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articolo pubblicato su "aut aut", 325, 2005.
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Con Thomas Bernhard nella direzione opposta* PIER ALDO ROVATTI
1. Commedia e tragedia, da una parte e dall’altra
Nel 1981, in una delle rare interviste, alla domanda “ma lei, con quello che scrive, intende
anche far ridere la gente, almeno qualche volta?”, Thomas Bernhard risponde
Io ho sempre descritto situazioni comiche. In realtà a ogni istante c’è molto da ridere.
Ma non so, la gente non ha alcun senso dell’umorismo, o mi sbaglio? A me ha sempre
fatto ridere. Quando mi annoio, o vivo un periodo in un certo senso tragico, apro uno dei
miei libri: è ancora la cosa che più facilmente mi fa ridere. Non capisce perché sia così?
Questo non vuol dire che non abbia scritto, tra le altre, anche delle frasi serie, per tenere
insieme le facezie. È lo stucco. Il serio è lo stucco per il programma faceto.
Naturalmente si può anche dire che il mio sia un programma filosofico faceto che in
qualche modo ho avviato vent’anni fa, quando ho iniziato a scrivere.1
Dobbiamo prenderlo sul serio? Bernhard che ride come un matto leggendo Kant o pensando
al barboncino di Schopenhauer, che sghignazza su Heidegger e sui suoi nipotini? Mentre,
bambino, aspetta che ancora una volta la nonna si scotti con la piastra della stufa? O che si
scompiscia dal ridere quando il fratello, appena partorito, è sdraiato dalla levatrice sul tavolo
di casa, gli piscia in faccia e anzi in bocca (aperta per la cosiddetta gioia o emozione della
nascita)?
E se fosse, invece, il ghigno di un detrattore ormai cronico della vita e di ogni sua
eventuale e relativa gioia? Il ridere reattivo e alquanto sadico di chi sa, o pensa di aver capito,
che tutto ciò che facciamo e diciamo è destinato a incanalarsi in un deflusso nauseante, e
perciò delizioso, giù per lo scarico della nostra risibile e derisoria esistenza? Un riso non
buono, anzi abbastanza maligno, coltivato e goduto da una posizione un po’ nascosta, e da un
osservatore sufficientemente distante, a lato o dietro gli eventi e in definitiva fuori di essi e
con ciò stesso anche sopra di essi? La stessa risposta all’intervistatrice, di cui ho qui trascritto
* Pubblicato su “aut aut”, 325, 2005, pp. 78-87. 1 Th. Bernhard, “Monologhi a Maiorca” (1981), in Un incontro. Conversazioni con Krista Fleischmann (1991), trad. di A. Rovagnati, a cura di L. Reitani, SE, Milano 2003, p. 26.
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una parte, potrebbe essere qualcosa come un ghigno provocatorio che indossa la maschera
dell’amabile presa in giro.
O tutti e due?
Mi chiedo perché, leggendo Bernhard, facendomi prendere dalla sua scrittura, e dunque
entrando in consonanza con questa scrittura (mentre so che ad altri procura fastidio), non mi
sono mai rattristato e anzi mi sono sempre divertito e perfino alle volte ho riso da solo. Se le
tragedie di Bernhard hanno un effetto comico, come si giocano precisamente nella sua pagina
tragedia e commedia? Si possono fare diverse ipotesi, ma già ne abbiamo fatta una, forse la
più importante, nel momento in cui ci avviamo per questa strada: per lui tragedia e commedia
stanno dalla stessa parte anziché affrontarsi l’una l’altra. Ma cosa significa “stare dalla stessa
parte”? Intanto, vuol dire che dall’altra parte stanno o la tragedia o la commedia: quest’“altra”
parte non è poi affatto la parte opposta, ma è la parte più comune, la parte della normalità,
quella che abitualmente e automaticamente tutti recitiamo quando ci incupiamo, per esempio,
di fronte alla malattia o alla morte, o quando ridiamo dei clown che riempiono ogni giorno i
buchi della nostra esistenza. La parte che invece ci addita Bernhard sta effettivamente
dall’altra parte rispetto alla routine di una vita in abbonamento, perché lì la tragedia e la
commedia stanno dalla stessa parte.
