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Disseminazione e ospitalità nello spazio scenico Luca Vaccaro Creature del mio spirito, quei sei vivevano già d’una vita che era la loro propria non più mia, d’una vita che non era più in mio potere negar loro. [. . . ] Essi si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistato voce e movimento sono dunque già divenuti di per se stessi [. . . ] personaggi drammatici, personaggi che da soli possono muoversi e parlare; vedono già se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora di- fendersi dagli altri. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedere che cosa ne avverrà. [. . . ] Ma si può rappresentare un personaggio rifiutandolo? Evidentemente, per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi espri- merlo. 1 Introduzione: la «gente del Libro» 2 Questo studio non potrà che essere inestinguibile e, anzi, «auto-combustibile», in quanto orientato a comprendere l’altro, un altro, che, compreso, perderebbe la propria alterità divenendo mio ostaggio 3 . Oppure si presterà a essere inglobato 1 L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Romanzi e teatro, Orsa Maggiore, Trento 1993, pp. 416, 417 e 420. Corsivo mio. 2 Il Corano, “Introduzione”, tr. it. e commento di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1999, II, 105, 109 (ibid., p. 13); III, 20 (ibid., p. 37), 23 (ibid., p. 38), 64-78 (ibid., p. 41-42), 98-115 (ibid., p. 44-45); IV, 153 (ibid., p. 70); V, 15-19 (ibid., p. 76-77), 59 (ibid., p. 81), 65-68 (ibid., p. 82); XXIX, 46 (ibid., p. 292); LVII, 29 (ibid., p. 412); LIX, 2 (ibid., p. 416), 11 (ibid., p. 417); XCVIII, 1, 6 (ibid., p. 482). 3 Per quanto riguarda il concetto derridiano di “struttura di ostaggio”, cfr. J. Derrida, “Passo d’o- spitalità. Quinta seduta (17 gennaio 1996)”, in Sull’ospitalità. Le riflessioni di uno dei massimi filo- sofi contemporanei sulle società multietniche, tr. it. di I. Landolfi, “Invito” e cura di A. Dufurmantelle, Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 122. Copyright c 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali.

Disseminazione e ospitalità nello spazio scenico · Derrida, «il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di non avere identità, bensì di non potersi

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Disseminazione e ospitalità nello spazio scenico

Luca Vaccaro

Creature del mio spirito, quei sei vivevano già d’una vita che era la loropropria non più mia, d’una vita che non era più in mio potere negar loro.

[. . . ] Essi si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistatovoce e movimento sono dunque già divenuti di per se stessi [. . . ] personaggidrammatici, personaggi che da soli possono muoversi e parlare; vedono giàse stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora di-fendersi dagli altri. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andarei personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedereche cosa ne avverrà.

[. . . ] Ma si può rappresentare un personaggio rifiutandolo? Evidentemente,per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi espri-merlo.1

Introduzione: la «gente del Libro»2

Questo studio non potrà che essere inestinguibile e, anzi, «auto-combustibile», inquanto orientato a comprendere l’altro, un altro, che, compreso, perderebbe lapropria alterità divenendo mio ostaggio3 . Oppure si presterà a essere inglobato

1 L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Romanzi e teatro, Orsa Maggiore,Trento 1993, pp. 416, 417 e 420. Corsivo mio.

2 Il Corano, “Introduzione”, tr. it. e commento di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1999, II, 105, 109(ibid., p. 13); III, 20 (ibid., p. 37), 23 (ibid., p. 38), 64-78 (ibid., p. 41-42), 98-115 (ibid., p. 44-45);IV, 153 (ibid., p. 70); V, 15-19 (ibid., p. 76-77), 59 (ibid., p. 81), 65-68 (ibid., p. 82); XXIX, 46 (ibid.,p. 292); LVII, 29 (ibid., p. 412); LIX, 2 (ibid., p. 416), 11 (ibid., p. 417); XCVIII, 1, 6 (ibid., p. 482).

3 Per quanto riguarda il concetto derridiano di “struttura di ostaggio”, cfr. J. Derrida, “Passo d’o-spitalità. Quinta seduta (17 gennaio 1996)”, in Sull’ospitalità. Le riflessioni di uno dei massimi filo-

sofi contemporanei sulle società multietniche, tr. it. di I. Landolfi, “Invito” e cura di A. Dufurmantelle,Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 122.

Copyright c© 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali.Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte eutilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri dellaPubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a finedi lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa,su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato periscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deveessere riportata anche in utilizzi parziali.

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facendosi ostaggio dell’altro: infatti si è già «sottoposti alla legge dell’altro»4 , giànella lingua, residuo minimale della propria eredità.

È che non si può che assumere il proprio punto di vista: privati della propriaindividualità e del proprio domicilio (architettonico, catastale, religioso, letterario,filosofico), se c’è, non si può più concedere ospitalità alcuna. Occorre, allora,tracciare certi confini dell’ereditato, per aprire delle soglie su di essi, attorno alproprio, allo «chez-soi»5 . L’ospitalità è una certa questione dell’eredità6 e di certiconfini che vanno, forse7, oltraggiati.

Parlare di me, di noi occidentali, per parlare d’altro. Seguire l’ordine ingiun-to ad Abramo: «vai a te stesso»8! Occorre stare liberamente e responsabilmente9

dentro la propria eredità e tra le proprie contraddizioni, correndo forse il rischio dioperare scelte argomentative a prima vista vittime di un “etnocentrismo gnoseolo-gico”10. L’evasione, di per se stessa, non è ospitale. La mia libertà di accoglieree ospitare esiste dal momento in cui io assumo responsabilmente l’eredità che miidentifica e che è infinitamente eccedente il mio presente: lo sguardo dell’altro.

È necessario, pertanto, avviare il discorso da una dislocazione decostruentegià operata dall’altro o dal suo spettro sui confini del mio chez-soi. Ecco, dun-que, la necessità di un certo «autoesame»11 tutt’altro che auto-celebrativo, piuttostoaprente, dis-locante, dif-ferente, nello spazio e nel tempo12, per indagare relazionipossibili a partire dalla decostruzione, altrui e alterante, di questa stessa eredità e

4 «Si è sottoposti alla legge dell’altro in quanto eredi, all’interno di una storia e di una tradizione.Essere eredi significa parlare una lingua. Si può anche protestare contro questa lingua, tentare dideformarla e di torturarla. Ma nel far questo, non si fa altro che confermare, ossia controfirmare, ilfatto che la lingua c’è prima di noi, e che è nella lingua, e sotto la legge della lingua, che noi parliamocontro la lingua. Siamo eredi della lingua. [. . . ] È una memoria senza ricordo, una memoria senzapresente-passato. Infinita, così come è infinito l’altro, o la cosa, che ci guarda e che ci tiene sottola sua legge» (J. Derrida, “Il giusto senso dell’anacronia. A colloquio con Jacques Derrida”, inJ. Derrida, C. Sini, Studio Azzurro, verità figura visione, tr. it. e cura di C. Sinigaglia e A. Somaini,Motta/triviquadrivio, Milano 1998, pp. 24-25).

5 J. Derrida, Oggi l’Europa. L’altro capo. La democrazia aggiornata, tr. it., “Postfazione” e curadi M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991, p. 14.

6 Cfr. Id., Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale,tr. it. di G. Chiurazzi, R. Cortina, Milano 1994, pp. 4-5.

7 «Come mai? Non è forse una sfida al buon senso e al senso tout court? È possibile? Forseè impossibile, appunto. Forse l’impossibile è l’unica chance possibile di una qualche novità, diqualche nuova filosofia della novità. Forse, forse a dire il vero il forse dice ancora questa chance.Forse l’amicizia, se ce n’è deve rendere conto a ciò che è impossibile» (Id., Politiche dell’amicizia,tr. it. di G. Chiurazzi, R. Cortina, Milano 1995, p. 51).

8 «Lekh lekhà!» (M. Ovadia, Vai a te stesso, Einaudi, Torino 2002, p. 3. Cfr. anche ibid., pp. 3-11e Gen 12, 1 in La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1974, p. 33).

9 «Per tornare a se stessi è necessario coniugare due condizioni in modo inscindibile, com-penetrarle: quella di libertà e quella di responsabilità» (M. Ovadia, Vai a te stesso, cit.,p. 10).

10 Cfr. V. Turner, Dal rito al teatro, tr. it. di P. Capriolo, “Introduzione all’edizione italiana” e curadi S. De Matteis, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 123-124.

11 Ibid., p. 38.12 Cfr. J. Derrida, “La différence”, in Margini. della filosofia, tr. it. e cura di M. Iofrida, Einaudi,

Torino 1997, pp. 34-35.

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all’interno di questa trovare lo spazio dell’altro. Assumo che, come ha insegnatoDerrida, «il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di nonavere identità, bensì di non potersi identificare, dire ‘io’ o ‘noi’, di poter prenderela forma del soggetto solo nella non-identità, o [. . . ] nella differenza con sé». Al-lora va aperta l’eredità facendo cultura di sé «come cultura dell’altro, cultura deldoppio genitivo e della differenza rispetto a sé»13, a partire dalla cultura dell’altroin sé, del passato ereditato, come epoché del sé presente14, nell’attesa dell’altroa-venire.

