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1 COME SONO ARRIVATO A DHARAMSALA un racconto di Franco Pizzi

COME SONO ARRIVATO A DHARAMSALA - viaggiinasia.com · mesi, le linee telefoniche sono fili volanti fra case e aleri ai quali si appendono le simmie e simpigliano gli aquiloni …e

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COME SONO ARRIVATO A

DHARAMSALA

un racconto

di Franco Pizzi

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Franco Pizzi, nato nel 1948, studioso e praticante del buddhismo tibetano, vive in India da oltre 20 anni, dove organizza viaggi, accompagna gruppi turistici in Asia, e traduce testi dal tibetano. http://www.viaggiinasia.com

Stampato in India, Aprile 2010. Proprietà letteraria riservata a Franco Pizzi Email: [email protected]

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Ho deciso di scrivere questo breve racconto per ricordare a me stesso e per far conoscere a voi lettori il modo in cui si poteva viaggiare economicamente e felicemente qualche decennio addietro, percorrendo la strada da Istanbul a Delhi. Come sono cambiati i paesi che allora erano magnifiche oasi di rilassatezza e pace dove le persone invece di spararti ti offrivano il tè! Vi racconto piccole avventure e indimenticabili incontri vissuti lungo la “Via dell’Eden” viaggiando con lo zaino in spalle. Lo scritto, benchè al singolare, coinvolge anche Kristin Blancke che ha viaggiato e diviso con me le avventure raccontate sotto. Franco Pizzi Dharamsala, aprile 2010

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INDICE

INDICE .................................................................................. 4 DHARAMSALA ................................................................... 5 ON THE ROAD... .............................................................. 14

ARRIVO IN INDIA .......................................................... 34

SHERABLING .................................................................. 52 CASTAGNETO: KARMA SAMTEN CIŐLING.......... 61

RITORNO IN INDIA ....................................................... 68

LADAKH ............................................................................ 83

TSO PEMA ........................................................................ 94

EPILOGO .........................................................................103

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DHARAMSALA

Di là delle idee, di là da ciò che è giusto e ingiusto, c’è un

luogo. Incontriamoci là . [Rumi]

Risiedo a Dharamsala, una cittadina ai piedi del Dhauladar, una catena montagnosa pre-himalayana. È un piccolo centro con una storia relativamente recente e coloniale che la rende diversa dalle altre località indiane famose per la ricchezza di testimonianze storiche e artistiche e quindi attraenti per i turisti che vogliono fotografare e poi dimenticare. Dharamsala, nello stato dell’Himachal Pradesh, è situata quasi all’estremo nord-ovest del sub-continente indiano, non molto distante dal Tibet. Era conosciuta al tempo dell’impero britannico perché scelta come luogo di villeggiatura dalle famiglie inglesi durante il periodo estivo, allo stesso modo di Shimla, la capitale dell’Himachal Pradesh, o Darjeeling, nel West Bengala. McLeod Ganj apparve per la prima volta sulle mappe

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dell’India coloniale come un cantonment che prendeva il nome da David McLeod, governatore del Punjab nella metà del XIX secolo. Ma Dharamsala ha la sfortuna di essere localizzata in zona sismica; infatti nel 1905 un terremoto distrusse tutte le costruzioni causando la morte di circa 19.000 persone. Più tardi, nel periodo della seconda guerra mondiale, non molto lontano da Dharamsala furono costruiti i campi di prigionia per italiani, tedeschi e tutti gli altri nemici dell’impero britannico. Il posto si chiama ’YOL’ che significa Your Own Lines (‘le vostre proprie file’ perché chi ci arrivava doveva costruire da sé la propria dimora temporanea). A detta di alcuni anziani locali che ancora ricordano quel periodo, i prigionieri erano 45.000. I campi erano aperti, cioè i prigionieri potevano uscire quando volevano, ma non tutti perché erano divisi in tre categorie: chi apparteneva alla prima categoria aveva il permesso di spostarsi in un raggio di 15 km; per la seconda categoria il raggio si rimpiccioliva, e chi faceva parte dell’ultima categoria non aveva il permesso di uscire. Non pochi lasciarono dietro di loro qualche erede di sangue misto.