Bernhard ci invita ad andare con lui nella direzione opposta. Non solo ci fa fare un
iperrealistico zoom nei confronti delle cose e delle parole, dove le cose – anche le più terribili,
anche le più grandi – si deformano quanto più ci avviciniamo a esse ignorando le distanze di
sicurezza, e le parole vengono a loro volta sformate circuitandole, ripetendole, in un giro di
parole che si avvia, e forse potrebbe non interrompersi, se non ci fermiamo dove di solito
sembra conveniente arrestarsi. Abbiamo così un effetto grottesco, uno sbilanciamento comico
anche di ciò che appare più tragico o più terribilmente serio.
È un procedimento ampiamente documentabile nei romanzi di Bernhard, e forse è il
segreto della sua passione per la ripetizione, per esempio la ripetizione per i nomi propri, e
anche dell’evidenziazione continua di termini e formule linguistiche prelevate dal discorso di
qualcuno e isolate nella pagina che stiamo leggendo. Nessuna ossessione, come amano dire
molti suoi critici per allontanare il problema, che in tal modo, invece, si avvicina e reclama di
essere visto. Ma la natura e il senso di questo problema si spingono oltre la dinamica del
grottesco, la quale – mi sembra – ci dice ancora troppo poco della scrittura/pensiero di
Bernhard. La deformazione grottesca annienta l’aura delle cose e delle parole: avviciniamoci
il più possibile, resistiamo all’avvicinamento più di quanto siamo soliti resistere, ed ecco le
cose sgretolarsi in frammenti sprovvisti di valore e le parole afflosciarsi del loro presunto
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carico di senso, eccoci entrati in uno scenario squallido e ignobile, dozzinale e vuoto. Ma è
così? È solo così? È soprattutto questo che accade in Bernhard?
Pensiamo alla Wolfsegg di Estinzione. Una macchina distruttiva poderosa frantuma
questo paese “patria”, e con esso un intero mondo di gesti, immagini, persone e parole, prima
da lontano, non appena il protagonista ha ricevuto il telegramma che notifica il tragico
incidente mortale, poi da vicino, nel suo progressivo avvicinamento al funerale e quindi al
luogo stesso. L’esempio di Wolfsegg può valere come test del rapporto tra Bernhard e
l’“odiata” Austria. Ma non è una vera distruzione, poiché nell’immenso processo distruttivo,
che inizia mettendo di fronte a sé (e accanto al telegramma appena ricevuto) alcune foto di
famiglia, una famiglia adesso quasi completamente estinta, il protagonista di Estinzione non
distrugge mai davvero né la propria storia né la propria provenienza. Nella pur radicale
distruzione qualcosa si salva perché in realtà si innesta un gioco che ogni volta è doppio e da
cui si produce un’oscillazione costante nella scrittura e quindi anche nella descrizione degli
eventi, un’ininterrotta andata e ritorno, un dentro che si rovescia, anche con violenza, e talora
con un gesto di terribile violenza iconoclasta, nel fuori del grottesco e del dozzinale, ma che
poi si ripiega da questo fuori, all’apparenza così perentorio, di nuovo in un dentro che risulta
ancora e ogni volta abitabile e perfino desiderabile. Come se l’estinzione non fosse affatto
solo una soppressione o una totale cancellazione ma consistesse proprio in questo movimento
di incessante oscillazione, che riprende e realizza una volta di più il gesto tipico della scrittura
e del pensiero di Bernhard: “da una parte e dall’altra”. Gesto che trova nella lucida follia del
principe in Perturbamento il suo primo grande teatro.
Se andiamo con Bernhard nella direzione opposta (come dice di se stesso adolescente in
uno dei tasselli dell’autobiografia, La cantina) ci lasciamo alle spalle la logica comune
dell’opposizione, o tragedia o commedia, o lamento o pathos ghignante, o riso superficiale o
riso grottesco, ed entriamo invece in una logica paradossale, conosciuta e praticata dalla
minoranza più pensante del pensiero contemporaneo, in cui gli opposti stanno dalla stessa
parte e paradossalmente non si oppongono più: non sono più fermi uno di fronte all’altro ma
si combinano in un movimento che assomiglia a quello di un pendolo, o di una medaglia
mobile in cui il recto e il verso si alternano in rapida e perfino rapidissima intermittenza
dandosi il cambio, con il risultato che non c’è più, per così dire, né recto né verso, e neanche
un prima o un poi, come se ora entrambe le facce potessero comparire contemporaneamente
pure dentro un’inevitabile successione. Ogni volta la tragedia si gira rapidamente in una
commedia, ogni volta la commedia convive con una tragedia. Andando nella direzione
opposta, bisognerà ogni volta ricominciare ad andare nella direzione opposta per trovare,
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insieme, la commedia e la tragedia. Si verifica così, come si vede, una specie di sospensione
che deforma il normale flusso temporale, accorciandolo e comprimendolo in un processo che
resta sempre solo tendenziale senza mai realizzarsi.
