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I L C O N C I L I O D I N I C E A 19 giugno – 25 agosto 325 1. IL SIMBOLO DI NICEA Il Concilio si apre per affrontare il problema principale della crisi ariana. Avanzata una prima formula di fede che venne subito rifiutata, Eusebio di Cesarea propose il simbolo di fede professato dalla sua Chiesa e usato per ammettere al Battesimo. Il simbolo fu approvato come ortodosso, ma allo scopo di eliminare qualsiasi equivoco in senso ariano, si vollero inserire in esso alcune precisazioni che prendessero di mira l’arianesimo e chiudessero ogni possibilità di frantendimento. Dal confronto tra Simbolo Cesariense (=C) e simbolo Niceno (=N) emergono le seguenti precisazioni aggiunte: - Figlio di Dio tòn hyiòn tou theou * della stessa sostanza del Padre ek tes ousías tou patrós * Dio vero da Dio vero theòn alethinòn ek theou alethinou * generato, non creato gennethénta ou poiethénta * consustanziale al Padre homooúsion to patrí - per noi uomini di’ hemas toùs anthrópous - è disceso kathelthónta - si è fatto uomo enanthropésanta

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I L C O N C I L I O D I N I C E A 19 giugno – 25 agosto 325

1. IL SIMBOLO DI NICEA

Il Concilio si apre per affrontare il problema principale della crisi ariana. Avanzata una prima formula di fede che venne subito rifiutata, Eusebio di Cesarea propose il simbolo di fede professato dalla sua Chiesa e usato per ammettere al Battesimo.

Il simbolo fu approvato come ortodosso, ma allo scopo di eliminare qualsiasi equivoco in senso ariano, si vollero inserire in esso alcune precisazioni che prendessero di mira l’arianesimo e chiudessero ogni possibilità di frantendimento.

Dal confronto tra Simbolo Cesariense (=C) e simbolo Niceno (=N) emergono le seguenti precisazioni aggiunte:

- Figlio di Dio tòn hyiòn tou theou* della stessa sostanza del Padre ek tes ousías tou patrós* Dio vero da Dio vero theòn alethinòn ek theou alethinou* generato, non creato gennethénta ou poiethénta* consustanziale al Padre homooúsion to patrí- per noi uomini di’ hemas toùs anthrópous- è disceso kathelthónta- si è fatto uomo enanthropésanta

Mancano nel N le seguenti espressioni che invece sono presenti nel C.

- vita da vita- Verbo di Dio- primogenito di tutta la creazione- [generato] dal Padre prima di tutti i secoli

Lasciando al seguito il commento dell’articolo cristologico del simbolo, è necessario ora richiamare il problema dell’origine del simbolo.

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2. ORIGINE DEI SIMBOLI DI FEDE 1

La presentazione da parte di Eusebio di Cesarea del simbolo della sua Chiesa locale rivela che la funzione di questa homologia ha carattere tradizionale e in particolare battesimale2. E’ noto che la liturgia battesimale include come parte integrante la professione di fede.

Ciò è in linea con la tradizione evangelica, che prevede l’homologia come requisito per il battesimo (cfr Mc 16,6; At (,37; Mt 28,19)3

In questa direzione si trova anche la Traditio Apostolica (cfr n. 21)4, che costituisce una attestazione fondamentale dell’uso battesimale del Sinbolo.

La professione battesimale appare fin dall’inizio in una duplice forma:– nella forma «interrogativa» a cui segue la risposta del battezzando: è la formula

dialogica attestata emblematicamente nella Traditio apostolica;– nella forma di un testo recitato dal candidato prima del battesimo: è la formula

«dichiarativa», di cui abbiamo un esempio nel Simbolo di Cesarea e nel Simbolo Apostolico.

Il «contenuto» del Simbolo è trinitario, a partire dalla formula che si trova in Mt 28,19: questa viene svolta mediante l’ampliamento dell’articolo cristologico su cui si innesta uno sviluppo più ampio del ciclo cristologico. Ora è noto che già a livello del Kerygma il rapporto tra concentrazione cristologica e implicazione trinitaria è vario e diversamente attestato. In ogni caso, l’ampliamento cristologico nei simboli avviene in modo differente:

– il ciclo cristologico viene aggiunto al terzo articolo riguardante lo Spirito Santo e il collegamento avviene per mezzo dello Spirito che ha predetto per mezzo dei profeti la vicenda di Cristo ed è all’opera in essa. Interessante il testo presente in Ireneo5;

1 Cfr l’opera classica di F. KATTENBUSCH, Das apostolische Symbol, I (1894) e II (1900), ristampa Darmstadt 1962; J. LEBRETON, Les origines du symbole baptismal, RSR 20 (1930) 97-124; J.N.D. KELLY, Early Christian Creeds, London 1950; ID, Apostolisches Glaubenserkenntnis, LThK, I, 760ss;

2 «Secondo quanto abbiamo ricevuto dai vescovi che ci hanno preceduto e nella prima catechesi e quando abbiamo ricevuto il battesimo e secondo quanto abbiamo imparato nelle divine Scritture, come abbiamo creduto e insegnato mentre eravamo nell’ordine presbiterale ed episcopale, così credendo anche ora vi proponiamo la nostra fede»: EUSEBII PAMPHILI, Epistola I ad Caesarienses, PG 20,1537.

3 Cfr G. BARTH, Il battesimo in epoca protocristiana, Brescia 1987 (or 1981).4 «Quando colui che deve essere battezzato discende nell’acqua, colui che lo battezza gli imponga la mano

chiedendo:

– Credi in Dio Padre onnipotente? -

Colui che viene battezzato risponda: - Credo -.

Lo battezzi allora una volta tenendogli la mano sul capo. Poi chieda:

– Credi in Gesù Cristo, Figlio di Dio che è nato per mezzo dello Spirito Santo dalla Vergine Maria, è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato, è morto ed è risorto il terzo giorno dai morti, è salito al cielo e siede alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti? -

Quando colui che è battezzato avrà risposto: - Credo - , lo battezzi una seconda volta. Poi ancora chieda:

– Credi nello Spirito Santo e nella santa Chiesa e nella risurrezione della carne? -.

Il Battezzato risponda: - Credo -. Così sia battezzato per la terza volta.5 Cfr Adversus Haereses I, 10,1: PG 7, 549:

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– il ciclo cristologico viene inserito nel secondo articolo, cioè nella professione di fede di Gesù Figlio di Dio: è il caso della formula interrogativa di Ippolito, del simbolo Apostolico e dei simboli posteriori. Tra di questi si colloca anche il simbolo di C.

3. IL SIMBOLO NICENO-COSTANTINOPOLITANO (=NC)6

Il simbolo di N è elaborato, pertanto, sulla base del simbolo C e diventa a sua volta fonte principale del simbolo NC, in cui viene quasi integralmente inglobato (di qui il nome di NC).

Tuttavia il NC non è composto solo da N, che a sua volta riprende C, ma assume quasi integralmente il Simbolo Apostolico (=A)7, di origine romana, di grande importanza nelle Chiese di Occidente e assai diffuso tra di esse.

Inoltre nel simbolo entrano anche elementi del simbolo della Chiesa di Gerusalemme (=G).

Infine, il simbolo NC contiene elementi propri che riguardano lo Spirito Santo, che costituiscono la presa di posizione propria del Concilio di Costantinopoli (381)

La sinossi dei testi della pagina 5, con gli opportuni accorgimenti grafici, rende bene l’idea della composizione multipla del simbolo NC.

Nella scheda distribuita in classe si può trovare poi una legenda per i confronti tra i testi che entrano a formare l’attuale stesura del NC.

«La Chiesa benchè sparsa in tutto l’universo sino ai confini della terra ha ricevuto dagli apostoli e dai loro discepoli la fede:

– in un solo Dio Padre onnipotente che ha fatto il cielo e la terra, i mari e tutto ciò che vi è in essi;

– in un solo Gesù Cristo il Figlio di Dio che si è incarnato per la nostra salvezza;

– e in uno Spirito Santo che per mezzo dei profeti ha annunciato le economie e gli avvenimenti e la nascita verginale e la passione e la risurrezione dei morti e l’ascensione corporale nei cieli dell’amato Cristo Gesù nostro Signore e la sua parusia quando dai cieli apparirà alla destra del Padre per restaurare tutto e risuscitare ogni carne di tutta l’umanità affinchè davanti al Cristo Gesù nostro Signore, Dio, Salvatore e Re, secondo la compiacenza del Padre invisibile ogni ginocchio si pieghi in cielo sulla terra e negli inferi e ogni lingua lo confessi ed egli compia un giusto giudizio di tutti»

6 Cfr G.L. DOSSETTI, Il simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Edizione critica, Roma Freiburg, ecc 1967.7 Oltre alla bibliografia di nota 1, cfr anche W. TRILLHAAS, Das apostolische Glaubenserkenntnis.

Geschichte, Text, Auslegung, Witten 1953.

