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1 Parte 1 CENTRALIZZAZIONE E DECENTRALIZZAZIONE DELL’USO DELLA FORZA SEZIONE 1 L’USO DECENTRALIZZATO DELLA FORZA 1. Lo sviluppo dei meccanismi normativi di controllo dell’uso della forza è frutto di una evoluzione recente dell’ordinamento internazionale. È infatti opinione diffusa che il diritto internazionale nel secolo XIX fosse caratterizzato da un regime di libertà di ciascuno stato nel decidere il ricorso alla forza. La discrezionalità degli stati sarebbe stata assoluta. Di conseguenza uno stato avrebbe potuto impiegare la forza per qualsiasi motivo o a tutela di qualsiasi interesse. 2. Il divieto di uso della forza è stato stabilito, sul piano convenzionale, dall’art.2 par.4 della Carta delle Nazioni Unite: “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. L’inserimento nella Carta del divieto di uso della forza rappresenta l’incontro di due orientamenti. Il primo di impronta idealista che vedeva nel divieto l’espressione compiuta della kantiana pace universale. Il secondo vedeva nel divieto dell’uso della forza l’unica possibile forma di controllo sociale dei conflitti. Secondo quest’ultimo orientamento il divieto dell’uso della forza rappresenta l’unica possibile tutela nei confronti di abusi perpetrati dagli stati più forti. Questa norma è stata riconosciuta corrispondente al diritto internazionale consuetudinario, vincolante per tutti i soggetti della comunità internazionale, e non solo per gli stati parte delle Nazioni Unite. 4. Il divieto di uso della forza indica come l’uso unilaterale della forza, ed il rischio di abusi che vi si accompagna, sia un meccanismo socialmente incontrollabile, capace di mettere in pericolo la stabilità e la sicurezza collettiva. Per questa ragione l’ordinamento sceglie di limitare l’azione unilaterale degli stati anche qualora il ricorso alla forza appaia l’unica forma efficace per garantire i propri diritti ed interessi. Attraverso il divieto dell’uso della forza, l’ordinamento internazionale esprime un particolare assetto di valori. Esso indica come l’interesse collettivo alla stabilità del sistema prevalga, in caso di conflitto, sull’interesse individuale degli stati a realizzare coattivamente le proprie posizioni soggettive. Per poter funzionare efficacemente, il divieto di uso della forza necessita di garanzie normative particolari. Infatti la norma che stabilisce il divieto ha rango gerarchico superiore rispetto alle altre norme internazionali ordinarie, essa ha dunque carattere cogente. 5. Non è semplice determinare il contenuto del divieto di uso della forza. La norma ha un nucleo ben definito consistente nel proibire azioni di aggressione. Una questione di liceità si apre a proposito di: rappresaglie armate, interventi a tutela di cittadini all’estero, interventi umanitari ed interventi per combattere il terrorismo. a) Le rappresaglie armate, hanno uno scopo retributivo nel senso che esse sono condotte in risposta ad un illecito altrui, al fine di infliggere un costo sociale per tale illecito. Le rappresaglie armate sono coperte dal divieto di uso della forza anche qualora siano condotte in risposta ad un attacco armato.

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Parte 1 CENTRALIZZAZIONE E DECENTRALIZZAZIONE DELL’USO DELLA FORZA

SEZIONE 1 L’USO DECENTRALIZZATO DELLA FORZA 1. Lo sviluppo dei meccanismi normativi di controllo dell’uso della forza è frutto di una evoluzione recente dell’ordinamento internazionale. È infatti opinione diffusa che il diritto internazionale nel secolo XIX fosse caratterizzato da un regime di libertà di ciascuno stato nel decidere il ricorso alla forza. La discrezionalità degli stati sarebbe stata assoluta. Di conseguenza uno stato avrebbe potuto impiegare la forza per qualsiasi motivo o a tutela di qualsiasi interesse. 2. Il divieto di uso della forza è stato stabilito, sul piano convenzionale, dall’art.2 par.4 della Carta delle Nazioni Unite: “i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla

minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di

qualsiasi stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.

L’inserimento nella Carta del divieto di uso della forza rappresenta l’incontro di due orientamenti. Il primo di impronta idealista che vedeva nel divieto l’espressione compiuta della kantiana pace universale. Il secondo vedeva nel divieto dell’uso della forza l’unica possibile forma di controllo sociale dei conflitti. Secondo quest’ultimo orientamento il divieto dell’uso della forza rappresenta l’unica possibile tutela nei confronti di abusi perpetrati dagli stati più forti. Questa norma è stata riconosciuta corrispondente al diritto internazionale consuetudinario, vincolante per tutti i soggetti della comunità internazionale, e non solo per gli stati parte delle Nazioni Unite. 4. Il divieto di uso della forza indica come l’uso unilaterale della forza, ed il rischio di abusi che vi si accompagna, sia un meccanismo socialmente incontrollabile, capace di mettere in pericolo la stabilità e la sicurezza collettiva. Per questa ragione l’ordinamento sceglie di limitare l’azione unilaterale degli stati anche qualora il ricorso alla forza appaia l’unica forma efficace per garantire i propri diritti ed interessi. Attraverso il divieto dell’uso della forza, l’ordinamento internazionale esprime un particolare assetto di valori. Esso indica come l’interesse collettivo alla stabilità del sistema prevalga, in caso di conflitto, sull’interesse individuale degli stati a realizzare coattivamente le proprie posizioni soggettive. Per poter funzionare efficacemente, il divieto di uso della forza necessita di garanzie normative particolari. Infatti la norma che stabilisce il divieto ha rango gerarchico superiore rispetto alle altre norme internazionali ordinarie, essa ha dunque carattere cogente. 5. Non è semplice determinare il contenuto del divieto di uso della forza. La norma ha un nucleo ben definito consistente nel proibire azioni di aggressione. Una questione di liceità si apre a proposito di: rappresaglie armate, interventi a tutela di cittadini all’estero, interventi umanitari ed interventi per combattere il terrorismo.

a) Le rappresaglie armate, hanno uno scopo retributivo nel senso che esse sono condotte in risposta ad un illecito altrui, al fine di infliggere un costo sociale per tale illecito. Le rappresaglie armate sono coperte dal divieto di uso della forza anche qualora siano condotte in risposta ad un attacco armato.

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b) Gli interventi a tutela dei cittadini all’estero. Interventi armati per liberare ostaggi detenuti all’estero sono stati operati soprattutto da stati occidentali. Sovente l’azione è stata realizzata senza il consenso dello stato territoriale ed anzi a volte in aperto dissenso da questo. A tal proposito la Corte ha affermato l’incompatibilità di uno strumento esecutivo di autotutela con la procedura di soluzione giudiziaria della controversia.

c) Gli interventi umanitari. Meno consistente è la prassi relativa agli interventi umanitari. Per interventi umanitari si intende l’intervento operato sul territorio di uno stato al fine di arrestare massicce violazioni dei diritti fondamentali operate da tale stato nei confronti della propria popolazione. Taluni stati occidentali tendono a giustificare interventi armati unilaterali in situazioni di grave crisi umanitarie. È tuttavia difficile parlare di uso minore della forza, dato che in questi casi l’intervento si sempre realizzato con un uso massiccio delle armi e con il chiaro intento di provocare un mutamento del regime ritenuto direttamente o indirettamente responsabile delle violazioni dei diritti umani. Un intervento militare necessario a fermare un regime che ponga in essere violazioni dei diritti umani, qualora i meccanismi di sicurezza collettiva si dimostrino inadeguati, costituirà un atto illecito, pur se necessario ad assicurare il rispetto delle più elementari regole della convivenza umana.

d) Interventi per combattere il terrorismo. La risposta armata nei confronti di bande terroristiche non va confusa con le forme di reazione nei confronti di stati accusati di utilizzare il terrorismo o dare sostegno a gruppi terroristici. Per queste azioni sembra più appropriata la qualificazione di rappresaglie armate. Alla luce del divieto dell’uso della forza tali azioni sono state considerate dalla Corte illecite.

6. Unica eccezione al divieto di uso della forza è la legittima difesa. L’art.51 la definisce come un diritto naturale. Lo stato che agisce in legittima difesa deve notificare la propria azione al consiglio di sicurezza, e può agire solo fintantoché questi non abbia adottato le misure necessarie per il ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. La legittima difesa è quindi configurata come una sorta di misura provvisoria, atta a consentire un primo intervento difensivo dello stato. Uno stato ha quindi il diritto di usare la forza a titolo di legittima difesa entro i limiti previsti da questo istituto, sia quando il sistema decisionale istituzionale sia bloccato dal meccanismo del veto, sia quando il consiglio non interviene per scelta politica. Presupposto essenziale per l’esercizio della legittima difesa è costituito dall’esistenza di un attacco armato. L’uso della forza è lecito solo in presenza di un attacco armato e nella misura necessaria per respingerlo. La prassi è univoca nel ritenere che la nozione di attacco armato comprenda innanzitutto i classici casi dell’aggressione di carattere territoriale realizzata da uno stato, attraverso l’utilizzazione di mezzi militari. Secondo la Corte internazionale di giustizia la nozione di attacco armato comprende altresì forme di aggressione indiretta, operate da bande paramilitari che operino sul territorio di uno stato per conto e sotto il controllo di un altro stato. L’istituto della legittima difesa è esattamente definito da due elementi uno di fatto, l’esistenza dell’attacco armato, ed uno di diritto, la facoltà giuridica di utilizzare la forza al fine di respingerlo. L’uso della forza è quindi consentito se necessario a respingere un attacco armato e nella misura proporzionale a tale scopo. Nell’ambito della questione relativa alla possibilità di ricondurre alla legittima difesa le reazioni agli attacchi terroristici, si inserisce il problema della legittima difesa preventiva. Il

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problema consiste nel vedere se uno stato possa agire con misure implicanti l’uso della forza nella fase antecedente un attacco armato. In ragione del rischio di abuso insito nell’istituto della legittima difesa preventiva, la dottrina che la giustifica tende a stabilire delle condizioni rigorose e esige l’esistenza di un nesso stringente di prossimità fra ‘azione e l’attacco che essa è tesa a prevenire. L’art.51 della Carta delle Nazioni Unite prevede che la legittima difesa possa essere esercitata anche in maniera collettiva. L’esercizio del diritto di autodifesa collettiva, da parte di stati terzi, necessita di una richiesta di aiuto da parte dello stato attaccato. Tale limite ha la funzione di evitare che stati terzi possano prendere a pretesto la vicenda ed utilizzare la forza per propri fini, diversi dall’esigenza di prestare aiuto a favore dello stato attaccato.

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SEZIONE 2 I MECCANISMI ISTITUZIONALI DI AMMINISTRAZIONE DELLA FORZA: IL SISTEMA DELLE NAZIONI UNITE. 1. Al divieto dell’uso unilaterale della forza corrisponde l’istituzione di un sistema centralizzato di amministrazione della forza. 2. L’Assemblea generale è composta dai rappresentanti di ciascuno stato membro. Le risoluzioni dell’Assemblea generale sono adottate a maggioranza semplice, ovvero, per questioni importanti, inserite in un apposito elenco, con i due terzi dei votanti. L’Assemblea generale può discutere ogni questione relativa al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e fare raccomandazioni. Tali poteri, però, incontrano dei limiti: il primo limite è stabilito dall’art.12 che prevede che l’assemblea generale non debba fare raccomandazioni riguardo ad una controversia o situazione qualora se ne stia occupando il consiglio di sicurezza, al quale spetta priorità in tema di mantenimento della pace e della sicurezza; un secondo limite è stabilito dall’art.11 che prevede che qualsiasi questione per la quale si renda necessaria un’azione deve essere deferita al consiglio di sicurezza. Esso delinea una competenza esclusiva del consiglio in tema di azioni. Possiamo però affermare che la competenza dell’assemblea ad adottare azioni è talora invocata in alternativa a quella del consiglio in caso di inazione di questo. 3. Il CONSIGLIO DI SICUREZZA è formato da 15 membri, di cui 5 hanno lo status di membro permanente. I restanti sono eletti dall’assemblea generale fra gli stati membri delle nazioni unite. Per quanto riguarda le delibere aventi ad oggetto questioni di procedura, vengono adottate con 9 voti su 15. Per l’adozione di decisioni relative ad ogni altra questione è necessario che fra i9 voti favorevoli vi siano i voti dei 5 membri permanenti. La composizione ed il sistema decisionale del consiglio di sicurezza riflettono l’ineguaglianza fra gli stati membri. Alcuni di essi hanno il diritto di bloccare il procedimento decisionale ed impedire al consiglio di agire. Dato che il consiglio è l’organo che possiede la competenza esclusiva ad utilizzare la forza, l’esercizio del diritto di veto da parte dei membri permanenti equivale a dire che la forza non può essere usata in maniera contraria alla volontà di una delle grandi potenze. 4. Il consiglio ha la responsabilità principale nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Competenze specifiche del consiglio sono descritte dal capitolo 6 della carta, che ne disciplina la funzione conciliativa, e dal capitolo 7 che ne disciplina l’esercizio del meccanismo accentrato di uso della forza. Il capitolo 6 riguarda controversie la cui continuazione sia suscettibile di porre in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Il consiglio dispone di un potere di inchiesta che gli consente di fare indagini su qualsiasi controversia o situazione al fine di determinare se la sua continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

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5. Il capitolo 7 concerne, situazioni di minaccia alla pace, di rottura della pace e di atti di aggressione e conferisce al consiglio la competenza esclusiva ad utilizzare i meccanismi accentrati di amministrazione della forza internazionale. I presupposti di azione del consiglio sono contenuti nell’art.39 “il consiglio di sicurezza accerta

l’esistenza di una minaccia alla pace, di un atto d’aggressione e fa raccomandazioni o decide

quali misure debbano essere prese per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza

internazionale”.

La discrezionalità del consiglio corrisponde alla natura politica e all’accertamento delle situazioni che comportano una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Essa tuttavia non è illimitata. Gli atti del consiglio infatti devono essere conformi alla carta. Fra i presupposti di azione del consiglio, l’esistenza della minaccia alla pace è quello maggiormente indeterminato. Soprattutto negli anni ’90 il concetto di minaccia alla pace ha subito una grande evoluzione fino a comprendere situazioni di emergenza umanitaria. L’estensione di tale nozione ha avuto quindi, come effetto, l’assunzione da parte del consiglio di responsabilità al di la dell’ambito del mantenimento della pace, ed ha consentito in taluni casi una reazione istituzionalizzata a violazioni gravi dei valori fondamentali della comunità internazionale. 6. Una volta accertata l’esistenza di minaccia alla pace, il consiglio può fare raccomandazioni o decidere di agire con misure coercitive. Gli articoli 41 e 42 della carta definiscono rispettivamente le misure non implicanti e quelle implicanti l’uso della forza. Ai sensi dell’art.41 il consiglio può decidere l’adozione da parte degli stati di misure non implicanti l’uso della forza. Nella prassi recente il consiglio ha indirizzato misure sanzionatorie direttamente nei confronti di individui il cui comportamento sarebbe stato all’origine dell’esistenza di una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Il consiglio ha adottato questo tipo di sanzioni individuali soprattutto in relazione ad episodi di terrorismo. Il contenuto delle misure è rimasto circoscritto al divieto di ingresso sul territorio degli stati membri e a forme di congelamento dei beni. All’art.41 della carta può essere ricondotta l’istituzione da parte del consiglio di sicurezza di tribunali penali internazionali aventi l’incarico di reprimere i comportamenti degli individui resisi colpevoli di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Tale possibilità è conferita al consiglio in relazione al fatto che il consiglio ha non solo il compito di mantenere la pace ma può anche reprimere e pervenire gravi violazioni di interessi fondamentali della comunità internazionale (ed è proprio a perseguire quest’ultimo obbiettivo che viene svolta l’attività dei tribunali penali internazionali) . 7. l’art.42 della carta è la disposizione alla base del sistema di sicurezza collettivo: “ se il consiglio

di sicurezza ritiene che le misure previste nell’art.41 siano inadeguate o si siano dimostrate

inadeguate, esso può intraprendere con forze aeree navali o terrestri ogni azione che sia

necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale…”

l’art. 42 prefigura quindi un modello accentrato della forza. Per quanto riguarda le modalità con le quali siano stati esercitati i poteri conferiti al consiglio dall’art 42 i modelli sono essenzialmente 2: il primo è quello della costituzione di forze delle nazioni unite messe a disposizione dagli stati membri (idea accentrata dell’uso della forza). Il

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secondo è quello della delega del potere di utilizzare la forza a favore degli stati (idea decentrata dell’uso della forza). 8. Le forze delle nazioni unite sono classificate a seconda degli scopi che perseguono e delle funzioni loro assegnate. Si distinguono in:

a) Le forze di peacekeeping (forze di mantenimento della pace), hanno la caratteristica di essere stanziate sul territorio con il consenso delle parti al fine di prevenire azioni belliche o di sorvegliarne la cessazione. Esse non hanno il potere di usare le armi se non in situazioni di autodifesa. Sono costituite sulla base di accordi tra il segretario generale e gli stati che intendono cooperare all’iniziativa.

b) Le forza di peace-enforcing (forze che hanno lo scopo di imporre coercitivamente condizioni di pace e sicurezza). Talvolta il consiglio ha costituito forze aventi lo scopo di imporre il ristabilimento della pace. Azioni di questo tipo, hanno costituito semplicemente l’estensione del mandato affidato in precedenza a forze di mantenimento della pace (peacekeeping).

c) Azioni di post conflict peace building ( forze che assicurano la sicurezza nella fase di ricostruzione che fa seguito ad un conflitto armato).

