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Università degli Studi del Molise DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICO-SOCIALI E DELL’AMMINISTRAZIONE Giovanni Di Giandomenico Dispense di diritto privato

Dispense Prof Di Giandomenico

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Università degli Studi del Molise

DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICO-SOCIALI E DELL’AMMINISTRAZIONE

Giovanni Di Giandomenico

Dispense di diritto privato

CAMPOBASSO

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Giovanni DI GIANDOMENICO

Dispense di diritto privatoEdizione a cura di Giovanni CirelliCampobasso: Dipartimento S.G.S.A., 2002______________________________________________

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INDICE

1. Il codice civile p. 1

2. Le situazioni giuridiche soggettive p. 11

3. Il rapporto giuridico ed il rapporto contrattuale p. 40

4. Soggettività, capacità, legittimazione p. 52

5. L’attività giuridica p. 62

6. L’oggetto del negozio giuridico p. 78

7. Rilevanza, efficacia, validità giuridica p. 84

8. Diritti della personalità e tutela giuridica della persona umana

p. 92

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CAPITOLO PRIMO

Il codice civile

SOMMARIO: 1. Il codice civile del 1942. - 2. Il code civil. - 3. La diffusione del code civil. La scuola dell’esegesi e gli sviluppi successivi. - 4. La scuola storica. La pandettistica ed il B.G.B. - 5. Il codice civile del 1865, il codice del 1942, la Costituzione e l’età della decodificazione. L’analisi economica del diritto - 6. La nuova centralità del codice civile e la ripatrimonializzazione del diritto privato.

1. Il codice civile del 1942.

Con r.d. 16 marzo 1942, n. 262 veniva approvato il codice civile tuttora vigente in Italia. Nonostante il regime politico nel cui vigore esso fu emanato, il testo si inseriva nel solco della tradizione culturale giuridica dell’Europa continentale, assumendo i tratti prevalenti del sistema di codificazione francese - «il codice civile italiano è un codice francese» (R. Sacco) - non privo, tuttavia, di influssi provenienti dall’area tedesca, almeno limitatamente ad alcuni settori e nozioni.

Lo studio delle premesse ideologiche e culturali, nonché dell’evoluzione storica del movimento della codificazione, diventa indispensabile per la comprensione del carattere e dell’importanza del codice civile italiano e del suo ruolo nel contesto dell’intero ordinamento giuridico.

I due maggiori codici che hanno preceduto quello italiano sono espressione di due differenti «approcci» in ordine alla forma, al contenuto ed alla tecnica della legislazione, nonché per quello che riguarda la funzione svolta dalla dottrina ai fini della codificazione e dopo la stessa: in particolare, il code civil francese (1804) costituisce il punto di partenza di una corrente di pensiero e metodologica (quella c.d. «dell’esegesi»); il Bürgerliches Gesetzbuch tedesco (1896) rappresenta, al contrario, il «risultato» di una metodologia e di una scuola dottrinale (la «Pandettistica»), il frutto di una elaborazione prevalentemente teorica.

2. Il code civil.

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In Francia - Paese in cui il movimento della «Codification» assurse al rango che ancora oggi gli viene riconosciuto nell’esperienza giuridica - il codice civile segnò il trionfo di una legge civile comune sulla variegata congerie di consuetudini che regolavano - in modo disordinato, disorganico e geograficamente contraddittorio - i rapporti privatistici. Dal punto di vista politico, il code costituì il complemento giuridico della costruzione dello Stato unitario (contro la frammentazione ereditata dal feudalesimo) ed indipendente (dall’Impero romano-germanico). Sotto il profilo giuridico ciò comportava la sopravvivenza dello studio del diritto romano nelle università, mentre nella realtà si affermavano i particolarismi delle differenti fonti normative e delle differenti autorità deputate alla loro applicazione (signori, vescovi conti ecc.). Emergeva così una contrapposizione tra ciò che si insegnava - il diritto romano - e ciò che effettivamente era il diritto applicato, ossia il diritto coutumier.

L’unificazione era, complessivamente, ostacolata dal dualismo di potere (re e parlamenti locali, ai quali si aggiungevano le autorità ecclesiastiche), che aveva il suo pendant nel mondo giuridico dalla contrapposizione tra droit écrit - vigente al Sud della Francia e insegnato nelle università - e droit coutumier, diffuso nelle regioni settentrionali.

Una spinta ideologica all’unificazione ed alla codificazione venne dal movimento c.d. «razionalista», la cui ispirazione di fondo consisteva nella rivalutazione della parte razionale dell’uomo e, pertanto, privilegiava un metodo classificatorio e ordinatorio. L’avversione ai particolarismi, insita nell’idea razionalista, condusse a sceverare dalle innumerevoli e spesso contraddittorie leggi giustinianee - ossia il diritto romano come inteso all’epoca - quelle regole più convincenti dal punto di vista della giustificazione razionale, in modo da avere un punto di riferimento sicuro. Il tentativo di razionalizzazione portò con sé la tendenza all’astrazione ed all’elaborazione di principi generali.

La codificazione, infine, si realizzò grazie all’esistenza di un forte potere capace di superare tutte le resistenze alla precisa scelta di politica legislativa centralizzante, potere che delegò il compito di procedere all’opera di unificazione alla dottrina, l’unica in quel contesto capace di elaborare le regole d’insieme che costituiscono l’idea stessa di codice. E la Francia aveva avuto gli studi e le opere di studiosi come Donello, Argon, Molineo e, soprattutto, di Domat e Pothier, giuristi le cui opinioni e soluzioni configurarono la struttura ed i contenuti del code civil.

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Il codice civile

Ci si preoccupa, anzi, di evitare accuratamente ogni forma di intrpretazione soggettiva della legge che possa fare il giudice, tornando così ad essere la fonte creatrice concreta del diritto: il giudice non può essere, invece, che la «bouche de la loi», la bocca della legge: e perché tutto ciò avvenga imparzialmente e con uniformità in tutto il territorio dello Stato, viene creata già nel 1790, con un decreto dell’Assemblea, la Cour de Cassation. I principi illuministici della divisione dei poteri si traducono, quindi, in una organizzazione giudiziaria ben prima dello stesso Code Napoléon del 1804.

Il code rappresenta il tributo della scienza giuridica alle istanze razionalistiche. È ossequioso del principio della divisione dei poteri e pertanto riduce al minimo l’intervento discrezionale del giudice, al quale è riservato il mero compito di «dichiarare» se un diritto vantato dal privato esiste.

Il code è, inoltre, un codice borghese, ossia un codice che traduce in pratica le istanze della borghesia uscita vittoriosa dalla rivoluzione francese e desiderosa di consolidare le proprie conquiste: è un codice fondato sul diritto di proprietà e sui mezzi per conservarla, trasferirla, garantirla. Ed i diritti reali sono gli unici diritti soggettivi organicamente individuati e disciplinati. L’autonomia contrattuale è pressoché incondizionata e non legata a particolari esigenze di forma.

In conclusione, si tratta di un codice ispirato all’ideologia liberale.

3. La diffusione del code civil. La scuola dell’esegesi e gli sviluppi successivi.

Il code civil si diffuse immediatamente e rapidamente in buona parte dell’Europa, favorito dalle guerre napoleoniche le quali, assecondando il disegno egemone francese dal punto di vista politico-militare, costituirono il veicolo di più incisiva propagazione delle idee e pertanto anche dei modelli giuridici della Francia.

D’altra parte, la matrice razionalista e l’ispirazione liberale ben si prestavano alla tutela delle esigenze maggiormente avvertite all’epoca nell’Europa più progredita, anche se spesso gli stessi contemporanei esagerarono nel reputare rinvenibili nelle disposizioni del code nient’altro che il diritto naturale codificato, ossia la concretizzazione dell’idea giusnaturalistica.

Proprio questa convinzione, ossia che l’introduzione del code rappresentasse l’approdo concreto e definitivo del razionalismo e del giusnaturalismo (quello dell’età moderna, svincolato dalla rivelazione

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cristiana e da ogni fede religiosa, insomma quello, più laico, di Portalis: Falzea), provocò l’abdicazione da parte della dottrina ad uno dei compiti che la tradizione le aveva riservato: contribuire alla creazione del diritto. Infatti, la «scuola dell’esegesi» - «esegesi» è una parola greca che significa spiegazione, interpretazione di un testo - nacque dal convincimento che, avendo ormai il diritto civile positivo raggiunto il completamento mediante il code, alla dottrina non restasse che il compito di interpretare, analizzare, studiare le disposizioni codicistiche, nel tentativo di rendere chiaro quanto comunque già era contenuto - seppure in maniera inespressa - in esse. Inoltre, in ossequio al principio della divisione dei poteri, anche la creazione giurisprudenziale del diritto fu ripudiata, sottraendo al giudice ogni potere normativo.

D’altra parte, l’idea di fondo era che nelle pieghe del code si sarebbe potuta trovare la soluzione per ogni questione, bastava cercarla attraverso l’attività di mera interpretazione, l’esegesi appunto. Esponenti illustri di questo orientamento metodologico - convenzionalmente compreso tra il 1806 ed il 1880 - furono Toullier, Delvincourt, Duranton, Troplong, Marcadé, Demante, le cui opere manualistiche non a caso erano intitolate «Code civil» con preferenza rispetto a «Droit civil», per rimarcarne il carattere esegetico e la struttura in forma di commentario.

Il lato negativo della medaglia fu una sorta di pigrizia intellettuale che si impadronì della dottrina francese e degli altri stati in cui il relativo modello di codice civile si impose: «l’interprete francese dell’epoca non concettualizza, non sistema, non elabora giudizi di valore» (R. Sacco). Si limita a studiare ed esaminare le regole, in vista di una loro applicazione.

In tale contesto, non poteva non acquistare - nel tempo - un rilievo centrale la giurisprudenza, ossia le decisioni dei giudici ed, in particolare, della Cour de Cassation.

Di fronte, tuttavia, alla lacunosità del code - vieppiù emergente coll’invecchiamento dello stesso - si avvertì l’esigenza di superare il metodo esegetico - che, in fondo, non era altro che una spiegazione del codice articolo per articolo - e, andando oltre la sua divisione in libri, tentare di operare un collegamento sistematico tra le sue varie parti. Si riscoprì la necessità dell’ordine, del metodo e delle generalizzazioni. In modo paradossale - ma soltanto in apparenza poiché si tratta di un professore di diritto badese e cioè di diritto francese - l’operazione fu compiuta dal tedesco Zachariae la cui opera (del 1827) fu tradotta in Francia da Aubry et Rau (1837).

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Il codice civile

Si deve, infine, a Gény - fondatore della scuola scientifica - l’affrancazione definitiva dello studioso francese dalla pura esegesi, attraverso la presa di coscienza che le lacune del diritto positivo devono essere colmate con l’intervento diretto del giudice, dietro i suggerimenti della dottrina, meno vincolata dal diritto positivo.

4. La scuola storica. La pandettistica ed il B.G.B.

In Germania, il Bürgerliches Gesetzbuch (B.G.B.) rappresentò lo stadio conclusivo di un’operazione studiata a tavolino, in cui il momento metodologico venne davvero prima del diritto positivo. Le condizioni che avevano consentito la codificazione unitaria in Francia mancavano in Germania, soprattutto perché mancava uno stato tedesco unitario e quindi un’autorità che potesse imporre l’unificazione del diritto. I singoli stati conservavano gelosamente la propria autonomia anche sotto il profilo giuridico.

Tuttavia, la dignità e la profondità del diritto romano erano generalmente avvertite e costituirono la base per il movimento che - al termine - condusse alla codificazione. Anche se gli inizi furono decisamente contrari. Nel diritto romano o, meglio, nel diritto comune, cioè il diritto delle Pandette riletto in chiave moderna, si trovò il cemento del diritto tedesco.

La scuola storica - di cui von Savigny fu il fondatore - rinnegò la cristallizzazione del diritto in codici e sostenne la validità del diritto consuetudinario - in quanto diritto effettivamente praticato e creato dal popolo - e del diritto dotto, ossia della dottrina. Ma il ruolo della dottrina non è tanto quello di produrre disposizioni normative quanto quello di apprestare gli strumenti per la conoscenza del diritto, ossia i concetti giuridici.

Utile a questi fini apparve il diritto romano, il suo uso rinnovato (usus modernus Pandectarum). Il movimento della pandettistica - o «scuola dogmatica» - si basa su un’opzione di fondo a cui corrisponde il metodo prescelto: il Jurist equivale al professore di diritto, il metodo del quale è concettuale, dogmatico, sistematico.

Concettuale: i concetti vengono prima del diritto positivo e sono delle categorie giuridiche utilizzabili indipendentemente dal contesto ordinamentale e dalle singole questioni concrete. I concetti si traducono in definizioni.

Dogmatico: i concetti, in quanto astratti, sono creazione della mente e, per questo, dotati di generalità e precisione e non ammettono eccezioni. Il giurista, per i pandettisti, opera come un

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matematico alla ricerca di definizioni precise, insuscettibili di contraddizione: i dogmi (il termine «dogma» significa, appunto, verità incontestabile).

Sistematico: in presenza di più definizioni (id est, concetti) si reputa valido quello coerente con l’intero corpo di concetti giuridici, quello che non si pone in rottura con il sistema.

La regola non ha più la pole position nel mondo del diritto: i concetti vengono prima ed il compito di elaborarli e ricondurli a sistema spetta alla scienza giuridica. Da quest’opera continua di astrazione vengono fuori categorie generali, capaci di ricomprendere molteplici profili di diritto positivo. È il periodo in cui si afferma la priorità di una «parte generale» (allgemeiner Teil) del diritto civile, comprensiva dei «concetti» di «soggetto», «rapporto giuridico», «prestazione», «vicenda del rapporto», «fattispecie» e «metodo giuridico».

«Il metodo di lavoro del giurista tedesco implica quindi: una prima fonte del diritto, lacunosa ed oscura ch’essa sia, consistente nel Corpus Juris giustinianeo; un’opera di razionalizzazione ed esplicazione dei concetti insiti nel Corpus, affidata alla scienza; un’opera di deduzione di regole pratiche applicative, ricavate dai concetti ad opera della scienza e della pratica» (R. Sacco). Tra i giuristi della scuola dogmatica vanno ricordati, senza pretesa di completezza, Puchta - il fondatore - Arndt, Crome e, soprattutto, Windscheid.

L’approccio al diritto positivo anziché essere del tipo analitico-esegetico delle mere esposizioni ragionate e dei pur elaborati commentari, venne acquistando carattere sistematico-dogmatico. La realtà storica di un ordinamento giuridico positivo venne ricondotta a concetti generali e sistemata in categorie e istituti i cui nessi rispecchiarono il fitto intreccio dei rapporti che collegano in vario modo la realtà del diritto. La scienza giuridica assunse il compito di fondare un impianto concettuale in grado di dominare la vasta e complessa materia giuridica e un sistema di categorie in cui ogni parte, piccola o grande, della materia trovi la sua appropriata collocazione (Falzea).

Tuttavia, ciò non tolse che altri indirizzi metodologici si sviluppassero in Germania, seppure in posizione minoritaria. Von Jhering sostenne la prevalenza degli interessi protetti dagli istituti giuridici sull’aspetto formale degli stessi. La «scuola del diritto libero» rivendicò una maggiore libertà del giudice. Venne così contrapposta una «giurisprudenza degli interessi» a quella «dei concetti».

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Il codice civile

L’esito più importante della dogmatica fu il B.G.B. Il codice civile tedesco, promulgato nel 1896 ed entrato in vigore nel 1900, sin dalla struttura, oltre che nei contenuti, rispecchiava le tesi della pandettistica. Esso comprende - primo nella storia - un’accurata parte generale che funge da premessa indispensabile per il restante corpo normativo, chiarendo i «concetti» di soggetto, rapporto giuridico ecc. Ma il B.G.B. non fu soltanto un’elegante opera dottrinale: fu, soprattutto, un testo di diritto positivo e, come tale, fu sentito dalla dottrina tedesca che avviò immediatamente un lavoro di interpretazione e concettualizzazione sulla base delle norme da esso espresse, creando nuove categorie ed affinando - spesso fino all’inverosimile - il metodo dell’astrazione.

La metodologia dei Pandettisti è stata designata con l’espressione «formalismo giuridico» (Wieacker, Kantorowicz) o, anche, «formalismo scientifico», per il deciso taglio concettuale (Bobbio). Non meno critica è l’ulteriore definizione di «giurisprudenza concettuale» (Begriffsjurisprudenz). Le varie etichette sono, tuttavia, postume ed indicano il largo uso che in quel periodo è stato fatto dei metodi e dei canoni della logica formale, piuttosto che un ipotetico ruolo preminente del momento formale del diritto (Falzea).

5. Il codice civile del 1865, il codice del 1942, la Costituzione e l’età della decodificazione. L’analisi economica del diritto.

Il codice civile dell’Italia unita (1865) seguì il modello francese - del quale in alcuni punti è pedissequa traduzione - ma gli studiosi italiani accusarono un forte fascino per le costruzioni teoriche tedesche e, pur seguendo il metodo esegetico, incominciarono ad impratichirsi con i modelli concettuali della pandettistica, sovrapponendoli agli istituti giuridici positivi. La concettualizzazione ed il ragionamento deduttivo divennero il normale bagaglio del giurista italiano, che fu essenzialmente dogmatico (si pensi a Nicola Coviello, Leonardo Coviello, Polacco, Pacchioni).

Il codice civile del 1942, tuttavia, non risentì troppo degli influssi della scuola dogmatica: restò - lo si è già ricordato - legato alla tradizione francese. Rimase, soprattutto, l’elemento centrale del sistema di diritto privato, almeno fino all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948) che - per i valori di giustizia, non soltanto formale ma sostanziale, di solidarietà umana e sociale, di garanzia del pieno e libero sviluppo della persona, espressi

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nell’esigenza unitaria del rispetto della sua dignità - costituiva una tra le più avanzate normative costituzionali.

Non soltanto per il rango superiore assunto nella gerarchia delle fonti, la Costituzione scalza il codice civile dalla sua posizione di preminenza, anche soltanto teorica, per l’importanza ed il numero di nuovi principi introdotti. In uno con l’evolversi dei costumi delle relazioni sociali e politiche e con l’accentuata prevalenza della persona umana rispetto ad altri valori, pure costituzionalmente protetti, si assiste al proliferare di leggi c.dd. «speciali» od «integrative», così definite per la loro estraneità e complementarietà al codice civile. Si pensi allo Statuto dei lavoratori, alla legge sulla casa, alle leggi sull’adozione e sull’affidamento, sulla capacità di agire, al divorzio ed al nuovo diritto di famiglia, alla legge sul regime dei suoli, alla legge sull’equo canone, alla nuova regolamentazione dei rapporti agrari, alla legge in materia di informazione e telecomunicazioni ecc. Alla segmentazione della realtà socio-economica corrisponde la frammentazione della legislazione civilistica, tanto da far ritenere giunta, icasticamente, l’«età della decodificazione» (N. Irti).

Il codice perde la sua centralità nel sistema, nel quale il ruolo unificante viene assunto dalla Costituzione che, per i contenuti esaltanti la persona umana come valore cardine dell’intero ordinamento, suggerisce l’avvento di un diritto privato «depatrimonializzato», così qualificato non tanto perché abbia abbandonato la cura dei tradizionali interessi di natura patrimoniale (proprietà, obbligazioni, contratti ecc.), quanto perché li subordina al conseguimento di altre finalità legate alla cura di interessi «esistenziali»: salute, identità, libertà sessuale ecc.

In tale contesto, l’attività volta alla ricostruzione del sistema, mediante l’interpretazione, si è fatta sempre più difficile per la mutabilità e la contraddittorietà delle scelte di politica del diritto e la variabilità dei contenuti delle discipline degli istituti giuridici, per un uso poco accorto delle tecniche legislative, tanto delle macrotecniche attinenti al tipo di accorpamento degli enunciati (codice e novelle, leggi organiche e pluralità di testi, testi unici), quanto delle microtecniche concernenti l’uso dei principi, delle clausole generali o delle previsioni di tipo casistico e regolamentare (P. Perlingieri).

La dottrina ha reagito con una nuova scuola dell’esegesi («neoesegesi»), procedendo all’esame ed all’interpretazione delle singole leggi speciali, prevalentemente considerandole avulse dall’intero sistema normativo. Sono diventati diffusissimi i commentari alle leggi, spesso corredati dalle decisioni

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Il codice civile

giurisprudenziali di merito e di legittimità, in cui l’attività del commentatore risulta scevra da pretese dogmatiche e sistematiche. Si è abbandonata, perché inutile, la tecnica della concettualizzazione ed il metodo deduttivo a favore del particolarismo e del metodo casistico, ossia il ragionamento basato sul diritto applicato concretamente. Dal sistema si è passati ai microsistemi (N. Irti).

Un’altra scuola ha trovato proseliti tra gli studiosi italiani (Trimarchi, Rodotà, Pardolesi, Mattei), quella dell’«analisi economica del diritto». Nata negli Stati Uniti negli anni trenta, essa consisteva nel metodo di misurare empiricamente gli effetti economici delle scelte giuridiche per valutare la scelta migliore, ossia il contenuto della disciplina o l’interpretazione della norma da applicare concretamente al caso specifico.

La «nuova analisi economica del diritto», negli anni sessanta, da un lato prosegue nell’utilizzo dell’analisi dei costi e dei benefici indotti dalle scelte giuridiche; dall’altro, analizza i concetti propri della scienza giuridica con lo strumentario concettuale di quella economica, utilizzando in particolare le categorie della microeconomia classica. L’assunto è che i soggetti sono persone dotate di razionalità, che utilizzano nelle loro scelte, le quali dipendono da incentivi e disincentivi creati dalle norme giuridiche.

La scuola si articola in due filoni facenti capo ai due capiscuola: Posner e Calabresi. Il primo ha come obbiettivo quello dell’efficienza e del benessere e sostiene che le norme propongono soluzioni che tendono all’efficienza e che tale traguardo viene raggiunto nel lungo periodo attraverso l’elaborazione dell’interprete. Il secondo filone ha come finalità lo svolgimento di politiche di giustizia sociale, di redistribuzione delle perdite e della ricchezza.

6. La nuova centralità del codice civile e la ripatrimonializzazione del diritto privato.

La crisi dei valori costituzionali a cui oggi si assiste ha fatto, tuttavia, ritenere che il codice civile possa ritornare il perno attorno al quale il diritto privato possa ruotare e mantenersi unito in un sistema (N. Irti).

In realtà, il terrificante numero di leggi in vigore (soltanto ‘stimabile’ in 150.000, ma da nessuno appurabile con certezza), la loro rapida obsolescenza - dovuta alla complessità della società tecnologica, all’accelerazione delle relazioni sociali ed al loro rapido esaurimento, alla mondializzazione della civiltà e, quindi, della cultura

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anche giuridica - conduce inevitabilmente ad un ripensamento non tanto della «centralità» del codice civile, quanto al peso ed all’utilità che tale posizione ha nell’ordinamento giuridico.

La prevalenza della cultura dominante, di matrice anglosassone ed americana, e la mondializzazione dell’economia secondo quegli schemi culturali hanno portato l’interprete a confrontarsi quotidianamente con istituti giuridici di altra provenienza. Si assiste al fenomeno della destatalizzazione del diritto: si naviga ormai in contesti nei quali la fonte statale del diritto è soltanto sussidiaria e le relazioni sociali ed economiche sono autoregolamentate dai soggetti interessati (si pensi ai contratti stipulati tra grandi multinazionali, i quali costituiscono il vero «diritto vivente» del mondo internazionale degli affari) ovvero, sull’altro versante, regolate da organismi sovranazionali (si pensi ai trattati internazionali in settori di importanza vitale quale, ad esempio, il trattato di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare che, formalmente recepito, mediante i classici strumenti dell’adesione e della ratifica da moltissimi Stati sovrani, è stato in realtà codificato dall’O.N.U. e poi imposto alla Comunità mondiale, cominciando dagli stessi Stati Uniti che pure vi si erano praticamente opposti).

Le stesse norme promananti dagli organi dell’Unione europea e la tendenza a ritenerle comunque immediatamente efficaci e vincolanti all’interno degli ordinamenti statali confermano la sensazione di svalutazione del tradizionale sistema di relazioni tra le varie fonti dell’ordinamento giuridico interno e di quello internazionale.

In questo quadro, il codice civile può costituire lo strumento più adeguato - rispetto alla stessa Costituzione - a rappresentare il nucleo centrale dell’ordinamento privatistico, a condizione che se ne compia un continuo aggiornamento. In questa direzione si muovono le novelle al codice, le ultime delle quali sono relative alla disciplina dei contratti conclusi dal «consumatore» (l. n. 52 del 1996) ed alla trascrizione del contratto preliminare (d.l. n. 669 del 1996).

Ed il codice civile mostra al riguardo una duttilità enorme, testimoniata tra l’altro dalla sua maggiore aderenza, rispetto alla Costituzione, alle linee dell’Unione europea per quanto concerne la libertà di iniziativa economica, la libertà dei mercati, la concorrenza ecc. Ciò è essenzialmente dovuto al fatto che i trattati istitutivi della Comunità europea, prima, e dell’Unione europea, ora, hanno alla base esigenze di politica economica, piuttosto che la tutela della persona umana in quanto tale, in tal modo professando una ratio analoga a quella che giustificava gran parte delle disposizioni del codice civile italiano all’atto della sua ideazione (liberismo economico e massima

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Il codice civile

produttività nazionale). Si potrebbe parlare di «ripatrimonializzazione» del diritto privato.

La realtà può apparire sconsolante al dogmatico: l’introduzione e la rapida abrogazione di disposizioni, la loro accelerata senescenza non consentono alla dottrina di procedere ad individuare i concetti e le categorie attraverso cui operare la «sistemazione» delle norme, ai fini di un’applicazione coerente coll’intero complesso normativo. E ciò, quantomeno, per mancanza di tempo. L’unico metodo adottabile appare quello dell’esegesi, senza pretese dogmatiche.

Il risultato è che la giurisprudenza - intesa questa volta, nell’accezione romanistica, quale attività di elaborazione delle norme - da scienza decade a tecnica: attenta al dettaglio ma incapace di uno sforzo sistematico; idonea a risolvere le singole questioni ma senza la certezza di soluzioni univoche per assenza di visione unitaria.

Ma è, questa, soltanto un’impressione di primo approccio: viceversa, proprio la caoticità, l’eterogeneità ed il numero vieppiù crescente di norme e di leggi richiedono oggi, forse più che nel passato, un’opera - forse immane, ma certamente faticosa - di razionalizzazione e di sistemazione. Insomma, oggi più di ieri si richiede all’interprete di sceverare «il troppo e il vano», ricercando una visione unificante attraverso i concetti e le categorie giuridiche: nel che consiste proprio l’opera del giurista.

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CAPITOLO SECONDO

Le situazioni giuridiche soggettive

SOMMARIO: SEZIONE PRIMA. Ordinamento e soggetti: 1. L’individuo come destinatario della norma giuridica. - 2. Interessi e attività. - 3. La valutazione degli interessi e delle attività. - 4. Le situazioni giuridiche. - SEZIONE SECONDA. Le situazioni giuridiche soggettive attive: 5. Il diritto soggettivo. - 6. segue: I diritti assoluti. - 7. segue: I diritti relativi. - 8. segue: I diritti personali di godimento. - 9. L’interesse legittimo. - 10. La potestà. - 11. L’aspettativa. - 12. Il possesso. - 13. Gli status. - SEZIONE TERZA. Le situazioni giuridiche soggettive passive: 14. Nozione. - 15. L’onere. - 16. Il dovere giuridico. - 17. La soggezione.

SEZIONE PRIMA

Ordinamento e soggetti

1. L’individuo come destinatario della norma giuridica.

L’ordinamento giuridico si presenta come un insieme di regole di condotta con cui una determinata comunità di persone organizza la propria convivenza, disciplinando i rapporti tra coloro che ne fanno parte. Il diritto (come sinonimo di ordinamento) costituisce una realtà immanente ad ogni aggregato sociale (ubi societas ibi ius), dal momento che la vita associata richiede, in termini di necessità, che vengano fissate delle regole che siano in grado di disciplinare i rapporti (spesso conflittuali) tra i membri del gruppo. Possiamo dire che il diritto trasforma un aggregato di persone in una organizzazione con una propria razionale struttura interna1. Il termine stesso «ordinamento» tende, d’altra parte, a porre subito in luce la finalità del fenomeno giuridico che è quella, appunto, di «ordinare» la realtà sociale, di fare cioè in modo che questa si svolga in conformità ad un dato «ordine»2.

1 «Il segno di distinzione di ogni comunità organizzata è il diritto. Con il termine diritto si fa riferimento al modo ed alle forme in cui ciascuna società si organizza, si ordina: di qui l’altra espressione ordinamento giuridico»: RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1985, 15.

2 Ricordiamo la nota definizione di Kant per il quale il diritto è «l’insieme delle condizioni che consentono all’arbitrio di ciascuno di coesistere con l’arbitrio degli

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Le situazioni giuridiche soggettive

La norma giuridica ha come destinatario la persona umana. Talvolta, però, il destinatario si presenta come una entità soggettiva complessa, nel senso che la norma si indirizza non già al singolo, bensì ad un gruppo di individui3: in questo secondo caso, può rilevarsi l’evenienza che il gruppo - mediante una particolare regolamentazione dei rapporti interni - assuma una propria autonomia rispetto ai singoli membri, diventando esso stesso il termine di riferimento soggettivo per l’attribuzione di diritti e di obblighi (basti pensare alle varie associazioni o alle società).

2. Interessi e attività.

Premessa, dunque, la nozione di individuo come destinatario della norma giuridica, dobbiamo, adesso, analizzare l’oggetto della disciplina dettata dalla norma stessa.

L’uomo avverte dei bisogni, intesi come stati soggettivi di insoddisfazione dai quali lo stesso tende ad uscire. Come è stato scritto, il bisogno «è il desiderio di disporre di un mezzo reputato atto a far cessare una sensazione dolorosa o a provocarla o a conservare una sensazione piacevole o a provocarla»4. È un stato di tensione fra la volontà che ambisce alla soddisfazione di un fine e l’ambiente che ne ostacola l’immediato soddisfacimento. L’uomo agisce per eliminare ogni suo stato di insoddisfazione, procurandosi i mezzi congrui ai suoi fini. I bisogni, allora, come espressione dei fini individuali, sono il movente dell’attività umana che va alla ricerca di beni, ossia entità oggettive (cose materiali e servizi umani) ritenute idonee ad eliminare lo stato di insoddisfazione. Questa tensione (o aspirazione) dell’individuo verso i beni prende il nome di interesse e costituisce la molla che poi induce l’uomo ad agire. E sono proprio gli interessi e le conseguenti attività umane ad essere oggetto della regolamentazione predisposta dall’ordinamento.

L’interesse può far capo ad un singolo individuo, come può appuntarsi in capo ad una collettività di persone: si parla, in questo secondo caso, di interessi superindividuali5 ed entrano qui in gioco le discusse categorie degli interessi collettivi e degli interessi diffusi.

In via preliminare, però, è necessaria una precisazione. Si parla di interesse pubblico generale per indicare l’interesse della collettività

altri, secondo un principio generale di libertà».3 Cfr. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Torino, (s.d.), 229 ss.: «Il destinatario-

soggetto di un norma giuridica può presentarsi in forma universale o in forma singola».

4 Pantaleoni citato da DI NARDI, Economia dello scambio, Napoli, 1982, 44.5 Sul punto cfr. GALLI, Diritto amministrativo, Padova, 1994, 109.

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Dispense di diritto privato

indifferenziata, la cui cura è attribuita dalla legge alla Pubblica Amministrazione. L’interesse alla manutenzione delle strade, all’illuminazione pubblica, ecc. fanno capo alla generalità degli individui che formano una collettività e si presentano - come si dice - allo stato di indifferenziazione, nel senso che essi si distribuiscono in maniera identica tra i membri della collettività, senza che sia possibile individuare un interesse particolare e differenziato facente capo ad uno dei soggetti.

Diversa connotazione assume l’interesse collettivo che è l’interesse facente capo ad un gruppo il quale, però, si unifica in un ente (c.d. esponenziale) il quale diventa titolare dell’interesse del gruppo stesso. Si pensi, ad esempio, alla figura del sindacato, il quale si presenta come un ente che si fa portatore degli interessi della categoria dei lavoratori. In tal modo, l’ente diventa titolare dell’interesse sostanziale, il quale, per un verso, è ancora astrattamente riferibile a ciascuno degli individui facenti parte del gruppo sociale, ma, per un altro verso, risulta sottratto alla disponibilità dei singoli, radicandosi esclusivamente in capo all’ente esponenziale.