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4. IL CICLO CRISTOLOGICO

DEL SIMBOLO NICENO

Il ciclo cristologico del N si divide in due parti:– l. 3-7 che riguardano la persona di Gesù, la sua eternità, la sua divinità, la

generazione eterna dal Padre, la sua attività creatrice;– l. 8-15 che riguardano la vicenda storica del Signore, l’incarnazione, la nascita

temporale da Maria, la passione, morte e risurrezione, la signoria gloriosa con Dio, la parusia finale e la perennità del suo regno.

Tuttavia il soggetto dei due momenti è un solo Signore Gesù Cristo, di cui si predica prima la divina origine e poi l’umana vicenda. Avviene quindi un alternarsi di eternità e di storicità:

– il simbolo inizia considerando Dio Padre nell’eternità;– poi, usando il termine «Gesù Cristo» porta l’attenzione sulla figura storica di

Gesù;– in seguito, con le parole «Figlio Unigenito» e le aggiunte di Nicea ci fa risalire

all’eternità e alla preesistenza del Verbo;– infine, con la professione soteriologica ritorna ancora alla storia svolgendo il

ciclo cristologico.

Appare così evidente l’intreccio tra teologia ed economia, tipico della fede patristica, anche se si nota, con la professione di fede nicena, l’ingresso della Logos-theologie e la forte presenza della dimensione «discendente».

Vediamo ora le inserzioni di Nicea in rapporto all’aranesimo.

a / l a p o s i z i o n e d i A r i o

La posizione ariana, al di qua dei problemi interpretativi (cfr MOIOLI, Mom. storico, 149-154), può essere ricollegata a due principi:

– l’unico ingenerato (agénnetos) è Dio Padre, anteriore al Verbo, perchè altrimenti vi sarebbero due principi; ciò minerebbe l’unità divina e la sua trascendenza;

– una generazione in senso stretto, comporterebbe una mutamento in Dio, perchè la generazione comporta di per sè la comunicazione di realtà che appartengono alla natura. Se Dio generasse dovrebbe trasmettere la sua sostanza, sarebbe divisibile e soggetto a cambiamento. Perciò il Figlio non è generato secondo natura, ma per grazia di adozione. Ciò che esiste al di fuori di Dio Padre è frutto della sua attività creatrice.

Da questi due principi derivano le seguenti conseguenze:– Il Verbo di Dio è «creatura», prodotto per creazione della libera volontà del

Padre. La parola «generare» significa «fare», «creare» in senso figurato.– Il Figlio, in quanto creatura del Padre, proviene dall’essenza di Dio, non

partecipa della sua natura.

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– In quanto creatura, il Verbo Figlio ha avuto un principio, non è eterno come il Padre. E’ nato prima del tempo, perchè creatura perfettissima. Ma non è eterno, perchè ciò significherebbe ammettere due principi ingenerati.

– In quanto creatura il Verbo è soggetto al cambiamento, è mutevole sia fisicamente che moralmente.

Ario, nondimeno, sostiene l’eccezionalità esemplare di Gesù, come creatura, in rapporto alle altre realtà create.

b / l’ i n s e g n a m e n t o d i N i c e a

Come si è detto dianzi il Concilio di N accetta la formula di fede di Cesarea, ma inserendovi alcune espressioni che affermino con chiarezza la natura divina di Gesù. Delle otto inserzioni sopra ricordate quattro sono le espressioni decisive (segnate con *): ma tra di esse la prima e l’ultima sono ripetitive. Si tratta quindi di tre termini:

– della stessa sostanza (ousía) del Padreconsustanziale (homooúsion) al Padre

– Dio vero da Dio vero– generato, non creato.

1. Consustanziale (homooúsios). Il significato originario della parola «homooúsios» è quello di «fatto della stessa materia», ma da intendersi in senso qualitativo, cioè specie di materia. Usato nel II secolo dagli gnostici per indicare l’appartenenza comune a una della sostanze o essenze elementari, senza implicare formalmente nel suo concetto una unità numerica di sostanza dei soggetti detti «homooúsioi».

Nel terzo secolo il termine entra, con lo stesso senso, nella letteratura cristiana per opera di Clemente Alessandrino e Origene. Il termine comincia ad essere applicato al Figlio in relazione al Padre verso la metà del III secolo. S. Dionigi di Alessandria è accusato di non usare il termine, ma egli risponde che non è presente nella Scrittura e perciò ne sconsiglia l’uso, anche se ne accetta il contenuto.

Sull’altro fronte, ad Antiochia, in un Sinodo locale, il termine è condannato nell’uso fattone da Paolo di Samosata: non si hanno molte notizie, ma la spiegazione più convincente è che Paolo di Samosata intendesse il termine nel senso di omogeneità di sostanza materiale tra il Padre e il Figlio.

In questo senso lo intendevano anche gli ariani e perciò erano contrari ad attribuirlo al Figlio per designare il suo rapporto con il Padre. Inoltre, nella discussione conciliare, l’opposizione al termine era motivata dalla assenza del termine nella Sacra Scrittura.

Il concilio di NICEA lo applica al Figlio e lo fa diventare il punto di riferimento dell’ortodossia, il segno di contraddizione su cui si discuterà per mezzo secolo tra gli ortodossi e gli ariani.

Il senso del termine: indica la perfetta eguaglianza del Figlio al Padre nell’identità e unità di natura divina. La consustanzialità indica che la natura del Figlio è divina come quella del Padre e che il Figlio è ugualmente Dio come il Padre e che è eterno come il Padre, e che non è perciò creatura.

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L’intento del Concilio è anzitutto polemico-negativo: vuole cioè negare la negazione ariana. Da tutto il contesto appare che il suo senso è di dire che il Figlio va collocato dalla parte di Dio, dell’essere divino e non dell’essere creaturale.

Per interpretare bene i termini dogmatici: «consustanziale», «sostanza» (e poi «natura», «persona») occorre evitare:

– di interpretarli nel loro originario significato filosofico;– o nel successivo uso e approfondimento teologico, peraltro legittimoSi tratta di intenderli cioè nel loro valore magisteriale che è insieme negativo e

orientativo:– intendono affermare il valore contestato;– rimandando alla storia della salvezza biblica.I due aspetti esprimono rispettivamente:

– il primo: ciò che si afferma direttamente, e che qui avviene nella forma della contestazione della interpretazione eretica, ma poichè gli eretici davano una loro particolare interpretazione culturale, era necessario scendere sul terreno di questa interpretazione assumendone problematiche e vocabolario (ellenizzazione);

– il secondo: ciò in forza di cui si afferma, cioè mediante il rimando alla novità cristiana testimoniata dalla S. Scrittura, scartando le false interpretazione e riduzioni (deellenizzione).

Resta aperto il problema, che è teologico e non attiene direttamente all’interpretazione magisteriale, di pensare positivamente ciò che il Concilio ha inteso nella sua formulazione prevalentemente negativa. Si tratta cioè di produrre una ermeneutica del testo passando da ciò che il Concilio intendeva dire alla possibilità di una sua intelligenza critica.

Ora in questa direzione i percorsi possibili sono due:– una riflessione teologica all’interno della logica prodotta dalla terminologia e

dall’orizzonte di comprensione a cui inevitabilmente allude: è la stada percorsa dai Padri postniceni, Atanasio e i Cappadoci;

– una riflessione che collega ciò che il Concilio intendeva affermare con l’orizzonte complessivo della rivelazione e la mentalità che esso porta con sè: questa strada fu percorsa in modo piuttosto iniziale dai Padri postniceni, soprattutto mostrando il riferimento alla S. Scrittura della «omoousía» nicena, ma esige di essere fatta in modo più radicale pensando l’ontologia trinitaria e cristologica all’interno della economia della rivelazione e della sua modalità storica di espressione.

Nella prima linea si può ricordare la questione tipica del dibattito postniceno, ma a cui il Concilio non può aver dato risposta: la consustanzialità tra il Padre e il Figlio definita nel simbolo è una consustanzialità specifica o numerica?

– specifica significa l’essenza comune a più individui della stessa specie-natura (ad es. tra gli uomini la comune natura umana)

– numerica designa una realtà singola che è per identità il Padre e il Figlio insieme.Se, a nostro avviso, il Concilio non ha risposto direttamente a questo, né si può

evincere una risposta dal puro uso del termine, pare tuttavia di poter dire che, nel suo contesto, in particolare dal collegamento col primo articolo del credo «in un solo Dio», il dettato conciliare spinge a pensare ad una consustanzialità numerica. Le due affermazioni: l’unità e l’unicità di Dio e la consustanzialità (uguaglianza di essenza, natura e sostanza) tra il Padre e il Figlio implicano che l’essenza divina del Figlio e

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l’essenza divina del Padre, perfettamente eguale, è numericamente una e indivisibile nel Padre e nel Figlio: solo così è possibile pensare l’unità e l’unicità di Dio.

2. Dio vero da Dio vero. Si tratta della seconda inserzione di rilievo nel Simbolo. Se il simbolo C conteneva già l’espressione «Dio da Dio», tuttavia questa era interpretata da Ario con una spiegazione subordinazionista: il Figlio è Dio secondario, Dio per partecipazione e per grazia, che proviene e ha origine dal Padre, il quale solo è il vero e unico Dio.

