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Via privata Nino Bonnet, 2 – 20154 Milano – Tel. 02.6261 111 – www.fondazionefloriani.eu – [email protected]
Dr. Giovanni Zaninetta Membro del Comitato Scientifico di Fondazione Floriani
“In questi anni ci sono persone che sono venute e sono andate,
la cosa importante è che la Fondazione resti, riesca a rinnovarsi e
riesca a proporre, nelle Cure Palliative che cambiano, una
prospettiva che sta cambiando con loro.”
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GIOVANNI ZANINETTA
Giovanni Zaninetta nasce nel 1950 e si laurea in Medicina e
Chirurgia all’Università degli Studi di Milano nel 1976,
conseguendo, successivamente, la Specializzazione in
Anestesiologia e Rianimazione all’Università degli Studi di Pavia.
Nel 1978 approda all’Ospedale di Angera (VA) ricoprendo prima
il ruolo di assistente medico e poi quello di aiuto corresponsabile,
posizione che ricopre fino al 1988. È stato consigliere regionale
lombardo e Presidente della Società Italiana di Cure Palliative.
Dal 1997 è docente di Cure Palliative all’Università degli Studi di
Brescia. Dal 1989 è Direttore del primo hospice italiano
Congregazione Ancelle della Carità Casa di Cura Domus Salutis
di Brescia.
Giovanni Zaninetta, Gianlorenzo Scaccabarozzi, Francesca C. Floriani e Matteo Crippa a Sorrento per il XXII Congresso Nazionale della SICP
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1. PERCHÉ E QUANDO HA DECISO DI ENTRARE A FAR PARTE
DI FONDAZIONE FLORIANI?
Bisogna fare due passaggi.
Il primo è legato all’esperienza nella Società Italiana di Cure
Palliative (SICP), ho avuto la fortuna di esserne Presidente
ma prima di questo sono stato Consigliere Regionale
Lombardo, poi vice presidente della SICP, quindi ho
percorso per tanti anni la vita societaria. E la vita societaria
della SICP è stata, fino a ora, strettamente legata alla
Fondazione Floriani che, fin dalle origini e fino a poco tempo
fa, ne è stata anche la sede. Quindi è una conoscenza di
vecchia data, risalente a venticinque anni fa e forse di più,
quella con la Fondazione, percepita come grande tutore
delle Cure Palliative in Italia avendole sostenute fin dall’inizio
con il Professor Ventafridda e poi in tutta la vicenda delle
Cure Palliative italiane. In questa fase era una conoscenza
più per continuità, poi, il passaggio che mi ha portato
all’interno della Fondazione Floriani è stato circa 12 anni fa
quando, nel 2004, mi è stato proposto di fare parte del
Comitato Scientifico. Da allora, questo rapporto è stato
molto più stretto sia in termini di elaborazione di contenuti
che di partecipazione a eventi della Fondazione che di
condivisione di tanti aspetti non soltanto strettamente
scientifici della vita della Fondazione di questi anni, con
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tante vicende sia umane che professionali che
organizzative.
Come si è soliti dire “le persone passano le istituzioni
restano”. In questi anni ci sono persone che sono venute e
sono andate, qualche volta questa venuta e questa
dipartita non è sempre stata priva di spigoli e di frizioni ma
credo che la cosa importante sia che la Fondazione resti,
riesca a rinnovarsi e riesca a proporre, nelle Cure Palliative
che cambiano, una prospettiva che sta cambiando con
loro. Credo, quindi, che questo sia uno stimolo forte a
continuare il mio percorso con la Fondazione, seppur con i
miei limiti e con le possibilità logistiche ridotte.
