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DONNE CHIESA MONDO MENSILE DELLOSSERVATORE ROMANO NUMERO 74 DICEMBRE 2018 CITTÀ DEL VATICANO Il gusto

D ONNE CHIESA MOND O - osservatoreromano.va · Oggi il gusto viene anche ingannato da falsi miti, per ... Il cibo, per dire il nutrimento, da dove passa- ... in cui non esistono regole

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D ONNE CHIESA MOND OMENSILE DELL’OSSERVATORE ROMANO NUMERO 74 DICEMBRE 2018 CITTÀ DEL VAT I C A N O

Il gusto

numero 74dicembre 2018

LA C I V I LT À DEL D ONO

Si cucina, si offre e si mangiaper legarsi all’a l t ro

ST E FA N I A GIANNOTTI A PA G I N A 3

NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

La sapienza è un esercizio del gustoENZO BIANCHI A PA G I N A 7

NEL FILM IL PRANZO DI BABETTE

Il sapore della salvezzaCAT H E R I N E AUBIN A PA G I N A 13

UNA R I C E T TA T R A M A N D ATA DI PA D R E IN FIGLIA

Il timballo di Bonifacio VIII

MA R G H E R I TA PELAJA A PA G I N A 17

NEL LAGER DI TH E R E S I E N S TA D T

La cucina del sognoANNA FOA A PA G I N A 20

NEL MOND O MUSULMANO

Questioni di buon gustoARIANNA TONDI A PA G I N A 22

TRA FA M E E GUERRE COMMERCIALI

Contro il mito del chilometro zeroCARLO TRIARICO A PA G I N A 25

CO N S A C R AT E

Il gustodi Dio

AMEDEO CENCINI A PA G I N A 29

PAOLO E LE D ONNE

Il femminismodi san Paolo

ROMANO PENNA A PA G I N A 32

ME D I TA Z I O N E

FugeneratoLE SORELLE DI BOSE A PA G I N A 39

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LA C I V I LT À DEL D ONO

Si cucina, si offree si mangia

per legarsi all’a l t ro«Nonna Papera»ideata da Al Taliaferro

per Walt Disney

Abbiamo pensato alle feste di Natale nel dedicare questo secondo nu-mero della serie dei cinque sensi al gusto, e quindi alla cucina, al man-giare insieme, alla condivisione e all’armonia. Ed Enzo Bianchi, cuocofamoso oltre che fondatore di una nuova comunità monastica e grandeintellettuale e studioso, ci ha regalato una preziosa ricetta natalizia.

Fra i cinque sensi, a uno sguardo superficiale, il gusto può apparireil più semplice, il più materiale, in un certo senso quasi il più rozzo,ma la lettura dei testi che abbiamo scelto testimonia tutto il contrario.E non solo per la tradizione cristiana, ma anche per quella ebraica equella islamica. La complessità e ricchezza del tema dei sensi viene in-fatti acutamente messa in luce da Bianchi: «Tutta la nostra conoscenzasi sviluppa a partire dai sensi, quella più elementare come quella piùraffinata. Noi “sentiamo” attraverso i sensi, ma un’enorme carica sim-bolica viene a innestarsi sull’esercizio dei sensi».

La cucina significa entrare in un rapporto diretto con i prodotti del-la natura, richiede una conoscenza di colori, sapori, profumi che ven-gono poi lavorati e trasformati seguendo complessi e spesso antichicodici culturali. Tradizioni che riportano al passato di un popolo o diuna terra, alle sue credenze religiose che trasformano gli alimenti insimboli di purezza e impurità, di festa e di penitenza, che scandisconoil tempo sacralizzando il passare delle stagioni. A questa ricchezza le-gata a codici culturali condivisi si aggiunge l’esperienza umana legataal cibo, al gustare insieme, all’offrire da mangiare, al donare cibo, se-gno di vita e di solidarietà, di momenti condivisi di festa, di pacifica-zione, di amore. Le esperienze umane raccontate da Stefania Giannottio rintracciate nel cinema da Catherine Aubin si trasformano in com-plesse tradizioni culturali trasmesse, come segno di identità, da unagenerazione all’altra, come narrano Margherita Pelaja, Anna Foa eArianna Tondi. Oggi il gusto viene anche ingannato da falsi miti, peresempio quello del “chilometro zero” spiegato da Carlo Triarico cheindividua nella eccessiva distanza fra agricoltore e consumatore unodei mali del nostro tempo.

Ogni volta che diciamo «gustare» vogliamo dire molto di più, per-ché gustare significa anche discernere attraverso l’esperienza, com-prendere con il coinvolgimento di tutti noi stessi, e la cucina quindiprepara la strada all’esperienza spirituale, al “gusto” di Dio. (lucetta

s c a ra f f i a )

L’EDITORIALE

D ONNE CHIESA MOND O

Mensile dell’Osservatore Romanodiretto da

LU C E T TA SCARAFFIA

In redazioneGIULIA GALEOTTI

SI LV I N A PÉREZ

Comitato di redazioneCAT H E R I N E AUBIN

MARIELLA BALDUZZI

ELENA BUIA RUTT

ANNA FOA

MARIE-LUCILE KUBACKI

RI TA MBOSHU KONGO

SAMUELA PAGANI

MA R G H E R I TA PELAJA

NICLA SP E Z Z AT I

Progetto graficoPIERO DI DOMENICANTONIO

w w w. o s s e r v a t o re ro m a n o .v ad c m @ o s s ro m .v a

per abbonamenti:d o n n e c h i e s a m o n d o @ o s s ro m .v a

di ST E FA N I A GIANNOTTI

Una cucina, abbastanza modesta, è il mio primo ricordo. C’è la solitacredenza celeste di legno, un tavolo, quattro sedie, un lavello di pie-tra, i profumi della cucina di casa. Ai fornelli sta mia nonna, subitodietro mia madre, io nel seggiolone, poi sul tavolo con i quaderni.Più tardi nel tempo conquisterò il diritto a qualche mansione chenon comporti l’uso di coltelli: impastare, sbattere, mescolare... È inquella cucina che il filo genealogico tra noi tre si tende e mi raggiun-ge. Il cibo sarà poi per sempre il momento più alto e felice del rap-porto con mia madre. Il cibo, per dire il nutrimento, da dove passa-va anche il piacere che lei sapeva dare. Sarà proprio la cucina il luo-go dell’autorità di mia madre, l’autorità che fui capace di riconoscer-le, la stessa che sua madre, la nonna, riceveva da lei. Quella cucinaera il luogo di un sapere che circolava tra noi.

Il nutrimento è un legame. Un legame tra corpi. Lo sperimenta lacreatura appena nata nel prendere il latte e la madre nel darlo. Nutri-

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re, preparare il cibo e renderlo commestibile fanno parte di un’esp e-rienza, di un sapere che riguarda soprattutto le donne. La cucina è dicerto nei secoli opera di civiltà femminile, civiltà del dono, della vitae del piacere. Passa di madre in figlia, inizia con una femmina picco-la che guarda una donna grande, si trasmette e si impara senza libriné sillabari, in un corpo a corpo che segna il rapporto. All’inizio èun balbettio proprio come in quel primo apprendimento che è la lin-gua materna, in cui non esistono regole ma il mistero dell’apparte-nenza di due corpi e un passaggio inconsapevole del più grande deisaperi: il linguaggio.

Talvolta, ma non sempre, la passione fa il resto. Eleva la prepara-zione del cibo, la distoglie dal senso dell’obbligo e del servizio e la fadiventare un lavoro speciale. Il nutrimento, la cura restano presenti eaccanto, ma la passione li sorpassa. Incomincia allora il lavoro di ri-cerca del gusto, del piacere dell’altro, della fatica e del dono. Usciredall’obiettivo di puro nutrimento dota la cucina di un senso in più,un valore libero e relazionale. È questo legame tra nutrimento e pas-sione che dirige il gioco che un giorno chiamai «cucina relazionale».

Mi accorsi che ogni gesto, e fin dal primo, anche se da sola ai for-nelli, prevedeva gli altri. L’immagine di altri corpi mi stava accantofin dalla prima mossa, la loro necessità di nutrirsi e la capacità diprovare gusto e piacere mi accompagnava.

Si cucina, si offre, si mangia per legarsi all’altro. Materialmente colcorp o.

Tutte le fasi che prevedono la preparazione del cibo prevedonol’altra/o. I commensali ti stanno già muti e invisibili a fianco findall’inizio e in attesa, per tutto il tempo. E poi c’è la tavola: si fannole parti, è il momento della condivisione, e se il cibo ha fatto dabuon tramite è più probabile che si aprano relazioni.

Il cibo è percorso facile e abbreviato per favorire la comunicazio-ne. È un piacere da donare e condividere, per di più un piacere delcorpo, quindi forte, ma anche praticabile e spendibile con leggerezza.In questo senso è oltre e di più del mero nutrimento e se ne va lon-tano dal ruolo e dall’accudimento. Entra nella gratuità della relazio-ne. Nominarne il valore simbolico e di scambio gli dà un senso inpiù. Eccola qui la cucina relazionale.

«Volete due spaghetti?» è la frase più importante che conosco. Èdolorosa, è bella e l’associo a casi estremi. Va dritta all’altro e gli ten-de una mano. Rifà ponti dove tutto è crollato.

La pronunciò mia madre. Quando ebbi il gravoso compito di dirleche era morto suo figlio, mentre temevo per la sua salute e un possi-

Jill Barklemuna illustrazione

per «Le più belle storiedi Bosco di Rovo»

(Edizioni EL, Trieste,2018)

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La sapienzaè un esercizio del gusto

di ENZO BIANCHI

Tra tutti i sensi, il gusto richiede non solo di guardare e sentire ciòche è fuori di noi, ma di introdurlo nel corpo, di farlo aderire il piùpossibile alla cavità orale, di distruggerlo mediante la masticazione einfine di discernerlo. Ciò che è introdotto nella bocca viene innanzi-tutto guardato e annusato, ma poi lo si gusta e lo si giudica con ilpalato.

La bocca è un orifizio luogo di comunicazione più di tutti gli al-tri, ma di una comunicazione il più delle volte non percepita in mo-do consapevole… Con la bocca si parla, si bacia, si morde, si man-gia, si beve, si respira. La bocca rende partecipi al processo di tra-sformazione del cosmo nelle sue componenti minerali, vegetali e ani-mali, processo che è dovuto al lavoro dell’uomo, alla produzione, almercato, alla cucina, alla tavola, alla masticazione e alla digestione:«Noi siamo ciò che mangiamo», secondo il noto aforisma di LudwigFeuerbach, noi mangiamo la terra e così viviamo, pensiamo, amiamo.