Riflettiamo un momento su questa impossibilità di andare davvero e definitivamente
nella direzione opposta. Ecco la lucida follia di Bernhard. Espressione certo non inadeguata,
ma ancora sfuggente, elusiva. Occorrerà pure far questione di questa follia, magari solo per
chiedersi se è cattiva o buona, faceta o tragica, costruttiva o devastante. È una domanda che ci
sale sulle labbra: alla quale, se andiamo con Bernhard nella direzione opposta, dovremo
rispondere cercando di smontarla per farla esplodere proprio come domanda. Da una parte e
dall’altra. Ecco più precisamente la cosiddetta follia di Bernhard, che pencola continuamente
ora da una parte ora dall’altra con una instabilità che ci dice appunto che la follia non è uno
stare ma un oscillare, è il pendolare stesso. Per cui possiamo anche dire che ogni romanzo, e
perfino quasi ogni pagina di Bernhard, e certo ogni personaggio compreso il personaggio
Bernhard dei volumi autobiografici, è insieme devastante e costruttivo, è tragico ma nello
stesso momento comico.
Dobbiamo, però, aggiungere qualcosa che viene a complicare questa logica paradossale,
ma che forse semplifica la descrizione possibile dell’esperienza che facciamo leggendo
Bernhard. Questo gioco, che fa giocare la tragedia e la commedia avvitandole su se stesse e
deformandole in se stesse, poiché si svolge provocatoriamente nella direzione che si oppone
alla direzione normale della nostra routine (visiva, percettiva in senso lato, emotiva,
psicologica, e anche filosofica), viene subito scambiato o tradotto in un nuovo scenario
esistenziale gravato dalla serietà che tutti automaticamente attribuiamo a un esistere come
percorso di sofferenza e infine come tunnel senza uscita. Questo gioco viene subito
derubricato o sublimato in qualcosa di terribilmente serio che non ha più nulla a che fare con
il gioco. Nella traduzione istantanea che ne diamo, la dimensione comica viene svalutata e
svuotata, e l’oscillazione folle o paradossale diventa semplicemente l’inquietudine di
Bernhard, il dilemma di Bernhard, il suo brancolare, uno spirito greve e magari malato che
proprio per questo ci attira. Al prezzo, tuttavia, di una cancellazione: infatti rendiamo così
inattiva e nulla la dimensione comica, della quale di solito non ci compiaciamo e che perciò
mettiamo al margine o consideriamo alla stregua di un eccipiente, e che comunque ogni volta
tendiamo a ridurre a un ghigno grottesco affratellato all’inquietudine di esistere di un autore
alquanto fuori dalle righe.
La mia ipotesi è che Bernhard tenga assolutamente conto di questa abituale macchina
psicologica, e sappia benissimo che, mentre lui se la ride leggendo le proprie pagine, il lettore
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lo sta prendendo molto sul serio e applica a ogni sua pagina una reattività psicologica che
tende a disinnescare l’oscillazione paradossale. È come se Bernhard fosse perfettamente
consapevole che il lettore non è in cammino verso la direzione opposta, ma rincula
continuamente nella tonalità tragica abituale. L’insistenza sulla tonalità comica potrebbe,
allora, essere un contrappeso, una funzione di bilanciamento, lo spostamento voluto della
gravità verso uno svuotamento relativo della tregedia, la sua necessaria compensazione. Forse
per questo Bernhard chiama la sua operazione di scrittura una “filosofia faceta”, proprio per
introdurre uno squilibrio nello squilibrio. Se l’oscillazione tra tragico e comico e la follia di
questa logica paradossale trovano un ascolto stereotipato che assorbe di preferenza la
dimensione drammatica isolandola, allora, ogni volta, Bernhard cerca di ripristinare
l’oscillazione colpendo questo ascolto stereotipato con uno spiazzamento comico,
evidenziando il lato ridicolo delle situazioni insensate in cui conduce il lettore, creando così
uno spazio al riso proprio laddove lo stucco della serietà sembra dover invadere la scena e
ulteriormente solidificarsi in un rigore tragico.