Per togliere questa scappatoia il Concilio introduce l’aggettivo vero che qualifica il Figlio come Dio vero (e non secondario o per grazia), procedente da Dio vero che è il Padre; Dio, dunque, con la stessa intensità e dignità, unito a lui nella natura, conseguenza della generazione divina (cfr qui sotto 3).

Si cerca di chiudere la strada ad ogni scappatoia; appare qui chiaro il riferimento al NT dove Gesù è la verità di Dio.

3. Generato non creato. Con la terza espressione si vuole precisare in che senso Gesù è Unigenito. Ario accettava che Gesù fosse monogene, come afferma la Scrittura, ma lo interpretava nella linea di una generazione per effezione, per creazione. Il Verbo è creatura perfetta e superiore, ma frutto della volontà libera del Padre di collocarlo in essere; Ario negava la possibilità di una generazione che non fosse produzione di essere. La terminologia imprecisa e ambigua confondeva le cose:

– agénnetos significa «ingenerato»– agénetos significa non fatto, non creato.Ora, secondo il Concilio, il Padre è sia ingenerato, sia non fatto, non creato;mentre il Figlio non è ingenerato, ma è invece «non fatto, non creato».Ario, infatti deduceva dalla generazione del Figlio (gennetós), per scivolamento

linguistico, anche che egli fosse genetós, cioè fatto/creato, escludendo che egli fosse agénetos.

Ora, il Conclio di Nicea, con la sua affermazione opera una chiarificazione linguistica distinguendo il «generare» dal «creare». La generazione in sè non implica né effezione né creazione, e quindi sostituisce al termine genetós il termine poietós.

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N.B. Per la controversia cristologica che va sino al Concilio di Calcedonia (451) seguiamo il testo di B SESBOÜÉ, Gesù Cristo nella tradizione della chiesa, Cinisello Bals., Paoline, 107-131. 132-144.

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IL GRANDE DIBATTITO CRISTOLOGICOIL CONCILIO DI CALCEDONIA

1. DA NICEA (325) A CALCEDONIA (451) – ATTRAVERSO EFESO (431). LE DUE SCUOLE CRISTOLOGICHE.

La storia che va da Nicea a Calcedonia è la storia del grande dibattito cristologico. Messa al sicuro la fede nella divinità di Gesù, con l’affermazione del Concilio di Nicea (325) che Gesù è «della stessa sostanza» (homoousios) del Padre, uguale a Lui e unito a Lui nell’unica divinità, il Concilio di Costantinopoli (381) sviluppa il terzo articolo, affermando parimenti la divinità dello Spirito Santo, contro i pneumatomachi (coloro che combattevano la divinità dello Spirito), senza tuttavia usare la parola “consustanziale”, ma un’espressione simile, di intonazione più biblica («che è Signore e dà la vita»), per non riacutizzare le gravi difficoltà della crisi ariana che si era trascinata anche oltre Nicea e che solo la lotta e il successivo approfondimento teologico di Padri come Atanasio, Basilio, Gregorio di Nazianzo e di Nissa e Ambrogio avevano gradualmente appianato, non senza scossoni nelle comunità cristiane dell’ecumene cattolica.

Tuttavia un difensore di Nicea, Apollinare (vescovo di Laodicea, eletto nel 361 – morto prima del 392), introduce il problema cristologico. Da qui in avanti la questione non è più solo trinitaria (il rapporto tra Gesù e il Padre, nello Spirito), ma è cristologico, cioè come si compone in unità la divinità e l’umanità in Gesù. Il vescovo di Laodicea è un assertore della definizione di Nicea, che professa la «perfetta» divinità di Cristo. Da ciò il problema: «Che tipo di uomo è Gesù Cristo, se egli è il Verbo fatto uomo?». L’unità di due perfetti non può essere che una giustapposizione: si può salvare l’unità solo pensando il Verbo come il principio spirituale della carne di Cristo, che sostituisce l’anima razionale. Apollinare legge il rapporto Verbo-umanità secondo lo schema Logos-sarx [Verbo-carne], ma lo pensa secondo il paragone antropologico anima-corpo. Perciò alla carne umana di Cristo manca l’anima, o almeno il nous, che è sostituito dal Verbo. Così egli nega l’integrità dell’umanità di Cristo, e afferma con forza l’unità (unica natura) e la santità di Cristo. Il merito di Apollinare è quello di introdurre nel dibattito su Cristo i termini (fúsis [natura], hypóstasis [ipostasi], ousía [sostanza], prósopon [persona]), che in lui risultano praticamente equivalenti, ma che la successiva discussione cristologica del V secolo preciserà progressivamente.

La reazione cattolica stabilirà – contro Apollinare – che si deve affermare in Gesù una vera e integra umanità: il Verbo di Dio è unito alla carne umana mediante l’anima umana di Gesù. Da qui nasceranno due scuole, che saranno d’ora in avanti come le due anime della cristologia: la scuola alessandrina e la scuola antiochena. Senza contrapporre i fronti, le due scuole si possono descrivere nel seguente modo.

La scuola alessandrina rende ragione dell’unità del Signore Gesù partendo dalla missione del Verbo nell’incarnazione: ciò porta a sottolineare la realtà della dimensione divina di Cristo, senza un’esplicita attenzione alla completezza dell’umanità. Poiché è la persona del Verbo (e non una astratta natura divina) che è il

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principio della missione nell’economia della salvezza, si dirà che il Logos assume la carne umana, senza precisare ulteriormente la verità dell’uomo Gesù, la consistenza e integralità della sua umanità. L’umanità sembra essere quindi il «rivestimento» del Verbo, la manifestazione del suo agire; essa non esiste autonomamente, ma solo in quanto è animata dal Verbo, che costituisce pertanto il principio di unità in Gesù. La mentalità alessandrina quindi privilegia il punto di vista dell’unità nel quale distingue il movimento del Verbo che assume la carne umana (cf Atanasio e Cirillo di Alessandria).

La scuola antiochena, invece, parte dalla dimensione umana, che sembra sottaciuta e quasi compromessa dall’altra scuola, perché la diminuzione dell’umanità di Gesù pare compromettere anche la consustanzialità di Gesù al Padre, in quanto non sarebbe propriamente Gesù che è dalla parte di Dio. Di qui la sottolineatura dell’uomo Gesù, la sua completezza, l’affermazione dell’umano, e non solo della sua carne, la sua capacita di essere e diventare uno come noi: Gesù non è solo «carne», ma dotato di corpo e anima, centro cosciente in rapporto di unione (enosis) con la divinità del Verbo assumente. La mentalità antiochena privilegia il punto di vista della dualità e della perfezione delle nature e riconquista l’unità mettendo in relazione la libertà del Verbo con la libertà e l’agire dell’uomo Gesù (cf Teodoro di Mopsuestia, Gregorio di Nazianzio e di Nissa e lo stesso Ambrogio).

La due scuole rappresentano due accentuazioni che, se sono considerate complementari l’una con l’altra, sottolineano due aspetti irrinunciabili della cristologica ortodossa: quando, invece, sono poste in alternativa l’una all’altra generano due eresie che sono la radicalizzazione e l’esasperazione dell’anima di verità contenuta in ciascuna: l’eresia “nestoriana” (da Nestorio, che sottolinea così tanto l’umanità di Gesù da accostarla semplicemente alla divinità e da correre il rischio di pensare a due Figli); l’eresia “monofisita” (iniziata da Eutiche, ma sempre risorgente nella storia in forme diverse, che enfatizza così la divinità del Verbo da rendere l’umanità semplicemente una «livrea» della divinità, un «apparire» del Verbo). Queste polarità presenti nella cristologia dei Padri approderanno a due grandi crisi, entrambe nella prima metà del secolo quinto e che sfoceranno in due concili: di Efeso (431) e Calcedonia (451)

La prima crisi avviene nel 428 e prende le mosse con l’elezione di Nestorio, monaco e sacerdote di Antiochia, a Patriarca di Costantinopoli. Gli anni dal 428 al 433 saranno anni di profondo disagio nella vita della Chiesa in Oriente, perché la cristologia di Nestorio troverà il suo antagonista in Cirillo di Alessandria, lottatore generoso che però cavalcherà anche i contrasti tra le due prospettive. Quando Nestorio arriva a Costantinopoli trova la comunità divisa tra due anime: quella che professa che Maria è la madre di Dio (Theotokos) e quella che la vede come la Madre di Gesù (anthropotokos). Egli affermerà che la Vergine è Christotokos (madre del Cristo). Infatti, egli cerca di opporsi ad ogni confusione tra l’umano e il divino in Gesù: perciò non può accettare la formula degli alessandrini (unica è la natura, quella del Dio Verbo incarnata), e respinge la formula che Gesù è “da” (ek) due nature, e che dopo l’unione non di debba parlare che dell’unica natura (intesa dagli alessandrini come “realtà concreta”) del Verbo incarnato. Nestorio afferma che Cristo è un’unica persona (prosopon) “in” (en) due nature, che permangono distinte anche dopo l’unione: ma conserva l’ambiguità di nominare separatamente le due nature e di pensare l’unione

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come l’unità del “composto” che è il Cristo, in modo di rispettare l’assoluta trascendenza del Verbo e la consistenza dell’umano in Cristo. Resta non chiarito chi è il “soggetto” dell’unione in Gesù: se è il Verbo o semplicemente il risultato dell’unione del divino e dell’umano: di qui la sua preferenza per il titolo Christotokos (madre del Cristo) attribuito a Maria. Contro Nestorio reagisce Cirillo di Alessandria, il massimo rappresentante della cristologia alessandrina, affermando che è il Verbo il soggetto dell’unione e che dopo l’incarnazione non si devono più numerare le nature (anche se questo non comporta alcuna diminuzione dell’umanità); e gli idiomi (gli attributi e i titoli [dell’umanità e della divinità]) sono da attribuire non alle nature, ma al Verbo incarnato, alla realtà unica e unitaria del Signore. Per questo, lo stemma della sua posizione è il titolo di Theotokos attribuito alla Vergine.

