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463 STUDI CULTURALI - ANNO X, N. 3, DICEMBRE 2013 Cosa c’è di sbagliato nelle «Immagini delle donne»? di Griselda Pollock CLASSICO Con questo articolo * intendo affrontare quello che considero un divario non an- cora colmato all’interno del movimento delle donne, tra la consapevolezza del ruolo dell’ideologia nella rappresentazione visiva dell’oppressione femminile e il livello di analisi critica e teorica sviluppato da alcune donne coinvolte profes- sionalmente nella questione. La rilevanza politica delle immagini è evidente se si considera la frequenza con cui il titolo fuorviante «Immagini di donne» viene utilizzato sia nella didattica che nei convegni di studi sulle donne. L’analisi teo- rica richiede competenze specifiche e per questo la sua diffusione è limitata a riviste specializzate e piccoli gruppi di studio. Poiché mi sono trovata a lavorare sia nell’ambito della teoria che in quello della didattica, vorrei qui prendere in esame da una parte le difficoltà cui si va incontro se si vuole colmare questo divario senza tenere in conto alcuni importanti problemi teorici, dall’altra vorrei esplorare alcuni di questi problemi senza perdere di vista la loro applicazione pratica nell’insegnamento. Molti degli argomenti che solleverò in questo arti- colo sono stati sviluppati in origine all’interno di un lavoro collettivo di ampio respiro portato avanti da un gruppo di donne, durante il quale abbiamo raccolto immagini e sperimentato diverse situazioni didattiche. I limiti di spazio non mi permetteranno tuttavia di elaborare pienamente alcuni problemi complessi che andrebbero sviluppati in uno studio più articolato sulle donne e le rappresen- tazioni. Ad esempio mi sarà impossibile accennare alle implicazioni dei diversi media visivi e della qualità delle fotografie che saranno usate come illustrazioni delle mie ipotesi. Mi limiterò dunque a sottolineare i punti principali della nostra analisi e a mostrare alcune immagini che abbiamo trovato particolarmente utili nella didattica relativa a questi temi. Nel 1972 un gruppo di donne coinvolte nell’arte e nei media, nella storia dell’arte e nella critica femminista ha dato vita al «Women’s Art History Collective» (Collettivo di donne per la storia dell’arte) con l’intento di produrre un’analisi del * Anche se questo articolo è stato interamente scritto da me, le idee e le ricerche in esso contenuti sono il risultato del lavoro collettivo del Women’s Art History Collective. L’articolo è stato pubblicato la prima volta su «Screen Education» (1977, 23, pp. 25-33).

Cosa c'è di sbagliato nelle "Immagini delle donne" ?

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STUDI CULTURALI - ANNO X, N. 3, DICEMBRE 2013

Cosa c’è di sbagliato nelle «Immagini delle donne»?

di Griselda Pollock

CLASSICO

Con questo articolo* intendo affrontare quello che considero un divario non an-cora colmato all’interno del movimento delle donne, tra la consapevolezza del ruolo dell’ideologia nella rappresentazione visiva dell’oppressione femminile e il livello di analisi critica e teorica sviluppato da alcune donne coinvolte profes-sionalmente nella questione. La rilevanza politica delle immagini è evidente se si considera la frequenza con cui il titolo fuorviante «Immagini di donne» viene utilizzato sia nella didattica che nei convegni di studi sulle donne. L’analisi teo-rica richiede competenze specifiche e per questo la sua diffusione è limitata a riviste specializzate e piccoli gruppi di studio. Poiché mi sono trovata a lavorare sia nell’ambito della teoria che in quello della didattica, vorrei qui prendere in esame da una parte le difficoltà cui si va incontro se si vuole colmare questo divario senza tenere in conto alcuni importanti problemi teorici, dall’altra vorrei esplorare alcuni di questi problemi senza perdere di vista la loro applicazione pratica nell’insegnamento. Molti degli argomenti che solleverò in questo arti-colo sono stati sviluppati in origine all’interno di un lavoro collettivo di ampio respiro portato avanti da un gruppo di donne, durante il quale abbiamo raccolto immagini e sperimentato diverse situazioni didattiche. I limiti di spazio non mi permetteranno tuttavia di elaborare pienamente alcuni problemi complessi che andrebbero sviluppati in uno studio più articolato sulle donne e le rappresen-tazioni. Ad esempio mi sarà impossibile accennare alle implicazioni dei diversi media visivi e della qualità delle fotografie che saranno usate come illustrazioni delle mie ipotesi. Mi limiterò dunque a sottolineare i punti principali della nostra analisi e a mostrare alcune immagini che abbiamo trovato particolarmente utili nella didattica relativa a questi temi.