L’interesse collettivo si distingue dall’interesse diffuso. Si è pur sempre in presenza di un interesse facente capo ad una collettività di individui, solo che tale collettività si presenta come insieme indeterminato di soggetti che non costituiscono una categoria o un gruppo omogeneo. In secondo luogo, nel caso dell’interesse diffuso mancherebbe un ente esponenziale intorno al quale la collettività si raccoglie, rimanendo - come si dice - l’interesse stesso allo stato diffuso tra gli individui e, in quanto tale, privo di titolare (c.d. interesse adesposta): in altre parole, non si assiste qui al fenomeno della personalizzazione dell’interesse mediante l’attribuzione di titolarità ad un ente. Infine, questo interesse facente capo alla collettività ha ad oggetto un bene di uso collettivo, dal quale il gruppo trae una particolarità utilità: si pensi, ad esempio, all’interesse facente capo alla collettività stanziata in un certo territorio ed avente ad oggetto la salubrità dell’ambiente, minacciato dalla presenza di una fabbrica inquinante. Come si vede da questo esempio, tale interesse fa capo ad una collettività più o meno circoscritta di individui (ed in ciò è la differenza con l’interesse pubblico generale) che, però, non si raccoglie intorno ad un ente finalizzato alla sua tutela, ma si distribuisce all’interno del gruppo in maniera seriale, nel senso che lo stesso interesse si ripete in maniera identica tante volte quanti sono i soggetti che formano la collettività.

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Le situazioni giuridiche soggettive

3. La valutazione degli interessi e delle attività.

L’ordinamento giuridico può assumere nei confronti di un certo interesse, anzitutto, una posizione di indifferenza6: il che si verifica quando esso lo considera estraneo alla propria sfera di intervento e ritiene opportuno che rimanga localizzato sul piano dei rapporti sociali e affidato a regole (non giuridiche) della morale o del costume sociale. Si consideri, ad esempio, l’ipotesi in cui Tizio inviti a cena Caio e costui accetti: l’interesse di Tizio (corrispondente all’esigenza di avere a cena l’amico) non assume rilevanza per l’ordinamento, dal momento che, se poi Caio non viene a cena, nessuno strumento prospetta il diritto per conseguire la realizzazione di quell’interesse. Vi potranno essere conseguenze sul piano dell’amicizia, dei rapporti di cortesia, ma, in ogni caso, la vicenda si svolge in un ambito di irrilevanza giuridica.

Laddove, invece, l’interesse venga preso in considerazione dall’ordinamento (assume cioè rilevanza giuridica) è possibile individuare due ulteriori possibili atteggiamenti. In primo luogo, la valutazione può esprimersi in senso positivo, nel senso che il legislatore non solo ritiene quel certo interesse conforme alle proprie direttive, ma lo considera, altresì, meritevole di realizzazione. L’interesse, allora, diviene oggetto di protezione da parte dell’ordinamento, il quale mette a disposizione del suo titolare una serie di strumenti (vedremo quali) idonei a consentirne l’attuazione. E così, l’interesse del soggetto a godere di un bene è reputato dal legislatore come meritevole di protezione e, a tal fine, esso prevede azioni volte a scongiurare la possibilità che terzi interferiscano nel pacifico godimento.

L’ipotesi opposta è quella in cui l’ordinamento ritiene che l’interesse sia in contrasto con interessi superiori di cui è portatore: in tal caso, esso è oggetto di una valutazione negativa da parte del legislatore che appresta gli strumenti idonei ad impedirne la realizzazione.

La doppia valutazione (in senso positivo o negativo) conferisce all’interesse una sua rilevanza giuridica, anche se poi diverse saranno le conseguenze, in dipendenza del diverso risultato del giudizio.

Discorso analogo può farsi con riguardo alle attività umane volte alla realizzazione dell’interesse. Anche in questo caso, il diritto può assumere un atteggiamento di indifferenza, laddove l’attività umana venga considerata sì lecita, ma del tutto irrilevante sul piano delle

6 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1962, 11 ss.

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valutazioni giuridiche. Significativo è l’esempio di colui che si impegni a salutare quotidianamente un’altra persona: in questo caso, l’impegno assunto dal soggetto rimane estraneo all’ordinamento, il quale non appresta mezzi di protezione per l’ipotesi in cui l’attività promessa non venga eseguita. Siamo nell’ambito di quell’ampia sfera di attività che solitamente vengono raggruppate sotto l’espressione «prestazioni di cortesia», le quali, per la loro natura, si situano al di fuori di ogni coazione normativa, ripugnando al comune sentire il ricorso a mezzi risarcitori o ad esecuzioni forzate per garantirne lo svolgimento.

Quando, invece, l’ordinamento si interessa di talune attività umane (cioè attribuisce loro rilevanza giuridica), l’atteggiamento - ancora una volta - può essere duplice: può considerare l’attività in contrasto con le proprie direttive e, allora, essa è contrastata (c.dd. attività illecite); oppure può considerarla lecita e altresì meritevole di protezione, apprestando, a tal fine, gli strumenti giuridici per garantire il realizzarsi del risultato cui il soggetto tende.

Resta, peraltro, da stabilire quali siano i criteri in base ai quali il legislatore valuta gli interessi e le attività. Storicamente, alla base di ogni giudizio normativo si pone l’esigenza di risolvere un conflitto tra libertà ed autorità: da un lato, vi è l’aspirazione costante di ciascun individuo di guadagnare margini di autonomia rispetto alla legge e, dall’altro, vi è la tendenza dell’ordinamento a limitare quella libertà in vista della composizione armonica di interessi confliggenti. È un conflitto antico, coevo alla stessa idea di diritto quale strumento di limitazione della libertà individuale per garantire la pacifica coesistenza di soggetti che potenzialmente tendono ad affermare in toto la proprio individualità. E il conflitto viene risolto dal legislatore, di volta in volta, tenendo conto delle concezioni sociali, dei valori e delle ideologie che, in un certo momento storico, la società civile esprime. E così, ad esempio, in un contesto politico caratterizzato da una ideologia liberale-capitalistica, l’ordinamento potrà dare prevalenza ad interessi che, latamente, assumono valenza individuale, laddove, in una società di stampo socialista, si attribuirà prevalenza ad interessi che tengono conto non tanto del singolo quanto di istanze collettive o, comunque, sociali.

Tutto ciò ci fa capire come i parametri assunti dall’ordinamento nel processo di valutazione degli interessi e delle attività umane siano storicamente relativi: essi cioè non hanno carattere immutabile (come se dovessero rispondere ad un utopistico ideale di logica e giustizia astratta), ma sono il portato dei valori e delle ideologie che, di volta in volta, sono prevalenti in un determinato contesto storico-sociale.

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Le situazioni giuridiche soggettive

Interessi che, un tempo erano considerati estranei alla sfera di intervento del legislatore, oggi, possono ritenersi fondamentali in una società civile (si pensi, ad esempio, alla sanità), così come interessi che in taluni ordinamenti sono considerati leciti e protetti, potranno, in altri sistemi giuridici, essere considerati illeciti (si pensi all’ampia problematica sottesa all’eutanasia).

4. Le situazioni giuridiche.

Si è detto che, quando un certo interesse o una certa attività umana sono presi in considerazione dall’ordinamento giuridico, essi, per ciò stesso, assumono rilevanza giuridica. Si tratta, adesso, di esaminare più da vicino tale concetto. A tal fine, può essere utile ricordare che un certo interesse oppure una certa entità materiale (ad es. un corso d’acqua) sono di per sé entità «amorfe» sotto il profilo giuridico fino a quando essi non vengano presi in considerazione dal legislatore: ciò accade quando, ad esempio, il diritto prevede degli strumenti per la realizzazione di quel certo interesse oppure quando un certo corso d’acqua riceve la qualifica di bene demaniale per essere poi sottratto alla libera disponibilità dei privati. In sostanza, la considerazione da parte dell’ordinamento contribuisce a porre quella certa entità in una particolare situazione giuridica nei confronti dell’ordinamento stesso, di modo che essa, da quel momento, cessa di essere un quid amorfo per diventare parte di una più fitta trama di relazioni disciplinate da diritto.

Laddove, poi, tale entità consista in un bene, la rilevanza giuridica si risolve nell’attribuzione allo stesso di una qualità7. Si pensi, ad esempio, alla norma dell’art. 812, comma 1, c.c. per la quale sono beni immobili il suolo, le sorgenti e i corsi d’acqua, gli alberi, [...]. Questa norma può risolversi nella seguente formula: se vi è un suolo, una sorgente, un corso d’acqua, un albero, allora, ciascuno di essi riceve la qualità di bene immobile. Lo stesso discorso è applicabile all’art. 817, comma 1, c.c.: se taluno destina una cosa in modo durevole a servizio o ornamento di un’altra, allora quella cosa riceve la qualifica di pertinenza. Ma si pensi, ancora, alla norma dell’art. 822 che elenca i beni facenti parte del demanio pubblico. Emerge, da questi esempi, che la previsione normativa di certi beni serve a porli in una particolare situazione giuridica che costituisce, poi, a sua volta, il presupposto della disciplina applicabile ai rapporti facenti capo ad essi. Considerando, allora, l’oggetto della rilevanza giuridica, sarà

7 IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990, 25 ss.

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Dispense di diritto privato

possibile parlare (in termini meramente descrittivi), in questi casi, di situazione giuridica oggettiva, per sottolineare che il termine di riferimento della valutazione normativa è costituito da un bene8.

Viceversa, quando l’ordinamento prende in considerazione un interesse di un soggetto e - ricordando il triplice atteggiamento che esso può assumere verso un dato interesse - lo considera meritevole di realizzazione, tale considerazione si esprime nell’attribuzione al titolare dell’interesse di strumenti finalizzati al suo soddisfacimento. In questo caso, sarà possibile parlare di situazione giuridica soggettiva per evidenziare che il termine di riferimento della valutazione normativa è costituita da un soggetto che è destinatario degli strumenti operativi concreti messi a disposizione dalla norma giuridica9. Questa rilevanza, in altri termini, si tramuta in concetti e strumenti dell’ordinamento giuridico.

Il rilievo che viene dato all’interesse porta alla costruzione della teoria delle situazioni giuridiche soggettive, sia attive che passive: diritti soggettivi, interessi legittimi, status, ecc.; e poi, doveri, obblighi, soggezioni. Con la conseguenziale costruzione del rapporto giuridico, che viene visto oggi soprattutto come relazione tra due o più situazioni soggettive.

Il rilievo che, invece, viene dato all’attività dà luogo alla teoria dell’attività giuridica; composta da fatti, atti e negozi.

C’è in più da aggiungere che l’interesse, e quindi lo strumento dato dall’ordinamento per la sua realizzazione, si pone nel mondo dei concetti giuridici come mondo meramente ideale (il “noumeno” kantiano); l’attività, e quindi i fatti giuridicamente rilevanti, si pone sul piano del mondo reale (il “fenomeno” di Kant). Un fatto del mondo empirico è o non è: può essere considerato dal diritto. Da esso deriva l’effetto giuridico, che è una creazione meramente ideale, e che si traduce in situazioni giuridiche ed in rapporti giuridici.

Prendendo ora in considerazione la prima categoria di concetti, e cioè gli interessi umani, dobbiamo dire che, laddove essi vengono valutati positivamente, ricevono dall’ordinamento una tutela che può essere più o meno intensa. Essa si traduce in una serie di strumenti forniti al soggetto per la realizzazione dell’interesse.

Gli strumenti che l’ordinamento fornisce sono appunto le situazioni giuridiche soggettive. Esse non si confondono con l’interesse ma,

8 Giova precisare che il bene costituisce pur sempre un termine di riferimento mediato, rimanendo, come già detto, il soggetto il punto di riferimento diretto della norma.

9 In questo caso, il riferimento all’interesse e la sua conseguente valutazione in termini di liceità-illecità non sortisce di per sé conseguenze giuridiche, dal momento che quella valutazione è solo il presupposto per il conseguente riconoscimento, a favore del titolare, degli strumenti funzionalizzati alla sua realizzazione.

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Le situazioni giuridiche soggettive

come dice il nome, sono mezzi per la realizzazione dell’interesse. Dunque, interesse protetto e strumenti per realizzarlo rimangono concetti ben distinti.

Questi strumenti possono consistere in due grandi ordini di concetti. Il primo è il potere, e cioè la forza e la possibilità giuridica che l’ordinamento fornisce ad un soggetto: siamo in quelle che chiamiamo le situazioni giuridiche attive.

Il secondo, viceversa, è la necessità, una privazione od uno svantaggio che l’ordinamento impone ad un altro soggetto: siamo in quelle che chiamiamo le situazioni giuridiche passive.

In genere, le situazioni attive consistono in un potere fornito per la realizzazione di un interesse proprio: diritto soggettivo, interesse legittimo, ecc. In genere, non sempre. Qualche volta, infatti, un potere, e cioè una situazione attiva, viene concesso per la realizzazione di un interesse altrui: è il caso delle potestà.

Le situazioni passive sono invece necessità, strumenti per la realizzazione, in genere, di un interesse altrui: dovere, obbligo, soggezione. In genere, non sempre. Così l’onere è una situazione passiva strumento per la realizzazione di un interesse proprio.

In definitiva, la situazione giuridica soggettiva si risolve in un interesse che fa capo ad un soggetto o ad un gruppo che viene valutato favorevolmente dall’ordinamento il quale attribuisce al titolare una serie di strumenti giuridici che gli consentono la realizzazione.

L’interesse, peraltro, può assumere due diverse connotazioni10: a) l’individuo può voler conseguire un bene che non ha (e in tal caso si

configura una situazione dinamica di appropriazione) oppure b) conservare un bene che già ha (nel qual caso si configura una

situazione statica che mira a mantenere integro il patrimonio al fine di godere).

Considerando, però, che l’interesse materiale riceve tutela dall’ordinamento secondo modalità e intensità diverse, in relazione al grado di idoneità degli strumenti attribuiti al soggetto in vista del soddisfacimento di quell’interesse, possiamo dire che le situazioni giuridiche soggettive si distribuiscono secondo un sistema gerarchico, graduato, appunto, in relazione alla diversa idoneità delle stesse a garantire la soddisfazione dell’interesse materiale.

L’attribuzione di strumenti giuridici comporta il riconoscimento al soggetto di una situazione di vantaggio o, come pure si denomina, attiva, in quanto capace di assicurare il conseguimento di un risultato favorevole. La realizzazione dell’interesse materiale consegue,

10 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 19 ss.

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Dispense di diritto privato

ordinariamente, attraverso l’imposizione in capo ad un soggetto diverso di situazioni di svantaggio (o passive): ad esso si impone di tenere un certo comportamento oppure di subire le conseguenze che la norma ricollega direttamente al verificarsi di taluni accadimenti. La situazione giuridica passiva si pone, allora, in rapporto di strumentalità rispetto a quella attiva, in quanto mezzo necessario per consentire la realizzazione dell’altrui interesse.

Si instaura, in tal modo, un nesso tra situazioni attive e passive, termini (contrapposti) di una medesima vicenda che trae origine - ripetiamo - dalla positiva valutazione espressa dall’ordinamento nei riguardi di un certo interesse.

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Le situazioni giuridiche soggettive

SEZIONE SECONDA

Le situazioni giuridiche soggettive attive

5. Il diritto soggettivo.

Si è detto che la situazione giuridica soggettiva si risolve nell’attribuzione ad un soggetto di strumenti giuridici finalizzati alla realizzazione di un interesse a lui facente capo che può consistere nell’interesse a conservare un bene che già si ha oppure nell’interesse a conseguire un bene che non si possiede. Si è anche detto che le situazioni giuridiche soggettive sono tante e diverse a seconda della maggiore o minore idoneità degli strumenti attribuiti al soggetto a realizzare l’interesse. Al vertice di questa scala troviamo la figura del diritto soggettivo. Il diritto soggettivo conobbe, per così dire, il suo massimo splendore con il giusnaturalismo, corrente di pensiero filosofica di stampo individualistico che - in reazione allo strapotere dell’assolutismo monarchico - ipotizzò la sussistenza di diritti naturali, cioè diritti che l’ordinamento trova in rerum natura e che l’ordinamento deve limitarsi a riconoscere e tutelare. In tale ottica, vengono collocati sullo stesso piano non solo i diritti attinenti alla personalità dell’individuo, ma la stessa proprietà che finisce con l’essere il paradigma di tutti i diritti soggettivi.

Il mutamento delle condizioni storico-economiche determinarono - come conseguenza dell’affermazione della ideologia liberale del XIX secolo - una concezione nuova del diritto soggettivo, caratterizzata dalla tendenza a subordinare, in ogni caso, il diritto individuale all’ordinamento giuridico. In tale contesto, si afferma la nota teoria di Windscheid, il quale configurava il diritto soggettivo come signoria (o potere) della volontà tutelata dall’ordinamento giuridico. Questa teoria, però, rivelò ben presto i suoi limiti: costruito il diritto soggettivo come potere della volontà, risultava problematica l’attribuzione di diritti soggettivi ad individui sprovvisti di una volontà giuridicamente rilevante e, dunque, agli incapaci, i quali, alla luce dell’ordinamento giuridico, pur sono titolari di situazioni giuridiche attive11.

L’ulteriore evolversi dei tempi e l’ulteriore progressiva rivalutazione del diritto oggettivo costituirono la molla per una nuova definizione del diritto soggettivo. Nel pensiero di Jhering, il diritto soggettivo si presenta come interesse giuridicamente protetto: scomparso ogni riferimento alla volontà ed insieme anche la considerazione del

11 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, I, 1, Norme, soggetti e rapporto giuridico, Torino, 1987, 284; GALLI, Diritto amministrativo, cit., 57.

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soggetto, l’essenza del diritto soggettivo viene individuata nella mera protezione accordata dall’ordinamento all’interesse di un soggetto o di un gruppo. Tuttavia la genericità della formulazione ne segnò i limiti: se il diritto soggettivo fosse soltanto interesse protetto, si dovrebbe concludere che qualunque interesse, in quanto protetto, sia diritto soggettivo, ma ciò non è vero, dal momento che esiste tutta una serie di interessi giuridicamente rilevanti e non per questo qualificabili come diritto soggettivo12.

L’insoddisfazione della dottrina di fronte a soluzioni per così dire unilaterali, perché tendenti a mettere in luce solo l’uno o l’altro (volontà o interesse) degli elementi ritenuti indispensabili per una corretta definizione della figura in questione, portò successivamente alla proliferazione di teorie c.d. combinatorie, perché incentrate su una complessiva valutazione di tali elementi13.

Nell’ambito di tali teorie emerse quella che faceva capo a Jellinek il quale scoprì il legame inscindibile che sussisteva tra volontà ed interesse: l’interesse era il fine tutelato dalla norma, mentre la volontà era il mezzo con cui quel fine poteva essere perseguito e soddisfatto. In tal prospettiva, il diritto soggettivo si qualificava come potere della volontà di agire per il soddisfacimento di un interesse materiale, riconosciuto e tutelato dall’ordinamento giuridico.

La nuova impostazione, peraltro, non era in grado di fugare i dubbi, anzi, sotto certi aspetti, essa riproponeva antiche obiezioni: continuando essa ad identificare il diritto soggettivo con il potere della volontà (sia pure volto a realizzare l’interesse sostanziale), riproponeva il problema della titolarità giuridica del diritto soggettivo in capo ai soggetti incapaci.

La figura, invece, assume contorni ben definiti laddove si tenga presente la stessa nozione di situazione giuridica soggettiva: se questa si sostanzia nell’attribuzione al soggetto titolare di un interesse di strumenti giuridici idonei a consentire la realizzazione del suo interesse, il diritto soggettivo si caratterizza per il fatto che in esso l’attribuzione dei suddetti mezzi giuridici consente al soggetto di realizzare in modo pieno e sicuro il suo interesse. Ecco che allora la nozione di diritto soggettivo si sostanzia nella configurazione di un mero agere licere, cioè in una mera facoltà di agire per la soddisfazione dell’interesse individuale, con una inevitabile pretermissione del riferimento alla volontà che rappresenta solo un elemento esterno capace di mettere in moto gli strumenti attribuiti al soggetto. E ciò consente, fra l’altro, di giustificare l’attribuzione di diritti soggettivi anche a soggetti incapaci: se infatti la volontà

12 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI E NATOLI, o.l.c.13 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI E NATOLI, o.l.u.c.

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Le situazioni giuridiche soggettive

rappresenta solo un elemento esterno al diritto soggettivo, che rileva solo nel momento dell’attuazione e dell’esercizio di esso, è ben possibile che il diritto soggettivo possa far capo anche ad un soggetto incapace, con la sola precisazione che, al momento dell’esercizio, l’incapace necessita di un soggetto diverso che sia legittimato ad agire in nome e per conto di lui (c.d. rappresentante legale).

Approfondendo meglio la nozione, la dottrina14 individua nel diritto soggettivo la sintesi di una posizione di forza e di una posizione di libertà: il soggetto è infatti libero di decidere se avvalersi o meno del potere conferitogli (ed in ciò è la libertà), ma, una volta esercitato, il diritto è in grado di realizzare pienamente l’interesse sostanziale (ed in ciò è la forza).

Possiamo, allora, dire che il diritto soggettivo si risolve nell’attribuzione al soggetto di una serie di poteri mediante i quali egli può conseguire la realizzazione diretta ed immediata di un proprio interesse. Il suo contenuto è rappresentato da facoltà, ossia da una serie di possibilità di comportamenti diretti alla soddisfazione dell’interesse stesso. Tenendo presente ciò, può ancora accogliersi l’opinione tradizionale15 per la quale le facoltà non hanno una propria autonomia rispetto al diritto soggettivo costituendo esse il nucleo essenziale di tale ultima figura, con la conseguenza che esse non si estinguono se non si estingue il diritto (in facultativis non datur praescriptio).

6. segue: I diritti assoluti.

Analizzando, adesso, più da vicino il contenuto del diritto soggettivo, con riferimento all’ipotesi in cui l’interesse materiale si profila come interesse a conservare un bene che già si ha, viene in considerazione la figura dei c.dd. diritti assoluti i quali si caratterizzano per il fatto di dare vita ad una relazione immediata tra il soggetto ed il bene. Si consideri, ad esempio, l’ipotesi del proprietario: costui gode del bene senza che vi sia bisogno dell’altrui materiale cooperazione, dal momento che quel godimento si sostanzia nella facoltà di abitare, ad esempio, la casa, di darla in affitto o, addirittura, di distruggerla. I terzi, al più, possono impedire il godimento (ad esempio, sottraendo il bene) e in tal caso l’ordinamento, al fine di permettere al titolare del diritto soggettivo la realizzazione dell’interesse, pone a carico degli altri soggetti un

14 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 18.15 Espressa nella manualistica corrente: cfr., ad esempio, TORRENTE e SCHLESINGER,

Manuale di diritto privato, Milano, 1995, 65.

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dovere giuridico in senso stretto (infra) che si risolve nell’imposizione di un dovere di astensione dal tenere qualsivoglia comportamento idoneo ad impedire o turbare l’interesse a conservare. E così, di fronte al proprietario di un bene si pone il dovere in capo alla generalità dei consociati di non interferire nel godimento del bene stesso da parte del proprietario.

La prima caratteristica, dunque, del diritto (soggettivo) assoluto è la c.d. immediatezza, cioè questo rapporto diretto tra il soggetto e il bene il cui contenuto prescinde totalmente da un profilo di cooperazione degli altri soggetti, sui quali, come detto, grava un divieto generalizzato di interferenza.

Nel diritto assoluto, dunque, il soggetto realizza l’interesse (a conservare e godere il bene) col suo solo comportamento e, in tal senso, esso si presenta quale situazione finale16 in quanto attua in sé stesso il fine del soggetto, senza che vi sia bisogno della intermediazione di terzi (a differenza, come vedremo, del diritto relativo).

La categoria dei diritti assoluti, peraltro, presenta al suo interno tipologie diverse, in relazione alla diversità dell’oggetto che il titolare tende a conservare. Sono individuabili le seguenti figure:

a) Diritti reali.La figura dei diritti reali abbraccia quei diritti assoluti nei quali

l’interesse a conservare è riferito a beni che hanno una consistenza materiale e percepibile dai sensi. La stessa terminologia - diritto reale - evidenzia la caratteristica per la quale si è in presenza di un diritto su di una cosa. È quanto, del resto, mette in evidenza l’art. 810 c.c. che, nell’aprire il terzo libro dedicato alla proprietà, stabilisce - con specifico riferimento ai diritti in questo disciplinati - che «sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti» (si intende reali)17.

In tal ambito, peraltro, il soggetto può avere interesse a conservare un bene che gli appartiene a titolo di proprietà, ma altresì un bene che è di proprietà di un altro soggetto e sul quale egli vanta un semplice diritto diverso dalla proprietà. Emerge, così, nella categoria dei diritti reali, una partizione ulteriore: da un lato, la figura dei diritti reali su cosa propria, che si identifica con il diritto di proprietà e, dall’altro, la figura dei diritti reali su cosa altrui, caratterizzata dal fatto che un terzo esercita un potere su di un bene che è di proprietà di un terzo.

Nella categoria dei diritti reali su cosa altrui, il diritto del soggetto non proprietario può trarre giustificazioni giuridiche differenti che si riflettono - sul piano dogmatico - nella nota partizione (nell’ambito,

16 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 23; GAZZONI, Manuale, cit., 65.17 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, cit., 305.

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Le situazioni giuridiche soggettive

questa volta, dei diritti reali su cosa altrui) tra diritti reali di godimento e diritti reali di garanzia. Laddove, infatti, il diritto su cosa altrui è volto a consentire al titolare il godimento della cosa altrui, si parla di diritti reali di godimento i quali presuppongono, perciò, una scissione di facoltà nell’ambito del diritto di proprietà, nel senso che talune di esse sono, per così dire, compresse (con il consenso o anche talvolta contro la volontà del proprietario) così da permettere ad un terzo di esercitare un diritto che ha come contenuto proprio queste facoltà18. In tal modo, l’usufruttuario gode del bene, laddove il proprietario vede compressa la relativa facoltà.

Viceversa, nell’ipotesi in cui il soggetto non proprietario vanta un diritto su cosa altrui allo scopo di poter esercitare - in caso di inadempimento di un’obbligazione - il diritto di soddisfarsi sul bene medesimo con prelazione rispetto agli altri creditori, il diritto su cosa altrui assume una finalità di garanzia che dà luogo alla figura dei diritti reali (su cosa altrui) di garanzia. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il debitore costituisca in pegno una cosa propria mobile consegnandola al creditore come garanzia del suo adempimento: il creditore, in caso di inadempimento, potrà far vendere il bene pignorato al fine di rivalersi sul prezzo conseguito fino a concorrenza del proprio credito e con preferenza rispetto ad altri eventuali creditori.

b) Diritti della personalità.A fianco ai diritti reali, si situano i diritti della personalità, i quali

hanno ad oggetto beni immateriali e, se vogliano, privi di una consistenza patrimoniale-economica. Si pensi, ad esempio, al diritto all’onore o al diritto alla identità personale. Trattasi di una categoria che - sul piano della configurazione dogmatica e della tutela - è di recente emersione, ma la cui importanza trova riscontro nella comune affermazione della loro inscindibilità rispetto alla persona umana, al punto da non potersi concepire l’essere umano, almeno in termini moderni, a prescindere dal godimento di questi diritti19.

c) Diritti su beni immateriali.La terza tipologia di diritti assoluti è quella che investe diritti aventi

ad oggetto beni che - al pari dei diritti della personalità - sono privi di una consistenza materiale, ma che, al contrario, presentano profili patrimoniali. Si pensi, ad esempio, al diritto d’autore, cioè al diritto di un soggetti a vedersi riconosciuta la paternità di un’opera intellettuale. Orbene in questo caso, se l’oggetto del diritto non è suscettibile di una percezione sensoriale, tuttavia non è assente un profilo patrimoniale, se si tiene presente, ad esempio, la possibilità di

18 GAZZONI, Manuale, cit., 243.19 GAZZONI, Manuale, cit., 17.

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sfruttamento commerciale del romanzo o della composizione musicale.

7. segue: I diritti relativi.

Quando il soggetto ha interesse a conseguire un bene che non ha, la relativa situazione giuridica soggettiva attiva assume le connotazioni del diritto relativo. In questo caso, il soggetto non può realizzare l’interesse senza la cooperazione altrui (cioè del soggetto che ha il bene e che perciò è in condizione di farlo conseguire) e perciò deve ottenere la cooperazione dell’altro soggetto, la cui sfera giuridica subirà inevitabilmente una modificazione. In tal senso, si parla di diritto relativo, proprio perché - in contrapposizione al diritto assoluto - l’interesse del soggetto non può prescindere da una qualche forma di altrui collaborazione.

Nell’ambito del diritto relativo occorre procedere ad una ulteriore partizione:

a) Diritti di credito.La figura del diritto di credito viene in considerazione nell’ipotesi in

cui la realizzazione del diritto a conseguire comporta una modificazione materiale della sfera giuridica di un altro soggetto. Orbene, in casi del genere, la suddetta modifica materiale necessita della collaborazione dell’altro soggetto, collaborazione che si realizza mediante la imposizione a sua carico di un obbligo, cioè a dire di un dovere di comportamento finalizzato a far conseguire al soggetto il bene cui aspira. Colui sul quale grava l’obbligo è detto debitore, mentre il titolare dell’interesse da realizzare prende il nome di creditore. Si instaura, così, una relazione giuridica tra due individui, formata da posizioni attive e passive che nel loro complesso danno vita alla figura del c.d. rapporto giuridico.

b) Diritti potestativi.La figura del diritto potestativo viene in considerazione quando

l’interesse del soggetto a conseguire un bene non si realizza attraverso una modificazione materiale della realtà, ma attraverso una modificazione puramente ideale, che non è percettibile coi sensi, operando direttamente sul piano giuridico20. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui il proprietario di un fondo voglia acquistare la comproprietà di muro divisorio altrui: in questo caso, la realizzazione dell’interesse (che avviene mediante l’acquisto della comproprietà) importa una modifica della sfera giuridica dell’altro comproprietario

20 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 33 ss.

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Le situazioni giuridiche soggettive

che, però, è solo giuridica, dal momento che, sul piano materiale, nulla è mutato.

Nel caso dei diritti potestativi, essendo la modificazione non materiale ma solo giuridica, la cooperazione attiva di un altro soggetto non è necessaria, essendo sufficiente l’esercizio del diritto da parte del titolare e cioè la sola manifestazione di volontà diretta a produrre la modificazione stessa. In tal caso, allora, l’altro soggetto deve limitarsi a subire l’iniziativa altrui e in tal condizione si ravvisa la situazione giuridica soggettiva passiva della soggezione (infra). Questo aspetto della irrilevanza della cooperazione altrui per la soddisfazione dell’interesse protetto potrebbe assimilare la figura del diritto potestativo a quella del diritto assoluto. Ma resta, tuttavia, un dato prevalente: il soggetto passivo nel cui patrimonio inciderà la modificazione è pur sempre individuato e in tal senso il diritto potestativo è pur sempre un diritto relativo e non un diritto assoluto21.

Nell’ambito della categoria dei diritti potestativi si distinguono, poi, due diverse situazioni, a seconda che - ai fini della suddetta modificazione - sia o meno necessaria la mediazione di una sentenza del giudice:

1) in alcuni casi, infatti, la modifica (ideale) dell’altrui sfera giuridica si realizza mediante il comportamento volontario del soggetto titolare del diritto. Si pensi, ad esempio, all’acquisto della comproprietà del muro divisorio o ancora al diritto di recesso dal contratto;

2) in altri casi, invece, la suddetta modificazione pretende la intermediazione di una sentenza del giudice affinché, accertata l’esistenza del potere in capo al soggetto e la regolarità del suo esercizio, si realizzi la modificazione voluta. Si pensi, ad esempio, alla fattispecie di cui all’art. 1051, laddove l’acquisto della servitù coattiva di passaggio consegue ad una sentenza costitutiva, che crea cioè essa stessa il diritto a transitare. In questi casi - è bene precisare - il diritto potestativo ha come contenuto non propriamente la modificazione della realtà, quanto piuttosto la facoltà di chiedere ed ottenere una pronuncia giudiziale che, accertando quel diritto, lo realizza.