9. L’incapacità del consiglio di realizzare direttamente operazioni militari di ampia portata hanno indotto quest’ultimo ad avvalersi di una diversa modalità di intervento, consistente nell’autorizzare gli stati ad usare la forza per le finalità e con le modalità da esso indicate. Con il modello delle autorizzazioni si sviluppa quindi un modello decentrato dell’uso della forza. Al consiglio rimane la fase normativa, relativa all’accertamento delle condizioni che esigono l’impiego della forza e dell’individuazione dei soggetti e degli strumenti ai quali demandare il compito di mantenere o ripristinare le condizioni di pace e sicurezza internazionale. Al consiglio spetta inoltre la funzione di controllo delle operazioni militari. Le autorizzazioni all’uso della forza sono state impiegate a partire dagli anni ’90. Le autorizzazioni sono concesse per un fine determinato, il cui perseguimento rende legittimo l’impiego della forza e si indirizzano agli stati. L’azione armata è condotta dagli stati ai quali spetta decidere l’intensità della forza necessaria e le modalità operative dell’azione, mentre il controllo sul loro operato è esercitato dal consiglio. L’istituto delle autorizzazioni ha avuto il suo apogeo negli anni ’90. Successivamente in relazione ad abusi verificatisi, il ricorso alle autorizzazioni si è fato più raro. Per quanto riguardo la compatibilità del modello delle autorizzazioni rispetto alla carta, occorre distinguere fra i casi in cui l’autorizzazione all’uso della forza concerne attività che sarebbero comunque lecite e i casi in cui l’autorizzazione costituisce l’unico fondamento di liceità di attività altrimenti illecite. Una prima categoria di autorizzazioni del primo tipo (comunque lecite) concerne ipotesi nelle quali l’uso individuale della forza autorizzata dal consiglio sarebbe stato lecito anche a titolo di legittima difesa. Un discorso diverso vale per quegli interventi di carattere umanitario che non hanno altro fondamento che l’autorizzazione del consiglio. Possiamo desumere quindi che qualora l’azione non si fondi solo sull’autorizzazione del consiglio ma abbia fondamento anche nel diritto generale non vi sono motivi x negare la legittimità dell’autorizzazione. Diverso è il caso in cui l’autorizzazione costituisce l’unico fondamento di liceità per l’azione militare ad opera degli stati. Il diritto internazionale generale tende ad ammettere la liceità dell’uso della forza allorché esso sia operato nel quadro istituzionale delle nazioni unite. Ne dovrebbe conseguire che le

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azioni autorizzate dal consiglio vengono considerate come raccordate al sistema delle nazioni unite, quindi lecite a condizione che rispettino tutti i limiti usualmente posti dal diritto generale all’impiego della forza. 10. In diritto internazionale a differenza di quanto non accada negli ordinamenti statali , la concentrazione del monopolio dell’uso della forza in capo al consiglio non ha come conseguenza che il consiglio possa utilizzare la forza ogni qualvolta essa sia necessaria come strumento di attuazione del diritto. L’uso della forza è riservato ai casi di minaccia alla stabilità e alla sicurezza internazionale.

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SEZIONE 3 LE ORGANIZZAZIONI REGIONALI, IN PARTICOLARE LA NATO 1. Il sistema di sicurezza collettivo stabilito dalla carta è completato dalle organizzazioni regionali. La carta non definisce ne la nozione ne il procedimento di stabilimento delle organizzazioni regionali. Si tratta di organismi creati attraverso accordi che raggruppano stati appartenenti ad una data area geopolitica e capaci di riprodurre i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione universale delle nazioni unite, la carta prevede che le organizzazioni regionali possano svolgere alcune funzioni, coordinandone l’esercizio con quello svolto dagli organi delle nazioni unite. L’art.52 attribuisce alle organizzazioni regionali competenza nel campo del regolamento pacifico delle controversie. La disposizione sembrerebbe assegnare loro priorità di intervento rispetto alle attività operate dalle nazioni unite, ed esprime un favore verso forme locali di composizione dei conflitti. La disposizione dell’art.53 prevede che il consiglio di sicurezza possa utilizzare sotto la propria direzione, organismi regionali per azioni coercitive, delegando quindi ad essi attività implicanti l’uso della forza. La disposizione precisa che nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organismi regionali senza l’autorizzazione del consiglio di sicurezza. La seconda disposizione dell’art.53 indica, che in assenza di delega, un intervento ad opera di organismi regionali non è compatibile con la carta. 2. La NATO (organizzazione del trattato dell’atlantico del nord) venne istituita dal trattato di Washington del 4 aprile 1949, raggruppava originariamente i soli paesi dell’Europa occidentale e dell’America del nord. Durante il secondo dopo guerra essa aveva essenzialmente, la funzione di predisporre una forma di coordinamento militare fra gli stati occidentali da contrapporre all’unione sovietica e al blocco dei paesi dell’Europa orientale raggruppati nel patto di Varsavia. La NATO dunque non è nata come organizzazione regionale ma come organizzazione di autodifesa collettiva. All’indomani della sua istituzione, gli stati membri della NATO hanno posto in essere attraverso atti di esecuzione del trattato, un complesso apparato militare, con forze assegnate permanentemente all’alleanza, dotandolo di un sistema di basi militari e di un comando unificato. Tali atti hanno posto le basi per una trasformazione della natura politica e giuridica dell’alleanza. Una nuova dottrina strategica è stata adottata dalla NATO di Lisbona nel 2010. Il nuovo documento strategico sembra accentuare ulteriormente il ruolo della NATO nella gestione di crisi internazionali. Esso sembra affermare la competenza dell’organizzazione ad operare sia nella fase antecedente l’insorgere di una crisi, sia nella fase successiva. L’evoluzione della NATO non ha riguardato soltanto l’allargamento dei presupposti e degli obiettivi della sua azione, ma anche l’ampliamento dell’originaria area di intervento, nella quale i meccanismi militari dell’alleanza erano destinati ad operare. La trasformazione della NATO da organizzazione di autodifesa collettiva a struttura di gestione delle crisi su base globale, solleva una serie di problemi. I recenti atti e comportamenti assunti dalla NATO non sembrano fondati sul diritto internazionale attuale, ma sembrano, piuttosto, presupporre un superamento di tale disciplina a favore di un assetto che consenta un diritto di azione unilaterale in termini più ampi rispetto al sistema della carta.

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Parte 2 LA FUNZIONE NORMATIVA

CAPITOLO 1

IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE SEZIONE 1 LA CONSUETUDINE 1. Negli ordinamenti statali contemporanei, il compito di produrre norme dotate di portata generale è prevalentemente affidato ad organi centrali. Alla consuetudine spetta un ruolo assolutamente marginale. Diversa è la situazione nell’ordinamento internazionale, nel quale l’assenza di autorità sociali paragonabili allo stato e l’assenza di una funzione legislativa accentrata, fanno si che la massima parte delle norme a portata generale siano prodotte attraverso la consuetudine. Il diritto consuetudinario rappresenta nell’ordinamento internazionale il sostrato normativo comune che lega fra loro i vari regimi particolari di diritto convenzionale e da ad essi consistenza ordinamentale. La consuetudine è una fonte a formazione decentralizzata, in quanto si forma non ad opera di un’autorità sociale, bensi degli stessi consociati. Ciò non implica però che essa sia espressione del consenso dei consociati ad essere vincolati alla norma. Secondo la teoria dell’obiettore persistente, uno stato non sarebbe vincolato da una norma consuetudinaria alla formazione della quale esso avrebbe manifestato la propria opposizione. Non di rado tuttavia norme consuetudinarie sono invocate proprio nei confronti di stati che non solo non hanno partecipato ma che hanno contrastato il loro processo di formazione. 2. la consuetudine è caratterizzata da due elementi costitutivi: un elemento oggettivo, dato dalla ripetizione uniforme nel tempo di una data condotta, la diuturnitas, ed un elemento soggettivo, dato dalla convinzione collettiva che tale condotta sia una regola giuridica, l’opinio iuris. La consuetudine dunque inverte la relazione logica che esiste fra una regola e il comportamento che essa disciplina. È il comportamento a condizionare la norma nel senso che la norma si deduce dai comportamenti che sono posti in essere al fine di costituirne osservanza. 3. È possibile distinguere tre modelli che spieghino la formazione delle varie categorie di regole consuetudinarie:

1) Un primo modello è dato dal modello dualista. Esso si fonda sulla combinazione di prassi e di opinio iuris, concepiti come fattori di produzione del diritto consuetudinario.

2) Un secondo modello, che tende ad accentuare il carattere volontarista nella formazione di certe norme consuetudinarie, si fonda sulla ricerca dell’equilibrio fra interessi contrapposti ed evidenzia una dinamica fra la pretesa di alcuni stati e la resistenza o l’acquiescenza di altri.

3) Un terzo modello di carattere logico, tende a considerare la formazione del diritto consuetudinario come combinazione di valori e principi normativi.

Il primo modello è composto da quelle norme che sorgono in virtù di una graduale convergenza della condotta degli stati verso modelli comportamentali che si rivelino idonei a

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soddisfare esigenze della vita di relazioni internazionali. Questo è il modo attraverso il quale si sono formate la maggior parte delle consuetudini internazionali. La sedimentazione di un flusso di comportamenti consente all’interprete di ricostruire la regola che la comunità internazionale considera idonea al fine di disciplinare determinati rapporti. Diverso è il discorso per norme consuetudinarie che nascono attraverso repentine pretese degli stati di realizzare i propri interessi, ai quali si contrappongono interessi di altri stati. In questi casi le norme consuetudinarie sorgono sulla base di comportamenti concentrati in un lasso di tempo piuttosto breve, ai quali si accompagna la reazione degli altri membri della comunità, che ne evidenzia l’acquiescenza o la contestazione. In tale modello le regole nascono e si evolvono attraverso l’interazione fra le pretese avanzate da taluni stati e l’acquiescenza o la resistenza di altri stati. Talune norme si formano sulla base di un compromesso fra i vari stati. Un terzo modello, che acquista rilievo nei momenti di ricambio rapidissimo del diritto internazionale, è quello che ammette l’esistenza di norme generali in assenza di precedenti, qualora rispondenti ai mutati bisogni sociali della comunità internazionale. 5. E’ difficile operare una distinzione fra prassi e opinio iuris. Nella ricostruzione della prassi, una certa difficoltà emerge quanto alle manifestazioni che contribuiscono a formarla. Mentre pochi dubbi esistono sul fatto che un comportamento positivo contribuisce a formare la prassi, è più dubbio quale sia il valore da riconoscere ad un comportamento di tipo negativo. Ciò è rilevante quando il contenuto della norma internazionale si sostanzia in un divieto, come il divieto di uso della forza. In tali casi la considerazione delle violazioni del divieto non tiene conto del fatto che in innumerevoli altri casi astenendosi dal compiere una violazione i soggetti si sono conformati alla regola. D’altro lato anche la semplice astensione dal tenere un comportamento non vale automaticamente a provare l’esistenza di un divieto se non si accompagna ad una manifestazione di opinio. Solo da questa sarà possibile ricavare che l’astensione è tenuta in quanto doverosa e non semplicemente per mancanza di interesse o di capacità a tenere un comportamento contrario.

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SEZIONE 2 I PRINCIPI GENERALI DI DIRITTO 1. Con la formula dei principi generali di diritto sono indicate due diverse categorie di fonti normative. La prima è quella dei principi comuni agli ordinamenti nazionali. I principi di origine nazionale considerati come sostrato normativo dell’esperienza giuridica universale, integrano quindi l’ordinamento internazionale e ne colmano le eventuali lacune. La seconda è quella dei principi generali propri dell’ordinamento internazionale non desunti dagli ordinamenti nazionali. I principi generali di origine nazionale sono tradizionalmente considerati come una fonte di carattere residuale, la quale cioè viene in essere in assenza di norme di origine convenzionale o consuetudinaria. Si tratta quindi di una categoria di fonti tese a colmare eventuali lacune. Ma tali principi svolgono anche altre funzioni, in particolare essi esprimono i valori fondameni della comunità internazionale e determinano le condizioni di applicazione delle altre regole dell’ordinamento. 3. I principi generali provenienti dagli ordinamenti nazionali hanno maggior rilievo per la regolamentazione internazionale di condotte di individui. Infatti la trasposizione di principi giuridici da un ordinamento ad un altro appare più agevole allorchè tali principi siano destinati ad individuare situazioni soggettive omogenee. Ciò appare significativo alla luce della evoluzione recente dell’ordinamento internazionale, il quale tende a disciplinare in misura crescente fattispecie di carattere individuale, stabilendo in capo agli individui sia obblighi che diritti. I principi generali di diritto, comuni agli ordinamenti interni sono espressamente menzionati tra le fonti del diritto dall’art. 21 dello statuto della corte penale internazionale. 4. I principi generali dell’ordinamento internazionale sono stati utilizzati dalla prima giurisprudenza internazionale in varie situazioni. Una prima situazione è quella classica, data l’esistenza di una lacuna nella regolamentazione di una fattispecie. In casi di questo genere la giurisprudenza ha individuato un principio generale a partire da regole che disciplinano soluzioni analoghe. Su tale base è stata ricostruita la regola applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio. In situazioni di questo tipo, i principi generali sono visti come fattore che assicura la completezza dell’ordinamento internazionale e la sua coerenza sistematica. Una seconda situazione è quella in cui i principi generali sono utilizzati al fine di adattare il contenuto di una regola a circostanze particolari del caso concreto. In situazioni di questo tipo, i principi hanno svolto una importante funzione di promozione dello sviluppo del diritto internazionale. Una terza situazione è quella in cui il ricorso a tecniche argomentative fondate su principi generali ha consentito alla giurisprudenza la soluzione di conflitti fra norme di condotta che pongono regole incompatibili. Tale tecnica consiste nell’individuazione dei principi ispiratori delle regole di condotta apparentemente in conflitto per quindi provvedere alla loro composizione attraverso un processo di bilanciamento dei principi generali e infine definire su tale base la regola applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio.

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5. Una particolare categoria di principi generali è quella che può essere tratta non da regole specifiche bensì dalla struttura delle relazioni giuridiche internazionali. Tali principi non si esprimono in regole compiute di condotta ma sono utilizzati al fine di guidare l’interpretazione e l’applicazione di altre regole internazionali. Tali sono i principi di reciprocità e proporzionalità.

1) Il principio di reciprocità evidenzia come nei processi di formazione e di attuazione di norme internazionale i comportamenti degli stati si organizzano secondo schemi relazionali. La reciprocità trova applicazione in tutti i campi nei quali il contenuto normativo sia scomponibile secondo lo schema della relazione reciproca. Tale modello evidenzia quindi una sovrana eguaglianza degli stati.

2) Il principio della reciprocità si applica in presenza di poteri funzionali, di poteri che l’ordinamento conferisce ad uno stato o ad un organo internazionale per l’esercizio decentrato di funzioni di natura amministrativa. Attraverso il conferimento di poteri funzionali, l’ordinamento internazionale tende a sopperire all’assenza di strutture centralizzate di accertamento e di attuazione del diritto. L’ordinamento conferisce quindi ad un soggetto il potere di agire per il raggiungimento di uno scopo che corrisponde ad un interesse di carattere generale. Il soggetto agente deve tenere conto dell’esistenza di altri interessi concorrenti, meritevoli di tutela giuridica, che devono essere convenientemente composti con l’interesse prevalente.

I due modelli hanno un rilievo sistematico. Mentre il modello della reciprocità e le norme fondate su di esso sono dominate dal concetto di sinallagma, il modello della proporzionalità evidenzia i caratteri di organizzazione pubblicista del potere internazionale. Il primo modello è idoneo a disciplinare i rapporti giuridici paritari. Il secondo è idoneo a disciplinare rapporti giuridici non paritari, nei quali l’ordinamento conferisce ad un soggetto il compito di provvedere ad una composizione equilibrata fra i diversi interessi concorrenti.

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CAPITOLO 2 IL DIRITTO DEI TRATTATI

INTRODUZIONE IL DIRITTO CONSUETUDINARIO E LA CONVENZIONE DI VIENNA DEL 1969 A differenza delle consuetudini e dei principi, i trattati non hanno applicazione generale, ma si applicano, ai soli stati che hanno espresso il proprio consenso ad impegnarsi. I trattati costituiscono fonte di diritto particolare. Essi trovano fondamento sullo scambio mutuo di consenso e tendono a realizzare interessi propri di ciascuna delle parti. I trattati a volte sono utilizzati anche per la realizzazione di interessi di carattere collettivo o universale. Il diritto dei trattati è essenzialmente di natura consuetudinaria. Esso è stato codificato da una delle più importanti convenzioni di codificazione: la CONVENZIONEDI VIENNA del 1969 sul diritto dei trattati, redatta da una conferenza internazionale sulla base di lavori condotti dalla commissione del diritto internazionale delle nazioni unite. Non tutte le norme della convenzione sono corrispondenti al diritto consuetudinario. Nel preambolo si da atto che essa è stata redatta sia allo scopo di codificare il diritto consuetudinario dei trattati sia allo scopo di promuoverne l’ulteriore sviluppo, in sintonia con i principi contenuti nella carta delle nazioni unite. Tecnicamente un trattato costituisce uno scambio di consenso, idoneo a produrre diritti ed obblighi fra le parti. La convenzione di Vienna non si applica a tutti i trattati. Essa si applica ai soli accordi redatti in forma scritta e retti dal diritto internazionale. Ciò non esclude che vi siano accordi in forma orale o addirittura accordi taciti. La convenzione di Vienna si applica inoltre ai soli accordi fra stati. Sono quindi esclusi dal suo ambito di applicazione gli accordi conclusi fra stati ed altri soggetti internazionali, nonché da questi soggetti fra loro. La Convenzione di Vienna prevede che le regole di tale convenzione si applichino i rapporti convenzionali fra stati parti di un trattato anche qualora del medesimo trattato siano parti degli stati che non hanno ratificato la convenzione, o degli enti di natura non statale. Agli accordi conclusi fra stati e organizzazioni internazionali o fra organizzazioni internazionali si applica invece la convenzione di Vienna del 1986.