Nel 1972 un gruppo di donne coinvolte nell’arte e nei media, nella storia dell’arte e nella critica femminista ha dato vita al «Women’s Art History Collective» (Collettivo di donne per la storia dell’arte) con l’intento di produrre un’analisi del

* Anche se questo articolo è stato interamente scritto da me, le idee e le ricerche in esso contenuti sono il risultato del lavoro collettivo del Women’s Art History Collective. L’articolo è stato pubblicato la prima volta su «Screen Education» (1977, 23, pp. 25-33).

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ruolo delle donne all’interno e in relazione alla storia dell’arte e delle rappresenta-zioni. Il nostro punto di partenza era innanzitutto legato al fatto che la questione aveva per noi una rilevanza diretta, sia rispetto a noi stesse che al nostro lavoro in quanto parte del movimento femminista; in secondo luogo, il collettivo era una risposta alla bibliografia ancora limitata sul tema, ad esempio Ways of Seeing di John Berger (1972) e alcune pubblicazioni americane tra le quali figuravano i lavori di studiose femministe come Hess e Baker, Art and Sexual Politics (1971) e Hess e Nochlin, Woman as Sex Object (1973), insieme a una serie di documenti pubblicati in riviste d’arte, in particolare nel «Feminist Art Journal». Questa lettera-tura metteva in evidenza una serie di problemi importanti ma in generale non era molto rigorosa sul piano teorico, né particolarmente utile da questo punto di vista. Un terzo aspetto che ci aveva influenzato era il tentativo, da parte di alcune artiste femministe, di dare vita a immagini delle donne da loro considerate alternative e positive; nonostante la sua importanza sul piano della solidarietà politica, questo tentativo in realtà evidenziava l’impossibilità di mettere in questione le immagini esistenti senza un’adeguata teoria dell’ideologia e della rappresentazione.

Tra tutti i temi con cui si è confrontato il Collettivo donne storia dell’arte, quello relativo alle «Immagini delle donne» si è dimostrato essere il più difficile da elaborare e il più resistente a una teoria o a una pratica soddisfacenti. Credo che il problema possa essere analizzato su quattro diversi fronti: la confusione e la mistificazione del problema create dalla formula «Immagini delle donne»; la rela-zione problematica e ancora indefinita tra la cosiddetta cultura alta e i mass-media o la cultura popolare; l’assenza di un’elaborazione teorica sul significato di termini come sessista, patriarcale o borghese quando applicati alle immagini; infine quali siano le pratiche che possiamo indicare per contestare l’ideologia dominante e intraprendere una critica radicale capace di trasformare le rappresentazioni visive.

La prima difficoltà emerge nel momento stesso in cui l’area di indagine viene definita «Immagini delle donne». Questa espressione presuppone l’accostamento di due elementi che si danno come separati: da una parte le donne in quanto gruppo sociale o di genere, dall’altra la rappresentazione delle donne, ovvero da una parte un’entità reale, le donne, dall’altra delle immagini false, distorte o maschili. È errore comune considerare le immagini come un semplice riflesso, positivo o negativo, e paragonare immagini «cattive» (le fotografie delle riviste patinate, le pubblicità di moda etc.) e immagini «buone» delle donne (fotografie «realistiche» di donne al lavoro, casalinghe, donne anziane etc.). Questa concezio-ne, che possiamo riassumere con l’espressione «Immagini di donne», deve essere contestata e sostituita da una nozione di «donna» come significante all’interno di un discorso ideologico. In questa prospettiva diventa possibile identificare i signi-ficati attribuiti alla donna nelle diverse immagini e i modi in cui questi vengono costruiti in rapporto ad altri significanti prodotti dallo stesso discorso. Dunque invece di paragonare diversi tipi di immagini di donne, è necessario studiare i

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contenuti a cui rimandano le donne nelle immagini, ad esempio in rapporto a quelli veicolati dagli uomini. Un utile stratagemma per cominciare questo tipo di analisi è il ricorso all’inversione tra maschile e femminile.