Nessuno di noi memorizza il proprio apprendistato del gusto, maesso è avvenuto ed è stato un processo lungo e complesso. Siamo en-trati in un sistema gustativo attraverso i cibi della cucina familiare,

bile improvviso malessere, lei diventò invece più bella, le si distese ilvolto, occhi verdi e pallore di pietra, e con una calma ieratica chiese:«Volete due spaghetti?». Fu la prima frase che pronunciò. Nellosmarrimento altro non c’era da dare, altro non si poteva prendere. Sene stava andando lontana col pensiero, ma i fornelli le servivano perrestare con noi, con me.

Una sorte non benevola colpì anni dopo anche me con lo stessoirrimediabile dolore. E poi un’amica. Tutte e tre ci rivolgemmo al ci-bo come fosse santo, ai fornelli come al tabernacolo.

Nutrimento e morte vanno d’accordo. Il nutrimento ripara la mor-te. L’obbedienza passa di lì. Obbedienza che nessuno richiede. Ob-bedienza per vivere. Obbedienza come sollievo. C’è un nulla chenon si può riempire, c’è un dolore che non si vuole smarrire. Imparipresto che quel dolore può accompagnare l’esistenza e che a cercaredi farlo fuori o di sconfiggerlo si resta soli. Quando non c’è lo cerchie quando è troppo passi a mille stratagemmi. Uno è cucinare.

Nel nulla della perdita, della mancanza e dell’assenza,un nulla che non c’è verso di riempire, quando la ri-

bellione è inutile, la rassegnazione impossibile, ladimenticanza pericolosa, l’elaborazione una scioc-

chezza, restano l’obbedienza e un gesto di resi-stenza pacifica: cucinare cibo. Allora c’è unastanza segreta dove portare quel grande silenzio

in cui è necessario ritirarsi: è la cucina. Qui c’è ilrumore dell’acqua che lo copre, del fuoco, dei coltelli che tagliano,degli attrezzi di cucina che si fanno sentire. È lì che imbocchi la stra-da che porta agli altri per restare attaccata alla terra. È lì che la vitavince su tutto.

Il nutrimento è gesto di sottrazione alla morte e alla sua attrattivain casi estremi. Il cibo, forza e potenza vitale, gli si contrappone.

Cucinare significa allora opporre a quel nulla che non si può riem-pire un movimento. Quei gesti rapidi, obbligati, attenti a evitare lacatastrofe sempre in agguato come nella vita, il sugo che in un minu-to attacca, la pasta che scuoce, il troppo sale, quei gesti riportano al-la realtà che scappa, ti rimettono i piedi per terra. Le dosi, le proce-dure, la ricetta diventano la regola. Da non trasgredire. Esercizio divita, regola di una vita che sfugge.

Quando cucino mi sembra che la vita sia eterna. Per tutti. Nutrirela rimette in pista. E infine qualcuno mangerà quel cibo. E sarà com-piuta la relazione.

NELLA TRADIZIONE CRISTIANA

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soprattutto attraverso quella della madre e della nonna, e abbiamoimparato a identificare i sapori, a giudicarli buoni o cattivi (ecco do-ve nasce anche il giudizio morale!). È così che abbiamo imparato aconfrontare la cucina di casa con le altre, abbiamo dovuto discernerela misura del cibo e combattere bulimia o anoressia, patologie che siannidano nella nostra crescita e minacciano l’arte del gustare; e impa-rando i gusti elementari, abbiamo anche appreso il gusto di vivere, lacapacità di gustare il mondo.

I cibi, con i loro sapori, plasmano il nostro gusto; la vita poi ce lifa interpretare in modo personalissimo, la storia e i legami affettivivissuti li caricano di significati infiniti. Per esempio, non è senza im-portanza l’aver mangiato un cibo in compagnia di qualcuno inveceche di qualcun altro: un cibo possiamo sentirlo cattivo perché l’ab-biamo condiviso con chi preferiamo non ricordare… Il cibo, con ilsuo gusto, può riconciliare, favorire l’amore, ma può anche accendereantipatia o addirittura violenza. Ognuno di noi conosce, queste di-verse possibilità: è sufficiente fare un’anamnesi dei pasti vissuti in fa-miglia, o in comunità, per avere la conoscenza della grazia o della di-sgrazia del “g u s t a re ”!

Strettamente legata all’esercizio del gusto è la parola: parola scam-biata a tavola, luogo in cui si gustano non solo i cibi ma anche glialtri, ogni altro che con noi condivide il pasto. Un pasto gustoso losi costruisce con l’arte culinaria ma anche con la qualità degli invita-ti, e così diventa una celebrazione comune, una festa partecipata incui il cibo riunisce, fa condividere, crea il compagno (da cum-panis,colui che condivide il pane: cfr. Salmi 41, 10). Se non c’è gusto, pocoa poco finisce per prevalere e regnare il disgusto; se non c’è gusto, simangia per necessità e non si arriva neanche a conoscere la gratuitàfornita da una bevanda come «il vino, che rallegra il cuore umano»(Salmi 104, 15).

A mio avviso non si pone abbastanza l’attenzione su una veritàelementare: tutta la nostra conoscenza si sviluppa a partire dai sensi,quella più elementare come quella più raffinata. Noi “sentiamo” at-traverso i sensi, ma un’enorme carica simbolica viene a innestarsisull’esercizio dei sensi. Ne sono prova le parole che usiamo: anchequando sono astratte, lasciano trasparire un’origine collocata nellospazio della sensibilità. “Sapienza” — per citare solo uno dei casi piùevidenti, attinente al senso che ci interessa – non deriva forse dal ver-bo s a p e re , cioè “g u s t a re ”? Sì, la sapienza è un esercizio del gusto…

Ci è dato così di passare, senza dicotomie troppo schematiche, aconsiderare il gusto inteso come “senso spirituale”. La riflessione suquesto tema potrebbe essere condotta dal punto di vista della sapien-

Maurice Sendaki l l u s t ra z i o n eper «L’amica di orsetto»di Else HolmelundMinarik(Adelphi, Milano, 2018)

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za umana, in generale. In quest’ottica come non ricordare la sapienzadella tavola vissuta dall’uomo Gesù? A tavola egli conversava confacilità, stringeva amicizia, accettava le discussioni che potevano sor-gere. Stare a tavola per Gesù era un segno, una parabola del signifi-cato della sua stessa missione: portare la presenza di Dio nel mondo,avvicinare il Regno ai peccatori, a chi da esso si sentiva escluso elontano.

Ma in questo breve contributo vorrei soffermarmi su come talequestione viene sviluppata nella tradizione cristiana, che conosce unameditazione secolare sul tema dei sensi spirituali. Basti ricordare untesto di Origene: «“Per coloro che hanno i sensi esercitati a distin-guere il bene dal male” (E b re i 5, 14) Cristo viene colto da ogni sensodell’anima. Ecco perché lo si chiama “vera luce” (Giovanni 1, 9) perilluminare gli occhi dell’anima, “p a ro l a ” (Giovanni 1, 1) per essereudito, “pane di vita” (Giovanni 6, 35) per essere gustato. Parimenti,egli è chiamato “olio” (Cantico dei cantici 1, 2) e “n a rd o ” (Cantico dei

cantici 1, 12; 4, 13-14) perché l’anima si rallegra del profumo della Pa-rola; egli è “la parola fatta carne” (Giovanni 1, 14), palpabile e tangi-bile, perché la mano dell’uomo interiore possa toccare qualcosa dellaParola di vita» (Commento al Cantico dei cantici II, 9, 12-13).

Per restare al gusto, nella Bibbia sono numerose le immagini chepermettono di collegare il gusto con la Parola. A Ezechiele Dioconsegna un libro da mangiare, dolcissimo alla bocca e al palato (cfr.Ezechiele 3, 3); Giovanni, il contemplativo dell’Ap o c a l i s s e , farà la stessaesperienza, ma per lui la Parola si rivelerà amara nello stomaco (cfr.Ap o c a l i s s e 10, 9-10). E il salmista canta: «Quale dolcezza al miopalato le tue promesse, Signore, più che miele nella mia bocca»(Salmi 119, 103). “Mangiare le parole” è più che ascoltarle e acco-glierle: è addirittura — secondo gli antichi monaci — “ru m i n a r l e ”,riprendere la Parola mangiata e rimasticarla, fino a fare corpo con es-sa. Così, in un meraviglioso metabolismo, la Parola ci plasma, ci for-ma, fornendoci il cibo per sostenere la nostra ricerca di senso. Stascritto infatti: «L’uomo non vive di solo pane, ma vive di ciò cheesce dalla bocca del Signore» (D e u t e ro n o m i o 8, 3; cfr. Ma t t e o 4, 4). Eal credente è chiesto di imparare a «gustare la buona parola di Dio»(cfr. E b re i 6, 5).

Ma c’è un’esperienza centrale della fede cristiana che va assoluta-mente menzionata a proposito del “gusto spirituale”: l’esperienza eu-caristica. Al culmine della liturgia eucaristica si mangia pane e si be-ve vino. Questo è ciò che percepisce la nostra oralità, ma nella fedegustiamo il corpo di Cristo, ciò che ci inebria è il suo sangue. Con isensi spirituali facciamo esperienza della vita divina che ci invade e

Ricetta dei ravioli alle tre carni

Il Monferrato è una zona delPiemonte del sud che confinacon le Langhe e in parte si trovaal loro interno. È la terra dellavigna ma anche della buonacucina. È la terra mia ma anchedel papa, i cui nonni abitavanoin un paese distante una ventinadi chilometri dal mio. Il pranzodi festa per eccellenza, dunque ilpranzo di Natale, che preparavasua nonna, Rosa, prevedevasempre, dopo i molti antipasti, il“piatto re”, cioè i ravioli oagnolotti, conosciuti nelleLanghe fin dal XVI secolo. Miviene chiesta la ricetta e io lafornisco volentieri, con gliauguri di un Natale ricco diepifanie di affetti e incontri.