8. segue: I diritti personali di godimento.

Il diritto assoluto e il diritto relativo non esauriscono la categoria del diritto soggettivo. Esiste un’altra categoria di diritti che presenta i caratteri dell’uno e dell’altro: i diritti personali di godimento22.

21 GAZZONI, Manuale, cit., 67 ss.22 GAZZONI, o.c., 70.

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Si è qui in presenza, di una figura complessa in quanto, da un lato, vi è una situazione di carattere relativo, un tipico rapporto giuridico obbligatorio (diritto di credito dal lato attivo e obbligo dal lato passivo), ma, dall’altro, vi è un dovere generale di astensione a carico dei consociati identico a quello corrispondente al diritto assoluto e che si sostanzia nel divieto di interferenza nel godimento di un bene che il titolare ha conseguito sulla base del rapporto di credito.

Si consideri, ad esempio, il diritto del locatario. Costui è legato, da un lato, da un rapporto obbligatorio con il proprietario, cui deve versare il canone e da cui riceve la cosa in godimento (così realizzando l’interesse a conseguire) e, dall’altro, è tutelato nel godimento della cosa (e dunque nell’interesse a conservare) erga omnes, nei confronti cioè dell’intera collettività, ivi compreso il locatore stesso, il quale non potrebbe violare tale situazione di godimento, ad esempio, riappropriandosi violentemente della cosa locata23.

Si assiste, dunque, nei diritti personali di godimento, a due distinte fasi24: una prima, caratterizzata da una pretesa creditoria che l’avente diritto al godimento (esempio, locatario) vanta nei confronti del concedente, obbligato - per effetto del contratto (esempio, di locazione) - alla consegna della cosa oggetto del diritto; una seconda - che segue all’adempimento dell’obbligo - da un diritto, avente a contenuto la facoltà di godimento e che si esplica immediatamente sul bene, indipendentemente cioè dal concorso di un altro soggetto (concedente) e ciò specificamente tenuto.

Per concludere, sul diritto soggettivo. Esso è, sinteticamente definibile come un potere - dato dall’ordinamento - per la realizzazione diretta di un interesse proprio.

9. L’interesse legittimo.

Abbiamo detto, dunque, che il diritto soggettivo si risolve nell’attribuzione ad un soggetto di una serie di strumenti giuridici (c.dd. poteri) che consentono allo stesso di realizzare in modo diretto ed immediato un proprio interesse. Accanto al diritto soggettivo si situa la figura del c.d. interesse legittimo il quale consiste nell’attribuzione ad un soggetto di una serie di strumenti che gli consentono di realizzare il proprio interesse ma in modo solo indiretto e mediato. La figura dell’interesse legittimo, infatti, si individua in quei casi in cui la realizzazione dell’interesse avviene mediante

23 GAZZONI, o.l.u.c.24 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, cit., 319.

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l’esercizio di un potere attribuito ad un altro soggetto: l’ordinamento non attribuisce al titolare dell’interesse il potere di realizzarlo direttamente mediante la messa a disposizione di una serie di poteri, ma ne assicura la realizzazione attraverso la condotta di un altro soggetto25. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di un concorso per l’assunzione nel pubblico impiego. I partecipanti hanno interesse a vincere il concorso, ma tale interesse non riceve tutela di per sé dall’ordinamento, poiché questo non attribuisce ai partecipanti strumenti per la sicura realizzazione dell’interesse. L’ordinamento, infatti, si preoccupa di individuare i soggetti che abbiano le qualità e la preparazione richiesta e, a tal fine, appresta una rigorosa procedura di selezione. Ecco che, allora, viene alla ribalta un diverso interesse dei partecipanti: l’interesse a che il concorso si svolga secondo criteri di imparzialità. Ed è questo interesse che viene preso in considerazione dalla legge. Solo che la realizzazione di tale interesse avviene attraverso un comportamento di quegli organi dello Stato che presiedono allo svolgimento del concorso e ai partecipanti si attribuiscono poteri (ad esempio, l’azione giudiziale per l’annullamento) volti a garantire la correttezza del procedimento di concorso. Come si vede, allora, l’interesse alla vincita del concorso si realizza in modo indiretto, mediante la correttezza della condotta di un altro soggetto e gli strumenti attribuiti ai partecipanti sono finalizzati a controllare la condotta del soggetto stesso.

Nell’interesse legittimo, dunque, la realizzazione dell’interesse dipende dalla condotta di un altro individuo che, solitamente, si identifica con un organo della Pubblica Amministrazione. Tale soggetto è titolare di una potestà, figura sulla quale avremo modo di ritornare subito. Tuttavia, non si deve pensare che l’interesse legittimo trovi ambito applicativo solo nel diritto pubblico. La dottrina più moderna, infatti, ha individuato delle ipotesi di interesse legittimo anche nell’ambito del diritto privato. E così, ad esempio, il debitore ha interesse a liberarsi dall’obbligo che a lui fa capo: orbene, tale interesse si realizza attraverso la condotta del creditore che, ad esempio, dovrà consentire al debitore di accedere alla sua casa per poter riparare una condotta dell’acqua.

In ogni caso, il soggetto da cui dipende la realizzazione dell’interesse altrui non è mai gravato da un obbligo, ma, al contrario, è titolare di un potere (c.d. potere-dovere), in quanto egli, a sua volta, ha a disposizione una serie di strumenti che gli consentono in modo diretto ed immediato la realizzazione di un proprio interessi (si pensi all’interesse della Pubblica Amministrazione ad avere personale

25 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 55.

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qualificato). Questo potere, però, trova un limite nella necessità di tenere conto del contrapposto interesse dell’altro soggetto, situazione questa che, come vedremo, realizza la figura della potestà (o potere discrezionale).

Ricordiamo che l’opinione tradizionale distingue, nella categoria degli interessi legittimi, i c.dd. diritti affievoliti, cioè situazioni giuridiche soggettive che hanno la consistenza di veri e propri diritti, ma che sono suscettibili di essere degradati ad interesse legittimo ad opera di un atto della Pubblica Amministrazione. Tipico esempio è il diritto di proprietà, che è un diritto soggettivo perfetto, ma che può essere sottratto al titolare, a seguito di un provvedimento di espropriazione della Pubblica Amministrazione, nell’ipotesi in cui il bene debba essere utilizzato per la realizzazione di un’opera pubblica (ad es. un’autostrada). In questo caso, l’interesse del proprietario a conservare la cosa non è protetto ed, anzi, deve cedere di fronte all’interesse pubblico, ma in capo al proprietario nasce un interesse legittimo che ha come contenuto - anche questa volta - l’interesse al corretto esercizio del potere da parte della Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che se il procedimento di espropriazione è viziato, il soggetto potrà ottenere dal giudice amministrativo l’annullamento del provvedimento, con la conseguenza che il diritto di proprietà riacquista l’originaria ampiezza.

Per concludere, l’interesse legittimo è definibile come il potere di realizzare indirettamente l’interesse proprio.

10. La potestà.

Non sempre vi è coincidenza tra il titolare del diritto tutelato dalla norma e il titolare degli strumenti giuridici finalizzati a quella tutela. Si consideri, ad esempio, l’ipotesi dei genitori che amministrano beni lasciati ai figli minorenni. Ma si consideri, altresì, il potere attribuito al rappresentante nella cura di interessi che fanno capo al rappresentato. Con riferimento a tali ipotesi, si parla di potestà, figura che presenta un doppio volto, in quanto, da un lato, essa prospetta l’attribuzione di un potere in vista della realizzazione di un interesse, ma, dall’altro, determina un vincolo per il titolare del potere, poiché egli dovrà agire avendo come costante punto di riferimento proprio la cura dell’interesse alieno. La differenza con il diritto soggettivo è chiara: la cura dell’interesse altrui vincola l’agire del soggetto, cosicché quel profilo di libertà che - unitamente alla forza - caratterizza la struttura del diritto soggettivo si presenta attenuato, sebbene non del tutto eliminato (altrimenti si configurerebbe una

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mera situazione passiva). Si prospetta, dunque, la sussistenza di un potere vincolato, ossia un potere nel quale la scelta del titolare deve necessariamente tenere conto di alcuni presupposti che, come tali, condizionano il suo agire (potere-dovere). Si tratta di una situazione analoga a quella che ricorre in diritto amministrativo26 con riguardo ai poteri attribuiti alla Pubblica Amministrazione la quale nel suo agire incontra - quali elementi limitanti la sua azione - la cura dell’interesse pubblico e la c.d. causa attributiva del potere, ossia la realizzazione dello scopo particolare in forza del quale le è attribuito il potere. E in questo potere-dovere si esaurisce la c.d. discrezionalità della Pubblica Amministrazione (titolare anch’essa di potestà pubbliche) da cui, per derivazione, la qualificazione delle potestà privatistiche come poteri discrezionali ampiamente utilizzata dalla dottrina civilistica.

La limitazione del potere del titolare della potestà trae, dunque, origine dalla necessità di curare l’interesse altrui senza che ciò possa interferire con un interesse personale del soggetto agente: interesse che, peraltro, può anche sussistere, ma senza assumere un ruolo prevalente rispetto all’interesse altrui. Si consideri, ad esempio, la situazione nella quale vengono a trovarsi i genitori che amministrano beni dei figli minori: essi possono anche avere un interesse personale nella cura dei beni (in relazione ai possibili benefici che può trarne la famiglia: si pensi alle rendite derivanti da terreni), ma il parametro di riferimento costante è pur sempre rappresentato dall’interesse dei figli che, un domani, si troveranno a gestire personalmente quei beni. Ma si consideri, altresì, la situazione giuridica del rappresentante: costui deve agire nell’interesse del rappresentato, senza che ciò escluda la possibile sussistenza di un suo interesse personale che, però, non potrà mai assumere un ruolo dominante. Paradigmatica è, in tal senso, la disciplina dettata dall’art. 1395 con riguardo al contratto che il rappresentante stipula con se stesso. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui Tizio abbia conferito a Caio il potere di vendere una sua casa e Tizio provvede ad acquistarla personalmente. In un caso del genere, la legge presume che il rappresentante subordini l’interesse del rappresentato a quello suo personale (ad esempio, nella fissazione del prezzo) e attribuisce, pertanto, a quest’ultimo il potere di ottenere dal giudice l’annullamento del contratto. Tuttavia, essa consente di mantenere in vita l’atto quando il rappresentato sia stato espressamente autorizzato a stipulare con se stesso o quando il contenuto dell’atto sia stato determinato in modo tale da escludere ogni possibilità di conflitto di interessi. Nel caso, ad esempio, in cui Tizio conferisca a Caio il potere di vendere

26 Sul punto cfr. tra gli altri VIRGA, Diritto amministrativo, II, Milano, 1987, 6 ss.

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una casa al prezzo di 100 e la stessa viene acquistata direttamente da Caio al prezzo di 100 è da escludere ogni possibilità di pregiudizio per il rappresentato, dal momento che la stipulazione è avvenuta secondo le condizioni prefissate. Tale ultima evenienza dimostra come il legislatore non esclude che l’interesse del titolare della potestà possa convivere con l’interesse altrui, a condizione, però, che esso non assuma carattere di prevalenza a scapito dell’altro.

I poteri che competono al titolare della potestà possono derivare dalla legge (si pensi, ad esempio, ai poteri attribuiti ai genitori in vista della tutela degli interessi patrimoniali dei figli minori), ma anche da una decisione dello stesso titolare dell’interesse protetto, come accade nel caso della rappresentanza, dove un soggetto (rappresentato) attribuisce ad un altro soggetto (rappresentante) il potere di curare i propri interessi in un caso specifico. Come già si è avuto modo di dire la posizione giuridica del titolare dell’interesse protetto assume le connotazioni dell’interesse legittimo.

Per concludere, la potestà è definibile come il potere attribuito ad un soggetto di realizzare direttamente un interesse altrui.

11. L’aspettativa.

Nel linguaggio comune il termine «aspettativa» sta ad indicare la situazione psicologica di chi attende il verificarsi di un evento favorevole che, alla stregua delle circostanze fino allora maturate, può ritenersi abbastanza probabile27. Nell’ambito del diritto, l’aspettativa si ricollega alla figura della c.d. fattispecie a formazione progressiva. Premesso che il concetto di fattispecie si sostanzia nell’astratta previsione da parte della legge degli elementi al cui concreto verificarsi la stessa norma ricollega il prodursi di un certo effetto giuridico (ad esempio, la fattispecie dell’art. 2043 si sostanzia nella previsione di taluni accadimenti al verificarsi dei quali la norma ricollega la nascita dell’obbligo di risarcire il danno prodotto), accade, talvolta, che la fattispecie consta di fatti i quali vengono ad esistenza entro uno spazio temporale più o meno lungo: allora, solo al verificarsi del fatto finale sorge il diritto soggettivo. Concentrando l’attenzione al momento in cui taluni accadimenti previsti dalla norma si sono verificati, ma altri debbono ancora venire ad esistenza, si prospetta la sussistenza di un interesse di un soggetto ad evitare che terzi possano impedire il verificarsi degli ulteriori elementi perfezionativi della fattispecie ovvero che, nel tempo in cui la fattispecie è ancora in

27 SCOGNAMIGLIO, Aspettativa, in Enc. dir., III, Milano, 1958, 226.

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formazione, possano pregiudicarsi le ragioni del soggetto volte a conseguire il bene, una volta perfezionatasi al fattispecie. Questo interesse è preso in considerazione dall’ordinamento, il quale attribuisce al soggetto stesso una serie di strumenti giuridici idonei, appunto, ad impedire che venga frustrata la sua situazione di attesa: in questa attribuzione di mezzi protettivi si risolve la figura dell’aspettativa, espressione con la quale si intende sottolineare proprio la situazione di attesa nella quale viene a trovarsi un certo soggetto in vista della nascita di un diritto soggettivo.

La tutela dell’interesse iniziale si presenta, dunque, di carattere provvisorio e strumentale, in quanto finalizzata solo ad assicurare la permanenza delle condizioni da cui dipende la nascita del diritto e destinata, come tale, ad esaurirsi nel momento in cui sarà completata la situazione di fatto che darà luogo alla nascita del diritto soggettivo28.

Il carattere della provvisorietà e della strumentalità emergono, tra l’altro, dalla natura stessa dei poteri attribuiti al soggetto i quali hanno natura meramente conservativa o cautelare della situazione in atto. Si consideri, ad esempio, la tutela riconosciuta dalla legge a favore del nascituro. Posto che l’esistenza del soggetto è elemento essenziale alla nascita del diritto soggettivo, può verificarsi l’ipotesi che il soggetto non ancora esista, ma si può, con una certa fondatezza, prevedere che verrà ad esistenza (ad es. nascituro già concepito). In tal caso, gli interessi che a lui potrebbero far capo non possono essere considerati come aventi una esistenza attuale, ma vengono ugualmente tutelati dal legislatore (in vista della futura nascita) mediante la previsione di una serie di strumenti diretti a conservare al nascituro la possibilità di acquistare il diritto.

Si consideri, altresì, l’ipotesi dei c.d. diritti condizionati Due soggetti, nel dare vita ad un rapporto di debito-credito, subordinano la nascita dello stesso al verificarsi di un evento futuro ed incerto. È evidente che, fino a quando l’evento non si sarà verificato, non può dirsi attuale il diritto del creditore ad ottenere la prestazione dal debitore. Si avrà, in questo caso, una mera situazione di pendenza alla quale corrisponde l’interesse di una delle parti ad evitare che terzi possano impedire il normale corso degli eventi e così frustrare l’attesa del conseguimento del futuro vantaggio. Ancora un volta, il legislatore interviene con una serie di strumenti giuridici di natura conservativa e cautelare (previsti dagli artt. 1356-1359 c.c.) finalizzati, per l’appunto, ad evitare che possa essere pregiudicata la situazione di fatto da cui dipende la successiva nascita del diritto.

28 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 45.

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Con riferimento a tali ipotesi si parla di aspettativa di diritto (o legittima) per distinguerla dalla aspettativa di fatto dove la differenziazione tra le due figure risiede, ancora una volta, nella valutazione operata dall’ordinamento dell’interesse del soggetto al conseguimento di futuri vantaggi. Invero, non sempre la legge tutela l’interesse del soggetto che si pone in una situazione di attesa, ritenendo quell’interesse non meritevole di protezione anticipata. Si consideri, ad esempio, l’interesse che i figli hanno nei confronti della eventuale eredità dei propri genitori. Costoro acquisteranno il diritto alla eredità solo nel momento in cui si aprirà la successione (che coincide temporalmente con la morte dei genitori). Prima di questo momento, benché sussista un interesse al conseguimento della eredità, l’ordinamento non interviene per proteggere questa situazione di aspettativa, la quale, pertanto, si risolve in una aspirazione di fatto, non giuridicamente tutelata.

Ora, se analizziamo più da vicino il fenomeno dell’aspettativa (con riferimento, in particolare, al negozio sottoposto a condizione sospensiva), possiamo comprendere la nota distinzione prospettata dalla dottrina29 tra effetti preliminari (o negoziali) ed effetti finali del negozio. La stipulazione di un contratto condizionato produce, di per se, una serie di effetti, corrispondenti all’esigenza di garantire e preparare l’avverarsi della situazione finale. Questi effetti, detti per l’appunto preliminari, si sostanziano nella irrevocabilità del consenso prestato al momento della conclusione, nell’obbligo di comportarsi secondo buona fede, nel potere di compiere atti conservativi, ecc. Gli effetti preliminari, in sostanza, si riconducono, in parte, a quei poteri che costituiscono la struttura stessa dell’aspettativa e si distinguono dagli effetti c.d. finali che si identificano con gli effetti che il negozio - una volta avveratasi la condizione - sarà in grado di produrre e che rappresentano il vero punto di mira delle parti e la stessa giustificazione giuridica dell’operazione economica. Vi è per altro da chiedersi se la presenza degli effetti preliminari possa costituire la base per la costruzione di un vero e proprio diritto di aspettativa, intesa come autonoma situazione giuridica. La questione è controversa. Una parte della dottrina30, infatti, fa notare che l’impegno derivante dalla stipulazione di un negozio non può essere considerato un effetto di carattere preliminare, ma un effetto finale: se Tizio e Caio stipulano, ad esempio, un contratto di lavoro subordinato, essi mirano proprio a costituire tra loro un vincolo, la cui nascita, pertanto, deve considerarsi effetto finale e non meramente preliminare.

A sostegno, poi, della sussistenza di un autonomo diritto di aspettativa, si invoca la norma dell’art. 1357 che consente di disporre il diritto derivante da un negozio sottoposto a condizione sospensiva o

29 SCOGNAMIGLIO, Aspettativa, cit., 230.30 SCOGNAMIGLIO, o.l.u.c.

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risolutiva, prima che questa si avveri: dal momento che, prima del verificarsi della condizione (soprattutto, quella sospensiva), non può dirsi ancora nato il diritto derivante dal negozio concluso, il soggetto, in realtà, disporrebbe solo di un diritto di aspettativa. In contrario, però, si fa notare che la norma prevede solo la possibilità di disposizione di un diritto futuro (che sortirà a seguito del verificarsi dell’evento condizionante) e non già un equivoco diritto di aspettativa.

12. Il possesso.

La nascita di una situazione giuridica soggettiva può trarre origine anche dal fatto materiale per cui un certo bene si trova nella disponibilità di un soggetto che ha interesse a conservarlo e a difenderlo contro le aggressioni altrui. La situazione per cui un soggetto esercita il potere di fatto su di una cosa prende il nome di possesso. Possessore può essere il proprietario (si pensi, ad esempio, al proprietario della casa in cui abita), ma può essere anche un soggetto diverso dal proprietario che, per i motivi più diversi, si trova ad esercitare, di fatto, il potere su di una cosa di proprietà di altri. Si pensi, ad esempio, al ladro: costui, pur non essendo proprietario, di fatto ha un potere di godimento e disposizione della cosa furtiva.

Nel possesso, dunque, sono ravvisabili due elementi: a) un elemento oggettivo (c.d. corpus), consistente nel potere di fatto su di una cosa; b) un elemento soggettivo (c.d. animus possidendi), rappresentato dall’intenzione del soggetto tenere la cosa come propria, senza riconoscere un altrui diritto sulla stessa (si pensi, ad esempio, al ladro). Diversa è, invece, la detenzione che consiste - al pari del possesso - in un potere di fatto sulla cosa, cui, però, non si accompagna l’animus possidendi, poiché il detentore riconosce che un altro soggetto è titolare di un diritto sulla stessa e, conseguentemente, non si comporta come se la cosa fosse propria. Si pensi, ad esempio, alla situazione di colui che abita un in una casa altrui in base ad un contratto di locazione: egli, pur avendo una relazione diretta con il bene, non si comporta verso di esso come se fosse proprietario, dal momento che, ad esempio, pagando il canone di locazione, dimostra di voler rispettare la posizione del concedente e di non far propria la cosa.

La legge tutela l’interesse del possessore a godere della cosa, attribuendogli delle azioni giudiziarie con cui egli può ottenere la restituzione della cosa che gli sia stata sottratta (c.d. azione di reintegrazione) o può far cessare atti di molestia che disturbano quel

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godimento (c.d. azione di manutenzione). Le ragioni per le quali l’ordinamento tutela il possesso sono diverse. Anzitutto, occorre tutelare il possessore contro appropriazioni violente da parte di colui che pretende di avere un diritto sulla cosa: la pacifica convivenza sarebbe compromessa se, ad esempio, il proprietario potesse sottrarre con la forza il bene al ladro, dovendo egli, invece, rivolgersi al giudice per ottenere la restituzione. Ma vi è di più. Come si è detto, il possesso è una relazione di fatto che, in quanto tale, è accertabile concretamente in maniera molto più facile e rapida rispetto al diritto di proprietà. Dal momento che, di regola, il proprietario è anche possessore, si comprende facilmente come, mediante la tutela possessoria, si ottiene, spesso, una tutela rapida, in definitiva, dello stesso diritto di proprietà.

Come si vede, allora, il possesso costituisce un’autonoma situazione giuridica soggettiva, essendo ravvisabile in esso sia l’interesse al bene e sia la presenza di strumenti finalizzati alla realizzazione di quell’interesse. È solo da notare che la tutela riconosciuta al possessore viene in rilievo nel momento in cui taluno interferisce nel godimento del bene: nessuno strumento è previsto per il tempo anteriore.

Il contenuto della tutela presenta, poi, un duplice carattere: a) essa è incondizionata, cioè è ammessa verso ogni atto di privazione o di molestia nel possesso; b) ed è provvisoria, in quanto alla fine è destinata a cedere di fronte alla pretesa del titolare del diritto (cioè del proprietario) che intende riappropriarsi (nei modi di legge) del bene stesso.

13. Gli status.

Vi è una particolare situazione giuridica soggettiva nella quale manca assolutamente ogni riferimento oggettivo, nel senso che essa non esprime una certa posizione del soggetto di fronte ad un bene, ma una posizione del soggetto nei confronti di altri soggetti, non considerati, però, come singoli individui, bensì come collettività più o meno organizzata31. Tale situazione giuridica soggettiva prende il nome di status, espressione con la quale si indica la posizione che un soggetto assume nei confronti di altri soggetti, nell’ambito di una collettività organizzata. Si pensi, ad esempio, allo status di cittadino o allo status di coniuge o di figlio che indicano la posizione che un

31 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 65.

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individuo assume, rispettivamente, verso lo la comunità statale o verso la famiglia.

Lo status è una situazione giuridica soggettiva autonoma, tutelata in quanto tale. Essa, però, è anche fonte di altre situazione giuridiche soggettive attive e passive. Per esemplificare, la legge tutela lo status di cittadino, cioè attribuisce al soggetto una serie di strumenti per ottenere l’acquisto e il riconoscimento di quella certa posizione verso lo Stato. Ma la stessa legge, ricollega alla titolarità di quello status una serie di diritti (ad es. diritto di votare) e di obblighi (ad es. prestare il servizio militare).

Naturalmente, non basta individuare una collettività perché la posizione di un singolo membro di questa abbia il carattere dello status. Occorre che l’ordinamento giuridico prenda in considerazione questa posizione del soggetto e ne faccia oggetto di autonoma protezione.

Gli esempi tradizionali di status sono derivati dal diritto romano: si pensi allo status civitatis e allo status familiae che, rispettivamente, rappresentano la posizione che l’individuo assume nell’ambito della comunità sociale organizzata nello Stato e nell’ambito della famiglia.

Lo status civitatis si acquista nel momento in cui si instaura (nei modi di legge) il rapporto di cittadinanza ed è fonte di una serie di effetti giuridici (diritti, obblighi, ecc.) che attengono principalmente al diritto pubblico. Lo status familiae, invece, attiene, senz’altro, al diritto privato, malgrado la rilevante importanza sociale dell’istituto della famiglia. E nell’ambito della famiglia possono individuarsi due ipotesi: lo status di coniuge e lo status di figlio. Questi status non si acquistano automaticamente, ma attraverso determinati procedimenti di carattere pubblico (atto di nascita, atto di matrimonio, ecc.), anche se è opportuno ricordare che, qualora esistano le condizioni per l’acquisto dello status e questo non risulta, al soggetto è dato lo strumento per acquistarlo (si pensi all’azione di reclamo della legittimità o all’azione volta ad ottenere il riconoscimento giudiziale di paternità o maternità).

Nello status, dunque, si riscontra un elemento materiale, costituito dalla posizione del soggetto nell’ambito della collettività organizzata ed un elemento formale costituito dalla relativa tutela accordata dall’ordinamento giuridico.

Talvolta, però, benché assente una collettività organizzata (e, dunque, sia inconfigurabile l’elemento materiale) sussiste, nondimeno, l’elemento formale, costituito dalla autonoma tutela di una posizione soggettiva32. Si parla, in questi casi, di qualità giuridica,

32 NICOLÒ, o.c., 71; GAZZONI, Manuale, cit., 78.

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e un esempio è costituito dalla qualità di erede: costui, infatti, non si limita ad acquistare semplici diritti ed obblighi già facenti capo al de cuius, ma subentra nella complessiva situazione che prima faceva capo alla persona deceduta. Tanto vero che se il de cuius era possessore in buona fede, l’erede continuerà ad essere considerato tale, anche se in mala fede. Ma si pensi, ancora, all’azione di petizione ereditaria: quando l’erede intende ottenere da altri la restituzione di un bene ereditario, dovrà rivolgersi al giudice per ottenere, in prima battuta, proprio il riconoscimento della sua qualità di erede, sia pure come strumento per conseguire, in via mediata, la restituzione del bene.

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SEZIONE TERZA

Le situazioni giuridiche soggettive passive

14. Nozione.

Sono, come già visto, strumenti pure esse per la realizzazione di un interesse, generalmente altrui. Si traducono in uno svantaggio per il loro titolare che deve sacrificare un proprio interesse per la soddisfazione di un interesse altrui. Si sostanziano nella necessità che avvenga alcunché.

La necessità può essere assoluta, cioè avvenire ineluttabilmente e quasi meccanicamente. È il caso della soggezione situazione giuridica passiva in cui, date alcune premesse (l’esercizio di un diritto potestativo) ne consegue automaticamente un effetto giuridico sfavorevole in capo ad un altro soggetto.

Può però essere anche relativa quando si sostanzia in una necessità di un comportamento. Il soggetto tenuto ad esso è, infatti, sempre in una situazione di libertà morale (non giuridica): il debitore può anche decidere di non adempiere, sottoponendosi ovviamente alle conseguenze relative.

La necessità, in questo caso, si traduce non in un mero effetto giuridico, ma in un comportamento, e dunque in un’attività.

Nel primo caso, allora, avremo una modificazione soltanto ideale che avviene nel mondo giuridico, e che, sacrificando un interesse del titolare, soddisfa un interesse altrui, cioè del titolare del potere, senza bisogno di alcuna cooperazione; nel secondo caso avremo una modificazione materiale del mondo esterno, un’attività che diventa giuridicamente rilevante, che il titolare della situazione passiva deve tenere per soddisfare l’interesse altrui, o anche il proprio nel caso dell’onere.

La norma si risolve in un comando ipotetico33: verificatasi concretamente la situazione prevista in astratto, essa dispone che un certo soggetto debba tenere un determinato comportamento oppure dispone che a suo carico si producano date conseguenze, a prescindere da una sua condotta34. In entrambi i casi, il destinatario della norma viene a trovarsi in una situazione passiva, la quale, peraltro, potrà assumere diversi aspetti, a seconda che la norma

33 «La norma giuridica, al pari delle norme di altro tipo (religiose, etiche, grammaticali, ecc.), si presenta [...] come un giudizio ipotetico, che ricollega dati effetti all’accadere di un fatto. Lo schema logico, in cui si risolve ogni specie di norma, suona: se A, allora, B»: IRTI, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova, 1990, 8-9.

34 NICOLÒ, Istituzioni di diritto privato, cit., 3 ss.

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Dispense di diritto privato

imponga una determinata condotta oppure disponga, sic et simpliciter, produzione di certe conseguenze nella sfera giuridica del soggetto.

Nell’ipotesi in cui la legge comanda al soggetto di tenere un certo comportamento, la posizione nella quale viene costui viene a trovarsi è denominata dovere giuridico. Tale imposizione è analoga a quella conseguente ad una norma di carattere morale o religioso, con la sola differenza, però, che in caso di inosservanza del precetto, l’ordinamento predispone una serie di strumenti volti - nei limiti del possibile - ad assicurare la realizzazione effettiva del comportamento imposto. In tal senso, la differenza tra il dovere giuridico e il dovere morale (o religioso) si risolve nelle diverse conseguenze riconducibili alla sua inosservanza: il dovere giuridico è sorretto da un apparato coattivo che consente la sua osservanza anche contro la volontà del destinatario.

Laddove la norma non comanda un comportamento del soggetto che ne è destinatario, ma dispone immediatamente e direttamente che una certa conseguenza per lui sfavorevole si produca nella sua sfera giuridica, la situazione passiva del soggetto prende il nome di soggezione: in questo caso, all’individuo non si impone di tenere un certo comportamento, ma gli si impone di subire una conseguenza per lui sfavorevole, trovandosi così in una situazione di pati che presenta per il lui il carattere della inevitabilità.

Dovere e soggezione pongono, dunque, il soggetto in una condizione di svantaggio. Tale condizione, però, deve essere giustificata, altrimenti non si spiegherebbe la ragione per cui in capo ad un soggetto debbano prodursi conseguenze negative per la sua sfera giuridica. Orbene, la ratio delle situazioni giuridiche soggettive passive risiede nel fatto che esse si pongono come strumenti necessari per la realizzazione di un interesse facente capo ad un altro soggetto, interesse che l’ordinamento ritiene meritevole di protezione, attribuendo al titolare quell’insieme di strumenti nel quale si risolve la nozione di situazione giuridica soggettiva attiva. In altre parole, nel momento in cui l’ordinamento conferisce tutela ad un certo interesse, prevede la nascita in capo ad un diverso individuo di una situazione passiva, funzionalmente rivolta alla concreta realizzazione dell’altrui interesse. In tal senso, le situazioni passive assumono il carattere della strumentalità: esse non vivono di per sé, ma ricevono giustificazione sempre in rapporto ad un interesse alieno da realizzare.

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Le situazioni giuridiche soggettive

15. L’onere.

Caratteri peculiari - rispetto a tali considerazioni - presenta, invece, la figura dell’onere che viene ad esistenza nel momento in cui la norma impone ad un soggetto di tenere un certo comportamento per la realizzazione non già di un interesse altrui (altrimenti vi sarebbe dovere), ma interesse proprio, con la conseguenza che se la prevista condotta in concreto non è tenuta si produrranno ripercussioni negative nella sfera giuridica del medesimo soggetto. L’esempio tipico è il c.d. onere della prova che vige nel processo civile. L’art. 2697 c.c. impone, a chi vuol far valere un diritto in giudizio, di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento: la norma lascia libero il soggetto di comportarsi come meglio crede, ma la mancata prova di quei fatti si rifletterà sull’esito del giudizio, poiché, in mancanza di prova, il giudice rigetterà la domanda, considerando il diritto vantato come inesistente.

L’onere, dunque, impone sì al soggetto di tenere un certo comportamento (e in tal senso potrebbe presentarsi come situazione passiva), ma (a differenza del dovere) tale comportamento non è finalizzato alla realizzazione di un interesse altrui, bensì di un interesse proprio del titolare, il cui mancato assolvimento non prospetterà forme di responsabilità, ma solo la mancata realizzazione dell’interesse del soggetto interessato (e in tal senso potrebbe parlarsi di situazione attiva).