Accade, dunque, di parlare una lingua e di essere già sottoposti alla legge del-l’altro. Accade, anche, «al giorno d’oggi»15, di vivere in Europa, «l’altro capo»16

del popolo migrante. Infine, accade di appartenere, almeno agli occhi altrui, a unamedesima «gente», la «gente del Libro»17, abusando pretestuosamente, in sensolato e simbolico, di una denominazione coranica.

Con tale titolo si riconosce, rinnovando e rovesciando i vincoli della «strutturad’ostaggio», la nostra cultura che ha avuto col testo scritto un rapporto privilegiato,un vincolo che «ha un luogo di nascita [. . . ] l’antica Grecia del VII e del VI se-colo a.C. Qui si delinea un nuovo atteggiamento di alcuni uomini verso il mondocircostante»18 . Questo nuovo atteggiamento è quello teoretico-filosofico fonda-to, appunto, sull’oggettività del logos-scritto. «La filosofia si scrive»19. Il libro,ancora.

Allora il compito che mi propongo è quello di dislocare il testo filosofico20

ospitando in queste pagine argomentazioni teatrali ovvero di tracciare, medianteuna alter-azione del e nel testo filosofico, una soglia ulteriore sui nostri confiniculturali. Il teatro è ospitale? Il teatro occidentale, quale epifenomeno di una

13 Id., Oggi l’Europa, cit., p. 14.14 «È questo che in realtà insegna l’auto-esplicitazione filosofica nell’epoché. Essa mostra come

l’io, che rimane sempre unico, nella vita originale e costitutiva che scorre in lui, costituisca una pri-ma sfera oggettuale, la sfera oggettuale ‘primordiale’, e come a partire da essa compia un’operazionemotivata e costitutiva, in virtù della quale una modificazione intenzionale di se stesso e della sua pri-mordialità perviene alla validità d’essere sotto il titolo di ‘percezione dell’estraneità’, percezionedell’altro, di un altro io, che, per se stesso è un io come io sono io per me. [. . . ] Occorre indaga-re come l’io attuale, che, fluendo, è costantemente presente, costituisca se stesso in quanto io chedura attraverso i ‘suoi’ passati in un’auto-temporalizzazione. Ma l’io attuale, che già ha una duratanella durata della sfera primordiale, costituisce in sé un altro in quanto altro» (E. Husserl, La crisi

delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di W. Biemel, tr. it. di E. Filippini,“Avvertenza” e “Prefazione” di E. Paci, Catalogo, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 211-212).

15 J. Derrida, Oggi l’Europa, cit., p. 71 e cfr. anche ibid., p. 11-14.16 Ibid., p. 9. “L’altro capo. Memorie, risposte e responsabilità” è il titolo della prima conferenza

in Oggi l’Europa, cit. Pertanto, cfr. anche ibid., p. 17-19 e 25.17 «Per ‘Gente del Libro’, ahl al-Kitâb, si intendono le comunità religiose che posseggono un libro

rivelato, cioè ebrei e cristiani, verso le quali il Corano prevede disposizioni speciali» (A. Bausani,“Commento” in Il Corano, cit., p. 508).

18 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 334.19 J. Derrida, “‘Qual-quelle’”, in Margini della filosofia, cit., p. 376. Cfr. anche, J. Derrida, Oggi

l’Europa, cit., pp. 41-42.20 Cfr. P.A. Rovatti, “Premessa”, in J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, tr. it. di G. Berto,

a cura di P.A. Rovatti, R. Cortina, Milano 1996, pp. XII-XV.

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cultura, può essere soglia per l’altro che viene o esercizio di ospitalità? Tuttaviail teatro stesso è, a sua volta, “preso” da un testo. Infatti a ridosso della nascitadel nuovo atteggiamento filosofico21 e all’interno dello stesso bacino culturale siha il così detto teatro “occidentale”, legato, da Eschilo in avanti, alla presenza diun testo, anch’esso scritto. Se questo certamente rimarca l’origine “libraria” di unacultura, rinvia altresì nello stesso oggetto “libro” una presenza: quella dell’altro edel suo spettro.

An-«economia della morte»22

L’oblio dionisiaco e le genti dei libri

L’eccitazione dionisiaca è in grado di comunicare a tutta una massa questotalento artistico, di vedersi cioè attorniata da una tale schiera di spiriti, conla quale essa sa di essere intimamente una. Questo processo del coro dellatragedia è il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformatidavanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, inun altro carattere. Questo processo sta all’inizio dello sviluppo del dramma.[. . . ] qui c’è già un annullamento dell’individuo per l’ingresso in una naturaestranea. [. . . ] nel ditirambo ci sta innanzi una comunità di attori inconsci,che si considerano tra loro come trasformati.

L’incantesimo è il presupposto di ogni arte drammatica. In questo incan-tesimo chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come Satiro, e come Satiro

guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di séuna nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato. Con questanuova visione il dramma è completo.23

È testimoniata la prima vittoria di Eschilo in un concorso drammatico nel484 a.C. e poco è noto dei suoi predecessori Pratina di Fliunte e Frinico di Ate-ne. Ciò che pare, invece, indubbio è che la tragedia greca sia nata all’interno dellecelebrazioni liturgiche legate al rito religioso di Dioniso24. La fonte più celebreche lo ricorda è la Poetica di Aristotele, nella quale lo Stagirita descrive l’originedella tragedia dal canto del ditirambo25, in principio, appunto, un «inno corale inonore di Dioniso»26, dio dell’ebbrezza e nume tutelare del teatro. A sua volta, Nie-tzsche, individua nello stato del soggetto trasformato da un «completo oblio di sé»,

21 Alle ragioni del ritardo teoretico, rispetto alle pratiche teatrali, è stato interamente dedicatoF. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, “Nota introduttiva” e cura di G. Colli,Adelphi, Milano 1977.

22 J. Derrida, “La différence”, cit., p. 30.23 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 60.24 Cfr. P. Bosisio, Teatro dell’occidente. Elementi di storia della drammaturgia e dello spettacolo

teatrale, con la collaborazione di A. Bentoglio, M. Cambiaghi, L. Colombo e I. Innamorati, LED,Milano 1995, pp. 62-64.

25 Cfr. Arist., Poet., 4, 1449 A, 9-13, tr. it. di M. Valgimigli, Retorica, Poetica, a curadi M. Valgimigli, in Opere, Laterza, Roma-Bari 1986, vol. X, p. 200.

26 P. Bosisio, Teatro dell’occidente, cit., p. 62.

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generato dagli «impulsi dionisiaci»27 , l’esordio dell’arte drammatica. A prescin-dere dalle conclusioni assiologiche che egli formulerà riguardo l’evoluzione dellatragedia e la sua decadenza, cagionata dal prevalere progressivo del principio apol-

lineo sul dionisiaco, il margine discrezionale, tra il fenomeno drammatico e ciòche non lo è, sembra potersi ravvisare in un certo mistico abbandono della propriasoggettività da parte di colui che agisce sulla scena. Ora, dalla tragedia greca inpoi, nella storia del teatro occidentale, questo oblio di sé è sempre stato destinatoall’“affitto”28 temporaneo del corpo dell’attore a un’identità altra, definita di voltain volta, di epoca in epoca, da una dif-ferente opera drammaturgica: il personaggio.

A un certo punto, quindi, dalla mistica possessione divina dell’attore delle ori-gini, del coreuta descritto da Nietzsche, l’attore si è fatto carico dell’umano. Comericorderà Louis Jouvet: «la materia teatrale è fatta dell’umano. Immutabile e tutta-via mutevole come tutto ciò che è dell’uomo, sottomessa all’accidentale e al mo-mentaneo cangiante per ciascuna epoca. L’arte dell’uomo di teatro è di rimanerenell’umano»29 .

Con il trasporsi del rituale nello spettacolo, autonomo e legato a un testo scrit-to, con la comparsa insomma della drammaturgia e della figura del drammaturgo,dalla tragedia attica in poi, si sono riversati in letteratura, opere, scritti teatrali,copioni, canovacci, ecc., molteplicità di “esseri”, di “identità” dallo statuto onto-logico incerto e spettrale, scaturite dalle menti e dalle fantasie degli autori. Direi,con il Pirandello dei Sei personaggi in cerca d’autore citato in apertura, che essi«vivono per loro conto» di una «vita loro propria», che essi si staccano dall’autoree che vanno «dove son soliti i personaggi drammatici andare per aver vita: su unpalcoscenico». Ma se hanno bisogno di un palcoscenico per avere vita, mentre li«lasciamo andare» da una scena all’altra, da un’epoca all’altra, da un teatro all’al-tro, ecc. non sono propriamente vivi: sono morti. «Non vivono», forse, è più esattodire, quando non sono rappresentati. Pare indubitabile, insomma, che godano diuna qualche vita, che si ripresentino di tanto in tanto e che restino in stand-by, inattesa tra una rappresentazione e l’altra. Ma che resta, nel mentre, di lui (o lei)?Forse – e torno al “forse” e all’indeterminazione di ciò che è impossibile e nontematizzabile –, si può dire che la vita del personaggio rassomigli a quella di unospettro, il quale aspetta di tornare30 e di essere “accolto” da una fantasia, da quelladi un attore o di un’attrice, in primis, ovvero di “non essere rifiutato”. Si trattereb-

27 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 25.28 Cfr. L. Jouvet, “Comportamento dell’attore. Documenti clinici d’uno spirito ansioso da un

uomo per il quale l’amore del teatro è inseparabile da un sentimento di fraternità”, in Elogio del

disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, tr. it. di B. Torresin, a cura di S. De Matteis,La Casa Usher, Firenze 1989, p. 137.