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Dharamsala cadde nuovamente nell'oblio subito dopo la guerra per diventare famosa intorno agli anni ‘60 con l’arrivo del Dalai Lama. Sembra che fu l’allora primo ministro Nehru a donare al Dalai Lama la terra al nord, su consiglio e su richiesta di una famiglia parsi che viveva a McLeod Ganj. Già, perché il Dalai Lama non vive a Dharamsala ma 600 metri più in su, a McLeod Ganj, dove si trova la comunità tibetana, dove si trovano negozi, alberghi e ristoranti, dove si trovano spacciatori di droga e questuanti per sponsor, dove si trova il turismo. McLeod Ganj viene a volte chiamata ‘la piccola Kathmandu’, ma di strada ne corre fra l’una e l’altra... Non è sicuramente lo Shangrila che uno si potrebbe immaginare prima di mettersi in cammino per visitarla: ben lungi dall’incontrare super yogin o dakini ad ogni passo, in questa cittadina himalayana ci viene sbattuto in faccia il materialismo che i giovani turisti, come me un tempo, cercano di evitare e contestare in occidente. Molti mi scrivono chiedendomi cosa ne penso di questo luogo così pieno ‘di spiritualità’. A dire il vero, all’infuori del monastero di Sua Santità, la spiritualità si sente poco. McLeod Ganj è sporca: viene pulita soltanto in occasione del nuovo anno tibetano, e nei giorni di

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pioggia acque nere invadono le strade, fra la noncuranza dei tibetani. Qualche volta ci sono risse mortali fra i giovani locali. “Dov’è la spiritualità? ”, mi chiedo. Ma il numero degli aspiranti-Buddha aumenta, e mi diverto a vederli camminare serissimi, con la mala [rosario] in mano, oramai ‘santi’. Seguono insegnamenti dati dal Dalai Lama incomprensibili per molti di loro, e forse anche per alcuni monaci. Una folla di devoti tibetani e stranieri in quel periodo si aggira per il villaggio, il paese si riempie, diventa difficile trovare posto per dormire, dovunque spuntano bancarelle che vendono prodotti nepalesi e cinesi sotto i cartelli di ammonimento: “Do not buy chinese goods”. Schiere di mendicanti si trascinano per le strade. Fra i devoti occidentali si distingue una categoria assai diffusa ed importante; sono gli abituè del dharma, oramai coscienti che bisogna approfittare di tutto quello che viene offerto perché loro, non appena mettono piede sul suolo indiano, diventano poveri e essendo praticanti cercano di risparmiare il più possibile, di sfruttare il più possibile. Io li ho soprannominati ‘gli scrocconi del dharma’. Nel mentre monaci dotati di modernissimi cellulari scarrozzano su e giù con macchine super costose.

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Per tutto questo le mie uscite verso la Shangrila himalayana diventano sempre più rare. La città di Dharamsala stessa ha un estensione notevole; è divisa in Lower Dharamsala e Upper Dharamsala. L’Upper Dharamsala, dove risiedo, è molto piacevole. Un bazar che si snoda sui lati della strada principale rumorosa ma non più di tanto, con negozi ben forniti e abitata da persone ospitali, piacevoli e poco invadenti. Probabilmente sono abituati a noi pochi occidentali che risiediamo qui da anni e non sono invasi da turisti ‘mordi e fuggi’, quindi non hanno bisogno di accaparrarsi il ‘turista’. I prezzi nei negozi sono uguali per noi a quelli dei locali e al mattino quando vado a fare la spesa con il mio cane Jampa è bello sentire da molti: “Namaste, come va oggi?”. “Ciao, Jampa!”. Sembra di essere a casa. Tornando dal bazar verso la mia abitazione e guardando in alto si vedono le cime innevate delle montagne; poco sotto pinete attraversate da un bellissimo fiume arricchiscono il panorama, e scendendo ulteriormente con lo sguardo si arriva a una vegetazione sub-tropicale alimentata dal monsone. Insomma, un bel posto per viverci.

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Le mie passeggiate giornaliere con Jampa attraversano villaggi poveri ma dignitosi; le case ancora in pietra hanno i tetti di ardesia, al contrario della cittadina moderna dove l’ondulato ricopre case poco belle. La gente è sempre sorridente e, sembra, felice. Incontro donne e uomini che vengono dall’altra parte del fiume. Sempre gli stessi, ogni giorno. Ci conosciamo e mi chiedono come prima cosa dov’è il mio cane. Lui trotterella sicuro fra la gente che lo conosce da quand’era cucciolo. Spesso mi sono chiesto come nel periodo del monsone queste persone riescono ogni giorno a recarsi al lavoro, attraversando il fiume in piena sotto la pioggia e i fulmini, e poi la sera tornare a casa nelle stesse condizioni metereologiche. Per tutta la vita. Il monsone a Dharamsala è potente, ma è utile, come in ogni parte del paese. I campi brulli diventano di colpo di un verde scuro, i fiumi in secca scorrono tumultuosi e spumeggianti, gli alberi rivivono felici sotto la pioggia e in casa, dalla finestra, mi guardo spesso i fulmini che tagliono il cielo, la pioggia che innaffia tutto e porta la prosperità alla gente. È anche vero che ci sono molti problemi durante la stagione monsonica. I fili del telefono sospesi nell’aria si rompono; il primo fulmine fa in modo che l’elettricità venga a mancare, le