Da ultimo, conviene avvertire che non bisogna confondere questo onere - situazione giuridica passiva - con l’onere (o modo), elemento accidentale del negozio giuridico.

16. Il dovere giuridico.

a) Il dovere in senso stretto.Si è detto che il dovere giuridico nasce quando la norma impone ad

un soggetto di tenere un determinato comportamento. Ricordando quanto detto sopra in ordine alla correlazione tra situazione passiva e realizzazione di un interesse altrui, possiamo cominciare ad osservare che quando l’interesse alieno consiste nell’interesse a conservare un bene che già si possiede, il suo soddisfacimento avviene mediante l’imposizione in capo ad altri soggetti del divieto di interferenze nell’altrui godimento del bene. Si prospetta, dunque, l’imposizione di un comportamento negativo (astensione) che, peraltro, fa capo non già ad un singolo individuo, bensì a tutti gli appartenenti alla

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Dispense di diritto privato

comunità. Ecco che, allora, nell’ambito della generica figura del dovere giuridico, si individua una prima specie che, tecnicamente, assume la denominazione di dovere in senso stretto, i cui caratteri fondamentali sono:

1) la correlazione con un interesse a conservare; 2) il carattere negativo del suo contenuto; 3) il far capo ad una generalità di individui non determinabili a

priori.

b) L’obbligo.Laddove, invece, l’interesse tutelato dalla norma assume le

connotazioni dell’interesse a conseguire un bene che non si possiede, la sua realizzazione richiede la collaborazione del soggetto nel cui patrimonio si trova il bene desiderato, in quanto quella realizzazione comporta, in definitiva, un mutamento della sua sfera giuridico-patrimoniale. E così, ad esempio, l’interesse a conseguire una somma di denaro si realizzerà a seguito della consegna da parte del soggetto che si era impegnato in tal senso (c.d. debitore). Come si vede, allora, la realizzazione dell’interesse alieno avviene, in questo caso, mediante l’imposizione di un comportamento che avrà contenuto essenzialmente positivo e farà capo ad uno specifico soggetto. Si individua, così, nell’ambito della medesima categoria del dovere giuridico, una seconda tipologia che è denominata tecnicamente obbligo e che presenta caratteri diametralmente opposti a quelli del dovere giuridico in senso stretto e ciò in quanto:

a) si tratta di un dovere strettamente connesso ad un interesse a conseguire;

b) è un dovere a contenuto positivo, in quanto dovere di un determinato comportamento (che può essere a sua volta positivo o negativo), ma che comunque importa il sacrificio di un particolare interesse35;

c) si tratta di un dovere specifico, perché imposto ad uno o più soggetti determinati (o determinabili) a priori e non alla generalità. È evidente, poi, che nel momento in cui un simile dovere viene ad

35 Talvolta l’obbligo consiste in un non facere come, ad esempio, nel non edificare, ma anche in questi casi, sebbene consistente in un comportamento omissivo, l’obbligo ha pur sempre carattere positivo e ciò in quanto comunque viene operata una modificazione del patrimonio dell’obbligato a vantaggio del creditore, dal momento che il primo vede venire meno una facoltà (nell’esempio, quella di edificare) del suo patrimonio e il secondo si arricchisce di ulteriori utilità (nell’esempio, il godimento del panorama) Ben diverso è invece il caso del dovere di astensione: in tal caso non si sottrae alcuna utilità al patrimonio dei terzi «perché di certo non costituisce una facoltà riconosciuta e lecita quella ad esempio di disturbare il godimento del legittimo proprietario».

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Le situazioni giuridiche soggettive

esistenza, verrà ad instaurarsi tra il soggetto passivo e il titolare dell’interesse una relazione giuridica che tecnicamente prende il nome di rapporto giuridico.

17. La soggezione.

La seconda posizione nella quale può trovarsi il destinatario di una norma giuridica è quella che nasce quando la norma non comanda un comportamento del soggetto, ma dispone immediatamente e direttamente che una certa conseguenza per lui sfavorevole si produca nella sua sfera giuridica. Si è detto che questa situazione passiva assume il nome di soggezione. La figura si ricollega anch’essa ad un interesse a conseguire un bene che non si possiede, ma, questa volta, la realizzazione dell’interesse avviene mediante una modifica non già materiale, ma ideale (o, se vogliano, giuridica) della sfera del soggetto nel cui patrimonio il bene desiderato esiste. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui il proprietario di un fondo voglia acquistare la comproprietà di muro divisorio altrui: in questo caso, la realizzazione dell’interesse (che avviene mediante l’acquisto della comproprietà) importa una modifica della sfera giuridica dell’altro comproprietario che, però, è solo giuridica, dal momento che, sul piano materiale, nulla è mutato. Orbene, la condizione giuridica di colui che subisce la modifica ideale prende, appunto, il nome di soggezione, in quanto costui deve limitarsi a subire sic et simpliciter una conseguenza per lui sfavorevole prevista direttamente dalla legge. Si parla, al riguardo, di necessità assoluta, per sottolineare come al soggetto non si impone più di tenere un certo comportamento (come accadeva nel dovere giuridico), ma gli si impone solo di subire le conseguenze derivate dall’altrui agire.

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CAPITOLO TERZO

Il rapporto giuridico e il rapporto contrattuale

SOMMARIO: 1. Genesi storica del concetto. - 2. La teoria della relazione tra soggetto e cosa. - 3. La teoria della relazione tra soggetto e ordinamento giuridico. - 4. La teoria onnicomprensiva. - 5. La teoria classica: relazione tra soggetti. - 6. Inserzione dei concetti di «potere» e «dovere» nella teoria classica. - 7. La teoria prevalente: il rapporto giuridico come relazione tra situazioni giuridiche soggettive. - 7 bis. Vicende delle situazioni soggettive e del rapporto. - 8. Ipotesi di rapporti giuridici. - 9. Rapporto obbligatorio e rapporto contrattuale.

1. Genesi storica del concetto.

Il rapporto giuridico viene definito come relazione tra situazioni giuridiche soggettive. Per comprendere come la dottrina più recente sia giunta a questa definizione è necessario un breve excursus della storia di questo importantissimo concetto.

Esso è stato elaborato inizialmente dalla pandettistica tedesca, la quale lo ritenne la vera chiave di volta di tutta la dogmatica civilistica36. Se, infatti, i pandettisti posero al centro della loro analisi il concetto di negozio giuridico e quello di diritto soggettivo, non minore importanza ebbe la costruzione teorica della nozione di rapporto giuridico.

La storia di tale concetto seguì due trends. Da una parte, si cercò di estendere il concetto dal diritto privato ad altri rami del diritto, anche se con risultati non sempre convincenti; dall’altra, la stessa evoluzione civilistica seguì orientamenti alquanto contrastanti tra di loro.

Tralasciando per ovvi motivi il primo filone d’indagine, è opportuno approfondire il secondo.

Anche all’interno della stessa pandettistica il rapporto giuridico non ebbe lo stesso significato per tutti gli autori. Infatti, se nella prima elaborazione esso consisteva in una relazione tra più persone determinata da una regola di diritto37, invece per altri autori , tra cui

36 LAZZARO, Rapporto giuridico, in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1967, 788.37 SAVIGNY, Sistema del diritto romano attuale, trad. it. a cura di Scialoja, I, Torino,

1986, 337.

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Il rapporto giuridico e il rapporto contrattuale

principalmente il Dernburg, si sostanziava in una relazione giuridica efficace di una persona verso un’altra persona o verso un bene reale38.

Anche rispetto al significato da dare al concetto di relazione non mancavano le divergenze perché se per il Savigny essa era un fenomeno essenzialmente complesso, dal quale solo per astrazione potrebbero distinguersi le singole situazioni giuridiche soggettive, soprattutto diritti (ad es. dalla compravendita intesa come rapporto scaturirebbero vari diritti soggettivi, come il diritto del venditore ad ottenere il prezzo della cosa venduta), invece per altra dottrina la relazione intercorreva semplicemente tra due soggetti (ad es. una relazione tra singole posizioni correlative di debito e credito), così pure per il Bierling, per cui la relazione esisteva tra persona e persona e veniva più particolarmente definita come relazione tra diritto e dovere39.

Già dal suo sorgere, come si è visto, il concetto di rapporto giuridico fu tutt’altro che pacifico, anche se si capì subito che, al di là delle soluzioni prospettabili, esso consiste essenzialmente in una «relazione». Si può addirittura ritenere che l’evoluzione della nozione di rapporto giuridico sia stata tutta nel senso di qualificare e specificare il concetto di relazione che esso sottende.

2. La teoria della relazione tra soggetto e cosa.

Un primo tentativo «tecnico» di attribuzione di significato identificò il rapporto giuridico nella relazione tra un soggetto e una cosa o, analogamente, tra una persona e un bene della vita40.

Tale concezione, di chiaro stampo romanistico, non appare convincente per due ordini di ragioni. In primo luogo perché - come ha rilevato la migliore dottrina - è da evitare il parallelismo tra elementi tra loro eterogenei (tanto è vero che nel legame tra soggetto e cosa c’è una «subordinazione» e non «relazione»), ma soprattutto perché tale teoria non spiega i rapporti intercorrenti tra entità diverse dalle cose, in primis quelli obbligatori. Tale concezione appare ancor di più superata ove si consideri che negli ordinamenti moderni la maggior parte dei rapporti giuridici prescinde completamente da una relazione tra un soggetto e una cosa (oltre alla materia delle obbligazioni si pensi ad esempio al diritto di famiglia, al diritto del lavoro, ai diritti della personalità, etc.), a meno

38 LAZZARO, Rapporto giuridico, cit., 788.39 LAZZARO, o.l.c.40 PALAZZOLO, Rapporto giuridico, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 292 ss.

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Dispense di diritto privato

di ricondurre anche i rapporti intersubiettivi nel concetto di res, degradando la persona al ruolo di bene economico41.

3. La teoria della relazione tra soggetto e ordinamento giuridico.

La dottrina pura del diritto, che deriva da Hans Kelsen, ha impostato il problema in termini radicalmente diversi ed ha definito il rapporto giuridico come la relazione tra un dato soggetto e l’ordinamento giuridico, per il tramite di una norma42.

Così, si è detto che «tutte le volte che l’individuo, volontariamente o non, entrerà in una delle condizioni previste dall’ordinamento giuridico, esisterà un rapporto giuridico»43. Tale ordine di idee riecheggia anche nel pensiero di chi ritiene che «[...] il rapporto non è la mera relazione materiale o psicologica tra soggetti (un contatto, un conflitto, un affetto), ma a dir così, fa capo con la norma, questa essendo la fonte ideale di ogni rapporto giuridico dalla quale i comportamenti dei soggetti, attingendo la loro qualifica, desumono per ciò stesso la loro disciplina»44, mentre il fatto giuridico sarebbe solo la mera fonte empirica del rapporto, poiché gli elementi empirici, di fatto o materiali del rapporto sono ciò che la norma assume e qualifica nel rapporto giuridico.

Così tra un soggetto ed un altro intercorrerebbe una relazione meramente fattuale che assumerebbe giuridicità solo in virtù di una norma che la considera rilevante e la qualifica giuridicamente. Perciò, anche in un rapporto giuridico tra persone non vi sarebbe una relazione diretta ed immediata tra di esse, ma la relazione avverrebbe sempre per il tramite della norma.

La teoria dell’àgere lìcere è pervenuta ad una ricostruzione quasi geometrica: dal vertice N, costituito dalla norma, discendono i termini interindividuali A e B che, sotto il profilo del rapporto giuridico, si ignorano. Si viene a configurare un angolo in cui A e B sono punti che si trovano sulle semirette partenti dal vertice N45.

41 PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1988, 520.42 BARBERO, Il sistema del diritto privato, Torino, 1993, 57.43 CICALA, Il rapporto giuridico, Firenze, 1935, 15. L’influenza kelseniana è

determinante nella trasposizione italiana della dottrina pura del diritto.44 LEVI, Teoria generale del diritto, Padova, 1950, 8. Per tale a., la relazionalità

sarebbe l’essenza stessa del diritto: il diritto non è, come in Kelsen, norma (relazionale), ma è rapporto intersoggettivo. Perciò il pensiero del Levi viene indicato: teoria del diritto come relazione.

45 PALAZZOLO, Rapporto giuridico, cit., 295.

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Il rapporto giuridico e il rapporto contrattuale

Il punto debole di tale prospettiva teorica si coglie nello scarso rilievo della realtà sociale che sarebbe niente altro che un mero strumento di applicazione della norma: il che appare decisamente opinabile.

4. La teoria onnicomprensiva.

Maggiore fortuna ebbe una concezione più ampia del rapporto giuridico, onnicomprensiva di tutte le relazioni desumibili dall’ordinamento giuridico che si potrebbero porre non soltanto tra le persone, ma anche tra le persone e le cose o addirittura tra cose e cose.

Si avrebbe, per esempio, un rapporto giuridico tra cose nel rapporto di pertinenza, che, pur attenendo al regime della circolazione dei beni tra soggetti, potrebbe essere intesa come una relazione oggettiva tra cose.

Vi sarebbe un rapporto giuridico tra persona e cosa nei diritti reali. È evidente l’influenza del diritto romano, partendo dall’idea che anche l’actio in rem presupporrebbe un rapporto intersoggettivo46. È opinione diffusa che nell’antico processo romano delle legis actiones, l’azione reale avesse per oggetto essenzialmente la cosa (non il diritto), dirigendosi verso di essa. Il convenuto (soggetto passivo) era un elemento meno importante, potendo essere chiunque si intromettesse tra il titolare del diritto reale e la cosa. Significativo al riguardo era lo svolgimento del processo: se oggetto di controversia era una cosa mobile, essa veniva fatta portare in tribunale - se non fosse stata trasportabile, se ne prendeva una parte simbolica - e le parti, toccandola con un bastoncino, ne affermavano entrambe la proprietà.

Tutte queste possibili relazioni non ci aiutano a cogliere appieno il concetto di rapporto giuridico, risolvendosi esso sostanzialmente in una categoria inutile: se infatti vi fosse un rapporto giuridico tutte le volte che l’ordinamento individua una correlazione tra due elementi, tale nozione sarebbe meramente descrittiva, non specificando il tipo di relazione intercorrente magari tra elementi sostanzialmente eterogenei o comunque atecnici.

5. La teoria classica: relazione tra soggetti.

46 MAIORCA, Vicende giuridiche, in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1975, 697.

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Dispense di diritto privato

Per larga parte della dottrina il rapporto giuridico consiste tradizionalmente in una relazione tra soggetti, escludendosi perciò la relazione tra soggetti e cose e quella intercorrente tra cose.

Il rapporto giuridico sarebbe quindi una relazione tra soggetti regolata da norme giuridiche, cioè dall’ordinamento giuridico47.

Tale impostazione risolve molti dei problemi posti dalle ricostruzioni precedenti perché, se da un lato stabilisce una relazione tra termini omogenei (soggetto e soggetto), da un altro ha il pregio di considerare giuridicamente rilevante i collegamenti o i conflitti di interessi esistenti nella realtà sociale senza degradarli a mero presupposto fattuale di applicazione della norma.

Tale nozione, però, è sembrata troppo semplicistica o comunque riduttiva, perché non è atta a spiegare alcune ipotesi in cui esiste una relazione giuridicamente rilevante tra centri di interesse anche se, sia pure eccezionalmente, non esistono due soggetti ma, nonostante ciò, il rapporto giuridico si costituisce e rimane in vita anche con un solo soggetto: si pensi in ambito successorio all’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, artt. 484 e 490 c.c; alla separazione del patrimonio del defunto da quello dell’erede, ad istanza dei creditori, artt. 512 e ss. c.c.; al prelegato, art. 661 c.c; in materia di obbligazioni alla promessa al pubblico, art. 1989 c.c.; in materia cambiaria, art 15, comma 3, R.D. 4 dicembre 1933, n. 1669, nel caso in cui il titolo ritorna all’emittente; in ambito societario alle ipotesi di cui all’art. 2272, n. 4 c.c.48 (la s.p.a. con un unico azionista) e all’art. 2475 bis (la c.d. «s.r.l. unipersonale»). Basta questo per evidenziare che la dualità dei soggetti non è essenziale nel concetto di rapporto giuridico, perché in queste ipotesi c’è un solo soggetto che risulta titolare delle situazioni soggettive collegate o contrapposte. Qualcuno, per spiegare il fenomeno, ha parlato di rapporto unisoggettivo, in cui c’è un solo soggetto; ma questo sembra un espediente valido solo sotto l’aspetto empirico, senza che si risolva il vero problema concettuale, che rimane il seguente: se il rapporto è una relazione tra due termini, ed i termini sono le persone, per continuarsi a parlare di relazione occorrono sempre due persone. Parlare di rapporto unisoggettivo equivarrebbe a parlare di rapporto con se stesso. Il che è assurdo, essendo contraddittorio il concetto di relazione e di diritto (che è intersoggettivo) con quello di una persona unica.

47 ALLARA, Le nozioni fondamentali del diritto civile, I, Torino, 1958, 244 ss.; TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, 36a ed., 1995, 50 ss.; TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato, Milano, IX a ed., 1991, 23 ss.

48 PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., 522 e STANZIONE, Rapporto giuridico (diritto civile), in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1991, 5.

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Il rapporto giuridico e il rapporto contrattuale

Analoghi problemi pongono poi tutta una serie di ipotesi in cui il soggetto non è ancora venuto ad esistenza, (ad es., donazione al nascituro o al non concepito, ecc.) oppure è venuto meno ( ad es., eredità giacente).

Soprattutto, grossi problemi pongono anche le ipotesi in cui uno dei soggetti sia indeterminato: così, in materia di diritti reali non è determinabile a priori il soggetto passivo del rapporto, potendo essere tale chiunque determini una illecita lesione o ingerenza nel diritto reale: si sarebbe perciò costretti ad indicare quale soggetto passivo la collettività, mentre una individuazione vera e propria - secondo una certa tendenza dottrinaria - si determinerebbe solo in virtù della nascita dell’obbligo risarcitorio49.

A ben vedere, se si parte da questa impostazione, è la stessa materia dei diritti assoluti a risultare di difficile inquadramento nel concetto di rapporto giuridico.

Il dovere generale e generico di non recare danno ad altri (neminem laedere) è imposto dall’ordinamento a tutti i consociati perciò, fino al momento in cui qualcuno non commette un fatto illecito, il soggetto passivo del rapporto rimarrebbe sostanzialmente indeterminato. Ma in quel momento, sorgerebbe sì un rapporto determinato, che però sarebbe completamente nuovo rispetto al precedente. Si tratterebbe, infatti, di un rapporto obbligatorio che consegue ad una posizione di debito di risarcimento, dovuto per violazione del diritto assoluto.

6. Inserzione dei concetti di «potere» e «dovere» nella teoria classica.

Di fronte a questa serie di problemi, nel solco dell’impostazione tracciata dalla dottrina tradizionale, si è avanzata l’idea che, anche se il rapporto intercorre tra soggetti, è necessario però commisurare le loro posizioni di potere e di dovere, stabilite dall’ordinamento a tutela di un interesse50. Il rapporto giuridico viene configurato come una relazione fra due soggetti dell’ordinamento giuridico, uno dei quali è investito di potere sull’altro o contro l’altro. In altri termini, per effetto del rapporto giuridico e dell’attribuzione di un potere che l’ordinamento conferisce al soggetto attivo del rapporto, l’interesse del soggetto passivo viene subordinato all’altrui interesse. La posizione attiva del rapporto giuridico viene designata genericamente col termine di potere, quella passiva col termine correlativo di dovere,

49 PALAZZOLO, Rapporto giuridico, cit., 304 ss.50 F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1986, 69 ss.

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Dispense di diritto privato

meglio di necessità (qui per dovere si intende in genere una posizione passiva, non il mero dovere generico di astensione che ricorrerebbe nei diritti reali; e potere non vuol dire potestà ma posizione attiva).

Questa ricostruzione indubbiamente ha il pregio di inserire nel dibattito dottrinale il tema fondamentale degli interessi, che costituisce un momento centrale dell’esperienza giuridica moderna. Questa tesi, però, riconducendo il rapporto giuridico essenzialmente ad una relazione tra potere e necessità, non dà il giusto risalto alle molteplici tipologie delle situazioni giuridiche soggettive. Anche se si può condividere l’assunto per cui nel rapporto giuridico vi è una interconnessione tra una posizione attiva ed una passiva, questa formula appare alquanto generica perché rimane pur sempre insoluto il problema della loro natura, cioè di quali situazioni giuridiche soggettive si tratti. Inoltre, rapporti giuridici, come vedremo oltre, possono configurarsi anche fra poteri fra loro, e non esclusivamente fra potere e necessità.

7. La teoria prevalente: il rapporto giuridico come relazione tra situazioni giuridiche soggettive.

Un grande passo in avanti è stato fatto nel momento in cui si è detto che il rapporto giuridico è la relazione tra le situazioni giuridiche soggettive che lo compongono.

Se si accetta questa visione, il termine rapporto giuridico deve, rigorosamente, indicare soltanto il legame tra specifiche situazioni giuridiche soggettive51.

Il soggetto non è il termine del rapporto giuridico, ma un elemento esterno ad esso. Il soggetto ha un ruolo diverso: egli è il titolare della situazione giuridica soggettiva. Il soggetto, perciò, in quanto titolare, è un elemento esterno e distinto sia dal rapporto giuridico che dalla situazione giuridica soggettiva.

Ciò che è sempre presente nel rapporto giuridico è, invece, la relazione tra un interesse e un altro, o meglio tra situazioni giuridiche soggettive.

Tale ricostruzione si giova dei risultati raggiunti nell’elaborazione e nel perfezionamento dogmatico in materia di situazioni giuridiche soggettive: l’assunto è che nel nostro sistema ogni situazione giuridica soggettiva, per assolvere la propria funzione e per essere perciò meritevole di tutela, non sia considerabile isolatamente ma si ricolleghi sempre ad altri centri di interesse. Le situazioni giuridiche

51 PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., 281 ss. e STANZIONE, Rapporto giuridico, cit., 4 ss.

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Il rapporto giuridico e il rapporto contrattuale

soggettive non sarebbero, per dirla con Leibniz, «monadi senza porte e senza finestre», ma presuppongono necessariamente la loro interrelazione reciproca.

La dottrina ha poi evidenziato che la relazione tra situazioni giuridiche soggettive non è sempre di mera contrapposizione52, ma può essere anche di collegamento, di cooperazione, secondo il concreto assetto di interessi che la legge o l’iniziativa dei privati ha inteso disciplinare.

Tale ricostruzione consente di spiegare anche le ipotesi sopra menzionate in cui il rapporto giuridico si costituisce e rimane in vita anche con un solo soggetto: in tali casi è ininfluente il fatto che due o più situazioni giuridiche soggettive siano imputabili ad un medesimo soggetto, perché il rapporto giuridico tra di esse non si estingue ma rimane in vita continuando a produrre i suoi effetti.

Rapporto giuridico e situazioni giuridiche soggettive sono nozioni indissolubilmente legate: l’uno non può esistere senza le altre di cui costituisce la correlazione; le situazioni giuridiche soggettive, invece, anche se in genere sono concepite all’interno di un rapporto giuridico nel quale trovano la loro funzione di relazionalità, possono anche prescinderne, come nel caso dei diritti assoluti, ove a fronte di situazioni giuridiche soggettive attive non si rinvengono situazioni giuridiche soggettive passive specifiche.

Se il rapporto giuridico è una relazione tra situazioni giuridiche soggettive, contrapposte o correlate, il soggetto allora può anche mancare, come fra l’altro può anche succedere per la stessa situazione giuridica soggettiva: pertanto, sarebbe più corretto parlare di centro di interesse che non di soggetto.

Nel diritto positivo, infatti, vi sono delle fattispecie in cui alcune situazioni giuridiche soggettive - e conseguentemente alcuni rapporti giuridici - sono temporaneamente prive di soggetti o perché questi ancora non sono venuti ad esistenza o perché non sono determinati oppure perché, anche se esistenti in un primo momento, successivamente sono venuti a mancare: si pensi, ad esempio, alle ipotesi denominate dalla dottrina «patrimoni autonomi o separati»53

(in tema di nascituri, concepiti e non, art. 462 c.c.; rispetto all’eredità giacente, artt. 528 e ss. c.c.; con riferimento alle disposizioni in favore di enti non riconosciuti, art 600 c.c.; relativamente alle donazioni a favore di nascituri ed enti non riconosciuti, artt. 784 e 786 c.c.) «per indicare il distacco di una massa patrimoniale (complesso di rapporti attivi e passivi, secondo un’opinione, ovvero soltanto beni, secondo

52 PERLINGIERI, o.u.l.c.; STANZIONE, o.l.u.c.53 BIGLIAZZI GERI, Patrimonio autonomo e separato, in Enc. dir., XXXII, Milano,

1982, 280.

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Dispense di diritto privato

un’altra) da un patrimonio o da diversi patrimoni di «provenienza», in modo da dar luogo ad un’unità particolare avente una propria destinazione (da qui, la qualificazione in termini di patrimoni di destinazione) ed una sorte giuridica più o meno indipendente e strettamente connessa con tale destinazione»54. Si pensi anche al caso, già ricordato, di promessa al pubblico di cui all’art. 1989 c.c., in cui il destinatario è indeterminato (si tratta però di un istituto la cui natura giuridica è molto discussa).

Per evitare possibili equivoci è opportuno non confondere la nozione di titolarità, con quella di situazione giuridica soggettiva. Anche se, come si è detto, quest’ultima deve essere imputata ad un centro di interessi, la titolarità è un elemento diverso ed esterno, che va a sostanziarsi in un legame tra la situazione giuridica soggettiva ed il soggetto.

Perciò, se è vero che il soggetto è elemento essenziale della titolarità, non lo è invece della situazione giuridica soggettiva. Come infatti si è detto, vi sono delle ipotesi in cui, anche se la situazione giuridica soggettiva esiste, tuttavia provvisoriamente essa non appartiene ancora ad alcun soggetto, come per esempio avviene nel caso dei nascituri.

Anche questa teoria però riesce difficilmente a ricomprendere nel concetto di rapporto giuridico la materia dei diritti assoluti, a meno di non scindere la nozione di titolarità in attuale e potenziale (parlando di «appartenenza» quando il legame che unisce il soggetto alla situazione giuridica soggettiva è attuale e permanente, di «spettanza» qualora, pur esistendo un titolo valido all’acquisto della situazione giuridica soggettiva, ciò avverrà in un secondo momento). Se infatti il concetto di «spettanza» è idoneo a spiegare i casi in cui l’acquisto della situazione giuridica soggettiva è in «fieri», non altrettanto si può dire nel caso dei diritti assoluti, in cui, come si è detto, a fronte del dovere generico di astensione un rapporto giuridico però si concretizza solo con il sorgere dell’obbligo di risarcimento del danno55. Il c.d. dovere di astensione del singolo è solo un’astrazione teorica che sta indicare che il soggetto che va a ledere ingiustamente la sfera altrui è chiamato a risponderne; in altri termini occorre che il «fatto» sia «ingiusto» e per questo accertamento riferirsi ad un dovere generico di neminem laedere non è di alcuna utilità.

Il rapporto giuridico entra in crisi in materia di diritti assoluti, perché è difficilmente sostenibile che esista una relazione paritetica e

54 BIGLIAZZI GERI, o.c., 281.55 STANZIONE, Rapporto giuridico, cit., 8.

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parallela di diritti e doveri56 precedentemente alla nascita dell’obbligo risarcitorio.

Oggi il rapporto giuridico non sta più al centro del sistema poiché è venuta meno l’idea che ogni situazione giuridica soggettiva sia necessariamente correlativa ad un’altra. È indubbio che nel diritto possono esservi delle correlazioni tra situazioni giuridiche soggettive, però non è affatto scontato. Ciò è evidente proprio nei diritti reali, che sono situazioni giuridiche soggettive attive a cui non corrispondono specifiche situazioni giuridiche soggettive passive. Se, però anziché guardare al profilo esterno dei diritti reali, prestiamo attenzione a quello interno, notiamo che un rapporto giuridico vero e proprio può ben esistere ed è quello intercorrente tra diritto di proprietà e diritti reali parziari di godimento o di garanzia, ove, in presenza dei secondi, il primo si «comprimerà» in maniera speculare e proporzionale, facendo nascere diritti ed obblighi reciproci.

Per vedere se sia ipotizzabile un rapporto giuridico perciò, non basta che vi sia una situazione giuridica soggettiva, bisogna piuttosto vedere se la disciplina dettata dalla legge o il regolamento frutto dell’autonomia privata delle parti stabiliscano tale correlazione.

7 bis. Vicende delle situazioni soggettive e del rapporto.

La definizione di rapporto giuridico come relazione tra due (o più) situazioni giuridiche soggettive, e non tra due (o anche più) soggetti, oltre a spiegare in termini razionali i casi anzidetti di rapporti c.d. “unipersonali” o con destinatari incerti o ignoti, presenta l’ulteriore vantaggio di spiegare come talvolta, nei casi in cui ad un soggetto subentra un altro, il rapporto resti sempre il medesimo, e non si abbia l’estinzione del primo e la nascita di un secondo rapporto.

Questo perché nella “successione” nei diritti o nei doveri non c’è estinzione di una situazione giuridica e nascita di una nuova ma, quando la trasmissione è a titolo derivativo, c’è solo il cambiamento della titolarità da un soggetto ad un altro.

Naturalmente il discorso vale nell’ambito della trasmissione delle situazioni giuridiche a titolo c.d. “derivativo”. La situazione soggettiva passa da un titolare ad un altro conservandosi sempre la stessa, con le caratteristiche ed, anche, con gli eventuali vizi di prima.

A questa stregua si spiegano anche le due regolette che la tradizione ci ha tramandato: la prima, per cui “nemo plus juris transferre potest quam ipse habet” e cioè che nessuno può

56 MAIORCA, Vicende giuridiche, cit., 698.

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trasmettere un diritto, un potere migliore, o anche un dovere di quantità maggiore di quello di cui egli è titolare; la seconda, per cui “resoluto jure dantis resolvitur et jus accipiendi”, cioè che se viene meno il potere dell’alienante, viene meno anche quello trasferito all’acquirente.

8. Ipotesi di rapporti giuridici.

Il rapporto giuridico si caratterizza nella contrapposizione delle situazioni giuridiche soggettive nel caso del diritto soggettivo relativo, cui corrisponde perfettamente, come l’altra faccia della stessa medaglia, la posizione passiva di obbligo.

Analogo fenomeno si verifica nel diritto potestativo, cui corrisponde diametralmente la situazione giuridica soggettiva passiva di soggezione. In questa ipotesi il soggetto titolare della situazione giuridica passiva di soggezione si trova necessariamente esposto all’esercizio del diritto potestativo.

Poiché la situazione giuridica di soggezione può derivare anche dal verificarsi di un evento esterno prefigurato dalle parti, essa sussiste anche nei contratti sospensivamente condizionati e nei contratti aleatori. In questi casi, in attesa del verificarsi dell’evento esterno (verificarsi della condizione o dell’evento aleatorio) da cui dipende l’individuazione della prestazione o del soggetto favorito, ci si trova in una situazione interinale di pendenza, tutelata cautelativamente: da una parte vi sarà colui che attende l’evento che lo favorirà, e si troverà dunque in una situazione di aspettativa legittima; dall’altra vi sarà colui sul quale eventualmente cadrà la prestazione e che, non potendo né dovendo a questo fine compiere alcunché, si troverà in una situazione di mera soggezione: avremo allora una relazione, un rapporto giuridico, tra una situazione attiva di aspettativa ed una passiva di soggezione57.

Nei diritto soggettivo assoluto, come si è già avuto modo di dire, non c’è alcun rapporto giuridico con il c.d. «dovere generico» facente capo alla collettività. Un vero rapporto giuridico è presente solo limitatamente alla materia dei diritti reali, nella correlazione tra la proprietà e i diritti reali parziari di godimento o di garanzia.

Non si può parlare di contrapposizione, ma di correlazione in senso stretto nel rapporto giuridico intercorrente tra potestà ed interesse legittimo, poiché entrambe sono situazioni giuridiche soggettive attive.