Così, andando nella direzione opposta, incontreremo qualcosa – qualcosa che appartiene
alla scrittura stessa di Bernhard – che ci risveglia da qualunque sogno stucchevole (e da ogni
compiacimento tragico) e che ci avvisa, con evidenza, che quella scena patetica, e perfino
atroce nella sua drammaticità, altro non è che una scena, un teatro o piuttosto un teatrino,
attraversabile da parte a parte dalla comicità e perciò anche risibile. La grandezza, per dir
così, di Bernhard, il suo speciale talento, o soltanto la sua sensibilità, consiste nel far filare il
racconto, che sempre si presenta come un resoconto o come la registrazione incrociata di voci
e di citazioni – cosa che già ne attenua l’impatto veritativo –, verso situazioni sempre più
atroci e insostenibili, producendo nello stesso tempo da parte del lettore l’insostenibilità di un
tono alto e drammatico. Più la situazione si fa atroce tanto più Bernhard accentua, attraverso il
suo linguaggio, gli elementi comici come se le cose, una volta che abbiamo spinto al massimo
il nostro avvicinamento a esse, si rivelassero così ridicolmente prive di senso da provocare un
sorriso e perfino una risata.
Vedremo, tra poco, uno degli innumerevoli esempi (quello comunque che mi ha colpito
di più), la scena delle marionette in Il respiro. Ma ora, a riprova delle ultime considerazioni
che ho introdotto, fermiamoci ancora un istante sulla cosiddetta follia. Se diciamo la follia di
Bernhard, o la follia di andare nella direzione opposta, o la follia di questa paradossale
oscillazione, ci serviamo di una parola che abitualmente, più che aprire, chiude. La parola
“follia” è subito caricata di mille pesi: non solo ci immaginiamo i folli (con i loro tratti) ma ci
predisponiamo a un ascolto non giocoso, anzi completamente serio, tanto più serio quanto più
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sospettiamo che, prima o poi, in un qualche modo, per qualche aspetto, ne vada anche di noi
stessi. Come se espungessimo da questa parola ogni aspetto comico. Bernhard vuole andare
esattamente nella direzione opposta per tentare di mostrarci che la follia del suo oscillare,
quanto più è folle, tanto più rivela un volto comico. Come se la sua fosse – appunto
paradossalmente – una follia faceta.
2. L’esempio del “trapassatoio”
Come tutti sanno, la fama di Bernhard, nel senso ambivalente che questa parola ha in origine,
è passata attraverso le sue opere teatrali e i rumori che le hanno spesso accompagnate.
Bernhard è stato un uomo di teatro, come si dice. Letteratura e musica lasciano infine e
soprattutto spazio alla scena. Non ho mai avuto occasione di vedere rappresentata una sua
pièce (il teatro ha assorbito molti anni della mia vita, poi mi è venuto a noia come se andasse
in controtempo rispetto alla velocità delle cose), e confesso di aver letto con qualche fatica i
suoi testi teatrali, come quasi sempre mi capita con questo genere di testi. Ma nel caso di
Bernhard, in modo specifico, trovo che la narrativa abbia un ritmo vorticoso e anche
vertiginoso, una velocità di movimento che il suo teatro smorza, diluisce e rallenta, rischiando
ogni volta di annullarlo. Ciò non significa che i suoi romanzi non siano teatrali e che la
teatralità delle sue narrazioni sia priva di importanza. Al contrario, questa teatralità, così
presente e riconoscibile, è una cifra manifestamente decisiva del suo narrare e del suo pensare
narrando.
Andare nella direzione opposta, come ho appena osservato, cioè tentare di abitare la
logica paradossale dove tragedia e commedia stanno dalla stessa parte, esige dalla scrittura di
essere dall’inizio alla fine una scrittura di scene, una scrittura scenica. Il continuo ritornare da
parte di Bernhard sull’intreccio ambivalente, e infine paradossale, tra verità e finzione, per
ritrovare ogni volta la menzogna e per poterla ogni volta indicare – in modo sorprendente –
come una verità ancora più vera, a me pare che diventi comprensibile solo se verifichiamo che
la realtà denudata, destituita dalle ideologie, smascherata nella sua dozzinalità, non è una
realtà scientifica, per dir così, e tanto meno una realtà “naturale”, meno che mai una realtà
originaria e incontaminata, un fondo esistenziale o – come direbbero molti filosofi – un
qualche fondamento ontologico delle cose. Questa “realtà”, così poco naturale ma al tempo
stesso così alla mano da sembrare proprio la nostra, è una realtà teatrale, con i movimenti e la
finzionalità di uno scenario nel quale sperimentiamo risibilmente un processo di continua
duplicazione. Presi nella scena, attori di noi stessi, in uno spazio speciale dove persone e cose
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sono anche i fantasmi delle cose e delle persone che lo abitano. In cui la scena stessa procede
a colpi, e allora di colpo può rovesciarsi come se ruotasse attorno a se stessa.