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SEZIONE 1 LA FORMAZIONE DEI TRATTATI 1. Nel procedimento di formazione dei trattati occorre distinguere varie fasi. La prima è quella relativa alla definizione di un testo. Il testo può essere definito attraverso negoziati diretti, o per i trattati multilaterali con un gran numero di parti, nel corso di una conferenza internazionale. L’art 9 della convenzione di Vienna prevede che l’adozione del testo di un trattato ad opera di una conferenza internazionale avvenga con la maggioranza dei due terzi presenti e votanti. Il testo di un trattato può essere anche adottato attraverso risoluzioni di organizzazioni internazionali, in particolare nell’ambito delle nazioni unite, e successivamente aperto alla stipulazione degli stati membri. Questa procedura viene seguita in particolare per trattati che hanno ad oggetto la tutela di interessi collettivi o universali. Un procedimento più complesso è seguito per gli accordi di codificazione. Una volta definito il testo, il trattato viene firmato ad opera di plenipotenziari. L’effetto della firma varia a seconda che il trattato venga concluso in forma solesse o semplificata. Per i trattati conclusi in forma semplificata la firma ha la funzione di concludere il procedimento di formazione e quindi di esprimere il consenso dello stato ad impegnarsi. Per i trattati conclusi in forma solenne invece, la firma ha solo la funzione di autenticare il testo. Il consenso dello stato ad impegnarsi è invece espresso da un ulteriore atto, la ratifica, atto unilaterale rivolto alle altre parti del trattato con il quale uno stato esprime il proprio consenso ad impegnarsi sul piano internazionale. La ratifica può essere sostituita da atti aventi la medesima funzione, quali l’adesione, l’accettazione. Si tratta di atti che spiegano effetti giuridici con lo scambio o il deposito presso un depositario designato a riceverli. Il raggiungimento di un numero minimo di ratifiche per l’entrata in vigore di un trattato è sovente richiesto per trattati multilaterali a carattere universale. Generalmente il depositario ha anche il compito di notificare agli altri stati il raggiungimento del numero minimo di ratifiche necessarie per l’entrata in vigore. Vi sono trattati che estendono la facoltà di firmare e ratificare il testo anche ad opera di stati rimasti estranei al procedimento di formazione. Questi trattati sono definiti come trattati aperti in contrapposizione ai trattati chiusi che non ammettono tale facoltà. L’equivalenza delle due forme di conclusione di un trattato ha come conseguenza che un trattato concluso in forma solenne potrà essere derogato da uno concluso in forma semplice e viceversa. 2. Gli ordinamenti nazionali contengono disposizioni che disciplinano i procedimenti di conclusione dei trattati. Il potere di impegnare con un trattato lo stato sul piano internazionale rientra nella sfera del potere esecutivo. Ma ciò provoca dei problemi di competenza tra il parlamento (detentore del potere legislativo) e il governo (responsabile del potere esecutivo). Molti ordinamenti costituzionali hanno adottato soluzioni tendenti in vario modo a vincolare la conclusione di trattati da parte dell’esecutivo a forme di assenso preventivo del parlamento, soprattutto per trattati politicamente importanti o suscettibili di incidere sulla funzione legislativa. L’idea dell’autorizzazione preventiva alla conclusione dei trattati da parte del parlamento è quindi dettata dall’esigenza di tutelare le prerogative interne del parlamento rispetto alle prerogative assicurate all’esecutivo sul piano esterno. L’art. 87 cost prevede la competenza del presidente della repubblica a ratificare i trattati previa autorizzazione delle camere. Si tratta non di un potere proprio del presidente della

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repubblica ma di un potere che ricade nelle competenze dell’esecutivo. L’art. 80 cost prevede che il parlamento autorizzi con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica…o importano modificazioni di leggi. Le due disposizioni sembrerebbero indicare che l’ordinamento costituzionale italiano non preveda la possibilità di concludere accordi in forma semplificata. Si tratterebbe di una disposizione assai rigida, che non tiene conto del fatto che nel diritto internazionale vi sia a volte la necessità di concludere accordi in maniera rapida ed informale. Le conseguenze giuridiche della mancata ratifica possono essere di due tipi. La conclusione in forma semplificata di un accordo rientrante nelle categorie previste dall’art 80 ingenera la responsabilità politica dell’esecutivo nei confronti del parlamento. Ed inoltre la violazione dell’art 80 spiega effetti sul piano normativo, in assenza di autorizzazione parlamentare infatti, il procedimento di formazione del trattato è costituzionalmente irregolare. La disciplina costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica è completata da altre due norme. L’art 72 prevede la c.d. riserva di aula, escludendo la possibilità di approvazione da parte delle commissioni parlamentari. L’art 75 esclude il referendum abrogativo popolare per le leggi di autorizzazione alla ratifica. 3. Nella concezione tradizionale, il riconoscimento del potere di assumere impegni internazionali in capo ad enti substatali è ritenuto inconciliabile con il presupposto dell’unitarietà dello stato nei rapporti internazionali. L’ordinamento italiano prevede espressamente il potere delle regioni di stipulare accordi internazionali. L’art 117 cost nel nuovo testo, prevede che nelle materie di sua competenza la regione può concludere accordi con stati e intese con enti territoriali interni ad altro stato nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello stato. Da ciò si ricava che il potere delle regioni non è esclusivo ma concorre con il generale potere dello stato di concludere accordi in materie che sono interamente di competenza concorrente o esclusiva delle regioni. Le regioni possono stipulare solo accordi esecutivi rispetto ad accordi già conclusi dallo stato. Inoltre le regioni non possono concludere accordi in loro nome ma devono agire come organi dello stato centrale, che sarebbe per tanto l’unico ente titolare dei diritti ed obblighi che derivano dall’accordo. 4. Per quanto riguarda la questione della validità di un trattato per violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare, questa può essere esaminata attraverso due diversi schemi fondamentali:

1) Lo schema costituzionalista, tende a dar rilievo alla normativa interna alla quale in diritto internazionale farebbe rinvio, al fine di determinare gli organi e le procedure interne per la conclusione dei trattati. Questa ricostruzione fa dipendere la validità internazionale del trattato dalla validità interna degli atti che hanno portato alla sua conclusione. Un trattato sarà quindi invalido allorché il procedimento seguito per la sua conclusione non sia conforme a quello prescritto dalla costituzione statale.

2) Lo schema interanazionalista, afferma che solo la procedura di formazione stabilita dall’ordinamento internazionale potrebbe causare l’invalidità del trattato. Non sarebbero quindi invalidi accordi stipulati dall’esecutivi, pure in difformità rispetto a procedure costituzionali interne.

La convenzione di Vienna ha adottato una soluzione divergente da ambedue le prospettive. Secondo l’art.46 la circostanza che un trattato sia stato concluso da uno stato in violazione delle proprie norma interne sulla competenza a stipulare non da luogo ad invalidità del

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trattato a meno che la violazione non sia manifesta e non concerna una norma di diritto interno di importanza fondamentale. L’art 46 indica quindi che solo una violazione evidente di regole interne di carattere fondamentale potrà dar luogo ad invalidità del trattato.

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SEZIONE 2 GLI EFFETTI DEI TRATTATI RISPETTO A STATI TERZI 1. La convenzione di Vienna stabilisce che i trattati non producono diritti ne obblighi per stati terzi senza il loro consenso. Questa regola non impedisce alle parti di includere in un trattato Disposizioni che accordino benefici a favore di stati terzi ovvero che impongano loro dei gravami. In tali casi però, la condotta di stati terzi costituirà solo una fattispecie materiale rispetto ai diritti o agli obblighi contenuti nel trattato, dei quali sono titolari solamente le parti del trattato. Solo le parti potranno richiederne l’adempimento ed esercitare le prerogative connesse alla titolarità di una posizione soggettiva. 2. Un trattato può produrre effetti nei confronti di uno stato che non ne sia parte allorché questi presti il proprio consenso. Il consenso dello stato terzo potrebbe essere costruito come elemento di una fattispecie contrattuale complessa, consistente nell’offerta ad opera delle parti e nell’accettazione dello stato terzo. Il consenso del terzo perfezionerebbe un accordo fra le parti. Questa è la soluzione accolta dalla convenzione di Vienna agli articoli 35 e 36. La convenzione traccia una distinzione fra l’espressione del consenso ad assumere un obbligo che dovrà essere formulata in forma scritta, e quella necessaria per assumere un diritto, per la quale stabilisce invece una presunzione. 3. Le regole di un trattato non producono di per sé effetti nei confronti di terzi in virtù della limitata portata soggettiva dei trattati, fonti di diritto particolare. È tuttavia ben possibile che le regole formulate da un trattato abbiano portata più ampia e vincolino quindi stati terzi rispetto al trattato, in quanto corrispondenti al diritto generale. Questa ipotesi è prevista dalla convenzione di Vienna all’art 38 il quale prevede che una regola convenzionale possa spiegare effetti nei confronti di stati terzi qualora tale regola abbia anche natura consuetudinaria. Il fenomeno della trasformazione di una regola convenzionale in un regola consuetudinaria non è inconsueto. Questo meccanismo è alla base dell’utilizzo dei trattati al fine di soddisfare interessi generali, e quindi di costituire situazioni giuridiche destinate a valere per altri soggetti o addirittura per tutta la comunità internazionale. In questo caso siamo vicini ad un singolare fenomeno di legislazione internazionale che si esprime non con un atti istituzionale, ma attraverso una fonte, il trattato di per se non potrebbe produrre tali effetti. Accordi di questo tipo tendono a stabilire situazioni che si impongono a tutti i membri della comunità internazionale. È però difficile pensare che esse possano stabilire un a disciplina giuridica applicabile a stati terzi. Avremo quindi un gruppo di stati che operano come legislatori di fatto della comunità internazionale, ponendo in essere regolo che intendono valere anche per stati che non abbiano prestato il proprio consenso. 4. Se un trattato è in grado di produrre situazioni obiettive, che si impongono cioè a stati terzi indipendentemente dal loro consenso, il trattato dovrebbe limitare anche la capacità degli stati parte di sottrarsi all’osservanza di tale disciplina mediante strumenti propri del diritto dei trattati.

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SEZIONE 3 LE RISERVE 1. L’espressione riserva indica una dichiarazione unilaterale, quale che sia la sua articolazione e denominazione, fatta da uno stato quando sottoscrive, ratifica, accetta o approva un trattato o vi aderisce, attraverso la quale esso mira ad escludere o modificare l’effetto giuridico di alcune disposizioni del trattato nella loro applicazione allo stato medesimo. L’istituto delle riserve è quindi teso a consentire ad uno stato di aderire ad un trattato multilaterale pur non assumendo determinati obblighi o modificandone la portata. Esso ha quindi lo scopo di facilitare l’adesione degli stati ai trattati multilaterali. Attraverso l’apposizione di riserve, gli stati possono alterare in vario modo l’integrità degli obblighi convenzionali: possono escludere o modificare l’effetto di una o più disposizioni, determinarne l’interpretazione e così via. Il diritto internazionale ha sviluppato una serie di regole tese ad evitare le conseguenze di un uso improprio di tale strumento. Diverse dalle riserve sono le dichiarazioni interpretative, allegate alla firma o alla ratifica di un trattato con le quali una delle parti chiarisce l’interpretazione, che a proprio avviso, va data ad una certa disposizione. Le dichiarazioni interpretative non producono l’effetto di rendere vincolante l’interpretazione suggerita e, di conseguenza, non richiedono accettazione ad opera di altre parti, ma si limitano a chiarire l’indirizzo interpretativo che sarà seguito dalla parte che le appone. Il regime giuridico delle riserve è soggetto ad un processo di costante evoluzione nel quale si avverte la tensione fra due esigenze di ordine opposto: da un lato, il riconoscimento di ampia libertà agli stati in materia di riserve, a costo di una frammentazione del sistema normativo degli accordi multilaterali, dall’altro, l’esigenza si salvaguardare l’unità di tale sistema, limitando la libertà degli stati di apporre riserve. 2. La disciplina classica tendeva a limitare in maniera rigida la possibilità di apporre riserve a disposizioni di un trattato multilaterale. A tal fine era infatti necessario il consenso di tutte le parti. Così facendo una riserva ad opera di uno stato avrebbe prodotto effetti uniformi nei confronti di tutte le altre parti del trattato. Questo regime mutò nel dopoguerra. Secondo il parere della Corte una riserva sarebbe ammissibile qualora compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. Il parere stabiliva quindi un regime liberale quanto al potere di apporre riserve, temperato tuttavia dal divieto di apposizione di riserve incompatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato. Con ciò la corte ha voluto evitare che uno stato possa aderire ad un trattato pur astenendosi dall’assumere obblighi che ne rappresentano la ragione d’essere. Per quanto riguarda l’assenza di strumenti obiettivi di accertamento del diritto nei rapporti giuridici internazionali, la corte ha prospettato un’utilizzazione dei meccanismi decentralizzati di accertamento del diritto. Secondo il parere, in presenza di una riserva non espressamente prevista dal testo, la compatibilità con l’oggetto e lo scopo del trattato andrebbe accertata in via unilaterale da ciascuna delle parti del trattato. Ognuna delle parti avrebbe il potere di accettare la riserva o obiettare. In conseguenza dell’accettazione il trattato entra in vigore nei rapporti fra le parti. L’obiezione ad una riserva avrebbe invece l’effetto di impedire il sorgere di rapporti convenzionali fra lo stato autore della riserva e lo stato che ha obiettato.

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3. La convenzione di Vienna ha recepito il regime giuridico che emerge dal parere del 1951. L’art 19 della convenzione ammette l’apposizione di riserve previste dal teso o di quelle compatibili con l’oggetto e lo scopo del trattato. Anche gli effetti delle riserve sono definiti dalla convenzione di Vienna in maniera particolarmente liberale. L’accettazione di una riserva ha l’effetto di consentire l’instaurazione di rapporti contrattuali fra lo stato che l’ha apposta e lo stato che l’ha accettata, nel contenuto indicato dalla riserva stessa. L’obiezione di una riserva non ha l’effetto di impedire l’entrata in vigore di rapporti contrattuali tra le due parti, a meno che tale intenzione non sia espressamente indicata dallo stato obiettante. Una obiezione che non contenga tale precisazione consente l’entrata in vigore del trattato nei rapporti fra le parti. Il regime delle riserve che emerge dalla convenzione di Vienna non appare del tutto coerente. Innanzitutto l’esasperato bilateralismo sul quale esso si fonda può funzionare in maniera adeguato solo in presenza di obblighi il cui contenuto risulti scomponibile su base reciproca. In secondo luogo la convenzione di Vienna non chiarisce se il regime fondato sulla accettazione o sulla obiezione unilaterale alle riserve sia anche esclusivo o se uno stato possa rilevare l’inammissibilità di una riserva attraverso altri strumenti. In terzo luogo il regime della convenzione appare sbilanciato nel senso che esso non dissuade adeguatamente gli stati dall’apporre riserve inammissibili. 4. Nei confronti delle riserve ai trattati sui diritti umani, l’approccio bilateralista della convenzione sembra inadeguato. Gli obblighi in tema di diritti umani hanno infatti una struttura erga omnes, tendono cioè a creare vincoli giuridici solidali fra le parti e non sono facilmente scomponibili su base reciproca. In relazione al loro oggetto di tutela inoltre, l’interesse a mantenere l’unità del sistema convenzionale è particolarmente forte. Vi è infatti un interesse collettivo ad evitare che uno stato aderisca al trattato senza accettare determinati obblighi, la cui assunzione sembra indissociabile dalla qualità di parte. Il concorso di queste circostanze è probabilmente all’origine di un orientamento della corte europea dei diritti umani, tendente a valutare la compatibilità di riserve alla convenzione europea con l’oggetto e lo scopo della convenzione, e una volta accertatane l’inammissibilità a dichiararle invalide. In conseguenza della sua invalidità la riserva sarebbe inapplicabile. Risulterebbe quindi pienamente applicabile la disposizione alla quale essa si riferiva. La prassi sembra evidenziare come la concezione bilateralista, che disciplina la convenzione di vienna, non sia in grado di spiegare compiutamente il fenomeno delle riserve. In particolare per determinati tipi di trattati, sembra più appropriata una diversa prospettiva che si fonda sulla esistenza di una nozione obiettiva di inammissibilità delle riserve e quindi sul fatto che una riserva sia da considerarsi invalida e venga quindi disapplicata.

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SEZIONE 4 L’INTERPRETAZIONE DEI TRATTATI 1. L’interpretazione è un’attività logica che consiste nell’attribuire un certo significato ad una disposizione linguistica. Dato che i trattati somo il frutto del consenso delle parti, la principale questione che si pone è quella di vedere se il significato di una disposizione convenzionale vada determnato in maniera obbiettiva o se la funzione dell’attività interpretativa abbia come scopo principale la ricerca della volontà delle parti. 2. L’esistenza di regole giuridiche relative all’interpretazione è stata oggetto di contestazioni si in generale che con riferimento all’ordinamento internazionale. In una prospettiva generale si può dubitare che l’attività interpretativa possa essere predefinita nell’ambito di fattispecie disciplinate da regole astratte. Una difficoltà di individuare regole generali di interpretazione è data dall’eterogeneità del contenuto e della portata soggettiva dei trattati. È difficile ritenere che le medesime regole interpretative possano valere x qualsiasi tipologia di trattato. La considerazione di tali difficoltà è stata all’origine di una serie di esitazioni da parte dei redattori della convenzione di Vienna sulla possibilità di individuare regole atte a guidare l’attività interpretativa. Le norme della convenzione di Vienna presentano due caratteristiche di fondo: innanzitutto si limitano a disciplinare i metodi di interpretazione, indicando gli elementi che l’interprete deve considerare al fine di interpretare una certa disposizione e stabiliscono una scala di priorità fra tali metodi. In secondo luogo le norme della convenzione hanno carattere residuale rispetto a regole interpretative che si possono affermare rispetto a singole categorie di trattati. 3. Nella prassi interpretativa si possono distinguere tre metodologie interpretative:

1. metodi di tipo oggettivo, i quali danno prevalentemente rilievo al testo del trattato; 2. metodi di interpretazione soggettiva, i quali danno rilievo alla volontà originaria delle

parti; 3. metodi di tipo funzionale che tendono a considerare lo scopo per la cui realizzazione il

trattato è stata concluso. Nella convenzione di Vienna il metodo oggettivo e quello funzionale hanno maggiore rilievo. Alla volontà originaria si ricorre in caso di mancato funzionamento dei metodi principali. La regola generale dispone che un trattato debba essere interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da attribuire ai suoi termini e nel loro contesto, nonché alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Per quanto riguarda il principio dell’interpretazione contestuale esso impone all’interprete di non isolare ai fini interpretativi ciascuna singola disposizione linguistica, quanto invece di considerare ciascuna disposizione nell’ambito del sistema normativo complessivamente predisposto dal trattato. 4. nel sistema della convenzione di Vienna il rilievo del criterio soggettivo è particolarmente ridotto. L’art 32 della convenzione ammette il ricordo a metodi soggettivi, solo in via supplementare: qualora cioè l’applicazione degli altri metodi lasci il significato di una disposizione ambiguo o oscuro, o conduca ad un risultato assurdo o irragionevole.

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Il consenso delle parti sull’interpretazione viene in considerazione fra i criteri principali di interpretazione, allorché essa si esprima in un accordo interpretativo o in una prassi dalla quale tale accordo emerga implicitamente. 5. La ricostruzione del significato normativo di un trattato pone il problema di vedere se le nozioni in esso contenute vadano interpretate nel significato che esse avevano originariamente o nel significato che esse hanno assunto con il mutare del costume sociale al momento dell’interpretazione. La prima soluzione privilegia tecniche interpretative di tipo statico, tese a conservare il significato normativo come posto in essere dalle parti. La seconda soluzione privilegia tecniche interpretative di carattere evolutivo, tese ad adattare la norma giuridica all’evoluzione delle dinamiche sociali che essa tende a regolare. Essa presenta il vantaggio di preservare nel tempo la capacità della norma di disciplinare rapporti sociali evitando una sua obsolescenza. La convenzione di Vienna non indica espressamente la possibilità di utilizzare tecniche di interpretazione evolutiva. Questa soluzione appare tuttavia quella che meglio si armonizza con la concezione obbiettivista che ha ispirato il sistema convenzionale e con il carattere assai ridotto assegnato invece alle volontà delle parti. L’interpretazione evolutiva stabilisce un meccanismo obiettivo di adeguamento dell’interpretazione rispetto all’evoluzione sociale. 6. La disciplina della convenzione di Vienna non ha impedito la pormazione da parte della giurisprudenza di orientamenti interpretativi specifici, che si applicano a categorie particolari di trattati e che solo parzialmente seguono le indicazioni della convenzione di Vienna. Ad esempio possiamo ricordare:

1. L’interpretazione dei trattati sui diritti dell’uomo. Nel campo dei diritti dell’uomo l’interpretazione oggettiva sembra assumere un ruolo di secondo piano rispetto a quella funzionale. La giurisprudenza tende infatti a considerare in primo luogo lo scopo di tali trattati, che è quello di tutelare i diritti individuali nei confronti degli stati parte, nonché l’esigenza di una interpretazione evolutiva dei diritti umani, la cui portata si estende al di la del loro ambito originario.