57 DI GIANDOMENICO, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, 102 ss.

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DIRITTO RELATIVO OBBLIGODIRITTO POTESTATIVO SOGGEZIONEASPETTATIVA SOGGEZIONEPROPRIETÀ DIRITTI REALI PARZIARI

(di godimento o di garanzia)

POTESTÀ INTERESSE LEGITTIMO

9. Rapporto obbligatorio e rapporto contrattuale.

La definizione generale del concetto di rapporto giuridico a livello di teoria generale pone il problema della specificazione tra rapporto obbligatorio e rapporto contrattuale, la cui rilevanza è pacifica sia sotto il profilo positivo, sia sotto quello ricostruttivo.

Non bisogna infatti confondere due concetti diversi: l’obbligazione indica in generale il vincolo per cui una prestazione è dovuta da un soggetto ad un altro soggetto, mentre il rapporto contrattuale indica il complesso unitario delle relazioni fra le posizioni scaturenti dal contratto. Il complessivo rapporto contrattuale, allora può comprendere in sé anche una pluralità di rapporti obbligatori semplici. Esso nasce, in origine, dal contratto, che rientra nella categoria dei fatti giuridici (il rapporto, invece, rientra nella categoria non reale, ma ideale degli effetti).

Ovviamente, nel rapporto contrattuale possono confluire, oltre a rapporti obbligatori semplici, anche altri tipi di rapporti giuridici: potestà - interesse legittimo, diritto potestativo - soggezione, aspettativa - soggezione.

Ora, l’obbligazione contrattuale deriva, come detto, da un contratto; ciò su cui però bisogna soffermare l’attenzione è che questo, nella maggioranza dei casi, non solo genera una pluralità di rapporti obbligatori, ma ha anche una sua efficacia (per lo meno potenziale) che non è limitata al profilo obbligatorio (effetti reali, estintivi, diritto potestativo di recesso, ecc.).

Per il primo fenomeno, il riferimento alla categoria dei contratti a prestazioni corrispettive sembra illuminante. In questo caso non vi è un unico rapporto obbligatorio, ma ve ne è una pluralità, in cui il soggetto che è creditore in un’obbligazione, sarà a sua volta debitore in un’altra. Così nella locazione, ad esempio, il locatore, il quale vanta un diritto di credito verso il conduttore relativamente ai canoni di

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locazione, sarà a sua volta obbligato verso quest’ultimo del godimento della cosa.

Per il secondo, si può portare ad esempio la categoria dei contratti ad effetti reali. In tale ipotesi, a parte le controverse «vendite obbligatorie» - vendita di cosa altrui, di cosa generica, di cosa futura, ecc. (ma talvolta sarebbe forse più appropriato parlare di vendite con effetti reali differiti) - l’effetto principale non è la nascita dell’obbligazione: per il principio del consenso traslativo, la proprietà (o altro diritto) viene trasferita alla conclusione del contratto.

Avendo ben presente la nozione di diritto relativo e di obbligo, il concetto di rapporto obbligatorio è centrale nel sistema del Codice Civile, poiché il legislatore detta una disciplina generale, applicabile qualunque sia la fonte del vincolo.

Bisogna, però, stare attenti alle parole, perché il termine obbligazione assume due significati: da un lato, indica solo la posizione debitoria dell’obbligato (in questo senso, mentre «obbligo» sta a significare genericamente la situazione giuridica soggettiva passiva del rapporto, «obbligazione» indica una particolare categoria di obblighi, quelli a contenuto patrimoniale) ma, da un altro più generale, designa il rapporto che intercorre tra debitore e creditore58; in questo secondo significato il termine obbligazione è sinonimo di rapporto obbligatorio.

Anche se l’obbligazione è una figura unitaria, che ha una sua autonoma rilevanza indipendentemente dalla fonte da cui si origina, è anche vero che, però, essa non può essere vista avulsa da questa.

La fonte, infatti, è imprescindibile per determinare il contenuto e la disciplina dell’obbligazione che da essa deriva.

Il regime dell’obbligazione non si ricava solo dalla disciplina specifica dettata dal Codice Civile su di essa, ma deve essere integrata con quella sui contratti in generale e con quella del contratto tipico da cui deriva.

Infatti, le due discipline si integrano ed interagiscono. Occorre, allora, studiare l’atto (la fonte), per capire l’effetto (l’obbligazione). Il contratto è la figura posta al centro del sistema: esso è un’entità reale, del mondo empirico, qualificato dall’ordinamento (è un atto umano, per di più negoziale), l’obbligazione invece è solo un concetto, un rapporto giuridico, la cui fonte può essere anche non contrattuale (art. 1173 c.c.).

Anche se è vero che il contratto (o più in generale il negozio) non è l’unica fonte dell’obbligazione, è pur vero che quando ciò accade, essa costituisce il momento esecutivo del primo.

58 BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993, 2.

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In questo caso l’obbligazione rappresenta il rapporto attraverso cui si realizza il programma contrattuale e, conseguentemente, l’adempimento, realizzando a sua volta il rapporto obbligatorio, rappresenta il momento terminale del regolamento d’interessi prefissato dalle parti. Come l’adempimento di un’obbligazione contrattuale comporta l’esecuzione del contratto da cui scaturisce, di converso, l’inadempimento o l’inesatto adempimento della medesima determinano la mancata attuazione del programma contrattuale che l’obbligazione doveva realizzare, con conseguente responsabilità contrattuale della parte (debitore) colposamente inadempiente.

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CAPITOLO QUARTO

Soggettività, capacità, legittimazione

SOMMARIO: 1. Soggettività giuridica. - 2. Capacità giuridica. - 3. Capacità d’agire. - 4. Gli enti. - 5. Personalità giuridica. - 6. Incapacità giuridiche speciali. - 7. Legittimazione.

1. Soggettività giuridica.

Secondo l’insegnamento tradizionale, l’attitudine del soggetto-persona fisica ad essere titolare di diritti e di obblighi, e quindi - per ciò stesso - protagonista dell’ordinamento giuridico, si definisce «capacità giuridica» (art. 1 c.c.).

Per «capacità d’agire», invece, si intende la idoneità del soggetto a compiere validamente atti e negozi giuridici.

L’attitudine, viceversa, degli enti non persone fisiche ad essere soggetti di diritto si chiamava con il termine «personalità giuridica». L’ente è dotato di tale qualità in quanto riconosciuto «persona giuridica» dall’ordinamento. Gli enti non riconosciuti tali venivano designati come «enti di fatto», dotati non di personalità giuridica ma, si diceva, di una limitata «autonomia patrimoniale». Si discuteva, poi, se per tali enti, e soprattutto per le persone giuridiche, si potessero adoperare le stesse nozioni di capacità giuridica e di capacità di agire usati per le persone fisiche.

Tutti questi concetti sono stati rivisti negli ultimi decenni dalla dottrina e dalla giurisprudenza e - marginalmente - dallo stesso legislatore, sì che ora è possibile costruire in materia delle categorie giuridiche più rigorose. Si parla, innanzitutto, di soggettività giuridica, della qualità, cioè, di una entità (persona fisica, aggregato sociale, anche talvolta un insieme di beni) di essere soggetto di diritto, inteso sia come soggetto al diritto (oggettivo), e cioè soggetto dell’ordinamento, sia come soggetto di diritti (soggettivi) o meglio di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, e dunque parti di un rapporto giuridico.

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Soggettività, capacità, legittimazione

Per le persone fisiche, questa soggettività giuridica continua ad identificarsi - per la gran parte degli autori - nella capacità giuridica generale.

2. Capacità giuridica.

Acquistare la capacità giuridica significa divenire soggetti di diritto, cioè, in sostanza, destinatari delle norme elaborate dall'ordinamento in funzione essenzialmente protettiva1.

La storia ci mostra diversi casi in cui alcuni ordinamenti hanno provveduto a creare differenti categorie di soggetti collocati in una diversa posizione relativamente all'acquisto della capacità giuridica (liberi e schiavi - aristocratici e plebei - cittadini e stranieri). In verità, posticipare o escludere l'acquisto della capacità giuridica rispetto al momento della nascita significa non attribuire ad un determinato individuo quella protezione normativa che l'ordinamento prevede a favore di coloro che rivestono la posizione di soggetti di diritto.

La capacità giuridica, dunque, non può atteggiarsi come un’attribuzione effettuata da parte dell'ordinamento, ma è una qualità propria di ogni individuo che si acquista automaticamente al momento della nascita allo scopo di evitare che esistano degli intervalli, più o meno lunghi, nei quali l'individuo possa trovarsi privo di protezione da parte dell'ordinamento giuridico2.

La regola di cui all'art. 1 c.c. non può essere derogata neanche da parte della legge e, tanto meno, per motivazioni di ordine politico3.

Con l'acquisto della capacità giuridica, in definitiva, l'individuo può divenire titolare di situazioni giuridiche soggettive, sia attive che

1 In tal senso, cfr. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1993, 119.2 Nel nostro ordinamento la Costituzione repubblicana del 1948 contiene, tra le

altre, alcune norme di grande importanza ai fini delle garanzie offerte ai soggetti. Infatti l'art. 2 cost., affermando che la Repubblica riconosce e garantisce i diritto inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove egli svolge la sua personalità, fa senza dubbio intendere che tutta una categoria di diritti, i diritti

inviolabili appunto, non sono frutto di un'attribuzione da parte dell'ordinamento,

bensì sono da quest'ultimo riconosciuti come già esistenti. Va rilevato, inoltre, che se la capacità giuridica non può essere posticipata rispetto al momento della nascita la legge può, tuttavia, per alcuni limitati effetti, prendere in considerazione il concepito e, addirittura il nascituro non concepito, i quali possono succedere mortis causa e ricevere donazioni (cfr. artt. 462, 642, 784 c.c.). In questi casi però tali diritti sono sempre subordinati all'evento della nascita. Per quanto riguarda tali problematiche, v. GAZZONI, Manuale di diritto privato, cit., 121 ss.; TORRENTE e SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 1994, 69 ss.; TRABUCCHI, Istituzionii di diritto civile, Padova, 1994, 72 ss.

3 L'art. 22 cost. chiarisce, infatti, che nessuno può essere privato della capacità giuridica per motivi politici ed è importante anche perché accosta la capacità giuridica al nome ed alla cittadinanza, anche essi caratteri distintivi dell'individuo.

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Dispense di diritto privato

passive e, conseguentemente, dei relativi rapporti giuridici e può, altresì, godere della protezione giuridica che l'ordinamento stabilisce per tali posizioni.

Pertanto, la capacità giuridica viene definita come l’attitudine del soggetto al rapporto, o, meglio ancora, alla titolarità delle relative situazioni giuridiche soggettive.

Non si rinviene, infine, una norma che stabilisca il momento in cui termina la capacità giuridica di un soggetto. Tuttavia, così come questa si acquista automaticamente al momento della nascita, allo stesso modo essa deve intendersi terminata al momento della morte.

La capacità giuridica, come si è detto, si identifica - secondo la tradizione - con la soggettività giuridica.

Assumendo, viceversa, questo concetto come categoria autonoma ed unificante anche della rilevanza degli enti non persone fisiche, la capacità giuridica si trasforma in un concetto quantitativo ed articolato. Ogni persona, in altri termini, ha, in quanto tale, soggettività nell’ordinamento; tuttavia questa soggettività si trasforma in una serie più o meno estesa di idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, a seconda dei casi e delle situazioni.

Il principio è che la capacità giuridica riguarda tutte le situazioni e tutti i rapporti; per alcuni di essi, invece, la capacità viene esclusa. La regola, cioè, è la capacità: l’incapacità e l’eccezione. In questo senso si parla di incapacità giuridiche speciali, per designare la inidoneità del soggetto ad essere titolare di quelle date situazioni e, conseguentemente, di quel dato rapporto.

Normalmente anche per la c.d. capacità giuridica speciale vale la predetta regola della non limitabilità anche se, in alcuni casi, esistono delle restrizioni che trovano la propria ratio giustificativa in motivazioni legate alla realtà naturale, morale o sociale.

3. Capacità d’agire.

Si è detto, in linea di principio, che in seguito all'acquisto della capacità giuridica al momento della nascita l'individuo è idoneo ad essere titolare di diritti e di doveri. Tuttavia, per evidente esperienza, l'individuo non è immediatamente in grado di compiere, in assenza di una sufficiente maturità psico-fisica, atti giuridici idonei ad incidere sulla propria sfera, personale e patrimoniale.

Alla luce di questo dato, si rende necessario fissare un momento in cui è ritenuto normalmente sussistere in capo all'individuo un

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Soggettività, capacità, legittimazione

adeguato grado di maturità che gli consenta di esercitare consapevolmente i diritti di cui risulta titolare. Nel nostro ordinamento tale maturità è ritenuta sussistere al compimento della maggiore età ed è fissata al diciottesimo anno. È questo il momento in cui, secondo l'art. 2 c.c., si acquista la cd. capacità generale d'agire, cioè la capacità di compiere tutti quegli atti per i quali non sia dalla legge stabilita un'età diversa4.

La capacità d'agire, quindi, è la idoneità del soggetto a compiere atti e negozi giuridici. La mancanza o la limitazione della capacità d'agire non si ripercuote sulla capacità giuridica poiché il soggetto rimane pur sempre capace di essere titolare di rapporti giuridici. Quello che difetta all'incapace di agire è solamente l'idoneità a gestire con atti e negozi direttamente e autonomamente la propria sfera giuridica, personale o patrimoniale. Pertanto, al soggetto incapace d'agire, per la gestione dei predetti rapporti, occorre l'ausilio di un rappresentante legale o di un curatore che compia, in sua vece, atti e negozi.

Dunque, la carenza della capacità d'agire appare rimediabile tramite la rappresentanza legale o la curatela mentre, al contrario, alla mancanza della capacità giuridica non è possibile ovviare.

4. Gli enti.

La titolarità delle posizioni giuridiche può fissarsi, oltre che in capo alle persone fisiche, anche in capo ad entità metaindividuali (c.dd. enti) create da più individui allo scopo di perseguire specifiche finalità e risultati, pur sempre realizzabili dai singoli, ma a condizioni più gravose.

In termini diversi, nel nostro ordinamento, infatti, l’attributo di «persona» è riconosciuto non soltanto all’uomo, ma anche alle organizzazioni collettive (ad es.: gli enti pubblici, le associazioni, le fondazioni, le società e i consorzi), le quali si atteggiano come autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, che conseguono, per un verso, all’esercizio di diritti e

4 Esiste, dunque, la presunzione che al compimento del diciottesimo anno l'individuo abbia raggiunto una sufficiente maturità e sia pienamente capace di intendere e di volere. Tuttavia può verificarsi che la capacità sia sufficientemente acquisita rispetto a taluni atti anche prima del raggiungimento della maggiore età o, al contrario, che essa si perda o si riduca, temporaneamente o definitivamente, dopo il raggiungimento della maggiore età. A tal riguardo la legge disciplina le ipotesi dell'incapacità assoluta (minore d'età, interdizione giudiziale, interdizione

legale), dell'incapacità relativa (minore emancipato, inabilitato), dell'incapacità naturale e prevede adeguati istituti per la protezione degli incapaci.

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Dispense di diritto privato

di doveri da parte dell’ordinamento giuridico, per un altro, all’esercizio di tali diritti in vista della realizzazione di uno scopo comune.

La problematica principale è quella di riuscire a definire quando, secondo quali modalità ed a quali condizioni l'ente si distacca dai suoi membri o dal suo fondatore, fino a costituire un soggetto di diritto a sé stante, perfettamente distinto dagli individui che lo compongono e che lo hanno costituito.

Nel nostro ordinamento a tutti gli enti, siano essi riconosciuti o privi di riconoscimento, è attribuita una propria soggettività giuridica distinta da quella dei propri componenti. Tali enti, dunque, sono centri di imputazione autonoma di diritti e di doveri ed hanno una propria capacità giuridica e un propria capacità d'agire del tutto autonoma e distinta rispetto a quelle degli individui che ne costituiscono il substrato e si atteggiano, in definitiva, come autonomi e distinti soggetti di diritto.

Non va sottaciuto, però, che al momento della emanazione del codice civile era opinione comune che gli «enti di fatto», cioè quei complessi organizzati di soggetti e di beni diretti alla realizzazione di uno scopo - economico o meno -, non godendo della «riconoscimento statale», non fossero «soggetti», e non potessero, quindi, essere direttamente titolari di situazioni giuridiche soggettive, attive e passive. Viceversa, oggigiorno, dottrina e giurisprudenza comunemente riconoscono che, oltre gli enti che hanno ottenuto il «riconoscimento» dallo Stato - ai quali si applica una particolare disciplina -, anche agli enti «di fatto» vada riconosciuta la «soggettività», ovvero l’attitudine ad acquistare diritti e ad essere tenuti all’adempimento di doveri, anche se con regole non sempre eguali a quelle applicabili agli enti dotati di «riconoscimento».

5. Personalità giuridica.

Diverso dal concetto di soggettività giuridica è quello di personalità giuridica.

La personalità giuridica, della quale possono godere, a certe condizioni, talune categorie di enti, si acquista in seguito ad un procedimento più o meno complesso e variabile a seconda della natura e delle finalità degli enti stessi.

La personalità giuridica, quindi, va tenuta nettamente distinta dalla soggettività giuridica, in quanto essa opera nei confronti del diverso modo di atteggiarsi dell'autonomia patrimoniale di cui l'ente gode

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Soggettività, capacità, legittimazione

rispetto ai patrimoni dei suoi componenti, autonomia che in alcuni enti si definisce perfetta mentre in altri si definisce imperfetta.

In altri termini, il privilegio di cui godono le persone giuridiche si esprime nella limitazione del rischio. Si separa il patrimonio della persona giuridica da quello personale dei suoi membri; questa separazione si denomina «autonomia»: riferendosi al patrimonio, si qualifica come «patrimoniale». L’autonomia patrimoniale, nel caso di enti dotati di personalità giuridica, si dice «perfetta»: vi è insensibilità completa del patrimonio della persona giuridica nei confronti dei creditori dei singoli membri, ugualmente, insensibilità del patrimonio personale dei singoli membri per i debiti contratti dalla persona giuridica.

Viceversa, per gli altri enti (non riconosciuti) è prevista una autonomia patrimoniale imperfetta; i creditori dei singoli membri non possono aggredire i beni imputati all’ente (possono talvolta limitarsi a chiedere lo scioglimento della comunione, la liquidazione della quota e così via); di contro, i creditori dell’ente possono talvolta aggredire il patrimonio dei singoli membri soddisfacendo su di esso il proprio credito.

La personalità giuridica, quindi, determina, nell'ambito delle entità organizzate che ne godono, il fenomeno della netta separazione del patrimonio dell'ente rispetto a quello personale dei suoi componenti, con il risultato della conseguente assoluta indifferenza reciproca delle ripercussioni di carattere negativo che possono eventualmente colpire il patrimonio comune o il patrimonio individuale di uno o più dei suoi componenti.

Appare evidente, allora, che ai fini della soggettività giuridica sia irrilevante che l'ente abbia ottenuto o meno il riconoscimento della personalità giuridica, in quanto una cosa è godere della capacità giuridica e della capacità d'agire, altra cosa è il riconoscimento della personalità giuridica, che è effettuato essenzialmente in vista del risultato dell'autonomia patrimoniale perfetta.

Molti equivoci a questo proposito sono nati dal fatto che il codice parla di «riconoscimento» della personalità giuridica e di «associazioni non riconosciute». Quest’ultima locuzione negativa, soprattutto, farebbe pensare ad entità che, pure esistendo di fatto (clubs, associazioni ricreative, culturali, partiti politici), siano ignorate dal diritto, cioè dall’ordinamento.

Non è così. «Non riconosciute» non significa «non riconosciute dall’ordinamento», e quindi sconosciute dal diritto: significa, semplicemente, che non sono riconosciute come «persone giuridiche»; ma il diritto le conosce, e come: ad esse dedica tre

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Dispense di diritto privato

articoli del codice civile (36-38) e attribuisce perfino la idoneità ad essere titolari e intestatarie di beni immobili (legge 27 febbraio 1985, n. 52).

In conclusione, persona giuridica è quella entità che, oltre ad avere soggettività giuridica, gode di altri privilegi e ulteriori condizioni (vedi art. 39 cost. per i sindacati, a seconda che siano riconosciuti come persone giuridiche o no). E dunque gli enti sono tutti soggetti di diritto. Alcuni hanno uno «status» più pregnante, c’è la «persona».

Si presenta, a questo punto, nella dottrina classica, il problema se anche per gli enti possa parlarsi di capacità giuridica e di capacità d’agire.

Gli enti – si dice – hanno una capacità giuridica ridotta rispetto a quella della persona fisica. Comunemente si ripete che gli enti non possono concludere negozi di contenuto familiare; infatti gli stessi non possono di certo sposarsi, avere figli, avere diritto agli alimenti e così via. Gli enti, tuttavia, possono essere titolari di alcuni diritti personalissimi (diritto al nome, alla integrità morale e possono, addirittura, in particolari casi, essere nominati tutori).

In verità, però, l’affermazione generale non sempre è esatta.Esistono infatti dei casi in cui la capacità giuridica viene attribuita

solo ad alcune persone giuridiche, e non invece alle persone fisiche.Così l’attività bancaria può essere esercitata solo da alcune s.p.a. di

una certa dimensione; così l’attività fiduciaria di gestione dei patrimoni può essere esercitata solo dalle SIM (Società di Intermediazione Mobiliare) con un capitale minimo di 500 milioni; così la stessa attività assicurativa, ecc. C’è dunque una tendenza dell’ordinamento giuridico, non solo a livello nazionale, di riservare le attività economiche più rilevanti solo alle grandi corporations che danno affidamento finanziario di una certa tranquillità. Tutto ciò per la sicurezza dei mercati e degli stessi consumatori.

In altri settori, l’attività è riservata ad associazioni “non profit”, senza scopo di lucro, con o senza personalità giuridica.

Può ben dirsi, allora, che le capacità giuridiche delle persone fisiche e degli enti disegnino delle sfere solo parzialmente coincidenti. Accanto ad una zona centrale comune, ce n’è un’altra riservata solo alle persone fisiche, ed un’altra ancora solo a certi tipi di enti o di persone giuridiche.

Non c’è, invece, differenza negli enti tra capacità giuridica e capacità d’agire: parlare di incapacità di essi - assoluta o relativa - è un evidente non senso, al contrario delle persone fisiche, in quanto non può parlarsi di una loro immaturità psico-fisica dipendente da minore età e da stati patologici. Se sono idonei al rapporto, sono

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Soggettività, capacità, legittimazione

evidentemente idonei pure all’atto. La loro capacità di agire viene, oltretutto, attuata all’esterno dagli organi competenti, così come per la formazione della volontà rilevano gli organi interni.

6. Incapacità giuridiche speciali.

Come già detto, il concetto di capacità sta ad indicare l'attitudine o l'idoneità di un soggetto ad essere titolare di diritti e di obblighi. Di conseguenza, il concetto di incapacità viene comunemente utilizzato per indicare una serie di rapporti in relazione ai quali il soggetto incapace non può divenire titolare di taluni rapporti giuridici5.

La capacità giuridica di un individuo può risentire di alcune limitazioni dovute a taluni fattori quali l'età, il sesso, la salute, l'onore. La capacità giuridica, in tali evenienze, subisce delle limitazioni al suo espandersi in alcune direzioni ed al riguardo in dottrina si parla di incapacità giuridiche speciali.

Queste incapacità possono essere assolute o relative, possono sussistere cioè, nei confronti di chiunque o soltanto di determinate persone. Si ha, in quest'ultimo caso, la cd. incapacità giuridica relativa, la quale ricorre nei casi in cui una persona, per la particolare posizione in cui si trova di fronte ad un'altra persona, non può porre in essere un rapporto giuridico con quest'ultima.

La materia delle incapacità speciali non trova tuttavia sempre una soluzione univoca in dottrina, in quanto in certi casi gli autori propendono a ricomprendere alcune delle sopracitate cause limitatrici ora nel novero della limitazioni alla capacità giuridica, ora in quello delle limitazioni alla capacità di agire6.

Per quanto concerne l'età, ad esempio, non si riscontra uniformità di pensiero in dottrina in quanto, secondo alcuni, quest'ultima va ricondotta nell'elenco delle limitazioni della capacità giuridica7, secondo altri, invece, va annoverata nell'ambito delle limitazioni della capacità d'agire8. La prima opinione appare predominante in dottrina. Bisogna allora distinguere.

L'età influisce sulla capacità dell'individuo ad essere parte di un rapporto di lavoro. Infatti, la legge 17 ottobre 1967, n. 977,

5 In tal senso cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, 26.

6 Sull'argomento, cfr. PERLINGIERI, Commentario al Codice civile, Delle persone e della famiglia, cit., 247, ivi ampi riferimenti.

7 Cfr. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1957, 219 ss.; F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., 24 ss.; RESCIGNO, Capacità giuridica, in Noviss. dig. it., 875.

8 Cfr. GANGI, Persone fisiche e persone giuridiche, Milano, 1948, 79.

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Dispense di diritto privato

concernente la tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti, fissa l'età minima per intraprendere un’attività lavorativa, e quindi per poter essere parte di un rapporto giuridico di lavoro, al compimento del quindicesimo anno di età, con l'eccezione dei lavori agricoli, familiari e leggeri non industriali per i quali l'età è fissata al quattordicesimo anno. Viceversa, l’età necessaria per la stipula del contratto di lavoro è quella della maggiore età e cioè gli anni diciotto.

Si vede allora, molto chiaramente, che prima degli anni quindici (o quattordici) manca la capacità giuridica: il bambino o il ragazzo non può essere parte in un rapporto di lavoro subordinato. Oltre quell’età e fino a diciotto, questo può avvenire, ma il contratto è stipulato dal legale rappresentante. Manca cioè da quindici a diciotto anni, la capacità di agire. Con la maggiore età si acquista la capacità piena.

L'età influisce, inoltre, sulla possibilità riconosciuta all'individuo di contrarre matrimonio, poiché la legge richiede, per il compimento di tale atto, il raggiungimento del sedicesimo anno di età (art. 84 c.c.). Quindi siamo nella incapacità giuridica. Infatti, il c.d. matrimonio per procura non esprime una forma di rappresentanza di volontà, ma solo una figura di nuncius.

Per quanto concerne il sesso, nonostante le forti pressioni dirette ad escludere ogni limitazione ricollegabile a tale situazione, anche alla luce del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 cost., non è possibile negare la sua influenza sulla capacità giuridica9.

Il sesso, per esempio, incide sulla capacità lavorativa della donna, la quale rimane esclusa dai lavori sotterranei e, se minorenne, dai lavori pericolosi ed insalubri; o anche dell’uomo, per le attività, ad es., negli asili nido.

In relazione alla salute, poi, vengono in discussione soprattutto gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, tradizionalmente ricondotti nell'ambito della capacità d'agire. Tuttavia, l'esclusione degli interdetti e degli inabilitati da determinate funzioni quali l'ufficio tutelare (art. 350, n. 1, c.c.) o la facoltà ad essi concessa di chiedere dispensa dall'esercizio della tutela (art. 352, n. 8, c.c.) spinge ampia parte della dottrina a configurare la salute anche come una limitazione della capacità giuridica. Inoltre, l'interdetto per infermità di mente non può contrarre matrimonio (art. 85 c.c.): ed anche qui siamo nell’incapacità giuridica speciale.

Infine, anche determinate situazioni riconducibili al concetto di onore sembrano dispiegare i propri effetti sulla capacità giuridica. Infatti, la perdita dell'onore, operando riduttivamente sulla capacità giuridica, priva la persona colpita della titolarità di determinati uffici,

9 Sul punto, cfr. BARBERO, Il sistema del diritto privato, nuova ed. a cura di Liserre e Floridia, Torino, 1988, 151.

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Soggettività, capacità, legittimazione

sia operando sotto la forma della revoca (art. 306 ss. c.c.), sia sotto la forma della decadenza (art. 330 c.c.), sia sotto la forma della rimozione (art. 384 c.c.), oppure impedendo addirittura il conferimento di taluni uffici (art. 348 c.c.).

Alla luce di quanto precede appare possibile affermare che le limitazioni alla capacità giuridica non possono essere confuse con quelle pertinenti alla capacità d'agire. Occorre ribadire ancora che, nelle ipotesi di limitazione della capacità giuridica, il soggetto non viene privato solo della idoneità a gestire in concreto un determinato rapporto specificamente individuato, ma gli viene sottratta addirittura la stessa attitudine ad acquistare il ruolo di parte del rapporto giuridico stesso o, meglio ancora, di titolare delle relative situazioni giuridiche soggettive.

7. Legittimazione.

La capacità non va confusa, infine, con il concetto di legittimazione, intesa quale competenza del soggetto a disporre o ad esercitare un diritto o a esercitare una determinata situazione giuridica. La dottrina privatistica ha sviluppato, nell’ambito della teoria generale, una nozione proveniente dal diritto processuale: quella, appunto, della legittimazione.

La legittimazione rappresenta, quindi, «L’idoneità giuridica dell’agente ad essere soggetto del rapporto che si costituisce con il compimento dell’atto» (Torrente). Essa spetta a chi ha il potere di disposizione rispetto ad un determinato diritto o ha veste per esercitarlo.

Solitamente ciò che legittima un soggetto ad essere parte formale in un atto è il suo esserne anche parte in senso sostanziale; ossia la sua titolarità in relazione alle situazioni giuridiche soggettive su cui l’atto è destinato ad incidere. Pertanto legittimato è colui che ha il potere di manifestare la propria volontà con effetti relativamente ad una data situazione giuridica.

In altre parole, un soggetto, pur capace di agire, può non essere legittimato a compiere determinati atti se non si trova in una situazione giuridica richiesta dalla legge (es.: per vendere un bene il soggetto deve essere proprietario del bene stesso).

La legittimazione, spetta, di regola, al titolare del diritto e consente, normalmente, di disporre del diritto medesimo al solo titolare oppure al soggetto dotato di un apposito potere al riguardo (p. es. potere di rappresentanza); quindi, attribuire ad un soggetto questo diverso

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Dispense di diritto privato

titolo di legittimazione significa, in buona sostanza, riconoscergli un potere di rappresentanza (o sostituzione), attribuitogli dall’interessato o dalla legge.

Legittimazione e capacità esprimono criteri ben distinti, anche se ovviamente non sono privi di reciproci collegamenti. La legittimazione indica la competenza del soggetto a disporre o ad esercitare un diritto (intesa come potere di disposizione riconosciuto al soggetto su un bene o su un diritto), mentre la capacità indica solo l’attitudine a compiere una certa categoria di atti o essere parte in determinati rapporti giuridici.

In linea di principio, la mancanza di legittimazione nell’autore di un atto determina l’inefficacia dell’atto stesso, in virtù del fatto che nessuno può incidere sulla sfera giuridica altrui.

In ultima analisi, mentre il difetto di legittimazione indica che il soggetto non è «qualificato» all'esercizio di un diritto, l'incapacità giuridica speciale sta ad indicare la «preclusione» del soggetto rispetto ad alcuni rapporti giuridici.

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CAPITOLO QUINTO

L’attività giuridica

SOMMARIO: 1. Fatto e fattispecie. - 2. Fatto e atto giuridico. - 3. Il negozio giuridico. - 4. I presupposti del negozio. - 5. Gli elementi costitutivi del negozio. - 6. segue: Il negozio giuridico nella realtà attuale.

1. Fatto e fattispecie.

L’ordinamento giuridico, come si è già detto59, può assumere nei confronti di un accadimento (naturale o materiale) una duplice posizione: può considerarlo estraneo alla propria sfera di interesse oppure ritenerlo giuridicamente rilevante: in questo secondo caso, viene in rilievo la figura del fatto giuridico cioè un accadimento al quale l’ordinamento ricollega conseguenze rilevanti per il diritto.

Fatto giuridico può essere un accadimento naturale, del tutto indipendente dall’opera dell’uomo. Se un fiume, ad esempio, modifica il proprio corso abbandonando l’alveo originario e formando un nuovo letto, i proprietari confinanti con le opposte rive dell’alveo abbandonato ne diventano proprietari per la metà che è dalla loro parte: qui i nuovi diritti di proprietà si sono costituiti come conseguenza di un semplice evento naturale, al di fuori di ogni concorso dell’opera dell’uomo60. Ma fatto giuridico può essere anche un fatto umano: il pescatore diventa proprietario, ad esempio, del pesce che cattura.

