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L' ARTE POVERA CURIOSANDO NELL'ARTE CONTEMPORANEA DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO

CURIOSANDO NELL'ARTE CONTEMPORANEA · l'arte povera si manifesta essenzialmente "nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi". Gran parte

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L' ARTE POVERA

CURIOSANDO NELL'ARTE CONTEMPORANEA

DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO

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L'arte povera è un movimento artistico sorto in Italia nella seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso al quale aderirono autori di ambito torinese dove un progetto di ricerca e ricognizione chiamato Deposito d’Arte Italiana Presente nasce in via s. Fermo 3 dal ‘67 al ’69 ad opera di Pasolini, Gilardi, Merz con rappresentazioni, mostre, performances in dialogo con Enzo Sperone, Leo Castelli e altri esponenti del mercato internazionale.

Seppure il concettuale nasca, come abbiamo visto, con Duchamp, sulla scena internazionale irrompe in questi anni.

Segnerà l’ingresso nella civiltà postmoderna e postindustriale.

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DEPOSITO DI VIA SAN FERMO - TORINO

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STORIA

Un primo raccogliersi del nuovo movimento si ha nel settembre del 1967 nella mostra omonima, curata da Germano Celant che si svolge alla Galleria La Bertasca a Genova, dove espongono Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali e Prini. Celant inaugura la figura del curatore. L'Arte povera viene definita ancora da Celant in un articolo pubblicato sul n. 5 di Flash Art di Giancarlo Politi dello stesso anno nella mostra Arte povera del 1968 alla Galleria de' Foscherari a Bologna con quelli di Genova più Anselmo, Merz, Piacentino, Pistoletto, Zorio, i quali ancora esporranno insieme a Trieste al Centro Arte Viva-Feltrinelli, dove si aggiungerà Gilardi

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LA BERTESCA - 1967

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FLASH ART - n. 5

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Infine nella manifestazione Arte povera - Azioni povere negli Arsenali di Amalfi e sedi varie. Tre giorni nel 1968 consistente in una mostra dove gli artisti eseguiranno le loro opere quasi tutte in loco, in una serie di happening e di performances che cercheranno di coinvolgere tutta la cittadinanza e in un convegno a cui parteciperanno quasi tutti gli esponenti dell’avanguardia critica del momento (ABO, Dorfles, Menna..). A decretare il successo della manifestazione fu poi l’intervento della RAI e la pubblicazione di un catalogo ad opera di Lia Rumma.L'happening è una forma d'arte contemporanea che nasce a opera di Allan Kaprow e si focalizza non tanto sull'oggetto ma sull'evento che si riesce ad organizzare: «L' "happening" è una forma di teatro in cui diversi elementi alogici, compresa l'azione scenica priva di matrice, sono montati deliberatamente insieme

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AMALFI - 1968

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ARTI POVERE+AZIONI POVERE 1968

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AMALFI - 1968

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La performance art, resa in italiano come performance d'arte o performance d'artista, è un'azione artistica, generalmente presentata ad un pubblico, che spesso investe aspetti di interdisciplinarità.

Una performance o azione può essere scritta seguendo un copione o non scritta, casuale o orchestrata attentamente, spontanea o pianificata, con o senza coinvolgimento di pubblico

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Il richiamo ad un'arte povera come guerriglia asistematica evidenziato da Celant nell'articolo su Flash Art viene accettato grazie al riconoscimento internazionale, peraltro fermamente perseguito. La consacrazione internazionale avviene nel 1969 con la rassegna di arte povera e arte concettuale When attitudes become form (WABF) organizzata da Harald Szeemann presso la Kunsthalle di Berna (alla quale partecipano Boetti, Calzolari, Kounellis, Merz, Pascali, Pistoletto, Prini e Zorio) e quando esce il volume di Celant Arte povera esemplificato l'anno successivo nella mostra Conceptual art, arte povera, land art organizzata presso la GAM.

WABF ha rivoluzionato il concetto di allestimento museale o di mostra e il curatore è complice assieme agli artisti nella creazione di una mega opera Conceptual Curating

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WHEN ATTITUDES BECOME FORM - 1968

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WABF - Beuys -Bolinger - Sonnier - 1969

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WABF - EXHIBITION - 1969

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WABF - BOETTI - 1969

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Opere e poetiche

Il movimento nasce in aperta polemica con l'arte tradizionale, della quale rifiuta tecniche e supporti per fare ricorso, appunto, a materiali "poveri" come terra, legno, ferro, stracci, plastica, scarti industriali, con l'intento di evocare le strutture originarie del linguaggio della società contemporanea dopo averne corroso abitudini e conformismi semantici. Un'altra caratteristica del lavoro degli artisti del movimento è il ricorso alla forma dell'installazione, come luogo della relazione tra opera e ambiente, e a quella dell' "azione" performativa. Germano Celant, che mutua il nome del movimento dal teatro di Jerzy Grotowski e che inizialmente avrebbe voluto chiamare il movimento Nuovo Futurismo e che vi rinunciò per ragioni politiche (fascismo marinettiano) afferma che l'arte povera si manifesta essenzialmente "nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi". Gran parte degli artisti del gruppo manifestano un interesse esplicito per i materiali utilizzati mentre alcuni - segnatamente Alighiero Boetti e Giulio Paolini - hanno fin dall'inizio una propensione più concettuale.

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L'arte povera si inserisce nel panorama della ricerca artistica dell'epoca per le significative consonanze che mostra non soltanto rispetto all'arte concettuale propriamente detta, che in quegli anni vedeva sorgere l'astro di Joseph Beuys, ma anche rispetto a esperienze come pop, minimal e Land Art (Richard Long).

Pop Si interessa della forma e della rappresentazione della realtà. il linguaggio della pubblicità è ormai diventato arte e che i gusti del pubblico si sono a esso uniformati e standardizzati. L'opera d'arte da oggetto unico diventa un prodotto in serie, come nella celebre serie dei barattoli di zuppa di pomodoro Campbell.Due linee di tendenza del concettuale di quegli anni:

● Un concettuale “mondano”, aperto all’esperienza e attento al rapporto possibile tra artificio e natura, che si immerge nel mondo;

● dall’altro quello di matrice analitica, di ascendenza duchampiana, con il dominio del significante a scapito del significato.

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TRIANGOLO SEMIOTICOSignificante , piano dell’espressione, parte fisicamente percepibile fonetica e grafica FORMASignificato, concetto mentale, CONTENUTO Referente

SIGNIFICANTE

SIGNIFICATO

REFERENTE

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La coerenza apparente è un dogma che deve essere infranto. L’arte povera può collocarsi come congiunzione fra le esperienze “calde” dell’informale anni ’40 e ’50 e quelle “fredde” del post ’68. Quindi immersione nel flusso vitale del mondo, della natura e nel corpo vivo della società. Predilezione per l’impiego dei materiali primari, elementi tratti dalla natura, componenti tecnologici minimali (neon) e duttili. E il materiale viene presentato nella sua nudità formale e lasciato libero di modificarsi secondo le sue caratteristiche chimiche e fisiche. Connubio tra arte e vita.L’arte Povera si colloca nella scia già introdotta negli anni ’50 dai situazionisti relativamente alla fusione graduale tra arte e vita e alla necessità, per l’arte, di collocarsi all’interno dei moti di contestazione contro una immaginazione ingabbiata entro le regole produttive.