Come accade in una pagina del quarto volume dell’autobiografia, quando Bernhard
racconta della sua malattia quasi mortale e della sua guarigione quasi miracolosa. Il respiro
viene presentato come il libro della “decisione”, come se a un passo dalla cassa di zinco lui
decidesse di continuare a vivere, ormai giunto nella zona estrema e di non ritorno
dell’ospedale, dove si attende solo l’ultimo respiro in uno sconvolgente rituale di passaggio –
è il caso di dire – in cui la pratica della morte viene sbrigata senza pathos né particolare
riguardo verso chi sta aspettando il suo turno, insomma, come una routine qualsiasi. Bernhard
racconta come, quasi d’improvviso, e comunque con una precipitazione di tempi del tutto
ingovernabile, a diciott’anni stesse per morire di polmoni e in realtà fosse già stato dichiarato
morto. Ma sono anche pagine di sublime comicità, guadagnata prima attraverso quel minimo
di osservazione che la stretta del male ancora gli permette, e poi dilaganti di humour quando
le forze cominciano a tornare, e lui si sente infine uno scampato che osserva quell’incredibile
luogo di morte e i quasi cadaveri che lo riempiono, ciascuno invincibilmente abbarbicato a se
stesso e alle proprie minute vicende.
Basterebbe ricordare che Bernhard morente battezza questo luogo di orrore, di routine
da cadaveri e di umanità che non vuol saper di morire, “il trapassatoio”, con un colpo di teatro
linguistico che rende tutta la scena mobile, basculante attorno a se stessa, sdoppiata in una
specie di sogno comico che poi non è propriamente un sogno (nulla di propriamente onirico,
secondo me, in Bernhard: ecco un’altra scorciatoia interpretativa che lui stesso ci taglia). La
morte resta drammatica, ma di colpo diventa anche comica nel trapassatoio. Ecco Bernhard
precipitarsi nella direzione opposta facendo diventare l’anticamera della morte (quasi in una
sfida con se stesso) niente meno che un teatro di marionette:
Tutti i pazienti senza eccezione erano attaccati a delle flebo, e siccome da lontano i tubi
di gomma sembravano fili, io ogni volta avevo l’impressione che i pazienti, sdraiati nei
loro letti, fossero marionette appese a dei fili, marionette abbandonate, la maggior parte
delle quali non venivano più mosse, se non assai di rado. Eppure questi tubi di gomma
che a me erano sempre sembrati fili di marionette, per coloro che pendevano da questi
fili, e dunque da questi tubi di gomma, erano ormai perlopiù il solo legame con la vita.
Se arrivasse qualcuno e tagliasse i fili e quindi i tubi di gomma, avevo pensato molto
spesso, coloro che ne pendono morirebbero all’istante. Tutto questo aveva a che fare col
teatro ben più di quanto io non fossi disposto ad ammettere, e in effetti era teatro, sia
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pure un teatro spaventoso e miserabile. Un teatro di marionette che da un lato veniva
manovrato da medici e suore secondo un sistema messo a punto nei minimi dettagli, e
dall’altro, così mi sembrava, era continuamente usato da quegli stessi medici e suore in
modo del tutto arbitrario. Sta di fatto che il sipario di questo teatro, un teatro di
marionette situato dall’altra parte del Mönchsberg, era permanentemente alzato. Quelle
che avevo occasione di vedere nel trapassatoio erano a dire il vero marionette vecchie,
in gran parte decrepite, da tempo fuori moda, senza alcun valore, logore in un modo che
faceva addirittura vergogna, marionette i cui fili venivano ormai tirati, qui nel
trapassatoio, solo controvoglia e che tra non molto sarebbero state gettate al macero e
sotterrate o bruciate. Era dunque ovvio che io avessi qui l’impressione di trovarmi di
fronte a marionette e non a esseri umani, e che dovessi immaginare che tutti gli esseri
umani prima o poi si sarebbero dovuti trasformare in marionette per essere quindi gettati
al macero e sotterrati o bruciati, poco importa dove e quando si fosse svolta e quanto
tempo fosse durata la loro precedente esistenza sulla scena di quel teatro di marionette
che si chiama mondo.2
La metafora del mondo di marionette non è certo originale, anzi potrebbe perfino
apparire alquanto frusta. Salvo che qui non è solo una metafora ma piuttosto un’osservazione,
la puntuale descrizione di una scena: semplice eppure particolarissima perché la retorica della