La vicenda si svolse con un appassionato scambio di lettere tra Cirillo e Nestorio (I e II Lettera, con risposta interlocutoria di Nestorio) e poiché entrambi erano ricorsi al papa Celestino, questi condanna Nestorio in un sinodo romano (430 agosto), ma il Papa – purtroppo – incarica Cirillo di eseguire la deposizione. Approfittando del mandato papale nel novembre del ‘30 Cirillo scrive una III Lettera, a cui aggiunge 12 anatematismi, ingiungendo a Nestorio con un abuso di potere di sottoscrivere questa lettera e gli anatematismi. Questa lettera suscita le proteste dei Vescovi orientali (Antiochia), ma nel frattempo l’imperatore Teodosio convoca il Concilio ad Efeso per la Pentecoste (7 giugno) del 431. Il 21 giugno Cirillo dà inizio ai lavori senza aspettare né i vescovi orientali, né i legati papali e conclude subito emettendo una sentenza sinodale contro Nestorio, nel senso che si riteneva conforme alla fede di Nicea le prime due lettere di Cirillo e non quelle di Nestorio e viene proclamata Maria come Theotokos. Il 26 giugno arrivarono i vescovi orientali, che non accettarono le decisioni del Concilio, separandosi con uno scisma. Quando giunsero i legati papali l’11 luglio confermarono le decisioni di Cirillo e Nestorio fu deposto. Lo scisma durò fino al 433 quando, con il Decreto di Unione, Cirillo ammorbidì le sue posizioni, perché ormai aveva ottenuto la condanna di Nestorio, senza tuttavia cedere sulla formula per cui Maria è «Madre di Dio», .

2. CIRCOSTANZE ANTECEDENTI IL CONCILIO DI CALCEDONIA

Esattamente vent’anni dopo, nel 448 fa la sua comparsa Eutiche, archimadrita dei monaci di Costantinopoli, che rifiuta esattamente il Decreto di unione del 433. Efeso aveva certo – nella prospettiva alessandrina – messo in luce l’unità di Gesù Cristo, ma non era sta precisato soprattutto la distinzione tra la divinità e l’umanità. Il linguaggio soprattutto era occasione di confusione, perché la formula di Cirillo (unica è la natura del Dio-Verbo incarnato[a]) pur addolcita dall’altra del Decreto di Unione secondo cui Gesù era un’unica realtà, un’unità reale pensata come un’unione secondo l’ipostasi (persona) del Verbo [unione ipostatica], non riusciva bene a distinguere i livelli secondo cui dovevano essere usati i termini «natura» e «persona». Di qui le questioni: che ne è delle nature dopo l’unione (nella persona del Verbo)? Si devono ancora distinguere le nature divina e umana? Ma soprattutto che ne è della natura umana dopo l’unione, con cui il Verbo assume e si appropria della natura umana? Viene mantenuta nella sua realtà e consistenza o viene assorbita nella divinità? La realtà dell’umanità di Gesù si può accostare alla divinità, viene mantenuta nell’unione ipostatica oppure

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viene trasformata in modo tale che non si possa più riconoscere che Gesù è un uomo come noi? La verità dell’uomo Gesù viene mantenuta nell’unione ipostatica, nell’incarnazione? Se Nicea ha parlato della consustanzialità (homoousia) di Gesù a Dio si può e si deve parlare di una consustanzialità con noi? Queste domande obiettivamente aperte dopo il Concilio di Efeso e dopo il Decreto di Unione del 433 (che non era stato accettato delle frange radicali sia degli antiocheni, sia degli alessandrini) crearono un ambiente saturo di questioni che bastò una piccola scintilla per far riaccendere la questione.

La dottrina di Eutiche, un vecchio piuttosto ignorante e testardo, accese le micce della nuova crisi che doveva sfociare nel Concilio di Calcedonia. Eutiche è un monofisita «crasso» (la linea alessandrina esasperata), perché ripete le parole di Cirillo, ma non si accorge di travisarne il senso, perché il rifiuto di riconoscere che Gesù è «di due nature» dopo l’unione e spiegato da Lui come un assorbimento della natura umana nella divina, una confusione della umanità nella divinità, così che la natura umana viene «assorbita dalla divinità come una goccia d’acqua dal mare». Di qui la posizione di Eutiche che afferma che la carne di Gesù e una carne celeste, e che nega la consustanzialità di Gesù con noi, perché la natura umana nell’incarnazione muta così tanto da diventare differente dalla nostra. Certo Eutiche riesce a suggerire che c’è una sproporzione tra l’umanità (la goccia d’acqua) e la divinità del Verbo (il mare), ma a spese dell’umanità fino quasi a renderla evanescente a favore della unica natura divina (mono-fisismo) incarnata.

Eutiche non accetta di sottoscrivere la formula del sinodo di Costantinopoli del 448, radunato dal Patriarca Flaviano: «Noi confessiamo che Cristo è di due nature (ek dúo fúseon) dopo l’incarnazione, in una sola ipostasi (hypóstasis) e in una sola persona (prósopon)». Questo testo ci annuncia già la formula di Calcedonia, proprio perché introduce il discernimento della terminologia, per dire l’approfondimento della teologia: le nature sono due, la persona/ipostasi è unica. A questo punto si verifica una novità: le controversie cristologiche erano da sempre state una caratteristica degli orientali, mentre l’occidente e il Papa si erano tenuti in disparte. Circa nello stesso tempo essi erano impegnati con Agostino (che muore nel 430) con la controversia sulla grazia. Questa volta, davanti agli errori di Eutiche, forse anche perché, da un lato, a Roma vi era un papa del calibro di Leone Magno e, dall’altro, vedevano in Eutiche il pericolo di docetismo, c’è un intervento dell’occidente. Leone interviene con il famoso Tomus Leonis ad Flavianum, una lunga lettera dogmatica, che in un latino maestoso e molto controllato, espone la dottrina dell’incarnazione di sapore antiocheno: forse meno sofisticata di quella degli orientali, ma non meno limpida, parlava di due nature in Cristo, che conservano le proprietà (gli idiomi) dopo l’unione [salva igitur proprietate utriusque naturae e in unam coeunte personam] e che sono principio delle azioni divine e umane di Cristo, in reciproca comunione [agit enim utraque forma (Dei et servi) cum alterius communione quod proprium est. Verbo scilicet operante quod Verbi est, et carne exequente quod carnis est. Unum horum coruscat miraculis, aliud soccumbit injuriis]. Leone svolge quindi un lungo parallelismo tra le proprietà della natura divina e quella umana, senza però perdere la asimmetria dell’una e dell’altra, orchestrandole sulla filigrana della doppia consustanzialità di Cristo al Padre e a noi. La lettera di Leone doveva essere letta in occasione del secondo Concilio di Efeso che doveva tenersi nel 449, ma le violenze verbali e fisiche, in cui precipitò il Concilio

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(definito da Leone Latrocinium Efesinum), lo fecero spostare in oriente. Previsto prima a Nicea, fu tenuto a Costantinopoli, alla periferia dove c’era un palazzo imperiale, sul lato asiatico dello stretto del Bosforo, nella località di Calcedonia, perché l’imperatore Marciano potesse controllarlo da vicino.

Il concilio di Calcedonia (8 – 26 ottobre 451) accolse come coerenti con la fede e il simbolo di Nicea, le lettere di Cirillo approvate a Efeso, il Tomus di Leone e sembrava che potesse essere sufficiente, come era avvenuto ad Efeso, approvare come conforme alla fede nicena la dottrina di Cirillo e di Leone, ma la diversità dei linguaggi imponeva anche una nuova formulazione dogmatica, che fu contrastata nei primi giorni del concilio, ma che alla fine appare quasi come inevitabile. Resta traccia di ciò oltre che negli Atti, anche nell’Introduzione alla formula propriamente dogmatica, dove si ricordano Nicea, Costantinopoli, Efeso, e i simboli di fede accolti in quei concili (è a Calcedonia che viene proclamato il simbolo Niceno-costantinopolitano), e questo – si dice – avrebbe dovuto bastare. Tuttavia le successive contestazioni spingono i padri a chiarificare ulteriormente la dottrina, sulla base delle lettere di Cirillo e del Tomus di Leone, proponendo non una nuovo “simbolo”, ma un “insegnamento” della fede, nella scia dei santi Padri.