Nel 1973, la rivista «Women’s Report» (vol. 1, n° 6) pubblicò l’immagine allora utilizzata dalla Bayer per pubblicizzare le Sette Età dell’Uomo, cambiando però il modello da femminile a maschile (figg. 1 e 2).

FIG. 1. Pubblicità Bayer per le «sette età dell’uomo». FIG. 2. Pubblicità Bayer ripresa da «Women’s Report»

Nella nuova versione un giovane assume esattamente la stessa posa della ragazza adolescente rappresentata nella versione originale, mentre nel testo i pronomi sono stati maschilizzati :

L’adolescenza – il momento delle esitazioni. Dubbi sul ruolo offerto dai genitori nella costruzione di una vita. Corpo e mente soggetti alla tirannia degli ormoni. Gioventù sotto stress alla ricerca di un’identità.

B… è qui per aiutarlo in questo periodo di ricerca di sé. Con fibre tessili e coloranti per i vestiti alla moda che egli ha bisogno di indossare … Con ingredienti naturali per i cosmetici che gli sono necessari per creare la propria personalità. E anche rimedi semplici. Come l’aspirina… per alleviargli il dolore che proverà.

La pubblicità faceva parte di una serie di sette, ma era l’unica in cui veniva rappresentata una figura femminile, e anche l’unica con un nudo. L’inversione serve inizialmente a produrre un effetto straniante rispetto all’immagine originale, nella quale la femminilità e la nudità sono completamente rimosse. Il contrasto tra le due immagini svela lo scarto esistente tra il modello e la nudità nella misura

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in cui nell’originale i contorni sfumati e gli angoli indistinti rendono l’immagine tutt’uno con la materialità della fotografia, mentre nella seconda versione il mo-dello è fotografato in modo che il corpo sia messo a fuoco più distintamente, con una luce intensa che ne evidenzia la nudità. L’idea della donna come corpo, resa dunque esplicita nella fotografia, è rafforzata dal testo che accompagna la pubbli-cità. Nel cambiare il pronome femminile con quello maschile, il significato diventa meno automatico, appare denaturalizzato, si crea una distanza tra il significante e il significato che rende visibile sia l’idea di femminile come soggetto e processo corporeo che il modo in cui una serie di prodotti agiscono sul corpo, in modo da completare lo sbocciare di una creatura rappresentata come un germoglio.

FIG. 3. Pubblicità dei jeans Lee FIG. 4. Pubblicità dei jeans Levi’s

Il paragone tra due altre pubblicità (figg. 3 e 4), scelte casualmente tra le migliaia che ci aggrediscono ogni giorno, attesta ulteriormente della densità dei significati attribuiti al nudo femminile.

Guardando le due immagini ciò che colpisce è innanzitutto la relativa com-plessità della pubblicità per i jeans Lee e la sorprendente semplicità di quella della Levi’s. Per rendere chiaro il suo messaggio, la pubblicità della Lee deve ricorrere a un’ambientazione nelle pianure selvagge e a una serie di attributi che rendano sufficientemente esplicito il modo in cui i jeans Lee trasformano l’uomo. Anche se questa pubblicità può apparire grottesca, essa chiarisce tuttavia il fatto che per creare un’immagine di desiderabilità del jeans attraverso un modello maschile, è necessaria una certa ridondanza. La pubblicità della Levi’s è completamente diversa – si limita a offrire il suo prodotto alla vendita. Il fatto che questo sia pos-sibile semplicemente sovrapponendo il marchio all’immagine di una porzione