Per il ripieno dei ravioli siusano tre carni. Innanzituttoil vitello: possibilmente unaparte come l’arrosto dellavena, per intenderci, che nonsia grassa ma neanche troppoasciutta. Anche lo scamoneva bene, ma non deve essereasciutto. Arrostite il vitello inuna pentola, possibilmentecon aglio, insieme all’olio, alrosmarino e a due foglie dialloro. In un’altra pentolapreparate il coniglio inumido: fate un battuto dipancetta dolce con un po’ dicipolla, pochissima carota, unp o’ più di sedano. Tritate iltutto e lasciate che cuocia, senza

però che si indori, perchéaltrimenti è pesante da digerire.Quindi vi mettete dentro i pezzidi coniglio, li fate ben rosolare,poi aggiungete del buonBarbera, qualche cucchiaio disalsa di pomodoro e fate cuocereun’ora e un quarto se il coniglioè tenero, un’ora e quaranta se èpiù duro. Quando è pronto,spolpate il tutto e lo mettete inuna terrina. Infine prendetedell’arista di maiale, la tagliate apezzetti come per unospezzatino, la fate cuocere conun po’ di olio, pochissimo vino

bianco e dei sapori.Mescolate poi insieme le trecarni, le passate nel tritacarne,quindi aggiungete il 25 per centodi borragine, una piantaaromatica molto diffusa inPiemonte e in Liguria e moltousata in cucina; è una specie dispinacio con un gusto simile aquello della salvia. La fatebollire, poi tritate anche questa.Se non avete la borragine, usatela verza, sempre nelle stesseproporzioni, ma solo le foglieesterne, più verdi. Mettete tuttoinsieme, aggiungete uova quantebastano e del buon parmigianoreggiano. Dopo di che, il toccofinale è dato dalla maggiorana,che a mio avviso è la piantaaromatica per eccellenza. Poipreparate la pasta, senza mettereacqua ma solo uova; solo sevolete la pasta un po’ più fine,

dovete aggiungere un po’d’acqua. Infine la tagliatedando forma ai ravioli, agliagnolotti, riempiendoli con ilripieno preparato. E i sughidi arrosto che risultano dallecotture delle varie carni liradunate insieme, li passatecon il colino — che tutte leerbe restino fuori — e conditei ravioli.

Buon pranzo di Natale per voiche lo preparate e per quelli invitati

a condividerlonella fraternità e nella gioia!

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fa di noi il corpo e il sangue del Signore Gesù: straordinario metabo-lismo spirituale! Guglielmo di Auxerre, un teologo dell’inizio del XIII

secolo, così ha tentato di esprimere tale esperienza: «Di questo panesi afferma con verità che reca in sé ogni diletto: diletta lo sguardospirituale con la sua bellezza (cfr. Salmi 45, 3); diletta l’udito spiritua-le con la sua melodia (cfr. Cantico dei cantici 2, 14), diletta l’olfattospirituale con il suo profumo (cfr. Cantico dei cantici 1, 3), diletta ilgusto spirituale con la sua dolcezza (cfr. Cantico dei cantici 1, 2; 2, 3;5, 16); diletta il tatto spirituale con la sua soavità (cfr. Cantico dei can-

tici 4, 10)» (Summa aurea I V, tr. 5, c. 1, f. 16/bc). E nel Messale si leg-ge una splendida orazione dopo la comunione: «L’azione del tuo do-no celeste, Signore, possieda le nostre menti e i nostri corpi, affinchéin noi preceda sempre il suo effetto e non il nostro sentire» (XXIV do-menica per annum). Tutte variazioni sul tema dell’interpretazione inchiave eucaristica di un versetto dei salmi, all’interno della grandetradizione cristiana: «Gustate e vedete com’è buono il Signore!»(Salmi 34, 9). Come l’eucaristia è la sintesi sacramentale dell’intera vi-ta di Gesù, spesa e donata per amore, così, con il gusto spirituale re-so vigile e allenato dalla meditazione della sua vita, il credente cri-stiano può gustare e vedere la bontà del Signore, cercando di trarneispirazione per la propria esistenza.

Niente scacchiper le suoreTra gli innumerevolicampionati di scacchi,vi è anche la ClericusChess, giuntaquest’anno alla quintaedizione, con unanovità: lacompetizione non èpiù riservata aisacerdoti perché vipotranno partecipareanche diaconi,seminaristi di ogninazionalità,ministranti e religiosi,comprese dunquesuore e monache diogni ordinericonosciuto dallaSanta Sede.L’iniziativa, incalendario a Roma il30 novembre e il 1°dicembre, siconcluderà con unaclassificainternazionale e unaper il titolo italiano.Alcune settimaneprima dellosvolgimento dellagara, però, GiuseppeSgrò, responsabiledell’o rg a n i z z a z i o n e ,ha comunicato chenessuna donna difatto parteciperà allagara: «La verità è chele suore non possonolasciare le loro

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NEL FILM IL PRANZO DI BABETTE

Il saporedella salvezza

di CAT H E R I N E AUBIN

Per entrare nel film Il pranzo di Babette, bisogna sedersi, prendersi iltempo di vedere, degustare ciò a cui si sta per assistere. Il titolo nonparla proprio di «banchetto» e dunque di pranzo, anzi di nozze? Ep-pure il banchetto si svolge solo nella seconda parte del film. Come setutto ciò che viene prima non fosse altro che un preludio per familia-rizzare con i personaggi e assaporare quel pranzo. Filo conduttoredel film sarà proprio il gustare. Gustare la vita e le scelte dei perso-naggi, gustare la bontà, gustare la gratuità, la sovrabbondanza el’amore, gustare la salvezza di Dio, e infine gustare la grazia e la veri-tà perché esse finiranno coll’abbracciarsi (cfr. Salmi 84, 11). Il pranzodi Babette sarà il “luogo”, il “momento”, in cui l’appetito fisico entrain armonia con l’appetito spirituale; quel banchetto diverrà una verastoria d’a m o re .

La prima scena del film ci mostra il mare infinito con i colori deipaesi scandinavi. Questo paesaggio ritornerà regolarmente nel corsodel film. Come un orizzonte da non perdere di vista. Siamo dunquein un villaggio della Danimarca, sulle coste dello Jutland, nel XIX se-colo. Lì abitano due sorelle, Martina e Filippa, figlie del pastore. Il

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padre è anche fondatore di una piccola setta protestante. Le due fi-glie sono per lui «il suo braccio destro e il suo braccio sinistro». Leloro tre esistenze si svolgono secondo i loro principi di vita: servire,accogliere, pregare e amare. Le due sorelle hanno scelto, nonostantele proposte di matrimonio e di carriera, di restare nel loro villaggioaccanto al padre, anche dopo la sua morte. La loro scelta di vita èsemplice: servire i poveri, nutrirli, accogliere i membri della setta delpadre e donare la parola, “il verbo”. Sono belle di quella bellezzache rivela la loro bontà di cuore: la porta della loro casa resterà sem-pre aperta a quanti giungeranno da vicino o da lontano.

Altri tre personaggi si confronteranno con questa vita evangelica.Prima di tutto l’ussaro, Lorens, che soggiornerà tre mesi non lontanodal villaggio delle due sorelle. S’innamora di Martina, davanti a unabrocca di latte. Assiste alle riunioni del pastore con la setta e, difronte a ciò che gli sembra irraggiungibile, ossia la grazia personifica-ta da Martina, sceglie la carriera brillante e ritorna alla sua vita di uf-ficiale. Poi arriva Achille Papin, cantante lirico, che s’innamora dellavoce (o della via) di Filippa. Le insegna a cantare perché, a suo pare-re, lei è una stella. Filippa stessa chiederà al padre di congedarequell’uomo troppo invadente. E infine, durante un temporale che as-somiglia a un diluvio, arriva Babette. Il pastore è morto e sono ledue sorelle ad accoglierla al loro servizio, gratuitamente, perché perBabette ciò che conta è restare e vivere. Se viene respinta, muore, di-ce loro.

E Babette ci condurrà su una via di salvezza: il suo rapporto congli altri è commovente e tutto quello che prepara è delizioso. Lei fadel suo quotidiano un dono discreto, gratuito e inteso. E, senza chenulla faccia presagire tale dono, arriva la grazia: vince una grossasomma alla lotteria. Ne farà un dono traboccante di generosità: perfesteggiare il centenario della nascita del pastore, offre alle due sorel-le il pranzo per gli undici membri restanti della setta che, con il pas-sare del tempo, sono diventati “rancidi”, amari e aspri.

Nel corso della festa assistiamo a quello che potrebbe essere ilbanchetto nuziale che ci attende nell’eternità. Babette, che un tempoera “la” prestigiosa chef del Café Anglais a Parigi, preparerà con tut-to il corpo e con tutta l’anima un banchetto da re e da regine. All’ul-timo momento vi parteciperà anche l’ussaro, diventato nel frattempogenerale; sarà lui il dodicesimo invitato. Allora quel pranzo si trasfor-ma nell’arca della salvezza e quel banchetto diviene il luogo della ri-conciliazione: i palati degustano e le lingue si sciolgono.

Il generale Lorens gode, assapora, degusta e rende grazie per lagrazia che gli viene fatta perché questa, dice lui, «si dona e non det-

attività, non hannochi le sostituisca, adifferenza di quel cheaccade con i sacerdotiche, con l’assenso delloro vescovo, per igiorni delle gare sifanno sostituire da unvice».

Una suora checorre per AthleticavaticanaContinuano leimprese di Athleticavaticana, lar a p p re s e n t a t i v apodistica formata damonsignori, guardiesvizzere e dipendentidella Santa Sede,della quale, sebbeneminoritarie, fannoparte anche le donne.Da novembre, però,c’è un nuovoingresso: si trattadella francese Marie-Théo Puybareau,suora dellac o n g re g a z i o n eromana di SanDomenico, primareligiosa a entrarenelle fila di Athleticavaticana, che l’hascoperta, convinta ea r ru o l a t a .

Ridare voce alledonne dimenticateAlmeno nei paesioccidentali, è oggifinalmente unatteggiamento moltodiffuso andare allariscoperta delledonne dimenticatedel passato. Dal«New York Times»,

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UNA R I C E T TA T R A M A N D ATA DI PA D R E IN FIGLIA

Il timballodi Bonifacio VIII

di MA R G H E R I TA PELAJA

Proprio di fronte al magnifico porticato del Palazzo municipale diAnagni un’insegna antica indica l’accesso a un ristorante. Stanno lì,insegna e ristorante, da 350 anni, custodi e testimoni di una storialunga come quella della piccola città della Ciociaria. Le mura di unadelle torri di guardia medievali erette per l’avvistamento dei nemicifurono acquistate nella prima metà del Trecento da Thiers d’Hiricon,un cavaliere di ventura francese giunto ad Anagni per partecipare allacongiura contro Bonifacio VIII; la “casa del Gallo” — così veniva chia-mato dai locali il proprietario che vi abitò fino alla morte — nel corsodei secoli successivi fu usata per mettere al riparo le donne del paesedalle violenza dei mercenari spagnoli del Duca d’Alba, che alla metàdel Cinquecento saccheggiarono la città durante la “guerra del sale”tra Filippo II di Spagna a papa Paolo I V; poi ospitò la principessaGiovanna d’Aragona madre di Marcantonio Colonna e un incontrosegreto in cui furono sottoscritti i preliminari del Trattato di Caveche pose fine alla contesa con la Spagna.