Un fatto (umano o naturale) assume rilievo nel mondo del diritto quando una norma ricollega al suo concreto verificarsi delle conseguenze giuridiche. Se analizziamo, ora, più da vicino la struttura della norma, osserviamo che essa prevede un certo accadimento in astratto (es. la compravendita: art. 1470 c.c.) e - sia pure, talvolta, implicitamente - dispone che, ove quell’accadimento dovesse verificarsi nella realtà, debbano prodursi determinati effetti giuridici (Tizio diventa proprietario di un bene a seguito della stipulazione di un contratto di compravendita con Caio).

59 Vedi il capitolo dedicato all’esame delle situazioni giuridiche soggettive.60 GALGANO, Diritto privato, Padova, 1990, 24.

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Dispense di diritto privato

Utilizzando una terminologia risalente alla dottrina tedesca del secolo scorso61, si parla di «fattispecie» (Tatbestand) per indicare l’astratta previsione legislativa dei fatti e delle condizioni in presenza delle quali la concreta realizzazione del fatto ipotizzato dà luogo alla nascita di effetti giuridici.

La fattispecie può essere articolata nella previsione di un unico fatto produttivo dell’effetto (si pensi, appunto, alla morte di una persona) e si tratterà di una fattispecie semplice, ma potrà articolarsi nella previsione di una molteplicità di fatti e si tratterà allora di fattispecie complessa. Si consideri, ad esempio, la vendita di una cosa futura, nella quale il trasferimento della proprietà richiede, oltre al contratto, anche la venuta ad esistenza del bene (art. 1472 c.c.).

A volte, poi, la fattispecie, più che complessa, è a formazione progressiva: è tale quella fattispecie che necessariamente consta di fatti che devono venire ad esistenza in uno spazio temporale più o meno lungo e legati tra loro da un nesso di causa-effetto, nel senso che ad uno di essi non può che seguire l’altro. Ne consegue che, al verificarsi solo di alcuni di essi, l’effetto finale non potrà ancora prodursi, derivandone una «fase preliminare di gestazione» alla quale si ricollegano taluni effetti prodromici che concretizzano la nozione di «aspettativa».

Analizzando, poi, le conseguenze che la norma riconduce al verificarsi del fatto da essa ipotizzato (cioè gli effetti giuridici), ricordiamo che, in un primo momento, tali conseguenze furono ravvisate nella «nascita, modificazione o estinzione dei diritti soggettivi», concezione questa che fu poi sostituita dal riferimento alla «nascita, modificazione ed estinzione di situazioni giuridiche soggettive»62. In tal senso, allora, può dirsi che le situazioni giuridiche soggettive nascono, si modificano e si estinguono in dipendenza dell’avverarsi di un evento che la norma giuridica seleziona e qualifica, isolandolo dalla più ampia sfera dei fenomeni naturali o sociali. Si comprende, allora, come la teoria del fatto giuridico si ponga, in un certo senso, al centro della stessa parte generale del diritto civile e non a caso essa si sviluppò in Germania proprio in concomitanza con lo sviluppo di quella «giurisprudenza dei concetti» che si fece portatrice dell’esigenza di dare vita a costruzioni generali del diritto civile che, poi, costituirono la premessa per la più ampia nozione di «negozio giuridico».

61 THOL, Einleitung in das deutsche Privatrech, Gottingen, 1851, 9. Per la verità, l’espressione fu utilizzata, in origine, per indicare l’insieme degli elementi materiali del reato e solo successivamente nel significato riportato nel testo: cfr. MAIORCA, Fatto giuridico. Fattispecie, in Noviss. dig. it., VII, Torino, 1961, 111-113.

62 Cfr. MAIORCA, o.l.c.

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L’attività giuridica

2. Fatto e atto giuridico.

L’espressione «fatto giuridico» esprime una nozione di genere, nella quale è si individuano tipologie diverse. In tale ambito, si distingue tra fatto giuridico in senso stretto ed atto giuridico e il criterio distintivo è ravvisato nella partecipazione dell’uomo alla causazione dell’evento: se l’uomo ne è causa, si tratterebbe di un atto giuridico, mentre se ne è estraneo si tratterebbe di un fatto giuridico in senso stretto.

Questo criterio, però, è valido in prima approssimazione63 (in quanto, di regola, i fatti giuridici in senso stretto sono riferibili ad eventi naturali), ma non in assoluto, poiché - ricordando il ruolo fondamentale che assume la norma nel processo di giuridicizzazione del fatto - occorre tenere conto della rilevanza o meno che assume, per l’ordinamento, la volontà del soggetto nella causazione del fatto64: se detta volontà è presa in considerazione ai fini della produzione i effetti, si tratterà di un atto giuridico, mentre, se essa rimane del tutto irrilevante, si tratterà di fatti giuridici in senso stretto. Alla stregua di tale impostazione, allora, gli eventi naturali (quali il fulmine, l’alluvione, il terremoto, la morte) sono, senza dubbio, dei fatti giuridici, mentre, con riguardo agli eventi umani, occorrerà stabilire se, per l’ordinamento, la volontà costituisca o meno presupposto necessario per la nascita di certi effetti. Si consideri, ad esempio, la piantagione, la costruzione o l’opera fatta dall’uomo sul suolo altrui: in questi casi, nonostante si tratti di fatti umani, la legge ricollega ad essi determinate conseguenze giuridiche, a prescindere da’un indagine sulla volontarietà e consapevolezza in ordine alla loro realizzazione: si è qui in presenza, perciò, di fatti giuridici in senso stretto. Viceversa, il contratto o il fatto illecito devono considerarsi atti giuridici.

La categoria degli atti giuridici, peraltro, richiede non solo la volontarietà, ma anche la capacità del soggetto che li compie, precisandosi, però, che, ai nostri fini, ciò che rileva non è tanto e solo la capacità legale di agire (art. 2 c.c.), quanto, soprattutto, la c.d. capacità di intendere e volere, ossia l’attitudine dell’individuo di rendersi conto della portata dell’atto che compie e delle conseguenze

63 GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1987, 87.64 «L’unica fenomenologia che il pensiero giuridico moderno abbia utilizzato con

larghezza é la fenomenologia della volontà»: FALZEA, Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano, 1965, 948.

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Dispense di diritto privato

che ne derivano. Sotto tale ultimo aspetto è necessario distinguere tra atti leciti ed atti illeciti65. I primi producono, a carico dell’autore, l’obbligazione di risarcire il danno causato nell’altrui sfera giuridica, ma, a tal fine, occorre che l’atto lesivo sia volontario (doloso o colposo, come si esprime l’art. 2043) e che il soggetto, al momento della causazione, sia capace di intendere e volere (art. 2046).

Diversi, invece, sono i requisiti di capacità e volontarietà necessari per il compimento degli atti leciti: oltre alla capacità di intendere e di volere (art. 428), la legge chiede la capacità legale di agire, che si acquista con il compimento della maggiore età.

Aspetti particolari, invece, presenta - sempre con riguardo agli atti leciti - il profilo della volontarietà, in quanto - sulla scorta di una elaborazione dottrinale risalente al secolo scorso - occorre distinguere tra atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici (o atti negoziali).

Nel caso, infatti, di atti giuridici in senso stretto, l’ordinamento richiede la volontarietà del mero comportamento tenuto, irrilevante restando invece la volontarietà degli effetti prodotti, i quali sono sempre fissati dalla legge e ricollegati alla condotta in modo automatico. Viceversa, nel negozio giuridico, la volontarietà investe altresì gli effetti che conseguono all’atto, nel senso che essi non si producono se non voluti dal soggetto.

Per comprendere, si prendano due atti umani apparentemente simili: una richiesta scritta di pagamento che un creditore rivolge ad un debitore (art. 1219) e una diffida scritta che un contraente rivolge ad un altro contraente in un contratto a prestazioni corrispettive (art. 1454).

Nel primo caso, gli effetti giuridici (interessi di mora, rimborsi, risarcimento dei danni) seguono, automaticamente, anche se essi non siano previsti e voluti dal soggetto; nel secondo caso, invece, gli effetti giuridici (risoluzione del contratto) seguono soltanto se il soggetto li abbia previsti e voluti, per cui, se l’intento della soluzione non sussiste, l’effetto che seguirà sarà solo quello della costituzione in mora66.

Negli atti giuridici in senso stretto, dunque, l’ordinamento si limita ad assumere l’atto volontario come il presupposto cui ricollegare effetti giuridici, con la conseguenza che essi sono tutti tipici, cioè sono tutti previsti dalla legge. Diversamente è a dirsi per la categoria degli atti negoziali, caratterizzati - lo ripetiamo - da ciò che la volontarietà e consapevolezza non è limitata al comportamento, ma

65 Cfr. RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1985, 286.66 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, I, 2, Fatti e atti giuridici,

Torino, 1987, 449.

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L’attività giuridica

si estende agli effetti che sono, pertanto, anch’essi voluti dal soggetto.

3. Il negozio giuridico.

La nozione di negozio giuridico ha poco più di due secoli, se è vero che il primo ad adoperare il termine negotium juridicum fu Nettelbladt nel 174967, ma la formulazione compiuta ed armonica si è avuta un secolo dopo, con la elaborazione di Savigny nella sua massima opera, il Sistema del diritto romano attuale68.

Il negozio, sin dal suo nascere, è stato oggetto di un complesso dibattito che scandisce, storicamente, le tappe della sua evoluzione.

a) La figura nacque in un contesto storico caratterizzato da una ideologia di fondo: l’esaltazione della libertà dell’individuo e della sua capacità creativa, idea che aveva condotto, in altri campi, all’affermazione dei principi propri della borghesia, successivamente alla Rivoluzione francese. In tale ambito, la Pandettistica tedesca - rielaborando principi ed istituti del diritto romano - perseguì l’obiettivo di costruire l’intero sistema giuridico quale estrinsecazione della volontà umana e, in tal opera di teorizzazione, giunse alla individuazione di una categoria dogmatica unitaria di atti (inter vivos e mortis causa, unilaterali e bilaterali) che si fondava su di un comune denominatore, rappresentato dalla loro derivazione dalla volontà del privato. Il negozio giuridico, dunque, era una nozione di genere capace di assorbire tutte quelle manifestazioni di volontà attraverso le quali uno o più soggetti perseguivano interessi individuali69.

La figura trovò consensi da parte della dottrina italiana e si impose, storicamente, come strumento didattico nell’insegnamento del diritto privato. La manualistica tradizionale - secondo uno schema consolidato - premette, ancora oggi, alla trattazione del contratto, delle obbligazioni, delle successioni, del diritto di famiglia e dei diritti reali, un’analisi del «negozio giuridico», nell’ambito della quale vengono studiati i profili comuni alle diverse partizioni adottate dal codice civile, quali, ad esempio, il concetto di manifestazione di volontà, di causa, d’invalidità, ecc. In tal modo si persegue l’obiettivo

67 NETTELBLADT, Systema elementare universae jurisprudentiae positivae, indicato da MIRABELLI, Negozio giuridico, in Enc. dir, XXVIII, Milano, 1978, 1.

68 SAVIGNY, System des heutigen romischen Rechts, II, 2, trad. a cura di V. Scialoja, III, Torino, 1900.

69 Scrive GALGANO, Il negozio giuridico, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, III, 1, 1988, 17: «L’obiettivo è di realizzare un diritto uguale per tutti i cittadini, senza distinzione di classe; un diritto pensato in funzione di una unità del soggetto giuridico».

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Dispense di diritto privato

di sintetizzare e classificare istituti diversi che presentano, come matrice comune, la medesima derivazione dalla volontà dell’individuo. Uno schema che - sia pure con i necessari adattamenti - si ricollega proprio a quella idea pandettistica dell’individuo quale centro motore del sistema giuridico e della sua volontà creatrice.

L’originaria concezione considerava il negozio giuridico - nell’ambito della categoria dei atti giuridici - come dichiarazione di volontà che non solo costituiva un atto libero, ma nella quale la volontà dell’autore era direttamente finalizzata alla costituzione o allo scioglimento di un rapporto giuridico. Si dichiarava di volere la produzione di un certo effetto giuridico e l’ordinamento giuridico apprestava gli strumenti affinché quell’effetto potesse trovare attuazione.

Quella concezione fu poi ripresa, in Italia, sul finire del XIX secolo, da Vittorio Scialoja per il quale il negozio giuridico era dichiarazione di volontà privata diretta a produrre effetti che l’ordinamento giuridico riconosceva e tutelava. Definizione che evidenziava il ruolo decisivo svolto dalla volontà nel processo di costruzione della figura e che conduceva, inevitabilmente, a ritenere invalido il negozio, laddove ciò che il soggetto manifestava al’esterno non corrispondeva al suo intimo volere (c.d. teoria della volontà).

b) Quella nozione, però, ben presto si rivelò insoddisfacente. Il superamento di una economia fondata sul mercato ristretto, la diffusa frequenza di contratti conclusi a distanza e tra soggetti di diversa forza evidenziarono come70 una eccessiva preoccupazione della salvaguardia della interna volontà individuale si ponesse in contrasto con le esigenze di certezza del traffico giuridico che, al contrario, dovevano necessariamente fondarsi su ciò che il soggetto aveva manifestato all’esterno e su ciò che il destinatario della dichiarazione era in grado di recepire e comprendere. Alla teoria della volontà si sostituì la teoria della dichiarazione, per la quale il soggetto rimaneva vincolato a ciò aveva dichiarato all’esterno, con una inevitabile pretermissione della ricerca della effettiva volontà e a tutto vantaggio della tutela della buona fede dei terzi. In sostanza, l’evoluzione ora accennata si svolge lungo una linea che tende a «richiamare l’autore del negozio alla responsabilità - più esattamente all’autoresponsabilità - per il compimento del negozio, ed anzi per il solo fatto della partecipazione al commercio giuridico»71, evidenziandosi, soprattutto, la necessità di tutela dell’affidamento suscitato nei rapporti negoziali, cioè a dire la tutela dei destinatari della dichiarazione.

70 RESCIGNO, Manuale, cit., 292.71 RESCIGNO, o.u.c.

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L’attività giuridica

Le suddette impostazioni sogliono essere inserite nell’ambito delle c.dd. teorie soggettive sul negozio giuridico72, contrapposte alle teorie c.dd. oggettive, che traggono origine da una problematica di fondo: quella dei rapporti tra la volontà negoziale e gli effetti. Le teorie soggettive - sia pure con sfumature diverse - avevano ricondotto alla volontà la produzione degli effetti giuridici, laddove, invece, le successive prospettazioni tendevano a spostare il tema degli effetti dalla volontà privata all’ordinamento giuridico. In tale ottica, il negozio giuridico altro non era se non il presupposto al quale poi lo stesso ordinamento ricollegava talune conseguenze giuridiche. Esso era «un comando che l’ordinamento giuridico autorizza il privato a porre in essere»73 e, dunque, poneva un precetto, una regola attraverso la quale i soggetti provvedevano alla regolamentazione giuridica dei propri interessi. Illuminante, in proposito, è l’affermazione di Betti74 per il quale nel negozio «a differenza che altrove, la fattispecie cui la norma ricollega l’effetto giuridico, contiene già, essa stessa, l’enunciazione o l’attuazione di un precetto da osservare nell’interferenza tra sfere di interessi: precetto che l’ordine giuridico valuta secondo il suo sovrano apprezzamento e traduce in rapporto giuridico, con le restrizioni e le modificazioni che stima opportune. Col negozio giuridico, infatti, i privati dispongono per l’avvenire un regolamento impegnativo di propri interessi nei loro rapporti». In altre parole, il negozio contiene la fissazione di una regola volta alla regolamentazione di interessi, regola che viene, per così dire, giuridicizzata, dall’ordinamento.

c) Sviluppando queste premesse teoriche, l’evoluzione dottrinale successiva configura il negozio giuridico quale «autoregolamento impegnativo», espressione con la quale si intende, per l’appunto, sottolineare come il negozio costituisce lo strumento mediante il quale il soggetto persegue i propri interessi e ciò attraverso la fissazione di una regola che diventa per lui impegnativa. Consideriamo, ad esempio, la compravendita. Quando due soggetti si accordano nel senso di scambiarsi un bene contro un prezzo, pongono in essere una regola che, se da un lato costituisce mezzo per autoregolamentare certi interessi individuali, dall’altro è impegnativa per gli autori del contratto, dal momento che essi, d’ora in poi, saranno vincolati a quel certo accordo, senza possibilità di sottrarsene in via unilaterale. L’autoregolamentazione degli interessi, peraltro, è particolarmente limitata nei negozi costitutivi di rapporti familiari come il matrimonio o l’adozione dove sono in gioco prioritariamente

72 G.B. FERRI, Il negozio giuridico tra libertà e norma, Rimini, 1987, 33 ss.73 G.B. FERRI, Il negozio giuridico tra libertà e norma, cit., 38.74 BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Torino, 1952, 49.

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interessi che attengono alla personalità etico-sociale dell’individuo75. Essa, invece, assume il suo massimo vigore nell’ambito della regolamentazione di interessi patrimoniali che avviene, ordinariamente, mediante lo strumento del contratto.

Il carattere vincolante del negozio assume rilievo, poi, anche sotto un altro profilo. Per comprendere, poniamo che Tizio, ritenendo per errore che un certo oggetto sia d’argento, propone la stipula di un contratto di compravendita a Caio che accetta, senza rendersi conto dell’errore altrui. In una ipotesi del genere, può ritenersi quel negozio vincolante per Tizio? In linea di principio, la risposta dovrebbe essere negativa, dal momento che Tizio si è indotto alla stipulazione sulla base di una falsa rappresentazione della realtà. Tuttavia, un’analoga esigenza di tutela sussiste anche per Caio che, non potendosi rendere conto dell’errore, ha il diritto di mantenere in vita il negozio da quale consegue comunque un beneficio. Nell’Ottocento - quando dominava la teoria della volontà - si preferiva tutelare, in ogni caso, il dichiarante, essendo inconcepibile la permanenza in vita di un negozio che non corrispondesse all’intimo volere del soggetto. Col tempo, però, ci si è resi conto - come detto - che una eccessiva attenzione alla volontà interna era in contrasto con le esigenze di certezza dei traffici giuridici e, soprattutto, di tutela dell’affidamento del destinatario della dichiarazione. La prospettiva, così, è cambiata: il negozio rimane vincolante per il soggetto quando - pur non essendo conforme all’interno volere - si sia creato un affidamento in capo ad altri individui. Ovviamente, tale protezione trova un limite costituito dal carattere incolpevole dell’affidamento: se il soggetto era, ad esempio, in grado di rendersi conto dell’altrui errore, viene meno ogni giustificazione che consenta di mantenere in vita il negozio, dal momento che, concretamente, non può dirsi esistente alcun affidamento da tutelare. Anzi, ammettendo, in questo caso, la vincolatività del negozio, si legittimerebbe un odioso privilegio a favore di una parte che, invece, non merita alcuna protezione, avendo essa, in sostanza, abusato dell’altrui condizione di errore.

4. I presupposti del negozio.

La storia del negozio giuridico non può dirsi conclusa: la figura deve fare i conti, oggi, con quel diffuso atteggiamento critico che ne contesta la validità sul piano concettuale e normativo. Prima, però, di esaminare questo ulteriore profilo, sembra opportuno individuare gli

75 MAJELLO, in Istituzioni di diritto privato, a cura di Bessone, Torino, 1996, 72.

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elementi strutturali della stessa, così come proposti dalla dottrina tradizionale76.

Il negozio - quale manifestazione di volontà con cui un soggetto autoregolamenta i propri interessi - presuppone, ovviamente l’esistenza di uno o più soggetti che lo pongono in essere e di un oggetto. Sono questi i c.dd. presupposti del negozio, cioè elementi che - pur se necessari per la sussistenza del negozio - non fanno parte della sua struttura, ponendosi, invece, come dati ad essa esterni, dai quali comunque dipende.

Tanto i soggetti che l’oggetto, per essere presupposti del negozio, debbono presentare determinati requisiti.

Con riferimento ai soggetti, si parla di requisiti soggettivi e tali sono:

a) La capacità giuridica.Come è noto, la capacità giuridica si identifica con l’idoneità del

soggetto ad essere titolare di diritti e di obblighi e, più in generale, di situazioni giuridiche soggettive. Essa si acquista con la nascita e può subire solo eccezionali limitazioni, essendo inammissibile una incapacità giuridica assoluta che renderebbe un soggetto privo di ogni suo diritto. Limitazioni alla capacità giuridica si ravvisano, ad esempio, nel diritto del lavoro: il minore di anni quindici non può essere titolare di diritti e di obblighi connessi ad un rapporto di lavoro subordinato. Ricordiamo che le limitazioni alla capacità giuridica danno luogo alle c.dd. incapacità speciali;

b) La capacità di agire.Affinché il negozio sia valido ed efficace, occorre che esso sia posto

in essere da chi abbia la capacità di agire, capacità che, come è noto, si acquista con il raggiungimento della maggiore età, salva l’ipotesi della interdizione della persona maggiorenne e salva, altresì, l’ipotesi della emancipazione del minore;

c) La legittimazione.La legittimazione (o potere di agire) è il potere di un soggetto di

disporre di un diritto mediante un negozio giuridico Tale potere, in linea di principio, è attribuito al titolare del diritto stesso: posso vendere una casa solo se ne sono proprietario. Nel caso manchi la legittimazione, il negozio di per sé è valido, perché la legittimazione non è un elemento costitutivo dell’atto: esso, però, è inefficace, cioè non è in grado di produrre l’effetto perseguito dal soggetto. Se vendo un bene altrui, la proprietà non può trasferirsi al compratore.

76 Faremo riferimento, in particolare, alla ricostruzione operata da F. SANTORO PASSARELLI in Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1985, 129 ss.

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Eccezionalmente, la legittimazione può essere attribuita ad un soggetto diverso dal titolare del diritto. Tale attribuzione può derivare dalla legge, quando il soggetto titolare del diritto non è in grado di provvedere in modo adeguato ai propri interessi: si pensi, ad esempio, al potere attribuito ai genitori in relazione ai diritti appartenenti ai figli minori. Altre volte, invece, l’attribuzione può derivare da un atto di volontà dello stesso soggetto titolare del diritto: è quanto accade nella rappresentanza dove un soggetto (c.d. rappresentato) attribuisce ad altro (c.d. rappresentante) il potere di concludere negozi che poi produrranno effetti nella sfera giuridica del primo. In entrambe le ipotesi, il soggetto è titolare di una potestà che, come si ricorderà, è il potere attribuito ad un soggetto per la realizzazione diretta di un interesse altrui.

Con riferimento, invece, all’oggetto del negozio, si parla di requisiti oggettivi per indicare quelle particolari caratteristiche che l’oggetto deve presentare, secondo quanto dispongono gli artt. 1346 ss. c.c. Requisiti oggettivi sono:

a) La possibilità.Possibilità dell’oggetto vuol dire che la cosa o il comportamento si

presta, per sua natura, ad essere oggetto del negozio o di un certo negozio: così può costituire oggetto della locazione solo un bene improduttivo e oggetto del contratto di affitto solo un bene produttivo. Del pari, oggetto del mutuo può essere solo un bene fungibile e del comodato solo un bene infungibile.

b) La liceità.Liceità vuol dire che la cosa o il comportamento debbono prestarsi,

per volontà della legge, ad essere oggetto del negozio o di un certo negozio. E così, ad esempio, non possono costituire oggetto lecito del negozio i beni demaniali oppure le parti del proprio corpo (oltre i limiti fissati dall’art. 5). Un limite speciale stabilisce la legge per le cose future: esse possono essere, in generale, oggetto del negozio (art. 1348), ma diventano oggetto illecito con riguardo a determinati negozi, come ad esempio, la donazione, che, per l’art. 771, non può avere ad oggetto beni futuri.

c) Determinatezza o determinabilità.Determinatezza o determinabilità dell’oggetto vuol dire che, per la

validità del negozio, è necessario che esso sia esattamente definito o, quanto meno, siano fissati i criteri per la sua definizione. Ricordiamo, però, che la legge riconosce alle parti la facoltà di attribuire ad un terzo il compito di determinare l’oggetto del negozio.

Mentre i requisiti soggettivi debbono esistere al momento della conclusione del negozio, quelli oggettivi debbono sussistere al

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momento in cui il negozio comincia a produrre effetti. Ciò si desume, ad esempio, dalla norma dell’art. 1347 per la quale, se al momento della conclusione di un negozio sottoposto a condizione sospensiva o a termine la prestazione era impossibile, il negozio è pur sempre valido se, al momento del verificarsi della condizione o alla scadenza del termine (momento a partire dal quale il negozio produce effetto), la prestazione è divenuta possibile.

5. Gli elementi costitutivi del negozio.

Diversi dai presupposti, sono gli elementi del negozio, cioè quegli elementi da cui dipende l’esistenza stessa del negozio. Se i presupposti sono fattori estranei, gli elementi sono, per così dire, i mattoni che compongono la struttura stessa del negozio, in mancanza dei quali questo non viene ad esistenza. Si distinguono, tradizionalmente, gli elementi essenziali cioè quelli che debbono necessariamente sussistere per la sussistenza del negozio, dagli elementi accidentali, cioè quelli elementi che gli autori del negozio sono liberi di apporre o meno, precisandosi, però, che una volta apposti, essi diventano essenziali, cioè diventano parte integrante della struttura dell’atto. Un esempio di elemento accidentale è la condizione.

Elementi essenziali sono:a) La volontà (il contenuto).Quando si parla di volontà, occorre distinguere due profili. Può

venire in considerazione, anzitutto, la facoltà umana di voler concludere un negozio (c.d. volontà volente), che rimane, ovviamente, un dato esterno alla struttura dello stesso, quale mero atteggiamento psicologico del soggetto. Quando, invece, il soggetto conclude il negozio, quella generica intenzione trova la sua concreta attuazione, traducendosi nell’insieme di clausole che costituiscono il c.d. contenuto del negozio (c.d. volontà voluta). È questa la volontà che assume la connotazione di elemento costitutivo del negozio, dal momento che essa cessa di essere un atteggiamento interno al soggetto per divenire il nucleo essenziale del negozio, cioè l’insieme delle pattuizioni poste in essere dalle parti. E così, ad esempio, nel caso della compravendita, la volontà (come elemento essenziale) è quella che si è tradotta nelle clausole con cui compratore e venditore hanno trasferito la proprietà di un bene dietro il pagamento di una somma di denaro. La volontà tradottasi nelle clausole del negozio, più correttamente, è definita come contenuto del negozio. La volontà,

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invece, come facoltà psicologica assume, a rigore, rilievo nel caso dei c.d. vizi della volontà (errore, dolo e violenza): queste sono delle circostanze che incidono negativamente sul processo di formazione della volontà che si traduce, conseguentemente, in un contenuto non corrispondente alle effettive intenzioni del soggetto. Se, ad esempio, Tizio per errore ritiene che un certo oggetto sia d’oro, ma in realtà esso è di plastica, l’errore è una circostanza che interviene nel momento in cui il soggetto decide di stipulare il contratto di compravendita (incide, cioè, sulla volontà volente), inducendolo così a contrarre in maniera difforme dalle sue reali intenzioni.

b) La forma.La forma sta ad indicare il modo in cui la volontà si manifesta

all’esterno, diventando così percettibile da altri. Il concetto di forma è strettamente connesso a quello di volontà, poiché essa costituisce il veicolo mediante il quale la volontà interna ad un soggetto trova estrinsecazione nella realtà. Essa può essere scritta o orale: vige, al riguardo, il principio di libertà della forma (cioè i soggetti possono scegliere la forma di manifestazione della volontà che ritengono opportuno), ma talvolta, la legge richiede, ai fini della stessa esistenza del negozio, la forma scritta (c.d. forma scritta ad substantiam).

c) La causa.La causa è l’elemento essenziale più controverso nella teoria

generale del negozio giuridico.L’ordinamento non attribuisce protezione ad ogni negozio posto in

essere dai privati, ma solo a quegli atti finalizzati a realizzare un risultato che renda l’atto stesso meritevole di tutela. Per compiere tale valutazione, allora, l’ordinamento richiede che ciascun negozio evidenzi la ragione per cui è stato posto in essere: tale ragione giustificatrice dell’atto prende il nome di «causa» e la sua mancanza determina la nullità dell’atto (art. 1418), cioè, in definitiva, il suo disconoscimento da parte del legislatore.

Esaminando, adesso, più da vicino il concetto di causa, ricordiamo che secondo la teoria tradizionale - che va sotto il nome di teoria oggettiva - la causa si identifica, in particolare, con la funzione che il negozio assolve sul piano economico-sociale. In altre parole, la causa sarebbe la finalità che il tipo astratto di negozio persegue così come si desume oggettivamente dall’atto posto in essere dai soggetti. Ad esempio, la causa del contratto di compravendita è lo scambio di un bene contro un prezzo, quella del contratto di appalto è l’esecuzione di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo, ecc.: le funzioni assolte dai vari negozi costituiscono la ragione che giustificano il

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compimento dell’atto e la protezione da parte dell’ordinamento. Questa impostazione, però, ha creato qualche problema:

1) L’ordinamento giuridico disciplina, in astratto, dei modelli di contratto ai quali i soggetti possono fare riferimento, nel momento in cui decidono di porre in essere un certo negozio. Il codice, così, disciplina il contratto di compravendita, di mandato, di appalto, di assicurazione, ecc., prevedendo, come si dice, dei «tipi contrattuali». Al tempo stesso, però, il legislatore riconosce ai privati anche la facoltà di dar vita a negozi che non rientrino tra i tipi legali, consentendo loro di «inventare» nuove tipologie di negozi (più precisamente, di contratti) a condizione che - dice l’art. 1322, comma 2 - essi siano finalizzati a realizzare interessi meritevoli di tutela (c.dd. contratti atipici). Orbene, se la causa costituisce la funzione oggettiva che contrassegna quel singolo negozio, essa tende - nei contratti tipici - ad identificarsi con il tipo negoziale. Per rendersene conto, basta pensare all’art. 1470 che definisce il contratto di compravendita come lo scambio di un bene contro un prezzo, scambio che è al tempo stesso anche la causa del negozio. Come si vede, i due profili - causa e tipo - tendono a sovrapporsi e ciò spiega perché - soprattutto nel dopoguerra - una parte della dottrina ha negato ogni rilevanza al concetto di causa che finirebbe per confondersi con lo stesso contenuto del negozio (nell’esempio fatto, lo scambio è, al tempo stesso, la causa e il contenuto dell’accordo delle parti).

2) Ma vi è di più. L’art. 1343 prevede la nullità del contratto quando la causa sia contraria alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. Orbene, se la causa è la funzione oggettiva cui assolve il negozio, essa, per gli atti previsti e disciplinati dal legislatore, non può mai - per definizione - essere illecita. Una parte della dottrina ha, allora, sostenuto che l’art. 1343 trovi applicazione solo con riguardo ai negozi atipici (cioè quelli inventati dalle parti), ma una tale limitazione è del tutto arbitraria, non trovando essa alcun conforto nel codice.

Posta di fronte a questi problemi, una più moderna teoria - c.d. teoria soggettiva - propone di individuare un nuovo concetto di causa che tenga conto non tanto della funzione che il negozio è in grado di realizzare astrattamente, quanto, soprattutto, della finalità concreta che attraverso esso le parti intendono conseguire: si parla, al riguardo, di «ragione concreta del negozio». In tale prospettiva, la causa sarebbe lo scopo che le parti del negozio vogliono conseguire, scopo che può anche essere diverso da quello che, in astratto, il negozio è di per se in grado di realizzare. Tale impostazione ha risvolti pratici notevoli.

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1) Anzitutto, può accadere che l’atto posto in essere dalle parti - pur avendo in astratto una sua giustificazione - sia concretamente privo di causa. Per comprendere, si pensi all’ipotesi in cui un soggetto vende un bene che è già di proprietà del compratore: in questo caso, le parti hanno posto in essere un negozio che - astrattamente - ha una sua giustificazione, ma che, in termini pratici si rivela privo di utilità, dal momento che esso non può realizzare alcun risultato utile.

2) Tenendo poi conto dello scopo concretamente perseguito dalle parti, sarà possibile affermare l’illiceità della causa anche quando le parti utilizzino un modello delineato dal legislatore. Si pensi, ad esempio, al caso in cui due soggetti pongono in essere un contratto di compravendita, dove il venditore è debitore del compratore e stabiliscono che il trasferimento della proprietà debba avere luogo nel momento in cui il debitore si renda inadempiente. In un caso del genere, pur utilizzando un tipo contrattuale previsto e disciplinato dal legislatore, le parti intendono raggirare il divieto posto dall’art. 2744: lo scopo concretamente perseguito (cioè la causa in senso concreto) è illecito, con conseguente applicabilità dell’art. 1343 anche al negozio tipico (compravendita).