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I L C O N C I L I O D I C A L C E D O N I A

451

t e s t i

1. Circostanze storiche [trad. it. di A. de Halleux, RTL 7 (1976) 5-8]

2. Struttura e fonti della Definitio Cakcedonensis [Grillmeier, 956-63]

3. Analisi strutturale [appunti]

4. Calcedonia e poi…

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1. CIRCOSTANZE STORICHE IMMEDIATE

DI ELABORAZIONE

Gli atti del Concilio di Calcedonia (actiones 1-5) costituiscono praticamente l’unica fonte di prima mano a nostra disposizione per ricostruire l’elaborazione della definizione cristologica. Li cito seguendo l’esemplare edizione critica di SCHWARTZ, limitandomi ad indicare il numero della actio in questione, a meno che un motivo particolare non raccomandi di precisare pagina e riga.

Gli atti calcedonesi sono un documento umano straordinario, ma che deve essere utiliziato con la consapevolezza di ciò che è in gioco. L’apparenza di aver dinanzi un «reportage» vissuto ha incantato gli storici moderni della chiesa, che hanno adattato il loro racconto con glosse psicologizzanti, temperate di humor o di solennità a seconda del caso. Tuttavia, se il resoconto stenografico, il controllo della redazione e la conservazione degli originali autenticati furono circondati delle migliori precauzioni e garanzie giuridiche, ci si ingannerebbe pensando che noi possediamo un resoconto oggettivo e completo dell’evento.

L’ ekdosis, dovuta ai circoli sacerdotali di Costantinopoli verso il 455, non era senza intenzioni ben precise, che guidarono una certa scelta della documentazione. Ma già le condizioni materiali di ascolto e di registrazione e, soprattutto, un inevitabile intervento soggettivo che è il cruccio di ogni verbalista, non potevano mancare di giocare un ruolo, in particolare nell’atmosfera di tensione a volte drammatica che regnava nell’assemblea di Calcedonia.

Cerco di riassumere brevemente il racconto conociuto, senza avventurarmi in una interpretazione «psico-socio-dottrinale», né con un tentativo di «ricostruzione poliziesca», per la quale vi sono già esempi di ingegnosità gratuita. Io tenterò di presentare, così come stanno negli atti, i dati utili per comprendere ciò che seguirà.

a) Opposizione ad una definizione cristologica

Fin dalla prima actio (8 ott 451), alla fine della revisione del processo che l’arcivescovo Dioscuro D’Alessandria aveva intentato contro il suo collega Flaviano di Costantinopoli sin dal Concilio di Efeso del 449, i commissari imperiali ordinano per l’indomani una inchiesta sinodale sulla questione della fede (nº 1068), per cui precisano modalità e norme (nº 1072).

La sessione richiesta ha luogo il 10 ottobre: è la terza actio. I commissari sembrano per il momento esigere l’elaborazione pubblica di una definizione dogmatica comune (nn 2 e 6), ma essi si scontrano con le reticenze, se non anche con il rifiuto del Sinodo: i Padri ricordano l’interdizione del Concilio di Efeso del 431 contro ogni altro simbolo che non sia quello di Nicea, e pure il fatto che essi hanno già tutti sottoscritto il Tomus di papa Leono a Flaviano (nn 3-5.7-9).

I commissari fanno allora leggere per l’approvazione i documenti normativi della fede cristologica: i simboli di Nicea e di Costantinopoli, le due lettere canoniche di Cirillo di Alessandria, legate al concilio ecumenico di Efeso, cioè la seconda a

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Nestorio (Kataphlyarousi) e quella a Giovanni di Antiochia sulla riconciliazione del 433 (Euphrainesthôsan), e infine il Tomus di Leone a Flaviano (nn 10-23).

Due dubbi, sollevati dai vescovi dell’Illiria e della Palestina riguardanti tre passi del Tomus, sono sciolti dal segretario del Concilio e da Teodoreto di Ciro, ricordando citazioni parallele di Cirillo (nn 24-28). Ma l’illirico Attico domanda, a completamento di informazione, la terza lettera di Cirillo a Nestorio, con i dodici anatematismi, per prepararsi all’esame dei Padri. I commissari accordano di ampliare il dibattito a cinque giorni; nel frattempo l’Arcivescovo Anatolio di Costantinopoli organizzerà alcuni incontri teologici (nn 29-33).

Il 17 ottobre, poco dopo la data prevista, i vescovi si trovano in seduta solenne, per registrare le loro posizioni (4 actio). Dietro invito dei commissari (nn 2,5 e 8) e dopo una dichiarazione dei legati romani (n 6), ciascuno giura sull’evangelo che ha firmato il Tomus di Leone perchè conforme alla fede di Nicea e Costantinopoli, come a quella di Cirillo ad Efeso (nn 10-11).

Le due deposizioni, collettive e circostanziate, degli Illirici e dei Palestinesi (p 101-103) offrono qualche dettaglio sulle discussioni avvenute al patriarcato. Queste sembrano essere state una autentica sessione sinodale, presieduta da Anatolio, nel corso della quale i «dottori» parlarono liberamente e furono rassicurati dai legati romani.

Dopo le deposizioni, la quarta actio passa a questioni di persone, come se la questione dottrinale fosse da considersi regolata.

b) Ostinazione per lo schema primitivo

Si è dunque sorpresi di vedere che la quinta actio del 22 ottobre si apre con la menzione di una definizione di fede, letta non dal segretario, ma dal diacono Asclepiade di Costantinopoli. Una nota precisa che, a proposito di questo horos, «è parso bene di non classificarlo nelle memorie (hypomnêmata)» (nn 2-3), senza però che si sappia se quest’ultima parola designi il processo verbale della seduta o l’edizione ufficiale degli atti.

L’arcivescovo Anatolio, sostenitore del progetto, assicura che era stato approvato unanimemente alla vigilia (nn 5 e 7): si ebbe dunque il 21 ottobre una sessione sinodale di cui la quinta actio aveva lo scopo di autenticare le risoluzioni davanti ai commissari imperiali. Tuttavia lo schema si trova ora criticato dai legati romani a da qualche antiocheno (n 6), il cui porta-parola è Giovanni Germanico (nn 4 e 12). Mentre questi protesta contro il titolo di Theotokos, che ritiene insufficientemente esatto (nn 4,6,8 e 12), i legati rimproverano alla definizione di contraddire il Tomus di Leone, e minacciano di ritornare in sede per farvi il Concilio (n 9). Il disaccordo con il Tomus sembrava risiedere soprattutto nella formula cristologica «di due nature» (n 13).

I commissari ordinano allora la creazione di una commissione di revisione, comprendente gli arcivescovi delle grandi «diocesi» con due dei loro suffraganei, Anatolio di Costantinopoli, i legati romani e essi stessi, i quali si sarebbero riuniti nell’oratorio vicino della chiesa-martyrion di S. Eufemia (n 10). La maggioranza però rifiuta di abbandonare il testo approvato alla vigilia.

L’insistenza dei commissari per introdurre nella definizione la formula duofisita che essi attribuiscono a papa Leone non sembra piegare né Anatolio, né la

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maggioranza che lo sostiene (nn 13-20). Per sbloccare la questione, i commissari decidono di ricorrere all’arbitrato dell’imperatore Marciano, il quale fa sapere che offre ai Padri di scegliere tra due procedimenti: la commissione ristretta già proposta o una deposizione di ogni vescovo attraverso il suo metropolita; in caso contrario il Concilio dovrà aver luogo in Occidente (nn 21-22).

E’ sorprendente vedere i vescovi arroccarsi sul loro primo schema, fino a dichiarare di essere disposti a rinunciare, piuttosto che ripudiarlo. L’armeno Kecrope e gli Illirici rinviano ironicamente a Roma i loro contradditori «nestoriani» (nn 23-25). La tensione raggiunge qui il parossismo.

Un ultimo intervento dei commissari fa scegliere fra Dioscuro d’Alessandria, deposto alla seconda actio, e il papa Leone: la sentenza (psêphos-iudicium) di quest’ultimo intima che la definizione professi «due nature unite senza confusione, senza cambiamento e senza divisione» (n 26), o «senza cambiamento, senza separazione e senza confusione» (n 28).

Il seguito degli atti non ricorda più alcuna reazione negativa dei padri. La commissione di revisione si ritira nell’oratorio, «discute» della fede, ritorna nella Chiesa (n 29), dove il segretario legge pubblicamente la definizione attuale (n 30-34), che è acclamata (n 35). Le firme saranno poste il 25 ottobre, durante una sessione solenne coronata dalla presenza della coppia imperiale (6 actio).

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3. ANALISI STRUTTURALE

Riprendo alcune considerazioni che derivano dall’analisi strutturale proposta da J-M. CHARRIÈRE, NRT 111 (1979) 338-57, riferendomi alla scheda allegata che propone una disposizione di Calcedonia secondo la struttura.

