarchico, conferito dall’ordinazione, che sola dà il potere di compiere il sacrificio eucaristico e di rimettere i peccati ( 900, § 1; 965).Ma “l’uno è ordinato all’altro, e tutt’e due sono una partecipazione vera e reale, anche se diversificata, dell’unico Sacerdozio di Cristo” (Lumen Gentium, n. 10, 2).

Il sacerdozio comune o di base dei fedeli si attua con l’esercizio delle virtù cristiane e del culto ( 836), con la partecipazione attiva alle celebrazioni liturgiche, soprattutto a quella eucaristica ( 835, § 4), con la pratica dell’operosa carità (Lumen Gentium, n. 10, 2).

2°  La funzione magisteriale in forma ufficiale e autentica spetta esclusivamente al RomanoPontefice e ai Vescovi, successori degli Apostoli ( 749, §§ 1—2; 753; 756), coadiuvati dai Presbiteri e dai Diaconi ( 757). I fedeli laici vi partecipano in virtù del battesimo e della confermazione, con la testimonianza di una vita integralmente cristiana, e anche con l’apostolato diretto della “parola”, specialmente quando sono chiamati a collaborare con i ministri sacri in tale ministero ( 759), che ha come scopo precipuo la diffusione del messaggio evangelico ( 756— 759).

3°  La funzione pastorale di governo appartiene di diritto ai soli chierici, insignitidell’ordine sacro ( 129, § 1). Tuttavia, nello spirito di apertura del Concilio Vaticano II, anche i laici possono dare in questo settore la loro fattiva collaborazione ( 129, § 2), esclusi per altro gli uffici che richiedono l’esercizio dell’ordine sacerdotale ( 150; 521, § 1; cfr. anche 274, § 1).

Ma di questo nella prossima sezione n. 3.2.  Potestà di governo o giurisdizioneIl Codice non dà la definizione della potestà di governo. Tenendo conto dei suoi elementi essenziali, essa può definirsi: La

pubblica potestà conferita da Cristo alla Chiesa di reggere e organizzare pastoralmente il popolo di Dio, per il conseguimento dei fini che gli sono propri e del fine supremo che è la vita eterna.

La potestà di governo (potestas regiminis) è detta anche potestà di giurisdizione (potestasiurisdictionis). Le due espressioni sono equivalenti e si ritrovano nella legislazione precedente ( 196*), ma, mentre nel Codice pio — benedettino il termine “iurisdictio” è quello normale, il nuovo Codice preferisce parlare di “potestas regiminis”, un termine più esatto, in quanto la “iurisdictio” nel diritto civile odierno (come già nel diritto romano) serve propriamente ad indicare l’esercizio del potere giudiziario.

1. La voce “iurisdictio” è usata nell’attuale Codice nel senso di “règimen” una volta sola ( 129, § 1). Negli altri casi ( 1417, § 2; 1469, § 1; 1512, n. 3), designa la competenza o potestà del giudice.

3.  Norme fondamentali1)  Un principio teologico — giuridico 129, § 1 (118 e 196*)  La potestà di governo sussiste nella Chiesa per istituzione divina. È questo un principio teologico —

giuridico, affermato già “iisdem verbis” nel 196 del Codice precedente, e che ha la sua ragione e il suo fondamento nella natura stessa della Chiesa e nella espressa volontà del Cristo, suo Fondatore.

La Chiesa, infatti, è stata “costituita e organizzata da Cristo nel mondo come società” ( 204, § 2), indipendente nella sua esistenza e nella sua attività da qualsiasi autorità umana (cfr. 747, § 1; 1254, § 1). Come tale, essa possiede non solo il potere di ordine, ossia il potere di compiere e di amministrare le cose, sacre, che ha per fine diretto e immediato la santificazione delle anime, ma anche quello di giurisdizione o di governo, ossia il potere di reggere e guidare socialmente i fedeli, nella sua triplice funzione: legislativa, giudiziaria e amministrativa o esecutiva, a cui si unisce anche il potere dottrinale o di magistero. Tale potere, richiesto dalla natura stessa della Chiesa e dalla sua finalità, è stato conferito da Gesù anche espressamente, come risulta in modo non dubbio dai noti testi concernenti il primato di Pietro e la missione degli Apostoli: Lc. 10, 16; Gv. 20, 21; 21, 15—17; Mt. 18, 18; 28, 18—20.

2)  Il soggetto proprio della potestà di governo

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Come risulta chiaramente dai testi sacri richiamati, Cristo conferì il potere di governo nella Chiesa agli Apostoli e ai loro successori. Conseguentemente, la Chiesa non è una società “democratica” nel senso politico del termine, ossia una società fondata sulla “sovranità del popolo”, che sceglie liberamente i suoi rappresentanti, demandando loro l’esercizio dei suoi poteri. La Chiesa ha una struttura sua propria, inconfondibile con quella delle società civili. Per volontà del suo Fondatore, essa è una “società gerarchica”, nella quale l’autorità deriva direttamente da Cristo ed è esercitata dai Successori degli Apostoli.

Non mancano, è vero, coloro i quali contestano tale struttura e sostengono che essa sia il frutto storico dei tempi in cui la Chiesa sorse e si sviluppò, prendendo a modello le società civili in cui viveva ed era inserita, e che in genere erano sotto l’autorità di un monarca assoluto. Sono affermazioni antistoriche, le quali contrastano apertamente con i testi evangelici, da cui risulta senza possibilità di equivoci che è stato il Cristo a determinare la costituzione della Chiesa da Lui fondata.

Come si vedrà in seguito: 1°  Soggetti della suprema potestà di governo nella Chiesa sono il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi, in

comunione gerarchica col suo Capo: 331, 332, § 1; 333, § 1; 336; 337.2°  Soggetti della potestà di governo nelle Chiese particolari sono i Vescovi diocesani: 381, § 1. 391, — e i Presuli ad

essi equiparati a norma dei 368 e 381, § 2.1. 3°  Altri organi di governo:2. —  Gli Ordinari e gli Ordinari del luogo: 134, §§ 1—23. —  I Concili particolari: 4454. —  Le Conferenze Episcopali: 4555. —  I Superiori maggiori e i Capitoli generali degl’Istituti e delle Società clericali di diritto pontificio: 5966. —  I Prelati personali: 295, § 1; ecc.3)  La cooperazione dei laici 129, § 2  Per volontà del Cristo la Chiesa è una società “gerarchica”, ma è anzitutto e principalmente una comunione

fra le varie Chiese e fra tutti i membri che ne fanno parte. Tale “comunione” ha il suo principio nell’azione vitale dello Spirito Santo.

Questo esige e comporta che tutti i fedeli, i quali in virtù del battesimo sono incorporati alla Chiesa e resi partecipi delle funzioni messianiche del Cristo (n. 919), sono responsabili delle sorti della Chiesa stessa e impegnati nella sua missione, con l’obbligo di collaborare, partecipando effettivamente allo stesso esercizio del governo, nei limiti determinati dal diritto.

4)  Una novità radicaleIl 129, § 2, rappresenta una radicale novità nell’ordinamento ecclesiastico. Il 118 del Codice precedente, infatti, escludeva

in modo assoluto che un semplice laico potesse esercitare nella Chiesa, in qualsiasi forma, la potestà di governo, riservata senza eccezione ai ministri sacri.

Ma una tale novità appare ad alcuni in contraddizione col principio generale affermato nel §1, che cioè soltanto i ministri ordinati sono “abili”, ossia capaci di ricevere e di esercitare la potestà di governo. Il contrasto si aggrava, se si considera il 274, nel quale è detto apertamente che soltanto “i chierici possono ottenere uffici, il cui esercizio richiede la potestà di governo ecclesiastico”.

In effetti, si ha una certa difficoltà a conciliare fra loro i suddetti canoni, formulati in modo alquanto incerto, poiché la loro stesura fu molto laboriosa e bisognò tener conto delle varie ed opposte tendenze, manifestatesi in seno al Gruppo dei Consultori (Communicationes, a. 1982, pp. 146—149). Tocca ora alla dottrina tentare una interpretazione conciliativa.

Gli autori in genere sono orientati verso la seguente spiegazione.1°  I 129, § 1, e 274, § 1, pongono delle affermazioni di principio per cui soltanto i ministri sacri sono per sé abili

(habiles) e hanno il diritto di ricevere ed esercitare nella Chiesa il potere di governo, e soltanto essi possono per sé ottenere uffici e compiti richiedenti l’esercizio della potestà ecclesiastica. La loro abilitazione o capacità è di carattere generale e deriva loro dall’ordinazione sacra.