metafora viene evacuata proprio dal tipo di descrizione che comincia con una percezione
visiva (“i fili e quindi i tubi di gomma”) e si distende in un quadro comico dove il lavorio (qui
sobrio) delle ripetizioni bandisce ogni letterarietà retorica. I tubi delle flebo e i fili delle logore
marionette diventano una cosa sola: da una parte sono le esili cannule della sopravvivenza,
dall’altra sono gli spaghi un po’ afflosciati che reggono fantocci senz’anima e ripiegati su se
stessi. Da una parte l’orrore macabro di una grigia fabbrica di trapassi, dall’altra il
trapassatoio, cioè uno spettacolo di pupazzi. Ma le due parti sono infine la stessa parte che
gira su se medesima producendo così un ulteriore effetto di teatro. Non è vero che i tubi sono
la realtà e i fili un fantasma: per Bernhard, se c’è una realtà, e soprattutto se c’è qualcosa di
vero in questa realtà, è il miscuglio mobile tra realtà e fantasma, questo teatro appunto, che
non riguarda solo e principalmente le marionette, ma che attraversa la scena tutta intera con la
sua andatura oscillante. Teatrale è innanzitutto il gioco tra tubi e fili: è questa realtà supplita,
2 Th. Bernhard, Der Atem. Eine Entscheidung, Residenz, Salzburg 1978; trad. di A. Ruchat, Il respiro. Una decisione, Adelphi, Milano 1989, pp. 41-42.
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resa più vera dal supplemento fantasmatico (quasi che tale supplemento la alzasse di livello),
che spinge Bernhard a esclamare: “ecco il teatro!”.
La riflessione successiva metaforizza l’evento in una considerazione di ordine generale:
quel grande teatro di marionette che è il mondo e dentro di esso ciascuno di noi. Ma la
teatralità dell’evento anticipa questa considerazione, ed è qualcosa di completamente diverso
da essa. Mentre il teatro del mondo ristabilisce la tristezza del trapassare, l’evento teatrale,
costituito dal gioco tra i tubi e fili, si mantiene al di qua di ogni spirito triste e pensoso, e anzi
afferma sorridendo l’altalena del desiderio di vivere, riesce a insinuare nell’atrocità del
trapassare la comicità del trapassatoio. Il metaforico mondo di marionette, in quanto tale, non
ha quasi più nulla della mobilità della scena, in certo modo è una negazione del teatro. Mentre
la comicità del miscuglio tubi-fili restituisce la vitalità di una scena allo spazio bloccato
nell’attesa della morte. La “visione” di Bernhard, se proprio vogliamo chiamarla così, fa
tutt’uno con la “decisione” di vivere del protagonista morente. Respirare significa, per
Bernhard, secondo me, far entrare di nuovo quest’aria, rimettere in movimento la realtà
spiazzando l’unidimensionalità della tragedia e ritrovando, in questo modo, l’oscillazione del
teatro. Insomma, fare di nuovo ridere le cose.
3. “In una stanza più gradevole”
Un giorno mi fu proposto dal primario di trasferirmi dal trapassatoio in un’altra stanza,
in una stanza più gradevole, così si era espresso il primario, il quale di punto in bianco
doveva essersi reso conto di tutta l’atrocità, nonché dell’assurdità della mia sistemazione
in quel luogo, ossia nel trapassatoio, e poiché voleva almeno rimediare a questo errore,
più volte durante la sua visita mi aveva incitato a trasferirmi dal trapassatoio in un’altra
stanza più gradevole, le parole in un’altra stanza più gradevole le ho tuttora
nell’orecchio e, ogni volta che le sento, rivedo, nitidissimo, anche il volto del primario
che ripeteva continuamente in un’altra stanza più gradevole, senza mai cogliere,
neanche per un attimo, l’infamia e l’atrocità insite in quelle sue parole. In una stanza più
gradevole, ripeteva in continuazione il primario [...].3
La ripetizione (o meglio: la ripetizione scritta in corsivo, sottolineata) è una delle modalità più
ricorrenti, e starei per dire più ripetute, della scrittura di Bernhard in tutti i suoi romanzi. Non
è l’unica ad avere questo rilievo (penso all’uso rovesciato dell’interpunzione e della
3 Ivi, p. 91.
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spaziatura, o all’incastro dei resoconti sovrapposti con la voce narrante che si stratifica e di
continuo si decentra), ma forse è quella che provoca maggiormente il lettore, a volte
mettendolo letteralmente alla prova, e secondo me è quella che ci permette di “vedere”
l’ordito più puntuale di ciò che ho cercato di dire nelle pagine precedenti.