2. QUAL È IL SUO RUOLO IN FONDAZIONE FLORIANI?
Credo che il mio ruolo sia strettamente legato da una
parte alla mia esperienza professionale, perché
certamente negli anni l’assistenza in hospice è stata e
rimane uno dei punti forti delle Cure Palliative, anche se
non l’unico. Dall’altra parte credo più ampiamente di poter
dare un apporto sul versante dei contenuti etici e anche
dei contenuti spirituali che sono specifici di quella globalità
di approccio che è caratteristica delle Cure Palliative. La
mia è in generale un’esperienza, forse anche un po’
datata, legata a quelle che sono state le Cure Palliative.
Ho avuto l’opportunità di attraversare le diverse tappe,
dalla fase pionieristica, passando per la fase, per così dire,
di stabilizzazione, alla fase di stabile collocazione all’interno
del Sistema Sanitario. Credo, quindi, che in parte anche
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questa visione possa rivelarsi utile in una realtà come quella
del Comitato Scientifico della Fondazione.
3. LA SCELTA DI COLLABORARE CON FONDAZIONE FLORIANI
DA COSÌ TANTI ANNI DIMOSTRA UNA CONDIVISIONE DI
VALORI. QUAL È SECONDO LEI LA FORZA DI FONDAZIONE
FLORIANI?
Credo che in questi anni abbia saputo cambiare pelle, nel
senso che quando è nata e nei primi anni aveva soprattutto
due ruoli: il primo di stimolo culturale ma basico perché si
trattava di parlare di un argomento che non era
affrontabile. Il cammino percorso in questi anni ha fatto sì
che oggi, sia pure ancora con molte di difficoltà, si parli di
Cure Palliative, di terminalità, di cura dei morenti ma farlo
trenta, trentacinque anni fa richiedeva anche una buona
dose di coraggio. Quindi questo è stato il ruolo primitivo
della Fondazione grazie a Virgilio Floriani che ha cominciato
questo percorso mettendoci le risorse e un forte impegno.
Negli anni è cambiato il ruolo. Quello che all’inizio era il ruolo
culturale da una parte e il ruolo di supporto alle equipe che
erogavano Cure Palliative, soprattuto nell’area milanese, è
venuto in qualche maniera evolvendosi perché il Servizio
Sanitario Nazionale ha provveduto in maniera più tangibile a
finanziare queste èquipe che comunque ancora oggi
ricevono supporti dalla Fondazione. Inoltre vorrei aggiungere
una considerazione sulla biblioteca di Fondazione Floriani. Il
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successo e l’espansione di internet ha reso un pochino meno
problematico l’accesso alle fonti bibliografiche ma per tanti
anni esso consisteva nella richiesta di una ingente spesa per
abbonarsi a una o più riviste e nel prendere il treno o
prendere il tram per recarsi in biblioteca, fare le fotocopie e
leggere le riviste necessarie e la biblioteca di Fondazione
Floriani ha sempre garantito agli operatori di Cure Palliative
l’accesso a numerose pubblicazioni, a numerosi testi che
erano di difficilissimo reperimento. Quindi il fatto che sia stata
in tutti questi anni, anche in questo senso, un’agenzia
formativa e continui a esserlo anche attraverso l’uso
dell’informatica credo sia un altro dei ruoli preziosi che ha
ricoperto e sta ricoprendo la Fondazione.
4. È SPECIALIZZATO IN ANESTESIA E RIANIMAZIONE E POI SI È
DEDICATO ALLE CURE PALLIATIVE PER TUTTA LA VITA. COSA
L’HA SEMPRE ATRATTA ALLA GESTIONE DEL DOLORE?