INTRODUZIONE

Segnalo due ‘indici’ di superficie che permettono di delimitare il testo:

– l’atto di tradizione: il passo propriamente dogmatico è delimitato dalla inclusione «i Padri», con cui gli autori di Calcedonia intendono ricollegarsi alla tradizione e attualizzarla in un nuovo sforzo di comprendere e dire la fede: l’homologhein iniziale corrisponde al risalimento della paradosis che si ricollega al Padri del simbolo (Nicea-Cost), a Gesù e ai Profeti: l’atto dela trasmissione conferisce alla homologhia una dimensione universale, verso l’origine e verso la fine del tempo storico; anzi lo stesso atto ha una valenza universale perchè è ripetuto di tempo in tempo anche prima di Cristo, come testimonianza alla realtà di Lui.

– uno solo e lo stesso: il testo è suddiviso da un ritornello (riga 4.20.33), che ritorna con leggere varianti significative, dividendo il testo in due parti distinte. Questa cornice delimita due riquadri, in cui si fa parola di «uno solo e il medesimo» (éna kaì tòn autòn): si parla dell’unico, singolare, di cui è importante la sua fondamentale unità, che è espressa a sua volta dall’unicità (uno solo) e dall’identità (lo stesso). L’invarianza del ritornello è rotta due volte: in rapporto a coloro che scrivono il testo (il «nostro» riga 4 assume poi un carattere più generale riga 20.33) e in rapporto alle qualificazioni aggiunte all’»un solo e lo stesso» (al centro ‘monogene’ è aggiunto al posto di ‘Gesù’; mentre la terza formula ha ‘Dio-Verbo’e di nuovo Gesù. Le semplici variazioni non sono significative, se il contesto non ci aiuterà ad illuminarle.

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LA DEFINIZIONE DI CALCEDONIA (DS 301-302)

1 Seguendo, pertanto i santi Padri2 noi insegniamo unanimemente3 di riconoscere (homologein)4 UN SOLO E STESSO FIGLIO NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

5 lo stesso veramente perfetto nella (en) divinità6 lo stesso veramente perfetto nella (en) umanità7 veramente Dio8 veramente uomo, lo stesso,9 da (ek) un’anima razionale e da un corpo10 della stessa sostanza (homoousion) del Padre

secondo (katà) la divinità11 della stessa sostanza (homoousion) nostra12 lo stesso, secondo (katà) l’umanità13 simile in tutto a noi fuorché nel peccato;14 prima dei secoli,15 generato (ek) dal Padre16 secondo (katà) la divinità nella pienezza dei tempi, lo stesso,17 per noi e per la nostra salvezza18 da (ek) Maria, la Vergine, la Madre di Dio,19 secondo (katà) l’umanità

20 UN SOLO E LO STESSO CRISTO FIGLIO SIGNORE UNIGENITO

21 in (en) due nature (phýseis)22 senza confusione (asunchútos)23 senza trasformazione (atréptos)24 senza divisione (adiairétos)25 senza separazione(achorístos)26 bisogna riconoscere27 Poiché la differenza delle nature non è soppressa dalla (dià) loro unione28 ma al contrario le proprietà di ciascuna natura sono conservate29 e si ricongiungono insieme in (eis) in una sola persona (prósopon)30 e in una sola ipostasi (hypóstasis)31 non essendo spartito o diviso in (eis) due persone,32 ma

33 UN SOLO E LO STESSO FIGLIO UNIGENITO DIO VERBO SIGNORE GESÙ CRISTO

34 come tempo i profeti ci parlarono di lui35 e lo stesso Signore Gesù Cristo (ce ne ha parlato)36 e il Simbolo dei Padri ce lo ha trasmesso (paradidomai)

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PRIMO QUADRO LA DIFFERENZA NELL’UNITÀ

Nel primo riquadro osserviamo due fenomeni macroscopici:– la volontà di un perfetto bilanciamento tra le espressioni riguardanti la divinità e

l’umanità;– un certo disequilibrio che di fatto si ha sulla colonna dell’umanità.

A partire di qui è possibile svolgere tre serie di osservazioni:

A. La singolarità dell’unico a partire dalla differenza

E’ facile notare una struttura a dittico, nella quale si possono vedere i parallelismi:

4 UN SOLO E LO STESSO 5 lo stesso perfetto 6 lo stesso perfetto 7 veramente 8 veramente lo stesso10 homoousion 12 homoousion lo stesso15 generato 16-8 --- lo stesso20 UN SOLO E LO STESSO

Ciascun termine usato per la divinità è pure impiegato per l’umanità con la sola eccezione significativa per ‘generato’ (gennethénta), ma mediante l’insistito intreccio di ‘lo stesso’ (tòn autòn): è evidente lo sforzo di trovare un linguaggio possibile che parli dell’unico e del singolare, senza detrimento della differenza che entra a costituirlo.

Questo sforzo è comprensibile solo sullo sfondo di un pensiero (quello greco) che pensa Dio come l’altro dall’uomo, sotto l’aspetto di una differenza assoluta che non va tolta, bensì conciliata nella particolare struttura dell’unico Gesù: l’accento è posto principalmente sulla differenza tra Dio e l’uomo, presa come punto di partenza indiscutibile. Nella logica del pensiero essenzialista, che si propone con categorie solidificate e già precomprese, che è stata definita ‘logica dei solidi’, la parola della fede tenta una formulazione, per cercare un linguaggio che superi l’apparente opposizione della ragione, per indicare mediante un equilibrato parallelismo la verità di quell’unico e singolare che è Gesù Cristo. Si ha così la tensione tra la parola della fede che esprime la conoscenza del mistero di Cristo e dall’altra la visione del mondo espressa nel linguaggio umano (qui quello greco) che deve per quanto può lasciarsi plasmare da quella parola, e poterla così ‘esprimere’ secondo verità.

B. Le precisazioni sul versante dell’umanità

Il brano sottolinea il punto di vista della differenza tra Dio e l’uomo, che è per così dire reduplicata: quella dell’uomo con Dio e quella di quest’uomo Gesù con l’universalità degli uomini. Questa duplice ‘differenza’ è indicata dalle varianti che appaiono sul versante ‘umano’ del dittico:

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9 da (ek) un’anima razionale e da un corpo12 simile a noi in tutto fuorchè nel peccato17 per noi e per la nostra salvezza18 Maria, la Vergine, la Madre di Dio

Di queste varianti possiamo sottolineare due aspetti:

– la differenza tra l’umanità di Gesù e la nostra: la riga 9 e 12 sottolineano il rapporto che si instaura tra l’umanità in Gesù e l’umanità in noi. Insieme a «consustanziale a noi» le due precisazioni: «da un’anima razionale e da un corpo» e «simile a noi in tutto fuorchè nel peccato» indicano il rapporto di identità e di differenza tra Gesù e noi. La prima aggiunta (9) allude all’identità dell’umanità di Gesù con la nostra nelle sue componenti essenziali (anima e corpo). Con ciò è precisato il senso del suo essere «consustanziale a noi» (11). La seconda aggiunta (12) parla di Gesù come «simile (hómoion) a noi in tutto, fuorchè...», ma ciò non può ancora una volta significare che Gesù è consustanziale a noi, cioè simile a noi nei suoi elementi essenziali. Il testo si riferisce ad una somiglianza che riguarda l’agire, cioè il funzionamento della libertà e delle sue componenti essenziali. Nella storia, nel suo agire, l’uomo, a partire dalle sue componenti, costruisce la sua propria unità e diviene così effettivamente uomo. La somiglianza qui affermata sta a dire che Gesù, nella sua umanità, come ogni uomo, costruisce nel suo agire la sua unità. In ciò Egli è simile a noi,cioè nel suo agire storico, «fuorchè nel peccato».

Questo risultato di identità (nell’essere e nell’agire) di Gesù con noi e di differenza (nel suo agire esclusivamente positivo) pone il problema di come si possano predicare tali caratteristiche essenziali della natura umana ad un soggetto divino. La tensione qui non è tolta, ma il testo rinvia al problema della coesistenza delle nature in Gesù al livello dell’unità dinamica che è quell’umanità di Gesù realizzata concretamente da colui che si chiama Gesù di Nazaret. L’accostamento di umanità e divinità, che la mentalità greca vede in modo parallelo, raggiunge qui il suo punto di crisi.

– la differenza tra Dio e l’uomo: la seconda differenza è quella che intercorre tra Dio e l’uomo in Gesù ed è segnalata dalla quarta aggiunta (riga 18) [la terza - riga 17 - indica il carattere salvifico dell’incarnazione]. In questa aggiunta si deve notare l’assenza del verbo «generare» riferito alla nascita da Maria. Poichè il «generato» equivale alla lista degli aggettivi (verbali) che esamineremo nel punto seguente, e che ritornano in modo bilanciato sulle due tavole del dittico, la sua assenza non può essere attribuita ad una dimenticanza, ma ha valore intenzionale. Del resto, i termini attribuiti a Maria (Madre di Dio, Vergine) significano da un lato che l’unità singolare che è Gesù deve essere affermata fin dal primo istante della nascita (anche se non se ne ha una chiara visione), e dall’altro che si deve distinguere tra ‘nascita’ di Gesù e sua ‘generazione’ dal Padre. L’assenza del vocabolo ‘generato’ sul versante dell’umanità deve comprendersi sullo sfondo di questa alterità tra Dio e l’uomo, così che non si può predicare una stessa ‘origine’ (si noti il medesimo ‘ek’) ‘dal Padre’ e ‘da Maria’. Ciò non può evidentemente significare una diminuzione dell’umanità: qui non ci si pone dal punto di vista della perfezione delle nature, ma del diverso rapporto di ‘origine’ delle medesime. Anche in questo caso, come nel precedente è il punto di vista della differenza che è affermato [generato, --- (nato?)], pur all’interno dell’unità.