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Kosuth: L’arte dopo la filosofia: il significato dell’arte concettuale. Per molto tempo all’artista è stato negato il diritto di parola con la sola concessione del diritto alla concretizzazione formale del pensiero e il terreno della teoria è stato lasciato a storici e critici dell’arte.

Invece qui Kosuth ribalta il concetto di “morte dell’arte” di Hegel facendo diventare l’arte una piena e completa filosofia. Il presupposto è che gli artisti non lavorano sulla forma (significante) ma sui significati.

L’arte come prodotto, quadro o scultura, lascia il posto all’idea.

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KOSUTH - Una e tre sedie - 1965

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L'obiettivo di questi artisti era quello di superare l'idea tradizionale secondo cui l'opera d'arte occupa un livello di realtà sovratemporale e trascendente.

Per questo motivo risulta importante la provocazione che deriva dall'opera di Giovanni Anselmo Scultura che mangia (1968, collezione Sonnabend, New York), formata da due blocchi di pietra che schiacciano un cespo di lattuga, vegetale il cui destino inevitabile è quello di deperire.

Frequente è l'uso di oggetti viventi, come in Kounellis, il quale fissò un vero pappagallo su una tela dipinta, a dimostrazione del fatto che la natura dispone di più colori di qualsiasi opera pittorica.

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ANSELMO – La scultura che mangia - 1968

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KOUNELLIS

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Un'altra critica portata avanti dagli artisti dell'Arte povera fu quella contro la concezione dell'unicità ed irripetibilità dell'opera d'arte:

Mimesis, di Paolini, consiste in due identici calchi di gesso rappresentanti una scultura dell'età classica, posti l'uno di fronte all'altro con lo scopo di fingere una conversazione.

Quest’opera rappresenta il gesto che precede ogni forma di raffigurazione. È l’emblema della filosofia paoliniana e la sintesi della concettualità della sua arte.

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PAOLINI – Mimesis - 1975

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Dalla sua prima opera, Disegno geometrico (1960), realizzata a soli vent’anni, Giulio Paolini ha sviluppato la propria ricerca indagando gli elementi costitutivi del quadro, lo spazio della rappresentazione, il fenomeno del vedere e la figura dell’autore. Nel corso del tempo la focalizzazione sull’opera considerata nel suo divenire – alla ricerca della propria possibilità di definizione – lo ha portato a concentrare l’attenzione in misura crescente sul gesto dell’esposizione, fino a mettere in gioco la legittimità o necessità di questo stesso mostrarsi.

I suoi lavori non hanno “nulla da dichiarare”: non vogliono comunicare alcunché, per limitarsi a evocare le premesse del loro manifestarsi.

GIULIO PAOLINI

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PAOLINI - Disegno geometrico - 1960

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Costituiti principalmente da tele bianche, fogli da disegno, calchi in gesso, riproduzioni fotografiche, volumi in plexiglas e da un vasto repertorio di elementi iconografici (da particolari di dipinti antichi a frammenti di visioni siderali), mettono in scena l’attesa di un’immagine che elude ogni tentativo di fissazione, per rimanere sospesa nella dimensione potenziale.

Il costante rinvio del momento della rivelazione lascia spazio all’interrogazione della rappresentazione come tale: all’impalcatura che la annuncia, al catalogo di ipotesi che la precede e al mistero che la preclude allo sguardo immediato.

Giulio Paolini, infatti, focalizza le sue riflessioni sul ruolo dell’artista, sullo spazio e gli strumenti della rappresentazione, sulla relazione tra autore e opera, opera e osservatore, osservatore e artista; si interroga sulla tradizione classica della copia e sul significato e lo statuto dell’arte in generale.

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Paolini: Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967

Giovane che guarda Lorenzo Lotto riproduce nelle dimensioni originali il “Ritratto di giovane” di Lorenzo Lotto: è la “ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dall’osservatore di questo quadro”.

“Il quadro si fa specchio mentale di una situazione, perché dà allo spettatore in quel momento l’illusione di trovarsi nella posizione, e quindi nella persona, di Lorenzo Lotto. Non vive quindi come quadro, ma come dichiarazione astratta”“Se nei primi anni Sessanta l’attenzione era deviata dalla superficie visibile del quadro verso il suo rovescio, qui è interamente concentrata su chi guarda: l’immagine del quadro è nascosta dietro il sipario della sua riproduzione e la sua ‘verità’ si sposta nel punto di vista dello spettatore. L’idea del quadro non è dunque l’immagine che ci mostra, ma il fatto stesso che noi siamo lì ad osservarlo. Il quadro non si esaurisce insomma nel piano orizzontale della sua superficie, ma è il teatro dell’asse ottico che lo attraversa”

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Fotografia su tela emulsionata30 x 24 cmFirmato, titolato e datato al verso, sul telaio a sinistra:

“Giulio Paolini / Giovane che guarda Lorenzo Lotto /1967

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“Teatro della visione” che istituisce la necessità del confronto con lo sguardo dello spettatore, Giovane che guarda Lorenzo Lotto approfondisce ulteriormente la riflessione sulla figura e sul ruolo dell’autore sviluppata da Paolini nel corso degli anni Sessanta.

“Attraverso l’uso del mezzo fotografico, mi inoltro ancor più in quella che era la mia vocazione, più che di autore o di pittore, di spettatore in attesa: con la fotografia,in Giovane che guarda Lorenzo Lotto e in altri quadri che seguiranno, cambio identità: da spettatore travestito da pittore mi ritrovo autore travestito da spettatore”

La fotografia, introdotta nel 1965, è qui impiegata per la prima volta come strumento linguistico per“appropriarsi, attraverso il tempo, di una situazione che non si è vissuta nel reale,ma che si recupera attraverso il linguaggio”. Se nel 1965 Paolini aveva usato la fotografia come “certificato d’identità”, ossia come dispositivo oggettivo che accerta l’esistenza di un determinato momento, nel 1967-68 la adopera invece come strumento che consente di uscire dal tempo, di annullare la distanza, offrendo l’illusione di un eterno presente.

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E proprio questo “miracolo” reso possibile dalla fotografia permette a Paolini di utilizzare delle riproduzioni di opere di artisti del passato: in Giovane che guarda Lorenzo Lotto riprende per la prima volta l’immagine di un dipinto antico.

La citazione mirata diventa un tema centrale nei lavori successivi, realizzati a cavallo frail 1967 e il 1968, rappresentativi di un atteggiamento “concettuale” rispetto ai fermenti “poveristi” dell’epoca.

Identificando il proprio “io” con quello del pittore di tutti i tempi, Paolini inscrive la propria identità nella discendenza della sua “dinastia”: “il problema è di sottrarre la mia identità al suo ruolo e di assumerla invece a un ruolo elettivo, storico ed ipotetico”.È solo una foto di pochi centimetri (30x24) su tela emulsionata che riproduce in bianco e nero il Ritratto di giovane dipinto da Lorenzo Lotto nel 1505.