Infine la destinazione definitiva: la casa del Gallo diventò Stazionedi posta, per alloggiare e sfamare viaggiatori e cavalli in transito ver-

ta condizioni, è infinita, si riceve con gratitudine». Lui che sembravaperduto a causa della superficialità delle sue scelte di carriera, si ri-trova là dove era atteso dalla grazia dell’amore, quello di Filippa, acui dichiarerà amore eterno.

Anche per Babette, che prepara, compone, crea e serve, è il mo-mento dell’incontro con se stessa e con il suo genio culinario. Ha

offerto quel banchetto per rendere felici quanti loassaporano, «perché un grido che sgorga dal

cuore dell’artista risuona nel mondo inte-ro» (diceva Achille Papin). Babette, comebattezzata dal diluvio del giorno in cui èarrivata, va al di là, varca i confini delleconvenienze, dona e si dona in questobanchetto e condivide tutto: il suo de-naro, la sua vita, il suo cuore, la suadignità e la sua riconoscenza. Pertutto il pasto resterà in cucina, sen-za aspettarsi alcun ringraziamento.Non è per questo che lo ha fatto. Eper terminare l’offerta del suo servi-

zio, immerge le mani nell’acqua perlavarsi il viso.

Quanto agli undici membri della comunità sono,senza saperlo, le “vittime” felici e graziate di quel banchetto. Quelmomento diventa per loro sorrisi scambiati e fraternità ritrovata, ri-conciliazioni profonde e perdoni offerti. Concluderanno la seratadanzando attorno al pozzo del villaggio.

Il pranzo di Babette è un insegnamento sul gusto della vita e dellasalvezza di Dio perché, secondo il profeta Isaia, «ogni carne vedrà (egusterà) la salvezza di Dio» (cfr. Isaia 40, 5 e Luca 3, 6). Quanti cre-devamo vicini alla salvezza si meravigliano perché viene proposta lo-ro una vicinanza ancora più bella e intensa, e quanti si trovavanolontani, anzi addirittura respinti, assaporano l’inedito e lo sconosciu-to della grazia e della verità. In effetti il pastore aveva ripetuto perdue volte la frase: «Le vie del Signore attraversano i mari là dovel’occhio umano non vede la via».

O voi tutti assetati venite all’acqua,chi non ha denaro venga ugualmente;comprate e mangiate […]Su, ascoltatemi e mangerete cose buonee gusterete cibi succulenti (Isaia 55, 1-2).

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Finché, nella seconda metà dell’Ottocento, il proprietario e oste Vin-cenzo inventa per i giorni di festa un piatto nuovo, che rompe glischemi e darà origine a leggende e conflitti: fettuccine impastate incasa, ben condite con un ragù arricchito da profumi misteriosi e“blindate” con fette di prosciutto prima di essere passate in forno.Nasce un timballo che Vincenzo chiamerà “alla Bonifacio”, il papapiù famoso della città.

Il piatto ha un gran successo e la sua ricetta è tramandata di padrein figlia con rispetto e oculatezza: saranno le donne della famiglia atrascriverne dosi e ingredienti nei loro ricettari, avendo cura di noncompletare mai la descrizione e lasciando a un segreto svelato solo avoce la possibilità di cucinarlo secondo la tradizione familiare.

Passano gli anni e le cose cambiano in molte direzioni. Negli ulti-mi decenni del Novecento sono le donne della famiglia a gestire il ri-storante, finché anche l’ultima si spegne, non senza aver confidato ilsegreto di Bonifacio ai due figli maschi. È così che un nuovo Vincen-zo risponde a un richiamo irresistibile e smette di girare il mondoper entrare in cucina a preparare il timballo. «È stato come se l’aves-si sempre fatto», racconta. E racconta dello spirito dell’anticasapienza familiare che aleggia benevolo nei locali, proteggendolo eispirandolo.

Così ora tutti i fili sono riannodati e sulle pareti della sala sono af-fiancate le vecchie foto di famiglia e nuove composizioni, in cui voltie pose dell’ultima generazione si sovrappongono a quelli di bisnonnie prozie.

Ma le cose cambiano in molte direzioni. Nell’epoca della rete edell’informazione globale il timballo alla Bonifacio diventa una pic-cola star della gastronomia internazionale, oggetto di tesi di laurea edi articoli su varie riviste. Cominciano a essere parecchi i cuochi e iristoranti che mettono il piatto nel menu dichiarandosene anche in-ventori, mentre su internet circolano innumerevoli ricette variamenteelaborate, tutte chiamate con il fatidico nome.

E allora, l’ultima innovazione. Nel 2016 Vincenzo decide di porrefine a tanta confusione e di restituire ufficialmente al bisnonno l’ono-re della sua creazione. Il marchio del Timballo alla Bonifacio vieneregistrato e depositato: nessuno tranne il ristorante di Anagni potràchiamare “alla Bonifacio” timballi che si discostano comunque dallaricetta originaria e segreta, e nessuno potrà inserirli con questo nomenel proprio menu. È la prima volta, dice Vincenzo, che questo acca-de, e nella sua voce risuona l’orgoglio per la sapienza dei suoi ante-nati e per il suo piatto della domenica protetto da copyright.

so Fiuggi, Roma e altri centri dello Stato pontificio. Una sola fami-glia acquisì proprietà ed esercizio dei locali — sala da pranzo al pianoterra, ampi cameroni comuni per dormire al primo piano — e ne tra-mandò la gestione di generazione in generazione, saziando concitta-dini e forestieri con le pietanze tipiche della tradizione anagnina.

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che sta pubblicandouna serie di ritratti difigure ignorate dallecronache (e dainecrologi delquotidianostatunitense) ai libriitaliani per bambini(alcuni strepitosi,come Vites t ra o rd i n a r i e , Inail2018), quel passatoorfano di nomi evolti femminili si stalentamente ricucendo.Nel luglio scorso, adesempio, è nata lacollana editorialeMnemosine, ideatadalla docenteuniversitaria escrittrice SimonettaRonco, pubblicatadall’editore Licosia,con un comitatoscientifico tutto alfemminile. Lo scopoè di far conosceredonne del passato ocontemporanee neipiù disparati campiattraverso biografie,autobiografie e saggi.Il libro pilota, firmatoda Ronco e dedicatoa Giuditta Sidoli,verrà presentato il 12d i c e m b re .

L’impegno dellesuore cattolicheindonesiane«Siamo consapevolidel pluralismoculturale e religiosoesistente nel paese econ determinazionevogliamo vivereall’insegna del valoredella compassione»:così scrivel’Associazione delle

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John Tennielillustrazione per «Alice

nel paese delle meraviglie»(edizione del 1890)

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all’abolizione delle carni di molti animali e alla necessità di evitarecommistioni di latte e carne. Il libro giuntoci da Theresienstadt, chenon è però l’unico testo di cucina pervenutoci dai lager, è scritto daun’anziana ebrea ceca, consegnato a un altro deportato prima dell’av-vio dell’autrice ad Auschwitz, e con mille difficoltà e decenni di ritar-do pervenuto alla figlia sopravvissuta negli Stati Uniti.

Questo libretto ci dice molte cose: la volontà di resistere, di lascia-re qualcosa di sé dopo la morte che incombe, la nostalgia della vitadi prima, delle tavole apparecchiate, degli ingredienti amorosamentecucinati. Non sempre la casherut è osservata, a testimonianza dellaintensa integrazione degli ebrei boemi e cechi rinchiusi a Theresien-stadt. Mentre quelle ricette vengono messe per iscritto, clandestina-mente, il cibo non c’è, è solo memoria del passato. Ma è anche spe-ranza del futuro, di una liberazione che se anche chi scrive non pen-sa possibile per sé affida, in quelle ricette, a chi riuscirà a sopravvive-re. Attendendo di morire di fame, questa donna scrive le ricette chele sono famigliari. È il suo testamento, un testamento morale, non dibeni materiali. E arriva, per qualche miracolo, a destinazione.

A Theresienstadt, stipata di artisti, musicisti, poeti, scrivere e dise-gnare era una forma altissima di resistenza: l’affermazione che lo spi-rito poteva più della carne, che anche attendendo la morte si potevaproclamare alta la propria libertà. E così questo libro di cucina, che

immaginava i sapori dei cibi nella fame piùterribile, era un atto di libera creazio-

ne. Come, nello stesso ghetto, lapoesia di Ilse Weber, le musichedi Viktor Ullmann e i disegni

straordinari dei bambini, chesi possono oggi vedere nel

Museo ebraico di Praga.

Ad Auschwitz, nulla ditutto questo fu più pos-

sibile, anche per chinon fu subito portato

al gas. Ma, in assen-za di carta, di pen-

na, di colori, c’eraanche là la memo-ria. Come per Pri-mo Levi quandorecita il canto di

Ulisse ad Auschwitz.

donne cattoliche diIndonesia neldocumento finale delcongresso diGiacarta, che ha vistola partecipazione dioltre 600 delegate,provenienti dalle 37diocesi del paese.Fondata nel 1924,l’Associazione — checonta oggi 90.000membri ed è statapremiata dal governocome «miglioreo rg a n i z z a z i o n esociale del 2018» —ha condottop ro g r a m m iinterreligiosi perl’alfab etizzazione,l’emancipazione e ilbenessere economicofemminile.

Prima donnae prima laica acapo della facoltàdi Teologiadella UcpDoppio record per laprofessoressa AnaMaria Jorge,nominata presidedella facoltà diteologiadell’Universitàcattolica portoghese(Ucp): si tratta infattidella prima donna edella prima laica aricoprire la carica.Laureata in storiapresso la facoltà dilettere di Lisbona edottorata in scienzestoriche nella facoltàdi filosofia e letteredell’Universitàcattolica di Lovanio,Jorge insegna storiadella Chiesa e storiadel cristianesimo.