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Che cosa significhi questa duplice differenza (tra l’uomo e Dio e tra l’uomo Gesù e noi) per la comprensione della natura di Dio e dell’uomo il concilio non dice: il fatto che ci si richiami alla scrittura (Fil 2,7; Eb 2,17; Eb 4,15; Lc 1,34.43) serve per esprimere in maniera giusta una faccia del mistero che non è ancora sufficientemente chiarità dalla comprensione.

C. La serie: ‘perfetto’ ‘veramente’ ‘consustanziale’ ‘generato’

Questi quattro termini che ritornano (eccetto il quarto) su ambedue i lati del dittico devono essere intesi secondo una certa gradualità o come uno sviluppo logico? Osserviamo il seguente schema:

5 perfetto en en A 7 veramente (ek) ek B10 consustanziale to patrí hemin C

katá katá15 generato ek ek D

katá katá

Tra i termini c’è certamente una gradualità (perchè sono riferiti ambedue alla divinità e alla umanità), ma c’è anche articolazione logica. L’articolazione (en - ek) tra la prima e seconda riga (5,7) corrisponde a quella tra la terza e la quarta (10,15) anche se non in forma equivalente. Inoltre la preposizione katá appare in modo molto regolare e significa ‘alla maniera di, secondo’. E’ possibile stabilire così il senso del procedimento graduale, osservabile tra due membri (A-B e C-D). In ciascuno dei membri abbiamo lo stesso movimento che parte dalla percezione finale (perfetto, consustanziale: A-C) e risale all’origine (veramente [da], generato [da]: B-D). In questo movimento di risalita fino all’origine, il primo membro (A-B) propone un modello, uno schizzo logico della divinità e dell’umanità. Il secondo membro procede precisando questo schizzo in maniera (katá) più particolare: ‘Dio’ (A/B) è precisato in ‘Padre’ (C/D); ‘uomo’ (A/B) diventa ‘noi’ (C/D). Si può così segnalare un duplice movimento:

– il discorso cristologico consiste in un movimento di interrrogazione-affermazione che parte dalla percezione attuale (finale) della realtà di Gesù per risalire alla sua origine.

– il movimento del testo ci conduce verso il mistero della ‘generazione’ di Gesù: Egli prende origine dal Padre e da noi, ma questa doppia ‘derivazione’ (ek) pende dalla parte della generazione dal Padre. Ciò fa aprire la nozione della generazione umana al di là del quadro della semplice procreazione, mentre la partecipazione di Gesù alla nostra umanità pone il problema della nostra ‘derivazione’ da Dio per realizzare quella alleanza tra il Padre e noi in Gesù, che è il senso del ‘per noi e per la nostra salvezza’. Infine, questo movimento di risalita da Gesù al Generato dal Padre si situa in uno schema temporale «prima dei secoli» (14) «nella pienezza dei tempi [lett: nei nostri giorni, gli ultimi]» (16), che corrisponde ad un duplice evento (generato dal Padre, la nascita da Maria, per la nostra salvezza nei tempi che sono gli «ultimi, escatologici». In tal modo forse è possibile situare meglio il senso di «monogene» nel ritornello situato alla fine di questa prima parte (20) che sostituisce il termine «Gesù» del primo

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ritornello (4). Si trova così che il movimento di risalita da Gesù all’ Unigenito, generato dal Padre, che descrive il senso della gradualità ricavata dalla successione dei termini, incrocia lo schema temporale «nella pienezza dei tempi» «prima dei secoli» rispettivamente riferiti a Gesù e al Monogene, secondo questo schema:

Gesù (4)

| prima dei secoli (14)______ |_______ nella pienezza dei tempi (16)

| |

Monogene (20)

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SECONDO QUADRO L’UNITÀ NELLA DIFFERENZA

Il secondo quadro, delimitato a sua volta da due ritornelli (20,33), presenta una struttura meno bilanciata. La serie dei quattro avverbi (22-5) appesantisce e scentra l’equilibrio. Se si tolgono idealmente questi avverbi si possono intravvedere egualmente due parti che hanno molte corrispondenze come mostra questo schema scomposto:

20 UN SOLO21 in due in due nature due27 in alcun modo la differenza non soppressa non una28 ma... ciascuna ma ciascuna natura due

29 verso una sola e in (eis) una sola persona una30 non in due non in due persone non due32 ma... ma un solo e lo stesso uno33 UN SOLO

Questa simmetria permette di articolare due sezioni del quadro: una che riguarda la dualità (20-28), l’altra che sottolinea l’unità (29-33). A proposito di queste sezioni propongo tre osservazioni:

A. Il medesimo schema logico delle due sezioni: nelle due sezioni della seconda parte prima la dualità e poi l’unità sono fortemente affermate, in un

medesimo movimento comprendente tre tappe, ripreso per l’una e per l’altra sezione (cfr prima colonna del prospetto).

– la dualità: la prima tappa (21) pone la dualità come punto di partenza, la quale sembra essere posta in discussione da un elemento che apparirà in seguito come un evento, il quale sembra appunto negare la dualità; la seconda tappa (27) nega tale effetto , negando che la dualità sia abolita da questo evento; la terza tappa (28) è una nuova affermazione della dualità, che sussiste anche ‘dopo’ l’evento.

– l’ unità: prima tappa (29): affermazione dell’unità con la sua cifra (una sola); intervento non esplicitato di qualcosa che sembra mettere in discussione la dualità; seconda tappa (31) esclude l’effetto che questo avvenimento neghi la realtà dell’unità; la terza tappa (32-3) afferma di nuovo, ancora in forma positiva, l’unità avvenuta.

B. L’articolazione dei due momenti (dualità e unità): come si articolano i singoli movimenti? per semplice parallelismo? che si può dire di questo avvenimento supposto in ambedue le sezioni? Le due sezioni non hanno solo uno stesso parallelismo schematico (le tre tappe), ma si articolano tra di loro in due modi: l’uno numerico, con la coppia delle cifre 1-2; l’altro semantico con la coppia di termini natura-persona (rispettivamente terza e seconda colonna del prospetto):

– livello numerico: questo livello non ha molto interesse ma serve a mettere in luce l’immagine astratta che funziona mediante il gioco delle cifre (due/non una/due;

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una/non due/uno): a questo livello il rapporto tra 1 e 2 sarebbe troppo schematico e caricaturale se non intervenisse la distinzione dei piani del seguente livello.

– a livello semantico: le due sezioni sono legate tra di loro dall’intreccio dei due termini natura e persona: il primo termine designa la dualità in Gesù; il secondo significa l’unità di Gesù. La natura è definità all’interno del testo, come costituita da un insieme di proprietà, le quali permangono anche in seguito all’unione: ciò consente di affermare che le nature sono due anche ‘dopo’. Con l’individuazione delle proprietà di un essere (in senso vago e impreciso nel testo) attraverso una operazione analitica, si può definire la natura umana e divina e attraverso l’unificazione delle proprietà si può parlare di un’unica entità umano-divina. Così natura (phúsis) è termine in pratica equivalente a sostanza/essenza (ousía), ma il primo è più descrittivo e funzionale, mentre il secondo è più metafisico. La persona è il luogo dell’unificazione e integrazione di diverse manifestazioni della personalità dell’essere: ciò permette di non disperdersi nella pluralità delle manifestazioni, ma di percepirle come unificate in un unico soggetto: il Signore Gesù Cristo. Il concetto di persona ha dunque la funzione di segnalare il processo di unità integrante, non quell’unità che pure la natura opera a livello delle caratteristiche individuanti, ma quella delle manifestazioni di un unica soggettività ultima. Resta aperta la questione se si possa dare un criterio per passare dalla ‘caratteristiche’ individianti delle nature al ‘funzionamento’ integrante della persona, intendendo le prime come manifestazione della seconda. A questo livello è difficile rispondere a partire dal Concilio. Riferendosi al Tomus di Leone, è possibile forse dire che le proprietà delle due nature sono effettuate ed attualizzate dall’atto della persona unica di Gesù attraverso ciò che essa fa e dice.

C. Il movimento dell’unione: La perfetta bilanciatura dei numeri (uno-due) e dei termini (nature-persona) corre il rischio di apparire troppo statica, anche se ha il compito di indicare le regole logico-linguistiche (e in certa misura anche di livelli di realtà) per denominare la dualità e l’unità in Gesù. Ma il testo presenta anche un movimento espresso dalla sequenza di tre preposizioni: en (21), diá (27), eis (29). «En» indica il luogo dove ci si trova, applicato alle nature indica una qualità permanente (non c’è ek); «eis» dice il termine del movimento, il luogo dove si arriva, l’esito del movimento; «diá» indica il passaggio attraverso cui avviene il movimento. Collegate ai termini rispettivi si ha la sequenza: in due nature – attraverso l’unione – verso una sola persona. Così l’evento a cui ci si è più volte riferiti è quello dell’unione, che è il luogo di passaggio delle due nature a una sola persona: l’idea di unione (énosis) è assai dinamica, preferendola il testo ad unità ed identità.