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sanguisughe spadroneggiano nell’erba, ma i negozi fanno affari d’oro con la vendita di ombrelli e stivali. La fine del monsone segna l’inizio di una stagione stupenda che va fino a dicembre. Il clima diventa secco e un sole splendente riasciuga la natura dalla tanta acqua. Segue l’inverno, spesso molto freddo e difficile da sopportare. Le temperature basse sono esattamente uguali fuori e dentro casa. “Non hai il riscaldamento?”, mi chiedi. Sì, certo che ce l’ho: una serie di stufette elettriche, ma servono a poco perché verso le cinque di sera tutti accendono le loro stufe, e l’elettricità cala, e non riscaldano più nulla... Dharamsala rimane quindi una cittadina tipicamente indiana: mancanza d’acqua cronica, edifici che nascono selvaggiamente a spese della foresta,traffico disordinato e pericoloso che costringe a guardarsi sempre alle spalle per evitare che un’automobile non ci tiri sotto. I ruscelli sono invasi di buste di plastica e ogni sorta di rifiuti, i ponti crollati con le prime piogge vengono riparati dopo mesi, le linee telefoniche sono fili volanti fra case e alberi ai quali si appendono le scimmie e s’impigliano gli acquiloni …e più niente telefono per giorni.

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Fortunatamente ci sono anche posti dove ancora è possibile godersi la serenità dei villaggi indiani sparsi sulle montagne, il silenzio delle foreste e il fragore del fiume. Ero diventato pigro finchè non è arrivato Jampa, il mio pastore tedesco. È stato gioco forza portarlo ogni giorno a spasso per i monti e mi ha fatto scoprire nuovi posti, come Indru Nag. Indru Nag è una collina con un tempietto induista circondato, purtroppo, da tre altissime antenne. Ma in fondo quelle servono anche per il mio cellulare! Ci arriviamo in macchina e poi ci dirigiamo a piedi verso il fiume, molto più sotto di noi, attraversando i villaggi e guardando maestosi avvoltoi che banchettano con qualche carogna nella foresta. Casette costruite in pietra, tetti fatti con lastre d’ardesia, piccole verande pulite che danno ombra agli abitanti durante i periodi di caldo umido. La scuoletta sulla cresta della collina è dura da raggiungere; come fanno i bambini ad andarci tutti i giorni dalle case sparse per la montagna, specialmente durante i monsoni? Mentre scendo incontro una fonte d’acqua situata al di sotto del sentiero e tutt’intorno le donne sono accovacciate per lavare i panni; più in là c’è il serbatoio d’acqua dove Jampa ama tuffarsi sotto lo sguardo irato

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e spaventato delle donne. Alzando gli occhi vedo l’obbrobrio delle costruzioni di McLeod Ganj che pendono e si espandono come tentacoli sui fianchi verdi della collina. Ma sono lontani. Come ci sono arrivato? Dharamsala era differente quando vi arrivai la prima volta con Kristin, nel ’75. Sapevo della sua esistenza attraverso le notizie che si raccoglievano dai libri e sulla strada...

indice

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ON THE ROAD...

Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo. Vai e guarda dietro i monti; qualcosa è perso dietro i

monti. Vai! È perso ed aspetta te. [Kipling]

In quei tempi gli aerei costavano molto e si veniva in India via strada. Si impiegava una ventina di giorni da Istanbul a Delhi, con una sosta di una decina di giorni in Afghanistan. Quanto segue raccoglie episodi e immagini rimaste nella mia vecchia mente, di molti viaggi tra l'Italia e l'India; in tutto percorremmo questa strada, avanti e indietro, per ben dieci volte. Il viaggio iniziava a Trieste con l’Orient Express. Mitico ma scomodo, quel treno! Non esistevano prenotazioni e il marciapiede era affollato di gente desiderosa di partire. Quando arrivò il treno ci precipitammo in una vettura riuscendo a conquistare un misero posto che dividemmo in due. Per due giorni viaggiammo in questo modo; poi, finalmente, arrivammo a Istanbul. Seguendo i consigli della guida cartacea ci avviammo verso