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La cucinadel sogno

di ANNA FOA

Anche nelle situazioni estreme, nei lager nazisti, quando si moriva let-teralmente di fame, il pensiero andava ai cibi della vita passata, ai lo-ro sapori perduti. Le donne condividevano ricette, discutevano delmodo migliore di prepararle. Gli uomini ricordavano il profumo delcibo famigliare, i piatti portati a tavola nei giorni di festa. Là nel la-ger, dove prigionieri di ogni angolo dell’Europa occupata si mescola-vano, le tradizioni culinarie dei diversi paesi si confrontavano. E daTheresienstadt, il lager cosiddetto modello di Hitler, in realtà una viadi mezzo tra un ghetto e un vero e proprio campo di transito perAuschwitz, ci è giunto perfino un libro di cucina, miracolosamentesalvato ai divieti drastici dei carcerieri e sottratto alla distruzione de-gli uomini e del tempo.

Quella dello scrivere libri di cucina destinati alle figlie o alle nipo-ti, di tramandare le ricette dei cibi preparati nelle feste, nella quoti-dianità della vita famigliare, è una tradizione comune all’E u ro p adell’Ottocento e particolarmente viva nel mondo ebraico, dove la cu-cina si lega in maniera più stretta che altrove alla pratica religiosa,dove le norme della casherut rendono molti piatti particolari, grazie

NEL LAGER DI TH E R E S I E N S TA D T

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glorie, le sconfitte, gli amori e le pene del pas-sato. Il principale fattore che ha segnato l’evolu-zione della gastronomia nell’area che va dalMarocco all’Iran è stato la diffusione dell’islam:il cibo è una delle più grandi benedizioni divinee, in una civiltà teocentrica come quellamusulmana, è stato oggetto di riflessioni religio-se e mistiche, oltre a rappresentare il fulcro diuna cultura materiale basata sull’esaltazione delpiacere dei sensi. La cultura del gusto è il risul-tato della confluenza di tradizioni e suggestionidiverse; complessità, raffinatezza e convivialitàsono le sue principali componenti. L’incantodegli accostamenti dei sapori, come è stato defi-nito da Farouk Mardam-Bey, editore siriano earguto scrittore di storia della cucina araba; trale sue opere annoveriamo il Trattato dei ceci, cherestituisce a uno dei legumi più bistrattati intutto il Mediterraneo la sua dignità storica e po-p olare.

Fa ’ silenzio, perché le mandorle pralinate e

il marzapane sono in preghiera;il marzapane invoca Dio, il torrone dice

“Am e n ”.

Jalal al-Din al-Rumi

L’arte culina-ria ha se-gnato moltiambiti dellavita sociale,culturale ereligiosa nelmondo isla-mico, dovele pietanze

portano in sé secoli di cultura, arte e tradizionipopolari. Una cucina forgiata da una storia tur-bolenta, le cui vivande contengono i trionfi, le

Questionidi buon gusto

NEL MOND O MUSULMANOPrendi, o intenditor di cibi fini, due ron-

delle di pan di frumento,Del tipo che non ne ho mai visto pari,

e scrostane l’orlo da ogni canto,Finché non rimanga che tenera mollica,

e su di una di esse disponi fettineDi carne di pollo e di galletto,

e intorno sciroppo con soffio fine.E righe di mandorle posavi sopra,

alternate a righe di noci,E punti diacritici con formaggio e olive,

di menta ed estragone i tratti vocalici.

Quanto è sontuosa questa descrizione di unpanino farcito, opera del poeta Ibn al-Rumi ilcui ripieno è stato disposto con maestria tale daricordare la fine calligrafia araba, massimaespressione dell’arte sacra musulmana. Le ricettepresentate nei libri di vivande sono animate dauna filosofia di vita i cui fondamenti erano lascoperta di nuovi ingredienti, la cura e l’equili-brio nel sapore e nel consumo. Nell’islam me-dievale, il gusto è il massimo dei piaceri: è solonel corso di un banchetto che i cinque sensisembrano confluire in un processo vitale a tuttotondo. L’approccio al banchetto, visto comeesperienza sensoriale e cognitiva completa, eraimpregnato di una filosofia umanistica in cui viera un equilibrio tra pietanza e parola: è rarotrovare una tradizione che abbia reso le pietanzesoggetti ispiratori della parola lirica come quellaaraba.

La squisitezza e il ventaglio dei sapori messia disposizione da Dio all’essere umano hannostimolato anche l’appetito dei mistici, per i qua-li il cibo è dono ed espressione dell’amore divi-no. Dhawq, il termine arabo che indica il gusto,cioè la sensazione di assaggiare un sapore o, insenso più ampio, qualcosa, e farne una valuta-zione, è un concetto che nei trattati sufi indica-va l’intuizione mistica, cioè la conoscenza diret-ta di Dio e dell’invisibile attraverso l’esp erienzasensoriale. Il sufi è chiamato a passare dall’este-riorità delle forme dell’esperienza personale al

Nel mondo musulmano medievale, il simpo-sio incarna il luogo dove il cibo stimola l’intel-letto, una manifestazione di sapienza condivisache lega spirito e corpo. L’illustre storia dellacucina araba, che tanto ha influenzato quellaeuropea, ha avuto il suo apice nell’impero abba-side, ha assimilato nuovi ingredienti durantel’epoca della dominazione andalusa e si è arric-chita grazie alla mescolanza di popoli e gruppietnici di varie fedi inglobati nell’impero ottoma-no. Cucinare poteva essere un mestiere degnodi nota: secondo le cronache storiche, «il fonda-tore del Cairo era un pasticciere». Nella Bagh-dad abbaside, centro mondiale di raffinatezza ecultura, convivi e opulenti banchetti erano unamanifestazione dell’agiata vita di corte e di unostile di vita che faceva del palato uno dei princi-pali luoghi del piacere terreno, piacere legitti-mato dalla parola di Dio. Questa cucina era ilprodotto di tradizioni culinarie eterogenee, co-me quella greca, persiana, indiana, assorbitelungo le terre dominate, con mercanti che con-fluivano dal Mediterraneo e dall’estremo orientecon i loro prodotti e le loro spezie. L’ap ogeodella storia culinaria araba risale a un mondo in-ternazionalizzato e cosmopolita, aperto alla co-noscenza e agli scambi, in cui la creatività nelcombinare gli ingredienti mirava a stuzzicare ilpalato e l’intelletto: la gastronomia divenneun’arte letteraria, tanto che la più ricca letteratu-ra culinaria del mondo è quella araba medievale.

Il cibo era oggetto di interesse delle classi su-periori della società abbaside. I califfi incarica-vano di inventare nuove portate, di dedicarepoesie ai cibi e di cantarne le lodi in riunioniche divennero leggendarie, come quella raccon-tata dal poligrafo al-Masudi nel X secolo. Ungiorno, il califfo al-Mustakfi chiese ai suoi corti-giani di recitare versi dedicati a vari tipi di pre-libatezze, facendo servire di volta in volta tuttociò che veniva elogiato, fino ad arrivare a de-cantare versi senza pensare più ad assaporare vi-vande, ma solo parole.

di ARIANNA TONDI

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TRA FA M E E GUERRE COMMERCIALI

Contro il mitodel chilometro zero

di CARLO TRIARICO

Possiamo essere sicuri del cibo che mangiamo? Il commercio di pro-dotti alimentari dominato dalle grandi multinazionali, che determina-no le politiche e i prezzi, delocalizza e appiattisce gli alimenti, trat-tandoli come materie prime anonime, merci per le lunghe catene del-le produzioni industriali di cibo. I grandi viaggi e le vaghe vie com-merciali che vanno dal campo alla tavola, in cui troppi attori traggo-no guadagni, riducono le concrete garanzie di qualità, tracciabilità,controllo e sicurezza, collocando spesso ai due punti estremi delcommercio contadini malpagati e cittadini malnutriti. Eppure, per az-zerare la fame, il cibo deve poter circolare e arrivare nei paesi dove equando serve, con regole trasparenti ed eque. Le normative e i siste-mi di governo del commercio internazionale sono impreparati a con-trastare un fenomeno che non è di circolazione, ma di delocalizzazio-ne di portata mondiale degli alimenti e della loro produzione. Feno-meno che sta provocando nuova fame e nuovi conflitti, anche a causadella feroce sottrazione del cibo dai mercati reali, in assenza di rego-le, per usarlo là dove si fa denaro col denaro.

buon gusto», rivelando come le buone manieresiano innanzitutto una questione di buon gusto.Nel mondo musulmano medievale, una cono-scenza dell’arte culinaria e di come intratteneregli ospiti durante un banchetto non poteva esse-re trascurata dall’uomo di belle maniere. La ri-voluzione culinaria abbaside fu anche una rivo-luzione degli usi e dei costumi: la gastronomia,l’arte di saper ospitare con classe e di essere uncommensale adeguato entrarono nel mondo del-le buone maniere che il musulmano deve posse-dere per essere educato e raffinato. Si diffusecosì il filone religioso e letterario dei libri delgalateo a tavola, ispirati dall’idea che una con-dotta appropriata verso il cibo e un buon com-portamento a tavola sono considerate forme digratitudine e devozione, dal momento che il ci-bo riflette la dipendenza dell’uomo da Dio.Uno dei massimi esponenti fu al-Ghazali, teolo-go sufi dell’XI secolo e autore del trattato di ga-lateo più famoso nel mondo musulmano. Se-condo al-Ghazali, a tavola va seguito l’esempiodel Profeta: mangiare deve essere un’esp erienzacomunitaria e l’ospitalità è un dovere del buonmusulmano; d’altronde, secondo un anticoproverbio arabo, la fame è infedele. L’ospite vatrattato con tutta la reverenza possibile: a mo’di esempio, è preferibile che il padrone di casametta a disposizione sedie confortevoli invece diaumentare la quantità del cibo offerto. Ancoraoggi questo galateo fa parte del codice compor-tamentale dei musulmani ed è la vera animadella cucina araba. Prodigarsi in benedizioni elusinghe nei confronti della padrona di casa faparte del cerimoniale dell’ospite: «Che le tuemani siano benedette», per esprimere gra-titudine a chi ha preparato il pasto, «il tuo re-spiro nel cibo è speciale», suggerendo l’idea sufidel soffio vitale che si manifesta, in questo caso,in quello che si è cucinato, «possa la tua tavolaessere sempre prospera» e «possa tu vivere alungo», nutrendo, ancora una volta, corpo espirito.

“gusto” della realtà divina, fonte della vera co-noscenza. I sapori di questa realtà caratterizza-no il menù mistico proposto dal poeta persianodel XIII secolo Jalal al-Din al-Rumi, le cui pie-tanze sono metafora del fuoco ardente dell’amo-re divino: «Dal mio cuore, traboccante di gemi-ti, esala profumo di arrosto allo spiedo», o an-cora: «Il mio volto s’è fatto acre come i sottacetidopo la dipartita dall’amata!». Metafore daldubbio romanticismo agli occhi del lettore occi-dentale, ma pregne di significato in una culturain cui l’atto di mangiare è simbolo del nutri-mento spirituale e l’atto di cucinare della lenta emisurata preparazione dell’adepto che si accingead avvicinarsi a Dio.