Infine si può caratterizzare questa unione attraverso il ricupero degli avverbi, che, come si era notato, appesantivano il testo. I famosi quattro avverbi calcedonesi caratterizzano il modo dell’unione e sono ripresi nelle espressioni seguenti, due per ciascuna sezione del brano. Ecco la corrispondenza:

22 senza confusione 27 differenza non soppressa

23 senza cambiamento (delle nature) 28 proprietà conservate

24 senza divisione 31 diviso o spartito

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25 senza separazione (della persona) 31 non due persone

Alla fine dell’analisi resta in sospeso l’ultima questione: la differenza tra il secondo (20) e il terzo ritornello (33). L’ultimo ritornello comporta un’aggiunta rispetto al precedente: accanto a monogene si accosta Theòs Lógos (Dio Verbo) e si nota la ricomparsa di ‘Gesù’ del primo ritornello (4). La parola Lógos appare a sorpresa e non è annunciata da nulla nel secondo quadro, mentre invece lo era il termine monogene anticipato dal senso del primo quadro. E’ possibile dire che vi sia un’ intuizione del «soggetto» del movimento di unione (il Verbo appunto), che è la grande questione che il testo di Calcedonia lascia sospesa? Gli indizi non sono suffcienti ad affermarlo con sicurezza. Del resto l’interpretazione di Charrière (354) va in altra direzione.

4. CALCEDONIA E POI…

Il testo del Concilio di Calcedonia costituisce un intervento di importanza decisiva, sia perché fornisce un discernimento autorevole del dibattito cristologico del V secolo, sia perché è il punto di avvio di un lungo sviluppo, che approderà al/ai “modello/i calcedonese/i” della cristologia. Propongo tre serie di riflessioni: pregi e limiti del pronunciamento di Calcedonia; le obiezioni al modello calcedonese; le riprese recenti.

Pregi e limiti del Concilio di Calcedonia. L’insegnamento di Calcedonia corona la storia che prende le mosse da Nicea: il Sinodo dei 318 Padri ha definito che Gesù è homoousios (consustanziale) al Padre, cioè ha difeso la divinità di Gesù; Efeso ha sottolineato, mediante il titolo rivolto alla Vergine di «Madre di Dio» (Theotokos), contro ogni divisione, l’unità di Gesù Cristo, in quanto il Figlio è coinvolto nella storia della salvezza; Calcedonia afferma l’unità nella distinzione, in particolare la homoousia di Gesù con noi, la sua piena e perfetta umanità, che veniva compromessa dal monofisismo di Eutiche. L’unità del Verbo incarnato di Efeso è così affermata senza alcun detrimento della distinzione e perfezione delle nature. I quattro avverbi calcedonesi attestano questo: l’indivise e inseparabiliter (l’unità) non devono essere detti a spese dell’inconfuse e immutabiliter (la differenza). L’anima di verità delle due scuole, quella alessandrina (che sottolinea l’unità della persona) e quella antiochena (che rimarca la differenza delle nature), sembrano trovare una composizione nel testo calcedonese che può essere sintetizzato: «una persona, due nature»: la persona è quella del Verbo (per quanto il testo non sia chiaro su questo punto, ma ciò sarà esplicitato nel Costantinopolitano II [553] e III [681]), le nature sono quella divina e umana, che restando numerabili anche dopo l’unione (en [e non ek] duo phýseon), contro il tentativo di Eutiche di assorbire la natura umana in quella divina.

Il pregio di Calcedonia sta nell’aver formulato le regole terminologico-concettuali [persona/nature] per indicare i livelli dell’unità [di persona=ipostatica] e della differenza [delle nature], in particolare con l’accento sulla completezza e integralità dell’umanità, e sul fatto che l’affermazione della divinità non sopprime, ma pone in essere la consistenza dell’umanità (il motivo è salvifico: non sarebbe salvato tutto l’uomo).

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Il limite di Calcedonia è quello di una sorta di contrazione della storia di Gesù all’atto dell’incarnazione, al mistero del Natale, tanto che qualcuno ha parlato di «contrazione dogmatica del Kerygma» (Cantalamessa), anche se forse sarebbe meglio dire che il Concilio mette in luce le condizioni di possibilità ontologiche per dire la “verità” del mistero di Cristo. Così anche la critica che il momento propriamente salvifico è ridotto alla esigua citazione del «per noi e per la nostra salvezza», dev’essere respinta perché è esattamente per pensare l’integralità della salvezza che si afferma la doppia consustanzialità dell’unico Signore al Padre e a noi. Certo la storia della vicenda di Gesù è presupposta, ma il Tomus di Leone vi faceva un più ampio riferimento. Forse la vera questione è che la formula di Calcedonia mette in luce in modo statico (e perfettamente bilanciato) la differenza delle nature, per affermare nella seconda parte la convergenza nell’unica persona e ipostasi: questo procedimento descrittivo, pur dentro le cornici dell’«uno e del medesimo», corre il rischio – ma ciò avverrà soprattutto nello sviluppo del modello calcedonese – di far pensare all’unità come un momento raggiunto successivamente. Del resto anche la formalizzazione del livelli di realtà nei termini natura/persona, fa puntare l’attenzione più sulla precisione del linguaggio che sulla ricchezza della res del mistero di Cristo.

Le obiezioni al “modello calcedonese”. Per questo le critiche che sono state rivolte a Calcedonia (si data convenzionalmente a partire dal 1951, anno del XV centenario del Concilio) in realtà devono essere rivolte al o ai “modelli calcedonesi”. Con ciò si intende non tanto il pronunciamento del Concilio, ma il successivo approfondimento metafisico della categorie di persona e natura, e i modelli medievali con cui è stata pensata l’unione ipostatica. Qui Calcedonia – che voleva essere la regola ermeneutica per una lettura del mistero di Cristo e della sua storia multiforme, in particolare della Pasqua – è diventato il punto di partenza di un approfondimento speculativo dove entrano le diverse sensibilità filosofiche del medioevo, che troveranno un’aspra critica nel concetto moderno di persona, intesa come «centro cosciente di conoscenza e di libertà». La storia del de Verbo incarnato del manuale (ma nella Summa di Tommaso l’approfondimento metafisico è ancora a servizio di una ricca teologia dei misteri della vita di Cristo) ne è una conferma, perché la questione lì trattata è il problema dell’unione ipostatica, discussa a monte del de Christo redemptore, vale a dire della vicenda salvifica di Gesù. Le obiezioni al “modello calcedonese” sono le seguenti:– Calcedonia sarebbe all’origine della perdita del senso della storia di Gesù, dell’attenzione allo svolgimento della storia della salvezza, in particolare della centralità della Pasqua, in quanto avrebbe prodotto una separazione della considerazione del Cristo in sé (l’incarnazione, la sua persona, incentrata sul Natale) dal Cristo per noi (la vicenda di Gesù, la sua missione, incentrata sulla Pasqua).– La seconda obiezione riguarda l’inadeguatezza del linguaggio (natura/persona), di stampo ellenistico, che sembra affermare la differenza delle nature (ma la “natura” divina e umana non si possono mettere sullo stesso piano e non sono confrontabili) a scapito della unità della persona (a meno che questa unità alla fine comporti di affermare una natura umana senza che sia “soggetto” di conoscenza e di libertà). La formula del Concilio sarebbe sbilanciata sulla dualità e su una visione essenzialista delle nature (quella che è stata definita la “logica dei solidi”) che farebbe fatica a pensare veramente la consistenza dell’umano, considerato a monte del suo darsi storico. La concettualità punta sulla “natura” (divina e umana), e non sul tema della libertà, e perciò non riesce a immaginare le due grandezze in reciproca comunione e in diretta proporzionalità.

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– La cristologia di Calcedonia suppone una cristologia dall’alto e misconosce la dimensione storica dell’evento di Gesù, la comprensione della sua vicenda, in particolare senza attenzione alla differenza tra la vicenda terrena e la condizione gloriosa del Cristo.

Le riprese recenti. Queste obiezioni hanno motivato la ripresa della cristologia uscita da Calcedonia. Le riprese sono avvenute in due direzioni: la prima ha precisato il senso dell’intervento magisteriale come strumento ermeneutico della Scrittura e non come sostitutivo della ricchezza storica del dato scritturistico a proposito di Gesù; la seconda ha riletto la Scrittura cercando di mostrare come la affermazioni del Concilio intendessero costituire un criterio guida per dire la verità della storia di Gesù e non una ontologia della persona a prescindere dalla storia. Di qui il ricupero della storia di Gesù come luogo della verità di Dio e la ricerca di un modello teorico corrispondente. E’ su questa strada che si pone l’approfondimento del nostro corso.