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Sultanahmed, il quartiere frequentato da chi viaggiava ‘con lo zaino in spalle’ come noi. Ci fermammo un po’ di giorni per visitare la città e per organizzarci; non era difficile perché nei caffè e nei ristorantini, e in particolare nel Pudding Shop, trovavi offerte per andare in pullman fino a Kathmandu, passaggi in macchina, indicazioni su dove dormire e dove mangiare, consigli per i visti, insomma non ci si poteva perdere. Da Istanbul si prendeva il pullman fino a Teheran, allora ancora sotto il potere dello scià. Un giorno e una notte di viaggio. Il luogo più brutto e insicuro era la frontiera fra la Turchia e l’Iran: Dogubayazit. Il posto di polizia turco non era distante da quello iraniano; era situato nel deserto, con il monte Ararat sullo sfondo. Anni prima la strada passava vicino alla famosa montagna; si raccontava che interi camion erano scomparsi, con equipaggio e merci. Oggigiorno, si diceva, doveva essere più sicuro; ma lo era? Si arrivava a Tabriz, una cittadina rassicurante. Per il popolo dei viaggiatori gli iraniani all’epoca sembravano più credibili dei turchi. Forse per la maggior sicurezza offerta dalla polizia locale, forse per l’atmosfera occidentalizzata che il paese ispirava a quei tempi. Da Tabriz un pullman ci portava fino a Teheran. Bella Teheran allora! Libera, le ragazze giravano in jeans,

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ti parlavano, un sacco di ristorantini. Avevamo trovato alloggio in un albergo decente e grande, l’Amir Kabir Hotel nella centrale Amir Kabir Avenue, affollato di occidentali. Non si restava molto nella capitale. In uno dei nostri passaggi sentii gridare il mio nome in una piazza. Incredibile! Pensai a qualche occidentale conosciuto in qualche momento sulla strada e invece no; era un iraniano che avevamo incontrato, anni prima, su un pullman; si ricordava di noi e fu felice di salutarci. In città ci si spostava su taxi collettivi che, come i pullman, seguivano dei percorsi fissi. Un giorno, mentre il taxi era fermo in coda, notai un poliziotto fermare un ragazzo in motorino e portarlo dietro un muro; potevo spiare ancora, e vidi che gli fece sgonfiare la ruota anteriore e poi lo prese a pugni. Chissà perché? Nonostante l’atmosfera di libertà la polizia era severissima e il regime intransigente. Ma noi stranieri non stavamo male e apparentemente la gente non si lamentava molto; e il ragazzo? A Teheran ripassammo altre volte, sempre per andare in India. Ci capitammo nel 1979, il giorno in cui lo scià lasciava la Persia e Khomeini tornato da Parigi si insediava per iniziare il suo periodo di terrore. Per quanto tempo gli

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iraniani avranno rimpianto quel giorno? Mentre si sparava in città noi ci dirigemmo alla stazione per prendere il primo treno diretto verso Mashad, la città più sacra dell’Iran, la più ortodossa, la più seccante, e quella di confine. Alla biglietteria nella stazione di Teheran vi era una coda disordinata, rumorosa, frettolosa di lasciare la capitale; un poliziotto avvicinò la folla e cominciò a tirare calci e pugni mentre Kristin e io ripetevamo con insistenza: “Tourist, tourist!”. Eravamo gli unici turisti. Si formò una fila ordinata. Il poliziotto ci guardò e indicò un lato dell’atrio; finito di ‘mettere ordine’ si avvicinò, ci condusse allo sportello e ci fece superare la coda; noi comperammo il biglietto in poco tempo. Il treno non poteva che essere affollato. Una famiglia iraniana ci invitò nel suo scompartimento, in qualche modo ci sistemammo e il ‘maschio’ tirò fuori uno spinello. Lo guardammo perplessi ed esitanti. Lui rise: “Niente paura, la polizia qui non viene.”. Fu un piacevole viaggio fino a Tayebad, il confine. Quando ripassammo in Iran sei mesi dopo, l’Afghanistan era chiuso per la guerra e qui regnava il terrore non più dello scià ma di Khomeini. Era il periodo in cui su tutti i giornali appariva la foto della gru che sosteneva una ruota dalla quale pendevano i corpi degli impiccati.