2. L’interpretazione dei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. La particolare natura di tali trattati ha consentito lo sviluppo, ad opera della giurisprudenza, di particolari dottrine interpretative. Tali trattati, presentano la caratteristica di istituire un nuovo soggetto di diritto, caratterizzato da un proprio ordinamento interno, rispetto al quale essi hanno una funzione propria di un atto costituzionale.

3. Nel definire in via interpretativa i poteri assegnati alle nazioni unite, la corte internazionale di giustizia non ha fatto ricorso alle normali regole interpretative dei trattati. Essa ha invece utilizzato tecniche di interpretazione di tipo costituzionalista, fra le quali la dottrina dei poteri impliciti. Tale dottrina tende a sottolineare come un ente non disponga solo dei poteri ad esso espressamente trasferiti dagli stati membri, ma anche di altri poteri, in particolare, di quelli necessari per l’esercizio delle competenze e delle funzioni ad esso assegnate. Si tratta di una dottrina espansiva che tende ad saltare i caratteri di autonomia del nuovo ente rispetto agli stati membri.

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SEZIONE 5 LE CAUSE DI INVALIDITA’ E DI ESTINZIONE DEI TRATTATI 1. Il tradizionale assetto normativo dell’estinzione e dell’invalidità dei trattati è fondato su una concezione bilateralista. La differenza fra cause di estinzione e cause di invalidità è che la causa di estinzione impedisce dal momento in cui si verifica la produzione degli effetti di un trattato facendone salvi quelli gia prodotti, la causa di invalidità rende nullo il trattato dal momento della sua conclusione. L’art 44 della convenzione di Vienna prevede che le cause di estinzione o invalidità operino nei confronti dell’intero trattato a meno che esse non si riferiscano a singole disposizioni separabili dal resto del trattato. Il criterio della separabilità non vale per i motivi di estinzione che si fondano sulla volontà unilaterale, quali il recesso, il quale può operare solo nei confronti dell’intero trattato. La separabilità non opera inoltre nei confronti delle clausole di invalidità più radicali quali la violenza. 2. La convenzione di Vienna disciplina i vizi della volontà secondo la tripartzione, errore violenza e dolo. Dei tre è la violenza che assume maggior rilievo sia teorico che pratico. La convenzione di Vienna distingue fra la violenza esercitata sul rappresentante dello stato, che può essere violenza fisica o violenza morale, e la violenza esercitata sullo stato, che è solo morale. La violenza morale sullo stato rileva come vizio di validità solo se si tratta di violenza di tipo bellico. L’art 52 prevede la nullità di un trattato “la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o impiego della forza in violazione dei principi di diritto internazionale contenuti nella carta delle nazioni unite”. L’equilibrio sul quale si fonda la disciplina della violenza nella convenzione di Vienna è incerto. Da un lato l’art 44 stabilisce che la violenza pregiudica la validità dell’intero trattato e non solo delle clausole viziate. Dall’altro l’art 65 limita ai soli stati parte del trattato la possibilità di invocarne la validità. La disciplina sembrerebbe concepire la violenza come semplice vizio del consenso e non come articolazione di un interesse collettivo ad eliminare le conseguenze di un uso illegittimo della forza. La convenzione di Vienna non prevede la nullità di un trattato la cui conclusione sia stata ottenuta con la minaccia o l’impiego della violenza economica. 3. L’art 53 della convenzione di Vienna disciplina il caso dell’invalidità dei trattati confliggenti con norme superiori dell’ordinamento indicate con la formula del diritto imperativo o cogente. L’art 64 prevede l’estinzione di trattati confliggenti con norme imperative supervenientes. 4. L’art 60 della convenzione di Vienna contiene un ampia disciplina sull’estinzione o sospensione dei trattati per inadempimento. La disposizione prevede che una violazione sostanziale può giudicare l’estinzione o la sospensione del trattato o di parte di esso. Tale è il mancato adempimento del trattato nel suo complesso o di una norma fondamentale per l’oggetto e l oscopo del trattato. Si può tracciare una distinzione fra accordi bilaterali ed accordi multilaterali. Una violazione sostanziale di un trattato bilaterale legittima l’altra parte ad invocare la violazione come motivo di estinzione del trattato o sospensione totale o parziale.

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Una disciplina diversa è prevista per l’inadempimento di trattati multilaterali ad opera di una delle parti. In questo caso la convenzione di Vienna privilegia la reazione collettiva, prevedendo il potere per le altre parti che agiscono collettivamente, di estinguere o sospendere il trattato sia in via generale sia soltanto nei rapporti con la parte inadempiente. L’estinzione o la sospensione di un trattato in seguito all’inadempimento di una delle parti si limita a far cessare temporaneamente o permanentemente gli effetti giuridici di un trattato. La reazione normativa ha lo scopo di realizzare un equilibrio normativo che si riflette nel trattato e che è stato alterato dalla violazione. Qualora lo stato non si curi di estinguere o sospendere il trattato e reagisca con un comportamento di tipo materiale, la reazione non è di carattere normativo ma si colloca nel campo della responsabilità internazionale. In questo caso il trattato mantiene la sua efficacia e continua a governare i comportamenti delle parti. 5. L’art 62 della convenzione di Vienna disciplina l’estinzione di un trattato in caso di mutamento fondamentale delle circostanze alla base della sua conclusione. Si tratta di una causa di estinzione indicata con la formula rebus sic stantibus. Si tratta di una clausola che tende ad adeguare la situazione normativa convenzionale al mutamento della realtà sociale. Essa non opera per il diritto consuetudinario che evolve in maniera da adeguarsi all’evoluzione del costume sociale. L’art 62 si limita all’invocazione della clausola al caso in cui le circostanze di fatto esistenti al momento della conclusione del trattato abbiano costituito il motivo determinante del consenso ad obbligarsi e il loro mutamento abbia l’effetto di alterare radicalmente la natura o la portata degli obblighi convenzionali che rimangono da adempiere. 6. La convenzione di Vienna prevede il meccanismo per far valere l’invalidità o l’estinzione dei trattati. In assenza di procedure obiettive di accertamento, tale meccanismo si fonda sulla ricerca del consenso delle parti. Una parte che voglia adottare una misura che dichiari l’invalidità l’estinzione o la sospensione, o che intenda recedere da un trattato deve notificare alle parti la propria intenzione. In assenza di obiezioni, tale parte potrà quindi procedere ad adottare tale misura. Qualora alla pretesa si una parte di dichiarare un trattato invalido o estinto corrisponda una obiezione di altre parti, sorge una controversia che andrà risolta utilizzando i mezzi pacifici per la soluzione delle controversie internazionali. Il regime stabilito dalla convenzione per la determinazione dell’invalidità o dell’estinzione dei trattati ha un carattere consensuale. Il consenso fra le parti è necessario anche rispetto a cause di invalidità o estinzione che hanno riguardo alla tutela di interessi collettivi o universali. La principale obiezione ne confronti fi tale meccanismo p che in assenza si consenso delle parti, sembra incapace di risolvere definitivamente diversità di vedute delle parti sulla efficacia di un trattato.

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CAPITOLO 3 LE FONTI A FORMAZIONE CENTRALIZZATA

1. Con il termine “istituzionalizzazione della funzione normativa” sono indicate le fonti dell’ordinamento internazionale che producono diritto sulla base di un procedimento di tipo istituzionale. Tali sono le fonti del diritto previste dalla carta delle nazioni unite. 2. L’assemblea generale delle nazioni unite adotta sovente risoluzioni contenenti principi giuridici e raccomanda agli stati di conformarvisi. La carta non stabilisce espressamente tale potere, che trova fonte nel generale potere assegnato dall’art 10 di rivolgere raccomandazioni su questioni o argomenti che rientrino nell’ambito di applicazione della carta. D’altra parte, la carta assegna all’assemblea il compito di promuovere lo sviluppo progressivo e la codificazione del diritto internazionale. Queste due competenze dell’assemblea tendono talvolta a sovrapporsi. Le dichiarazioni di principi dell’assemblea generale non hanno valore formale vincolante. È diffusa l’opinione che esse contribuiscano in maniera accentuata alla formazione del diritto generale. In una prospettiva istituzionale, le dichiarazioni dei principi possono essere viste come una procedura centralizzata di formazione di norme non vincolanti, talvolta definite anche come norme di soft-law. Con questa espressone si definiscono delle norme perfettamente compiute quanto al loro contenuto dispositivo ma prive di valore vincolante. 3. Il consiglio di sicurezza è concepito nella carta, come un organo di carattere operativo. Ad esso è assegnata la responsabilità principale nel mantenimento della pace e della sicurezza. Le risoluzioni di carattere operativo sono quelle con le quali, il consiglio affronta una situazione concreta nella quale vi è una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, adottando raccomandazioni o decisioni rivolte agli stati o misure di vario tipo rivolte alle forze delle nazioni unite. Ancorché le risoluzioni operative non hanno come scopo quello di accertare o stabilire norme giuridiche, esse possono dare un contributo in questa direzione. Nell’ambito delle proprie funzioni il consiglio ricostruisce il contenuto di norme internazionali, ne determina l’ambito di applicazione, accerta la liceità o l’illiceità di una condotta. Ciò facendo il consiglio non svolge direttamente una funzione normativa ma contribuisce all’accertamento e allo sviluppo del diritto internazionale generale. Più complesso è stabilire se il consiglio di sicurezza abbia anche il potere di stabilire norme generali e astratte applicabili non solo in situazioni determinate ma in via generale. Il consiglio ha occasionalmente adottato delibere di carattere normativo. Tali delibere indicano espressamente o implicitamente le regole il cui rispetto è necessario al fine di assicurare la pace e la sicurezza internazionale. Un contributo allo sviluppo del diritto internazionale può venire anche dalle risoluzioni organizzative, con le quali il consiglio stabilisce organi e procedure per l’amministrazione di situazioni di crisi o organi giudiziari per il perseguimento di condotte individuali contrarie al diritto internazionale penale. In questi casi il consiglio di sicurezza indica anche il diritto applicabile da tali organi sia ricostruendo norme applicabili, sia indicandone di nuove. La forza giuridica di tali norme è quella propria delle risoluzioni che le contengono.

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4. L’assemblea generale e il consiglio di sicurezza hanno il potere di adottare raccomandazioni, ciascuno attraverso i procedimenti ed entro i limiti delle competenze stabiliti dalla carta. La raccomandazione costituisce un atto non vincolante, che si dirige a singoli stati o, più spesso a tutti gli stati membri, indicando un certo comportamento da tenere. Le raccomandazioni sono atti giuridici che intendono orientare i comportamenti degli stati per finalità di ordine generale. Esse concorrono a formare il diritto applicabile ad una data situazione giuridica e influenzano l’interpretazione e l’applicazione delle altre regole di diritto internazionale. Una raccomandazione può costituire una causa di esclusione dall’illecito qualora essa sia stata adottata al fine di consentire una condotta altrimenti vietata dal diritto internazionale e qualora l’organo che l’ha adottata abbia il potere di vincolare gli stati a tenere quella determinata condotta. Il consiglio di sicurezza ha il potere di raccomandare l’adozione di sanzioni economiche, dato che esso ha il potere di vincolare gli stati, nonostante che tali condotte risultino in contrasto con altri obblighi internazionali.

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CAPITOLO 4 I RAPPORTI TRA FONTI

1. Le dinamiche normative dell’ordinamento internazionale sono diverse da quelle che caratterizzano generalmente gli ordinamenti statali. Questi ultimi tendono ad ordinare il sistema delle fonti sulla base di criteri di carattere formale quali il criterio gerarchico. Tali criteri hanno rilievo modesto nell’ordinamento internazionale, caratterizzato dall’assenza di veri e propri meccanismi centralizzati di produzione giuridica. Nell’ordinamento internazionale hanno invece molto rilievo le tecniche di coordinamento fra norme di pari valore. 2. La codificazione del diritto generale L’esigenza di codificare il diritto è avvertita anche nel diritto internazionale. La codificazione ha soprattutto lo scopo di rafforzare la certezza del diritto attraverso la redazione di testi normativi che recepiscano la normativa non scritta. La realizzazione di tale scopo comporta tuttavia una serie di inconvenienti. Il passaggio da una norma non scritta ad un testo normativo altera l’effetto giuridico proprio della norma consuetudinaria, la quale una volta codificata, spiegherà l’effetto proprio del testo fonte nel quale essa viene recepita. Inoltre la codificazione finisce con l’alterare anche la natura della fonte consuetudinaria che è capace di adeguare immediatamente il diritto alla mutevole realtà sociale. Una volta codificata la norma consuetudinaria finirà con il seguire le vicende proprie dell’atto fonte che l’ha recepita, e che richiede per essere modificato l’adozione di un atto eguale e contrario a quello originario. Nell’ordinamento internazionale la codificazione è operata attraverso i trattati. La carta delle nazioni unite ha dato un novo impulso alla codificazione ritenendo che la promozione di tale attività rientrasse fra i compiti dell’organizzazione. L’art 13 della carta assegna all’assemblea generale il compito di intraprendere studi e di fare raccomandazioni allo scopo di promuovere lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e la sua codificazione. L’assemblea generale ha a tal fine istituito un organo sussidiario: la commissione del diritto internazionale, composta da 34 membri eletti a titolo personale dall’assemblea. La commissione ha avuto un ruolo decisivo nella codificazione di numerosi settori del diritto internazionale. Il successo della codificazione nell’ordinamento internazionale non risiede unicamente nell’effetto di trasformazione della natura giuridica delle norme consuetudinarie, quanto piuttosto nella autorevolezza dello strumento di codificazione e nella sua capacità di orientare i comportamenti degli attori internazionali L’attività di codificazione non ha sempre il medesimo esito. Essa, in primo luogo, può semplicemente registrare l’esistenza di norme aventi un certo contenuto. Questa è l’attività di codificazione in senso proprio. In secondo luogo, la codificazione potrà portare alla formazione di una norma del tutto nuova e non corrispondente alla prassi. Si tratterà quindi più che di codificazione di un fenomeno di sviluppo progressivo del diritto internazionale. Tale norma avrà un valore si accordo per gli stati parte, se inclusa in uno strumento di carattere convenzionale, non avrà alcun valore vincolante se inclusa in un testo privo di tale effetto. La codificazione potrà inoltre avere l’effetto di cristallizzare il diritto esistente.

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Un ulteriore effetto dell’attività di codificazione può essere quello di provocare una evoluzione rapidissima del diritto consuetudinario verso modelli normativi adottati con un strumento di codificazione. Il fenomeno della codificazione può avere l’effetto, paradossale, di impedire l’evoluzione del diritto internazionale, o addirittura quello di far retrocedere il diritto internazionale verso soluzioni meno avanzate e più gradite agli stati. L’utilizzazione dei trattati come strumento di codificazione del diritto può comportare problemi di non agevole soluzione. Un primo problema riguarda i rapporti fra un trattato di codificazione e la normativa consuetudinaria oggetto di codificazione. La recezione di norme consuetudinarie in un trattato di codificazione ha lo scopo di prestare certezza al diritto non scritto, ma non anche quello di fermare il processo di evoluzione del diritto consuetudinario fra gli stati parte. Se a conclusione di un trattato di codificazione non ha l’effetto di abrogare le precedenti norme consuetudinarie, ne dovrebbe conseguire che le vicende del trattato non dovrebbero avere effetti su tali norme. L’evoluzione del diritto consuetudinario successiva rispetto alla conclusione di un accordo di codificazione dovrebbe comportare la modifica dell’accordo e quindi, l’inapplicabilità delle norme convenzionali anche nei rapporti fra le parti. Se infatti la codificazione di norma non scritte, e la loro incorporazione in un trattato, non toglie a tali norme la natura consuetudinaria ad esse propria, essa non dovrebbe escludere uno degli effetti tipici del diritto consuetudinario, consistente nella abrogazione di norme convenzionali già esistenti al momento in cui la consuetudine si forma. 3. Il coordinamento fra fonti internazionali di pari valore e l’art 31 della convenzione di Vienna. L’assenza di una chiara gerarchia fra le fonti internazionali evidenzia come il diritto internazionale sia generalmente fondato sul principio dispositivo. Le norme internazionali operano nei limiti in cui esse non vengano derogate da altre norme di pari valore. Le norme internazionali interagiscono fra loro per modo che un trattato può derogare, fra le parti, rispetto ad una norma generale, e che una norma generale può derogare o abrogare un trattato. Il principio dispositivo non è del tutto appropriato alle dinamiche del diritto internazionale, per questo esso si applica con molta parsimonia al fenomeno della successione di norme consuetudinarie nel tempo. Anche nei rapporti fra trattati il principio dispositivo opera con molta parsimonia. Innanzitutto esso si potrà applicare ai rapporti fra due trattati solo in presenza di identità della sfera soggettiva delle parti. In caso di mancata identità, ciò non si potrà verificare. Le regole concernenti i rapporti fra trattati incompatibili presuppongono l’esistenza di un conflitto. In assenza di un conflitto, si possono avere varie forme di interferenza che possono essere trattate attraverso tecniche non conflittuali di coordinamento. Queste tecniche di coordinamento acquisiscono crescente rilievo nell’ordinamento internazionale anche in relazione al numero e all’importanza di accordi multilaterali di carattere settoriale. Si pone con una certa frequenza il problema di vedere se conflitti apparenti fra trattati multilaterali che regolano aspetti diversi della vita di relazioni internazionali non possano essere risolti in via interpretativa.