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Ma è il titolo a trasformare la piccola opera di Giulio Paolini in un geniale capolavoro:

Giovane che guarda Lorenzo Lotto

Bastano queste parole a rovesciare ogni senso comune e far precipitare chi guarda in una vertigine spazio-temporale.

I 500 anni che ci dividono dal momento in cui quel quadro fu dipinto vengono cancellati all'istante, lo sguardo leggermente ironico del giovane assume un nuovo significato. Se l'anonimo ragazzo sta guardando Lorenzo Lotto, vuol dire che lo spettatore diventa Lorenzo Lotto.

E si cala nei panni del pittore, raccoglie la sfida di quel volto a catturarne il segreto, a cogliere un soffio di identità. L'enigma di quel viso continua a interrogarci oggi come ieri

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PAOLINI

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Tra il 1967 e il 1972 il critico Germano Celant lo invita a partecipare alle mostre sull' Arte Povera, che sanciscono l'associazione del suo nome a questa tendenza. Di fatto, la posizione di Paolini si distingue nettamente dal clima vitalistico e dalla “fenomenologia esistenziale” che distingue le proposizioni degli artisti appoggiati da Celant. Paolini dichiara ripetutamente la sua intima appartenenza alla storia dell’arte e si identifica in modo programmatico con l'io collettivo degli artisti che lo hanno preceduto. A questo intento, estraneo al panorama militante della fine degli anni sessanta, vanno ricondotte alcune tra le sue opere più note: Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967), gli “autoritratti” da Poussin e da Rousseau (1968) e i quadri in cui riproduce particolari di dipinti antichi (L'ultimo quadro di Diego Velázquez, 1968; Lo studio, 1968). Tra i principali riferimenti paoliniani di questi anni figurano Jorge Luis Borges, cui rende più volte omaggio, e Giorgio De Chirico, dal quale prende in prestito la frase costitutiva del lavoro Et.quid.amabo.nisi.quod.ænigma est (1969).

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Gli anni settanta coincidono con i primi riconoscimenti ufficiali: dalle mostre all'estero che lo inscrivono nel circuito delle gallerie d'avanguardia internazionali, alle prime esposizioni nei musei. Nel 1970 partecipa alla Biennale di Venezia con l'opera Elegia (1969), in cui utilizza per la prima volta un calco in gesso di un soggetto antico: si tratta di un calco dell'occhio del David di Michelangelo con un frammento di specchio applicato sulla pupilla. Tra le tematiche di rilievo in questo decennio figura lo sguardo retrospettivo sul proprio lavoro: dalla citazione letterale di dipinti illustri giunge all'autocitazione, proponendo una storicizzazione in prospettiva delle sue opere. Lavori come La visione è simmetrica? (1972) o Teoria delle apparenze (1972) alludono all'idea del quadro come contenitore potenziale di tutte le opere passate e future. Nella stessa linea d'intenti si colloca anche il motivo della prospettiva (La Doublure, 1972-73): la visione prospettica disegna uno spazio illusorio, che crea una distanza fondamentale rispetto all'opera. Altro tema indagato con particolare interesse in questo periodo è quello del doppio e della copia, che trova espressione soprattutto nel gruppo di lavori intitolati Mimesi (1975-76), costituiti da due calchi in gesso di una statua antica collocati uno di fronte all'altro, a porre in questione il concetto stesso di riproduzione e rappresentazione.

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Gli anni ottanta costituiscono il periodo più denso di mostre e retrospettive, accompagnate da importanti pubblicazioni monografiche. Nella prima metà del decennio inizia ad affermarsi una dimensione esplicitamente teatrale, segnata da lavori e allestimenti articolati nello spazio e contraddistinti da frammentazione e dispersione (La caduta di Icaro, 1982; Melanconia ermetica, 1983), nonché dall'introduzione di figure teatrali, quali i valets de chambre settecenteschi e altre controfigure dell'autore, indumenti e oggetti (Place des Martyrs, 1983; Trionfo della rappresentazione, 1984; Les instruments de la passion, 1986).

La poetica paoliniana si arricchisce notevolmente di attributi letterari e riferimenti mitologici; il repertorio iconografico si estende fino a includere immagini cosmiche. Negli ultimi anni ottanta la riflessione paoliniana verte principalmente sull'atto stesso dell'esporre. A partire dalla personale al Musée des Beaux-Arts di Nantes nel 1987 il concetto di esposizione si configura progressivamente come “opera delle opere”: gli allestimenti privilegiano una visione associativa e dialogica dei lavori esposti.

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Nel corso degli anni novanta l'approfondimento dell'idea di esposizione si declina in altre e nuove modalità: gli allestimenti, sempre più complessi, osservano spesso una tipologia additiva (serialità, giustapposizione), oppure centrifuga (dispersione o disseminazione a partire da un nucleo centrale) o centripeta (concentrazione e sovrapposizione implosiva). Il luogo dell'esposizione diventa il palcoscenico per eccellenza del “teatro dell'opera”, ossia dell'opera nel suo farsi e disfarsi: il luogo che definisce l'eventualità stessa del suo accadere (Esposizione universale, 1992; Teatro dell'opera, 1993; Essere o non essere, 1995).Il compimento dell'opera è peraltro costantemente differito, lasciando lo spettatore in un'attesa perenne: la stessa che l'artista sperimenta sempre da capo al suo tavolo di lavoro, nell'attesa che l'opera si manifesti.

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Negli anni duemila acquista particolare rilievo – tanto nelle opere quanto negli scritti – un altro tema particolarmente caro a Paolini: l'identità dell'autore, la sua condizione di spettatore, il suo mancato contatto con l'opera, che sempre lo precede e lo supera. La poetica e la pratica artistica di Paolini si connotano, nel suo complesso, come una meditazione autoriflessiva sulla dimensione dell'arte, sulla sua “classicità” senza tempo e sulla sua prospettiva senza punto di fuga. Attraverso la fotografia, il collage, il calco in gesso e il disegno l'intento è sempre di nuovo quello di indagare, con grande rigore concettuale, la natura tautologica e nello stesso tempo “metafisica” della pratica artistica.

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ANNI SESSANTA

Nella prima metà degli anni ’60 l’oggetto delle riflessioni dell' ARTE POVERA sono gli strumenti di cui il pittore si serve per realizzare una tela. Egli eleva a opere d’arte “gli strumenti del mestiere”.

“La ricerca è tesa verso immagini assolute, inerenti alla natura stessa della tela e all’impiego della tecnica elementare: colori a tempera, inchiostro, ecc…”[…]

Durante la guerra del Vietnam, l'Arte povera si avvicinò ai movimenti di protesta a sfavore dell'intervento degli USA: l'opera Vietnam di Pistoletto (1965, collezione Menil, Houston) raffigura un gruppo di manifestanti pacifisti, rappresentati con delle sagome fissate ad uno specchio, in modo tale che i visitatori della galleria si riflettessero in esso. Così facendo, la gente diventava parte integrante dell'opera stessa, venendosi a creare una sorta di interazione tra la creazione artistica ed il pubblico spettatore.