2°  Ma queste affermazioni di principio non sono assolute, vale a dire non escludono che, in casi particolari e in piena dipendenza dall’Autorità ecclesiastica, anche i laici siano chiamati dalla Gerarchia a prestare la loro collaborazione in specifiche attività giurisdizionali, ricoprendo uffici e compiti che richiedono l’esercizio della potestà di governo. Sui detti uffici i laici non possono per sé vantare alcun diritto: ne ricevono l’incarico mediante uno speciale mandato.

L’interpretazione prospettata può essere soddisfacente. Resta però il fatto che la formulazione dei canoni accennati richiedeva una maggiore chiarezza, per non dar luogo ad incertezze e discussioni.

Ma, da un punto di vista teologico e giuridico, si giustifica questa cooperazione consentita ailaici e anzi richiesta sussidiariamente da essi? Sorge così il complesso problema dei rapporti fra potestà di ordine e potestà di governo, vivacemente dibattuto nel periodo postconciliare. Che siano due potestà distinte è innegabile; basta considerare che nessuno può essere privato della potestà di ordine, e che gli si può soltanto proibire di esercitarla o di porne alcuni atti ( 1338, § 2; cfr. anche 290), mentre per la potestà di governo sono previste privazioni vere e proprie, con divieti che toccano la stessa validità degli atti (cfr. 1331, § 2, n. 2; 1333, § 2). Ma la potestà di governo è da ritenersi essenzialmente legata alla potestà di ordine, sì che non possa né aversi né esercitarsi senza di questa?

1. Sotto la legislazione precedente, la cosa era discussa e i pareri erano diversi e opposti; la risposta negativa, tuttavia, era prevalente. Col nuovo Codice, ogni discussione dovrebbe essere ormai chiusa, poiché il § 2 del 129 concede espressamente di poter affidare compiti ed uffici di governo ecclesiastico anche a dei semplici laici, privi della potestà di ordine.

5)  Problemi ulteriori1°  Si può per altro domandare ulteriormente: basta la potestà d’ordine per essere abilitati ad esercitare la potestà di

governo?Tenendo conto della tradizione canonistica, la risposta è nettamente negativa. L’ordinazione sacra conferisce al ministro

un’abilitazione ontologica, radicale, ma perché questa sia posta in atto è necessaria la missio canonica da parte della

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competente autorità. La necessità della “missio canonica” è confermata dalla Nota esplicativa previa, che per espresso mandato di Paolo VI venne unita allo schema della Costituzione Lumen Gentium, prima della sua approvazione, relativamente al terzo capitolo sui Vescovi. “Una persona — afferma il 2° numero della detta Nota — diventa membro del Collegio (Episcopale) in virtù della consacrazione e mediante la comunione gerarchica col Capo del Collegio e con le membra. Nella consacrazione è data una ontologica partecipazione dei sacri uffici... Volutamente è usata la parola uffici (munerum), e non potestà (potestatum), perché quest’ultima voce potrebbe essere intesa come potestà libera all’esercizio (potestas ad actum expedita).Ma perché si abbia tale libera potestà, è necessario che intervenga la determinazione canonica o giuridica (canonica seu iuridica determinatio) da parte dell’autorità gerarchica. Questa determinazione della potestà può consistere nella concessione di un particolare ufficio o nell’assegnazione dei sudditi, ed è effettuata secondo le norme approvate dalla suprema Autorità”.

La determinazione giuridica di cui parla la “Nota” non è altro che la missio canonica, senza la quale gli atti sacramentali sarebbero illeciti ma per sé validi (ad eccezione del sacramento della penitenza, per la quale non basta la potestà di ordine ( 966,§ 1), mentre gli atti di governo sarebbero per sé privi di effetto. Nel 129 si riflette chiaramente la dottrina contenuta nella citata “Nota esplicativa” di Paolo VI.

2°  Un ultimo problema. Considerato il 129, § 2, è ormai pacifico — dovrebbeesserlo — che i semplici fedeli possono essere chiamati a cooperare nell’esercizio della potestà ecclesiastica di governo. Possono essere assunti a tale compito, in linea eccezionale, anche dei non battezzati? Concretamente, in particolari circostanze si potrebbe demandare a persone non battezzate l’assistenza canonica ai matrimoni ( 1112), o affidare ad essi l’ufficio di assessore — consulente ( 1424) o di uditore ( 1428, § 2) nei processi ecclesiastici, o di giudici nei tribunali collegiali ( 1421, § 2), ecc.?

S’intende porre una questione di principio (se si possa), astraendo dal fatto se convenga, e la risposta, a nostro parere, può essere positiva nei casi suddetti e in altri simili non legati essenzialmente al carattere battesimale. Se è ammesso per tradizione unanime che un non battezzato possa amministrare, in caso di necessità, perfino un sacramento, il battesimo, purché “debita intentione motus” ( 861, § 2), non si vede perché non potrebbe assistere canonicamente alla celebrazione di un matrimonio o fungere da giudice in un tribunale ecclesiastico. Si potrà discutere sull’autorità competente ad autorizzare l’attribuzione di tali compiti, se cioè debba essere esclusivamente la suprema autorità della Chiesa, ma la possibilità della concessione, mediante uno speciale mandato, non sembra che in linea di principio possa essere esclusa.

4.  Foro esterno e foro interno1)  Concetto 130 (196 e 202*)  In ragione della sua natura e delle sue finalità, la potestà digoverno di cui gode la Chiesa, società

essenzialmente religiosa e soprannaturale, ordinata alla salvezza delle anime, ha un ambito molto più vasto del potere proprio della società civile, che persegue solo dei fini temporali. La competenza dello Stato è limitata pertanto alle azioni esterne dei cittadini, mentre quella della Chiesa si estende alla coscienza dei fedeli, i quali anche in questo campo hanno bisogno d’essere retti e guidati dall’autorità costituita.

La potestà ecclesiale di governo, essenzialmente unica (Communicationes, a. 1977, p. 234, tit. V), si svolge così in un duplice campo o settore, detto in termini canonistici foro esterno e foro interno. Nel foro esterno, la Chiesa persegue direttamente il bene comune dei fedeli; nel foro interno, essa ha propriamente di mira il bene delle anime. Non è sempre facile distinguere quel che riguarda l’uno o l’altro foro. In genere si può dire che al foro esterno appartiene tutto ciò che concerne la disciplina, l’ordine, i pubblici rapporti dei fedeli tra loro e con l’autorità, la generale utilità; appartiene invece al foro interno, tipico della Chiesa, tutto ciò che si svolge nell’intimo della coscienza ed ha rapporto immediato con Dio, e anche le azioni occulte finché rimangono tali.

Il foro esterno può essere giudiziale ed extragiudiziale; il giudiziale, a sua volta, si distinguein contenzioso e penale. Il foro interno può essere sacramentale ed extrasacramentale; il foro sacramentale è quello proprio del sacramento della penitenza (cfr. 1079, § 3; 1080, § 1; 1082, § 2; 1355, § 2; 1357, § 1).

2)  Gli effettiLa potestà di governo si esercita prevalentemente nel foro esterno, e questo sia a motivo del suo carattere sociale sia ai fini di

un’opportuna tutela degli effetti giuridici che ne derivano. I due fori, tuttavia, fanno parte di un medesimo ordine giuridico, per cui gli atti posti nel foro esterno hanno piena efficacia anche nel foro interno, ossia per la coscienza, come richiamava espressamente il 202 del Codice precedente. Ma non ha sempre luogo la reciprocità, e gli effetti che la potestà di governo ha nel foro interno non sono riconosciuti nel foro esterno se non nei casi determinati dal diritto. Tale, ad esempio, è il caso previsto nel 1082, relativamente alla dispensa da un impedimento matrimoniale occulto concessa dalla Penitenzieria Apostolica nel foro interno non sacramentale e annotata nel particolare libro da conservare nell’archivio segreto della Curia diocesana. Se il caso non è previsto dal diritto, è necessario un nuovo atto della competente autorità, posto nel foro esterno. Si ha così una chiara delimitazione dell’ambito dei due fori, pur trattandosi dell’esercizio di un’unica e medesima potestà. Gli atti giurisdizionali posto nel foro interno, avendo carattere riservato, devono rimanere per sé in tale foro, per cui i loro effetti sono riconosciuti nel foro esterno soltanto nei casi previsti dal diritto.

3)  Norme ulterioriRelativamente al foro esterno ed interno sono da tener presenti i seguenti canoni:—  37: “L’atto amministrativo riguardante il foro esterno, dev’essere fatto per iscritto; così pure il relativo atto di

esecuzione, se ha luogo in forma commissoria”.—  74: “Benché una persona possa usufruire nel foro interno di una grazia che gli sia stata concessa oralmente, per il foro

esterno essa è tenuta a provarla ogni volta che ne sia legittimamente richiesta”.—  142, § 2: “Un atto di potestà delegata circoscritta nel suo esercizio al solo foro interno, posto per inavvertenza dopo la

scadenza del tempo di concessione, resta valido”.—  1361, § 2: “La remissione (di una pena) in foro esterno sia data in iscritto, tranne che una grave causa suggerisca

diversamente”.