La contrapposizione tra teoria oggettiva e teoria soggettiva, però, può essere riconsiderata77. Il codice, infatti, pur seguendo una concezione oggettiva della causa (come emerge dalla Relazione), offre spunti per una considerazione in senso concreto della causa. Si pensi, ad esempio, alla norma dell’art. 1895 che prevede la nullità del contratto di assicurazione nell’ipotesi in cui il rischio sia venuto meno prima della stipulazione (ad esempio, Tizio assicura contro i furti una collezione di quadri che, però, prima della stipulazione del contratto, è già stata rubata). La nullità prevista dalla norma consegue ad una valutazione di sostanziale inutilità del contratto che non può realizzare la finalità pratica perseguita dalle parti: ciò significa, allora, riferimento alla causa concreta dell’operazione economica che, nel caso di specie, può ritenersi insussistente anche laddove le parti abbiano utilizzato un contratto tipico78. Possiamo, allora, dire che nel codice, il concetto di causa assume, per così dire, un doppio volto: riferita al tipo contrattuale astratto, la causa si presenta ancora come oggettiva funzione economico-sociale che contrassegna quel

77 Cfr. BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, cit., 701.78 Alla stessa conclusione può pervenirsi con riferimento all’art. 1234 che prevede

l’inefficacia del contratto di novazione qualora non esista una obbligazione da estinguere: inefficacia che consegue alla constatazione per la quale, nel caso concreto, il contratto non rivela alcuna utilità pratica. E lo stesso è adirsi per l’art. 1876 il quale dichiara nullo il contratto costitutivo di rendita vitalizia a favore di una persona già morta al momento della stipulazione: anche qui la nullità deriva dalla mancanza di una giustificazione concreta dell’atto.

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determinato tipo, ma scendendo ad esaminare la concreta operazione posta in essere dai soggetti, essa assume una valenza squisitamente soggettiva divenendo la ragione concreta che deve giustificare l’atto di autonomia delle parti79.

6. segue: Il negozio giuridico nella realtà attuale.

La vicenda, qui brevemente accennata, del negozio giuridico conferma la storicità e la relatività di un concetto80 che, peraltro, deve fare i conti con la concreta realtà normativa e con quel diffuso atteggiamento di ostilità nei suoi confronti, tendente, da più parti, ad evidenziarne la inutilità o, peggio, la dannosità.

L’idea del negozio era estranea al codice civile italiano del 1865 che - riflettendo l’impostazione del codice Napoleonico - appariva lontano dagli esiti che la letteratura civilistica tedesca aveva acquisito e che furono trasfusi nel codice tedesco del 1900. Recependo i risultati della raffinata astrazione concettuale della Pandettistica, il legislatore tedesco adottò una «parte generale» destinata alla enunciazione degli istituti fondamentali, tra i quali spicca il negozio giuridico. In coerenza con tale spirito sistematico, la prima sezione è intitolata alle «persone», la seconda alle «cose» e la terza ai «negozi giuridici», questi, a loro volta, suddivisi nella categoria generale ed astratta delle dichiarazioni di volontà all’interno della quale è ricompreso il contratto. Questo assetto rivela una idea di fondo (cara alla Pandettistica): data la unitarietà del soggetto di diritto, si raccolgono in un contesto unico le libere e volontarie attività giuridiche dei privati: dalle dichiarazioni di volontà unilaterali (es. rinuncia al diritto), agli accordi, dagli atti di ultima volontà agli atti tra vivi. Il negozio giuridico, in altre parole, è una categoria nella quale far rientrare ogni attività dell’individuo volta a produrre effetti incidenti sulla sua sfera giuridica. L’opera così realizzata serve, poi, a fissare alcune regole di carattere generale destinate, tra l’altro, a colmare le lacune nella disciplina di singoli istituti.

Quarant’anni dopo la codificazione tedesca, si pose, per gli artefici del nuovo codice civile italiano, il problema se includere tra le categorie del diritto privato quella del negozio giuridico, elevandola a categoria di genere nella quale poi far rientrare, come figure di specie, il contratto, il matrimonio, il testamento e gli atti unilaterali. Si decise di non accogliere esplicitamente la figura e, rovesciando il sistema adottato dal codice tedesco, si fece del contratto la figura

79 Sul punto cfr. G.B. FERRI, Il negozio giuridico tra libertà e norma, cit., 115.80 RESCIGNO, Manuale, cit., 293.

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centrale la cui disciplina - per il tramite della norma dell’art. 1324 - venne estesa (in quanto compatibile) agli atti unilaterali. Il rifiuto del negozio, secondo autorevole dottrina81, era stato suggerito dalla necessità di forgiare figure giuridiche che corrispondessero ai fenomeni economici regolati dal diritto, rifuggendo così da concetti astratti e privi di riscontro concreto.

A questa scelta della nostra codificazione civile si ribellò, però, una cospicua parte della dottrina italiana che reintrodusse, nella manualistica, l’antica figura del negozio giuridico, collocandola nella «parte generale» del sistema e relegando poi il contratto fra le «parti speciali» del diritto civile, accanto al matrimonio e al testamento. In tale opera di sistemazione dogmatica, una parte della normativa dei contratti (quella che si presenta più facilmente riconducibile alla tradizionale figura del negozio giuridico quale dichiarazione di volontà) viene astratta dal contesto suo proprio per diventare, sic et sempliciter, la regolamentazione del negozio giuridico come figura di genere.

Questa operazione, però, non ha ricevuto consensi unanimi e il negozio giuridico rimane ancora oggi al centro di un dibattito tra coloro che ne sostengono l’utilità e coloro che, al contrario, ne contestano la validità, ritenendolo addirittura dannoso.

Sul piano squisitamente ideologico è da segnalare l’opinione di chi82

ricollega, storicamente, la nascita del negozio giuridico ad un preciso contesto politico-economico nel quale la figura costituiva lo strumento di affermazione della nascente classe borghese e che, in quanto tale, è lontano dall’attuale realtà sociale ed economica.

Sul versante, invece, normativo, l’assenza - anche lessicale - del negozio giuridico nel nostro codice è vista come il più significativo indice del ripudio della figura da parte del legislatore del 1942. Posizione questa che, però, è contrastata da chi ritiene che «la teoria del negozio non solo non fosse estranea alle idee del legislatore, ma che anzi su di esse abbia avuto una incidenza e una influenza decisive»83 . A dimostrazione dell’assunto, si nota come nella stessa Relazione al codice, il legislatore - nel motivare la scelta a favore di una disciplina del contratto, piuttosto che di quella del negozio - assume un atteggiamento tutt’altro che ostile o di rifiuto nei confronti della categoria concettuale. Si legge, infatti, nella Relazione (n. 604) che «nella redazione del nuovo codice, in conformità della nostra

81 GALGANO, Il negozio giuridico, cit., 25.82 GALGANO, o.l.u.c.: «La volontà creatrice, che la filosofia del negozio giuridico

esalta, è la volontà della classe sociale che dirige il processo storico: l’esaltazione della volontà, come sola causa efficiente del mutamento giuridico, asseconda la borghesia mercantile nel suo disegno di appropriazione delle risorse».

83 G.B. FERRI, Il negozio giuridico tra libertà e norma, cit., 69.

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tradizione giuridica, non si sono dettate norme per disciplinare il negozio giuridico; invece si è regolato quel negozio giuridico, centro della vita degli affari, che si chiama contratto e, con una disposizione generale (art. 1324), si sono dichiarate applicabili le norme dettate per i contratti agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale» cosa che «non esclude la possibilità di una estensione analogica delle norme applicate, anche ad atti unilaterali di natura non patrimoniale». Sulla scorta di simili affermazioni, questa impostazione dottrinale ritiene che la capacità espansiva della disciplina del contratto agli atti unilaterali tra vivi a contenuto sia patrimoniale che non patrimoniale, fa di esso una sorta di sinonimo di negozio giuridico. Come si vede, dunque, l’idea del negozio - come categoria generale - è tutt’altro che estranea alle concezioni del legislatore del 1942.

Sul piano metodologico, invece, la figura mostra inevitabili cedimenti. Si rileva come «solo la pretesa di dare vita ad una teoria generale del negozio giuridico spiega il tentativo di accomunare manifestazioni di volontà dei privati del tutto eterogenee dal punto di vista della ragion d’essere e della funzione svolta. Disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla propria morte è attività giuridica ben diversa dal vendere o dal donare un bene, così come costituire una società o una comunione non ha nulla a che vedere con il contrarre matrimonio»84. In tale opera di demolizione della figura, poi, si rileva come appaia poco corretto «individuare l’elemento unificante di negozi strutturalmente diversi nella volontà degli effetti, poiché la volontà non è requisito strutturale dell’atto negoziale: semmai un suo presupposto, da cui la legge fa dipendere, entro certi limiti e nel rispetto dell’affidamento del suo destinatario, l’efficacia dell’atto»85.

Se, però, la figura del negozio giuridico sembra destinata inevitabilmente a perdere quel carattere di centralità che essa mostrava nelle costruzioni tradizionali della Pandettistica, tuttavia non può negarsi una sua esistenza, per così dire, «di fatto». La circostanza che essa sia ancora oggetto di attenzione - anche se pure per finalità confliggenti - da parte della dottrina, rivela una sua permanente vitalità, quanto meno da un punto di vista culturale e scientifico. Ed infatti, a più di un secolo dalla sua nascita, il negozio giuridico continua ad essere un capitolo importante della storia giuridica italiana, nonché un passaggio obbligato per la formazione del giurista che, prima o poi, dovrà confrontarsi con esso, per esaltarlo o, al contrario, per denigrarlo. Sul versante della ricerca scientifica, invece,

84 GAZZONI, Manuale, cit., 326.85 MAJELLO, in Istituzioni di diritto privato a cura di Bessone, cit., 72-73.

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la circostanza che una cospicua parte della dottrina italiana ancora faccia riferimento ad esso evidenzia come questa figura - se «debole» sul piano normativo e pratico - comunque, conserva in se le potenzialità per una sua perdurante vitalità.

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CAPITOLO SESTO

L’oggetto del negozio giuridico

SOMMARIO: 1. Breve «excursus» storico del concetto. - 2. La nozione di oggetto del contratto nel codice civile. - 3. I caratteri dell’oggetto del contratto.

1. Breve «excursus» storico del concetto.

Al di là delle questioni meramente teoriche che hanno interessato la nostra dottrina sin dai primi anni del secolo, va notato come l’indagine speculativa relativa alle nozioni di «oggetto» e di «causa» del contratto segnino una delle vicende concettuali più interessanti della teoria negoziale86 i cui echi, allo stato attuale, non risultano ancora completamente spenti87.

86 Si occupano del tema dell’oggetto del negozio, in primis, le trattazioni dedicate al negozio o al contratto in generale, tra cui v. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. di dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1960, 79; F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1962, 128 ss.; CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., 607 ss.; MESSINEO, Il contratto in genere, in Tratt. di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, I, Milano, 1968, 135 ss.; SACCO, Il contratto, in Tratt. di dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1975, 473 ss.; BIANCA, Diritto civile, 3, Milano, 1987, 311 ss.; MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Comm. del cod. civ., IV, Torino, 1961, 125 ss.; GALGANO, Il negozio giuridico, in Trattato di dir. civ. e comm. diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1988. Tra gli scritti specifici dedicati all’argomento, si segnalano: CANNATA, Oggetto del contratto, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 827 ss.; ALPA, Oggetto del negozio, in Enc. giur. Treccani, Roma,1988; Id., in Vita not. 1981, 809; CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966; IRTI, Oggetto del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., XI, 799; CARRESI, Il contenuto del contratto, in Riv. dir. civ., 1963, I, 365; GORLA, La teoria dell’oggetto del contratto nel diritto continentale (Civil law) (Saggio di critica mediante il metodo comparativo), in Jus, 1953, 290. Di notevole interesse si rivelano, altresì, gli studi di: IRTI, Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano, 1967, 128 ss.; FALZEA, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, 300 ss.; OPPO, Note sull’istituzione dei non concepiti, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, 83 ss. Relativamente al dibattito dottrinale svoltosi sotto l’impero del codice abrogato, v. GIORGI, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, III, Firenze, 1907, 606 ss.; PACCHIONI, Dei contratti in generale, Padova, 1939, 73 ss.

87 Cfr. G.B. FERRI, Capacità e oggetto nel negozio giuridico: due temi meritevoli di ulteriori riflessioni, in Quadrimestre, 1989, 9; DE NOVA, L’oggetto del contratto. Considerazioni di metodo, in I contratti di informatica, a cura di Alpa e Zeno Zencovich, Milano, 1987, 22 ss.

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Dispense di diritto privato

Per di più, a rinfocolare il dibattito già di per sé molto acceso, ha contribuito parte della dottrina che, agli inizi del nostro secolo, aveva sussunto nella figura giuridica dell’oggetto alcuni profili propri del concetto di causa, aumentando, così, i molti dubbi ed incertezze interpretative che mettevano in crisi notevolmente il valore operativo del concetto di oggetto del negozio.

In tale direzione, giova ricordare, a titolo esemplificativo, la posizione assunta dal Giorgi88, secondo il quale ciò che viene definito oggetto, quando viene assunto come un quid facti «dotato di sussistenza obbiettiva fuori dell’animo dei contraenti», diventa la causa del contratto, ove essa venga considerata soggettivamente, quale «motivo determinante della volontà di obbligarsi».

In tal modo, in tutta evidenza, la figura giuridica della causa veniva sovrapposta a quella dell’oggetto, considerato non nel senso di cosa - porzione del mondo reale, ma nella più ampia accezione di «contenuto» del contratto.

Corollario di siffatta impostazione diveniva, così, la diretta applicazione della disciplina codicistica della causa (artt. 1119, 1120, 1122 c.c. del 1865) indifferentemente a tale elemento o all’oggetto del negozio.

La teoria, così impostata, non poteva che prestare il fianco a numerose e severe critiche da parte della maggior parte degli studiosi che, manifestando le proprie riserve di fronte ad un impianto concettuale traballante ed ambiguo, non faceva altro che dimostrare come una piana esposizione del concetto non si rivelasse, di per sé, opera di tutto riposo.

Per riprendere, dunque, le fila della faticosa analisi dommatica del concetto di oggetto del negozio giuridico non si può prescindere dal considerare che la prima elaborazione compiuta di esso compariva, nel 1761, nel Traité des obligations del Pothier il quale, nella prima parte di quest’opera, all’article V del Chap. I, Sect. I, trattava «de ce qui peut être l’objet des contracts», e indicava, seppur in modo un po’ nebuloso, l’oggetto nel modo seguente: «Les contracts ont pour objet, ou des choses que l’une des parties contractantes stipule qu’on lui donnera, et que l’autre partie promet de lui donner; ou quelque chose que l’une des parties contractantes stipule que l’on fera ou qu’on ne fera pas, et que l’autre partie promet de faire ou de pas faire»89.

Dal contesto dell’opera si evinceva che l’accezione in cui veniva assunto il termine «objet du contract» riguardava, in tutta evidenza, il complesso dei vincoli obbligatori che legavano le parti senza aver alcun effetto per i terzi cosicché la costruzione dogmatica del Pothier

88 CARIOTA FERRARA, Il negozio giuridico, cit., 606 ss.89 POTHIER, Traité des obligations, Paris, 1761, Chap. I, sect. I, art. 5, n. 53.

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L’oggetto del negozio giuridico

relativamente all’oggetto del contratto, può essere sintetizzata nella identificazione dell’oggetto dello stesso con l’oggetto dell’obbligazione.

Ciò scaturiva, principaliter, dalla impostazione teorica secondo cui, all’epoca, il contratto era ancora una fonte pura di obbligazioni, dal che fondato risulta, invece, alla luce del sistema legislativo vigente che riconosce anche efficacia reale allo strumento contrattuale, il dubbio che tale nozione possa essere ancora valida90.

Successivamente, il codice civile francese del 1804, che conteneva la prima previsione legislativa dell’effetto reale del contratto (art. 1138 c.c.; cfr. artt. 938, 1583, 1703 c.c.) e che, per di più, adottava per il contratto una collocazione sistematica tra i modi di acquisto della proprietà (nel libro III), conservava, tuttavia, la nozione di oggetto proposta dal Pothier91, ricollegando l’effetto reale del contratto all’effetto dell’obbligazione contrattuale (art. 711) di consegnare la cosa, anticipando, in tal modo, l’effetto della traditio al momento del sorgere dell’obbligazione del tradere 92.

Ciò rispondeva palesemente, come è stato autorevolmente notato93, all’idea di matrice ideologica secondo cui «Nul ne peut être contraint de ceder sa propriété», alla quale, anche col temperamento legislativo (art. 545 c.c.: «[...] si ce n’est pour cause d’utilité publique, et moyennant une juste et préalable indennité»), ripugnava un obbligo del proprietario di alienare la sua cosa.

In seguito, nel codice civile del 1865, si riproponevano le medesime formulazioni e, dunque, le medesime questioni interpretative del code civil. Difatti, gli artt. 1116, 1117, 1118 c.c. non rappresentavano altro che la traduzione letterale degli artt. 1128, 1129 e 1130 code civil e, conseguentemente, veniva anche in questa sede operata una «confusione completa»94 tra oggetto del contratto, oggetto dell’obbligazione e oggetto della prestazione.

2. La nozione di oggetto del contratto nel codice civile.

Il codice civile italiano del 1942 - il quale, malgrado certe aperture verso i risultati della Pandettistica e agli atteggiamenti della codificazione tedesca del 1900, è rimasto un codice di stile francese - ha dato all’oggetto del contratto una funzione dommatica ed una

90 Così SACCO, Il contratto, cit., 472.91 Art. 1126 code civ.: «Tout contrat a pour objet une chose qu’une partie s’oblige

à donner, ou qu’une partie s’oblige à faire ou a ne pas faire».92 Cfr., CANNATA, Oggetto del contratto, cit., 828.93 CANNATA, o.c., 828. 94 GIORGI, Teoria delle obbligazioni, IV, Firenze, 1879, 379.

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Dispense di diritto privato

posizione sistematica precisa nell’art. 1325 c.c. ed ha dedicato alle norme sull’oggetto, sintetizzabili nella regola che un contratto è nullo se l’oggetto è impossibile, illecito o indeterminabile95, un‘intera sezione (artt. 1346-1349 c.c.)96.

Essa reca una serie di disposizioni che fanno riferimento, in buona sostanza, all’«oggetto della prestazione» ed assai singolare risulta essere il raffronto tra le rubriche degli articoli, in particolare gli artt. 1347 e 1349, ove si parla di oggetto del contratto, ed il testo corrispondente ove si parla di oggetto della prestazione97 .

Parte della dottrina ritiene, di conseguenza, che le norme citate disciplinino esclusivamente l’oggetto dell’obbligazione, cioè la prestazione dedotta in contratto98.

Parallelamente, il bene che costituisce l’oggetto dell’operazione economica intrapresa dalle parti, è stato considerato da altra parte della dottrina99, sotto due diversi profili: come oggetto del negozio e come oggetto del rapporto; nel primo caso, la determinazione dell’oggetto agisce in funzione degli effetti del negozio; soltanto quando l’oggetto del negozio è determinato può sorgere il rapporto giuridico relativo.

Allo stato attuale, va detto che, tuttavia, ancora non vi è concordia in seno alla dottrina ed alla giurisprudenza sulla nozione in esame.

Secondo alcuni autori, infatti, esso andrebbe ancora identificato con la prestazione100 in quanto la nozione stessa di prestazione, propria dei rapporti obbligatori, può, tuttavia, essere estesa a comprendere non solo ciò che il soggetto si obbliga a fare o a dare , ma anche ogni modificazione della situazione materiale che derivi dall’impegno assunto dalle parti nello stringere il vincolo contrattuale.

In tale ottica, dunque, l’oggetto del contratto sarebbe, in buona sostanza, rappresentato dai comportamenti cui le parti si impegnano, considerati singolarmente e non nel loro collegamento teleologico101.

A siffatta impostazione si contrappone, tuttavia, altro ordine di idee che fornisce una nozione di oggetto del contratto quale oggetto della

95 Cfr. l’art. 20 OR svizzero del 1911.96 Cfr. art. 1126-1130 code civ. di contenuto in parte diversi, ma con posizione

sistematica identica.97 Così ALPA, Oggetto del negozio, cit., 2.98 Così GIORGIANNI, L’obbligazione, I, Milano, 1968, 213 e Id., Obbligazione (dir.

priv.), in Noviss. dig. it., Torino, 1965, 603; CARRESI, Il contenuto del contratto, cit., 365 ss.; DE NOVA, L’oggetto del contratto, cit., 22 ss. In senso critico v., però, BIONDI, Reminiscenze ed esperienze romanistiche in tema di contratto moderno, in Studi in onore di F. Messineo, I, Milano, 1959, 37 ss.; MENGONI, L’oggetto dell’obbligazione, in Jus, 1952, 156.

99 FALZEA, La condizione, cit., 300 ss.100 Così GALGANO, Il negozio giuridico, cit., 199.101 MIRABELLI, Dei contratti in generale, cit., 175.

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L’oggetto del negozio giuridico

volontà delle parti e, dunque, quale contenuto dell’accordo e autoregolamento adottato dalle parti stesse102.

In questo senso il contratto esprimerebbe l’aspetto obiettivo dell’intero contratto e si porrebbe in una posizione strumentale e intermedia, realizzando la trasformazione della situazione giuridica iniziale in quella finale103.

Altri studiosi, infine, ribadendo che oggetto del contratto è il bene (o la cosa) che mediante il contratto stesso diventa materia di trasferimento o di godimento, aggiungono che, così inteso, l’oggetto si distinguerebbe dalla (e contrapporrebbe alla) prestazione che, essendo riferita esclusivamente al contenuto al rapporto obbligatorio, costituisce il comportamento al quale il soggetto debitore è tenuto104.

Alla luce di tale imponente e fecondo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, preferiamo, tuttavia, in ultima analisi, ai fini della determinazione dell’oggetto del negozio, operare un collegamento tra quest’ultimo e l’oggetto dei diritti per affermare come, in tutta evidenza, l’oggetto in parola coincida, nonostante tutte le incertezze terminologiche del codice, con la prestazione qualora si abbia riguardo ai diritti relativi che originano dal predetto atto mentre, per converso, esso si identifichi nel bene (o cosa), nel caso in cui si prendano in considerazione i diritti assoluti derivanti dallo strumento negoziale de quo.

Va, inoltre, rilevato che, ad onta del dettato legislativo che annovera, come ricordavamo, tra gli elementi essenziali del negozio, l’oggetto in parola, riteniamo opportuno in questa sede concordare con la migliore dottrina105 che, in tema negoziale, precisa come, in realtà, così come avviene per il rapporto giuridico, il negozio giuridico interceda tra soggetti e abbia un oggetto.

Così intesi, soggetti e oggetto non diventano, a rigore, elementi del negozio e tanto meno requisiti del medesimo, «ma restano semplicemente i termini fra i quali il negozio si forma: sebbene necessari per l’esistenza del negozio sono non dentro ma fuori del negozio medesimo»106.

Tanto i soggetti che l’oggetto, però, debbono essere pur sempre idonei ad assolvere questa funzione e, dunque, solo in questo senso

102 SACCO, Il contratto, cit., 476.103 SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in generale, in Comm. del cod. civ. a cura di

Scialoja e Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, art. 1321-1352, Bologna-Roma, 1970, 352.

104 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, I, 2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1986, 689 ss.

105 F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, cit., 129.106 F. SANTORO PASSARELLI, o.l.u.c.

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Dispense di diritto privato

può parlarsi correttamente di requisiti soggettivi ed oggettivi dell’oggetto ex art. 1346 c.c.

3. I caratteri dell’oggetto del contratto.

Come già accennato, per l’oggetto del contratto si prescrivono nel nostro codice civile i caratteri della liceità, possibilità, determinatezza e determinabilità.

Ad eccezione di quest’ultimo, i primi due sono comuni a quelli previsti per la causa e per la condizione. Pertanto, si ritiene pacificamente in dottrina ed in giurisprudenza che quando già la causa sia reputata illecita o impossibile sia del tutto superfluo appurare i caratteri dell’oggetto e viceversa107.

Tuttavia, i più numerosi problemi interpretativi sono scaturiti proprio relativamente alla ricorrenza del carattere dell’illiceità dell’oggetto, che ha raccolto intorno a sé il maggior contenzioso.

A tal proposito, è stato precisato in sede dottrinale108 che il requisito della liceità o della illiceità non va riferito al bene in sé per sé, ma alla prestazione, cioè all’attività dei soggetti e, dunque, al contenuto degli atti di autonomia che i privati pongono in essere.

In quest’ottica è stato, pertanto, in giurisprudenza, ritenuto nullo il contratto di appalto relativo alla costruzione di un immobile in assenza di concessione edilizia per contrasto con le norme imperative vigenti in materia urbanistica, che subordinano l’esercizio dell’attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio al preventivo rilascio di apposita concessione del sindaco109.

Analogamente, è stata considerata nulla la clausola statutaria di una cooperativa che preveda l’esclusione del socio che fomenti discordie e dissidi nella compagine sociale110.

Relativamente, poi, all’impossibilità dell’oggetto, è stato rilevato che essa, contemplata quale causa di nullità del negozio ad opera degli artt. 1346 e 1418 c.c., non può essere fatta derivare da una semplice difficoltà della prestazione, ma solo dalla sua impossibilità materiale e giuridica, di carattere obiettivo e non meramente soggettivo111.

107 MIRABELLI, Dei contratti in generale, cit., 177.108 BIGLIAZZI GERI, BRECCIA, BUSNELLI e NATOLI, Diritto civile, cit., 837.109 Trib. Cagliari, 18 novembre 1988, in Riv. giur. sarda, 1990, 443.110 App. Milano, 14 ottobre 1988, in Giur. it., 1989, I, 2, 204.111 Così Cass., 15 febbraio 1971, n. 369, in Mass. Giust. civ., 1971, 209, riferita

alla pretesa impossibilità dell’oggetto del contratto con cui era stato alienato ad un terzo il diritto di sopraelevazione di un edificio. In tal caso, l’impossibilità è stata esclusa in quanto l’OPPOsizione degli altri condòmini era giuridicamente superabile in base alle pattuizioni accettate nei singoli atti di acquisto, nei quali essi si erano

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Più delicato diviene, però, il compito di delimitare la nozione di impossibilità quando si debba stabilire se trattasi di oggetto non suscettibile di commercio ovvero di oggetto privo delle qualità essenziali o affetto da vizi, per le diverse conseguenze che dall’atto di valutazione discendono: nel primo caso, infatti, il negozio deve essere dichiarato nullo; nel secondo, il rimedio è la risoluzione per inadempimento112.

obbligati ad acconsentire a tutte le opere di rafforzamento per eventuali sopraelevazioni.

112 MIRABELLI, Dei contratti in generale, cit., 178.

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CAPITOLO SETTIMO

Rilevanza, efficacia, validità giuridica

SOMMARIO: 1. L’effetto giuridico. - 2. Efficacia e perfezione. - 3. Validità, invalidità e

inefficacia.

1. L’effetto giuridico.

L’ordinamento ricollega determinate conseguenze giuridiche al verificarsi di certi accadimenti. Se Tizio, ad esempio, danneggia l’automobile di Caio, la legge ricollega a tale comportamento, come conseguenza giuridica, l’obbligo di Tizio di risarcire il danno a Caio. Ancora. Se Tizio conclude un contratto con Caio con il quale vende a costui la propria casa (dietro il pagamento di un prezzo), la legge ricollega a tale atto il trasferimento della proprietà dal venditore al compratore. L’evento al quale la legge ricollega conseguenze giuridiche prende il nome di fatto giuridico.

I termini di questo meccanismo sono, allora, due: da un lato, un evento che ha una sua consistenza materiale (cioè che è percepibile dai sensi) e, dall’altro, l’effetto giuridico, cioè una entità che non è percepibile dai sensi e che nasce e vive solo nel mondo del diritto. E così, mentre il contratto di compravendita è un quid reale, concreto, l’effetto che da esso deriva (cioè il trasferimento della proprietà) costituisce un fenomeno che ha consistenza solo ideale, impercettibile: è, come si dice, una creazione del diritto. Ad una entità reale consegue una entità ideale:

a) l’accadimento materiale, come si è detto, prende il nome di fatto giuridico e può essere rappresentato da un evento naturale (ad esempio, l’abbandono da parte di un fiume del suo alveo produce, come conseguenza giuridica, l’acquisto della proprietà dell’alveo stesso da parte dei proprietari dei fondi limitrofi) o da un evento umano (è il caso, ad esempio, del danneggiamento dell’automobile o della stipula di un contratto). Nell’ambito dei fatti giuridici umani si distinguono poi, i c.dd. atti giuridici, cioè comportamenti ai quali la

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Rilevanza, efficacia, validità giuridica

legge ricollega effetti giuridici nella misura in cui essi siano stati posti in essere con coscienza e volontarietà. Nell’ambito degli atti giuridici, poi, si distinguono i negozi giuridici e gli atti giuridici in senso stretto. La distinzione attiene proprio al meccanismo attraverso il quale l’ordinamento ricollega al comportamento effetti giuridici. Nei negozi giuridici, infatti, la legge ricollega all’atto quegli effetti che le parti volevano conseguire mediante il compimento dell’atto stesso. Ad esempio, nel caso della compravendita, l’effetto che si produce è quello del trasferimento della proprietà, effetto che le parti intendevano conseguire con la stipula del negozio. Viceversa, nel caso dei c.dd. atti giuridici in senso stretto l’ordinamento ricollega conseguenze predeterminate, prescindendo dalla specifica intenzione del soggetto autore dell’atto. E così, ad esempio, nel caso della confessione, la legge prevede la produzione di certi effetti, anche se questi non erano voluti dal dichiarante;

b) l’effetto giuridico (che, ripetiamo, è solo una entità ideale, astratta, priva di una consistenza materiale) può, di volta in volta, assumere connotazioni diverse. Può trattarsi della nascita di un obbligo, dell’acquisto o dell’estinzione di un diritto (si pensi alla vicenda che si origina a seguito della morte di un soggetto) o della costituzione di un diritto reale di godimento. Per esprimere, sinteticamente, l’insieme degli effetti giuridici riconnessi al verificarsi di un accadimento, si dice che la legge ricollega ai diversi eventi la nascita o la modifica o l’estinzione di situazioni giuridiche soggettive.

Nell’ambito degli effetti giuridici, particolare rilievo assume, poi, l’effetto consistente nella nascita di una obbligazione, cioè nel dovere imposto ad un soggetto (c.d. debitore) di tenere un certo comportamento (di fare o dare o non fare) per realizzare l’interesse di un altro soggetto (c.d. creditore). L’art. 1173 ricollega la nascita di obbligazioni a tre categorie di eventi: il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto o fatto considerato idoneo ad essere causa di un’obbligazione. Queste categorie di eventi prendono il nome di fonti delle obbligazioni e il rapporto che intercorre, ad esempio, tra un contratto ed un’obbligazione è un rapporto di causa-effetto: il contratto è l’accadimento al verificarsi del quale la legge ricollega, come conseguenza, la nascita dell’obbligazione. In altre parole, il contratto è la fonte da cui scaturisce l’obbligazione. Ma analogo discorso vale per il fatto illecito: il danneggiamento di un’altrui automobile rappresenta l’accadimento al quale la legge ricollega la nascita di un obbligo di risarcimento: ancora una volta, il rapporto è di causa-effetto.

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Dispense di diritto privato

Resta da precisare un profilo. Il concetto di efficacia deve essere distinto da quello di rilevanza. Come si è detto altrove113, un certo accadimento (naturale o umano) assume rilevanza giuridica quando viene preso in considerazione dall’ordinamento che ricollega ad esso effetti giuridici. Occorre, adesso, precisare, che può sussistere rilevanza giuridica anche nell’ipotesi in cui l’ordinamento non ricolleghi immediatamente effetti giuridici ad un certo accadimento, ma lo consideri idoneo a produrre tali effetti nel futuro (c.d. potenzialità degli effetti)114. Facciamo un esempio. Prima della morte del de cuius, il testamento non produce effetti: possiamo, però, dire che esso è giuridicamente irrilevante? La risposta sembra essere negativa. La legge, infatti, consente al testatore, prima della morte, di revocare il negozio testamentario così presupponendo un atto che - sebbene inefficace - ha già una sua rilevanza giuridica, essendo in grado di produrre effetti nel futuro. La revoca, infatti, come atto destinato a cancellare un precedente atto, intanto ha un senso se si ammette che il testamento ante mortem, pur essendo inefficace, ha rilevanza per il diritto. L’esempio dimostra come possono esservi, allora, atti inefficaci, ma giuridicamente rilevanti, in considerazione della loro idoneità ad essere considerati, nel futuro, come presupposto per l’attribuzione di effetti giuridici.