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PISTOLETTO - Vietnam

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L'attenzione agli stili di vita delle molteplici culture diverse da quella occidentale è presente nelle opere di Merz: i suoi tanti igloo, creati con differenti materiali (ad esempio metallo, vetro, legno, etc.), puntualizzano la capacità di adattamento di un popolo al suo determinato ambiente.

L'identificazione uomo - natura è uno dei temi maggiormente trattati da diversi artisti. In Marotta e Gilardi (Orto, 1967) la natura è però rivisitata in chiave artificiale, come per attualizzare la materia e renderla più vicina ad un sentimento di cambiamento epocale che coinvolge l'uomo e la sua percezione del mondo. Percezione che è resa incerta nei quadri specchianti di Pistoletto, che si aprono letteralmente al mondo assorbendo tutto ciò che vi si trova di fronte e cambiando al variare dell'ambiente che li contiene.

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Al contrario di questi, gli "schermi" privi di immagine con i quali Mauri riproduce il telone cinematografico e che influenzeranno i primi lavori di Mario Schifano. Tuttavia le sue creazioni si aprono, talvolta, sulla realtà quotidiana più popolare (Casetta Objects Achetés, 1960), o sugli avvenimenti di cronaca più impressionanti (La luna, 1968), che lo porteranno a sviluppare una profonda riflessione su arte e storia.

Molti artisti lavorano sull'idea di un'immagine stereotipata, come Ceroli (Si/No, 1963), che tratta in modo seriale silhouttes prese dalla storia dell'arte, o insiemi di figure umane moltiplicate o serializzate con una tecnica che ricorda il bricolage. Sono considerati stereotipi anche i "gesti tipici" di Lombardo (Gesti tipici-Kennedy e Fanfani, 1963), i ricalchi di immagini di Mambor o le scene da rotocalco o di quadri famosi rivisitate in stoffa variopinta da Tacchi (Quadro per un mito, 1965).

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MAURI - La Luna - 1968

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LOMBARDO - Gesti Tipici - 1963

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TACCHI - Sul divano a fiori - 1965

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ARTE POVERAC'era una voltadi Bruno Corà (2011)

Celebrare l’Arte Povera durante l’anniversario del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia, dove alla retorica nazionale si mescola l’amaro della situazione socio-economica e cultural-politica in cui è ridotto il paese, non è esaltante. Se le origini remote da cui quell’arte è nata sono davvero quelle medioevali e rinascimentali, che rivendicano san Francesco e Jacopone, Fibonacci e Giotto, Masaccio e Piero della Francesca, Leon Battista Alberti e Donatello, dell’orgoglio d’aver avuto tali illustri antenati, dall’aria che tira, sopravvive uno sbiadito ricordo. Se si vuole comprendere allora da quali sedimentazioni, attraverso quali circostanze e tramite quali opportunità abbia preso vita, si sia sviluppata e infine definita l’Arte Povera, si devono prendere in considerazione altri fattori imprescindibili, nonché una serie di cause, apparentemente secondarie ma non meno determinanti, per la sua affermazione e diffusione a livello internazionale. Si deve anzitutto tener conto non solo del quadro storico entro il quale si sono manifestate le opere e gli eventi cui hanno dato corpo le azioni suscitate da essi, ma altresì quel contesto generazionale da cui provenivano i suoi protagonisti.

In un’Europa investita in primis dal tragico secondo conflitto mondiale e poi da un lungo “dopo dopoguerra”, in paesi come l’Italia e la Germania, contrassegnati da un’umiliante miseria eppure da un fervore ricostruttivo, il fenomeno della Guerra Fredda è qualcosa che attraversa le coscienze e il sentimento di autonomia e libertà del paese, mentre in esso si comincia a percepire, favorito dagli Stati Uniti, un benessere economico dispensato insieme con un’egemonia politica, tecnologica e culturale decisa da quel paese.

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Nonostante ciò, sugli esiti straordinari di riqualificazione del linguaggio visivo spaziale e materico raggiunto con radicale determinazione daartisti come Lucio Fontana e Alberto Burri, senza voler trascurare altri generosi contributi (Colla, Melotti, Capogrossi, gli artisti del gruppo Forma1, Pinot Gallizio, ma anche Rotella e perfino Emilio Villa) avevano innestato il loro disegno di azzeramento linguistico non meno risoluto, tra il 1958 e il 1960, tanto Piero Manzoni, Enrico Castellani e Dadamaino, affiancati da Vincenzo Agnetti, quanto Giuseppe Uncini, Francesco Lo Savio, Mario Schifano, Getulio Alviani, Gianni Colombo e i gruppi cinetico-programmatici.Tra gli obiettivi condivisi da quasi tutti questi artisti, vi è il congedo dalla sensibilità informale nell’intento di concepire e realizzare un’arte ridotta alla semanticità del proprio linguaggio.

Ma tra il 1959 e il 1960 si erano ugualmente incamminati su un’altra strada alcuni artisti attivi soprattutto a Torino e a Roma — da Michelangelo Pistoletto a Jannis Kounellis, da Giulio Paolini a Pino Pascali —, viaggio che li avrebbe condotti, negli anni successivi, a convergere sulla koiné poverista, seppur con molte differenze.La formazione delle molteplici sensibilità distintive dell’Arte Povera appare dunque scaturire dalla successiva grande presa di coscienza, nel giro di pochi anni, dopo quella del Gruppo Azimuth, del valore dell’esempio fornito dai maestri Fontana e Burri, in continuità obiettiva con un fondamento di tradizione ininterrotta dell’arte europea e soprattutto italiana, nonché da una vasta congiuntura di fenomeni sociali, culturali ed esistenziali che, dai blocchi opposti USA e URSS, investe la Francia, la Germania, l’Olanda e l’Italia.

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Un tale risveglio si attua pienamente in un frangente in cui diviene evidente che, se nel corso degli anni Quaranta-Cinquanta l’egemonia artistica dell’Europa era passata agli Stati Uniti, nella prima metà del 1960 essa veniva sancita sia dal dilagare dei segni dell’American Way of Life in ogni aspetto della vita sociale, sia da alcuni concreti e ineludibili segnali come lo sbarco alla Biennale di Venezia nel 1964 della Pop Art statunitense — ora sappiamo per certo promosso dal governo americano e dalla CIA —, culminato col premio per la pittura conferito a Robert Rauschenberg.