29 L. Jouvet, “Lezioni sul Tartufo”, in Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento

dell’attore, cit., p. 247.30 «Un fantasma vi attendeva, lo sapevo bene, e sulla soglia, all’alzarsi del sipario [. . . ] Come

nell’Amleto, principe di uno stato marcio, tutto comincia con l’apparizione dello spettro. Più preci-samente con l’attesa di questa apparizione [. . . ]: la cosa (this thing), prima o poi verrà. Il revenant

sta per venire. Non può tardare. Benché tardi» (J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 10-11).

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be, evidentemente, di una questione spettrale e di ospitalità, dunque. Ospitalità diuno spettro “disseminato” nelle e dalle pagine di una letteratura.

Disseminazione di spettri

Un primo contributo, riguardo le questioni sopraggiunte, perviene dal saggio Il pa-

radosso sull’attore31 di Denis Diderot, l’autore che «per primo ha capito lo sdop-

piamento»32. Ebbene, qui il filosofo dell’Encyclopédie afferma che i personaggiteatrali «sono i fantasmi immaginari della poesia; [. . . ] sono spettri della particola-re visione di questo o di quel poeta»33. Infatti, secondo il Diderot del Paradosso, ilcompito dell’attore, in procinto di accostarsi a un nuovo personaggio proposto dal-la traccia lasciata dall’autore, consisterebbe nell’immaginare un grande fantasmae nel copiarlo genialmente. Di fatto, questo fantasma, questo “spettro”, il perso-naggio, appartiene a una realtà non equipollente, bensì più consistente e più ampiadella semplice umana immaginazione dell’autore che lo crea o dell’attore che visi accosta. Forse, è piuttosto l’umanità che fa difetto a queste «vite». Come am-monisce Jouvet il comédien: «I fantasmi di teatro sono più evidenti, più reali dite. Voi chiamate fantasmi ciò che per noi è l’essere reale, vivente, la parola umanoper noi indica ciò che perisce e imputridisce»34 . Importante per l’attore è rendersiconto di tale realtà del personaggio e, quindi, permettere al fantasma, che attendeil momento propizio dietro le quinte, di manifestarla pienamente.

Dietro a ogni quinta c’è un fantasma di personaggio, e tutti vivono questarappresentazione che non è che una mascherata, una parodia. [. . . ] Aspetta-

no, per tutta la rappresentazione, un gesto esatto, un’inflessione che risuonidentro di loro, e vedono solamente degli attori, dei comédien, che sono laloro irrisione vivente. [. . . ] Più tardi forse, quella stessa notte, nell’oscuritàdella scena, nella tranquillità inquietante di quelle scenografie, i fantasmi deipersonaggi verranno loro stessi a rappresentarsi, e reciteranno lo spettacoloper un’assemblea di spettatori che saranno dei puri spiriti.

[. . . ] È vero certo che egli è costretto ad aspettarti. La magia è proprio questa,egli ha bisogno del tuo aiuto per essere percepibile, per essere rivelato, permanifestarsi, eppure vive; è un mistero che non puoi capire. Non pensare chequesto sia un castigo per lui, o la sua impotenza, pensa piuttosto che è una

forma di esistenza alla quale egli è costretto affinché tu possa, insieme ai tuoicontemporanei, comunicare con lui.35

Come si vede, in questo passo Jouvet ha già introdotto il personaggio spettralenel teatro, ha già concesso a questa “forma di esistenza” un diritto d’asilo tra lequinte. Ciò nondimeno occorre chiedersi, o piuttosto occorre chiederle, da dove

31 Cfr. D. Diderot, Il paradosso sull’attore, tr. it. e cura di A. Moneta, Rizzoli, Milano 1960.32 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 149. Sul concetto di “sdoppiamento” cfr. infra

pp. 11 sgg.33 D. Diderot, Il paradosso sull’attore, cit., p. 29, corsivi nostri.34 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., 170.35 Ibid., p. 169.

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essa provenga. Dal libro, si è detto: dal testo teatrale. A partire da questo – con illibro, per il libro e nel libro –, infatti, è disseminato.

La scrittura del libretto, del copione, del canovaccio, ecc., del testo destinatoalla scena, come ogni testo scritto, sancisce «un abbandono ad una deriva essen-

ziale: la scrittura è il documento di questo abbandono»36 . Lo scrivere da partedell’autore «è destinare»37 , in primo luogo lo scritto, il suo contenuto con la mate-rialità del supporto, ma anche, nel caso del testo teatrale, l’esistenza dei personaggidel dramma in cui prendono servizio. La peculiarità del testo, di ciò che abbiamometaforicamente chiamato «il libro», in generale, è che esso stesso «è il suo poter

essere sempre in circolazione». Questo è il «suo essere»38: essere dis-seminato,dis-perso, e disseminare destinando col segno e nel segno della scrittura39. A par-tire da questo movimento di destinazione, si attua uno «strappo della scrittura chenon si lascia più ricucire»40 , dal quale il testo si separa senza fine dal suo autore,insieme ai personaggi, nel caso del testo teatrale, che da questo testo attendono unarealizzazione scenica. Di questo «strappo», appunto, abbiamo visto testimone ilPirandello citato.

Il testo annuncia la messinscena ovvero annuncia l’evento come stacco41 dasé, «afferma il difuori»42 e dis-semina nel tempo le proprie potenzialità. La mes-sinscena è, difatti, tutt’altro dal testo teatrale: questa è il doppio di ciò che essaeccede e a cui il testo destina. Finanche il testo teatrale trascurato di proposi-to, crudelmente43 , in un evento scenico pare oltremodo assiologicamente esaltatodall’essere ontologicamente affermato, metafisicamente riconosciuto. Esso è, in-fatti, solamente rinviato alla sua disseminazione e, piuttosto, «controfirmato» inessa ovvero procrastinato verso una «contro-firma»44; è dunque rimandato al suoessere testo disseminato e quindi non necessariamente, bensì solo possibilmente,germogliante. Solo la sua determinazione efficace nel rappresentato, dando vita

alla scrittura, ne ucciderebbe la peculiarità, recuperando la phoné al segno, reinse-rendola in un altro gioco di rinvii ancora disseminanti, ma esterni allo statuto dello

36 S. Petrosino, Del segno. (Disseminario), in J. Derrida, La disseminazione, tr. it. di S. Petrosinoe M. Odorici, “Introduzione” e cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1989, p. 27.

37 Ibid., p. 35.38 Ibid., p. 36.39 «Il seme (il segno, la parola) è sempre disperso (perché dia frutto), ma in quanto disseminato,

perché disseminato: il seme è sempre dis-perso perché sempre dis-seminato. In tal senso la dis-seminazione (del segno, del senso, della parola) si dispiega come originaria messa in gioco delledifferenze nell’ossessione e nella tensione di una destinazione: la disseminazione si mostra ed è

attiva nel movimento della destinazione» (ibid., p. 38).40 J. Derrida, “Fuori libro – Prefazioni”, in La disseminazione, cit., p. 69.41 Cfr. C. Sini, La virtù politica. Filosofia e antropologia, CUEM, Milano 2000, p. 7.42 Ibid., p. 77.43 Cfr. A. Artaud, “Il teatro Alfred Jarry”, in Il teatro e il suo doppio. con altri scritti teatrali,

“Prefazione” di J. Derrida, tr. it. di E. Capriolo e G. Marchi, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, Einaudi,Torino 1968, p. 10, nonché, a tal proposito il commento di J. Derrida in “Il teatro della crudeltà ela chiusura della rappresentazione”, in La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, “Introduzione.Derrida e l’otrepassamento della metafisica” di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1990, p. 320.

44 J. Derrida, “Il giusto senso dell’anacronia”, cit., p. 20-23.

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scritto. La rappresentazione funziona come «momento del testo rilanciato»45 , inun doppio movimento di rilancio e, contemporaneamente, di soppressione del se-gno. Detto ciò, sembra evidente come il negare l’esistenza del testo, il considerarlouno «spostamento d’aria», è un gesto che, di per sé, non uccide il Padre, né Dio46,determinando solamente altri effetti di apertura – pochi – e di chiusura – per lopiù. Lo spettacolo è comunque una finzione, per quanto pericolosa47 e crudele: ladeliberata omissione della parola o del gesto plastico non conferisce verità alcunaa ciò che resta finzione48 nella necessità della ripetizione49 .

Il rischio reale. Quando è rappresentato, il testo «esce dal suo buco» e mettea nudo la sua minaccia: passa, in un sol colpo dal testo «reale» al reale «fuoritesto»50. Il rischio del testo è di morire con la sua messa in scena o con una

sua messa in scena. Ma, lo abbiamo appena considerato, questo è tipico dellostrappo in gioco dall’origine della scrittura. Ebbene, che cosa avviene del testoe che avviene dei personaggi, dove si disseminano, dove sublimano cancellandoil seme? Sublimazione o cancellazione del seme (semen-sema)? La sublimazionenella rappresentazione lo cancella51 , ma il testo, in quanto tale, era già uscito da sé,già sfuggiva al segno: «gli sfugge senza ritorno, non gli rinvia più la sua immagine,non è più un oggetto finito e posto, che riposa nello spazio della biblioteca»52 .