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Una importante tecnica di coordinamento è stabilita dall’art 31 della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Essa prevede che l’interpretazione di un trattao vada compiuta alla luce delle altre regole di diritto applicabili nei rapporti fra le parti. L’art 31 ha la funzione di allargare il novero degli elementi che vanno considerati nell’interpretazione di un trattato. Esso prevede che un trattato non vada interpretato in isolamento rispetto alle altre norme internazionali. Al fine di percepirne compiutamente il significato occorre invece collocare ciascuno strumento convenzionale nel più ampio ambito normativo dato dall’insieme degli obblighi che incombono sulle parti. La disposizione è rilevante in quanto impone di considerare, a fini interpretativi, anche norme esterne rispetto al trattato da interpretare, realizzando così un coordinamento fra sistemi normativi. Si tratta di un coordinamento limitato. L’art 31 ha infatti una portata ristretta. Esso impone la considerazione di norme esterne a fini interpretativi solo qualora esse siano vincolanti per tutte le parti del sistema convenzionale da interpretare. La ridotta operatività dell’art 31 è compensata dalla tendenza della giurisprudenza ad utilizzare accordi esterni a fini interpretativi anche al di fuori dei ristretti limiti di applicazione di tale disposizione. Possiamo distinguere due diverse tecniche interpretative di coordinamento fra sistemi normativi. La prima di tipo formale, è quella stabilita dall’art 31. Essa stabilisce che l’interpretazione di una disposizione va contestualizzata non solo nell’ambito del sistema convenzionale di appartenenza, ma alla luce del più vasto insieme normativo composto dalle regole internazionali vincolanti per le stesse parti. Questa tecnica consente di mettere i connessione sistemi normativi formalmente diversi e quindi di armonizzare conflitti fra questi sistemi. Diverso è il meccanismo che consente di considerare a fini interpretativi norme internazionali pur se non vincolanti per tutte le parti dell’accordo da interpretare. Questa forma di coordinamento consenti di attribuire ad una nozione di un accordo il significato che essa assume alla luce delle tendenze evolutive dell’ordinamento internazionale. 4. I conflitti fra norme internazionali. Tecniche non gerarchiche di soluzione dei conflitti La successione nel tempo di più trattati aventi il medesimo ambito soggettivo non pone problemi. Se gli obblighi che ne derivano sono fra loro compatibili, essi, di regola, concorreranno a formare la disciplina giuridica applicabile alle parti. L’art 30 sul diritto dei trattati prevede che i rapporti fra le parti di due trattati successivi saranno regolati dal primo solo nella misura in cui gli obblighi di questo risultino compatibili con il trattato successivo. Il problema sorge in presenza di trattati incompatibili. Ne la prassi ne la logica giuridica forniscono elementi per risolvere il conflitto. In assenza di meccanismi di soluzione dei conflitti, trattati confliggenti sono quindi validi e produttivi di effetti fra le parti. Ne consegue che uno stato che sia parte di più trattati è obbligato, nei confronti di parti diverse, a tenere condotte materialmente incompatibili, per cui non potrà adempiere entrambi. L’adempimento di uno dei trattati rende quindi impossibile l’adempimento dell’altro, con conseguente responsabilità nei confronti delle parti del trattato che rimarrà inadempiuto. L’art 30 prevede la possibilità che un trattato specifichi di voler essere applicato solo in caso di compatibilità con altri, solitamente antecedenti. Questa disposizione fa riferimento alla possibilità che le parti di un trattato facciano salvi gli obblighi di alcune di esse con altri stati. Si stabilisce una forma di coordinamento unilaterale, che si fonda sull’interesse ad evitare che

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la diversità di ambito soggettivo dei trattati possa comportare un conflitto fra obblighi convenzionali. L’art 41 della convenzione di Vienna stabilisce che la possibilità per alcune parti di un accordo multilaterale di concludere fra loro un accordo in deroga al primo è subordinata ad una serie di condizioni: che tale accordo non incida sui diritti delle altre parti; che esso non risulti incompatibile con l’oggetto e lo scopo del primo accordo. I conflitti fra norme convenzionali vanno risolti sulla base delle regole internazionali. Non sarebbe corretto risolvere tali conflitti sulla base del rispettivo valore che tali norme hanno nell’ambito di un determinato ordinamento interno. Un diverso meccanismo di coordinamento è quello stabilito dall’art 103 della carta delle nazioni unite, il quale prevede che gli obblighi derivanti dalla carta prevalgono in caso di conflitto rispetto agli altri obblighi convenzionali. A differenza delle clausole di compatibilità, l’art 103 della carta non intende subordinare unilateralmente l’accordo nel quale è contenuto, la carta delle nazioni unite, rispetto ad eventuali accordi confliggenti, ma al contrario intende sancirne la prevalenza. Questo effetto è previsto in via generale sia quindi rispetto ad eventuali accordi fra stati membri delle nazioni unite e stati terzi, sia rispetto ad accordi dei quali siano parti solo stati membri. L’art 103 non pone agli stati membri l’obbligo di considerare invalido un accordo confliggente con la carta. Esso si limita ad escludere che l’esistenza di un obbligo internazionale possa indurre uno stato a tenere una condotta incompatibile con gli obblighi derivanti dall’appartenenza alle nazioni unite. 5. Il diritto cogente e la gerarchia fra norme in diritto internazionale Metodi di coordinamento fondati su un criterio gerarchico hanno nell’ordinamento internazionale un rilievo assai più modesto di quanto non avvenga negli ordinamenti statali. L’idea di un diritto superiore rispetto ad una sfera normativa ordinaria si è tuttavia riproposta nell’esperienza del diritto internazionale generale. Data la struttura bilateralista dell’ordinamento, essa si è espressa soprattutto nell’intento di identificare una sfera di valori che costituissero un limite al potere di disposizione degli stati. Di qui la formula del diritto cogente contrapposto al diritto dispositivo. Mentre quest’ultima formula si riferisce alle norme consuetudinarie ordinarie, che possono essere derogate attraverso i trattati, il diritto cogente indicherebbe una sfera normativa superiore rispetto ai trattati. Gli articoli 53 e 64 della convenzione di Vienna concernono la validità e l’efficacia dei trattati confliggenti con il diritto cogente. L’art 53 prevede che un trattato è invalido se, al tempo della sua conclusione, risulta in conflitto con norme imperative del diritto internazionale generale. L’art 54 della convenzione precisa che un trattato confliggente con una norma imperativa venuta in essere dopo la sua conclusione non è nullo ma si estingue a partire da tale momento La convenzione di Vienna stabilisce quindi le conseguenze sul piano normativo che conseguono all’esistenza di una sfera di regole superiori: tali regole hanno l’effetto di rendere invalido, o di estinguere un trattato con esse in conflitto. Nella disciplina della convenzione il diritto cogente esprime un interesse della comunità internazionale a non tollerare una norma avente contenuto che imponga comportamenti contrari ai valori fondamentali dell’ordinamento, indipendentemente dalla circostanza che tale norma sia stata eseguita e che quindi si sia prodotta una violazione effettiva di tali valori.

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La convenzione di Vienna non indica quali siano le norme cogenti. L’art 53 stabilisce però un metodo per identificarle. Una norma imperativa è una norma generale, riconosciuta come inderogabile dalla comunità internazionale nel suo insieme. Dall’art 53 sembrerebbe emergere l’idea che il diritto cogente costituisca una categoria ristretta di norme generali. Si tratterebbe di norme generali che sono anche riconosciute ed accettate dalla comunità internazionale come norme inderogabili. Il processo di formazione del diritto cogente si articola in 2 fasi. Occorre innanzitutto che una norma venga in essere quale norma generale. In secondo luogo occorre che tali regole generali si affermino anche come regole cogenti: occorre cioè che esse acquisiscano lo speciale effetto di invalidare o estinguere accordi confliggenti. Essa potrà essere abrogato sol oda una regola successiva avente lo stesso valore cogente. L’identificazione di norme cogenti segue solo parzialmente le indicazioni della convenzione di Vienna. Inoltre la prassi relativa all’invalidità o all’estinzione di trattati per contrasto con norme cogenti è particolarmente scarsa. La categoria del diritto cogente sembra caratterizzata da due elementi: il carattere collettivo degli interessi protetti e il loro rilievo fondamentale. Questi elementi sono tradizionalmente attribuiti anche ad un’altra nozione assai rilevante per la dinamica normativa internazionale: quella della norma erga omnes. Le due nozioni, quella di norma erga omnes e quella di diritto cogente sono concettualmente molto vicine. Esse esprimono proprietà che sono presenti spesso nelle medesime regole internazionali, le quali hanno sia struttura erga omnes che valore cogente. La nozione di norma erga omnes attiene ad una particolare struttura di taluni obblighi internazionali. Tali sono le norme il cui contenuto normativo non si scompone in un fascio di obblighi e diritti reciproci, ma tende alla tutela di un calore di carattere collettivo o universale. Gli obblighi erga omnes non sono dovuti ad uno o più stati singolarmente identificati, ma nei confronti della comunità nel suo insieme. L’art 44 della convenzione prevede che il contrasto con il diritto cogente produce la conseguenza di rendere invalido l’intero trattato, senza poterne separare le clausole non viziate. In caso di contrasto con norme cogenti sopravvenute, invece, saranno colpite da estinzione le sole clausole viziate, qualora separabili dal resto del trattato. La nozione di diritto cogente si è estesa notevolmente. L’esistenza di un diritto gerarchicamente superiore non rileva solo nell’ambito del diritto dei trattati, essa anzi appare rilevante più in generale nelle dinamiche normative dell’ordinamento. Non necessariamente tale nozione ha lo stesso contenuto nelle varie situazioni in cui essa venga impiegata. Il ruolo del diritto cogente è ben diverso qualora esso venga invocato come limite all’autonomia contrattuale degli stati o come limite all’azione istituzionale del consiglio di sicurezza. Il diritto cogente non dovrebbe rilevare come un limite alle norme consuetudinarie. È assai difficile che una norma consuetudinaria possa essere in contrasto con norme di diritto cogente. Le prime manifestazioni della prassi contrarie al diritto cogente costituirebbero delle violazioni degli interessi fondamentali della comunità internazionale. Il diritto cogente è stato talvolta invocato come uno strumento gerarchico di soluzione dei conflitti fra norme consuetudinarie. Ciò è dovuto al fatto che il diritto consuetudinario non costituisce un sistema normativo coerente.

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PARTE 3 LE DINAMICHE SOGGETTIVE IN DIRITTO INTERNAZIONALE

SEZIONE 1 LO STATO 1. In diritto internazionale. Lo stato costituisce una comunità territoriale organizzata politicamente, una comunità territoriale dotata di una forma di governo che eserciti un controllo effettivo sul territorio. L’ordinamento internazionale non pone alcun requisito attinente alla forma di organizzazione o al regime politico dello stato. Lo stato come soggetto dell’ordinamento internazionale tende a coincidere con l’organizzazione politica della comunità territoriale e quindi con l’apparato di governo. 2. Connaturato all’esistenza di uno stato, è il concetto di sovranità. Si tratta di un concetto di carattere politico. La categoria della sovranità è una categoria altamente simbolica che descrive l’attuale struttura policentrica della comunità internazionale, priva di una forma stabile di autorità sociale. Il carattere della sovranità non è quindi un elemento che si aggiunge al carattere statuale di un certo ente, quanto piuttosto un elemento costitutivo della statualità. La sovranità indicherebbe la capacità di un ente di determinare liberamente i fini e gli strumenti della sua azione politica interna e di concorrere con gli altri soggetti dell’ordinamento alla determinazione di forme di organizzazione sociale sul piano internazionale. 3. Il principio di sovranità non è limitato ad alcun requisito attinente a criteri di rappresentatività fra stato e popolo. La scelta della forma di stato e del regime di governo rientrano nell’ambito degli affari interni di ciascuno stato. Non solo quindi il modo con il quale si determina la scelta di un regime non costituisce un elemento per affermare o per negare la soggettività internazionale di un ente, non vi è nemmeno alcuna norma generale che imponga requisiti di legittimazione democratica o di rappresentatività. Il principio della impermeabilità dell’organizzazione politica dello stato subisce una importante eccezione data dal principio di autodeterminazione dei popoli. Il contenuto e la portata del principio di autodeterminazione appaiono però piuttosto limitati. Innanzitutto la nozione di popolo è priva di connotati etnici, storici o culturali. Essa designa la comunità territoriale dello stato. Ne consegue che il principio non si applica a suddivisioni interne della popolazione. In secondo luogo, il principio di autodeterminazione si applica solo in tre situazioni: ai popoli soggetti a dominazione coloniale, ai popoli soggetti a dominazione straniera, ai popoli soggetti ad un regime non rappresentativo l’intera popolazione. Il principio di autodeterminazione si limita ad escludere forme di dominazione esterne di una comunità territoriale. Esso non impone una alterazione delle strutture statali esistenti al fine di realizzare l’aspirazione all’indipendenza di minoranze, né il principi limita la scelta della organizzazione politica interna a tale comunità. L’applicazione del principio di autodeterminazione comporta un obbligo di concedere l’indipendenza in presenza di una dominazione di carattere straniero o coloniale.

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La struttura erga omnes che esso ha, dovrebbe indicare che ciascuno degli stati della comunità internazionale abbia un interesse giuridico al suo rispetto. Di fatto, gli stati tendono ad astenersi dal far valere tale interesse se non vi è anche un interesse ad agire. Il principio di autodeterminazione dei popoli viene sostanzialmente esercitato dall’assemblea generale. 4. Secondo l’opinione prevalente, il diritto internazionale non contiene alcuna regola che stabilisca direttamente i modi di formazione o estinzione di uno stato. Secondo questa visione, il diritto internazionale generale non disciplina il procedimento di formazione dello stato, né quello della sia estinzione, ma si limita a constatarne l’esistenza o la sua cessazione, e a regolarne gli effetti. Oggi i nuovi stati si formano in seguito a processi di formazione di preesistenti organizzazioni statali. Nuovi stati si formano in seguito a dissoluzione o distacchi di porzioni di territorio rispetto ad una o più organizzazioni statali preesistenti. Le regole di diritto internazionale che disciplinano la formazione di nuovi stati hanno un contenuto puramente procedurale. Esse determinerebbero solo le modalità per far valere le esigenze potenzialmente in conflitto: la pretesa di secessione da un lato, la pretesa dello status a quo dall’altro. Non sempre il processo di formazione di un nuovo stato si svolge nel rispetto delle regole. Sovente esso si accompagna a condotte difformi da regole e principi del diritto internazionale. Ciò accade quando la formazione di un nuovo stato è resa possibile dall’uso della forza internazionale o ad essa si accompagni la violazione del principio di autodeterminazione. 5. Se il diritto internazionale non pone obblighi allo stato relativamente alla sua organizzazione interna, esso non contiene regole tendenti ad identificare i suoi organi. 6. La nascita di un nuovo stato è solitamente accompagnata dal riconoscimento ad opera degli altri stati della comunità internazionale. Il riconoscimento è un atto unilaterale che esprime un accertamento svolto unilateralmente da altri stati circa l’esistenza e la capacità di un nuovo ente ad esercitare le funzioni di sovranità su di una comunità internazionale. In assenza di un accertamento autoritativo, il riconoscimento esprime quindi, a livello decentrato, la volontà degli stati di considerare il nuovo ente come un nuovo soggetto di diritto e di entrare in rapporti giuridici con esso. Una forma di riconoscimento collettivo si verifica con l’adesione di uno stato alle nazioni unite. Alla luce del procedimento di ammissione, che prevede una pronuncia dell’assemblea generale su raccomandazione del consiglio di sicurezza, l’ammissione esprime senz’altro la volontà di accogliere il nuovo ente nella comunità internazionale. Si è affermata in dottrina una diversa ricostruzione secondo la quale il riconoscimento non avrebbe carattere costitutivo, ma avrebbe natura meramente ricognitiva. Con esso ciascuno stato esprime la propria convinzione che un certo ente rivesta i caratteri voluti dall’ordinamento per acquisire personalità internazionale. Vi è una tendenza a subordinare il riconoscimento al rispetto da parte del nuovo stato di principi di democrazia e dei diritti umani. 7. In caso di vicende che comportano l’estinzione di uno stato, si pone il problema di vedere se, con esso, si estinguano anche i suo obblighi convenzionali, o se si possa determinare un

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fenomeno di successione in capo al nuovo ente statale che succeda nel governo della comunità territoriale. La materia è disciplinata tradizionalmente da due principi: il primo è quello che considera come l’ambito di applicazione territoriale di un trattato si modifichi automaticamente in corrispondenza dell’accrescimento o della contrazione del territorio di tale stato. L’estinzione di uno stato dovrebbe comportare, invece, la cessazione dell’efficacia dei trattati da esso conclusi. Questa è la cosiddetta regola della tabula rasa, che costituisce applicazione rigorosa del principio per il quale l’estinzione di un soggetto comporta automaticamente l’estinzione dei suoi obblighi. L’estinzione di uno stato comporta generalmente il passaggio della sovranità territoriale da un ente statale ad un altro. Ciò può realizzarsi senza che venga sensibilmente modificata la consistenza della comunità territoriale. Lo stato di nuova formazione dovrebbe sorgere privo di vincoli diversi da quelli derivanti dal diritto generale. In particolare ad esso non dovrebbe applicarsi alcuno dei trattati stipulati dal predecessore. Questo principio è considerato dalla dottrina come corrispondente al diritto internazionale generale.

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SEZIONE 2 ENTI STATALI A SOVRANITA’ LIMITATA 1. Dal momento che la sovranità è un concetto di carattere unitario e indivisibile, l’idea che vi possano essere enti statali dotati di una “parte” di sovranità sembra inconciliabile con le categorie logiche del diritto internazionale. È difficile qualificare come soggetto dell’ordinamento un ente statale posto in una situazione di totale dipendenza da un altro per l’assolvimento delle proprie funzioni tipiche. 2. I failed state. Con tale termine si è soliti indicare la situazione di uno stato che si trova di fatto in una situazione di anarchia tale da impedire lo svolgimento delle funzioni normalmente assicurate da uno stato. Il fenomeno di failed states consente di evidenziare come dal punto di vista della soggettività non ci sia una perfetta coincidenza fra il governo di una comunità territoriale e la comunità stessa. Di conseguenza, il venir meno dell’organizzazione politica non ha necessariamente come conseguenza il venir meno delle regole che tutelano interessi della comunità territoriale, concepita come ente distinto dall’organizzazione politica. Si avrebbe piuttosto una forma di incapacità provvisoria della comunità territoriale ad esprimere una stabile organizzazione di governo. Tale situazione potrà avere esiti diversi, dalla ricostruzione di un governo rappresentativo dell’intera comunità, allo smembramento in più soggetti. 3. I rogue state (stati canaglia) sono gli stati ai quali, in ragione di un comportamento contrario ad alcuni principi fondamentali del diritto internazionale, si dovrebbe negare l’appartenenza alla comunità internazionale e le garanzie che il diritto internazionale riconnette alla statualità. Per il fatto di violare le regole sociali della convivenza fra stati, i rogue states si porrebbero al di fuori della comunità internazionale. Essi, di conseguenza non sarebbero abilitati ad invocare le garanzie che il diritto internazionale accoda ai membri della comunità. In particolare verrebbe meno la garanzia primaria del diritto all’esercizio indisturbato della sovranità territoriale.