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Eravamo giunti su due camion greci; gli autisti ci avevano dato un passaggio da Quetta fino a Thessaloniki. Avevamo preso il treno Karachi-Quetta dopo aver chiesto inutilmente se era possibile comperare un passaggio su una nave mercantile diretta in Europa. Con i camion attraversammo uno dei più pericolosi posti di confine, nel Beluchistan, da lì tutto il deserto di sale fino ad Isfahan, e infine a Teheran, dove rimanemmo bloccati per più di una settimana. Proprio in quei giorni l’ambasciata americana era occupata dai guardiani della rivoluzione iraniana. Non ci si poteva muovere dal parcheggio, non c’era benzina, tutto era fermo, e anche un nostro tentativo di partire in aereo fallì: l’aeroporto era chiuso e poi, dove comperare i biglietti? Quindi restammo nel parcheggio, in mezzo ai camionisti asiatici. Il nostro autista era una sorta di gigante; la sera dormiva sui sedili per lasciare a noi le cuccette. Una notte si alzò di scatto, volò giù con un coltello enorme in mano alla caccia di qualcuno. Per fortuna non c’era anima viva; sono sicuro che lo avrebbe ucciso. Aveva paura che gli rubassero qualcosa dal camion. Finalmente ci dettero il permesso di partire e prima di procedere fuori della città ci fermammo per comperare il pane. Andai io nella profumata panetteria dove sfornavano ottimi naan. Sul muro era appeso un ritratto: il volto demoniaco dell’ayatollah! Mentre pagavo

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mi si avvicinarono due giovani, possenti; mi chiesero se ero americano e io, indicando i camion fuori, dissi: “No, no, greco!”. L’indice di uno dei due indicò il ritratto del nuovo dittatore e mi chiesero se lo conoscevo. Risposi: “Be’ sì, è il signor Khomeini.". La domanda seguente fu cosa pensavo di lui e dello scià. Fortunatamente intervenne un’altro iraniano che disse qualcosa, suppongo: “Ma lasciatelo stare!”, perché i due inquisitori smisero e io mi dileguai verso la sicurezza dei camion. Mashad la ricordo come una città inospitale; si era guardati con poca cordialità. Kristin, per nessun motivo, si beccò una pietra da qualcuno. Ma era obbligatorio fermarsi per chiedere il visto afghano e quello indiano. Quando i passaporti avevano le necessarie stampigliature si procedeva verso il confine, con grande soddisfazione. La frontiera iraniana era formata da un corridoio e su uno dei muri troneggiava una grande scritta che recitava: “L’uso, la vendita e la detenzione di droga è punita con il carcere e la pena di morte.” . E quelli facevano sul serio! Sotto vi era una ‘vetrinetta’ contenente tutti i vari trofei che erano stati sequestrati ai turisti che cercavano di introdurre droga. Ci lasciavamo alle spalle l’Iran con molta

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gioia per entrare in un paese che per noi vagabondi era un’icona di felicità.... Oltrepassata la frontiera si trovavano i pulmini di proprietà afgana. Si contrattava un prezzo per un passaggio fino a Herat, la prima cittadina in territorio afgano, e si partiva. A metà strada, il pulmino si fermava nel deserto e un gentile afgano ci diceva che bisognava pagare un extra se si voleva proseguire. Insistere dicendo che era stata pattuita una cifra era inutile, anche perché scendere ed essere abbandonati nel deserto non era veramente il sogno di nessuno. Una sera, arrivando dall’Iran, rimanemmo bloccati alla frontiera afgana; era tardi. Ci dissero di aggiustarci con i sacchi a pelo sulla veranda di una casetta della polizia. Eravamo una decina di occidentali e ci sistemammo. Recuperammo qualcosa da mangiare e ci mettemmo a parlare fra di noi. A un certo punto una bella ragazza, giovane e bionda, si alzò e si mise a ballare in maniera molto sensuale. La guardammo tutti, compresi i poliziotti; durò per lungo tempo il suo ballo! Al mattino ci preparammo per partire ma lei non c’era. Era stata fermata perché era stata trovata in possesso di droga .