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1. —  2251 Codice 1917, che ha valore “ex natura rei”, anche se non è stato riportato nel nuovo Codice: “L’assoluzione di una censura data nel foro esterno, vale per l’uno e l’altro foro: se è concessa nel foro interno, la persona assolta, remoto scandalo, può comportarsi come tale negli atti del foro esterno (può ricevere ad esempio la S. Comunione); ma se la concessione dell’assoluzione non sia provata nel foro esterno o non sia almeno legittimamente presunta, il competente Superiore di foro esterno può esigere l’osservanza della censura finché non venga concessa l’assoluzione formale per il foro esterno”.

5.  Potestà ordinaria e delegata1)  Nozione 131 (197 e 200*)  Il 131, riporta la divisione tradizionale della potestà di governo o di giurisdizione ecclesiastica in

ordinaria e delegata. La potestà delegata è prevista anche negli ordinamenti civili, ma, ovviamente, con modalità e contenuti diversi.

Nell’ordinamento canonico, la potestà di governo ordinaria è quella annessa ipso iureall’ufficio (§ 1). Duplice, pertanto, è l’elemento richiesto:

1°  L’ufficio ecclesiastico legittimamente costituito, a termine del 145, § 1.2°  L’annessione della relativa potestà giurisdizionale ipso iure, in forza cioè dello stesso diritto: divino o ecclesiastico,

universale o particolare, scritto o consuetudinario. Ciò significa che è necessaria una legge e una consuetudine avente forza di legge ( 23), e che non basta un decreto amministrativo ( 48), né un privilegio ( 76, § 1), anche se concesso in perpetuo a una sede o a una dignità.

Se manca l’uno o l’altro degli elementi o condizioni accennate, non si ha la potestàordinaria, ma soltanto la potestà delegata, che — secondo la definizione del Codice — è conferita direttamente alla persona, senza il tramite dell’ufficio (§  1).

Concretamente la potestà delegata si pone in atto in un triplice caso:—  Quando la potestà di governo è annessa ad un ufficio che non risponda alla definizione del 145, § 1 (per esempio un

ufficio che manchi di stabilità)—  Quando la potestà di governo è annessa a un ufficio ecclesiastico mediante un semplice indulto o un privilegio—  Quando la potestà è conferita alla persona in modo immediato e diretto, indipendentemente dall’ufficio che essa

ricopre.2)  Distinzioni1°  La potestà ordinaria può essere propria e vicaria (§ 2).La potestà propria è quella che, annessa “ipso iure” all’ufficio, spetta al titolare dell’ufficiostesso.Per esempio:1. —  Il Pontefice Romano: 331 e 333, § 12. —  Il Collegio dei Vescovi: 3363. —  Il Vescovo diocesano: 381, § 14. —  Il Prelato personale: 295, § 15. —  Il canonico penitenziere: 500, § 16. —  Il parroco: 515, § 1, e 5197. —  Il cappellano: 564 e 566Teologicamente, soltanto la potestà del Romano Pontefice, del Collegio dei Vescovi e deiVescovi reggenti una Chiesa

particolare è “propria” in senso pieno. Ogni altra potestà non episcopale (per es. quella del canonico penitenziere o del parroco) teologicamente è “partecipata” e quindi non “propria” in senso stretto. È per altro considerata “propria” giuridicamente, perché annessa “ipso iure” all’ufficio e non esercitata a nome di un altro.

La potestà vicaria è quella che viene esercitata non a nome proprio ma a nome e perautorità del titolare dell’ufficio.Per esempio:1. —  Il Vescovo coadiutore o ausiliare: 4052. —  Il Vicario generale o episcopale: 475, § 1, e 4763. —  Il Vicario giudiziale: 1420, § 1Una categoria a parte — in un certo senso intermedia — formano il Vicario e il PrefettoApostolico e l’Amministratore di

un’Amministrazione apostolica stabilmente eretta, che, da una parte, sono equiparati ai Vescovi diocesani ( 368 e 381), e, dall’altra, reggono le Chiese loro affidate “nomine Summi Pontificis” ( 371).

La potestà ecclesiastica è stata divisa in ordinaria e delegata, propria e vicaria, ma talidistinzioni si fondano solo su motivi ed esigenze di carattere giuridico. In senso proprio, ossia strettamente teologico, qualsiasi potestà ecclesiastica è, in rapporto a Cristo, vicaria e delegata, e tutti i ministri sacri — come ha messo in rilievo il Concilio Vaticano II — operano in nome, in rappresentanza e per autorità di Cristo: “in persona Christi” (cfr. Costituzione Lumen Gentium, nn. 21, 2; 27, 1; 28, 1; 37, 1; — Decr. Ad Gentes, n. 39, § 1; — Decr. Presbyterorum Ordinis, nn. 2, 3; 12, 1).

2°  La potestà delegata può essere: —  A iure o ab homine, secondo che viene conferita dal diritto stesso o dal Superiore competente mediante un

particolare mandato ( 966, § 2; 976; 1079— 1080)—  Ad actum, per uno o più atti singoli, e ad universitatem casuum, ossia per la generalità dei casi ( 137, § 1)3°  Tanto la potestà ordinaria che quella delegata possono infine essere conferite: —  A tempo determinato e indeterminato ( 477, § 1; 522; 972)—  Habitualiter, trattandosi di facoltà di confessione ( 967, § 2; 971; 973; 974, § 1)—  In solido o collegialmente, a più persone ( 140; 517, § 1; 542; 543)3)  L’acquisizione della potestà delegataLa potestà delegata, come s’è già accennato, si acquista in forza del diritto (a iure) o per particolare concessione del

Superiore competente (ab homine). Si richiede l’accettazione da parte del delegato?

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Se la potestà delegata è a iure, evidentemente l’accettazione non è necessaria, perché nel caso è la stessa legge che conferisce il potere giurisdizionale antecedentemente e indipendentemente dalla volontà del soggetto.

Se la potestà è ab homine, l’accettazione, espressa o tacita, è per sé richiesta “ad validitatem”; ma il Superiore può anche concedere la potestà “ad modum iuris”, ossia antecedentemente e indipendentemente dalla volontà della persona delegata.

4)  L’onere della prova 131, § 3 (200, § 2 +)  In linea di principio, la delega della potestà di governo non si presume. Conseguentemente la

persona delegata, se richiesta, ha l’obbligo di fornire la prova della delega, e questo avviene normalmente mediante l’esibizione del documento scritto. Ovviamente, è necessaria la prova della delega fatta ab homine, non a iure.

5)  Le facoltà abituali 132 (66*)  Le facoltà abituali sono particolari facoltà o poteri concessi dall’autorità competente in perpetuo o per un

tempo determinato o per un determinato numero di casi ( 66, § 1, Codice 1917), a singole persone o a persone in quanto titolari di un ufficio. Per esempio: la facoltà di ascoltare le confessioni dei fedeli, di amministrare la confermazione, di assistere ai matrimoni, di dispensare, di predicare, ecc.

Tali facoltà non sono propriamente dei privilegi, ma “accensetur privilegiis praeter ius” (can. cit.), per cui possono interpretarsi in senso largo. A minor ragione sono una grazia, poiché il loro conferimento non ha come fine il vantaggio personale del concessionario, ma il bene degli altri.

Le facoltà abituali costituiscono una categoria giuridica a sé, ma rientrano nell’ambito della potestà delegata e sono rette dalle medesime norme (§ 1).

Il § 2 concerne le facoltà abituali concesse a un Ordinario ( 134, § 1). Per séesse riguardano il suo ufficio; di conseguenza, non vengono meno qualora decada la potestà dell’Ordinario a cui sono state concesse, anche se egli abbia cominciato ad esercitarle, ma passano a qualsiasi Ordinario che gli succeda nel governo, tranne che:

1°  nell’atto di concessione sia stato disposto diversamente;2°  o sia stata scelta l’opera personale dell’Ordinario (industria personae): v. n. 452.Facoltà abituali possono essere concesse anche dal Vescovo diocesano ai suoi sacerdotinell’ambito della sua competenza. In

questo caso si applica per analogia la norma anzidetta.Alle facoltà abituali si riferisce anche il 479, § 3 ( 66, § 2, Codice 1917):—  Spettano al Vicario generale e al Vicario episcopale, nell’ambito delle propriecompetenze, anche le facoltà abituali

concesse al Vescovo dalla Sede Apostolica... tranne che sia stato disposto diversamente in modo espresso, o sia stata scelta l’opera personale del Vescovo diocesano.