Ma seguiamo intanto i percorsi individuali dei protagonisti della formazione “povera”.Quando, nel 1961, con il dipinto su tela Il presente, Michelangelo Pistoletto giunge alla concezione del fondo pittorico riflettente, realizzando l’anno successivo il primo “quadro specchiante” — un’opera che doveva costituire nella sintesi pittorico-plastica un’autentica macchina di spazio-temporalità inedita — l’esperienza internazionale di Azimuth a opera di Manzoni e Castellani si era da poco avviata. Gli artisti italiani, dopo gli anni del dopoguerra e di ricostruzione del paese, avevano ripreso il gusto di viaggiare e scambiare le proprie ricerche con quelle dei colleghi olandesi, tedeschi, francesi, spagnoli, belgi, danesi, dei gruppi Zero, GRAV e altri, dilatando le proprie conoscenze e ambizioni.A seguito della realizzazione del dipinto a olio Il presente, 1961, Pistoletto prosegue infatti, tra il 1962 e il 1965, le sue ricerche, giungendo ai “quadri specchianti” (1962), i “Plexiglas” (1964) e gli “Oggetti in meno” (1965-66). Con le lamiere d’acciaio inox lucidate a specchio, sulle quali colloca dipinta una figura umana o gli oggetti, Pistoletto enuncia una nuova dimensione temporale, scaturita dal “rapporto di istantaneità” che si produce tra lo spettatore, il suo riflesso nello specchio e la figura dipinta su di esso, integrando al presente il passato e il futuro.

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I “quadri specchianti” hanno il merito di aver portato alle estreme conseguenze, dopo le premesse della prospettiva pierfrancescana, gli sviluppi di continuità spaziale e di sintesi dinamico-plastica intuite da Medardo Rosso e sviluppate dal Futurismo, ma soprattutto di aver dischiuso una nuova dimensione prospettica spazio-temporale per l’azione artistica, dopo le drammatiche conclusioni estetiche ed esistenziali cui era giunto l’Informale. Nella realizzazione dei “Plexiglas” e poi degli “Oggetti in meno” si pongono alcuni elementi di base di quella sensibilità “poverista” di cui Pistoletto si rivelerà a Torino un propulsore. La sua opera successiva, a partire dalla creazione della compagnia teatrale Lo Zoo (1967), fino ai cicli di scultura degli anni Ottanta e all’ideazione dei cantieri scaturiti dal “Progetto Arte” che ha dato vita a “Cittadellarte”, si è attuata sotto il segno della collaborazione, investendo il sociale in tutti i suoi aspetti. Ma nei primi cinque anni della decade del Sessanta, molti degli artisti dell’Arte Povera, eccetto Calzolari, Penone e Prini, sono già in procinto di definire il proprio lavoro con precise modalità e fisionomie.

Con Disegno geometrico (1960) prende avvio l’azione di Giulio Paolini che traccia una tantum quell’emblematica “tabula” referenziale di tutta la sua opera successiva e con essa — anche se il suo precoce metodo d’indagine analitica degli strumenti ed elementi impiegati nella messa a punto per la “visione” di un’immagine giungerà a un primo compiuto episodio espositivo con la mostra personale alla galleria La Salita di Roma nel 1964 — il suo lavoro ha già un destino configurato. Da allora infatti l’interrogazione che proviene dagli amletici lavori di Paolini osserva una vertigine enunciativa che le parti e gli elementi elaborati nell’opera, come facce di un prisma cristallino, si fanno carico di visualizzare, al tempo stesso, la complessità e la chiarezza. Intimamente sorretta dal sentimento indiziario, che il suo artefice ha disseminato in essa, l’opera di Paolini si dimostra eraclitea ed enigmatica.

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Ogni volta essa annuncia qualcosa che si ha la sensazione di percepire come entità inesauribile. Un incessante quid a cui l’artista stesso, prima di ogni altro osservatore, presta orecchi e occhi senza giungere a esiti definitivi.

L’essenza manifesta in tutte le sue opere si nutre dunque di una radice di possibilità eventuali, praticamente infinite, e la sua qualità risiede proprio in quel dispositivo visivo che annuncia, di volta in volta, l’enigmatico quesito presente in una certa immagine, ma anche in quella immediatamente successiva, senza soluzione di continuità. Tale concatenata struttura delle sue concezioni lascia serpeggiare nelle opere una sottile vena d’inconoscibile sull’esistente o su ciò che è stato e tornerà a essere (eterno ritorno?), anche se in modi diversi. Proprietà, questa, spesso presente nei processi della natura come anche della storia, della memoria e infine del sentimento premonitorio. Entro questo inquieto teatro di ombre che attraversano la mente, l’opera dischiude una pausa, così luminosa e stupefacente, quanto arcana. La circolarità del sistema linguistico concepito e attuato da Paolini allude a una qualità temporale non meno conclusa che, come nell’opera di De Chirico, diviene sospensione pneumatica ed estetica, sfera autonoma, hortus clausus.

Sempre in quegli anni si definiscono anche le proposizioni di tutti gli altri protagonisti, da Kounellis a Pascali, da Pistoletto a Merz, da Boetti a Fabro, da Anselmo a Zorio.

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L’ambiente culturale torinese era stato propizio non solo alla rivelazione di talenti come Paolini e Pistoletto, ma anche di altri artisti che in quella città maturano la propria identità.

Fra questi, Mario Merz, che aveva già offerto esempi efficaci di pittura “a-formale” negli anni Cinquanta, perviene a una nuova formulazione del suo lavoro, mediante un ciclo di opere definite “strutture aggettanti” (1964-65), la cui caratteristica è l’estensione della bidimensionalità pittorica verso lo spazio ambientale. A partire da quelle “strutture”, Merz troverà, nel biennio successivo (1965-67), la libertà di realizzare un’importante serie di lavori che, assumendo l’aspetto di opere plastiche costituite da “insiemi” a base oggettuale, si affrancano da quest’ultima attribuzione, grazie all’impiego di neon che “velocizzano” e cancellano ogni funzione e inerzia congenita all’oggetto.

Le conseguenze delle implicazioni che queste opere comportano, in quanto “gruppi di senso” (Celant), costituiscono la base dell’azione successiva di Merz e il suo iniziale contributo alla formazione del movimento dell’Arte Povera. Esse recano, perciò, direttamente alle invenzioni degli “Igloo” (1967), delle “Proliferazioni Fibonacci” (1969-70), dei “Tavoli” (1973) e a rinnovate concezioni della forma pittorica (dalla seconda metà degli anni Settanta in poi).

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Nel 1960 esordisce anche il lavoro di Jannis Kounellis che, a partire dal 1956, giunto dalla Grecia, ha scelto di vivere e lavorare a Roma, dedicandosi alla nuova dimensione di una pittura che da premesse di rapporto spaziale con la parete si distacca successivamente per attuarsi con mezzi e modalità diversi, nell’ambiente, con la chiara volontà di “uscire dal quadro”. L’opera di Kounellis non prescinde da quel traguardo che assicura alla lingua visiva la sua dignità. Sin dalle prime tele degli anni 1959-60, montate direttamente sulla parete e dipinte con impronte di smalti neri raffiguranti cifre, lettere e frecce, il processo di formalizzazione nell’opera di Kounellis assume un valore centrale.

Ma ben presto, nell’elaborazione del proprio lessico e con modi autonomi, Kounellis giunge a metà di quello storico decennio degli anni Sessanta, alla chiara determinazione di portare nel libero spazio le intuizioni degli esordi.