Sicuramente la risposta a una bisogno. Ma anche qui
bisogna un po’ contestualizare, perché oggi ragioniamo in
un contesto in cui gli oppiacei sono abbastanza facilmente
reperibili, ci sono i servizi di terapia del dolore abbastanza
diffusi e c’è un’attenzione nei confronti della terapia del
dolore elevata. Ma guardando alla fine degli anni Settanta,
quando la logica era “ha dolore? Eh per forza ha il cancro,
dovrà morire”, risulta chiaro come in un constesto del
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genere non fosse difficile cogliere il bisogno. Diciamo che
l’aspetto contingente è stato quello che, lavorando in un
ospedale abbastanza piccolo con dei chirurghi non troppo
invadenti e che non diventavano matti con la sala
operatoria, avevamo anche i tempi tecnici per poter fare
qualcosa di più e quindi abbiamo approfondito la terapia
del dolore. Occuparsi della terapia del dolore vuol dire
occuparsi di un campo molto più ampio delle Cure Palliative
perché come ci sono pazienti terminali che hanno tutto
tranne che il dolore, ci sono pazienti che hanno dolori terribili
e un’aspettativa di vita di cinquant’anni. Allora è chiaro che
in questo caso non possiamo parlare di Cure Palliative ma di
terapia del dolore e questi erano i casi complessi, difficili,
impegnativi ma che non creavano il problema, se non
marginalmente, che invece è proprio delle Cure palliative
cioè il dover confrontarsi con una persona che ha anche il
dolore ma che ha poco da vivere. Quindi occuparsi di
qualcosa che prima ancora che clinico è esistenziale. Il
problema vero è che uno sta morendo, magari ci voranno
tre mesi o sei mesi o un anno, ma quello è il problema di
fondo. Dopo certamente ci sono gli aspetti medici,
infermieristici, psicologici ma quello è il bisogno a cui dare
una risposta. E in un ospedale per acuti, nel contesto
culturale di allora, questo era assai poco praticabile perché
per un terapista del dolore voleva dire elemosinare un letto
per un malato terminale per curargli un dolore, all'epoca
non si faceva molto di più, ma questa persona moriva in un
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contesto inadatto, con due rischi: quello dell’accanimento
terapeutico o al contrario dell’abbandono terapeutico,
perché “tanto il paziente deve morire e non gli faccio più
niente”. Ecco questo era il quadro di allora. Vedendo queste
cose e avendo avuto l’opportunità di cambiare l’approccio
con la possibilità di dirigere l’Hospice che si stava aprendo a
Brescia, ho un pochino riorientato la mia vita professionale e
in parte anche quella personale, vivevo in provincia di
Varese e ho portato con me moglie e tre figli, quindi è stato
per me un investimento non soltanto professionale ma
anche personale. Con in più, e questo lo dico a posteriori, la
considerazione che non fosse scontato che le Cure Palliative
avessero successo così come non era scontato che gli
hospice avessero successo, quindi da questo punto di vista è
stata anche una scommessa. Questa è la storia del
passaggio dall’anestesia alle Cure Palliative, mediato dalla
terapia del dolore, ma con gli anni mi occupo sempre meno
di terapia del dolore e sempre di più di tutto quello che
riguarda le Cure Palliative. Non perché la terapia del dolore
non sia importante ma solo perché è la condizione
necessaria ma assolutamente insufficiente per curare queste
persone, sia in hospice che a domicilio.
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5. È IL DIRETTORE DEL PRIMO HOSPICE ITALIANO. COSA
SIGNIFICA LAVORARE IN QUESTO CONTESTO E COME SI
GESTISCE LA COMPONENTE EMOTIVA?
Lavorare in un hospice è complicato come lavorare in
un ospedale. Ci sono tutti gli aspetti normativi, igienici,
organizzativi che sono propri di una struttura di degenza,
con in più la necessità di farsi carico di malato e famiglia
all’interno di una rete più complessa. Mentre la logica di
un reparto per acuti è quella della possibile urgenza,
rapida diagnosi, terapia efficace, dimissione, quindi con
un rapporto estemporaneo con il paziente, il quale viene
che sta male, capisco che cos’ha, lo curo e lo mando a
casa, nell’hospice la continuità di cura è una delle
esigenze ineludibili perché il malato di cui mi faccio
carico innanzitutto non è un malato che guarirà e
secondo non è un malato che vivrà a lungo e io devo
garantirgli da quel momento fino alla morte una
continuità di cura. Questo comporta l’instaurarsi di una
relazione che deve essere continua, quindi non posso
pensare “lo ricovero, lo mando a casa e poi si arrangia”
e questo è una delle cose che rende particolarmente
impegnativo il lavoro in hospice perché non è sempre
scontato che la persona che io ricovero, e che poi
magari vorrei dimettere, sia in grado di tornare a casa,
non tanto per la sua patologia quanto per esempio per il
care giver, perché dobbiamo considerare anche la
diminuzione dei componenti del nucleo familiare, la
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distanza geografica dei vari componenti della famiglia.