6)  I limiti del mandato di delega 133 (203*)  La potestà del delegato si fonda sul mandato del delegante e in esso ha la determinazione del suo ambito.

Qualora egli superi i limiti fissati, sia circa le cose sia circa le persone, agisce invalidamente (§ 1).Le modalità eventualmente prescritte non costituiscono per sé una condizione essenziale, per cui il delegato che esercitasse

le facoltà concessegli in maniera diversa da quella disposta dal delegante, agirebbe illecitamente (potrebbe però essere giustificato da particolari motivi e circostanze), ma non invalidamente, tranne che le modalità siano state determinate per la stessa validità dell’atto (§ 2).

6.  Ordinari e Ordinari del luogo1)  Gli Ordinari 134, § 1 (198, § 1*)  Nel linguaggio tecnico — giuridico, non tutti coloro chedispongono nella Chiesa di una potestà di

governo ordinaria, anche se generale — come ad esempio i parroci, nell’ambito della loro competenza — sono denominati “Ordinari”. Tale titolo è riservato alle persone indicate nel § 1 del 134. Ossia:

1°  Per la Chiesa universale: —  Il Romano Pontefice2°  Per le Chiese particolari e le comunità ad esse equiparate a norma del 368:—  I Vescovi diocesani—  I Presuli ad essi equiparati ai sensi del 381, § 2: i Prelati e gli Abati territoriali, i Vicari e i Prefetti apostolici, gli

Amministratori di Amministrazioni apostoliche stabilmente erette—  Coloro che, sede impedita o vacante, reggono interinalmente una Chiesa particolare o una comunità ad essa

equiparata, ossia i reggenti di cui ai 413 e 419, e l’Amministratore diocesano di cui al 421—  I Vicari generali ed episcopali, ai quali il diritto attribuisce una potestà esecutiva ordinaria generale3°  Per i propri confratelli: —  I Superiori maggiori degl’Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica clericali di diritto pontificio. Non è

necessaria la potestà legislativa: è sufficiente la potestà amministrativa o esecutiva ordinaria, se gli statuti concedono soltanto questa.

2)  Gli Ordinari del luogo 134, § 2 (198, § 2*)  Sono gli Ordinari con competenza territoriale, ossia tutti quelli enumerati nel § 1, ad eccezione dei

Superiori degl’Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica.3)  I Vescovi diocesani 134, § 3  In ragione della loro dignità e dei particolari compiti ad essi affidati, i Vescovi diocesani hanno facoltà e

poteri propri, che appartengono di diritto anche ai Presuli ad essi equiparati ai sensi del 381, § 2, ma non ai Vicari generali ed episcopali. Di conseguenza, quanto nei canoni è attribuito nominatamente ai Vescovi diocesani nell’ambito della potestà esecutiva, s’intende di esclusiva competenza dei medesimi e dei Presuli equiparati, e i Vicari generali ed episcopali non hanno alcun potere a tal riguardo, tranne che sia stato loro concesso mediante uno speciale mandato. Tale mandato può essere anche di carattere generale, in modo da poter essere inserito nello stesso provvedimento di nomina? Alcuni non lo escludono, poiché, a loro giudizio, il termine “mandato speciale” non significa “mandato conferito caso per caso”.

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4)  Integrazioni e chiarimenti1°  Le facoltà e i poteri riconosciuti agli Ordinari e agli Ordinari del luogo sono amplissime. La voce “Ordinario” ricorre

nel Codice circa cento volte; e la voce “Ordinario del luogo” circa centotrenta.La competenza degli “Ordinari” concerne fra l’altro: 1. —  I beni ecclesiastici2. —  I beni fiduciari3. —  Le pie volontà4. —  Gli oneri di Messe5. —  La facoltà di confessione6. —  Dispense varie7. —  La benedizione dei luoghi sacri8. —  La potestà giudiziaria in materia sia contenziosa che penale—  L’applicazione e la remissione delle pene, ecc.1. La competenza degli “Ordinari del luogo” comprende inoltre: 2. —  Le associazioni sia pubbliche che private3. —  L’immissione in possesso dei parroci4. —  La pubblicazione di libri di carattere religioso o morale5. —  La pubblicazione di catechismi e di altri scritti destinati all’istruzione catechistica e all’insegnamento della

religione nelle scuole6. —  L’erezione di cappelle private7. —  La raccolta di offerte e le questue—  La celebrazione del matrimonio, ecc.2°  I Vicari giudiziali, pur disponendo di una potestà ordinaria generale in materia giudiziaria( 1420, § 1), non sono

“Ordinari” a termine del 134, § 1, perché non sono menzionati in esso.3°  Sono invece probabilmente “Ordinari” i Prelati di Prelature personali, che pur non sonomenzionati nel 134, § 1,

poiché tale titolo è attribuito loro nel canone 295, § 1 (v. la nota 13 della pag. prec.).Certamente sono Ordinari in senso proprio gli “Ordinari militari” a termini della Costituzione Apostolica Spirituali militum

di Giovanni Paolo II del 21 aprile 1986, in cui gli Ordinariati militari sono equiparati formalmente alle diocesi e i Presuli ad essi preposti sono detti “Ordinari” in senso proprio (cfr. Communicationes, a. 1986, pp. 12—17).

4°  Il 134, § 1, enumera fra gli “Ordinari” soltanto i Superiori degli Istitutireligiosi e delle Società di vita apostolica clericali di diritto pontificio, poiché, in quanto chierici, essi sono insigniti dell’ordine sacro e come tali sono per sé abili alla potestà di governo ( 129, § 1), e in quanto membri d’Istituti e Società di diritto pontificio sono esenti dalla giurisdizione degli Ordinari del luogo ( 593).

Non hanno quindi il titolo di “Ordinari” né le rispettive facoltà e competenze: —  I Superiori maggiori degl’Istituti e delle Società di diritto diocesano ( 589)—  Degl’Istituti laicali ( 588)—  Degl’Istituti secolari ( 710 ss.), ad eccezione di due Istituti clericali di diritto pontificio, i cui Superiori maggiori

dispongono, per privilegio apostolico, della potestà di governo (cfr. Communicationes, a. 1981, p. 405, 21; cfr. anche a. 1982, p. 150, 131, n. 1; a. 1983, p. 86, 691).

5°  A termine del 620 sono Superiori maggiori, e di conseguenza “Ordinari” negl’Istituti religiosi:—  I Superiori generali e provinciali e i loro vicari—  I Superiori delle case “sui iuris”, con i propri vicari—  Gli Abati Primati e i Superiori delle congregazioni monastiche.Sono, similmente, Superiori maggiori nelle Società di vita apostolica:—  I Superiori generali—  I Superiori provinciali—  I rispettivi Vicari6°  Il 134, § 3 è d’importanza fondamentale per la retta interpretazione del 479, sui compiti e le facoltà dei Vicari

generali ed episcopali, i quali hanno sempre bisogno di uno speciale mandato per tutto quello che il diritto riserva nominatamente al Vescovo diocesano.

7.  La triplice funzione della potestà di governo1)  Nozioni 135, § 1  Occorre distinguere nella potestà di governo una triplice funzione— legislativa, amministrativa e giudiziaria

— rispondente a un’esigenza concettuale oltre che ad una necessità pratica.La funzione legislativa provvede all’emanazione delle leggi.La funzione amministrativa o esecutiva ne cura l’applicazione.La funzione giudiziaria giudica sulla conformità o difformità dell’operato delle persone con le disposizioni di legge,

dichiarandone le eventuali conseguenze; sostanzialmente è anch’essa “esecutiva”, ma ha una sua propria denominazione.2)  Un principio costituzionale della ChiesaNegli Stati democratici moderni — secondo la teoria elaborata da Charles—Louis de Montesquieu (1698—1755) nella sua

famosa opera L’esprit des lois (Ginevra, 1748) — a base degli ordinamenti politici è il principio della divisione dei poteri, che sono pertanto affidati a organi distinti e indipendenti, allo scopo di tutelare più efficacemente la libertà e i diritti dei cittadini e impedire atti di arbitrio da parte dell’autorità. Tale principio, con gli opportuni correttivi diretti ad assicurare l’unità organica dello Stato, è anche alla base della Costituzione Italiana.

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Nella Chiesa, che ha finalità ed esigenze sue proprie, diverse da quelle dello Stato, ènecessaria per l’attuazione della sua missione, una maggiore organicità del potere, per cui ai sacri Pastori — Romano Pontefice e Vescovi, costituiti nel loro ufficio “a titolo originario” — spettano di regola unitariamente non solo il potere d’ordine, di magistero e di governo, ma anche le tre funzioni giurisdizionali: legislativa, amministrativa e giudiziaria. Una tale struttura omogenea fa parte essenziale dell’ordinamento costituzionale istituito da Cristo, il quale trasmise agli Apostoli e ai loro Successori il suo stesso indiviso potere in modo strettamente unitario: cfr. in particolare Mt. 18, 18; 28, 18; Gv. 21, 15—17. È chiaro per altro che la divisione dei poteri esiste nella Chiesa, ma essa, evidentemente, riguarda solo le autorità inferiori, che esercitano il loro potere sia “ex officio” sia per delega.