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Così arrivai in Afghanistan la prima volta. E così arrivai per la prima volta a Herat, nella valle di Hari Rud, la città famosa qualche secolo addietro come un nodo importante sulla via della seta, come uno dei centri culturali più importanti dell’Asia centrale. Vi era un detto a riguardo di Herat: “Non puoi allungare la gamba senza dare un calcio a un poeta.”. Questo illustrava l’importanza culturale della città. Era di sera, con il buio. Meraviglioso! Salimmo su un carrettino, come quelli siciliani, colorato e trainato da cavalli adornati con i campanellini, che ci portò su una strada polverosa e non asfaltata, fino alla guest-house che avevamo scelto. La notte era illuminata dalla luce della luna piena, sulla collina le rovine della cittadella fortificata di Herat, Qala-i-Ikhtiyaruddin costruita da Alessandro Magno, avevano un aspetto affascinante e misterioso. Un mondo surreale: una strada sabbiosa, ai lati due file di case e oltre solo il deserto, a perdita d’occhio. Anni dopo mi chiesi quanto ci avranno impiegato i russi, e dopo i talebani, a distruggere tutto questo con i loro cannoni! Le guest-house erano semplici. Un bel giardino dietro all’edificio principale era il luogo dove si passavano le

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serate a bere, a mangiare e a fumare il buon afgano nero offerto dal proprietario. Non c’era paura, allora. Attraversammo l'Afghanistan molte volte; era una tappa di riposo e relax lungo la strada, proprio per l’accoglienza e l’ospitalità della gente che caratterizzava questo paese. Gli afgani non era appiccicaticci come i turchi e peggio ancora i pakistani, non erano assetati di sesso [non tutti], ti lasciavano in pace a camminare, guardare, fotografare. Con il passare del tempo diventammo degli ‘abituè’: ogni anno andavamo nella stessa guest-house ed eravamo accolti con molto affetto; se eri conosciuto le birre venivano procurate dal mercato nero, altrimenti si beveva la coca-cola Kabul. Per strada sentivamo sempre gridare: “Coca-cola Kabul!”; quando l’assaggiammo scoprimmo che era una schifezza d’imitazione. Il pomeriggio era caldo e decidemmo di farci una passeggiata sotto la cittadella in direzione della Moschea del Venerdi costruita nel 1200. Attraversammo un piccolo mercato di verdure con donne sedute per terra che vendevano la loro merce. Entrammo in un chai- shop locale. Niente turisti, eravamo veramente nel mondo afgano. Era una sala grande, con i tappeti sui quali sedersi. Intorno vi erano soltanto persone locali.

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Un ragazzo era vestito all’occidentale, con enormi occhiali da sole, tutti gli altri erano rigorosamente vestiti con abiti tradizionali. Gli occhiali da sole ci vennero incontro. Su una delle lenti era ancora incollata la targhetta con la marca. Parlammo del più e del meno fino all’argomento droga; ci disse che lui la usava. “Quale?”, chiedemmo. Tirò fuori delle aspirine e ce le mostrò. Ci sedemmo con gli altri cercando di farci capire, quando un enorme afgano prese dalla sua tasca un’altrettanta enorme palla di hashish nero come il carbone. Preparò un cylum e incominciò a farlo passare. Inutile dire che anche qui eravamo timorosi. Ci rassicurarono e fumammo. Dopo qualche tè l’omone si alzò per andare via, ma fu fermato dalle parole di un amico, che non capimmo. Naturalmente! Tornò indietro, tirò fuori di nuovo la palla e un coltello, ne tagliò un bel pezzo e ce lo regalò, senza parlare; sorridendo ci girò le spalle e uscì. La strada verso il confine pakistano era quasi diritta, la si percorreva con pullman locali insieme agli afgani sempre pronti ad aiutarti; così eravamo al sicuro da eventuali problemi perché si viaggiava con loro. Nell’ora stabilita il pullman si fermava dovunque si trovava; gli

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afgani scendevano, srotolavano il lungo turbante che portavano sulla testa e lo stendevano per terra. Si inginocchiavano rivolti verso la Mecca e pregavano silenziosamente. Noi ci appartavamo per fumare, senza disturbare; quando avevano finito ci invitavano con un gesto a risalire. Kandahar, la prima città dove si arrivava, era graziosa. Ci fermammo un po’ di giorni per visitarla. Un pomeriggio comperammo delle tavolette di cioccolato e ci fermammo nella piazza dove c’era un grande tandoor che sfornava naan grandi e caldi. Li comperammo e mettemo dentro il cioccolato che subito si fuse. Era una delizia quasi come le cotolette di Kabul! Kabul era bella, tranquilla e ospitale. Il punto di ritrovo per noi occidentali che marciavamo pacificamente sull’Afghanistan era la Chicken Street, un po’ come la Freak street di Kathmandu. Grandi strade, belle moschee e ampi vialoni. In uno di questi si trovava il ‘Marco Polo Restaurant’; scoprimmo che si poteva mangiare la cotoletta alla milanese, ottima come quella di casa. Purtroppo questo stesso ristorante fu trasformato in ‘camera d’interrogatori’ sotto il regime dei talibani e poco distante dalla Chicken Street sorgeva