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SEZIONE 3 GLI ENTI A SOGGETTIVITÀ LIMITATA 1. Il diritto internazionale classico annovera tradizionalmente, accanto agli stati alcuni enti aventi soggettività limitata nel senso che essi non sono destinatari di tutte le regole internazionali. Disponendo di competenze limitate, essi sono invece destinatari di regole attinenti all’esercizio delle loro competenze. Fra questi il diritto internazionale classico annovera classicamente gli insorti. Questa è la forma classica che indica il governo provvisoriamente stabilito su una parte del territorio statale da un movimento rivoluzionario o secessionista. 2. Nel panorama dei soggetti non aventi natura statale, le organizzazioni internazionali hanno assunto un ruolo assai rilevante. Nel sistema concettuale del diritto internazionale, la costituzione di organizzazioni internazionali ha fatto sorgere il problema della loro capacità di essere destinatarie e di esercitare posizioni soggettive tradizionalmente riservate agli stati. Tale problema viene indentificato come il problema della soggettività delle organizzazioni internazionali. A tal proposito si ergono due teorie. Secondo una teoria accolta dagli anglosassoni, il contenuto e la portata della soggettività di un’organizzazione vanno determinati sulla base del trattato istitutivo. Secondo questa dottrina consensualista, per determinare il contenuto e la portata della soggettività di un’organizzazione è necessario stabilir se, con il trattato istitutivo, gli stati membri hanno inteso costituire un centro autonomo di imputazione di rapporti soggettivi o semplicemente un organo comune. Secondo un diverso schema, di carattere obbiettivista, accolto dalla dottrina italiana, la soggettività di un ente è stabilita in base al diritto generale. Una organizzazione internazionale sarà destinataria di posizioni soggettive internazionali qualora essa acquisisca un certo grado di autonomia rispetto ai propri stati membri che consenta di configurarla come centro di imputazione di rapporti soggettivi distinto dai suoi stati membri. Questi due schemi teorici difficilmente trovano integrale applicazione nella realtà delle organizzazioni internazionali. La prima costruzione appare scarsamente realista. Un ente si afferma come soggetto del diritto internazionale se mostra in pratica una capacità di intrattenere autonome relazioni con altri soggetti. La dottrina obiettivista sembra porre eccessiva enfasi sulla constatazione in via di fato dell’autonomia del nuovo ente, la quale, nei suoi momenti iniziali non può che trovar fonte nel trattato istitutivo. 3. (stati che hanno trasferito poteri ad enti sovranazionali) Il trasferimento di competenze a favore di organizzazioni internazionali pone il problema di verificare se gli stati membri di tali organizzazioni abbiano mantenuto inalterata la propria personalità. Nella prospettiva classica questo fenomeno di transizione della personalità non si verificherebbe mai. Ancorché gli stati abbiano trasferito poteri, anche rilevanti, ad organizzazioni internazionali, essi manterrebbero inalterata la sfera della propria personalità. La personalità dello stato non sarebbe un elemento acquisibile o dismettibile, quanto piuttosto una qualità essenziale della statualità di un certo ente. La personalità costituisce, nel caso dello stato, un corollario della sua sovranità ed appare da esso indissociabile.

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Inoltre le organizzazioni internazionali sono enti dotati di soggettività funzionale, che cioè è loro attribuita per le finalità che esse perseguono. In conseguenza di tale schema, l’istituzione di una organizzazione internazionale aggiunge un nuovo soggetto, a soggettività parziale, al panorama di quel ligia esistenti, ma non altera in alcun modo la soggettività degli stati. 4. (Stati che hanno trasferito poteri sovrani ad enti sub-statali) Si tende generalmente a negare che abbiano soggettività internazionale gli enti substatali, quali gli enti costitutivi di uno stato federale o le articolazioni territoriali interna di stati unitari. Tradizionalmente si ritiene che gli enti costitutivi di stati federali siano sprovvisti di sovranità. Ciò varrebbe non solo nei casi in cui uno stato federale sorge in seguito alla devoluzione di competenze ad opera di un precedente stato unitario, ma anche qualora lo stato federale sorga in seguito ad un processo di federazione di stati sovrani. Nella maggior parte dei casi di aggregazioni federali, il trasferimento di sovranità comporta la perdita della soggettività internazionale di enti costitutivi. Generalmente l’ente federale raggruppa in se le funzioni estere del nuovo stato. In tal caso, lo stato federale è tale solo verso l’interno, e si presenta invece con le sembianze di uno stato unitario sul piano esterno (es. Stati uniti d’America). Talora, invece, gli enti federati mantengono una certa autonomia sul piano dei rapporti internazionali.

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SEZIONE 4 GLI INDIVIDUI 1. La questione della soggettività degli individui o dei gruppi di individui ha acquisito crescente rilievo negli ultimi decenni. Le categorie concettuali del diritto internazionale si sono formate sul presupposto che i destinatari naturali delle sue regole siano gli stati. Questo schema teorico resta sostanzialmente immutato anche nei casi in cui delle regole internazionali tendano a produrre situazioni vantaggiose o svantaggiose per individui o per gruppi di individui. Gli individui sarebbero meri beneficiari materiali della regola, la quale produrrebbe posizioni soggettive internazionali soltanto nei confronti degli stati. Secondo questo schema concettuale, il titolare di una posizione soggettiva non coincide necessariamente con il beneficiario materiale di essa. Sarà invece titolare colui al quale l’ordinamento internazionale riconosce il potere di pretendere l’osservanza di una regola nonché di agire per farne calere la violazione. 2. nello schema classico le regole internazionali possono disciplinare attività individuali, ma lo fanno attraverso l’intermediazione normativa rappresentata dagli ordinamenti interni. Un diverso schema teorico è presupposto invece dalle regole internazionali che intendono produrre diritti o obblighi direttamente in capo a soggetti individuali regole di questo tipo rappresentano un tratto caratteristico dell’evoluzione del diritto internazionale contemporaneo. 3. il diritto internazionale classico conteneva una limitata serie di regole che stabilivano obblighi a carico di individui e ne sanzionavano l’inosservanza. La formula classicamente utilizzata era quella dei crimina iuris gentium, dell’insieme di regole internazionali, cioè che sanzionavano condotte di individui considerate lesive per la comunità internazionale. La normativa internazionale sui crimi individuali si è sviluppata a partire dalla seconda metà del XX secolo. Il 9 dicembre 1948 l’assemblea generale delle nazioni unite ha adottato la convenzione sul genocidio. La convenzione definisce il genocidio come un crimine internazionale prevedendo che esso comporti non solo la responsabilità dello stato, ma anche la responsabilità penale degli individui che lo abbiano commesso. La convenzione stabilisce quindi che la giurisdizione penale su atti di genocidio compiuti da individui spetti ad un tribunale internazionale, e in mancanza allo stato sul cui territorio siano state poste in essere le condotte che costituiscano genocidio. 4. In corrispondenza alla formazione di regole internazionali che pongono obblighi a carico di individui, l’ordinamento internazionale ha anche sviluppato un imponente corpo di regole a tutela dei diritti individuali. Il processo di sviluppo di diritti dell’uomo ha avuto inizio ad opera delle nazioni unite. Del 10 dicembre 1948 è la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

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5. La circostanza che varie regole internazionali, consuetudinarie o convenzionali, riconoscano certi diritti individuali non è sufficiente a concludere nel senso che esse creano effettivamente posizioni soggettive in capo a singoli individui. È possibile che esse si fondino sullo schema classico secondo il quale i titolari delle posizioni soggettive sono sempre stati parti della regola, mentri gli individui rimarrebbero meri beneficiari di fato. Al fine di affermare la titolarità dei diritti dell’uomo da parte dei singoli individui occorre dimostrare che tali regole stabiliscono un rapporto soggettivo del quale siano parti direttamente gli individui. Occorre quindi dimostrare che gli individui possano esigere direttamente il rispetto dei propri diritti o che nei loro confronti di possa esigere direttamente il rispetto dei loro obblighi.

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SEZIONE 5 LA TUTELA DELLA PERSONALITÀ DELLO STATO: IL REGIME DELLE IMMUNITÀ E PRIVILEGI 1. Il diritto internazionale ha sviluppato una serie di regimi relativi alle immunità di stati stranieri e di suoi organi. Il primo è quello delle immunità accordate agli organo di stati stranieri in relazione a condotte organiche. Si tratta di regole che imputano le condotte organiche allo stato per il quale sono state operate e non direttamente agli individui che le hanno poste in essere. Un secondo gruppo è dato dalle regole che stabiliscono le immunità di cui godono gli stati negli ordinamenti interni. Tali regole hanno lo scopo di tutelare la personalità internazionale degli stati evitando che essi possano essere convenuti di fronte ai tribunali di un altro stato. Un terzo gruppo è composto dalle regole che assicurano forme di immunità a favore di particolari organi statali per condotte private. Esse si applicano al personale diplomatico, ai capi di stato e di governo, ai ministri responsabili per le relazioni internazionali. L’immunità risponde all’esigenza si assicurare la libertà di azione degli organismi supremi dello stato e di mantenere aperti i canali diplomatici. 2. Le regole sull’immunità non assicurano delle vere e proprie forme di immunità. Si tratta invece d regole sull’imputazione. Esse impongono di imputare le condotte poste in essere da organi di stati stranieri nell’esercizio delle proprie funzioni allo stato per il quale tali condotte sono state operate. Tale regola ha l’effetto di sottrarre una certa condotta all’applicazione del diritto interno di uno stato e di consegnarla al diritto internazionale. La regola sull’imputabilità allo stato di condotte dei propri organi comporta delle eccezioni. Ad esempio rilievo ha l’eccezione che si riconnette all’esistenza di regole internazionali che si dirigono direttamente agli individui, ponendo in capo ad essi l’obbligo di non violare valori fondamentali della comunità internazionale, provvedendo a sanzionare direttamente la loro inosservanza. 3. Nel diritto internazionale classico, le regole sull’immunità avevano una portata ampia e ricoprivano ogni attività imputabile allo stato posta in essere dai suoi organi. Questo regime giuridico, noto con il nome di immunità assoluta, escludeva in maniera radicale la possibilità di convenire in giudizio uno stato straniero. Il principio dell’immunità ristretta invece tende a riservare l’immunità alle azioni statali che costituiscono esercizio di funzioni sovrane, negandola invece per le attività commerciali nelle quali gli stati agiscono alla stregua di soggetti privati. Tale principio distingue quindi fra attività iure imperii, per le quali l’immunità viene riconosciuta, e attività iure gestionis per le quali l’immunità viene negata. Il criterio di distinzione fra attività iure imperii, posta cioè in essere da uno stato nell’ambito della propria potenza e quelle invece iure gestionis, poste in essere come soggetto di diritto privato è generalmente accolto dalla prassi e dalla dottrina. 4. il diritto internazionale assicura inoltre l’immunità dalla giurisdizione ad alcuni organi di stati stranieri per le attività poste in essere al di fuori delle proprie funzioni. Queste spettano ai rappresentanti degli stati accreditati presso altri stati o organizzazioni internazionali, cioè agenti diplomatici e entro una certa misura ai consoli.

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Queste forme di immunità sono riconosciute al fine di assicurare la libertà di manovra agli organi abilitati ad esprimere la posizione internazionale dello stato, l’immunità dovrebbe quindi essere ristretta a titolari della funzione di intrattenere relazioni internazionali e quindi capi di stato, di governo e ministri degli affari esteri. La disciplina delle immunità diplomatiche è il frutto di una evoluzione secolare del diritto consuetudinario. Essa è ora codificata nella convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Le immunità diplomatiche sono disciplinate dalla convenzione in maniera disorganica. La convenzione non distingue infatti fra immunità che spettano alla missione diplomatica e ai suoi membri nell’esercizio della funzione diplomatica, ed immunità che vanno riconosciute ai membri della missione per le loro attività private. Le prime dovrebbero essere la logica conseguenza del regime dell’imputabilità allo stato delle attività dei propri organi. Le seconde sono strettamente legate alla carica di agente diplomatico, dato che esse sono concesse al fine di non impedire il libero esercizio della funzione diplomatica. Esse cessano al momento in cui l’individuo interessato abbia cessato di esercitare una funzione diplomatica. 5. Le varie forme di immunità costituiscono un sistema teso a tutelare l’organizzazione degli stati e a garantire l’esercizio di funzioni sovrane, evitando quindi che l’esercizio della giurisdizione interna di altri stati possa interferirvi. In un certo senso tale regime è il riflesso della struttura primaria della comunità internazionale. Tali regole tendono a mantenere la loro efficacia anche nei confronti di attività statali contrarie al diritto internazionale. È proprio rispetto a tali attività che esse manifestano la propria utilità. Uno stato risulta immune di fronte ai tribunali di un diverso stato anche in relazione a controversie la cui soluzione dipende dalla liceità internazionale di una certa condotta. Non è possibile invocare un illecito da parte di uno stato per negare l’applicazione delle regole sull’immunità, in quanto si finirebbe con il pregiudicare la funzione stessa di tali regole. 6. Le regole sull’immunità degli stati hanno una portata soggettiva ristretta. Esse escludono la giurisdizione interna nei confronti di uno stato straniero. La dottrina dell’act of state tende ad impedire l’applicazione del diritto internazionale da parte di giudici interni allorché esso è invocato al fine di opporsi ad un atto sovrano di uno stato adottato nell’ambito della propria competenza territoriale.

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PARTE 4 CENTRALIZZAZIONE E DE-CENTRALIZZAIONE NELLA DISCIPLINA DELLA

RESPONSABILITA’ INTERNAZIONALE

SEZIONE 1 IL RAPPORTO BILATERALE DI RESPONSABILITA’ 1. Nell’ambito del diritto della responsabilità assume rilievo la questione di determinare le modalità centralizzate o decentralizzate di accertamento dell’illecito e di garanzia delle posizioni soggettive. Nell’ambito dell’ordinamento internazionale la carenza di strutture istituzionali fa si che anche molte delle attività connesse all’accertamento e alla repressione di condotte illecite siano operate a livello decentrato , ad opera cioè dei medesimi soggetti che sono anche parti destinatarie della norma sostanziale violata e vittime dell’illecito. 2. Le difficoltà che si incontrano nella ricostruzione delle regole sulla responsabilità internazionale, sono testimoniate dai lunghi tempi dei lavori di codificazione. Con risoluzione 799 del dicembre ’53 l’assemblea generale chiedeva alla commissione del diritto internazionale di includere il tema della responsabilità nei lavori di codificazione. Il progetto definitivo, veniva approvato dalla commissione nel 2001. Il testo dell’articolato è stato posto all’attenzione della commissione dell’assemblea generale delle nazioni unite. Con risoluzione l’assemblea ha preso atto dell’articolato, senza decidere se avviare i lavori per una convenzione di codificazione. Allo stato attuale l’articolato costituisce un documento di indubbia autorevolezza sullo stato del diritto della responsabilità ma privo di valore vincolante. 3. La struttura del rapporto di responsabilità è stata oggetto di ricostruzioni di vario tipo. In una prospettiva normativista, la violazione di regole primarie da luogo all’applicazione di regole secondarie. Le regole secondarie sono norme strumentali che assistono l’attuazione delle norme primarie. Esse stabiliscono gli obblighi che incombono in conseguenza di un illecito, sullo stato che ne è autore e i corrispettivi diritti a favore dello stato leso. Il mancato adempimento di questi obblighi giustificherebbe l’attivazione degli strumenti di garanzia, tesi ad indurre lo stato autore ad assumersi la responsabilità e a ripristinare la legalità dell’ordinamento violato dall’illecito. Spesso, a causa della carenza di strumenti di accertamento e di garanzia fa si che uno stato vittima di un illecito tenda a realizzare direttamente le proprie posizioni soggettive, sia operando in via coercitiva, al fine di imporre allo stato autore la cessazione dell’illecito e la riparazione, sia operando in via esecutiva, provvedendo ad assicurare direttamente il risultato voluto dalla norma violata, sia infliggendo una sanzione privativa e rispristinando l’equilibrio normativo voluto dalla norma violata. È difficile configurare in maniera unitaria la struttura e la natura del rapporto di responsabilità, il quale assume forme diverse a seconda dei vari settori nei quali esso si manifesta.

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4. Affinché vi sia illecito occorre in primo luogo che vi sia una condotta antigiuridica, contraria ad una regola del diritto internazionale e non giustificata da una delle cause di esclusione dell’illecito. Tali condotte potranno consistere sia in condotte di tipo materiale, sia in provvedimenti amministrativi, legislativi o giudiziari. Al fine di stabilire l’esistenza di una condotta antigiuridica, occorrerà quindi preliminarmente ricostruire il contenuto dell’obbligo violato. In generale una legge viola il diritto internazionale solo se vi è un obbligo ad avere, o a non avere, una certa norma di legge nel proprio ordinamento. L’attività giudiziaria può a propria volta violare direttamente norme internazionali, in particolare quelle che impongono un obbligo di esercitare o di non esercitare la giurisdizione, o obblighi relativi a certi comportamenti da tenere nell’amministrazione della giustizia. L’articolato disciplina una serie di ipotesi nelle quali una condotta astrattamente contraria a regole internazionali non è causa di illecito e quindi non produce responsabilità. Come causa di esclusione dell’illecito, l’articolato indica il consenso dell’avente diritto, la circostanza della forza maggiore e lo stato di necessità, la legittima difesa e la contromisura. Lo stato di necessità Fra le cause di esclusione dell’illecito vi è lo stato di necessità. Negli ordinamenti contemporanei lo stato di necessità può essere inquadrato come una clausola generale di eccezione, che consente comportamenti in deroga alle regole dell’ordinamento in relazione ad esigenze non codificabili ma derivanti dalla necessità sociale. Nella circostanza che si tratti di necessità sociale e non fisica ridiede la differenza con la forza maggiore. 5. L’art 2 dell’articolato stabilisce che la responsabilità sorge per uno stato in conseguenza di una condotta antigiuridica che gli possa essere attribuita. La regola fondamentale di attribuzione è stabilita dall’art 4 dell’articolato, secondo il quale va attribuita allo stato ogni condotta di un suo organo (centrale o decentrato che sia). Si pone il problema di decidere se possano essere attribuiti ad uno stato condotte di soggetti non aventi formalmente la qualità di organo, ma dotati di un intenso legame con tale stato. Secondo l’art 8 dell’articolato, tale possibilità andrebbe ristretta a casi eccezionali: rispetto cioè a condotte operate da soggetti privati sotto la direzione e il controllo dello stato stesso. 6. Nella prassi, e nei testi di codificazione, il rapporto di responsabilità sorge obiettivamente, senza alcun riguardo ad elementi di carattere psicologico quali il dolo o la colpa. Ciò non vuol dire che la responsabilità internazionale non dia rilievo alla partecipazione cosciente del soggetto autore dell’illecito. Anche nel diritto internazionale, vi sono infinite forme del rapporto di responsabilità. L’esigenza di stabilire un nesso di partecipazione fra l’autore e la condotta illecita è solitamente espressa attraverso la predisposizione di standards e modelli predeterminati di condotta. Questa tecnica ha come effetto quello di spostare l’accertamento della colpa dell’agente dal livello delle norme secondarie sulla responsabilità al livello delle norme primarie. Spesso sono infatti le norme primarie a determinare i modelli comportamentali concreti che devono guidare il processo di attuazione e che se correttamente eseguiti escludono la responsabilità dell’agente.