Dove si trovano quindi i personaggi53 , gli spettri? «Qui? Dove? La questionedel qui si ritrova esplicitamente messa in scena nella disseminazione»54 del testo,la quale, non lo dimentichiamo, è oltremodo una questione d’eredità. L’autoregenera lo scritto come un padre, ma da questo stacco non ne governa più la disse-minazione che lo ha reso illocalizzabile agli occhi del padre stesso. «La scrittura èil figlio miserabile. Il miserabile. [. . . ] In ogni modo un figlio perduto la cui im-

45 Id., “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit., p. 320.46 Id., “Artaud: la parole soufflée”, in La scrittura e la differenza, cit., p. 237.47 Cfr. A. Artaud, “La messa in scena e la metafisica”, in Il teatro e il suo doppio con altri scritti

teatrali, cit., p. 161.48 Cfr. J. Derrida, “Fuori libro – Prefazioni”, cit., pp. 77-78.49 «Non esiste oggi nel mondo un teatro che corrisponda al desiderio di Artaud. E da questo pun-

to di vista non si dovrebbe fare eccezione neppure per i tentativo di Artaud stesso. Egli lo sapevameglio di chiunque altro: la “grammatica” del teatro della crudeltà di cui diceva che era “da trova-re”, resterà sempre il limite irraggiungibile di una rappresentazione che non sia ripetizione, di unari-presentazione che sia presenza piena, che non rechi in sé il suo doppio come sua morte, di unpresente che non ripeta, cioè di un presente fuori del tempo, di un non-presente. Il presente non sidà come tale, non si manifesta, non si presenta, non apre la scena del tempo o il tempo della scena,se non accogliendo la propria differenza interna, se non nella piega interiore della propria ripetizio-ne originaria, nella rappresentazione. [. . . ] Il tragico non è l’impossibilità, ma la necessità dellaripetizione» (Id., “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”, cit., p. 320).

50 Id., “Fuori libro – Prefazioni”, cit., p. 84.51 «In teatro l’opera dello scrittore non c’è più» (L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in

Questa sera si recita a soggetto. Ma non è una cosa seria. Bellavita, Orsa Maggiore, Foligno 1995,p. 12).

52 J. Derrida, “Fuori libro – Prefazioni”, cit., p. 95.53 «Da che mondo vengono questi personaggi e perché?» (L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”,

in Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, cit., p. 159).54 Ibid., p. 52.

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portanza è proprio quella di un orfano, come di un parricida perseguitato, e talvoltaingiustamente»55 , afferma Derrida. E ancora, commentando Platone:

lo scritto è un discorso scritto (logos gegrammenos). In quanto vivo, il logos

è generato da un padre. Per Platone quindi non c’è cosa scritta. C’è un logos

più o meno vivo, più o meno vicino a sé. La scrittura non è un ordine disignificazione indipendente, è una parola indebolita, non è propriamente unacosa morta: è un morto-vivo, un morto in rinvio, una vita differita, una par-venza di respiro; lo spettro, il fantasma, il simulacro (éidolon)56 del discorsovivo non è inanimato, non è insignificante, significa semplicemente poco esempre in modo identico. Questo significante da poco, questo discorso pocogarantito è come tutti gli spettri: errante. Vaga (kylìndeitai) qua e là comeuno che non sa dove va, avendo perduto la retta via, la buona direzione, laregola della rettitudine, la norma; ma anche come uno che ha perduto i propridiritti, come un fuorilegge, un traviato, un cattivo ragazzo, un mascalzone oun avventuriero. Percorrendo le strade, non sa nemmeno chi sia, quale sia lasua identità, se ne ha una, o un nome, quello di suo padre. Ripete la stessacosa quando viene interrogato agli angoli delle strade, ma non sa più ripeterela propria origine. Non sapere da dove si viene e dove si va, per un discor-so senza chi ne risponda, vuol dire non saper parlare, è lo stato d’infanzia.Lui stesso spaesato, anonimo, senza legame con il suo paese e la sua casa,questo significante quasi insignificante è a disposizione di tutti, sia dei com-petenti che degli incompetenti, di coloro che ascoltano e vi si ascoltano (tòis

epàiusin) e di coloro a cui tutto ciò non riguarda minimamente, e che, nonconoscendovi nulla, possono affliggerlo con tutte le impertinenze.

Disponibile per tutti e per ognuno, offerta sui marciapiedi, la scrittura non èforse essenzialmente democratica?57

Figlio di tali infauste origini è dunque il personaggio teatrale. Egli deriva ilsuo statuto da questa semina originaria e, pertanto, subisce tutti gli effetti dellapropagazione dispersiva cui il testo stesso è soggetto.

Errano, dunque, i personaggi e, nelle loro peregrinazioni, si rendono dispo-nibili, ricercano atavicamente la loro realizzazione scenica «come fantasmi chevogliono prender corpo, pensieri che cercano delle anime (Dante)58, nel limbo nelquale vivono»59 . Sono anch’essi essenzialmente «democratici», come la scritturache li stacca dalla penna dell’autore, in quanto vestibili da chiunque sia disposto arecitarli e ad accoglierli, ma permangono pur sempre in balia dell’essere il precipi-tato scenico di una «disseminazione di cadaveri» ovvero di segni che si cancellano

55 J. Derrida, “La farmacia di Platone”, in La disseminazione, cit., pp. 173-174.56 Cfr. Plat., Phaedr., 276 A.57 J. Derrida, “La farmacia di Platone”, cit., pp. 171-172.58 Cfr. Dante, Inferno, Canto IV, vv. 19-45, in La divina commedia, a cura di T. Di Salvo,

Zanichelli, Firenze 1985, pp. 61-63.59 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 189.

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per dare avvio a una vita spettrale, sia essa quella del libro o quella del suo figlioancor più degenere60 : il personaggio teatrale, appunto.

Lo scritto, che è «malformato dalla nascita»61 , comporta la deriva essenzialedel personaggio spettrale quale perenne straniero in cerca di ospitalità. Come il«pharmakon introduce e ripara la morte»62 così il testo drammatico, giocando conla messinscena, assicura il destino eterno del personaggio nel migrare da un’in-carnazione contingente a un’altra, morendo alla propria universalità in ogni suadeterminazione scenica, ma guadagnando con essa un credito di immortalità piùampio, ancorché incompiuto fino alla successiva determinazione.

L’incarnazione

Ora questi Sei personaggi chiedono di vivere. Vogliono essere immessi inun dramma. Sono più reali di lei, direttore di teatro, di voi, guitti immondi.Sono reali e lo dimostrano. Perché in che cosa consiste la vostra realtà, divoi vivi, personaggi in carne e ossa, e non personaggi in spirito, che aveteuna madre, un padre, che avete uno stato civile?63

I personaggi teatrali possiedono, dunque, un’autonomia che permette loro diconservarsi tra una rappresentazione e l’altra, essi devono per fatalità migrare echiedere con petulanza istanti di discrezione concreta in un flusso continuo di pro-pagazione casuale della loro realtà spettrale. Questi istanti possono solo esisterequali determinazioni sceniche contingenti, ovvero incarnazioni temporanee in es-seri umani che sono più o meno disposti a ospitarli nella loro dimora più intima: illoro «sé»64, per usare la terminologia di Jouvet.

I personaggi dicono: «Generati dallo spirito, la nostra legge è quella di vive-re senza fine, ma ancora incompiuti»65 . Essi, infatti, non hanno ancora raggiuntola condizione di personaggi viventi sulla scena, quantunque siano già sparpagliatiin una certa determinazione letteraria, per quanto disseminante. Certamente pos-seggono già un’identità definita, ma non ancora compiuta in ciò che sussisteràsolo “in scena”, forse. Possiamo allora affermare con Artaud e Pirandello che essisiano “reali” o che “vivano” con un’identità propria, la quale tuttavia non si espri-me integralmente se non nell’evento scenico: il personaggio non è il personaggioletterario, ma attende uno spazio scenico e un attore.

60 «Questo avventuriero [. . . ] simula tutto a caso e non è in realtà nulla. Abbandonato a tutte lecorrenti, è della massa, non ha essenza, né verità né patronimico, né costituzione propria» (J. Derrida,“La farmacia di Platone”, cit., p. 173).

61 Ibid., p. 176.62 Ibid., p. 171. Cfr. anche Plat., Resp., 607 C.63 A. Artaud, “Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées”, in Il teatro e

il suo doppio. Con altri scritti teatrali, cit., p. 110.64 «Cos’è il me? È quello che sei immediatamente, quello che parla subito e ad alta voce. Cos’è il

sé? È l’altro, quello che non ascolti mai dentro di te, quello che parla sottovoce; è l’orecchio interiorecon il quale ascolti un personaggio. Il me è epidermide e il sé ramificazione profonda» (L. Jouvet,“Divagazioni del comédien”, cit., p. 185).