Nel 1967 realizza una serie importante di opere in cui l’abbandono e l’“uscita dal quadro” si rendono espliciti, adottando quali supporti spaziali il pavimento, le pareti e, tra i materiali, alcune nature vive.

Così dal Senza Titolo (carboniera) (1967) al Senza Titolo (pappagallo) (1967), al Senza Titolo (campi) (1967), al Senza Titolo (cotoniera) (1967), al Senza Titolo (fuochi) (1969), alimenta una tensione poetica fino all’episodio dei “Cavalli” (1969) che suscita reazioni emotive e polemiche per l’evidente abnormità dell’associazione ideativa e l’implicazione spaziale.

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KOUNELLIS - Cavalli - 1969

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Ma Kounellis, che ormai ha coniugato la propria opera a quella di altri suoi coetanei, tra cui Pascali, e alla compagine degli artisti poveristi in fase di aggregazione, non interrompe più quel processo di costruzione linguistica in cui tuttora è impegnato con un crescendo di rapidità nelle attuazioni che ha assunto valenze drammatiche, dimensioni a volte titaniche e spesso soluzioni audaci. Affrontare direttamente i luoghi-teatro della sua azione, senza alcuna progettualità, ma solo a partire dai dati della propria costante elaborazione, sembra essere diventata la condizione nuova della sua pulsione operativa, non senza un sentimento di rischio in ogni episodio.

Aderente alle proprie radici mediterranee antropologicamente pervase dall’apparizione dei miti delle culture egizie, greche e romane, Pino Pascali è giunto a Roma dalla Puglia per studiare all’Accademia di Belle Arti, iscrivendosi alla scuola del pittore Toti Scialoja. Insieme a Kounellis, compagno di corso e di lavoro, è presto attento alla sensibilità materica del vivente. Dopo le prime esperienze di carattere neodada compiute tra il ’59 e il ’64, di cui si ricordano i lavori Pinguino (1959), l’Angelo vigile (1959), e l’Araba Fenice (1960), diversamente da Kounellis egli rivolge il suo epos immaginario all’acqua, alla terra, ma anche agli animali e al mondo ludico dell’infanzia, che aveva avuto in Savinio un precursore e nei critici Maurizio Calvesi, Giorgio De Marchis, Alberto Boatto, Cesare Vivaldi e Vittorio Rubiu, attenti lettori critici sulla scena artistica romana.

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Il breve arco di anni di attività di Pascali dunque considera i cicli di opere dei “Quadri Oggetti” (1964), le “Armi” (1965), le “Finte Sculture” (1966).

Accanto a numerosi e originali aspetti che distinguono queste opere dagli “Oggetti in meno” di Pistoletto o altre di Kounellis, si può affermare che Pascali ha costruito con centine in legno e tela o altri materiali come lana d’acciaio, tessuti spugnosi, foglie, alluminio zincato, pelo acrilico, residuati meccanici e altro, forme inscritte in una spazialità che può essere definita barocca o più precisamente barocco-paleopoverista.

Suggerire una tale appartenenza deriva precisamente dalla costruzione delle “Finte sculture” stesse, che sono portate a far mostra di un corpo senza che esso sia realmente tale, in termini di consistenza. Perfino il Metro cubo di terra al suo interno è vuoto. In effetti, le finte sculture non mancano di rievocare le macchine sceniche del teatro barocco italiano, in particolare quello romano del Seicento, macchine note per la loro forza allegorica e la loro natura effimera.

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PASCALI - Bachi da setola

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PASCALI – Grande Mare PASCALI – Mare e Cielo

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PASCALI - Trappola

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Sin dall’inizio degli anni Sessanta si erano affacciati sulla scena milanese anche artisti come Luciano Fabro e critici come Carla Lonzi e Tommaso Trini. Seppur attivo dal 1963, marcando la sua prima uscita pubblica con una mostra personale alla galleria Vismara nel 1965, in realtà Fabro orienta assai presto la sua ricerca verso la qualificazione spaziale e ambientale, con l’intento di sviluppare le più avanzate concezioni ed esperienze fornite da Lucio Fontana e da Piero Manzoni in quella Milano dove egli stesso, provenendo dal Friuli, era approdato in gioventù. Così, dopo le prime formulazioni di “misurazione” sensibile e denotativa della spazialità, il suo lavoro si orienta decisamente in senso fenomenologico, cercando con l’opera esiti ontologici ed esperienze che lo mettano in grado di riappropriarsi di “regole” artistiche che guidino la futura azione. Dal Raccordo anulare (1963) a In cubo (1966), dall’Italia d’oro (1968) ai “Piedi” (1968-71), dagli “Attaccapanni” (1976) agli “Habitat” (1980), sino alle più recenti creazioni dei “Computers” (anni Novanta) e alle recenti sculture, la speculazione di Fabro segna uno degli orizzonti più qualificati e nevralgici nella ridefinizione dell’evento plastico perfino a fronte di eventi traumatici e distruttivi della realtà fisica (come Chernobyl, 26 aprile 1986), che hanno minacciato radicalmente l’idea di integrità della forma.

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Dopo Chernobyl, Fabro elabora opere che risentono dell’entrata in crisi della forma. Tra essa Prometeo, 1986, che “mette in visione” una caduta. Successivamente, C’est la vie, 1986, ma anche Efeso, 1986, l’Infinito, 1989 provocano sentimenti di smarrimento e domande enigmatiche per la loro indeterminatezza. Negli ultimi anni, prima della sua improvvisa scomparsa, nel 2007, intensifica accanto al lavoro un’attività teorica e maieutica. Il ruolo di Fabro nella compagine poverista, sia per quanto riguarda il rinnovamento della concezione di forma e di spazio, nonché dell’idea di habitat secondo i criteri albertiani della ratio civitatis, sia per quanto riguarda la considerazione dei materiali e lo sviluppo della produzione teorica sulla cultura del lavoro artistico, è di portata considerevole e particolarmente incisivo.

Dell’opera di Alighiero Boetti, mancato prematuramente nel 1994, si può affermare che essa appare come un’incessante ricerca di incontro con le realtà del mondo, disponendosi con una vivace e poetica attenzione alle più sorprendenti scoperte. Autore di importanti opere che sin dal 1966 hanno determinato aspetti inconfondibili dell’Arte Povera, Boetti ha predicato e raggiunto le “felici coincidenze” attraverso le quali, con atteggiamento ludico, ma non meno conoscitivo, scoprire il mondo circostante o quello che dalla sua opera veniva rivelato.

A partire dall’uso di materiali industriali di pronto impiego (dal cartone ondulato, al cemento eternit, al tessuto stampato e altro), Boetti tra il 1966 e il 1967, anno della sua prima mostra personale presso la Galleria Christian Stein di Torino, si applica alla presentazione materiale di concetti e idee, prima tra tutte “il superamento delle antinomie” che sembra alla base di ogni realtà e di ogni logica.