Fino a qualche decennio fa una famiglia viveva
nell’arco di pochi chilometri ma adesso, momento in cui
le persone rincorrono il lavoro, è sempre più frequente
l’esperienza di un malato settantenne che ha tre figli
molto bravi, molto disponibili ma uno lavora a Torino, uno
lavora a Genova e l’altro, magari più vicino rispetto ai
precedenti, lavora a cinquanta chilometri di distanza.
Risulta difficile organizzarsi per un malato che ha bisogno
di una presenza costante. Tutto questo si riflette sul
problema di gestire la continuità perché è chiaro che se
io ricovero pazienti che muoiono in una settimana il
problema non è quello di dimetterli, mentre se io ricovero
pazienti che stanno lì per quindici giorni perché hanno
problemi di controllo dei sintomi e poi potrei mandarli a
casa perché possono vivere ancora due o tre mesi ma la
famiglia fa orecchio da mercante, si palesa la necessità
di trovare una soluzione che sia rispettosa della volontà
del paziente ma anche delle possibilità della famiglia,
perché se qualche volta se ne disinteressa, altre volte ha
delle difficoltà oggettive, quindi per me questo è uno
degli aspetti impegnativi. Come altrettanto impegnativo
è rapportarsi non solo con il malato quanto con la
famiglia, perché uno dei punti fondamentali è di
occuparsi della famiglia esattamente come del malato
e questo fa sì che ci si debba far carico di situazioni
molto variegate e spesso complicate perché mentre il
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malato è uno solo, la famiglia ha più componenti e non
è detto che tutti abbiano le stesse idee. Ci può essere
magari il fratello, il marito o la moglie che si rendono
conto della gravità della situazione e condividono la
scelta delle Cure Palliative, poi magari c’è un figlio che
invece pensa che sia sbagliato il ricovero in hospice e
l’utilizzo delle Cure Palliative perché secondo lui si può
fare ancora qualcosa. Quindi quando si creano questi
conflitti all’interno della famiglia bisogna saperli gestire e
questo forse è l’aspetto più impegnativo di tutta il lavoro
e che può creare a volte anche delle difficoltà emotive.
Dal punto di vista più generale credo che il manuale di
sopravvivenza consista soprattutto nella capacità a
mantenere la giusta distanza cioè quello di non essere
apatici nei confronti dei pazienti e delle famiglie ma non
esserne neanche coinvolti eccessivamente. Quella per
cui si usa il termine di empatia, cioè condividere i
sentimenti del malato e della famiglia ma senza esserne
travolti e questa credo che sia una delle qualità
indispensabili per operare in Cure Palliative, ovviamente
senza incappare nel rischio inverso cioè quello
dell’apatia, farsi una corazza, niente mi tocca perché
non mi importa nulla di te. Questo sarebbe il peggiore
tradimento delle cure palliative.
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6. COME GIUDICA IL LIVELLO RAGGIUNTO DALLE CURE
PALLIATIVE IN ITALIA ?