2. Efficacia e perfezione.

Se, adesso, focalizziamo l’attenzione su quel particolare fatto giuridico che è il negozio, possiamo dire che con il termine efficacia si intende l’idoneità del negozio a produrre gli effetti voluti dalle parti. In termini diversi, possiamo dire che l’efficacia del negozio è la conseguenza che l’ordinamento ricollega all’atto posto in essere dai privati ritenuto idoneo ad essere fonte degli effetti voluti dalle parti.

Alla efficacia si contrappone l’inefficacia del negozio espressione con la quale si indica la condizione del negozio che non può produrre effetti o per cause che sono già presenti al momento della sua nascita o per fattori sopravvenuti. In entrambi i casi, l’inefficacia consegue ad un giudizio di inidoneità dell’atto (operato dall’ordinamento) ad essere fonte degli effetti perseguiti dalle parti.

Tanto l’efficacia quanto l’inefficacia sono nozioni distinte rispetto al concetto di perfezione. Invero, la legge richiede - ai fini della produzione di certi effetti - che l’atto presenti dei requisiti di struttura

113 Vedi il capitolo dedicato all’esame delle situazioni giuridiche soggettive.114 Sul punto cfr. DI GIANDOMENICO, Il testamento a bordo di nave o di aeromobile:

una rarità interessante, in Riv. not., 1996, I, 357 ss.

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Rilevanza, efficacia, validità giuridica

minimi: quando questi requisiti sono venuti ad esistenza, si dice che l’atto è perfetto. Ad esempio, il contratto di compravendita è perfetto quando è stato raggiunto l’accordo sul bene da trasferire e sul prezzo. Nella generalità dei casi, poi, l’atto perfetto è anche efficace. Non mancano, però, ipotesi in cui l’atto perfetto è inefficace: si pensi, ad esempio, al negozio sottoposto a condizione sospensiva. In questo caso, al momento della conclusione del negozio l’atto è perfetto (cioè, presenta tutti i requisiti di struttura richiesti dalla legge), solo che le parti hanno subordinato la produzione degli effetti al verificarsi di un evento futuro ed incerto, con la conseguenza che fino a quando tale evento non si verifica, il negozio (benché perfetto) non sarà in grado di produrre effetti.

Con riguardo al momento della perfezione, tradizionalmente, si distinguono due tipologie di negozi.

a) negozi consensuali.Si dicono consensuali quei negozi per la cui perfezione basta il

semplice accordo delle parti, manifestato nei modi previsti dalla legge. In altre parole, il negozio è giuridicamente esistente fin dal momento in cui le parti si sono accordate in ordine ad una certa vicenda. E così, ad esempio, il contratto di compravendita è un negozio consensuale perché, ai fini della sua giuridica esistenza, non occorre altro che l’incontro dei consensi delle parti autrici del negozio: quando questi si sono accordate sul bene e sul prezzo, automaticamente la proprietà del bene si trasferisce al compratore.

b) negozi reali.Diversa è la categoria del negozio reale: in questo caso, il negozio

può dirsi perfezionato solo quando è stata effettuata la consegna di una cosa da un soggetto ad un altro. Prima di questo momento non esiste giuridicamente alcun negozio e, di conseguenza non potrà prodursi alcun effetto. Su pensi, ad esempio al mutuo: solo quando il mutuante consegna al mutuatario la somma di denaro, può dirsi che il contratto è venuto ad esistenza e scatta l’obbligo per il mutuatario di restituzione. Ma si pensi, altresì, al comodato: solo quando avviene la consegna della cosa dal comodante al comodatario può dirsi esistente il negozio.

Con riguardo, invece, agli effetti che la legge ricollega al compimento di un negozio giuridico, possiamo distinguere altre due tipologie di negozi.

a) negozi ad effetti reali.

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Dispense di diritto privato

La categoria del negozio ad effetti reali abbraccia tutti quei negozi che producono, come effetto, il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto115: si pensi, ad esempio, alla compravendita oppure alla costituzione o al trasferimento del diritto di usufrutto o, ancora, alla cessione di un credito. È bene, tra l’altro, sottolineare che l’espressione contratto ad effetti reali non deve indurre in errore, facendo ritenere che oggetto di questi contratti possa essere solo la costituzione o il trasferimento di diritti reali. Anche la cessione di un diritto di credito o di un diritto personale di godimento, infatti, rientra in questa categoria, che abbraccia così un amplissimo ventaglio di ipotesi116.

b) negozi ad effetti obbligatori.La categoria del negozio ad effetti obbligatori comprende tutte le

ipotesi in cui il negozio si pone quale fonte per la nascita di un vincolo obbligatorio, creando - e non trasferendo - diritti relativi: si pensi, ad esempio, al contratto preliminare, il quale obbliga le parti a concludere un (successivo) contratto definitivo ovvero al contratto di lavoro che obbliga ad una determinata prestazione dietro il corrispettivo. Il negozio ad effetti obbligatori costituisce, in definitiva, una fonte delle obbligazioni.

La distinzione tra negozio ad effetti reali e negozio ad effetti obbligatori non deve essere confusa con quella tra negozio consensuale e negozio reale: invero, come detto, la prima distinzione attiene agli effetti che derivano dal negozio, mentre la seconda attiene al momento in cui il negozio può dirsi perfezionato e in grado di produrre effetti. E le due distinzioni possono intrecciarsi, nel senso che:

a) il negozio consensuale può essere, in taluni casi, ad effetti reali (es. compravendita, permuta) e, in altri, ad effetti obbligatori (es. contratto preliminare, contratto di lavoro)

b) così come il negozio reale può essere, talvolta, ad effetti reali (es. art. 1548 in caso di riporto) e, talvolta, ad effetti obbligatori (vedi, ad esempio, l’art. 1766 in caso di deposito regolare che, a differenza del deposito irregolare contemplato dall’art. 1782, non prevede il trasferimento della proprietà della cosa depositata ma solo l’obbligo di custodirla e poi restituirla in natura)117 .

3. Validità, invalidità e inefficacia.

115 GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 1987, 96.116 GAZZONI, o.c., 97.117 GAZZONI, o.l.u.c.

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Rilevanza, efficacia, validità giuridica

La categoria della inefficacia si ricollega, come detto, alla inidoneità dell’atto di autonomia negoziale a produrre effetti giuridici. Trattasi di una nozione ampia che deve essere precisata.

Cominciamo col dire che l’efficacia è una nozione distinta rispetto a quella di validità118 che indica la corrispondenza dell’atto posto in essere dalle parti al modello astratto delineato dal legislatore: in altri termini, il negozio contiene tutti gli elementi costitutivi e questi non sono viziati o illeciti. L’efficacia, invece, attiene alla produzione degli effetti dell’atto.

Da questa diversità di nozioni consegue che l’invalidità non comporta sempre l’inefficacia del negozio. L’invalidità (intesa come difformità dell’atto dal modello astratto), infatti può consistere nella nullità, quando il negozio è privo di uno dei requisiti essenziali previsti dal codice o nella annullabilità, quando il negozio (strutturalmente perfetto) è posto in essere da un soggetto incapace o la cui volontà sia viziata da errore, dolo o violenza.

Nel caso di nullità, il negozio non produce effetti. E così la vendita di un immobile realizzata oralmente è nulla ed è inidonea a trasferire la proprietà dal venditore al compratore. Nel caso, invece, del negozio annullabile (si pensi, ad esempio, al negozio concluso da un soggetto in errore), l’atto produce effetti, anche se, poi, questi - a seguito di una pronuncia del giudice - vengono meno sin dal giorno della conclusione. Come si vede, nel caso dell’annullabilità, si è in presenza di un negozio invalido, ma efficace, ciò che conferma l’autonomia delle due nozioni.

Il negozio nullo e quello successivamente annullato dal giudice non producono effetti, sono, cioè, inefficaci. Si parla, al riguardo, di inefficacia in senso lato, figura che, però, ha un valore solo descrittivo: essa, più che una categoria autonoma, rappresenta un modo di essere del negozio invalido che, nella sua genericità, accomuna ipotesi disparate.

Autonoma, invece, si presenta la categoria dell’inefficacia in senso stretto, la quale indica la situazione del negozio (valido) che è incapace di produrre effetti per cause già esistenti al momento alla sua nascita o per fattori sopravvenuti. Così intesa, l’inefficacia in senso stretto rappresenta un genus entro il quale sono poi ravvisabili ipotesi diverse.

a)Inefficacia originaria.Si parla di inefficacia originaria per indicare quelle ipotesi in cui il

negozio non produce effetti sin dal momento della sua conclusione, a

118 Sul punto, BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1987, 496 ss.

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Dispense di diritto privato

causa della sussistenza di fattori impeditivi facenti parte della sua struttura. Si consideri, ad esempio, il negozio sottoposto a condizione sospensiva: in questo caso, l’atto (di per sé valido) è incapace di produrre effetti a causa della presenza di un elemento (la condizione) che è coevo alla sua nascita e che si pone quale fattore che impedisce la produzione di effetti. Nell’esempio, l’inefficacia consegue ad una precisa volontà delle parti, ma talvolta essa può dipendere dalla stessa legge che attribuisce ad un evento futuro ed incerto l’attitudine ad eliminare un impedimento, per la tutela di altri interessi che sovrastano quelli particolari degli autori del negozio. Si consideri, ad esempio, le ipotesi in cui la legge richiede un’autorizzazione amministrativa per la stipula di un negozio: se le parti concludono il negozio, questo non produrrà effetti fino a quando non sarà acquisito l’atto amministrativo. Si tratta di casi che la dottrina ricomprende sotto la categoria della condicio iuris.

b) Inefficacia sopravvenuta.Si parla di inefficacia sopravvenuta per indicare le ipotesi in cui il

negozio - originariamente efficace - perde i suoi effetti a causa del sopravvenire di talune circostanze. Nella inefficacia sopravvenuta, dunque, si assiste ad una vicenda complessa: il negozio nasce valido e produttivo di effetti, ma, in un momento successivo, si verifica un fatto in grado di eliminare gli effetti già prodotti e di impedire la loro produzione per il futuro. Le ipotesi più frequenti sono quelle riconducibili al verificarsi della condizione risolutiva, alla scadenza del termine finale, alla risoluzione, alla rescissione, alla revoca dell’atto di disposizione o alla riduzione della donazione lesiva di legittima. E così, ad esempio, nell’ipotesi in cui un legittimario sia stato escluso dalla successione di un suo congiunto, potrà agire per ottenere la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni, così facendo venir meno alle stesse quella efficacia loro attribuita al momento dell’apertura del testamento. Ricordiamo, peraltro, che la causa sopravvenuta può essere rappresentata sia da un mero comportamento materiale (es. l’inadempimento, nel caso della risoluzione) che da un negozio giuridico: si pensi, ad esempio, al caso in cui le parti di un negozio, con un nuovo accordo, decidono di far venire meno il rapporto che si era costituito sulla base del primo atto.

È importante, però, una precisazione. Nell’inefficacia sopravvenuta ciò che viene meno sono gli effetti e non l’atto da cui essi scaturiscono e ciò a differenza, ad esempio, della annullabilità dove viene meno direttamente l’atto e, consequenzialmente, gli effetti. Per comprendere: quando si verifica la riduzione delle disposizioni testamentarie, ciò che viene meno sono gli effetti (cioè l’attribuzione

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Rilevanza, efficacia, validità giuridica

dei diritti successori) e non il negozio testamentario che rimane in vita continuando, eventualmente, ad essere fonte delle disposizioni non ridotte. Viceversa, nel caso di annullamento, viene meno totalmente l’atto testamentario e, con esso, ogni effetto.

L’inefficacia sopravvenuta può realizzarsi, poi, in forme diverse a seconda dei fatti che ad essa danno luogo. Possiamo, al riguardo, distinguere le seguenti ipotesi:

b.1) la caducazione degli effetti può avvenire, anzitutto, in modo automatico: ciò si verifica nei casi in cui la legge attribuisce ad un fatto sopravvenuto un valore caducatorio immediato. Si pensi, ad esempio, alla c.d. revoca legale del testamento per la sopravvenienza di figlio o al verificarsi della condizione risolutiva;

b.2) la caducazione degli effetti, invece, in altri casi, richiede l’intermediazione della sentenza del giudice, come nel caso, ad esempio, della risoluzione giudiziale. Qui, la legge richiede un controllo dell’organo giudiziario per verificare la sussistenza dei presupposti ai quali l’ordinamento ricollega la caducazione degli effetti.

c) Inefficacia assoluta e inefficacia relativa.Una distinzione importante è, poi, quella che attiene ai soggetti nei

cui confronti si produce il fenomeno della inefficacia. Vi sono, infatti, delle ipotesi in cui l’atto si presenta inefficace solo rispetto a determinati soggetti ed efficace rispetto ad altri. Facciamo un esempio. Sappiamo che, quando un soggetto contrae un’obbligazione, i creditori, in caso di inadempimento, possono aggredire il suo patrimonio e, mediante una complessa procedura, vendere i suoi beni e soddisfarsi sul ricavato. Può accadere, però, che il debitore, prima dell’inadempimento, ceda un suo bene ad un terzo, con la conseguenza che, poi, in caso di inadempimento, i creditori si troveranno di fronte ad un patrimonio insufficiente a soddisfare le proprie ragioni. Per scongiurare questo pericolo, la legge consente a costoro di rivolgersi al giudice mediante la c.d. azione revocatoria ed ottenere una dichiarazione di inefficacia dell’atto dispositivo, con la conseguenza che il bene si considera come mai uscito dal patrimonio del debitore e, perciò, suscettibile di essere aggredito dai creditori. Nell’ipotesi, però, che ad agire con l’azione revocatoria sia solo uno dei creditori, la dichiarazione di inefficacia gioverà solo a costui, nel senso che, rispetto agli altri, l’atto di disposizione si considera efficace e costoro non potranno aggredirlo. Questa ipotesi esemplifica bene il concetto di inefficacia relativa: l’accoglimento dell’azione revocatoria (proposta solo da alcuni creditori) crea la delicata situazione per cui uno stesso atto (quello di disposizione) si presenta inefficace per

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Dispense di diritto privato

taluni soggetti ed efficace per altri. Per converso, l’inefficacia assoluta è quella in cui l’atto si presenta inefficace nei confronti di tutti o, come si dice, erga omnes. Il negozio sottoposto a condizione sospensiva, prima del verificarsi di questa, è inefficace verso chiunque.

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CAPITOLO OTTAVO

Diritti della personalitàe tutela giuridica della persona umana

Il problema del riconoscimento e della tutela dei diritti della persona umana o diritti della personalità1 va affrontato e risolto a livello politico, sociale e giuridico. Prescindendo dai primi due aspetti valutativi, limiteremo in questa sede il piano dell'indagine esclusivamente all'aspetto giuridico.

Prodromico all'argomento della tutela e, in particolare, all'esame dei mezzi di tutela, civili e penali, preventivi e risarcitori, consentiti dall'ordinamento, appare affrontare le problematiche relative all'inquadramento concettuale di tali diritti, all'individuazione dei loro caratteri essenziali, all'aspetto della ricostruzione teorica della categoria in termini unitari o pluralistici ed, infine, all'individuazione delle singole figure a cui l'ordinamento assicura protezione.

In passato, per lungo tempo, risultò piuttosto difficile inquadrare a livello concettuale una categoria di diritti da assoggettare a tutela giuridica che non risultasse, al contempo, suscettibile di valutazione economica ed altresì suscettibile di apprensione materiale. Nei diritti della personalità, invece, l'interesse da proteggere si atteggia in modo diverso da quanto accade nei diritti reali e nei diritti di credito. I beni che l'individuo mira a proteggere non si trovano collocati all'esterno della propria persona bensì ineriscono alla sua individualità fisica o morale2. I diritti della personalità si configurano, quindi, come diritti a carattere non patrimoniale e relativi a beni immateriali ed immanenti all'essere umano, secondo quella che, in termini moderni,

1 Tale terminologia si suole far risalire a Otto Gierke, il quale, sul finire del XIX secolo, dedica notevole attenzione alla categoria dei Personlichkeitsrechte nel suo Deutsches Privatrecht, Leipzing, 1895. L'impostazione data da Gierke appare fondamentale per i futuri sviluppi del dibattito a livello europeo anche perché l'autore coglie il duplice aspetto inerente la personalità dell'individuo: uno strettamente morale ed uno a carattere patrimoniale.

2 Il carattere dell'estraneità alla persona del bene tutelato non è più considerato un elemento indispensabile del diritto protetto. La stessa evoluzione del sistema giuridico porta ad accogliere quelle opinioni che ammettono una tendenza normativa che appare espressione di una concezione della persona umana non più relegata al tradizionale campo dell'avere ma proiettata verso il campo dell'essere dell'individuo.

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Dispense di diritto privato

è la concezione della persona umana comunemente diffusa nelle legislazioni dei paesi più evoluti3.

Al contrario di quanto avviene per i diritti a contenuto patrimoniale, che sono (generalmente) oggetto di libera disposizione da parte dei privati, i quali possono trasferirli, rinunziarvi ed anche perderli per non uso protratto per il tempo stabilito dalla legge o quando un terzo li usucapisca (sempre nell'ambito dei limiti di operatività degli istituti della prescrizione estintiva e dell'usucapione), ai diritti della personalità, in via di principio, a causa dei caratteri fondamentali che contraddistinguono la categoria, non si estende questa disciplina.

Tuttavia oggigiorno si assiste ad una larga utilizzazione «economica» dei diritti della personalità che potrebbe ingenerare, in un quadro normativo carente ed incerto, una facile confusione, superabile solo ove si consideri che gli attributi della personalità possono presentare una duplicità di interessi: sia patrimoniali, sia non patrimoniali. Solo questi ultimi sono ricompresi nella categoria dei diritti della personalità.

Le caratteristiche tradizionali dei diritti della personalità sono: l'assolutezza, l'inviolabilità, l'indisponibilità, l'irrinunciabilità, l'intrasmissibilità, l'imprescrittibilità.

Il carattere dell'assolutezza garantisce una tutela esercitabile erga omnes, cioè nei confronti di qualsiasi altro membro della collettività. Conseguenziale alla loro inviolabilità è l'aspetto dell'indisponibilità che non consente di disporne liberamente. Infine, ulteriore aspetto caratterizzante tale categoria di diritti è l'imprescrittibilità dell'azione diretta a far valere il diritto contro ogni fatto lesivo.

A ben guardare, tuttavia, secondo una parte della dottrina, si rintraccerebbero delle ipotesi normative di disponibilità, rinunciabilità e trasmissibilità. Si fa riferimento, per esempio, al principio del consenso dell'avente diritto, nonché alle numerose disposizioni che conferiscono a talune categorie di soggetti la possibilità di agire in giudizio a tutela di alcuni aspetti della personalità del defunto o consentono di fare valere in ogni tempo dopo la morte dell'autore il diritto morale all'integrità dell'opera4.

Per quanto riguarda poi l'imprescrittibilità bisogna chiarire che secondo una parte della dottrina è senz'altro vero che il soggetto non può perdere la titolarità dei diritti in questione, mentre altra cosa è la

3 Infatti le origini della categoria dei diritti della personalità vanno rintracciate nelle esigenze di tutela degli aspetti morali dell'essere umano in relazione ad interessi che non rivestono natura patrimoniale, bensì costituiscono estrinsecazione di profili immateriali dell'individuo.

4 Queste ipotesi, riconducibili nell'ambito del fenomeno successorio, vengono definite come fattispecie di successione ex lege, nelle quali la volontà del de cuius assume ben poca rilevanza.

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Diritti della personalità e tutela giuridica della persona umana

prescrittibilità dell'azione risarcitoria (ove sia proponibile) per i fatti illeciti commessi contro la personalità dell'individuo. In pratica, una parte della dottrina mette in guardia dai rischi derivanti da un'illusoria imprescrittibilità del diritto, quando poi sono quasi sempre prescrittibili le azioni poste a sua tutela5.

Tornando alla ricostruzione dogmatica della categoria, in dottrina si è discusso a lungo circa l'esistenza di un unico e generale diritto della personalità ovvero sull'esistenza di una pluralità di (singoli) diritti della personalità, quanti la legge ne contempla o il giudice ne individua nella complessa vastità dell'ordinamento giuridico vigente.

La prima concezione (cd. monistica) trova il suo spunto in un ideale parallelo con il diritto di proprietà, diritto a carattere assoluto, esercitabile erga omnes, che, seppur nella sua essenziale unitarietà, si esplica, dal punto di vista contenutistico, in una indefinita pluralità di facoltà. All'accoglimento di tale concezione appare conseguenziale un inquadramento riduttivo della tutela della persona umana che, invece, alla luce dell'evoluzione storico-sociale, richiede una protezione sempre più intensa.

E' per queste ragioni che nell'ambito del sistema attualmente in vigore la tutela dei diritti della personalità trova terreno fertile nell'avvicinamento al contesto normativo dei c.dd. fatti illeciti. Infatti, il principio dell'atipicità dell'illecito, ricavabile dall'art. 2043 c.c., consente, proprio in virtù della clausola generale di responsabilità extracontrattuale, di tutelare in maniera sempre più ampia le espressioni della personalità dell'uomo. La concezione c.d. pluralistica si atteggia, quindi, in una dimensione espansionistica, consentendo in una visione in prospettiva un sempre possibile ampliamento della sfera di protezione che circonda l'individuo, permettendo di estenderla alla luce delle sopravvenute esigenze e di adeguarla alle continue modificazioni tipiche della società moderna, che crea sempre nuove insidie a pregiudizio dei diritti della personalità dell'individuo.

La tutela apprestata dall'ordinamento si sviluppa a vari livelli. A livello civile il legislatore ha disciplinato gli atti di disposizione del proprio corpo (art. 5 c.c.), il diritto al nome (art. 6 c.c.), il diritto all'immagine (art. 10 c.c.), oltre alla protezione accordata in generale (ex art. 2043 c.c.) contro le attività effettuate in violazione del fondamentale principio di convivenza del neminem laedere. A livello penale il legislatore tutela, tra gli altri, il diritto alla vita, alla incolumità fisica, alla libertà personale, all'onore e alla reputazione. Al

5 Riguardo alle azioni a tutela del nome appare possibile affermare la loro imprescrittibilità per gli evidenti risvolti in ordine alla esatta identificazione degli individui.

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riguardo si pensi alle norme del codice penale che puniscono le varie ipotesi di omicidio (artt. 575, 579, 584, 589 c. p.), le lesioni (art. 582 c. p.), le percosse (art. 581 c. p.), il sequestro di persona (artt. 606, 639 c. p.), l'ingiuria (art. 594 c. p.), la diffamazione (art. 595 c. p.). A livello costituzionale, l'art. 2 dichiara in modo espresso che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'essere umano, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove egli esplica la sua personalità, tutelando in tal modo con questa formula aperta ogni espressione ed ogni interesse collegato alla realizzazione della personalità dell'uomo. Oltre al citato art. 2 va ricordata l'importanza fondamentale dell'art. 3 che esprime il principio dell'uguaglianza formale (comma 1) e sostanziale (comma 2) tra i cittadini, degli artt. 13 e seguenti concernenti le libertà fondamentali, in particolare l'art. 14 sulla inviolabilità del domicilio e l'art. 15 sulla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, dell'art. 32 in materia di salute dei cittadini e dell'art. 41 nella parte in cui vieta l'iniziativa economica che rechi danno alla libertà ed alla dignità umana. A livello internazionale, infine, possiamo ricordare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948 e La Convenzione Europea dei diritti dell'uomo del 1950.

Quanto alle singole figure, positivamente disciplinate o individuate dalla giurisprudenza nell'ambito dell'ordinamento vigente, va menzionato in primis il diritto alla vita6. L'art. 5 c.c. vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando siano contrari alla legge, all'ordine pubblico ed al buon costume (si consideri tuttavia l'eccezione legislativa costituita dalla donazione del rene).

Riceve tutela, anche a livello costituzionale (art. 22), il diritto al nome (art. 6 c.c.)7. L'art. 7 c.c. appresta una duplice protezione esperibile, sia in caso di contestazione del diritto all'uso del proprio nome (c.d. azione di reclamo), sia in caso di uso indebito che altri ne faccia con pregiudizio dell'effettivo titolare (cd. azione di usurpazione), tramite richiesta giudiziale di cessazione del fatto lesivo e sempre salvo il risarcimento dei danni. Il successivo art. 8 legittima all'esercizio dell'azione di reclamo e dell'azione di usurpazione anche colui che, pur non portando il nome oggetto di contestazione o di uso indebito, abbia tuttavia alla tutela del nome un interesse fondato su

6 La tutela civilistica del diritto alla vita appare senz'altro inadeguata. Sull'argomento v. CAPIZZANO, Vita ed integrità fisica, in Noviss. dig. it., XX, Torino, 1975; CHERUBINI, Tutela della salute e cd. atti di disposizione del corpo, in Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978, 71.

7 Sul diritto al nome v. F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali diritto civile, Napoli, 1966, 50; N. COVIELLO, Il nome della persona, in Dir. fam., 1986, 278.

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ragioni familiari degne di essere protette. L'art. 9 c.c., infine, rinviando a quanto disposto dall'art. 7, tutela lo pseudonimo8 quando quest'ultimo è usato da una persona in modo tale da acquistare l'importanza del nome.

L'art. 10 c.c., contemplando il diritto all'immagine9, chiude il breve catalogo dei diritti positivamente previsti. Tale norma stabilisce che nel caso in cui l'immagine di una persona, dei genitori, del coniuge o dei figli sia esposta o pubblicata al di fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione è consentita dalla legge, oppure con pregiudizio al decoro o alla reputazione delle persone indicate, l'autorità giudiziaria, su richiesta dell'interessato, può disporre che cessi l'abuso, salvo il risarcimento dei danni.

Oltre a queste figure positivamente contemplate dal codice civile è possibile rinvenire altri diritti della personalità considerati meritevoli di tutela. Così avviene per il diritto all'onore, al decoro ed alla reputazione10, per il diritto alla riservatezza11, cioè all'intimità della vita privata (cd. privacy), per il diritto alla identità personale12, cioè il diritto ad essere se stessi, per il diritto alla salute13 , per il diritto alla integrità fisio-psichica14 .

Spostando l'attenzione sugli strumenti di tutela apprestati dal nostro ordinamento a protezione dei diritti della personalità, deve ammettersi che essi non appaiono molto efficaci15 in quanto non

8 Cfr. PIAZZA, Pseudonimo, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 893.9 In dottrina si segnala C. SCOGNAMIGLIO, Il diritto di utilizzazione economica del

nome e dell'immagine delle persone celebri, in Dir. inf., 1988, 1. In giurisprudenza v. Cass., 10 novembre 1979, n. 5790, in Giur. it., 1980, I, 1, 432.

10 Sul diritto all'immagine v. ZENO ZENCOVICH, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Napoli, 1985; RICCIUTO, La valutazione del danno alla reputazione ed i criteri di determinazione del quantum nei recenti orientamenti giurisprudenziali, in Dir. inf., 1988, 321.

11 V. GIORGIANNI, La tutela della riservatezza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, 13; P. RESCIGNO, Il diritto all'intimità della vita privata, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, IV, Napoli, 1973, 119.

12 Sull'argomento v. ALPA, BESSONE e BONESCHI, Il diritto all'identità personale, Padova, 1981.

13 In tema di diritto alla salute v. Corte cost., 7 maggio 1991, n. 341 e 18 luglio 1991, n. 356. Sul danno «biologico» v. Corte cost., 30 giugno 1986, n. 184. In dottrina v. DOGLIOTTI, Danno biologico e diritto alla salute tra Corte Costituzionale e Cassazione, in Giur. it., 1982, I, 1, 920; ALPA, Danno «biologico» e diritto alla salute. Una ipotesi di applicazione diretta dell'art. 32 Cost., in Giur. it., 1976, I, 2, 433; BUSNELLI e GARBAGNA, La valutazione del danno alla salute, Padova, 1988.

14 La problematica è sorta soprattutto in relazione al fenomeno del cd. transessualismo. In dottrina v. M. MANTOVANI, Legge 14 aprile 1982 n. 164: norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, in Nuova giur. civ. comm., 1985, II, 1; PATTI, Mutamento di sesso e tutela della persona, Padova, 1986.

15 In altri ordinamenti sono previsti mezzi di tutela diversi. Ad esempio il sistema francese conosce il rimedio delle astreintes consistente nel pagamento di una somma di denaro che aumenta progressivamente parallelamente al protrarsi del fatto lesivo.

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Dispense di diritto privato

sempre consentono: a) di prevenire la lesione del diritto; b) il risarcimento in forma specifica; c) la globale riparazione dei pregiudizi subiti.

Questa situazione dipende principalmente da due ordini di ragioni: innanzitutto dalla natura stessa di tali diritti, che ha reso difficile l'applicazione degli schemi tradizionali e, in secondo luogo, dalla diffusa convinzione che trattandosi di aspetti «inestimabili» dell'essere umano, compensarne la lesione con una somma di denaro equivarrebbe a svilirne il contenuto.

L'ordinamento consente, innanzitutto, al soggetto leso la possibilità di rivolgersi al giudice per chiedere la cessazione del comportamento lesivo. Tuttavia la sentenza inibitoria del giudice non sempre serve concretamente ad impedire che il predetto comportamento continui.

Esiste poi la possibilità di pubblicare su uno o più giornali la sentenza per ordine del giudice, oppure la c.d. rettifica cui ha diritto il soggetto che si sia visto attribuire la paternità di comportamenti o di espressioni non rispondenti al vero. La rettifica si atteggia come una sorta di risarcimento in forma specifica e deve avere la stessa diffusione che ha avuto la notizia falsa che essa mira a correggere.

Esiste, altresì, la possibilità di agire per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., con la possibilità di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. Rimane fermo, tuttavia, il limite della patrimonialità del danno da risarcire, essendo il danno non patrimoniale risarcibile solo nei casi previsti dalla legge (art. 2059 c.c.), in particolare in caso di reato (art. 185 c.p.)16 .

Un ulteriore aspetto che merita attenzione è quello concernente la tempestività dell'intervento che l'ordinamento consente a tutela dei diritti della personalità. Molto spesso, infatti, solo la cessazione immediata del comportamento lesivo è in grado di eliminare o arginare il pregiudizio. In tale contesto si inserisce la possibilità dell'intervento del giudice con un provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c.17 . Infatti, il soggetto interessato può rivolgersi al giudice

16 La problematica del danno non patrimoniale è oggetto di vivace e sempre attuale dibattito. In dottrina si è cercato di superare la lettura restrittiva dell'art. 2059 c.c. operata dalla giurisprudenza. In tal senso cfr. R. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale, in Riv. dir. civ., 1957, I, 277; RAVAZZONI, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962; BONILINI, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983; BONILINI, CENDON, PARADISO, SALVI e TOMMASINI, Danno patrimoniale e non patrimoniale: una distinzione ancora valida?, in Dir. inf., 1986, 769.

17 Le prospettate notevoli difficoltà che caratterizzano un'adeguata tutela risarcitoria hanno portato frequentemente al ricorso al provvedimento di natura cautelare previsto dall'art. 700 c.p.c. Tuttavia, anche questo percorso solleva notevoli dubbi, in relazione alla funzione tipica dello strumento cautelare. Sull'argomento v. ARIETA, I provvedimenti d'urgenza, Padova, 1982; CHIEFFI, Tutela cautelare e diritti di rilievo costituzionale (aspetti problematici), in Giur. cost., 1986, I, 2577.

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Diritti della personalità e tutela giuridica della persona umana

chiedendo un provvedimento provvisorio (che la legge non individua specificamente lasciandone la scelta al prudente apprezzamento del giudice), idoneo ad evitare che, durante il tempo occorrente per il giudizio in via ordinaria, il diritto sia leso da un pregiudizio imminente ed irreparabile. In tal modo, è possibile assicurare provvisoriamente, nelle more del giudizio, gli effetti della decisione sul merito.

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Stampato nel mese di ottobre 2002