65 A. Artaud, “Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées”, cit., p. 110.

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Il personaggio attende ospitalità. Dove? In un luogo: il corpo dell’attore66 .Eppure, anche qui, lo stesso personaggio non può che rivelarsi ovvero non può cherilanciare la propria immortalità nella morte della determinazione, nel suo essereostaggio del periodo storico e dell’individuo che lo sta interpretando più o menocorrettamente – ma esiste mai correttezza? Ebbene, se possiamo parlare qui pro-priamente di ospitalità, non possiamo prescindere dall’antinomia67 cui le questionid’ospitalità rinviano. L’antinomia, l’opposizione di leggi «eterogenee e indisso-ciabili»68, determinerebbe la possibilità di deterioramento del guest o dello host

nello hostage e sarebbe appunto originata dal contrasto tra la legge d’ospitalità in-condizionata e le leggi condizionate e condizionanti che ne costituiscono il dirittoapplicato, quale snaturamento, ma, insieme, quale condizione di sussistenza. Se,di fatto, non si può donare ospitalità senza che vi sia evento di dono, fenomeni-camente determinato69 , similmente non può esistere svelamento dello spettro delpersonaggio, non vi è espressione di vita reale, germogliare di semina, senza ri-velazione, ri-nascondimento e morte dell’immortalità potenziale. Ecco perché unamessa in scena può essere “mortale”70: in gioco non vi è che una certa morte allapropria identità del personaggio e dell’attore che si presta a interpretarlo. La messain scena, dunque, è “mortale” nella misura in cui, nella contingenza di cui fa parte,non rilancia l’immortalità dello spettro, rendendolo libero di disperdersi nuova-mente alla ricerca di altre dimore, ovvero quando cerca di fissare in una forma71

l’origine dionisiaca del teatro.Il fatto è che l’evento-personaggio è sempre a-venire72: non risiede mai inte-

ramente in una delle sue determinazioni e la sua verità, se c’è, «non si racchiu-

66 «L’attore sente il personaggio, il fantasma ha preso corpo dentro di lui» (L. Jouvet, “Sul-l’attore”, in Elogio del disordine. Riflessioni sul comportamento dell’attore, cit., p. 62, corsivonostro).

67 «Ci sarebbe antinomia, un’antinomia insolubile, un’antinomia non dialettizzabile tra La leggedell’ospitalità da una parte, la legge incondizionata dell’ospitalità illimitata (offrire a chi giunge lapropria casa e il proprio sé, offrirgli ciò che ci appartiene senza domandargli nome o contropartita,senza che sottostia ad alcuna condizione) e, dall’altra parte, le leggi dell’ospitalità, i diritti e i do-veri sempre condizionati e condizionanti, così come li definisce la tradizione greco-latina, ovverogiudaico-cristiana, tutto il diritto e tutta la filosofia del diritto fino a Kant e Hegel in particolare,attraverso la famiglia, la società civile e lo Stato» (J. Derrida, “Passo d’ospitalità”, cit., p. 84).

68 J. Derrida, “Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida”, inG. Borradori (a cura di), Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida,tr. it. di F. Hermanin e G. Bianco, Laterza, Bari 2003, p. 139.

69 Cfr. J. Derrida, Donare il tempo, cit., pp. 122-124.70 Cfr. P. Brook, Lo spazio vuoto, tr. it. di I. Imperiali, Bulzoni, Roma 1998, p. 21-51.71 «Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della

sua forma; sciogliere questa sua forma dentro di noi in movimento vitale; e la vita glie la diamo noi»(L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, cit., p. 14).

72 «Una tale questione avviene, se avviene, interroga su ciò che verrà nell’a-venire. È rivolta versol’avvenire, gli va incontro, ma ne viene anche, proviene dall’avvenire. Deve perciò eccedere ognipresenza come presenza a sé» (J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova

Internazionale, cit., p. 5).

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de in una formula»73, ma deborda74 da essa incarnando il dono dell’attore e delpersonaggio stesso. Jouvet, nelle Lettere all’attore, fa scrivere al personaggio:«Non cercare una dottrina, non è la reincarnazione che importa, bensì il divenire.Movimento, slancio orientato»75 .

Non è possibile, dunque, slegare il fatto dell’incarnazione del personaggio dal-l’essenza effimera di ciascuna reincarnazione, così come non è possibile svincola-re l’ospitalità dalla variabilità del diritto contingente che la snatura e la consente.Pertanto, il diritto di ospitalità si deve servire di uno «slancio orientato» per mante-nere dischiusa la possibilità di un’ospitalità a-venire dell’altro «fuorilegge»76 comeanche ogni determinazione formale del personaggio teatrale va orientata a una me-tempsicosi a-venire. Nell’incarnazione contingente, se c’è, ne va dell’immortalità,nel duplice senso che essa determina l’indeterminabile – lo spettro –, pur essendocondizione di esistenza dello spettro stesso.

La mia durata è più ampia della durata di tutte le variazioni che su di mesono state fatte e più di quelle che verranno fatte; io sono l’essere permanen-temente utile a coloro che possono o vogliono sentire o pensare.

Io offro e non ne ricevo niente. Non ho in animo alcuna retribuzione. Io sonocreato per essere incarnato. È la mia punizione e la mia ricompensa, in altreparole il mio essere.77

Il personaggio vivrebbe, dunque, un processo an-economico78 necessitando,per vivere, della dispersione in determinazioni che comporterebbero, in qualchemisura, una morte della sua essenza spettrale nella sua libertà e universalità – la“punizione” –, ma insieme sarebbero la sua unica possibilità di concreta realizza-zione – la “ricompensa”.

Mediante l’incarnazione si vede, dunque, controfirmare il medesimo parricidiogià attuato per l’essenza della dispersione dello scritto ovvero il parricidio del logos

che li ha generati. Non solo. Come lo Straniero del Sofista79, i personaggi teatrali

73 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 175.74 «Il dono, se ce n’è, sarà sempre senza bordo. [. . . ] Il dono dovrebbe, se ce n’è, debordare il

bordo, certo, verso la dismisura e l’eccesso; ma dovrebbe anche sospendere il suo rapporto con ilbordo, e anche il suo rapporto trasgressivo con la linea o con il tratto isolabile di un bordo. Il ‘senza’non è soltanto l’‘oltre’ o l’ ‘al di là’» (J. Derrida, Donare il tempo, cit., pp. 92-93).

75 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 174.76 J. Derrida, “Questione dello straniero: venuto da fuori. Quarta seduta (10 gennaio 1996)”, in

Sull’ospitalità, cit., p. 58.77 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 174. «Incarnato nella realtà palpabile del-

l’attore, nel suo organismo vivo» (J. Grotowski, Per un teatro povero, “Prefazione” di P. Brook,tr. it. di M.O. Marotti, Bulzoni, Roma 1970, p. 30).

78 Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx, cit., p. 33. «Solo una ‘vita’ può donare, ma una vita nella qualequesta economia della morte si presenti e si lasci debordare» (Id., Donare il tempo, cit., p. 103.)

79 «Lo straniero scuote il minaccioso dogmatismo del logos paterno: l’essere che è, e il non-essereche non è. Come se lo Straniero dovesse cominciare col contestare l’autorità del capo, del padre, delsignore della famiglia, del ‘padrone di casa’, del potere d’ospitalità» (J. Derrida, “Questione dellostraniero: venuto da fuori”, cit., p. 40). Cfr. Plat., Soph., 240 C-242 A.

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mettono continuamente in discussione ciò che è e ciò che non è, pretendendo unarealizzazione veritiera e concreta della loro destinazione letteraria.

Occorre, quindi, riflettere sul luogo di pertinenza delle incarnazioni stesse: gliattori. Qui sta il teatro e la sua problematicità80 .

Sdoppiamento

Il fantasma e l’ospitalità

Allora dov’è il teatro? ESSI [, i personaggi,] vivono, affermano di esserereali. Ce l’hanno fatto credere. Allora noi [attori], che cosa siamo? Eppu-re questi Sei personaggi, sono ancora degli attori ad incarnarli. Si pone inquesto modo tutto il problema del teatro. Ed è come un gioco di specchiin cui l’immagine iniziale si assorbe e rimbalza ininterrottamente, cosicchéogni immagine riflessa è più reale della prima e il problema non cessa diporsi. E l’ultima immagine porta via con sé tutte le altre e sopprime tutti glispecchi. Si vedono cosi i Sei personaggi dai volti spettrali, in fila come mum-mie, andarsene con l’ascensore e sparire nelle centine reali fino al prossimospettacolo.81

Artaud si riferisce evidentemente ai Sei personaggi in cerca d’autore, che fino-ra ho lasciati giocare per mostrare come l’autore siciliano abbia indicato il varcoche apre la questione del teatro come epifania dell’altro che si presenta spettral-

mente. L’erranza tra una messa in scena e l’altra comporta, infatti, un agguato,un’irruzione spettrale, più o meno violenta e lancinante, nell’essere di un altro

che è tenuto all’ospitalità dello spettro nella propria carne: l’attore, se questi è uncomédien.

Chi è il comédien? Si tratta di una distinzione che Jouvet introduce nel 1935,quando scrive la voce “Art du comédien” per l’Encyclopédie Française82: «L’acteur

entra nel personaggio, il comédien lo riceve in sé»83. Tale diversificazione, dun-que, mi sarà utile nel considerare l’attore come host, che «riceve» il personaggio,ma anche come luogo – il suo «in sé» – di accoglienza dello stesso84. Secondo

80 Cfr. A. Artaud, “Sei personaggi in cerca d’autore alla Comédie des Champs-Elysées”, cit.,p. 111.

81 Ibid, corsivo nostro. Inoltre, cfr. L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 158.82 Cfr. L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., pp. 40-46.83 Ibid., p. 40. Scelgo, da ora in poi, di fare uso del termine francese “acteur”, allorquando nel-

l’esposizione si dovesse intendere nello specifico il significato che Jouvet attribuisce a questa parola,preoccupandomi di sostituire il termine italiano “attore”, con il francese “acteur”, anche nelle tradu-zioni di Jouvet a cura di Brunella Torresin. Il termine italiano «attore» sarà utilizzato genericamente,denotando la professione a cui pertiene la differenziazione tra acteur e comédien.