Questo ordito, prima di essere una trama di senso, viene tessuto nella dimensione della
scrittura, e propriamente nella pratica puntuale di essa. Non c’è un pensiero di Bernhard
avulso da questo ordito. C’è effettivamente e soltanto un pensiero che si scrive, il cui ritmo e
la cui andatura sono l’andatura e il ritmo della sua scrittura. Non c’è una filosofia seria o
faceta di Bernhard, magari rintracciabile in alcune dichiarazioni più esplicite di tipo
filosofico. Queste dichiarazioni possono orientarci o disorientarci, e certo servono a
“collocare” Bernhard in un qualche contesto culturale o in un’aria di famiglia filosofica (con
Schopenhauer e con Wittgenstein, contro Heidegger, ecc.), ma non sono la filosofia di
Bernhard e forse neppure la porta più adatta per introdurci a essa. Il pensiero di Bernhard non
si trova neanche in quelle parentesi tematicamente riflessive che costellano la sua narrazione,
quando indugia sulla scienza, o sulla natura, o anche quando confessa il rapporto incrociato
che vuole inscenare tra verità e menzogna. Sono intermittenze importanti che ci avvicinano
sicuramente alla fisiologia del suo modo di pensare, ma restano, per dir così, pause nella
respirazione di questo pensiero che corrisponde, invece ed esattamente, all’esercizio effettivo
e minuto della scrittura, direttamente, senza bisogno dell’intercapedine della tematizzazione,
di un secondo livello speciale, di una secondarietà che contenga il messaggio esplicito:
“questa è una filosofia”. La macchina abituale della filosofia, che si caratterizza proprio grazie
a questo secondo tempo, con Bernhard si inceppa, e così ci troviamo a un bivio. O
estrapoliamo il filosofico dal cosiddetto letterario, valutando se riusciamo a ricavarne la
quantità sufficiente per fare di Bernhard un pensatore vero e proprio, e magari decidendo che
si tratta semplicemente di un letterato, per quanto artista possa apparire. Oppure, decidiamo di
andare con lui nella direzione opposta, accettando la sfida che ci lancia e che consiste nel fare
della scrittura un luogo propriamente filosofico o nel considerare la scrittura come un farsi
specifico del pensiero.
L’esempio di ripetizione, che traggo sempre dalle pagine di Il respiro – quando il
giovane Bernhard dopo aver toccato la morte si riprende in modo completamente
imprevedibile, al punto che solo con estrema lentezza la routine del luogo lo percepisce
(nessuno era mai uscito dal trapassatoio se non dentro a una cassa di zinco) – è molto chiaro
nella sua dinamica. Le parole, la frase che viene ripetuta (in una stanza più gradevole), sono
evidenziate dal corsivo, il quale funziona ogni volta in Bernhard come una specie di citazione,
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l’ingresso di una voce altra, della voce di un altro, nel tessuto narrativo che ne riceve così
qualcosa di simile a un’accentuazione, a un segnale di avvertimento. Ciò che viene ripetuto
svolge, ancor prima di venire ripetuto, una funzione speciale nel continuum della narrazione.
È una sorta di increspatura della superficie del racconto, all’inizio quasi un incidente. Ma poi
accade che questa entrata – in un modo che sembrerebbe al tempo stesso indiretto e diretto –,
di un’altra voce nella voce che narra, produca una sua superficie di risonanza, una metrica che
taglia la narrazione stessa proprio grazie al gioco della ripetizione. Se già il corsivo sbilancia
l’omogeneità del narrare con una modalità non consueta, e perciò impropria, la ripetizione e
magari la ripetizione molto ravvicinata, come accade quasi sempre in Bernhard, moltiplica
questo movimento spiazzante sorprendendo il lettore con un effetto complessivo di
dissonanza e quasi di eccessività. La metrica della ripetizione può diventare parossistica, e
comunque sovrasta l’andatura della narrazione che il lettore vorrebbe ricomporre, ogni volta,
nella sua regolarità. L’increspatura agisce così, spesso, e anche in questo caso, come un
mulinello catastrofico, che talora si incolla alla narrazione stessa per pagine e pagine, e
comunque sempre un po’ di più di quanto ci aspetteremmo.