La struttura della Chiesa non ammette pertanto la ripartizione dei poteri, che sarebbe contraria al disegno del suo Fondatore e al bene stesso delle anime, le quali hanno bisogno di una guida pastorale organica. Ne rispetta però e ne esige anzi la distinzione, secondo i principi direttivi approvati dal I Sinodo dei Vescovi (7 ott. 1967), per la revisione del Codice di Diritto Canonico: “Si distinguano chiaramente le diverse funzioni legislativa, amministrativa e giudiziaria della potestà ecclesiastica, determinando in modo adatto da quali organi le singole funzioni siano esercitate” (n. 7), e questo — si afferma — allo scopo di assicurare la giusta tutela dei diritti delle persone (Communicationes, a. 1969, p. 83, n. 7, 3° cpv).

Cade pertanto l’accusa di “assolutismo” rivolta contro la Gerarchia ecclesiastica. Fedele alprincipio ratificato dal Sinodo dei Vescovi, il nuovo Codice — pur conservando l’unità costituzionale del potere gerarchico, accentrato sostanzialmente, in linea di principio, nel Papa a livello di Chiesa universale, e nel Vescovo diocesano a livello di Chiesa particolare — ne ha distinto le funzioni e, nello stesso tempo, le ha contemperate opportunamente. Si è così creato un sano equilibrio, attraverso forme e meccanismi vari:

—  Con un accentuato senso di “pastoralità”, di “servizio”, di “equità” e di “comunione ecclesiale”, che ispira profondamente la nuova legislazione canonica

—  Con una larga applicazione del principio di sussidiarietà e, di conseguenza, con un ampio (forse eccessivo) decentramento del potere in favore delle Chiese particolari

—  Con un ampio (forse eccessivo) spazio lasciato al diritto particolare in rapporto al diritto comune—  Con una decisa apertura verso i laici, chiamati a dare la loro effettiva collaborazione in vari settori della vita

ecclesiale, partecipando alla stessa funzione di governo—  Con l’istituzione di nuovi e importanti organi collegiali: il Consiglio episcopale ( 473, § 4), il Collegio dei consultori (

502), il Consiglio presbiterale e pastorale ( 495 e 511), il Consiglio di conciliazione ( 1733, § 2).Quanto al potere giudiziario, occorre rilevare che esso, di fatto, non viene esercitato dalRomano Pontefice o dai Vescovi

diocesani personalmente, ma attraverso i propri tribunali ( 1442 e 1420), e che i Vescovi sono tenuti a costituire nelle loro diocesi il Vicario giudiziale, munito di potestà ordinaria ( 1420, § 1) e un numero sufficiente di giudici, che in casi particolari possono essere scelti anche fra i laici ( 1421, §§ 1—2).

Il potere legislativo, per la sua particolare delicatezza e importanza, è esercitatodirettamente dalla Gerarchia, ma anche in questo settore sia il Papa che i Vescovi si servono della collaborazione di organi e persone diverse. Il nuovo Codice di Diritto Canonico ne è la prova evidente, poiché la sua redazione è stata curata da un’apposita Commissione (Commissio Codicis Iuris Canonici recognoscendo), formata da numerosi Presuli, sacerdoti e studiosi di varie nazionalità, e la vasta opera di consultazione ha coinvolto non solo il Collegio Cardinalizio, i Dicasteri della Curia Romana, le Conferenze Episcopali, Superiori religiosi, Università e Facoltà ecclesiastiche, ma i singoli Vescovi di tutto il mondo.

La Chiesa è realmente una “comunione”, in forza della quale tutti hanno una propria funzione, un compito, una responsabilità.

3)  La potestà legislativa 135, § 2  La potestà legislativa è la prima e la più importante delle tre funzioni di governo spettante alla Chiesa “iure

proprio et nativo”. Su di essa il secondo paragrafo del 135 contiene tre norme di particolare rilievo:1°  La potestà legislativa deve esercitarsi legalmente, ossia nel modo stabilito dal diritto, concretamente nella stretta

osservanza dei 7— 22, costituenti il titolo I De legibus del I Libro del Codice (cfr. anche 29). Il principio della legalità, applicato all’esercizio del potere legislativo, è garanzia di stabilità e di chiarezza giuridica, che giovano allo stesso rispetto e alla stessa osservanza del diritto.

2°  In ragione della sua importanza, la potestà legislativa impegna la responsabilità personaledella competente autorità, per cui non può essere validamente delegata dal legislatore subalterno, inferiore al Romano Pontefice, se non nei casi previsti formalmente dal diritto. Conseguentemente, nel Sinodo diocesano il Vescovo è l’unico legislatore, e tutti quelli che vi partecipano, anche se insigniti del carattere episcopale (Vescovo coadiutore e ausiliare), hanno semplice voto consultivo ( 466).

Sono esclusi i decreti generali a carattere legislativo, di cui al 29, per i quali è consentita la delega a norma del 30. È similmente consentita la delega per l’interpretazione autentica delle leggi, a norma del 16, § 1.

3°  Il legislatore inferiore non può emanare validamente una legge contraria al dirittosuperiore. Il richiamo del Codice è ovvio: il principio della gerarchia dei poteri è essenziale per l’ordine sociale. La sua inosservanza porterebbe l’anarchia e il caos.

4°  Gli organi legislativiSi è trattato di essi nelle “leggi ecclesiastiche” (nn. 203—212). Ne diamo solo il prospetto:Organi legislativi delle leggi universali—  Il Romano Pontefice: 331—  Il Collegio dei Vescovi: 336, 337, 341Delle leggi particolari—  I Vescovi diocesani e i Presuli ad essi equiparati: 391 e 466; 368 e 381, § 1—  Le Conferenze Episcopali: 455 (decreti generali)

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—  I Concili particolari: 445—  I Superiori maggiori e i Capitoli generali degl’Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica clericali di diritto

pontificio: 134, § 1; 596, § 2; 732.4)  La potestà giudiziaria 135, § 3  La potestà giudiziaria è soggetta anch’essa al principio della legalità, per cui dev’essere esercitata “modo iure

praescripto”, secondo le norme stabilite nel libro VII De processibus ( 1400— 1752).Può essere delegata? Alcuni sostengono di no, e affermano che solo il Romano Ponteficepuò costituire dei giudici delegati

( 1442), mentre il Vescovo diocesano è obbligato a servirsi dell’opera del Vicario giudiziale e dei giudici regolarmente costituiti a norma dei 1420— 1421 e forniti di potestà ordinaria (vicària), ma non potrebbe costituire dei tribunali speciali, mediante giudici delegati. Altri interpretano il 135, § 3, nel senso che soltanto ai giudici e ai collegi giudiziari non è consentito delegare la loro potestà, tranne che per compiere gli atti preparatori dei decreti e delle sentenze: per es. l’esame dei testi ( 1561), anzi l’intera istruttoria di una causa ( 1428).

Questa seconda interpretazione sembra più fondata, anche perché il 1427, § 2, dà, senza alcuna limitazione, al Moderatore supremo di un Istituto religioso clericale di diritto pontificio la facoltà di giudicare “per se ipse vel per delegatum” una vertenza sorta fra due province del suo Istituto; — e nel 1653 si parla ancora di costituzione di giudici delegati come di facoltà normale del Superiore religioso. D’altra parte, la delega della potestà giudiziaria era possibile nella legislazione precedente, e una modifica di tale norma non risulta. Risulta anzi il contrario della mens expressa del Gruppo di Studio “De processibus”: “Quod autem dari possit tribunal delegatum a S. Sede vel ab Episcopo eruitur sive ex normis generalibus, sive quia in 102, § 2, de Normis Generalibus (l’attuale 135, § 3) soli iudices vetantur ne potestatem iudicialem delegent” ( Communicationes, a. 1978, p. 243, ultimo capoverso).

Gli organi giudiziari—  La potestà suprema e universale del Romano Pontefice: 1442—  Il diritto di ogni fedele: 1417—  La inappellabilità delle sentenze emanate dal Romano Pontefice: 1629, n. 1—  La potestà del Vescovo diocesano: 391 e 1419—  La potestà del Vicario giudiziale diocesano: 1420—  La potestà dei giudici diocesani: 14211. —  La potestà giudiziaria negl’Istituti religiosi clericali di diritto pontificio: 1427 e 1438, n. 35)  La potestà di ordineSi suol distinguere una potestà di diritto divino e di diritto ecclesiastico. La potestà di diritto divino, sulla quale la Chiesa

non ha per sé alcuna competenza circa gli elementi prescritti da Cristo, evidentemente non può essere delegata. Essa è esercitata “ad validitatem” solo dai ministri sacri che ne hanno la capacità: per es. la consacrazione eucaristica, di cui è ministro esclusivo il sacerdote ( 900, § 1).