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BOETTI - Ordine e disordine - 1973

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Il tempo, l’identità, i gradi della percezione, l’alterità, l’ordine e il disordine, la complessità del numero, il valore della parola, la codificazione cifrata e altre problematiche divengono i territori della sua ricerca. La sua pionieristica frequentazione dell’Oriente e di alcune regioni di esso, come l’Afghanistan, oggi al centro delle tragiche vicende di guerra e terrorismo, lo impone all’attenzione dei giovani artisti, sui quali ha esercitato più influenza di qualsiasi altro protagonista dell’Arte Povera.

Da quei viaggi sono nati le “Mappe” (1971) e i ricami di “Ordine e Disordine” (1973), “Tutto” (1987) e i “Lavori Postali” (1972) dall’Afghanistan. Proprio in questi giorni, la fortuna critica dell’opera di Boetti cresce con intensità analoga alla crescita di attenzione verso Kabul e quei territori che sono diventati la seconda patria di Boetti.

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Anche per Gilberto Zorio l’attività artistica ha inizio nei primi anni Sessanta. Essa si rivela immediatamente come indagine costante della materia interrogata a partire dalle proprie qualità e sollecitata dall’azione catalizzatrice dell’artista che ne mette in vibrazione ogni molecola.

Il procedimento è quello della trasmissione di energia dall’autore alla materia apparentemente inerte. Gli stati d’animo, non meno delle energie fisiche, entrano nel gioco della trasmutazione che reca all’opus. Zorio è attento ai modi con cui si dispone la materia quando egli la sollecita a una reazione. Osserva i suoi depositi, le sue accumulazioni, le sue inerzie e gravità, le sue tensioni, le sue consumazioni, la durata e l’estinzione della sua presenza per rinvenire, a ridosso di ciascuno stato di essa, una conoscenza appropriata che ne controlli con forza e grazia le possibili manifestazioni vitali.

Dall’Asse spezzato (1966) al Letto (1966), alla Tenda (1967), ai Piombi (1968), all’Odio (1968), alla Macchia (1968) ogni opera si rivela intrisa di un’immediatezza e di una libertà sorprendenti. Tutta la sua capacità tecnica è al servizio di un’energia poetica che sgrava ogni peso di cui pur la materia e le sue costruzioni aeree sono portatrici. Nel 1971 l’incontro con il suo Pugno fosforescente alla Biennale di Parigi produce in chi scrive un’autentica emozione per il lampo con cui l’opera di Zorio si congiunge con quella di Boccioni, senza sforzo e senza artificio, quasi naturalmente.

L’impiego della resistenza elettrica o del laser, di forme come la canoa o la stella, del giavellotto o dell’alambicco, che attraversano lo spazio, lo configura come poche altre forme negli ultimi trent’anni; i suoi crogioli, le sue pelli, non meno del sibilo delle sue sirene, comunicano una grande pazienza d’artefice e una grande impazienza da rivoluzionario della forma.

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Facendo uso di alluminio o filo di nylon, di tondini di ferro o filo di rame, di paraffina, o carta da spolvero, di un foglio di carta, una tela e una matita o di argilla e cera, ma anche di acqua o vetro e altro come l’oro, per Marisa Merz l’obiettivo sembra quello di riuscire a far dimenticare con cosa lei suscita la grazia, o lo stupore, il senso del dono e quello prezioso della cura posta nel lavoro.

Il quale alla fine deve anch’esso ritrarsi perché finalmente, quando riuscito, appaia allo sguardo di chi lo incontra come indiscutibile presenza interrogativa. Ma nelle forme elaborate Marisa Merz dimostra le industrie più antiche e tanto la geometria quanto l’organico; e inoltre si coglie la naturale esperienza, l’impiego del tempo lungo, non alienato, liberato, autonomo.

Marisa Merz lascia trapelare le affinità tra gesti e facoltà, dimostrando che si può disegnare con la grafite, ma anche con i ferri per creare la maglia; che non c’è gerarchia né distinzione di qualsiasi genere nell’atto artistico. A lei si deve una valenza di attenzione nel processo significativo che si rende palpabile e non sottinteso. La collaborazione estesa al lavoro di Mario Merz è anch’essa un dato antropologico sensibile che ha fatto la differenza nell’Arte Povera e non sembra elemento trascurabile, dunque è qualità del suo linguaggio.

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Alle forze presenti, dentro e fuori di noi, alle energie in atto o trattenute nelle cose, all’instabilità più prossima o a quella più distante, all’elementare o complessa partecipazione del nostro corpo e della nostra mente all’esistente e presente o al sensibile ma assente, al visibile come all’invisibile, al finito come all’infinito, Giovanni Anselmo dal 1965 orienta la sua nuova azione.

La coscienza raggiunta in quegli anni, il sentire, l’avere motivazioni e l’agire entro una complessità di flussi, di energie e forze che circondano ogni propria manifestazione vitale, a partire dalla stessa energia del pensiero, induce Anselmo a un affinamento dell’attenzione verso quell’instabilità permanente che tutti avvolge e conseguentemente ad atti di verifica di quelle entità con cui interagiamo con la percezione e la sensibilità del nostro corpo e della nostra mente.

Ciò spiega in modo eloquente il perché, nell’indicazione dei materiali impiegati in alcune delle sue prime realizzazioni Senza Titolo (1965) e Senza Titolo (1966), rispettivamente costituiti da un sottile tondino di ferro con antiruggine il primo e di un simile tondino in ferro teso in verticale su una base di legno il secondo, vi sia anche indicata la “forza di gravità”. Invisibile ma esistente, quanto quella sua ombra del 1965 proiettata dai primi raggi del sole dalla cima dello Stromboli verso l’infinito, la forza di gravità come anche la forza di coesione delle molecole del ferro è opportunamente considerata da Anselmo quale concausa presente e attiva di quelle elevazioni metalliche nello spazio.

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ANSELMO – Torsione - 1968 ANSELMO – Senza Titolo - 1990

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Si fa viva nell’artista la convinzione obiettiva che nella realtà una grande quantità di processi giunga alla percezione umana e che attraverso la sua stessa catalizzazione continui e, oltrepassando l’uomo, raggiunga ogni latitudine visibile e invisibile del cosmo.

Con il volgere delle esperienze, si evidenzia che nella ricerca di Anselmo si incrociano gli antichi quesiti del pensiero presocratico, parmenideo ed eleatico, insieme a una coscienza relativistica dell’attualità e a un’attenzione e presenza fenomenologica alla realtà. In senso più vasto, quello di Anselmo è un ritorno alle cose in quanto manifestazioni della realtà nella coscienza.

“Io, il mondo, le cose, la vita — dichiara Anselmo in quegli anni — siamo delle situazioni d’energia e il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni, bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere”.

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ANSELMO

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Una sensibile quantità di ragioni poetiche matura in Pier Paolo Calzolari al suo ritorno a Bologna dopo un’infanzia trascorsa a Venezia. Nel corso degli anni 1965-67, segnati da due mostre personali presso lo studio Bentivoglio, Calzolari ha tempo di formarsi e strutturare il proprio piano-base di carattere artistico estetico e letterario che può, in sintesi, essere considerato quello di una fluidità artistica consistente in una processualità psicodinamica con implicazioni fisiche — gli “atti di passione”, così definiti da Calzolari stesso — che sono cosa diversa dall’azione scenica spettacolare o retorica.