Cosa produce? Questa produzione di spazio attorno a una parola e a una frase, che
irrompono nella memoria e nella descrizione, e quindi nel resoconto, ha in Bernhard una
quantità di contraccolpi e un’innumerevole varietà di sfumati che andrebbero analizzati uno
per uno. Si tratta comunque di densità e di faglie nell’ordito della narrazione, di impuntature
della scrittura, che hanno sempre la capacità di interrompere la pigrizia dello sguardo. Parlo di
sguardo perché qui si produce un fenomeno di attenzione visiva. Bernhard fa “vedere” queste
parole e queste frasi, le isola e le staglia, in modo che esse entrino, proprio come parole e
frasi, nel nostro occhio, e noi possiamo effettivamente “vederle”, vederle muoversi, vederle
ricomparire, fissarle, e forse perfino esserne fissati. Come se potessimo vedere le parole e le
frasi così come di solito vediamo e riconosciamo un volto o un paesaggio. Non c’è nessuna
distruzione in questo gesto che per Bernhard è tanto abituale, al contrario, viene montato o
inscenato ogni volta un mondo, e costruita una insolita invisibilità; attraverso quelle parole e
quelle frasi, che di volta in volta vengono evidenziate dalla scrittura, come qui la frase in una
stanza più gradevole, si apre e si impone un particolare universo di eventi che sembrano
precipitare a imbuto in quelle parole e frasi. Ma sono in realtà queste parole e frasi che
riescono a condensare interi mondi di eventi e che, con una messa a fuoco sorprendentemente
accurata, quindi con una straordinaria nitidezza, tengono insieme una molteplicità di eventi,
tra loro collegati o collegabili grazie alla tonalità propria di queste stesse parole o frasi che
vengono portate dentro lo sguardo e che la ripetizione a sua volta moltiplica e intensifica.
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Non c’è nulla di tragico in questa ripetizione. Inoltre, essa ha una propria tonalità di
ripetizione che caratterizza tutte le altre tonalità dando a esse un timbro che quanto più è
insistito, tanto più produce effetti comici. La gamma di questa comicità è a propria volta
ampia e diversificata: dal sorriso lieve (vengono in mente le brevi prose dell’Imitatore di voci
con il gioco leggero della ripetizione dei nomi propri, di luogo e di persona), attraverso tutti i
gradi della parodia fino allo sberleffo più o meno caustico. In una stanza più gradevole
appartiene a quest’ultimo genere. Quando per l’ennesima volta, nel giro di poche righe, la
frase viene ripetuta – questa frase che Bernhard stesso ha davanti agli occhi (come se la udisse
eternamente dentro la sua testa) –, il medico che l’aveva pronunciata viene letteralmente
annientato, e con lui tutto quel lugubre mondo di atrocità ospedaliere. Ma, mentre quel
medico e il suo mondo precipitano nel ridicolo ed effettivamente vengono distrutti, la frase è
intanto diventata pienamente visibile, ed è entrata indelebilmente in un orizzonte di verità. a
ogni ripetizione diventa più reale, e quindi più vera, mediante il distanziamento comico. Ci fa
ridere, Bernhard riesce a riderne e a far sì che noi ne ridiamo. Ma proprio così essa diventa
più visibile e più vera.
C’è dunque un rapporto preciso – che Bernhard conosce e manovra di conseguenza – tra
produzione di vuoto attorno a una frase o ad alcune parole e produzione di effetti comici, e
anche, di conseguenza, tra ripetizione e riso. Se Bergson – come sappiamo – faceva nascere il
riso dall’osservazione dei gesti automaticamente ripetuti, Bernhard costruisce le proprie
ripetizioni verbali per scompigliare gli automatismi legati alla pigrizia del linguaggio e per
liberare così un’esperienza comica che ci permetta di osservare le cose nella loro intrinseca
paradossalità. Se, attraverso la ripetizione, guadagnamo questo spazio di osservazione (che
forse potremmo indicare come la “soggettività” del pensiero/scrittura di Bernhard), il campo
si allarga e la scena comincia a muoversi. La frase in una stanza più gradevole, ripetuta per
l’ennesima volta, e quindi caricata di comicità, non cessa però di essere una frase amara che ci
immette in un mondo atroce. Anzi, quanto più viene ripetuta, quanto più diventa comica, tanto
più quel mondo atroce a propria volta si evidenzia, mentre viene distrutto, e diventa più
amaro. Resta drammatico, anzi diventa ancor più drammatico, ma ha perso la fissità della
tragedia.