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7. La seconda parte dell’articolato sulla responsabilità dello stato disciplina il contenuto della responsabilità. Esso stabilisce regole relative alle conseguenze che derivano dall’illecito sul piano dei rapporti giuridici fra lo stato autore e lo stato vittima. Fra le conseguenze sostanziali dell’illecito, l’articolato include la cessazione, l’obbligo di assicurare la non ripetizione e l’obbligo di riparazione. Quest’ultima assume le forme del ripristino della situazione che sarebbe esistita in assenza dell’illecito, del risarcimento del danno e della soddisfazione. Cessazione e garanzia di non ripetizione Qualora l’illecito non sia di carattere istantaneo, il soggetto autore ha l’obbligo di cessarlo e riprendere una condotta conforme alla regola violata. L’obbligo di cessazione non costituisce una conseguenza dell’illecito, ma piuttosto un effetto della medesima norma primaria violata. Nei casi di obblighi di carattere continuativo l’illecito non sospende l’effetto della norma violata. Lo stato autore dell’illecito avrà in primo luogo l’obbligo di cessare la condotta illecita. La riparazione Oltre a cessare l’illecito, l’autore dovrà provvedere alla riparazione. Questa si articola nella riparazione in forma specifica, che consiste nell’obbligo per lo stato autore di ripristinare la situazione che sarebbe esistita se non si fosse verificato l’illecito e nella riparazione per equivalente, consistente essenzialmente nell’obbligo di prestare un indennizzo. Una riparazione dei danni morali è invece quella che trova espressione nell’obbligo di soddisfazione. La regola che prevede la riparazione in integrum, impone allo stato autore di eliminare retroattivamente le conseguenze dell’illecito. Il tipo di condotta necessaria a tal fine dipenderà dal contenuto dell’obbligo violato. L’impossibilità totale o parziale, di una riparazione in forma specifica, farebbe operare l’obbligo del risarcimento. Al risarcimento del danno spetterebbe un ruolo residuale, al fine di riparare un illecito che non possa essere riparato in forma specifica. La soddisfazione è una sorta di riparazione del danno morale, che consiste nel riconoscimento dell’illecito. La giurisprudenza internazionale, si orienta nel senso di ritenere che l’accertamento dell’illecito ad opera di un tribunale internazionale costituisce adeguata realizzazione dell’obbligo di soddisfazione. Fra i vari tipi di riparazione previsti dall’ordinamento generale non sembra possibili tracciare alcun ordine di priorità. In particolare non sembra di poter assegnare priorità alla riparazione in forma specifica rispetto al risarcimento dei danni. La determinazione della forma di riparazione più appropriata va compiuta caso per caso in relazione alla funzione e al contenuto di ciascuna singola norma violata. 8. La parte terza dell’articolato concerne il sistema di garanzie posto a disposizione di uno stato vittima di un illecito. Nella prima sezione sono contenute le regole che consentono di individuare le parti fra le quali si articola il rapporto di responsabilità. Qualora l’illecito sorga dalla violazione di regole reciproche, il rapporto di responsabilità avrà struttura bilaterale, nel senso che ciascuno stato leso avrà titolo per invocare autonomamente la responsabilità dell’autore. L’art 43 stabilisce gli adempimenti preliminari all’invocazione della responsabilità. A tal fine, occorre che lo stato leso notifichi allo stato autore la richiesta di cessazione o di riparazione, specificando, in tale caso, la forma di riparazione richiesta. La norma intende quindi dare allo

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stato autore la possibilità di assumersi la responsabilità dell’illecito, o comunque di facilitare l’avvio di un processo negoziale teso a determinare concordemente le forme di responsabilità, prima di attivare gli strumenti unilaterali di garanzia. Le disposizioni degli articoli 44 e 45 subordinando la possibilità di invocare la responsabilità da parte di uno stato leso all’esistenza di talune condizioni in tema di nazionalità e di previo esaurimento dei ricorsi interni. Tali condizioni sono particolarmente importanti per invocare la violazione delle regole sul trattamento dello straniero. Le contromisure nel rapporto bilaterale di responsabilità Non vi è in diritto internazionale alcuno strumento istituzionale di garanzia delle posizioni soggettive dei singoli stati. L’unico strumento a disposizione dello stato leso per garantire la propria sfera giuridica violata dall’illecito è dato dalla reazione unilaterale. È generalmente accettata l’idea che lo stato leso da un illecito abbia il potere di reagire con l’adozione di contromisure nei confronti dell’autore dell’illecito. Controversa è la funzione delle contromisure. L’articolato indica che il potere di adottare contromisure è funzionale allo scopo di indurre lo stato autore ad assumersi la responsabilità dell’illecito e ad ottenere la cessazione dell’illecito nonché eventuali garanzie di non ripetizione e la riparazione. Le contromisure avrebbero quindi una funzione essenzialmente coercitiva: quella di fare pressioni sullo stato autore al fine di indurre quest’ultimo ad assumersi la responsabilità e quindi a ripristinare una situazione conforme a diritto. L’art 52 stabilisce modalità che tendono ad istituzionalizzare il procedimento di adozione di contromisure. Lo stato vittima dovrà effettuare una sorta di messa in mora dello stato autore, intimando di riprendere l’osservanza della norma violata, offrendo di aprire un negoziato. L’adozione di contromisure è vietata in pendenza di soluzione giudiziale della controversia. Nella prassi meno recente le contromisure svolgevano una funzione meramente retributiva: quella di infliggere allo stato autore un costo per la commissione dell’illecito. I limiti al potere di adottare contromisure Il principale limite è dato dalla proporzionalità della reazione. Che la reazione debba essere proporzionata all’offesa è principio di carattere generale. È difficile per un ordinamento giuridico ammettere una reazione sproporzionata all’illecito. Difatti nell’ordinamento internazionale non vi è alcun dato della prassi in cui uno stato abbia rivendicato un diritto di adottare contromisure sproporzionate. L’art 51 dell’articolato sulla responsabilità degli stati indica la proporzionalità come limite alle contromisure. Esso definisce tuttavia la proporzionalità nel suo aspetto quantitativo, come rapporto fra l’illecito e la reazione. Sarà quindi sproporzionata una reazione che comporta danni superiori a quelli subiti, anche in considerazione della gravità giuridica della violazione. Altri limiti al potere di agire in contromisura L’art 50 contiene una elencazione di altri limiti al potere di agire in contromisura: il divieto di uso della forza; l’obbligo di tutela dei diritti umani fondamentali; il diritto cogente. Inoltre precisa che il potere di agire in contromisura non comporta la possibilità di violare obblighi in tema di soluzione pacifica delle controversie nonché gli obblighi concernenti le immunità diplomatiche.

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SEZIONE 2 IL RAPPORTO COLLETTIVO DI RESPONSABILITA’ 2. Si è soliti distinguere tra due tipi di illeciti: gli illeciti ordinari, che darebbero luogo ad una forma ordinaria di responsabilità, e gli illeciti qualificati che darebbero luogo ad una forma di responsabilità aggravata. 3. Particolarmente complessa è l’identificazione del contenuto della responsabilità aggravata. Escluso che essa possa assumere natura penalista, il suo elemento distintivo dovrebbe consistere in un obbligo incondizionato di reintegrare la situazione giuridica lesa. Il carattere fondamentale degli interessi lesi non dovrebbe tollerare forme equivalenti di riparazione. L’art 41 indica fra le conseguenze speciali della violazione di interessi essenziali della comunità internazionale, l’obbligo per gli stati di cooperare per ottenere la cessazione dell’illecito, l’obbligo degli stati di non riconoscere una situazione costituita attraverso una grave violazione di interessi essenziali della comunità internazionale. 4. Il dibattito dottrinale sull’esistenza e sulle forme di responsabilità aggravata si è prevalentemente concentrato sull’individuazione di forme appropriate di garanzia, che concilino l’esistenza di posizioni soggettive tese alla tutela di valori ed interessi collettivi della comunità internazionale nel suo insieme con la struttura decentrata dell’ordinamento internazionale. Si possono a proposito individuare tra linee principali di tendenza.

1) La prima tende a valorizzare la struttura erga omnes delle tegole violate. Se tutti i soggetti della comunità internazionale sono lesi da una grave violazione di obblighi derivanti dal diritto cogente, ciascuno di essi avrebbe, secondo tale tendenza, una propria legittimazione ad agire nei confronti dell’autore;

2) Una seconda tendenza di carattere istituzionalista, tende a negare la legittimazione ad agire ai singoli soggetti internazionali. Dato che le regole violate producono posizioni soggettive non in capo a ciascuno stato, bensì alla comunità internazionale nel suo insieme, sarebbe quest’ultima concepita come un soggetto distinto dai singoli stati, l’unico ente titolare di posizioni soggettive collettive, e quindi, l’unico legittimato ad agire attraverso propri organi.

3) Un’ipotesi intermedia è quella di considerare che, in assenza di reazione istituzionale, ciascuno stato della comunità internazionale è legittimato ad agire, ma non a tutela di una propria posizione soggettiva bensì per conto della comunità internazionale. La possibilità di una reazione dei singoli stati agenti comporta la necessità di stabilire delle forme di coordinamento sia fra gli stati agenti, sia fra questa forma di reazione decentralizzata ed eventuali forme di azione istituzionale.

L’art 48 della carta indica come l’interesse collettivo alla cessazione dell’illecito possa essere fatto valere da ciascuno degli stati della comunità internazionale, agente individualmente. Ciascuno stato potrà agire per la riparazione del danno, ma solo a favore dei beneficiari della regola violata. L’articolato invece indica la possibilità di individuare nell’ambito del rapporto collettivo di responsabilità uno stato specialmente leso, il quale avrà titolo a far valere nei confronti dell’autore tutte le conseguenze dell’illecito alla stregue di un rapporto individuale di responsabilità.

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La distinzione fra stato specialmente leso dalla violazione ed altri stati egualmente parti del rapporto collettivo di responsabilità si avverte rispetto al potere strumentale di attivare strumenti di garanzia e quindi del potere di adottare contromisure. Lo stato specialmente leso ha un generale potere di adottare contromisure nel perseguimento degli scopi e nel rispetto dei limiti che incontra qualsiasi stato vittima in un rapporto bilaterale di responsabilità.

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PARTE 5 LA SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE E LA FUNZIONE GIUDIZIARIA

1. In un ordinamento a struttura paritaria come quello internazionale, l’affermazione di una funzione giudiziaria di soluzione delle controversie è particolarmente difficile. La funzione giudiziaria tende a realizzare un tipico interesse pubblico: quello di assicurare ai consociati la garanzia dell’accertamento delle loro posizioni soggettive ad opera di organi imparziali e sulla base dell’applicazione del diritto. A propria volta l’attuazione delle decisioni giudiziarie è affidata ad organi e procedure previste dall’ordinamento. Questo modello non si realizza nell’ordinamento internazionale classico, ispirato al principio di sovranità. In tale modello il regolamento giudiziario delle controversie è possibile solo in presenza di un consenso degli stati parte della controversia. Questa forma di soluzione si fonda sulla volontà delle parti, tanto da risultare più simile ad una definizione contrattuale, che ad una vera e propria forma di regolamento giudiziario. Si distingue solitamente tra mezzi giudiziari e mezzi diplomatici di soluzione delle controversie. Sono mezzi giudiziari quelli che prevedono il deferimento del potere di risolvere una controversia ad un giudice, sono mezzi diplomatici incentrati sull’azione politica degli stati parte della controversia. L’ordinamento internazionale è oggi caratterizzato da una marcata tendenza a definire controversie attraverso regolamento giudiziario. Esso si è dotato di tribunali permanenti sia a competenza generale, quali la corte internazionale di giustizia, che a competenza settoriale, quali il tribunale internazionale per il diritto del mare. 2. La forma più semplice di soluzione giudiziaria è data dall’ARBITRATO. L’istituto dell’arbitrato consiste nella competenza di un soggetto terzo, sia esso privato o stato, a definire una controversia, o parte di essa, attraverso l’applicazione del diritto o attraverso equità con effetti obbligatori per le parti. Gli organi arbitrali sono composti da individui che non rappresentano il punto di vista di uno stato. Tuttavia, non è insolita, la presenza in un colleggio arbitrale, di un componente designato da ciascuna parte della controversia. La presenza in collegio di un componente designato dalle parti ha una funzione di garanzia politica, senza però alcun vincolo di rappresentanza. L’accordo che conferisce ad un arbitro la competenza a definire una controversia è detto compromesso. Il conferimento di competenza può essere anche limitato ad una parte sola della controversia. La competenza dell’arbitro può essere anche precostituita attraverso una clausola inserita in un trattato. La clausola prende il nome di clausola compromissoria e conferisce ad un arbitro la competenza a conoscere le controversie relative all’interpretazione e all’applicazione dell’accordo nel quale è inclusa. La clausola compromissoria obbliga le parti a ricorrere ad un arbitro ma non ha l’effetto di precostituire la competenza di organo bilaterale. Per stabilire la competenza dell’arbitro occorrerà che le parti lo istituiscano, di comune accordo, attraverso la stipulazione di un compromesso. Qualora invece sia la stessa clausola compromissoria a radicare la competenza in capo ad un organo di giudizio, essa di dirà completa. Il consenso delle parti su una clausola compromissoria si esprime in un momento antecedente al sorgere di una controversia.

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La competenza di un organo arbitrale può derivare da un trattato di arbitrato. Si tratta di un trattato il cui oggetto è proprio quello di stabilire la competenza di un organo arbitrale per tutte, o per certi tipi di controversie, che dovessero insorgere fra le parti. Il trattato generale di arbitrio ha lo scopo di stabilire la competenza arbitrale in anticipo rispetto all’insorgere di una controversia. A differenza della clausola compromissoria nel trattato di arbitrio la competenza del giudice si stabilisce rispetto a categorie generali di controversie. 4.La corte internazionale di giustizia La corte internazionale di giustizia è stata istituita dalla carta delle nazioni unite, la quale la definisce come il principale organo giurisdizionale delle nazioni unite. La carta precisa inoltre che la corte funziona in base allo statuto, che corrisponde in gran parte allo statuto della corte permanente di giustizia internazionale e che forma parte integrante della carta. Lo statuto disciplina la composizione e il funzionamento della corte internazionale di giustizia. La corte ha sede all’Aja. Essa è composta da 15 giudici eletti, dall’assemblea generale e dal consiglio di sicurezza, fra le persone incluse in un elenco predisposto dai gruppi nazionali della corte permanente di arbitrato. I giudici sono eletti sulla base di un criterio che assicuri la rappresentanza delle aree geopolitiche mondiali, godono di garanzie di indipendenza, e devono possedere i requisiti per la nomina alle alte magistrature nazionali. Lo statuto distingue due funzioni affidate alla corte: una funzione contenziosa, ovvero di soluzione giudiziaria di controversie fra stati, ed una funzione consultiva, fornendo pareri giuridici agli organi politici delle nazioni unite. La funzione contenziosa della corte internazionale di giustizia è aperta solo agli stati. La corte non ha una competenza generale a definire controversie fra stati. Occorre invece che la competenza le sia specificatamente attribuita dalle parti attraverso accordo. Ciascuno stato aderente allo statuto può in qualsiasi momento effettuare una dichiarazione unilaterale con la quale riconosce la competenza della corte e definire controversie che possano insorgere con qualsiasi stato che abbia effettuato o che effettuerà una dichiarazione analoga. La carta delle nazioni unite contiene un meccanismo teso a garantire coattivamente l’attuazione delle sentenze della corte. Non vi è nel sistema delle nazioni unite un interesse ad imporre agli stati di risolvere le loro controversie per via giudiziaria. Una volta scelta tale strada, però gli stati dovranno adeguarsi alle decisioni della corte. Se una delle parti di una controversia non si conforma alla soluzione decisa dalla corte, l’altra può ricorrere al consiglio di sicurezza, il quale può fare raccomandazioni o anche decidere misure per l’attuazione della sentenza. La corte internazionale di giustizia agisce come un organo di carattere arbitrale, posto a disposizione degli stati che intendano avvalersene per la risoluzione delle loro controversie. Alla corte è però attribuita un’altra competenza di carattere consultivo nell’ambito della quale acquista rilievo la dimensione istituzionale della corte nel sistema delle nazioni unite. I pareri consultivi della corte internazionale non sono ne obbligatori ne vincolanti. 5.I tribunali settoriali Ai tribunali permanenti a competenza generale, si sono affiancati una serie di tribunali a competenza settoriale. Essi sono stati istituiti con trattato e la loro competenza si estende, in forza di una clausola compromissoria, alle sole controversie ricadenti nell’ambito del trattato stesso.