Con tali presupposti aderisce all’Arte Povera nel 1968. Egli è incline a una necessità liberatoria della pittura e di se stesso secondo un’orizzontalità di incontro con le cose al fine di realizzare un’opera o altre attuazioni in un movimento ininterrotto “con la stessa metodologia con cui esco, prendo il giornale, entro in una chiesa gotica, incontro un cane, saluto qualcuno”. La riflessione sull’impiego del movimento introdotto nella concezione plastica, non come espediente cinetico, ma come addizione corporea che mette in azione ed esibisce psicoforze riconducibili al fenomeno percettivo-visivo è un dato precoce nella base linguistica di Calzolari.

Egli introduce nel lessico poverista il sensuale, l’emozionale, l’organico per traslare dalla forma un’idea sublimata di essa. Inventa le strutture ghiaccianti per una qualità del bianco altrimenti non esistente; lavora con lo stagno, il piombo, il rame, i vegetali (tabacco, trifoglio, petali di rose, muschio), la luce elettrica, il neon, il sale, il burro e altri materiali che, impiegati nell’opera, risarciscono il suo desiderio di saturazione verso qualità impalpabili, invisibili.

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CALZOLARI

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Originalissima e innovativa per indirizzo, l’azione di Giuseppe Penone, tra le altre cifre plastiche poveriste, dischiude un’incessante indagine osservativa, e non solo, della Natura e perciò della Materia in tutte le sue forme vegetali, minerali e animali, come “fornitrici” di qualità e quantità da elaborare con “modi” suggeriti, ricavati e conquistati, come veri e propri “segreti”, al fine di ricavarne regole e leggi-guida nella creazione delle forme. Principi tattili, normatività regolatrici di funzioni, processi, esiti di catene biologiche e fisiche e altre induzioni provenienti da un’esperienza diretta compiuta nell’elaborazione assidua della materia sono osservati da Penone, per rivelare antiche e nuove proprietà esistenti in natura di cui impossessarsi e impiegare nella creazione della scultura. Egli è il più giovane esponente dell’Arte Povera e vi aderisce a partire dal 1968 con un primo ciclo di opere, intervenendo direttamente su alberi di un territorio a lui familiare nei boschi di Garessio, assai prossimi al luogo in cui l’artista è nato e vissuto a lungo. Le azioni rivolte a lasciare una traccia nella crescita dei vegetali considerati sono da lui documentate in una serie d’immagini fotografiche dal titolo “Alpi marittime”.

Lavora con le pietre e gli alberi, ma anche col tatto e una manualità rabdomantica che gli fa percepire ciò a cui dedica azioni e riflessioni. Celebri sono le sue sculture “Alberi”, 1969, l’opera Rovesciare i propri occhi, 1970, Svolgere la propria pelle, 1970, Palpebre, 1978, i “Soffi”, 1978 e i “Grandi gesti vegetali” (1983-84) e numerose altre.

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Di tale articolato fermento, e soprattutto della sensibile varietà di formalizzazione che distingue un artista dall’altro, si fa carico colui che più di ogni altro nel tempo e con maggiore assiduità nel seguire, coordinare criticamente gli sviluppi, favorire gli scambi, ne promuove le circostanze: Germano Celant. Il giovane critico genovese, già vicino allo storico Eugenio Battisti, conia la nomenclatura “Arte Povera”, pur mutuandola dal “Teatro Povero” di Grotowski, ma ne arrischia anche le motivazioni critico-ideologiche con alcuni testi ormai passati agli atti come storici, nonostante talune vistose obiezioni portate a essi da alcuni studiosi. Un vasto e complesso dibattito segna non solo le tappe dei percorsi espositivi del movimento — numerosissimi in Italia e all’estero, talvolta anche di considerevole respiro, di cui sarebbe lungo elencare la bibliografia — ma ne mette altresì in risalto le contraddizioni, le incoerenze e alcune divergenze all’interno del “non gruppo”.

Attraverso insofferenze intestine, preoccupazioni per le tattiche e strategie intraprese dal suo “portavoce-critico” in continua oscillazione tra gli USA e l’Italia (soprattutto nei confronti dell’arte concettuale e minimal americana verso cui questi è ugualmente proteso e afflitto dalla litigiosità dei pochi galleristi che nei primi anni del fenomeno non riescono a imporre e affermare sui mercati internazionali il lavoro di questi artisti), e nonostante tutto ciò, l’Arte Povera riscuote lentamente un credito internazionale che coniuga questa esperienza con i più importanti sviluppi dell’arte dal Futurismo alla Metafisica con il resto dell’arte a livello mondiale.

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Permangono vistosamente aperti alcuni problemi che riguardano la gestione etica e la portata estetica dell’Arte Povera, messi in evidenza sin dalle prime uscite pubbliche collettive come la mostra “Arte Povera e Im-Spazio” (ottobre 1967), presso la Galleria La Bertesca di Genova, l’articolo “Appunti per una guerriglia” di Germano Celant apparso su Flash Art alla fine del 1967, la mostra presso la Galleria De’ Foscherari di Bologna (febbraio 1968) e il successivo sintomatico dibattito dal titolo “La povertà dell’arte” (settembre 1968), nonché la manifestazione “Arte Povera + Azioni Povere” dell’ottobre 1968, organizzata ad Amalfi da Marcello Rumma. Tra i nodi che da ciascuno di quegli episodi emergono, risaltano soprattutto le questioni di fondo del “poverismo”: anzitutto la sua proteiforme identità; da essa le tensioni nord-sud (Torino-Roma); poi l’opposizione dialettica all’Arte Minimal e Concettuale.

Qualcuno sostiene perfino che questa sia, tra le altre, una delle cause della nascita dell’Arte Povera, ma non è così; poiché i suoi protagonisti non sono singolarmente mossi da esigenze di “reazione” e la loro spinta ad agire, sensibilmente condivisa, è notoriamente affermativa di un’autentica volontà di vita nuova. Inoltre, vi è il problema dell’effettivo “organico” del movimento poverista che ha avuto nelle sue fila, in alterne fasi, l’adesione partecipe, ma anche l’allontanamento, di artisti di valore: da Piero Gilardi a Emilio Prini, da Gianni Piacentino a Paolo Icaro, da Mario Ceroli a calibri come Eliseo Mattiacci e Giuseppe Uncini, i quali avrebbero potuto benissimo far parte dell’Arte Povera per più qualità, ma evidentemente fecero o furono indotti a fare altre scelte. Infine, il rischio più frequente che l’Arte Povera corre risiede proprio nelle letture fuorvianti o limitanti delle quali spesso si sono resi responsabili illustri curators e musei di rango, come nell’ultimo caso di “Zero to Infinity”, osservato prima alla Tate Gallery di Londra (2001), poi a Minneapolis, Los Angeles (2002) e Washington (2003).

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CEROLI - La grande Cina - 1968