Un’espressione usata al giorno d’ogginell’arabo parlato per indicare una persona daimodi gentili è, tradotta alla lettera, «sei tutto

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Gli affamati sono aumentati di decine di milioni in pochi anni,mentre la qualità nutrizionale di tanti alimenti è decaduta. Sono cosìcresciuti, per giusta risposta, i mercati contadini, i gruppi d’acquistosolidali e i ristoranti con cibo locale, ma accanto a questi crescono ifurbi della tracciabilità, cuochi che vantano il chilometro zero, macomprano cibo del posto un paio di volte l’anno, a basso prezzo,mentre aumentano gli usi ingannevoli di diciture d’origine e “madein Italy” sulle etichette. Cibi spacciati come di nobili origini sono ac-quistati invece a prezzi ingiusti, sfruttando il lavoro dei contadinilontani e danneggiando gli agricoltori locali. La crescita della richie-sta di cibo a chilometro zero porta a volte a trascurare che la veraorigine del cibo è l’agricoltore. In realtà per gli agricoltori il chilome-tro zero, che ha come conseguenza l’impossibilità di scambiare conaltre popolazioni il cibo necessario, ha costituito una delle cause sto-riche della fame. Il cibo è sempre circolarità, mescolanza e quandoun potere esterno o eventi non governati hanno imposto regimi au-tarchici all’alimentazione sono state le popolazioni contadine le pri-me a pagarne il prezzo: da sempre gli agricoltori hanno scambiatooculatamente i prodotti della vocazione del proprio territorio conquelli provenienti da altri territori e culture. La saggezza era letteral-mente l’atto di assaggiare, avere consapevolezza dei sapori della pro-pria terra e unire le distanze conoscendo i prodotti altrui. La diffu-sione del cibo di prossimità, di diretta provenienza dall’a g r i c o l t o redeve quindi essere accompagnata dalla promozione di una solida cul-tura popolare alimentare, che emancipi anche il consumatore dalladipendenza e ne faccia un saggio alleato del contadino. In questosvolgono un ruolo il metodo produttivo ecologico e il contributodell’agricoltura biologica e biodinamica, ma anche tutto quanto valo-rizza l’agricoltore e riporta l’agricoltura a fondamento dei propri pro-cessi.

Non credo nel cibo a chilometro zero fine a sé stesso, che potreb-be essere inquinato, di pessima qualità, occultare lunghe catene pro-duttive, che vedono l’agricoltore asservito a processi che lo schiaviz-zano, brevetti sui semi, dipendenza dai mezzi di produzione e con-tratti illiberali. Per altri versi so che c’è anche un cibo contadino lon-tano, che è prezioso, perché qui non lo si potrebbe produrre e per-ché proviene da popolazioni povere di cui rappresenta l’unica ric-chezza da scambiare. Un cibo che è un abominio rapinare con prezziche annientano economie e vite umane di intere regioni.

Per tutto questo bisogna insistere a ridurre i passaggi e gli ingiu-stificati arricchimenti lungo le catene del valore e quindi mirare allafiliera corta che unisca ovunque cittadino e contadino. Il chilometrozero senza filiera corta, privato di questa prossimità e alleanza, èmortifera autarchia.

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CO N S A C R AT E «PER E VA N G E L I C A CONSILIA»

Il gusto di Dio

di AMEDEO CENCINI

Senza i sensi la fede è ragionamento su Dio, con i sensi è esperienzadi Dio. La fede, infatti, implica tutta la vita e la persona, passa attra-verso il corpo e i suoi linguaggi che sono appunto i sensi: sponde delcuore e finestre sull’invisibile.

Il gusto è uno di questi. È evidente, poiché abbraccia un campopiuttosto ampio d’esperienze: dal cibo a tutto ciò che in qualche mo-do ci permette di assaporare la vita; ma è pure d i s c re t o , visto che nons’impone automaticamente, ma va educato e sviluppato. È materialee riguarda gli istinti elementari (fame, sete, gola), ma anche spiritua-le, perché si può gustare anche un ideale, o Dio stesso. Anzi, finchénon si arriva alla capacità-libertà di gustare Dio la fede è ancora po-vera e superficiale.

Già la Scrittura, infatti, adotta questo linguaggio: «I giudizi delSignore sono (…) più dolci del miele e di un favo stillante» (Salmi

19, 11), mentre a ognuno è rivolto l’invito del salmista: «Gustate e ve-dete com’è buono il Signore» (Salmi 34, 9). E il Siracide: «Avvicina-tevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, perché ilricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo

Così nel nostro immaginario si presentano due correnti della vita.Quella riproduttiva e quella nutrizionale. La corrente riproduttiva ge-nera vita, rappresenta vigoria di forze, è lineare e procede di genera-zione in generazione, di padre in figlio. Secondo alcuni neuro scien-ziati dobbiamo al ripetersi lineare delle lunghe genealogie dei testisacri l’avere iniziato ad acquisire le facoltà di connessione logica. Dal

padre non può che provenire il fi-glio, un terzo è escluso. È esclusivae deterministica quindi questa viamaschile, che però porta vita dovetutte le specie corrono su linee pa-rallele e non possono incrociarsi emescolarsi. C’è poi la linea nutrizio-nale. È inclusiva la nutrizione, lacorrente dove tutte le vite entranouna nell’altra divenendo reciproca-mente cibo nelle catene trofiche. Ècedevole generosità dell’offerta. Co-me la riproduzione parte dall’esclu-sione per generare vita, così l’ali-mentazione presuppone la morteper unire tutto in tutto.

L’alimentazione è gentilezza delsacrificio, come ricordano i riti diringraziamento di tutte le mense edè corrente femminile. Per quantooggi la nutrizione sia occultata dafinti chilometri zero, dalla culturadello scarto e dal marcio degli abu-si, per quanto sia contesa da deter-ministiche strutture lineari di com-mercio solo a parole libere e sia benrappresentata da cuochi “maschi al-fa”, l’alimentazione trova semprefondamenta nel nostro femminileche la serba e la propaga.

Ecco, alle filiere esclusive, cheall’agricoltore e al consumatore sot-traggono identità, dignità e valore,

io preferisco la circolarità inclusiva, che accoglie e dispensa il cibo inun patto tra chi lo produce e chi se ne nutre. Una scelta urgente pervincere la lotta allo sterminio per fame, su cui va chiamato ora ilmondo a raccolta, affinché possa essere raccolto.

Vittorio Accorneroillustrazione per la raccolta

«Grimm 50 novelle»(Hoepli, Milano 1952)

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di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti be-vono di me avranno ancora sete» (S i ra c i d e 24, 19-21).

Lo stesso Gesù usa la metafora del cibo per parlare del suo rap-porto col Padre: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi hamandato» (Giovanni 4, 34). E sempre Gesù definisce il credente comecolui che vive non di solo pane, ma «di ogni parola che esce dallabocca di Dio» (Ma t t e o 4, 4).

Così anche nella storia della spiritualità il vocabolario del gusto èservito a designare l’esperienza intima e profonda, la conoscenza spe-rimentale di Dio e pure la fame e sete di lui, la nostalgia del suo vol-to e il desiderio della dulcedo Dei. Questa è la vera sapienza, nel sen-so latino del sapor e del s a p e re . Gusto, dunque so: gustare, hoc est in-telligere (Guglielmo di Saint-Thierry). Fra i tantissimi testi sul temacitiamo il celebre inno di Bernardo di Clairvaux Jesu, dulcis memoria:«Gesù, dolce memoria, fonte di vera gioia del cuore; più del miele edi ogni altra cosa è dolce la tua presenza (…) Chi ti gusta non è an-cora sazio, chi ti beve ha ancora sete (…) Gesù, tu sei all’o re c c h i odolce cantico, in bocca favo mirabile, al cuore bevanda eccelsa». C’èun punto preciso in cui il gusto delle realtà spirituali si supera inqualche modo, va oltre il fenomeno della sensazione gradevole, perquanto sincera e intensa, e diventa qualcosa di ancor più vero e pro-fondo, molto più che una sensazione, poiché cambia e trasforma lapersona. È quel che accade quando il Signore Gesù non è solo dulcismemoria, ma diventa lui stesso cibo, dato a noi nell’eucaristia, cibo dicui nutrirci. Lì avviene una cosa grande e straordinaria, impensabile-incomprensibile sul piano umano e solo concepibile su quello dellagrazia: «L’anima si trasforma in ciò che essa mangia» (Guglielmo didi Saint-Thierry). È il punto più alto per questo nostro senso del gu-sto, o la nostra vocazione più alta, a convertire i nostri gusti, per ave-re quelli del Signore. Come dire: l’eucaristia provoca la trasformazio-ne del credente in Cristo, delle sue stesse attrazioni e tendenze gusta-tive a immagine di quelle di Cristo. È tutto l’uomo, così, a esser pre-so, e trovarsi inserito in una realtà che lo sconvolge e trasforma neisensi esterni e interni di Gesù, nella sua sensibilità e affettività, nelsuo modo di vivere e di morire. Colui che è elevato da terra attira asé ogni vivente (cfr. Giovanni 12, 32) per rivivere in ogni vivente. Ecos’è quell’essere attratti dal Crocifisso se non una trasformazione delgusto interiore?