Circa la potestà di ordine di diritto ecclesiastico, distinta analogicamente in ordinaria(annessa all’ufficio) e delegata (demandata alla persona), il 210 del Codice precedente disponeva che non potesse delegarsi senza una espressa autorizzazione per legge (iure) o mediante un indulto.

La norma non è stata riportata nel nuovo Codice in modo formale. Ma essa è applicata in più canoni.Si hanno pertanto varie deleghe a iure:1. —  Di conferire la confermazione: 8832. —  Di distribuire la Comunione: 910, § 23. —  Di ascoltare le confessioni “ubique”: 967, § 2—  Di benedire l’olio per l’unzione degl’infermi, nell’atto di celebrazione del sacramento: 999, ecc.Eventuali deleghe mediante particolare mandato:1. —  Per il conferimento della confermazione: 882 e 8842. —  Per la distribuzione della Comunione: 230, § 3, e 910, § 23. —  Per l’ascolto delle confessioni: 9694. —  Per le consacrazioni e le dedicazioni in genere: 1169, § 15. —  Per la dedicazione di un luogo: 12066. —  Per la benedizione di una chiesa: 1207, ecc.

LA POTESTÀ ESECUTIVA  ( 136— 144)

La potestà legislativa è nella Chiesa, come nello Stato, la potestà più importante, poiché ne determina l’ordinamento giuridico, che deve reggere la comunità e al quale devono attenersi gli organi della funzione amministrativa e giudiziaria, nell’esercizio dei loro poteri. Ma la potestà più vasta e più complessa è quella amministrativa, comprendente l’intera organizzazione e funzionamento della vita ecclesiale. I 136— 144 contengono le norme fondamentali per il suo retto esercizio.

1.  L’ambito della potestà esecutiva 136 (201*)  Il 136, di cui si è avuta una prima applicazione nel 91, stabilisce le seguenti norme, distinguendo tra sudditi

e forestieri. Il concetto di “suddito” è determinato dal 107; quello di “forestiero”, dal 100.1)  Relativamente ai sudditiChi dispone della potestà esecutiva può esercitarla validamente verso i propri sudditi:—  Sia che egli si trovi fuori del territorio di sua competenza—  Sia che ne siano assenti gli stessi sudditi—  Salve le limitazioni derivanti “ex ipsa natura rei” o previste espressamente dal diritto.

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2)  Relativamente ai forestieriLa medesima potestà può essere esercitata verso i forestieri che si trovino in atto nel territorio di propria competenza, a due

condizioni:—  Che si tratti di concessioni di grazie o favori—  Oppure di esecuzioni di leggi sia universali che particolari, alle quali i medesimi sono tenuti a norma del 13, § 2, n. 2,

ossia le leggi che provvedono all’ordine pubblico o definiscono le formalità degli atti, o riguardano le cose immobili situate nel territorio.

Il 136 concerne in particolare gli Ordinari, di cui nel 134, mettendone in rilievo la potestà di carattere sia territoriale che personale.

2.  La delega della potestà esecutiva ordinariaL’istituto della delega ha una vasta applicazione nell’ordinamento ecclesiastico, perché facilita l’esercizio del governo,

evitando da una parte una eccessiva proliferazione di uffici, e consentendo dall’altra una maggiore snellezza nel servizio reso alla comunità. Esso, tuttavia, è per sé limitato alla potestà esecutiva, mentre resta esclusa di norma sia la potestà legislativa che quella giudiziaria. La ragione è comprensibile: la potestà legislativa è la più importante (è anche la più rara) ed esige la responsabilità personale dell’autorità competente (n. 983), e quella giudiziaria, per la delicatezza della sua funzione, ha bisogno di tribunali e di giudici ordinari, stabili, in modo che sia assicurata meglio l’amministrazione della giustizia.

Il 137 prevede non solo la possibilità della delega, ma anche della suddelega. 137, § 1 (199, § 1*)  In linea di principio, chiunque dispone della potestàesecutiva ordinaria, annessa “ipso iure”

all’ufficio ai sensi del 131, § 1, può liberamente delegarla ad altri — purché capaci di riceverla a termine del 129 — sia con delega particolare (ad actum), sia con delega generale (ad universitatem casuum), tranne che sia disposto diversamente in modo espresso dal diritto. È questa una norma classica del diritto, secondo la 68” “Regula Iuris” delle Decretali di Bonifacio VIII: “Potest quis per alium quod potest facere per seipsum”, che si applica in genere a qualsiasi potestà ordinaria (annessa cioè all’ufficio: 131, § 1) — giurisdizionale, come quella del Vescovo diocesano, e non giurisdizionale, come quella del parroco — salve le limitazioni stabilite dalla legge.

Così un parroco può delegare ad altri sacerdoti e anche a dei diaconi la facoltà di assistere ai matrimoni celebrati nella sua parrocchia ( 1108, § 1); ma non può, per sé, delegare la facoltà di confessione, che, a norma del 969, è di esclusiva competenza dell’Ordinario del luogo e, nei limiti prescritti, del Superiore di un Istituto religioso o di una Società di vita apostolica clericali e di diritto pontificio. Similmente, il canonico penitenziere non può delegare la facoltà ordinaria che egli possiede circa la remissione delle censure “latae sententiae” non dichiarate né riservate alla Sede Apostolica ( 508, § 1).

Quanto alla necessità dell’accettazione da parte del delegato, v. n. 952.1. Nel Codice precedente, era detto che la potestà ordinaria poteva essere delegata “ex toto velex parte”. Ma la dottrina

restringeva il senso dell’ex toto, affermando che una delega totale poteva concepirsi solo se limitata nel tempo (delega provvisoria, non stabile), oppure limitata localmente (per una parte della intera circoscrizione). Una eventuale delega totale nel suo contenuto, fatta alla medesima persona senza alcun limite, sarebbe stata come un’abdicazione da parte del titolare e, che nello stesso tempo, la creazione di un altro ufficio (un “doppione”), che avrebbe avuto bisogno della formale autorizzazione del Superiore competente.

3.  La suddelega della potestà delegataSono considerati tre casi.1°  Suddelega della potestà delegata dalla Santa Sede 137, § 2 (199, § 2*)  La potestà esecutiva delegata dalla Santa Sede può essere suddelegata sia per atti singoli (ad actum),

sia per l’universalità dei casi (ad universitatem casuum), dello stesso genere (per es. casi matrimoniali) o di genere vario, a due condizioni:

—  Che non sia stata scelta l’opera personale (industria personae) nel senso indicato al n. 452—  Che la suddelega non sia stata espressamente esclusa dalla lettera di delegaLe deleghe disposte dal diritto (deleghe a iure: cfr. ad esempio i 566, § 2, e 1357, § 1) non sono considerate facoltà

concesse dalla Santa Sede. Di conseguenza, non è possibile la loro suddelega.2°  Suddelega della potestà delegata da un’altra autorità avente potestà ordinaria 137, § 3 (199, §§ 3—4)  Occorre distinguere tra potestà esecutiva delegata ad universitatem casuum e potestà

delegata ad actum aut ad actus determinatos:—  Nella prima ipotesi, può essere suddelegata solo in singoli casi—  Nella seconda, non può essere suddelegata se non per espressa concessione del delegante originarioLa norma ha un’applicazione diretta nella celebrazione del matrimonio. Se un sacerdote — per es. il vicario parrocchiale —

riceve dal parroco, per iscritto, la delega generale per assistere a tutti i matrimoni della parrocchia, può suddelegare la sua facoltà a un altro sacerdote o a un diacono. Se invece il sacerdote è stato delegato solo per un matrimonio determinato, non può delegare ad altri la sua facoltà senza un’espressa autorizzazione del parroco suddetto ( 1111, § 2).

3°  Ulteriore suddelega 137, § 4 (199, § 5*)  Una ulteriore suddelega della potestà suddelegata non è consentita, se non per espressa concessione

da parte del delegante originario.4.  L’interpretazione 138 (200*)  Come s’è già accennato a proposito della legge (n. 278), l’interpretazione “ratione modi” può essere lata e

stretta. Secondo l’attuale canone, la potestà ordinaria come pure la potestà delegata per la generalità dei casi (a cui sono assimilate le facoltà abituali di cui al 132: n. 954 ss.), considerati i termini e il contesto della legge o del mandato di delega, vanno interpretati in senso lato; qualsiasi altra potestà dev’essere invece interpretata in senso stretto.