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di corpo femminile nudo dipende dall’identificazione tra il femminile e l’atto di vendere. Questo tipo di immagine viene comunemente criticata per condannare la mercificazione del corpo della donna. Tuttavia l’uso del corpo femminile qui non è né arbitrario né strumentale, infatti una ricerca sulle trasformazioni del nudo femminile nelle rappresentazioni mostra come il corpo della donna sia venuto a significare il vendere. Non è possibile qui introdurre il materiale illustrativo necessario che mi consentirebbe di sviluppare questo punto, vorrei tuttavia so-stenere, con il rischio di apparire eccessivamente speculativa, che quello che ci impedisce di vedere l’immagine pubblicitaria di una bottiglia di sherry o di una macchina come una natura morta – con tutto il corollario di significati veicolati da una tradizione pittorica – e che ne indica invece lo status di merce, è precisamente la presenza della donna, in virtù di ciò che essa introduce nell’immagine1.

Il secondo punto sollevato precedentemente risulta particolarmente impor-tante nell’elaborare questa ipotesi: mi riferisco all’esistenza di una relazione attiva tra il vocabolario visivo dell’arte, che gli storici dell’arte preferiscono chiamare le tradizioni iconografiche, e i mass-media. John Berger ha già formulato alcune osservazioni sui modi in cui le pubblicità «prendono in prestito» le loro imma-gini dalla storia della pittura, mostrando alcuni esempi di pubblicità che citano direttamente i dipinti antichi. Le conseguenze di questa pratica vanno ben oltre la questione della citazione, come Berger afferma:

Tuttavia la continuità tra pittura a olio e pubblicità va ben più in profondità della semplice «citazione» di specifici dipinti. La pubblicità si basa in larga misura sul linguaggio della pittura a olio. Parla con la stessa voce delle medesime cose. Talora le corrispondenze visive sono così strette che ci si potrebbe giocare mettendo fianco a fianco immagini e particolari di imma-gini pressoché identici. … La continuità, tuttavia, non è importante solo a livello di esatta corrispondenza pittorica: è importante sul piano degli insiemi di segni utilizzati (Berger 1972, 139-140).

Il ragionamento di Berger ha il merito principale di svelare i risvolti ideolo-gici solitamente rimossi dall’ambito artistico. Tuttavia la sua dichiarazione finale può essere ulteriormente sviluppata e la sua argomentazione, in un certo senso, ribaltata. Affidandoci di nuovo agli effetti dell’inversione, potremmo citare un esempio tratto dai tentativi mal riusciti di alcune riviste di proporre immagini erotiche di uomini, ad esempio una fotografia pubblicata sulla rivista «Viva», in cui vediamo un uomo nudo che cammina attraverso i boschi (fig. 5).

1 Questa nozione deve essere argomentata con tutte le cautele necessarie nel quadro dello sviluppo storico dell’arte borghese e, cosa ancora più importante, attraverso uno studio articolato delle trasforma-zioni delle rappresentazioni stesse. Un’argomentazione verbale o puramente teorica risulterebbe infatti del tutto inadeguata. Tuttavia, data l’importanza di questo punto, posso soltanto suggerire a tutte le persone interessate di aspettare la pubblicazione del libro che ho scritto insieme a Roszika Parker (Parker e Pollock 1981), Old Mistresses. Women, Art, and Ideology.

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FIG. 5. Fotografia dalla rivista «Viva».

La fotografia presenta degli elementi di similitudine con la pubblicità per i jeans Lee (fig. 3): la figura maschile non si trova isolata in un ambiente insignifi-cante ma è collocata in una radura boscosa e in corrispondenza di un animale. La testa di un cavallo è infatti posizionata in modo tale da evocare una forma fallica e richiamare al contempo l’associazione tra il cavallo e la virilità legata a tradizioni iconografiche antiche e durature. Nel tentativo di costruire un’immagine erotica maschile, questa fotografia mette in evidenza la difficoltà di invertire l’immagi-nario erotico e rivela inoltre la sua dipendenza dalle immagini dell’arte europea, nella misura in cui questa fotografia non è altro che una parafrasi dell’«Apollo del Belvedere».