Vediamo solo un paio di indicazioni circa la formazione del gusto(di fatto ignorato nelle nostre rationes formationis). Anzitutto perevangelizzare il gusto occorre educare ed educarci alla bellezza, ovve-ro imparare a riconoscerla in noi e attorno a noi, particolarmente incolui di cui siamo chiamati a rivivere i sentimenti, nella sua parola estile di vita, in ciò che ci dona e ci chiede. Poiché Dio è bello e dol-

ce è lodarlo, e dunque bello devono essere il tempio, la liturgia, il vi-vere insieme nel suo nome, il servire il prossimo e il povero. Che sen-so ha la preghiera se non è esperienza di bellezza, se colui che preganon coglie che è semplicemente bello stare davanti a Dio, ascoltare lasua parola, “perder tempo” nell’adorazione? Che senso ha la vita cri-stiana se non è esperienza che l’essere miti, pazienti, misericordiosi,costruttori di pace, poveri e puri di cuore è bello e dà felicità, e nonva vissuto come un dovere? Come può attrarre la vita consacrata senon è testimonianza di bellezza? Quale Dio annunciamo se non riu-sciamo a dire che il Padre di Gesù e nostro non cerca soldatini obbe-dienti, ma figli felici, col palato da Beatitudini e il gusto evangelizza-to? L’altra indicazione pedagogica per convertire il gusto, e non ri-fiutarlo o rimuoverlo, è il digiuno, ovvero «la forma con cui il cre-dente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo» (Bianchi)o con cui il corpo, privato volontariamente di cibo, diventa segnodella fame d’ogni parola che esce dalla bocca del Padre, il vero cibo(cfr. Ma t t e o 4, 4). Un corpo in digiuno diventa preghiera, e preghieraparticolarmente vera, perché fatta dall’uomo con tutto se stesso, per-sino con lo stomaco (vuoto). Per questo, privarsi del cibo materialeche nutre il corpo facilita un’interiore disposizione ad ascoltare Cri-sto e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Ci fa capire come do-vremmo sentire il bisogno di Dio. E come Dio possa diventare ciboche sazia e sfama. «Con il digiuno e la preghiera permettiamo a luidi venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel no-stro intimo: la fame e sete di Dio» (Benedetto XVI). In tal senso il di-giuno è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale oalla sua confusione con la dimensione psicologica o con la sensazionesolo gradevole, e non anche sofferta, del divino.

Se da un lato, dunque, il digiuno ci fa discernere qual è la nostrafame normale, di cosa viviamo e ci nutriamo, dove vanno i nostri gu-sti e quali i sapori familiari, cos’ha il potere di farci sentire sazi o af-famati, dall’altro esso disciplina la nostra oralità, sempre tentata dallatentazione dell’accaparramento e della voracità, nei confronti non so-lo del cibo, ma delle cose, degli altri, persino dell’esperienza spiritua-le. Fino a giungere a ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è ve-ramente l’unico necessario: Dio e la sua volontà, come cibo che saziaper la vita. Da gustare per tutta la beata eternità!

Per questo il digiuno è segno d’amore e Gesù chiede che sia fattosenza suonare la tromba né intristire il volto, ma con animo lieto,nell’interiorità e nel segreto (cfr. Ma t t e o 6, 16), come cosa bella in sé,davanti al Padre. L’amore è discreto, non cerca consenso e applauso,gli basta il gusto di far le cose per amore. Proprio tale gusto è la ri-compensa del Padre. Che dà una gioia che rende bella la vita.

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Il femminismodi san Paolo

di ROMANO PENNA

Il tema del ruolo delle donne nelle lettere di san Paolo ha suscitatonegli ultimi anni grande interesse, con una bibliografia che almenone documenta la complessità. Del resto, alcuni casi sono stati trattatisu questo giornale con magistrale competenza dalla decina di autriciche vi si sono succedute e che citerò più avanti.

Ora intendo qui richiamare i dati principali riguardanti il “femmi-nismo” di Paolo documentato nelle sue lettere autentiche, a prescin-dere da quelle della posteriore tradizione paolina dove per la verità iltono sull’argomento cambia (come in 1 Timoteo 2, 9-15). Probabilmen-te è sulla base di questi altri testi che qualcuno anni fa definì Paolocome «il maschio più sciovinista di tutti i tempi». Eppure già nel IV

secolo un rappresentante di prim’ordine dei padri della Chiesa comesan Giovanni Crisostomo, a commento del passo della Lettera ai Ro-

mani dove di una certa Maria si dice che «ha faticato molto per voi»(Romani 16, 6), scriveva senza mezzi termini: «Di nuovo Paolo esaltae addita a esempio una donna, e di nuovo noi uomini siamo som-mersi dalla vergogna! O meglio, non solo siamo sommersi dalla ver-gogna, ma siamo anche onorati. Siamo onorati, infatti, perché abbia-

mo con noi donne del genere; ma siamo sommersi dalla vergogna,perché siamo molto indietro al loro confronto».

In effetti, dichiarazioni polemiche come quella ricordata, non solonon colgono nel segno, ma suscitano un senso di rammarico per l’in-comprensione che vi sta a monte. E viene voglia di fare come Dioge-ne il Cinico che, vedendo un arciere incapace di centrare un obietti-vo, «si sedette vicino al bersaglio dicendo: “Lo faccio perché non micolpisca”». Fuor di metafora, è davvero meglio mettersi dalla parte diPaolo per non essere centrati da chi cerca di colpirlo, visto che lo fainutilmente sbagliando bersaglio! Il fatto è che una serie di passi epi-stolari rivelano un femminismo davvero interessante, come ora andia-mo a vedere.

Relativizzazione del genere. Alla base c’è l’affermazione quanto maieloquente e sorprendente che Paolo fa nella Lettera ai Galati doveespone un principio fondamentale: «Tutti quanti siete stati battezzatiin Cristo avete rivestito Cristo. Non c’è giudeo né greco, non c’èschiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi sieteuno solo in Cristo Gesù» (3, 27-28). Vengono così annullate tutte ledifferenze o meglio le contrapposizioni: culturali, sociali, e persinosessuali. In quest’ultimo caso, l’apostolo non intende certo affermareche tra i cristiani si verifichi il superamento del dato creaturale delladistinzione dei generi (ben stabilito in Genesi 1, 27). Su questa distin-

PAOLO E LE D ONNE

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della necessità del capo coperto in momenti cultuali (forse si trattadel lembo della toga o del peplo: si ricordi che secondo l’uso romanodi norma gli uomini stessi potevano partecipare al culto capite velato),possono essere di due tipi. L’uno consisterebbe nel fatto che, data lamenzione degli angeli in 11, 10 («la donna deve avere sul capo un se-gno di autorità a motivo degli angeli»), riecheggi qui l’idea giudaicadel rispetto per la loro presenza durante la preghiera (così a Qu-mran). Inoltre è possibile che Paolo sia preoccupato di una certaemancipazione femminile ritenuta spregiudicata con l’assunzione diuna pettinatura poco consona alla donna; infatti in 1 Corinzi 11, 15egli addirittura identifica il velo (peribòlaion) semplicemente con lalunga capigliatura femminile (kòme). In ogni caso, questa disposizio-ne riguarda le donne solo nel momento in cui intervengono a parlare

Romano Penna èprofessore emerito diNuovo Testamentodella Pontificiauniversità Lateranensee professore invitatoalla Pontificiauniversità Gregoriana,alla Facoltà teologicadi Firenze, e alla

zione in Israele si era fondata una pretesa superiorità dell’uomo sulladonna, come si legge in Flavio Giuseppe: «La donna, come dice laLegge, è in ogni cosa inferiore all’uomo» (Contro Apione 2, 201), men-tre il Talmud Babilonese decreta che in sinagoga «una donna nondeve leggere dalla Torah per rispetto all’assemblea» (Me g i l l a h 23a),anche se altre affermazioni sembrano attenuare il giudizio come leg-giamo in un midrash: «Se un povero dice qualcosa, vi si presta pocaattenzione; ma se parla un ricco, subito egli viene ben ascoltato; tut-tavia, davanti a Dio tutti sono uguali: donne, schiavi, poveri e ric-chi» (Esodo Rabbà 21, 4).

Resta comunque il fatto che in Paolo la prospettiva non è soltantoquella di una mera uguaglianza davanti a Dio, bensì e soprattuttoquella di una parità di funzioni a livello comunitario. Egli «non af-ferma che in Cristo non ci sono più uomini e donne, ma che il matri-monio patriarcale e i rapporti sessuali fra maschio e femmina non so-no più costitutivi della nuova comunità in Cristo. Senza tener contodelle loro capacità procreative e dei ruoli sociali con queste connessi,le persone saranno membri a pieno titolo del movimento cristianonel e mediante il battesimo» (così giustamente Elisabeth SchüsslerFiorenza). Non per nulla, l’intera frase paolina si trova nel contestodi una riflessione sul battesimo, e questo rito, a differenza della cir-concisione praticata in Israele, evidenzia appunto l’uguaglianza tramaschi e femmine.

Un velo incerto. In 1 Corinzi 11, 2-16 Paolo discorre notoriamente diun velo o copricapo che le donne dovrebbero indossare durante leassemblee liturgiche. Le motivazioni della richiesta, a parte la prassi

L’a u t o re

Andrej Rublëv«Icona di san Paolo»

(1407)

università di Urbino,oltre che alloStudium BiblicumFranciscanum diGerusalemme. I suoiinteressi vertono suPaolo di Tarso, sullecristologie del NuovoTestamento e sullainculturazione delprimo cristianesimo.

apertamente durante l’assemblea liturgica, ritenuta co-munque una prassi indiscutibile.

Silenzio accessorio. Un testo ben noto è 1 Corinzi 14,34-35, che parrebbe contrastare ogni enunciazione diegualitarismo: «Le donne nelle chiese stiano zitte (...)È indecente infatti per una donna parlare nell’assem-blea». Questa frase è stata spesso un cavallo di batta-glia dentro e fuori la Chiesa per dimostrare l’antifem-minismo di Paolo, sia per condividerlo sia per con-dannarlo. In realtà, l’esegesi odierna evita queste er-meneutiche contrapposte e comprende l’affermazionedell’apostolo in termini positivi, sia pure con posizionidifferenziate. Da una parte, infatti, c’è chi addiritturaritiene che queste parole non appartengano al testooriginale della lettera ma siano state inserite posterior-mente nel corso della tradizione manoscritta come unaglossa, sulla base di un passo deutero-paolino (cfr. 1

Ti m o t e o 2, 11: «La donna impari in silenzio con tuttasottomissione; non concedo a nessuna donna di insegnare né didettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamentotranquillo»). Ma, se quest’ultimo testo è inequivocabile, bisogna rico-noscere che esso manifesta un successivo e deteriorato atteggiamentoverso la donna nella Chiesa. Il Paolo storico, infatti, documenta untutt’altro modo di vedere le cose. Ciò che fa problema semmai èl’aperto contrasto con il fatto che l’apostolo dà assolutamente perscontato che le donne possano intervenire liberamente in pubblico,senza porre loro alcuna museruola, come denota l’uso del verbo p ro -

fetèuein impiegato a loro riguardo esattamente come per l’uomo (cfr. 1Corinzi 11, 4-5).