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un famigerato carcere da dove, il più delle volte, si finiva allo stadio per essere uccisi! Eravamo con due amici argentini, e non potevamo permetterci di andare a mangiare la cotoletta ogni giorno, anche se la volevamo. Sentimmo che all’ospedale di Kabul si poteva vendere il sangue, per pochi afghani corrispondenti a 10 dollari, sufficienti per la cotoletta. Decidemmo di venderlo senza preoccuparci molto delle condizioni igieniche dell’ospedale e delle nostre condizioni di salute. La sera prima di andare a guadagnarci la nostra cotoletta eravamo nel giardino della guest-house, a fumare spinelloni di buon afgano nero e a bere. Al momento di andare a dormire la ragazza argentina si alzò e cadde svenuta. Eliminata dalla vendita del sangue! Rimanevamo in tre. Il giorno dopo ci presentammo all’ospedale ma Kristin aveva le mestruazioni. “Niente prelievo!”, disse il medico. Seconda eliminazione. A me presero la pressione sanguigna ed era bassa; quindi mi avrebbero succhiato solo una parte di sangue, metà prezzo. L’unico che poteva donare tutto quello che era richiesto per i 10 dollari era l’amico argentino. Occhieggiando con sospetto le siringhe posate nell’acqua bollente, ci guardammo e allungammo il

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braccio. Usciti riunimmo tutti i soldi ricavati e le cotolette le mangiammo lo stesso, e più di una per riprenderci dalla vampirizzazione! Il giorno dopo ci ripresentammo all’ospedale, ma fummo esclusi: non era permesso donare sangue tutti i giorni! Conoscemmo dei giudici. Giovani. Ci invitarono a visitare la famiglia di uno di loro, in un villaggio fuori Kabul. Vennero a prenderci in macchina e dopo un viaggetto di un’ora arrivammo alla casa. Più che una casa assomigliava a un piccolo fortino, circondato da alte mura. Entrammo e ci trovammo in un bellissimo giardino, sotto un albero di gelso, al fresco; era stato preparato un tappeto sul quale sedevano i maschi della famiglia. Niente donne! Furono cordiali , amichevoli e al centro venne disposto un grande cesto ricolmo di gelsi. Dopo il tè Kristin fu invitata all’interno per conoscere le donne della famiglia. Era accompagnata da uno dei giudici. Mi raccontò che all’interno della casa le donne tenevano il viso scoperto; erano gentilissime e comunicavano in francese ma… il giudice aveva iniziato a toccare. Decidemmo di andare via, ma avevamo bisogno che loro ci portassero in macchina. Furono molto insistenti nell’invito di trascorrere la notte da loro; ci mostrarono la nostra

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camera, ma visto come buttava inventammo delle scuse e ci riportarono alla guest-house. Il giorno dopo fummo avvicinati dal proprietario, un giovane molto affabile e disponibile, che ci chiese: “Avete dei problemi con la giustizia?”. “Perché?”, chiedemmo. “Ci sono dei giudici che insistono per incontrarvi !”, fu la risposta. Gli spiegammo la nostra avventura e lo pregammo di dire ai giudici che noi non c’eravamo più. E mai più li rivedemmo.

***

Anni dopo attraversammo l’Afghanistan con il pullmino Volkswagen di Alfons, tedesco. Ci dava un passaggio, con divisione spese benzina, dal Pakistan fino in Grecia. Lo avevamo incontrato a Lahore e subito si era preoccupato perché temeva che trasportassimo droga; fu rassicurato quando gli offrimmo di guardare i nostri bagagli. Arrivammo in Afghanistan poco prima di Natale; c'era un freddo micidiale e le strade e il deserto erano coperti di neve. Alfons viaggiava armato, aveva una pistola con 40 proiettili di riserva e la tenevamo sempre