Si può leggere questa immagine in molti modi per dimostrare che non è assimilabile alle fotografie di donne che si trovano nelle riviste per uomini. La figura qui rappresentata è attiva, controllata, non entra in contatto con lo sguardo della spettatrice la cui posizione ipotetica può soltanto essere quella della ninfa dei boschi, che riesce a carpire un attimo fuggevole di questo dio silvano attraverso i cespugli che si vedono indistintamente in primo piano. La fotografia è costruita in modo tale che è impossibile per la spettatrice esercitare una qualche forma di possesso su ciò che osserva. Inoltre, l’immagine porta con sé le contraddizioni inerenti all’uso del modello antico dell’ «Apollo del Belvedere», visibili in particolare nella forte disgiunzione tra la testa e il corpo e nella strana relazione che si viene a determinare tra la testa del cavallo, dalla forma quasi fallica, e i genitali dell’uomo,

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virtualmente nascosti dalle redini. Tutto quello che può essere significato dalla figura maschile è perciò ridotto alla specificità storica del segno «uomo» all’interno dell’ideologia patriarcale che, a livello di pre-presentazioni, esiste sincronicamente grazie alla crescita dei settori dell’editoria d’arte, alla produzione di libri di divul-gazione, e da serie televisive come l’ormai celebre «Civilisation».

Un ulteriore aspetto di questo processo, ancora più pericoloso, è apparso recentemente ancora una volta nelle pagine di una rivista erotica. Nel movimento delle donne si sono diffusi importanti tentativi di decolonizzare il corpo femmi-nile, in particolare attraverso l’appropriazione della donna come corpo nelle sue varie rappresentazioni. Questa tendenza però si muove sul filo tra sovversione e riappropriazione, e spesso finisce con il consolidarne il significato invece di scardinarlo. Molti di questi tentativi si sono concentrati su un certo tipo di imma-gine del corpo e su rappresentazioni positive della sessualità femminile attraverso raffigurazioni celebratorie dei genitali femminili.

Un recente episodio relativo a un’opera di Suzanne Santoro (fig. 6), un libretto contenente delle immagini vaginali, attesta dei rischi connessi a queste iniziative. In seguito ad alcune proteste, l’Arts Council ha deciso di censurare quest’opera e di rimuoverla da una mostra itinerante sul libro d’artista adducendo come motivazione l’indecenza e l’oscenità delle immagini.

FIG. 6. Libretto censurato di Suzanne Santoro. Per una espressione nuova, Rivolta Femminile, 19742.

2 Per gentile concessione di Suzanne Santoro.

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Tuttavia è evidente come il potenziale di radicalità di questo tipo di imma-gini femministe possa essere facilmente recuperato. Se infatti guardiamo al di là dell’ideologia piccolo borghese delle istituzioni artistiche, per interessarci a più importanti vettori di diffusione dell’immaginario patriarcale borghese, possiamo osservare uno sviluppo fortemente allarmante proprio nelle riviste erotiche a grande tiratura.

Nelle pagine di un recente numero di «Penthouse» (vol. 12, n° 3) l’immagina-rio vaginale è rappresentato in tutta la sua forza e glamour decorativo, affrancato dalla leziosità tipica delle sollecitazioni sessuali di tali riviste (fig. 7).

FIG. 7. Foto tratta da «Penthouse»

Il carattere diretto di queste immagini mette radicalmente alla prova le analisi di stampo psicanalitico intraprese da Laura Mulvey e Claire Johnston sulle immagini della donna, in particolare rispetto ai concetti di angoscia di castrazione e di donna fallica. In un certo senso esiste una somiglianza tra queste immagini e quelle, maschili, illustrate poco fa, in particolare per via dell’assenza di contat-to tra la modella e lo spettatore e la sensazione di autosufficienza, sottolineata nelle pagine di «Penthouse» dal fatto che queste donne sono spesso intente a