Dal punto di vista normativo direi che la situazione è
certamente molto buona. La legge n. 39/1999 che aveva
finanziato la fondazione degli hospice e la legge n. 38/2010
sono due leggi che hanno inciso significativamente sulla
possibilità di fare buone Cure Palliative. Purtroppo tra le
buone leggi e i buoni risultati ci sono a volte delle distanze
anche non irrilevanti, nel senso che l’Italia è lunga e stretta e
ci sono molte diversità. Non dimentichiamo che tra il 1999,
quando è stata fatta la legge per finanziare gli hospice, e il
2010 c’è stata tutta la stretta finanziaria a livello dello Stato
per cui molte cose sono rimaste sulla carta. Perché se è vero
che le Cure Paliative sono ai livelli essenziali di assistenza è
altrettanto vero che alcune regioni fanno fatica a far fronte
alla normalità della sanità. Certamente le Cure Palliative non
sono in cima ai pensieri di chi deve garantire l’emergenza
urgenza, di chi deve garantire l’apertura degli ospedali o di
chi deve far quadrare i conti. Detto ciò se guardiamo a solo
quindici anni fa, le Cure Palliative vanno molto bene.
Quindici anni fa in Italia erano presenti quattro o cinque
hospice, adesso ce ne sono duecento. Poi c’è il discorso
delle cure domiciliari che è molto diverso. Perché, mentre gli
hospice sono espressioni tangibili, misurabili, le cure
domiciliari sono, o rischiano di essere, un’esperienza molto
più fluida perché le strutture non ci sono o meglio sono il
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domicilio del paziente, gli operatori ci sono ma hanno delle
caratteristiche diverse da quelle dell’organico di un hospice.
E anche da questo punto di vista direi che la storia delle
Cure Palliative in italia è nata quasi esclusivamente con
l’obiettivo delle cure domiciliari, partendo da un
presupposto, eccessivamente ideologico, che era quello per
cui i malati terminali vogliono morire a casa loro. Questo è
spesso vero ma non è sempre vero. E poi si faceva
riferimerimento quasi esclusivamente alle patologie
oncologiche. Paradossalmente gli hospice si sono sviluppati
prima e meglio delle cure domiciliari e questo appunto
perché la legge n. 39/1999 ha messo a disposizione circa 250
milioni di euro per costruire gli hospice. Ma l’altro aspetto
che ha compromesso in parte uno sviluppo armonico delle
cure palliative, soprattuto quelle domiciliari, è stata la riforma
del Titolo V della Costituzione. Quando nel 2001 la Sanità è
stata affidata alle regioni, si è creata una situazione per cui
ogni regione ha potuto stabilire cosa volesse dire Cure
Palliative domiciliari, con il risultato che in alcune regioni ci
sono servizi di cure domiciliari strutturati, finanziati e ben
funzionanti, in altre ci sono servizi che vivono stentatamente
e in altri ci sono servizi domiciliari che vivono quasi solo sulla
carta, magari confusi con i servizi domiciliari geriatrici o con
altri, insomma senza una specificità. La legge del 2010
dovrebbe aver cambiato la situazione ma non l’ha ancora
cambiata del tutto. Comunque il giudizio globale delle Cure
Palliative in Italia è che sono migliorate molto rispetto a
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qualche anno fa, ma ciò non vuol dire che siano arrivate
alla stabilità e alla maturità. D’altra parte una
considerazione banale è che se noi chiedessimo a un
possibile utente della sanità che cosa sia un reparto di
cardiologia credo lo sappia dire, ma se chiedessimo cosa sia
un reparto di Cure Palliative non so cosa potrebbe
rispondere. Questo è un segno che le cose non sono ancora
mature ma d’altra parte il percorso è questo, è quello di una
stabilizzazione. Un altro aspetto è stato il cambio di
prospettiva da Cure Palliative solo oncologiche a Cure
Palliative per tutte le patologie croniche evolutive in fase
avanzata, quindi con necessità di ulteriore formazione per gli
operatori, con necessità di cambiamento culturale da parte
di specialisti d’organo, con dilatazione della popolazione
che potrebbe usufruirne e questo crea un ulteriore problema
di adeguatezza ai bisogni che sono in aumento.