84 «L’attore, incarnandosi presta il proprio corpo al personaggio. [. . . ] Una volta ottenuta lasensazione fisica, l’attore deve lasciare che l’anima del personaggio venga ad abitare in lui e soprat-tutto deve muoversi con lentezza, senza brusche operazioni; lo sciamare delle idee e dei sentimentidell’autore nell’attore è un’operazione delicata. Successivamente, è necessaria una sorta di siste-

mazione, la maniera in cui il personaggio, l’inquilino, vivrà presso questo nuovo proprietario. Dal

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Hegel, l’attore è colui che si accosta all’opera d’arte drammaturgica o, più sem-plicemente, al personaggio con disponibilità, «come individuo intero con la suafigura, la sua fisionomia, la sua voce ed ha il compito di fondersi completamentecon il carattere che manifesta». Questa fusione ha da essere tale che il suo mestieredeve rassomigliare a quello di «una spugna che assorbe tutti i colori e li restituisceimmutati»85, per cui deve tendere a essere ciò che Jouvet chiama un “comédien”.Ciò nondimeno, nell’assorbimento del personaggio e del suo dramma, egli non puòche scontrarsi con le proprie specificità umane. È qui che l’irruzione del personag-gio lascia trasparire una certa violenza: «egli è costretto a eliminare tali peculiaritàdi fronte all’espressione di pathos universale e di una caratteristica tipica»86, per-tanto, a onorare, rispettivamente, la comunicatività della propria espressione, cheverrà fruita da un pubblico e, insieme, la tipicità del personaggio che intende servi-re. Tuttavia è evidente come nessuna universalità di interpretazione sarà possibile,dato che la rappresentazione sarà comunque determinata: di fatto il comédien do-vrà gestire l’irruzione con modalità proprie che risentiranno delle sue peculiaritàstoriche e umane, lasciando piuttosto l’universalità del pathos e la tipicità del per-sonaggio come punti di riferimento cui tendere asintoticamente, pur nel continuosnaturarli.

Se, come credo, questo è un mestiere per essenza ospitale, in quanto tale nonpuò allontanarsi dalle antinomie tipiche delle questioni d’ospitalità, appunto. L’u-nica certezza è il corpo storico proprio dell’attore che affronta il personaggio87 egià a questo livello l’acteur, che sostituisce la propria personalità al personaggio,tenendolo in ostaggio, si contrappone al comédien, il quale, mediante la propriacomprensione del ruolo, si lascia insinuare e penetrare88 da esso89. La fusione dicui parla Hegel non può quindi avvenire che in uno stato di problematicità90 tral’individuo attore, nella sua peculiarità storica, spirituale e corporea, e il perso-naggio, nella sua spettralità. La realizzazione dello spettro non può esulare dallecircostanze date da cui dipende la «plasticità»91 del ruolo teatrale e tra queste vi

tipo di ospitalità data e ricevuta dipende la qualità dell’interpretazione, il perfezionamento dell’artee della natura umana del comédien, che procedono di pari passo, l’irraggiamento che penetra l’operae scende fino al pubblico» (L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 189, corsivi nostri, eccettoil primo).

85 G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 1329.86 Ibid., p. 1331. Inoltre, cfr. ibid., pp. 1329-1330.87 Cfr. S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, in L. Jouvet, Elogio del disordine, cit., p. 18.88 «Il fattore determinante di questo processo è costituito dalla tecnica di penetrazione psichica

dell’attore. Egli deve imparare a far uso della sua parte come di un bisturi che gli serva per auto-sezionarsi» (J. Grotowski, “Il Nuovo Testamento del teatro”, in Per un teatro Povero, cit., p. 45).

89 «Il punto di partenza è sempre l’empiricità del mestiere e, in quanto strumentista, lo strumentoa disposizione del comédien è il suo corpo e la sua anima in un continuo procedere per adattamentio per scontri con le condizioni date» (S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, cit., p. 20).«Per l’attore, il materiale utilizzato per creare persone immaginarie che infila e sfila come un guanto,è carne della propria carne, sangue del proprio sangue. Ogni volta dona parti di sé» (P. Brook, “Ilteatro immediato”, in Lo spazio vuoto, cit., p. 144).

90 Cfr. S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, cit., p. 21-22.91 Cfr. L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 171.

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è, indubbiamente, anche la scelta di come gestire di volta in volta la soglia chepermette al personaggio di insinuarsi nell’attore e viceversa. Ovvero la scelta diessere un acteur o un comédien.

Tale questione era già stata affrontata da Diderot nel suo Paradosso sull’atto-

re mediante il concetto di sdoppiamento. Chi è l’attore mentre è il personaggio?Non risulta egli sdoppiato92? «Se è se stesso quando recita come potrà cessare diesserlo? E se vuol cessare di essere se stesso, come troverà il punto giusto in cuidovrà collocarsi e tenersi?»93 Per Diderot solo la lucidità, ovvero la padronanza disé, consente un’adeguata espressione94 del personaggio, quindi questi va limitato,confinato, dalla ratio attorale. Tuttavia, guardando ad attori e a epoche passati,notiamo come ciò che c’è di variabile nel mestiere dell’attore pertiene, appunto, almodo in cui l’attore di sdoppia e ai risultati che questo sdoppiamento comporta95

irrigidendo o mitigando i limiti consentiti allo spettro del personaggio dall’attoreche ne regola l’ospitalità in sé. Ciò accade indipendentemente dal fatto che questiabbia privilegiato la via della psicotecnica di stampo stanislavskijano96 , oppure lavia di Diderot, che difende la necessità di un controllo razionale sul personaggioe nega che quella “fusione”, di cui Hegel parla, possa realizzarsi se non nel con-trollo delle proprie emozioni97, o ancora, eccedendo in tale direzione, la via dello«straniamento»98 brechtiano in cui «l’artista si guarda»99 , consentendo all’attore diosservare il personaggio recitare nel suo sé, provocando una rarefazione e uno sve-lamento anti-mimetico dell’effetto di sdoppiamento100 . Ebbene, seguendo Copeau,Jouvet tende a fondere la via stanislavskijana con quella diderotiana: «se l’attoresi esprime attraverso segni che si originano dalle proprie operazioni psichiche e se,d’altra parte, non può limitarsi a misurare su di sé il personaggio, l’amplificazioneartistica non può avvenire senza mettere in moto forze morali»101.

92 Cfr. D. Diderot, Paradosso sull’attore, cit., pp. 22-23.93 Ibid., p. 21.94 Cfr. ibid., p. 44.95 Cfr. S. De Matteis, “Un attore al limite del teatro”, cit., p. 32.96 Ovvero «sviluppando e maturando i sentimenti con una precisione e coerenza matematiche»

(K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, tr. it. di E. Povoledo, a cura di G. Guerrieri, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 523. Cfr. anche ibid., pp. 519-527), allo scopo di «creare in scena la vita interiore delpersonaggio» (ibid., p. 24) mediante «l’arte della ‘riviviscenza’» (ibid., p. 21). «In russo perejivànie:indica il processo mediante il quale un attore rievoca, analizza, comprende e rivive una sua esperienzapersonale analoga a quella del personaggio e se ne serve per immedesimarsi in esso» (ibid., in nota.).

97 Tuttavia, osserva Jouvet, «Diderot, che non era un comédien, non poteva aver provato ilmisterioso processo dei movimenti psico-fisiologici che animano l’attore in scena» (L. Jouvet,“Sull’attore”, cit., p. 45).

98 B. Brecht, Scritti teatrali, tr. it. di E. Castellani, R. Fertonani e R. Mertens, a curadi E. Castellani, Einaudi, Torino 1962, p. 63.

99 Ibid., p. 73.100 Cfr. anche la descrizione dei «quattro poli dell’attorialità» (interprete, autonomo poeta, esecu-

tore e vittima sacrificale) secondo la descrizione fornita in R. Tessari, “Poetiche intorno all’attore” e“Tecniche espressive dell’attore: posizioni di scena, mimica del volto. . . ”, in R. Alonge, R. Tessari,Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, LED, Milano 1996, pp. 30-37.

101 F. Cruciani, Jacques Copeau o le aporie del teatro moderno, Bulzoni, Roma 1971, p. 193.Cfr. L. Jouvet, “Tecniche, personaggi, testi” e “Comportamento dell’attore”, in Id., Elogio del

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Jouvet affronta la questione dello sdoppiamento come una questione etica einvita l’attore alla responsabilità individuando la distinzione acteur/comédien.

L’interpretazione degli acteurs si limita, in generale, a una riduzione del per-sonaggio, attraverso quel che di misero, particolare, personale l’acteur portadentro di sé.

[. . . ] Incarnato come l’acteur, ossia amplificato di se stesso e da se stessopoiché egli è il proprio risuonatore, oppure disincarnato come il comédien.

L’acteur agisce tramite l’esproprio102, l’appropriazione del personaggio: «Le-vati di lì, che mi ci metto io». L’acteur vuole testimoniare subito e di se stesso(innanzi tutto).