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masturbarsi. La relazione tra lo spettatore-acquirente e l’immagine della donna creata in queste fotografie suggerisce l’intrusione forzata o anche un voyeurismo possessivo che è quasi un invito allo stupro. Se non posso fare altro che rimarca-re l’insufficienza delle teorie esistenti per analizzare questi sviluppi, vorrei però ipotizzare l’esistenza di un nesso diretto tra le rappresentazioni artistiche di ini-ziativa femminista e il mercato di massa delle riviste erotiche. In particolare vorrei sostenere l’assoluta inadeguatezza dell’idea, corrente all’interno del movimento delle donne, che le artiste possano creare un’iconografia alternativa e al di fuori delle forme ideologiche esistenti; infatti non soltanto l’immaginario vaginale è recuperabile, ma lo è in un modo che finisce per evidenziare le più bieche con-seguenze della differenza sessuale nelle rappresentazioni ideologiche. Bisogna tuttavia riconoscere che alcune critiche femministe sono consapevoli di questi pericoli, come ad esempio Lucy Lippard che nel saggio sulla Body Art contenuto nel libro From the Center, scrive: «c’è un sottile abisso tra l’uso maschile delle donne come stimolo sessuale e l’uso che ne fanno le donne stesse per esporre quell’insulto» (Lippard 1976, 125).

Ciò nonostante il commento di Lippard rivela una certa incapacità di met-tere a fuoco i meccanismi che determinano questo processo (quell’abisso non così sottile) e serve a illustrare il mio terzo punto che riguarda l’assenza di una chiara definizione del sistema ideologico all’interno del quale viene prodotto e perpetuato il significato della donna. Le nozioni di ideologia patriarcale legate alle teorie di stampo psicanalitico sono a loro modo inadeguate e storicamente insufficienti nella misura in cui il problema deve essere individuato all’interno delle ideologie capitaliste e borghesi, in quanto, come già indicato, uno dei significati principali della donna è proprio quello del vendere e della merce. La trasforma-zione evidente nelle pagine di «Penthouse» è la sostituzione di una transazione consenziente con qualcosa che somiglia a un furto.

Come conclusione vorrei proporre un ultimo insieme di immagini rovesciate che, nell’ambito del Collettivo donne storia dell’arte, sono sembrate particolarmen-te utili per indicare una serie di problemi. Nel suo saggio «Eroticism and Female Imagery in Nineteenth Century Art» (Hess e Nochlin 1973, 9-15), Linda Nochlin ha pubblicato una stampa erotica ottocentesca intitolata «Achetez des Pommes» (fig. 8) e l’ha affiancata a una fotografia di un uomo (fig. 9) a cui ha chiesto di mettersi in posa con un vassoio di banane.

La reazione abituale a questo paragone è la risata, una risposta imbarazza-ta davanti al riconoscimento di qualcosa che diamo per scontato nelle stampe dell’Ottocento, e che può anche sfociare in qualche commento sulla loro natura «sessista». Tuttavia questo sessismo è così naturalizzato che risulta difficile isolarne precisamente i risvolti ideologici. Ovviamente Nochlin vuole sottolineare come la solida tradizione iconografica che associa i seni e i genitali femminili alla frutta abbia l’effetto di rendere del tutto ovvia la visione di un seno più o meno nasco-

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sto in un vassoio di frutta, con l’implicita commerciabilità di entrambi, mentre un tale precedente non esiste per quanto riguarda l’analoga associazione tra il pene e le banane. Tuttavia ciò che è ancora più importante in questo raffronto, è precisamente il fatto che l’inversione tra le due immagini non funziona3. È evidente che un uomo barbuto con un’espressione ridicola, in calzini di lana e mocassini, suggerisce qualcosa di molto diverso rispetto al lieve sorriso di una donna che indossa calze e stivali neri. E questo non soltanto perché non esiste una tradizione di immagini erotiche rivolte alle donne, ma piuttosto per via del particolare significato della donna, che rimanda al corpo e al sesso. C’è infatti un’asimmetria di base, inscritta nel linguaggio della rappresentazione visiva, che questo tipo di inversione permette di svelare. L’impossibilità di un ribaltamento effettivo mostra anche la mistificazione che consiste nel volere isolare «Immagini delle donne» al di fuori di un discorso globale che attribuisce un significato al maschile e al femminile fondato sulla differenza e sull’asimmetria.