La concessione della delega comporta anche l’attribuzione di quelle facoltà, senza le quali il mandato ricevuto non potrebbe essere portato a termine. Così, ad esempio, la facoltà di ascoltare la confessione di una persona colpita da censura, comprende

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anche la facoltà di assolverla dalla censura stessa, che impedisca la celebrazione del sacramento ( 1331, § 1, n. 2). La delega ad assistere al matrimonio, invece, non implica la facoltà di dispensare da un impedimento canonico, poiché si tratta di potestà diversa.

5.  Concorrenza di competenza 139 (204*)  Il 139, § 1, è stato formulato in modo più ampio del corrispondente 204, § 1, del Codice anteriore. Esso

prescrive che quando due autorità, dello stesso o di diverso grado, sono competenti circa la medesima materia o il medesimo caso (per es. due Vescovi ausiliari della stessa diocesi, oppure il Vescovo diocesano e il suo Vicario generale), il fatto che una persona si rivolga a una delle due autorità, non sospende la potestà esecutiva ordinaria o delegata dall’altra, tranne che sia stabilito diversamente dal diritto. Di conseguenza, le eventuali decisioni prese dalla seconda autorità sono valide, ferme per altro restando le disposizioni contenute nei 64— 65.

Il 139, § 2, come i canoni successivi, ha lo scopo d’impedire i conflitti di competenza. Rispettando il principio gerarchico, esso fa obbligo all’inferiore — ad liceitatem — di non intromettersi in una questione deferita all’autorità superiore, eccetto che per causa grave e urgente. In questo caso, egli è tenuto ad avvertire immediatamente il superiore.

La norma tuttavia, come appare dal contesto del canone, riguarda il foro esterno. Nel foro interno si è pienamente liberi di richiedere l’opera dell’inferiore, anche dopo aver fatto ricorso al superiore. Nel detto foro, anzi, l’inferiore concede validamente perfino una grazia negata dal superiore (cfr. 64).

6.  Una triplice forma di delegaLa delega della potestà esecutiva non è un atto che richieda, per sé, la forma scritta né l’osservanza di particolari modalità

“ad validitatem”. Essa per altro può aver luogo secondo una triplice forma.1)  La delega in solido 140, § 1 (205, § 2*)  È la delega fatta a due o più persone circa lo stesso caso, in modo che a ciascuna di esse spetti una

piena competenza in merito, indipendentemente dalle altre. Da una siffatta delega potrebbero sorgere gravi inconvenienti, e il canone, applicando il principio della “prevenzione”, dispone prudentemente che chi per primo inizi a interessarsi del caso, esclude gli altri dall’intervenire in proposito, tranne che in seguito ne sia impedito o non voglia procedere ulteriormente per condurlo a termine.

Non si tratta quindi di una esclusione totale, che priva gli altri della potestà ricevuta, ma piuttosto di una sospensione, che, tuttavia non sembra “ad validitatem”.

2)  La delega collegiale 140, § 2 (205, § 3*)  È la delega fatta a più persone circa lo stesso caso, in modo tale che non abbiano a trattarlo

separatamente, ma tutte insieme. Le persone così delegate devono procedere collegialmente “pro actorum validitate” (com’era prescritto formalmente nel 205, § 3, del Codice precedente), ossia a norma del 119, che disciplina gli atti collegiali, tranne che il mandato di delega stabilisca diversamente.

Il 207, § 3, del Codice del 1917, disponeva che nel caso in cui venisse a mancare uno dei delegati, cessava per ciò stesso la facoltà degli altri, salva prescrizione contraria. La norma non è stata confermata nel nuovo Codice.

3)  Una presunzione 140, § 3 (205, § 1*)  Il terzo paragrafo contiene una precisazione: nel dubbio se la delega a più persone sia stata fatta in

solido o collegialmente, si presume fatta in solido, poiché la procedura collegiale è più rara e complessa. Naturalmente, “praesumptio cedit veritati”.

Nel corrispondente 205, § 1, del Codice precedente, si distingueva tra giurisdizione giudiziaria ed extragiudiziaria o volontaria.

4)  La delega a più persone in tratti successivi 141 (206*)  Nel caso che il medesimo affare venga affidato a più persone per deleghe successive, ad evitare possibili

conflitti si applica la 54” Regula Iuris del VI Libro delle Decretali di Bonifacio VIII: “Qui prior est tempore, potior est iure”, tranne che con la nuova delega si sia voluta revocare la precedente, ma questo deve risultare in modo espresso, esplicito o implicito.

Qualora il primo dei delegati trascurasse di trattare l’affare, o non potesse a causa di un impedimento, o si rifiutasse di farlo per un suo particolare motivo, gli succede il secondo.

Il rispetto dell’ordine delle deleghe non è “ad validitatem”.7.  La cessazione e la sospensione della potestà esecutiva1)  La cessazione della potestà delegata 142, § 1 (207, § 1*)  A termine del 142, § 1, la potestà esecutiva delegata cessa in più modi:1°  Con l’espletamento del mandato (si tenga però presente il 45, per un eventuale errore circa l’esercizio della delega)2°  Col termine della sua durata3°  Con l’esaurirsi del numero dei casi per cui venne concessa4°  Per il cessare della causa finale della delega: cessazione totale, non soltanto parziale (cessa ad esempio, la facoltà

delegata di dispensare da un impedimento matrimoniale, se le parti non intendano più sposare e tronchino definitivamente il loro fidanzamento)

5°  Per la revoca del delegante, notificata direttamente al delegato: sia di persona, che per lettera o per mezzo di terzi; sempre però che “res sit adhuc integra”

6°  Per la rinunzia del delegato comunicata al delegante e da questo accettata; nel frattempo, la potestà ricevuta continua a sussistere.

Non cessa invece per il venir meno della potestà del delegante (anche se ciò avvenisse per privazione dell’ufficio o per sospensione penale), tranne che ciò risulti espressamente da una clausola contraria apposta al mandato.

2)  Una eccezione per il foro interno

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142, § 2 (207, § 2*)  Il foro interno ha delle esigenze prevalenti per il bene delle anime, che è per la Chiesa la legge suprema, per cui il § 2 dispone con senso altamente pastorale che gli eventuali atti di potestà delegata circoscritta nel suo esercizio a questo foro, sacramentale ed extrasacramentale, restino validi, qualora vengano posti per inavvertenza dopo lo scadere del tempo di concessione (elapso concessionis tempore). È il caso di un sacerdote, che, avendo ricevuto “ad tempus” la facoltà di confessione, scaduto il tempo, distrattamente si metta a confessare. Le sue assoluzioni sono valide ad ogni effetto, perché la facoltà gli è prorogata “a iure” dal 142, § 2.

1. Il corrispondente canone del Codice pio — benedettino aggiungeva un secondo caso: “exhausto casuum numero”. Nel nuovo Codice questo è stato omesso, ma si può ritenere che l’atto resti valido anche in questa ipotesi, poiché ricade sostanzialmente nella prima.

3)  La cessazione della potestà ordinaria 143, § 1 (208*)  La potestà ordinaria è annessa all’ufficio ( 131, § 1). Di conseguenza, la perdita dell’ufficio — in

qualunque modo essa avvenga: per rinunzia, trasferimento, privazione o rimozione ( 184) — comporta eo ipso la perdita della relativa potestà. A tal riguardo, è da tener presente anche il 292, per il quale alla perdita dello stato clericale segue eo ipso la privazione di tutti gli uffici e incarichi ecclesiastici e di qualsiasi potestà delegata.

1. Una norma particolare per i Vicari generali ed episcopali: con la vacanza della sede episcopale, gli uni e gli altri cessano dal loro ufficio, tranne che si tratti di Vescovi ausiliari 481, § 1, e 409, § 2); lo stesso avviene in caso di trasferimento del Vescovo ( 418, § 2, n. 1).

4)  La sospensione della potestà ordinaria 143, § 2 (208*)  A termini dei 192—196, si può perdere l’ufficio a cui è annessa la potestà ordinaria di governo, per

privazione o rimozione. Ma la persona interessata è in diritto d’interporre appello o ricorso contro una tale deliberazione (cfr. 1353; 1732 ss.; 1747, § 3). In questo caso, essa rimane titolare dell’ufficio, ma la sua potestà, salvo disposizione contraria del diritto, resta sospesa nel suo esercizio (secondo alcuni “ad liceitatem”, secondo altri “ad validitatem”) sino alla definizione dell’appello o del ricorso. La norma, che è da intendere in senso stretto ( 18), riguarda soltanto i casi di privazione e di rimozione. Trattandosi invece di trasferimento, la potestà del titolare, salva espressa disposizione contraria, rimane integra (cfr. in proposito il 1752, relativo al trasferimento amministrativo dei parroci, e nel quale viene richiamato il 1747).