7. COME MEMBRO DEL COMITATO SCIENTIFICO DI
FONDAZIONE FLORIANI, QUALI SONO SECONDO LEI LE
PROSSIME SFIDE? E COSA SI DOVREBBE FARE PER
ARRIVARE PREPARATI AD AFFRONTARLE?
Le sfide cruciali secondo me sono due. Quella sul versante
formativo, cioè riuscire a concludere il progetto cattedra
che oramai procede da tanti anni per arrivare a una
istituzionalizzazione delle Cure Palliative a livello
accademico. L’altra è quella di proseguire la diversificazione
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venutasi a creare negli ultimi anni con Fondazione Floriani
Formazione e Fondazione Floriani Ricerca che sono le strade
del futuro. Perché se quella della cattedra universitaria è
una missione da compiere ma poi da affidare all’Università,
si fa da propulsore ma poi è un qualcosa che resterà
all’Università e alla cultura sanitaria italiana, viceversa
l’aspetto della formazione e della ricerca è qualcosa che la
Fondazione può promuovere costantemente nel tempo. La
sfida è quella di fare entrambe le cose il meglio possibile
senza sprecare denaro e ottenendo risultati che siano
spendibili nelle Cure Palliative quindi nella clinica,
nell’organizzazione e nell’assistenza, secondo l’obiettivo che
sicuramente era nel cuore di Virgilio Floriani. E poi avere
sempre uno sguardo attento ai cambiamenti perché nel
momento in cui si condivide l’idea che il percorso del morire
non è soltanto un problema clinico e organizzativo ma è una
vicenda esistenziale, le vicende esistenziali cambiano con i
tempi, quindi bisogna adeguare le risposte ai cambiamenti
della vita. Inoltre, bisogna dare un occhio alla dimensione
etica e spirituale, che non è soltanto o quasi per niente un
discorso sull’eutanasia o sull’accanimento terapeutico ma è
tutto il discorso delle scelte corrette che siano rispettose
della persona. Ho sempre cercato di porre l’accento sulla
quotidianità dell’etica, intendendo non solo i grandi principi
o i grandi discorsi ma il fare, giorno per giorno, delle scelte
eticamente corrette per quel malato, in quel momento e in
quel contesto e questo non è sempre così scontato, quindi
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bisogna cercare di creare anche lì un clima, una
fomrazione, un’attenzione e così via.
8. NEL SUO PERCORSO LAVORATIVO C’È MAI STATO UN
MOMENTO IN CUI HA PENSATO CHE NON FOSSE IL
LAVORO ADATTO A LEI? QUANDO INVECE HA CAPITO CHE
AVEVA INTRAPRESO LA STRADA GIUSTA?
Non ho mai avuto dubbi sul fatto che questo fosse un
lavoro che mi andasse bene. I problemi che ho avuto
sono stati più a livello gestionale e organizzativo, per
esempio nel gestire le persone, perché gestire gli
operatori è molto più complicato che curare i malati. Dal
punto di vista clinico quindi dal punto di vista del
rapporto con i malati o con i familiari, seppur con le
difficoltà che ci possono essere, non ho mai avuto dubbi.
E quando si riesce nel proprio operato le soddisfazioni
sono quelle di riuscire a condividere con queste persone
un progetto di cura che evidentemente è molto limitato
ma quando si vede che si sta facendo insieme un
progetto, pur con i limiti e le sofferenze che nascono
dalla condizione di terminalità, quello è un momento di
grande soddisfazione perché vuol dire che io ho risposto
ai bisogni di queste persone. Ovvamente non è tutto
rosa e fiori però posso affermare tranquillamente che il
pensiero “questo non è un lavoro per me” non ce l’ho
mai avuto.
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Xx, Alessandro Paterlini e Giovanni Zaninetta