FIG. 8. Stampa erotica ottocentesca FIG. 9. Fotografia di uomo con vassoio di banane (foto di Linda Nochlin)

Nochlin cita anche un’opera d’arte realizzata nell’epoca della stampa: il quadro «Due donne tahitiane con fiori di mango» dipinto da Gauguin nel 1899 (New York, Metropolitan Museum of Art) in cui osserviamo una simile configu-razione di seni, fiori e frutti all’interno dell’ambiente idilliaco dell’Oceania non industrializzata e pre-capitalista, dove tutto è libero e naturale.

3 Nochlin non riconosce il fallimento del paragone né tenta di includere altre immagini comparabili dal punto di vista dei metodi fotografici che usa.

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Il paragone indica non soltanto le connessioni ideologiche tra l’arte e le stampe popolari, ma esige una reintegrazione in un tipo di studi culturali che non privilegino acriticamente le forme di massa rispetto a ciò che spesso ne costituisce invece la fonte nelle manifestazioni della cultura alta. Questo paragone rivela infine l’urgenza di liberare i discorsi della storia dell’arte da pratiche recenti che tengono a distanza la critica radicale e l’analisi teorica.

Un ultimo esempio può rivelarsi utile per affrontare il quarto punto sollevato più in alto che riguarda la natura della pratica attraverso cui è possibile rendere visibile e scardinare l’ideologia che permea le rappresentazioni. L’«Autoritratto» di Paula Modersohn-Becker è stato dipinto a cavallo tra Otto e Novecento in uno stile fortemente influenzato dai dipinti di Gauguin a Tahiti.

Tuttavia la combinazione tra questo precedente e il tentativo di autorap-presentarsi mette in evidenza le contraddizioni in cui si trovano le donne che intendono ritrarre se stesse. La tensione risiede tra la naturalità dell’immagine della donna come nudo e l’artificiosità del ritratto dell’artista donna da giovane. Due diverse tradizioni si scontrano in questo dipinto e il risultato è un’immagine che non funziona né come nudo, perché c’è troppa padronanza di sé, né come affermazione di un’artista, in quanto il dipinto suggerisce la natura, non la cultu-ra. Il quadro deve essere considerato come un fallimento non solo perché non esisteva all’epoca una tradizione iconografica alternativa (anche perché questo presuppone la possibilità stessa di crearne una), ma piuttosto, vorrei sostenere, per via dell’inseparabilità tra significante e significato. La nozione di «Immagini di donne» corrisponde esattamente al tentativo fallimentare di operare questa falsa separazione, ed è proprio per questo che risulta inevitabilmente mistificatoria e i tentativi di studiarla si rivelano così difficili. Questa nozione deve dunque essere abbandonata se vogliamo rendere visibili i ruoli del significante donna all’interno delle rappresentazioni. Allo stesso tempo, è necessario lasciare da parte l’idea che le varie manifestazioni di queste pratiche significanti si diano come separate tra di loro: ogni intervento nella teoria e nella pratica deve fondarsi su una solida analisi storica del modus operandi dell’ideologia e dei codici della rappresentazione nelle loro specificità, che tenga in conto i sistemi interrelati attraverso i quali l’ideologia viene perpetuata e riprodotta. È precisamente qui che si apre quel divario, menzio-nato nelle prime frasi di questo articolo, tra la rilevanza diretta di questa impresa per le donne che tentano di affrontare quell’ideologia che noi donne subiamo e che cerchiamo di sfidare, e il tipo di analisi necessaria per svelarne i meccani-smi e scardinarla. Questo articolo ha sottolineato soltanto alcuni nei processi e degli esempi che possono risultare utili per introdurre questo tema agli studenti.

Traduzione dall’inglese di Giovanna Zapperi

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Bibliografia

Berger, J. (1972) Questione di sguardi. Sette inviti al vedere tra storia dell’arte e quotidianità, trad. it. Milano, Il Saggiatore, 1998.

Hess, T. B. e Baker, E. C. (1971) Art and Sexual Politics, New York, Collier. Hess, T. B. e Nochlin, L. (1973) Woman as Sex Object, London, Allen Lane. Lippard, L. (1976) From the Center: Feminist Essays on Women’s Art, New York, Dutton.Parker, R. e Pollock, G. (1981) Old Mistresses. Women, Art, and Ideology, London, Routledge

& Kegan Paul.