Il comédien lavora attraverso un approccio, un’amicizia, una lenta introdu-zione in cui tutto di lui si offre affettuosamente al personaggio, fino a so-stituirsi a esso generosamente, con liberalità, per poterne poi testimoniarepubblicamente, lealmente.

Il ruolo deve servire a disincarnarsi da se stessi. Soltanto attraverso e inquesto stato si ottiene il personaggio.

[. . . ] L’acteur, da parte sua, si limita a dare l’impressione, l’illusione delpersonaggio.

Il comédien giunge al personaggio grazie a uno sforzo di sensibilità e di spi-ritualità, attraverso una sorta di disciplina dei momenti di preparazione e diesecuzione.

L’acteur è un comédien negativo grazie a delle qualità fatte solo di apparenzaesteriore, grazie a un prestigio in cui la voce, il gesto, la prestanza, il pubblicogli conferiscono immediatamente una priorità, una simpatia, una confidenzaattraverso le quali il pubblico ha più facilmente accesso all’illusione. Conil sotterfugio dei suoi doni fisici, della sua autorità, della sua reputazione,l’acteur acquista o conquista il pubblico, l’illusione di cui il pubblico habisogno e che il pubblico subito gli si accorda.

Il comédien deve produrre ogni cosa con dei mezzi artificiali. È il vero103

attore, l’adattamento del suo fisico, ma soprattutto lo stato interiore sensibile,che si innalza fino a una certa altezza nelle sensazioni e nei sentimenti, finoa una zona in cui normalmente respirano i personaggi.

[. . . ] L’acteur, da parte sua, non si disincarna mai. Il suo talento è quellodi essere estremamente incarnato in sé, per prima cosa, e in se stesso; e ilpubblico esige da lui che assomigli a se stesso. Il vuoto al quale il comédien

aspira e raggiunge lo renderebbe inesistente. Egli esiste solo grazie a sestesso.

Il comédien esiste soltanto grazie allo sforzo e alla disciplina, all’immagina-zione viva, regola di vita per i suoi pensieri e per il suo corpo, infine grazieal personaggio al quale cerca di adeguarsi, al quale cerca di presentarsi nonnello specchio della propria camera, ma in una sua viva immaginazione104.

disordine, cit., rispettivamente p. 75 e p. 89.102 Corsivo mio.103 Corsivo mio.104 Ibid., pp. 183-184.

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Il «vero» attore si disincarna ed è «strumento di personalità per un ruolo»,«strumento di uguaglianza per un personaggio» e «strumento di servizio per uneroe di teatro, la cui vita spirituale è fuori dalla sua portata»105. Il «vero» attore,il comédien, sembra insomma soggetto a la legge d’ospitalità incondizionata. E aessa tende, pur nella sua contingenza fisica e spirituale. Come ostaggio del per-sonaggio spettrale, egli deve volontariamente – quindi, di nuovo, a partire dal sé,da un diritto del sé – espropriarsi: abban-donare la propria personalità, il me chel’acteur impone invece al ruolo, e giungere a un’umile abnegazione di sé. In taleex-appropriazione il comédien è soggetto all’imperativo dell’altro che cerca ospita-lità nel suo corpo e per questo la sua missione è disincarnarsi, offrire in olocaustoil proprio me, per recitare con il suo sé106.

Cos’è il me? È quello che sei immediatamente, quello che parla subito e adalta voce.

Cos’è il sé? È l’altro107, quello che non ascolti mai dentro di te, quello cheparla sottovoce; è l’orecchio interiore con il quale ascolti un personaggio.

Il me è epidermide e il sé ramificazione profonda.

L’attore disincarnato, il comédien, rivive nell’esecuzione una nuova posses-sione.

Esistono due specie di esecutori: quelli che rimangono ancorati a loro stessie quelli che si dissociano; quelli che vanno avanti grazie ad un accrescimentodi peso, di autorità, di denaro o di successo,

e quelli che vanno avanti grazie a una sorta di distillazione di sé, di insi-nuazione interiore, di meditazione, che è come una semenza, e conquistanouna perfezione legata alla loro vita interiore, che dà loro una vita interioreall’opposto di quella dell’attore.108

Il testo teatrale appare dunque, da questo punto di vista, come «una scorzaessiccata»109 che attende di essere riempito di umanità da parte di un comédien

che non lo usurpi come un paguro bernardo110 fa con la conchiglia di cui decidedi essere l’inquilino, ma che lo animi, riducendolo a traccia. Ecco, dunque, cheil comédien lasciando giocare il suo sé, accettando nel sé il disordine originatodall’altro ovvero la presenza della vita dell’altro, dello spettro, nel sé, anima iltesto essendo animato dal testo. L’attore viene così reciprocamente ospitato dalpersonaggio che ospita nel suo corpo. Struttura d’ostaggio. Di questa assurdità eimpossibilità il comédien fa il suo mestiere.

105 Ibid., p. 185.106 Cfr. ibid., pp. 183-184.107 Corsivo mio.108 Ibid., pp. 184-185.109 Ibid., p. 190. «Noi sappiamo che il testo di per sé non fa teatro, ma che esso diventa teatro

attraverso l’uso che l’attore fa di esso» (J. Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 28).110 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 116.

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Il disordine

Dunque «l’attore vive nel caleidoscopio abbacinante di questi miraggi multicolo-ri», egli vive un’instabilità, è nel permanente pericolo oscillante tra la «disponibi-

lità» di abbandono al ruolo e il «controllo» di se stesso. Questa instabilità, questaimpossibilità del me stesso pur restando se stesso, è la possibilità del personag-gio. Il comédien ha come peculiarità la «tendenza alla dissociazione [. . . ], la suafacoltà di sdoppiamento, di percepirsi improvvisamente diverso da se stesso»111.Vive quotidianamente «tra l’essere e l’apparire, tra l’abbandono e il dominio disé, in un controllo più o meno sapiente, più o meno segreto e in cui il penetrareè particolarmente arduo»112 . L’attore è continuamente in bilico tra il me e il sé,soggetto alle alterazioni e alle deformazioni più bizzarre113. Tali alterazioni sonodovute a un corpo-ricettacolo dello spirito, dello spirito di un altro, di un’animadiversa dalla sua114, che gli permette di moltiplicare le superfici di sensibilità edi migliorare la sua ospitalità a-venire115 , «per questo egli deve essere così vuoto,così pietosamente vacante»116 e lasciarsi penetrare dal personaggio che trascende isuoi livelli di giudizio117 . Gli attori vivono nella «congestione del ‘me stesso’» e,nel rispetto della vacuità della loro personalità, possono «esistere solo nell’insta-

bile: il raggiungimento del conosciuto o di una condizione di stabilità è contrarioalla vita che è ricerca, sforzo, nell’instabilità permanente»118 .

Eppure, l’attore ha un’eredità di se stesso e a se stesso119 che riconsegna in-dispensabilmente e inevitabilmente il suo mestiere alla conoscenza di sé, ma unaconoscenza di sé lontana dalla ferma constatazione di ciò che si è, bensì orientatain un dinamismo rivolto alla conoscenza di ciò che dovrà essere: «uno sforzo verso

il dover essere»120. Necessariamente egli è rimandato, nell’ospitalità in se stesso,a un’ospitalità di se stesso, già concessa dal personaggio che accetta con «rico-noscenza»121 le sue peculiari condizioni umane. Egli è reciprocamente accettatodallo spettro che riconosce

questo corridoio, questo tubo cavo, questo corpo da affittare.

Il comédien per intero. Le sue vanità, le sue animosità, le sue volubilità, lesue cattiverie, la sua bontà, la sua generosità, l’impossibilità di ragionare sudi lui e la sua stessa incapacità a ragionare di se stesso, la sua instabilità

proviene da questo gusto che supera ogni altra cosa, che lo fa esistere e lo

111 Ibid., p. 199.112 L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., p. 48.113 Cfr. ibid., p. 49.114 Cfr. L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 137.115 Cfr. Id., “Tecniche, personaggi, testi”, cit., p. 71.116 Id., “Comportamento dell’attore”, cit., p. 137.117 Cfr. J. Grotowski, “Affermazioni di principi”, in J. Grotowski, Per un teatro povero, cit., p. 297.118 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 118.119 Cfr. ibid., p. 120.120 Ibid., p. 121.121 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 160.

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distrugge al tempo stesso. La sua verità è lì, lì sono le sue scuse e le suebassezze, e la sua vanità gloriosa.122

Il comédien cede allora all’opera e al personaggio una sua «originalità»123 ,che è chiusura, determinazione, mentre questi si presenta come «aperto»124 . Infattiil personaggio sopravvivrà alle variazioni di sé che, nelle varie epoche, si sonosuccedute e succederanno125 , mentre la vocazione dell’attore è nello sforzarsi edesercitarsi, con ostinazione e perseveranza, alla dispersione e alla fuga da se stesso:

ogni azione, ogni sentimento o pensiero è diverso da ruolo a ruolo e da ope-ra a opera. La contraddizione è appannaggio della sua esistenza, come ilcostume variopinto d’Arlecchino.

La vita del comédien lo mostra costantemente alla ricerca dell’evasione dase stesso, alla ricerca di un altro che mai riesce a cogliere, che non potrà maiessere: è un costante tentativo di trasformazione, una trascendenza verso dei

personaggi eroici o ridicoli.126

L’attore pare, pertanto, il vero migrante. La sua consegna è il viaggio e l’abitarele spoglie del personaggio, il vero host, che lo scongiura: «Non determinare nulla,non concludere. L’imprecisione è feconda»127 .