La potestà rimane sospesa nel suo esercizio anche per effetto della scomunica inflitta o dichiarata, ed eventualmente anche della sospensione ( 1331, § 2, n. 2, e 1333, § 2).

A termine del 481, § 2, in caso di sospensione del Vescovo diocesano, resta sospesa anche la potestà del Vicario generale e del Vicario episcopale, tranne che siano insigniti della dignità episcopale.

8.  La supplenza della potestà esecutiva1)  Una norma giuridico — pastorale 144, § 1 (209*)  La potestà di governo è ordinata nella Chiesa al serviziodella comunità e al bene delle anime. È

pertanto stabilito — a fine di evitare ai fedeli gravi danni soprattutto di carattere spirituale — che in caso di errore comune di fatto o di diritto e, similmente, nel dubbio positivo e probabile sia di diritto che di fatto, la potestà di governo esecutiva, sia ordinaria che delegata (comprese le facoltà abituali: 132, § 1), venga supplita nel foro esterno come in quello interno ipso iure (supplet Ecclesia), qualora essa manchi in coloro che la esercitano. Relativamente alla potestà, cfr. la Risposta n. V della Pont. Comm. per l’interpret. del Codice, 26 marzo 1952: X. OCHOA, Leges Ecclesiae, II, n. 2273, col. 3029.

È questo uno degl’istituti più significativi della Chiesa. Riflette con evidenza il senso vivo della sua pastoralità e la cura attenta, perché gli atti amministrativi posti dai suoi ministri non rimangano senza effetto. A termini dei 596, § 3, e 732, la supplenza si applica anche agli atti esecutivi dei Superiori e dei Capitoli d’Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica in genere, indipendentemente se siano o non siano clericali di diritto pontificio (cfr. Communicationes, a. 1982, p. 151, 141).

Non si tratta — come spiega la dottrina — della sanazione di un atto invalido, ma di unavera e propria delega a iure, di carattere transitorio, che rende valido l’atto nella sua stessa posizione ossia fin dalla sua nascita. La supplenza, tuttavia, si riferisce esclusivamente alla potestà esecutiva o amministrativa, non a quella legislativa o giudiziaria, molto meno alla potestà di ordine in quanto tale, che è di diritto divino e sulla quale la Chiesa non ha, nel caso, alcuna competenza. Trattandosi infatti di potestà di ordine, la Chiesa, ad esempio, non potrebbe supplire la mancanza della potestà sacerdotale in un’assoluzione sacramentale che venisse impartita da un laico.

L’istituto della supplenza ha origini molto antiche, poiché esisteva già nel diritto romano. Esso venne accolto e sviluppato nel diritto canonico, che ne fece una norma non soltanto giuridica ma essenzialmente pastorale. È ammesso anche, limitatamente, nel diritto civile, dove esiste la figura del cosiddetto “funzionario di fatto”.

2)  L’estensione della norma 144, § 2  I due casi in cui ha luogo la supplenza nell’esercizio della potestà esecutiva (errore comune e dubbio positivo

e probabile), sono tassativi. Ma la norma, per espressa disposizione del diritto, si applica anche a tre particolari facoltà, che propriamente sono fuori dell’ambito della potestà esecutiva di governo:

—  Nell’amministrazione della cresima: 882 e 883—  Nell’assoluzione sacramentale dei peccati: 966—  Nell’assistenza canonica ai matrimoni, relativamente agli Ordinari del luogo, ai parroci e ai diaconi: 1108, § 1Prima della promulgazione del Codice, la dottrina e la giurisprudenza affermavano concordemente che la supplenza della

giurisdizione da parte della Chiesa si applicava anche alla celebrazione dei matrimoni. Promulgato il Codice, vari autori avanzarono dei dubbi sulla detta applicazione, in quanto il 209+ parlava espressamente di “potestà giurisdizionale”, mentre tale non era la facoltà di assistere ai matrimoni. La giurisprudenza e anche la Congregazione dei Sacramenti continuarono a seguire la prassi del diritto antico. Fu così deferita la questione alla Pontificia Commissione per l’interpretazione del Codice, che, con Risposta del 26 marzo 1952, n. V, risolse ogni dubbio confermando la tesi della giurisprudenza e della Congregazione romana (X. OCHOA, Leges Ecclesiae, II, n. 2273, col. 3029).

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1. Nel nuovo Codice si ha la conferma definitiva.3)  L’errore comuneLa supplenza della Chiesa ha luogo anzitutto nel caso di un errore comune da parte dei fedeli, in favore dei quali viene

esercitata la potestà esecutiva. Tale errore — precisa il 144, § 1, ponendo così termine alla discussione esistente fra i canonisti — può essere sia di fatto che di diritto.

È comune di fatto, quando esso si verifica in tutti i fedeli di un luogo o di una comunità, o almeno in gran parte di essi, creando una convinzione non rispondente a verità circa la potestà posseduta da una persona.

È comune di diritto, quando si determina una circostanza di carattere pubblico, capace di trarre in errore un buon numero di fedeli, anche se in realtà essi siano pochi.

Si suol proporre a tal riguardo un esempio molto chiaro. Un sacerdote, celebrata la Messa inuna chiesa e pregato dal Rettore, va in confessionale, dove lo attendono dei penitenti. È privo della facoltà e lo sa bene, ma si mette ugualmente ad ascoltare le confessioni. Le sue assoluzioni, per quanto illecite, sono pienamente valide, qualunque sia il numero dei penitenti, anche se uno soltanto, perché nel caso c’è un errore di diritto, determinato dalle circostanze.

Un altro esempio. Un sacerdote viene eletto parroco di una parrocchia, ma la sua nomina per una particolare circostanza (per es. a causa di simonia: 149, § 3) è invalida. Prende possesso della parrocchia secondo le formalità prescritte: di fatto egli è parroco e ne ha in forza del 144, § 1, tutte le facoltà, comprese quelle di ascoltare le confessioni dei fedeli e di assistere validamente ai matrimoni, finché l’invalidità della sua nomina non sarà dichiarata formalmente dal Vescovo diocesano. In questa situazione, sarà valido anche il matrimonio celebrato da una coppia, la quale sia a conoscenza dei fatti.

Ma è lecito — si domandano i moralisti e i canonisti — provocare deliberatamente l’errore comune? In genere la risposta è positiva, purché ci sia una causa grave e proporzionata, in rapporto al bene di una comunità ecclesiale o di un gruppo di fedeli. Secondo alcuni, sarebbe sufficiente il fatto che, in un giorno di domenica o di festa di precetto o anche in una circostanza straordinaria, dei fedeli desiderassero confessarsi e mancasse un altro sacerdote o fosse difficile provvedere diversamente.

Potrebbe essere sufficiente una ragione personale, ad esempio per evitare un grave danno allo stesso sacerdote? In casi particolari, una tale ragione non dovrebbe essere esclusa.

4)  Il dubbio positivo e probabileL’errore è da parte dei fedeli; il dubbio è nella persona che esercita la potestà e riguarda l’effettivo possesso del potere

esecutivo. Si richiede un dubbio positivo e probabile.Dubbio positivo, ossia fondato su delle reali ragioni, che tuttavia non danno la certezza. Se non esiste alcuna ragione, si ha il

cosiddetto dubbio negativo, che non è sufficiente, poiché coincide sostanzialmente con l’ignoranza. Nel dubbio negativo, “Ecclesia non supplet”, e la validità dell’atto dipende esclusivamente dal reale possesso della potestà relativa, tranne che si determini l’errore.

Dubbio probabile, in quanto le ragioni sono di una certa serietà, anche se contraddette da ragioni opposte altrettanto serie.Il dubbio può essere di diritto e di fatto.Il dubbio di diritto concerne l’esistenza della legge, oppure la sua interpretazione, il suo contenuto, il suo ambito. Per es., se

l’estensione della norma in quel dato senso è discussa fra gli stessi canonisti.Il dubbio di fatto verte invece sul fatto concreto di una particolare circostanza. Per es., se la facoltà di confessione sia

scaduta o no; se un fedele sia realmente in pericolo di morte, per l’applicazione del 976; se un determinato luogo appartenga al territorio di una parrocchia.

Nell’uno e nell’altro caso, supplet Ecclesia, e l’uso della potestà è non solo valida, ma per sé anche lecita, pur nell’assenza di una causa grave e proporzionata.

Lo scopo della norma è di tranquillizzare la coscienza del sacerdote, che in tal modo vede il suo dubbio risolto e sa di possedere “ex supplentia Ecclesiae” il potere o la facoltà da esercitare. Nel caso concreto, possono concorrere sia l’errore comune che il dubbio positivo e probabile, e la validità dell’atto sorge dall’uno e dall’altro motivo.