D ONNE CHIESA MOND O 36 D ONNE CHIESA MOND O37

Del resto, quanto Paolo scrive in 1 Corinzi 14, 34-35, se preso insenso restrittivo, può avere notevoli paralleli nel mondo ambiente.Per esempio, in Eschilo si legge che «spettano all’uomo le cose fuoricasa: non se ne curi la donna, ma stia in casa e non crei danno (…)A te tocca tacere e stare dentro casa» (I sette contro Tebe 200-201 e232); da parte sua Plutarco scrive: «Non solo il braccio, ma anche laparola della donna virtuosa non dev’essere per il pubblico, e deveavere pudore della voce come di un denudamento» (Precetti coniugali

31). Ma le parole di Paolo possono valere come semplice e banaleammonizione alle donne corinzie a non parlottare durante l’assem-blea liturgica. Alternativamente, visto che poco prima a proposito dichiunque parla come glossolalo, cioè senza farsi capire, Paolo ha sta-bilito che abbia un interprete (14, 28: «Ma se non ha un interpretestia zitto nella chiesa»), si può pensare che l’apostolo proibisca alledonne di parlare soltanto come glossolale, dato che in 11, 5 egli davaper scontato che potessero parlare apertamente come profetesse, cioèin modo da farsi capire a edificazione della comunità.

Varie responsabilità riconosciute. In altre lettere è ampiamente docu-mentata la partecipazione attiva di donne, addirittura menzionatesingolarmente per nome, nell’esercizio di un impegno che riguardasia la fondazione di chiese sia i ministeri al loro interno. Soprattuttol’ultimo capitolo della Lettera ai Romani, specie 16, 1-16, ci riserva unasorprendente documentazione in materia. Per sapere quante siano lepersone qui lodate da Paolo per il loro impegno evangelico in rap-porto alla comunità, scorriamo la nutrita lista di nomi di persone acui sono rivolti i saluti: abbiamo sette nomi di donne (Prisca, Maria,Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Giulia); si potrebbe aggiungere ilnome di Febe qualificata nel versetto 1 come « s o re l l a » e soprattuttodiàkonos della Chiesa di Cencre, ma essendo portatrice della letteraPaolo non le rivolge alcun saluto (cfr. i contributi di Rosalba Manese di Andrea Taschl-Erber), a cui se ne aggiungono due innominate (a13 la madre di Rufo e a 15 la sorella di Nereo), e diciassette nomi diuomini (Aquila, Epeneto, Andronico, Ampliato, Urbano, Stachi,Apelle, Erodione, Rufo, Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma,Filologo, Nereo, Olimpas). Ebbene, a livello di statistica dobbiamoconstatare che le donne impegnate per l’Evangelo superano gli uomi-ni per sette (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, la madredi Rufo) a cinque (Aquila, Andronico, Urbano, Apelle, Rufo). Oltrea Febe notiamo il nome di Prisca (persino anteposta al nome del ma-rito Aquila; cfr. l’articolo di Chantal Reynier), che ospita i cristianinella propria casa, entrambi qualificati da Paolo come suoi «collabo-ratori»; poi vengono i nomi di Maria «che ha faticato molto pervoi», di Giunia accomunata ad Andronico, essendo entrambi «insigni

Catacombedi Domitilla (Roma)

D ONNE CHIESA MOND O 38 D ONNE CHIESA MOND O39

MAT T E O 1, 1-17

Nel tempo dell’attesache può ridestare epurificare il nostrodesiderio, guardia-mo al Natale delSignore riascoltan-do la prima paginadel vangelo secon-

do Matteo. Questo si apre con una serie di no-mi, taluni apparentemente impronunciabili, chedischiudono storie lontane, che tuttavia sono lìa interpellarci, a chiederci di entrare in comuni-cazione con la nostra storia, perché ogni vicen-da possa trovarsi iscritta nella storia della sal-vezza.

ME D I TA Z I O N E

Fugenerato

a cura delle sorelle di Bose

Toros Roslin, «Gli antenati di Cristo» (1262)

tra gli apostoli» e quindi apostolo essa stessa (cfr. l’articolo di Car-men Bernabé), poi Trifena e Trifosa «che hanno lavorato per il Si-gnore» (cfr. l’articolo di Dominika Kurek Chomycz), e infine di Per-side definita «carissima», di cui si ripete che ha lavorato per il Si-gnore. Basterebbe questa secca pagina epistolare per smentire quantihanno scritto di un supposto antifemminismo di Paolo.

Menzioni ulteriori. In altre lettere emergono altri nomi di donne im-pegnate nelle rispettive comunità. Così la Lettera a Filemone, general-mente citata con il solo nome del destinatario maschio, in realtà è in-dirizzata «al carissimo Filemone, nostro collaboratore, alla sorella Af-fia, ad Archippo nostro compagno» (1-2), dove la menzione delladonna fra due uomini, probabilmente moglie del primo, denotaquanto essa sia degna di altrettanto rilievo all’interno della comunità;d’altronde nelle antiche lettere papiracee è molto raro che tra i desti-natari ci sia una donna.

Con ogni probabilità anche i nomi di Evodia e Sintiche, esortatead andare d’accordo (in Filippesi 4, 2), sono quelli di due donne confunzioni particolari all’interno della comunità di Filippi (cfr. l’artico-lo di Marta García Fernández).

E non parliamo dei nomi di Lidia (in Atti degli apostoli 16, 14-16;cfr. l’articolo di Maria Pascuzzi), di Cloe (in 1 Corinzi 1, 11), e poi diTecla (negli apocrifi Atti di Paolo e Tecla). In tutti questi casi Paolorende onore a un’intera serie di donne per il loro impegno di attivaresponsabilità dimostrato nella vita delle Chiese. A parte andrebbepoi ricordato il diritto che egli poteva accampare di avere con sé,non una donna credente (come la Bibbia della Conferenza episcopaleitaliana traduce adelfèn gynàika in 1 Corinzi 9, 5) ma una credente co-me moglie (a Christian wife secondo la cattolica New American Bible).

In conclusione, si può ritenere che all’interno delle Chiese paolinele donne esercitassero delle funzioni tali che non ebbero neanche altempo di Gesù, a parte una loro significativa presenza alla croce e alsepolcro vuoto. Infatti, di una loro responsabilità ecclesiale si puòparlare solo nel periodo successivo alla Pasqua e specificamente ap-punto nelle Chiese paoline, dato che non abbiamo notizia di donneattive nelle Chiese giudeo-cristiane (a meno di considerare tali quelledelle Lettere Pastorali, dove però viene riconosciuto un ruolo partico-lare al gruppo delle vedove in 1 Timoteo 5, 3-16, su cui si veda l’arti-colo di Nuria Calduch-Benages).

In ogni caso non è fuori luogo riconoscere che dall’insieme scatu-risce una importante lezione anche per la Chiesa di oggi.

D ONNE CHIESA MOND O 40

La genealogia è suddivisa in tre periodi diquattordici generazioni ciascuno: da Abramo aDavide, ossia l’ascesa del regno davidico; daDavide all’esilio babilonese, la caduta del regno;dall’esilio in Babilonia fino alla restaurazionemessianica. Se si considera che quattordici sonoi giorni di mezza fase lunare, si può riconoscerela prima fase ascendente, seguita da quella ca-lante (esilio), e infine la fase crescente della pie-nezza messianica.

È curioso notare che in mezzo a tanti nomimaschili compaiano delle donne, normalmentelasciate ai margini della storia: Tamar, che conun inganno era riuscita a ottenere una discen-denza da Giuda (cfr. Genesi 38); Rachab, la pro-stituta di Gerico che aveva offerto ospitalità agliesploratori (cfr. Giosuè 2); Rut, la moabita, cheaveva sedotto Booz (cfr. Rut 3); Bersabea, lamoglie di Uria l’Ittita, di cui si era invaghito ilre Davide (fino a consumare l’adulterio e a faruccidere Uria, cfr. 2 Samuele 11); infine Maria, lagiovane di Nazaret.

Nella storia di salvezza non compare dunquesolo la stirpe reale bensì l’impasto multiformedella vita, tumultuosa, fragile e “sbagliata” comequella che sempre abbiamo davanti. L’evangeli-sta non teme di riportare tra gli antenati di Ge-sù anche i segni del peccato, del volto umanosfigurato: le prime quattro donne attraversounioni “i r re g o l a r i ” hanno comunque contribuitoalla discendenza messianica. Vita piena non èvita “p erfetta”.

Con Maria si evidenzia in massimo gradol’intervento divino: non leggiamo più, come nel-la lunga serie precedente che qualcuno «gene-rò», ma: «Maria, dalla quale fu generato Gesù»(Ma t t e o 1, 16), generato da Dio.

Dio conduce la storia verso il compimento.Nei modi che non conosciamo, trae il bene an-che dalle nostre pieghe oscurate. Facciamoglispazio in noi!

Con l’incarnazione di Gesù di Nazaret iltempo trova compimento: «Quando venne lapienezza del tempo, Dio mandò suo figlio, natoda donna» (Galati 4, 4). L’Avvento (che signifi-ca “venuta”) invita a vivere l’attesa del compi-mento delle promesse, a rinnovare l’attesa delRegno che viene rendendoci vigilanti.

«Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide,figlio di Abramo» (Ma t t e o 1, 1). In Gesù, il Fi-glio, si ricapitola la storia, ciascuno è ricono-sciuto della «stirpe di Dio». La genealogia rico-pre la funzione di riassumere, in forma estrema-mente condensata, tutta la storia di salvezza delpopolo d’Israele da Abramo a Gesù passandoper la discendenza regale di Davide.

Anche nel vangelo secondo Luca (che comeMatteo riporta nei primi capitoli i «vangelidell’infanzia») troviamo una genealogia che tut-tavia risale da Gesù fino ad Adamo per arrivarea Dio (cfr. Luca 3, 23-38): l’universalismo lucanosottolinea che è proprio nella sua umanità cheGesù è Figlio di Dio.

Matteo sceglie l’espressione greca bìblos ghené-

seos, calco di quella ebraica sefer toledot, “l i b rodelle generazioni”, quindi anche “storia”: dal fa-re memoria di quanti lo hanno preceduto, e at-teso, prende inizio la storia di Gesù che verràraccontata nel vangelo, storia che è vangelo,buona notizia.

«Libro della genesi di Gesù Messia figlio diDavide, figlio di Abramo» (Ma t t e o 1, 1). Gesù èriconosciuto come figlio di Abramo, al pari diogni ebreo, erede delle promesse fatte ai padri.Ed è figlio di Davide, del quale è specificata laqualifica di «re» (Ma t t e o 1, 6): l’apostolo Paoloallude alla «stirpe di Davide secondo la carne»(Romani 1, 3), i profeti pensavano al Messia co-me «germoglio di Davide» (Isaia 11, 1; G e re m i a

23, 5), e l’ultima pagina dell’Ap o c a l i s s e fa dire aGesù: «Io sono la radice e la discendenza diDavide, la stella radiosa del mattino» (Ap o c a l i s s e

22, 16).