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6.Funzione giudiziaria internazionale Nell’ambito della funzione giudiziaria internazionale occorre collocare lo sviluppo dei tribunali internazionali che hanno giurisdizione rispetto a diritti ed obblighi indirizzati dall’ordinamento internazionale agli individui. Questi organi esercitano una funzione tipicamente assegnata a quelli interni: quella cioè di accertare posizioni soggettive individuali e di determinare le conseguenze della loro violazione. I tribunali istituiti dalle convenzioni sui diritti dell’uomo sono generalmente chiamati ad accertare violazioni di tali diritti da parte degli stati e a determinare le conseguenze che ne derivano a favore degli individui. I tribunali istituiti dalle convenzioni di diritto internazionale penale sono invece chiamati ad accertare la violazione di norme del diritto internazionale penale da parte di individui e ad irrogare le loro sanzioni di carattere penale. LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO La corte europea dei diritti dell’uomo è l’organo costitutivo della convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali che è stata conclusa nell’ambito del consiglio d’europa. L’art 6 del trattato sull’unione europea prevede un obbligo di adesione alla convenzione da parte dell’unione europea. Accanto alla possibilità di ricorsi inter-statali la convenzione prevede un meccanismo di ricorsi individuali alla corte europea dei diritti umani che costituisce il vero e proprio cuore del sistema di tutela dei diritti convenzionali. La corte europea dei diritti dell’uomo è composta da un giudice per ogni stato membro ed è suddivisa al suo interno in sezioni. L’adesione alla convenzione comporta il riconoscimento automatico della competenza della corte e l’accettazione del sistema di ricorso individuale alla stessa. La corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica o di un’organizzazione non governativa o di un gruppo si privati che sostenga di essere vittima di una violazione da parte di una della alte parti contraenti. Una volta dichiarati ricevibili i ricorsi sono solitamente assegnati ad una camera composta di 7 giudici. Un ricorso che appaia irricevibile viene invece assegnato ad un comitato di 3 giudici. Qualora il ricorso comporti la soluzione di delicati problemi interpretativi la camera può spogliarsi della competenza a favore di una grande camera composta da 17 giudici. La grande camera funge anche da organo di revisione delle sentenze camerali. Le sentenze della corte hanno l’effetto di accertare una violazione dei diritti convenzionali. Esse possono anche pronunciare una condanna nei confronti dello stato che si è reso responsabile di una violazione. La corte non ha il potere di accertare la contrarietà alla convenzione di leggi ed altri atti normativi interni, ma solo di pronunciarsi rispetto all’esistenza attuale di una violazione a carico del ricorrente. 7.La corte penale internazionale La corte penale internazionale è la prima giurisdizione penale internazionale a carattere permanente istituita attraverso trattato il quale ne contiene lo statuto. La corte penale internazionale è un’organizzazione indipendente, posta al di fuori del sistema delle nazioni unite. Essa ha sede a L’Aja e il suo funzionamento, per quanto non regolato dallo statuto, è disciplinato dall’assemblea degli stati parte. La corte si compone di 4 organi: la presidenza, le camere, l’ufficio del procuratore e la cancelleria. La corte può esercitare la sua competenza in relazione ai crimini di guerra, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di genocidio commessi da individui. Tuttavia la competenza della corte

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non è universale. Essa può essere esercitata solo nell’ipotesi in cui l’accusato sia cittadino di uno stato parte o di uno stato che ha accettato la competenza della corte. La competenza della corte incontra anche un limite temporale. Infatti, non può essere esercitata in nessun caso in relazione a condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore del suo statuto. La giurisdizione della corte penale internazionale può essere attivata dal procuratore, sia d’uffici che su richiesta di uno stato parte o del consiglio di sicurezza. Il consiglio di sicurezza è anche in grado di bloccare l’attività della corte.

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PARTE 6 CONCEZIONI UNIVERALISTE E CONCEZIONI PARTICOLARISTE NEI RAPPORTI

FRA DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO

SEZIONE 1 QUESTIONI GENERALI: MONISMO E DUALISMO NELL’ESPERIENZA CONTEMPORANEA. 1. Le dottrine moniste sono caratterizzate dall’idea di una strutturale omogeneità fra l’esperienza giuridica internazionale e quella interna . La più nota di queste , elaborata da Kelsen, costituisce una coerente espressione del moderno universalismo giuridico, dato dal tentativo di includere l’esperienza giuridica interna e quella internazionale in uno schema unitario. Questo è rappresentato da uno schema di tipo piramidale , nel quale ciascuna norma trae fondamento da una superiore. Il diritto statale trae quindi fondamento dal diritto internazionale , al cui apice si collocano i suoi principi fondanti . Questa costruzione presuppone che il diritto internazionale nonostante sia rivolto in primo luogo agli stati, crei norme che producono effetti negli ordinamenti di questi e tende a governare direttamente i comportamenti inter-individuali . 2. Le concezioni dualiste tendono ad attribuire caratteri di autonomia e di originarietà a ciascuno degli ordinamenti , quello interno e quello internazionale. Le concezioni dualiste affondano le proprie radici ideologiche nella dottrina pluralista. La dottrina pluralista si fonda sul presupposto che non esista un criterio universale per il riconoscimento della giuridicità di una norma . Al contrario, ciascun ordinamento definisce unilateralmente il carattere giuridico delle proprie norme le quali sono , di conseguenza , le uniche dotate di giuridicità per tale ordinamento. Applicate ai rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento internazionale , questa costruzione tende a concepire un’assoluta e teorica estraneità in senso giuridico fra l’ordinamento interno e quello internazionale, nel senso che ciascuno di essi riconosce unicamente le proprie regole come dotate di giuridicità . Le norme internazionali quindi producono effetti solo nella sfera dei rapporti giuridici internazionali e sono obbligatori solo per gli oggetti di tale ordinamento. Nei primi decenni del XX secolo si è sviluppata la dottrina dell’adattamento. Tale dottrina parte dal presupposto che gli obblighi internazionali vincolino lo stato solo nella sfera del diritto internazionale . Qualora l’adempimento degli obblighi comportino la modifica dell’ordinamento interno , gli stati provvedono a rendere conforme il proprio ordinamento interno agli obblighi che incombono su di essi nella sfera del diritto internazionale . L’adattamento del diritto interno a quello internazionale consiste nelle modifiche normative che occorre apportare all’ordinamento interno al fine di attuare obblighi internazionali. Vi sono due forme di adattamento : adattamento ordinario, consiste nell’adozione di un atto normativo interno che recepisca materialmente il contenuto dell’obbligo internazionale , disponendo le modifiche interne necessarie per la sua attuazione ; l’adattamento speciale il quale utilizza una diversa tecnica , invece di recepire il contenuto materiale dell’obbligo esso si limita ad ordinare l’attuazione interna della norma internazionale .

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4. E’ assai raro rinvenire presso gli ordinamenti contemporanei delle realizzazioni integrali delle due dottrine: dualista e monista . Le soluzioni adottate nella maggior parte degli ordinamenti contemporanei tendono a contaminare la purezza di questi due schemi ed a rinvenire un equilibrio tra le loro esigenze : l’esigenza di autonomia del sistema giuridico interno rispetto alle norme internazionali, da un lato ; l’esigenza di un’apertura alle norme ed ai principi dell’ordinamento internazionale dall’altro. Il problema della natura monista o dualista di un ordinamento può essere scisso in due questioni : La questione degli effetti diretti e la questione della prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno. Un ordinamento ispirato alla logica di apertura verso il diritto internazionale tende a dare una risposta positiva alle due questioni.

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SEZIONE 2 I RAPPORTI TRA ORDINAMENTO ITALIANO E NORME INTERNAZIONALI: L’ADATTAMENTO AL DIRITTO GENERALE. 1. I rapporti tra ordinamento nazionale e norme internazionali generali sono disciplinati dall’articolo 10 cost : “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute “. Le ragioni che hanno indotto il costituente a disciplinare con una norma ad Hoc i rapporti con il diritto internazionale generale vanno individuate nella convinzione che le regole che godono di generale riconoscimento esprimono le tendenze e gli orientamenti di fondo della comunità internazionale , la cui mancata osservanza condurrebbe lo stato italiano in una condizione di isolamento. 2. Se la formulazione testuale che la ratio dell’art.10 cost inducono ad escludere dal suo ambito di applicazione i trattati ( fonti di diritto internazionale particolare ) . La norma dell’articolo dieci ha un duplice contenuto normativo . Essa opera sia sul piano dell’adattamento , stabilendo una procedura per l’attuazione delle norme internazionali generali , sia sul piano del valore di tali norme nell’ordinamento interno. L’articolo 10 produce , in una concezione dualista , nell’ordinamento interno le modifiche normative che sono di volta in volta necessarie per assicurare la conformità dell’ordinamento italiano al diritto generale . In una prospettiva monista, l’art 10 ha piuttosto la funzione di consentire alle regole internazionali generali di produrre direttamente effetti nell’ordinamento interno. Inoltre l’articolo 10 conferisce una garanzia normativa particolarmente forte al diritto internazionale generale, tali norme hanno rango costituzionale nell’ordinamento italiano. Il rango costituzionale delle norme internazionali-generali ha come conseguenza che le leggi con esso confliggenti risulteranno incostituzionali ed andranno dichiarate illegittime ad opera della Corte Costituzionale. 3. Conflitti tra norme internazionali generali e norme costituzionali non sono rari . Le due categorie esprimono bensì le regole di fondo di ciascun sistema . Tuttavia il diritto internazionale ed il diritto costituzionale sono fondati su logiche diverse , dato che il primo tende alla tutela di interessi statali mentre il secondo concerne le sfere di libertà individuali . In una particolare sentenza la corte costituzionale ha escluso di poter risolvere il conflitto fra norme consuetudinarie e norme costituzionali per mezzo del criterio gerarchico dato che si tratta di norme aventi lo stesso valore formale. La

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corte a piuttosto indicato che in generale le norme consuetudinarie prevalgono su quelle costituzionali in virtù del criterio della specialità. Nonostante ciò le consuetudini formatesi prima dell’entrata in vigore della costituzione non incontrano alcun limite , quelle formatesi dopo di essa incontrano il limite del rispetto dei principi fondamentali.

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SEZIONE 3 L’ADATTAMENTO AI TRATTATI 1. Secondo la dottrina prevalente , non vi è nella costituzione italiana una norma che disciplina il procedimento di attuazione dei trattati. L’adattamento ai trattati va disposto quindi con provvedimenti ad hoc . Tali provvedimenti sono necessari solo qualora l’ordinamento non sia già conforme rispetto agli obblighi derivanti da un trattato. Essi dovranno essere adottati con atti di rango costituzionale , legislativo o sub-legislativo a seconda del livello delle modifiche normative per l’attuazione del trattato. Per l’attuazione di un trattato si potrà utilizzare la tecnica dell’adattamento ordinario o dell’adattamento speciale . L’adattamento ordinario consiste in un provvedimento che contiene le regole materiali necessarie per consentire l’adempimento degli obblighi internazionali . L’adattamento speciale consiste nell’adozione di un ordine di esecuzione. La prassi tende tuttavia ad unificare la fase della formazione dei trattati con la fase dell’adattamento. Tale saldatura consente una notevole apertura dell’ordinamento italiano nei confronti dei trattati. Questi saranno interpretati ed applicati come fonti del diritto internazionali, ancorché volte a disciplinare fattispecie di tipo interno. 2. I rapporti fra trattati e leggi interne. Il nuovo art 117 cost prevede che “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali “. Secondo l’opinione prevalente questa disposizione opera essenzialmente rispetto ai trattati e stabilisce a loro favore un meccanismo di prevalenza rispetto alle leggi interne . 3. L’art. 117 cost non disciplina la procedura d’adattamento del diritto italiano al diritto internazionale. Ne consegue che gli obblighi internazionali vanno attuati nell’ordinamento interno attraverso i consueti procedimenti d’adattamento. L’art 117 cost inoltre non altera il valore formale delle norme di attuazione delle varie categorie di obblighi . Esso si limita a stabilire un meccanismo costituzionale di garanzia nei loro confronti. L’art 117 cost pone però alla funzione legislativa il vincolo del rispetto degli obblighi internazionali. La disposizione costituzionalizza l’interesse dell’ordinamento italiano ad osservare obblighi internazionali, senza però costituzionalizzare le singole fonti internazionali. Una legge difforme rispetto ad un obbligo internazionale contrasta con l’art. 117 ed è quindi viziata da illegittimità costituzionale.

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4. L’art 117 cost non si riferisce solo ai rapporti tra trattati e leggi interne ma pone un vincolo alla legislazione in relazione all’esistenza di un obbligo internazionale. La funzione legislativa verrebbe limitata dall’esistenza di qualsiasi obbligo internazionale indipendentemente dalla sua natura e dalla sua procedura di formazione. 5. Prima della riforma del 2001 , il sistema costituzionale italiano non assicurava pari trattamento a tutte le categorie di obblighi internazionali. L’adozione , nell’articolo 117 cost di un meccanismo generale di tutela disposto a favore di tutti gli obblighi internazionali pone quindi il problema di determinarne i rapporti rispetto agli altri meccanismi di garanzia già esistenti nel sistema. Un problema di coordinamento si pone rispetto agli altri meccanismi speciali di garanzia ed in particolare rispetto al meccanismo stabilito dall’art 11 cost . Il problema di coordinamento con l’art 11 si pone in quanto l’art 117 ha un ambito di applicazione generale. Esso infatti si riferisce sia agli obblighi internazionali sia ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Si potrebbe quindi avere l’impressione che le due categorie di obblighi siano parificate al livello costituzionale . La Giurisprudenza costituzionale ha invece concluso che le due disposizioni dell’art 11 e 117 hanno un diverso ambito di applicazione. Esse si riferiscono a diverse categorie di obblighi nei cui confronti apprestano quindi diversi meccanismi di garanzia. L’art 11 cost si riferisce agli obblighi riguardanti l’appartenenza all’UE e stabilisce a favore di tali obblighi lo speciale meccanismo di garanzia che consiste nella disapplicazione delle leggi nazionali contrastanti con norme dell’UE aventi effetti diretti. L’art 117 invece si riferisce agli obblighi internazionali . 9. L’articolo 117 prevede che le regioni e le provincie autonome di Trento e Bolzano nelle materie di loro competenza , partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione ed all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’unione europea nel rispetto delle norme di procedura stabiliti da legge dello stato. La norma costituzionale riconosce dunque alle regioni il potere di ttuare accordi allorché l’adozione di norme di attuazione ricada nell’ambito della competenza regionale. Nel caso in cui la norma menzioni i soli accordi , essa va interpretata in senso estensivo includendo quindi anche il potere regionale di adottare norme di attuazione del diritto internazionale generale. L’art 117 tuttavia non assegna alle regioni una competenza esclusiva. Nella prassi il ruolo delle regioni nell’attuazione del diritto internazionale è molto

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moderato. Gli obblighi internazionali sono infatti attuati in primo luogo dagli organi che hanno concorso alla loro formazione. Alle regioni dovrebbe spettare solo la competenza ad adottare le norme interne eventualmente necessarie a precisare ed integrare l’ordine di esecuzione. Al fine di evitare che l’inadempimento regionale possa comportare l’insorgere di responsabilità per lo stato, la costituzione prevede delle forme di sostituzione. L’art117 prevede che la legge dello stato disciplini il potere sostitutivo dello stato in caso di inadempienza. 10. Sovente trattati internazionali prevedono dei meccanismi di produzione normativa. Questo fenomento è particolarmente frequente nell’ambito di trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. Il problema dell’attuazione di atti istituzionali consiste essenzialmente nel vedere se tali atti possano spiegare automaticamente effetti nell’ordinamento interno sulla base cioè dei meccanismi di adattamento disposti nei confronti dell’accordo di base o se occorra procedere ad attuazione separata , vale a dire con provvedimenti ad hoc. L’inconveniente principale che deriva dalla produzione di effetti nell’ordinamento interno da parte di atti di organizzazioni internazionali deriva dal fatto che la posizione soggettiva dei singoli verrebbe modificata attraverso norme prodotte secondo procedimenti atipici e prive dei meccanismi di pubblicità che assistono l’applicazione delle norme interne. Una soluzione si può fondare sulla distinzione a seconda dei vari effetti che un atto di un’organizzazione internazionale potrebbe produrre in un ordinamento interno. Tali atti potrebbero cioè entrare a far parte dell’ordinamento interno e fondare pretese soggettive degli individui nei confronti dell’autorità pubblica. Esse non potrebbero invece imporre obblighi a carico dei soggetti dell’ordinamento interno a meno che non siano adempiuti i requisiti di pubblicità imposti per le norme interne di pari valore. Nella prassi tuttavia gli atti di organizzazioni internazionali vengono attuati con specifici provvedimenti di attuazione. Il problema dell’attuazione interna si pone anche rispetto a decisioni giudiziarie internazionali . A differenza degli atti normativi , le sentenze internazionali non producono nuovo diritto ma si limitano ad interpretare ed applicare il diritto esistente . Esse tuttavia vincolano gli stati ai quali sono dirette e pongono in capo ad essi l’obbligo di conformarsi. Le sentenze internazionali possono produrre effetti significativi per i soggetti dell’ordinamento interno. Una sentenza che stabilisca l’interpretazione di un trattato risulta vincolante per gli stati parte della controversia e quindi per gli organi giudiziari incaricati di interpretare il trattato nei rapporti interni.

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Oltre ad accertare l’esistenza di un illecito , una sentenza internazionale può altresì determinare le conseguenze dell’illecito , ivi comprese le misure che uno stato dovrà adottare al fine di ripristinare la situazione preesistente e di prestare riparazione. Normalmente, tali conseguenze non possono essere applicate senza un intervento normativo interno che ne precisi il contenuto e le condizioni di applicazione. Possono invece esservi dei casi in cui sia possibile sulla base della sentenza internazionale desumere il contenuto di una pretesa soggettiva. In tali casi, non vi sono ragioni per escludere che la sentenza possa fungere da fondamento per la pretesa soggettiva di un individuo.

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SEZIONE 5 NORME SELF-EXECUTING E NORME NON SELF-EXECUTING Le norme idonee a disciplinare direttamente i rapporti giuridici interni sono dette self-executing. Questa formula tende a sottolineare la natura auto applicativa di certe norme internazionali, che possono essere applicate direttamente nell’ordinamento interno senza bisogno di un provvedimento statale di trasformazione. Sarà invece sufficiente un ordine di esecuzione che consenta agli operatori giuridici interni di applicare la normativa internazionale. Il carattere self-executing è quindi una caratteristica obbiettiva della norma. Una norma internazionale è self-executing se è idonea a produrre posizioni soggettive nell’ambito dell’ordinamento interno ed a disciplinare rapporti interni. Il criterio decisivo per stabilire se una norma internazionale possa essere applicata a rapporti interni è dato in primo luogo dalla formulazione della norma. Se essa ha una pienezza di contenuto dispositivo tale da poterne desumere la disciplina dei rapporti interni essa può essere considerata self-executing e viceversa. La sua attuazione comporterà l’intervento del legislatore il quale dovrà svolgere gli obblighi internazionali trasformandoli in precetti normativi aventi significato per l’ordinamento interno. Ciò comporta che un ordine di esecuzione funziona pienamente solo nei confronti di norme self-executing. Qualora una norma non è self-executing l’ordine di esecuzione avrà l’effetto di ordinare l’applicazione interna. Tale norma non potrà disciplinare i rapporti giuridici interni per la semplice ragione che risulterà in-idonea rispetto a tale scopo.

FINE!!!