Il diritto d’ospitalità – Sincerità e menzogna: Hecuba

Is it not monstrous that this Player here,But a fiction, in a dream of passion,Could force his soul so to his own conceitThat from her working all his visage wan’d;Tears in his eyes, distraction in ’s aspect,A broken voice, and his whole function suitingWith forms, to his conceit? And all for nothing!For Hecuba?What’s Hecuba to him, or he to Hecuba,That he should weep for her?128

122 Id., “Comportamento dell’attore”, cit., p. 137.123 Id., “Divagazioni del comédien”, cit., p. 191.124 Ibid., p. 181.125 «La mia durata è più ampia della durata di tutte le variazioni che su di me sono state fatte

e più di quelle che verranno fatte; io sono l’essere permanentemente utile a coloro che possono ovogliono sentire o pensare» (ibid., p. 174). «Diverso ogni volta. Per ogni generazione, sembianzeinnumerevoli, migliaia di rappresentazioni, tutte diverse nel volto, nel costume, nella voce, sonosgorgate dal mio essere. Ogniqualvolta mi leggete mi ascoltate o mi rappresentate io sono un Altro.Non cercare di riconoscermi» (L. Jouvet, “Lezioni sul Tartufo”, cit., p. 250).

126 L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 154.127 Id., “Lezioni sul Tartufo”, cit., p. 251.128 W. Shakespeare, Hamlet, Prince of Denmark, atto II, scena II, in The Complete Works of

William Shakespeare. Comprising His Plays and Poems, “Preface” di D. Wolfit, “Introduction” e“Glossary” di B. Hodek, Spring Books, London-New York-Sidney-Toronto 1979, p. 959.

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La vita del comédien deve essere dunque aperta all’imprecisione e al disordinenel sé, ovvero alla disponibilità al viaggio e al rischio dello smarrimento. Il co-

médien, quale supporto o veicolo, è ciò che di «non sacro» esiste all’inizio e cheattende una trasformazione129 . «Il teatro è precisamente il punto d’incontro fra igrandi quesiti dell’umanità – la vita, la morte – e la dimensione artigianale, che èmolto pratica, come nella ceramica»130. Il disordine e il turbamento a cui l’attorediventa soggetto sono la condizione di applicabilità di tale artigianato e come talivanno preservati. La recitazione tenderà presto a prendere «forma», una forma,«ma bisogna comprendere che questa forma può essere d’ostacolo assoluto allavita, che è informe. Non si può sfuggire a questa difficoltà, e la battaglia è per-manente: la forma è necessaria, ma non è tutto»131. Perciò è necessario trovaregli strumenti per custodire, di volta in volta, il disordine dionisiaco e il silenziodel sé per fare in modo che il personaggio avvenga. La «forma pura», apollinea,appartiene platonicamente allo spettro e il dargli forma scenica è sempre un «com-promesso» che bisogna accettare in una dinamica che non avrà mai fine132. Quista l’artigianato. «Definire un personaggio [. . . ] significa imprigionarlo e ridurre ilsuo potere, la sua forza [. . . ], privarlo della sua astrazione e totalità»133 ovvero, perfare ancora uso della terminologia derridiana, significherebbe tenerlo in ostaggio,ossia quale host e quale guest. Tuttavia come l’ospitalità incondizionata non puòservirsi che di forme, per quanto transeunti, di diritto determinato e snaturante, larecitazione non può che appellarsi ad analoghe effimere formazioni. «Quello che èpuro può essere espresso in teatro solo attraverso qualcosa che sia di natura essen-zialmente impuro»134: come l’ospitalità, la recitazione non può che essere impuraed effimera, ovvero a-venire.

Questo appare evidente dalle prime due fasi, dette «della sincerità» e «dellamenzogna»135 che caratterizzano, secondo Jouvet, l’artigianato del comédien. Lastravaganza, il desiderio di evasione da sé e l’attesa di espropriazione assoluti136

129 Cfr. P. Brook, La porta aperta, tr. it. di M. d’Amico, Anabasi, Milano 1994, p. 80.130 Ibid., pp. 82-83.131 Ibid., p. 72.132 Cfr. ibid. e cfr. anche L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, cit., pp. 12-16.133 L. Jouvet, “Divagazioni del comédien”, cit., p. 181.134 P. Brook, La porta aperta, cit., p. 64.135 «La prima fase del comédien è quella della vocazione, la fase in cui egli vive in una totale

ignoranza di se stesso, la fase della sincerità. [. . . ] Per conquistarsi un’identità nuova, egli cercadi fuggire, di evadere» (L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., p. 53). Successivamente «inizia a rendersiconto che quella trasposizione di se stesso in un altro, la possessione del personaggio, è illusoria.[. . . ] Nel labirinto in cui si muove affannosamente, egli si imbatte infine in un vicolo cieco, in sestesso. [. . . ] È così che il comédien scopre la simulazione. Scopre la menzogna nella quale eglivive. Riconosce e confessa la sua insincerità. Comprende di essere doppio: di vivere tra l’essere el’apparire, in una dislocazione forzata e che quello che all’inizio chiamava arte è innanzi tutto unapratica, un mestiere» (ibid., pp. 53-54). Vi è una terza e ultima fase concerne la relazione col pubblicoche ho già affrontato altrove (cfr. L. Vaccaro, Lo straniero in scena. Saggio sul teatro e l’ospitalità,“ACME. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano”, vol. LVII,settembre-dicembre 2004) e che esula dall’argomento qui trattato.

136 Cfr. ibid., pp. 55-56. Cfr. L. Jouvet, “Comportamento dell’attore”, cit., p. 153. «Lei deve credere

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invocano il personaggio. Attesa irrazionale e fiduciosa dell’incontro con l’altro:desiderio di ospitalità incondizionata. «“Vieni in me”, non solo verso di me, ma inme: occupami, prendi posto in me»137. Egli è preso nella «struttura d’ostaggio»138

già dall’attesa di un guest spettrale a-venire e si troverà presto «ingarbugliato in sestesso»139, co-implicato nell’altro con il suo sé, che non avrà potuto eliminare.

L’altro, lo spettro, lo straniero – poiché viene da un altro mondo – ha biso-gno di ospitalità concreta, non di uno spazio vacante, ma di un posto nel mondodell’attore, allorché questi si scontra con l’impossibilità dell’ospitalità assoluta im-battendosi in se stesso. Si ricordino le parole di Viola, travestita da ragazzo, in La

dodicesima notte: «I swear I am not that I play»140. Analogamente inizia il reale

sdoppiamento, in un istante, la reale ospitalità. È il momento in cui si rivela l’u-miltà, il rispetto e l’amore141 dell’attore per il suo mestiere. Poco dopo, guarderà isuoi abiti di scena sparsi per il camerino e avrà la sensazione che quei personaggisiano morti, li avvertirà come altri da sé.

«Guardai» mi disse «i miei costumi sparsi, buttati qua e là per la stanza, edebbi la sensazione che quei personaggi, che io ormai non avrei più animato,fossero morti. Passai una notte molto agitata; ebbi delle allucinazioni e nelsogno quei personaggi vennero a farmi visita. In pochi istanti invasero la miacamera. Risplendevano, animati da una vita collettiva, quella di tutti i grandiattori del passato che avevano recitato quei ruoli prima di me; e uno deipersonaggi mi disse: “Sei un insensato, non siamo noi che siamo morti, seitu che morirai. Tu non ci hai creato, hai solo indossato i nostri panni. E orafaremo ricorso ad altri.” E» conclude «mi sono svegliato molto modesto».Questa è la scoperta, molto tardiva, del personaggio da parte di un grandeattore142.

Per Hecuba? Cos’è, dunque, Hecuba per l’attore o lui per Hecuba? Una men-zogna si nasconde da qualche parte, ma resta un segreto condiviso tra attore, perso-naggio e complicità del pubblico. Infatti, nella penombra provocata dalla lumino-tecnica, un altro altro si affaccia dalle prime file oltre la ribalta e, tra la sincerità ela menzogna, appare la verità del teatro: l’ospitalità, se c’è, o lo sdoppiamento, cheè retaggio di tutti143, è già rilanciata all’altro a-venire. Tra sincerità e menzogna.

che qua, sotto questi panni il signor . . . (dirà il suo nome) non c’è più; perché, impegnatosi con leia recitare questa sera a soggetto, per avere pronte le parole che debbono nascere, n a s c e r e dalpersonaggio che rappresento, e spontanea l’azione, e naturale ogni gesto; il signor . . . [c. s.] devev i v e r e il personaggio Rico Verri, e s s e r e Rico Verri: ed è, è già» (L. Pirandello, Questa sera

si recita a soggetto, cit., p. 20).137 J. Derrida, “Passo d’ospitalità”, cit., p. 112.138 Ibid., p. 122.139 L. Jouvet, “Sull’attore”, cit., p. 56.140 W. Shakespeare, Twelfth Night; or what you will, atto I, scena V, in The Complete Works of

William Shakespeare, cit., p. 70.141 L. Jouvet, “Tecniche, personaggi, testi”, cit., p. 74.142 Ibid., p. 57.143 Cfr. ibid.

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