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vicina. Entrati in Kabul, Alfons prese un controsenso e fummo fermati da un poliziotto. La pistola era fra me e lui e quando il poliziotto, da fuori, ci ingiunse a pagare 300 afghani di multa noi ci ribellammo. Erano davvero tanti! Mi spostai dietro e lui salì vicino al posto di guida perché voleva portarci all’ufficio di polizia. Era ancora buio, nevicava. Il suo sguardo cadde sulla pistola e alzò gli occhi verso Alfons. Non è che la pistola fosse vietata, non esistevano leggi a proposito, ma a quel punto eravamo pronti a dargli i 300 afghani richiesti e lui scese sorridendo. La sera andammo in una piccola guest-house e come al solito Kristin e io tirammo fuori i nostri ‘tesori’, gli oggettini che avevamo comperato per rivendere, regalare o conservare una volta a casa. Fra questi vi erano due statuette di pietra rappresentanti dei Buddha; erano bellissime! Il giorno dopo, nella frenesia della ricerca hashish, le trovarono alla frontiera e le sequestrarono. Erano antiche, ci dissero, ci voleva un certificato del museo di Kabul per portarle fuori. Potevamo tornare a Kabul e farcelo fare. Le statuette rimasero nell’ufficio della polizia... Con Alfons proseguimmo fino in Turchia dirigendoci verso lago di Van dove viveva la famiglia della sua fidanzata turca. Mentre eravamo ancora in Afghanistan

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Alfons decise di comperare un’oca da portare in regalo alla famiglia, saremmo arrivati per Natale. L’oca viveva con noi nel pullmino e quando scendevamo la portavamo a spasso con una corda intorno al collo, come un guinzaglio. Ci eravamo affezionati e non mangiammo quando fu servita sul tavolo della famiglia turca. Non erano impreparati, i poliziotti afgani! Non erano impreparati perché quando attraversammo la frontiera fra Afghanistan e Iran con il pullmino di Alfons lo smontarono tutto, proprio tutto. Passarono sulla ruota di scorta con lo stesso pullmino e infine ci dissero: ”Se avete qualcosa non può essere molto; può darsi che noi non abbiamo trovato un paio di chili, ma sicuramente li troveranno gli iraniani.”. Noi non avevamo nulla, ma dei nostri amici furono fermati dagli iraniani. Avevano nascosto l'hashish nel dentrificio, i furbetti. Erano partiti prima di noi, e al nostro arrivo li vedemmo camminare nel famoso corridoio, ma non notammo i due signori che avevano al fianco. Li salutammo, non risposero. Il poliziotto che controllava i nostri passaporti, gentile fino a quel momento, si insospettì e ci chiese: “Li conoscete?”. “Sì.”.

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“Sono stati presi con la droga; gli va bene perché non è molta e la facciamo buttare nel gabinetto. Aprite gli zaini!”. Un controllo completo con un occhio particolare per il dentifricio. Poi trovò la pistola di Alfons con i proiettili di scorta. Per questa si limitò a dire: “Bell’arma, l’avete comperata in Pakistan? Ma non potete tenere i proiettili sciolti.”. Li sigillò in una busta di plastica, ci restituì tutto e andammo. La pistola era permessa! L'ultima volta che passammo in Afghanistan, questo stupendo paese dove le ragazze ti fermavano e ti chiedevano da dove venivi, il paese dei gelsi e delle dolci angurie, il paese dei melograni rossi e squisiti, il paese del buon afgano nero, erano già arrivati i russi, ma vi era ancora molta libertà. A Kabul vigeva il coprifuoco. Noi eravamo in albergo quando si presentò un giovane che chiese di vedere i passaporti. Gli chiesi di mostrarci prima i suoi documenti e gli domandai chi era. Lui rispose che era della polizia e ci mostrò una sua foto vestito da poliziotto. Che fare? Gli mostrammo i passaporti!

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Per noi che abbiamo avuto la fortuna di attraversare questo paese in tempi di pace, le notizie di quanto successo durante l'occupazione russa e dopo sotto i talibani avevano dell'inverosimile. Come abbiamo potuto non accorgerci dei semi delle ribellioni? Come potevamo far combaciare i nostri dolci ricordi con lo scempio avvenuto dopo? Come scrive Emanuele Giordana1 nel suo libro sull'Afghanistan, quella era ‘l'epoca d'oro dell'invasione pacifica degli hippy’. Il re Zahir Shah era in esilio in Italia, e il paese era diventato una repubblica dopo il colpo di stato di Mohammed Daoud Khan2; lui stesso fu ucciso nel 1978 e venne al potere il partito democratico del popolo, filo-russo e comunista, che stava apportando

1 Giordana, E, “Afghanistan. Il crocevia della guerra alle porte dell’Asia”, Ed. Riuniti, 2007. 2 Su Mohamed Daoud Khan: http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27Afghanistan#Mohammed_Daoud_Khan_e_la_Repubblica_dell.27Afghanistan_.281973-1978.29

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molte riforme nel paese, appoggiato da capitali russi. Ma proprio verso la fine del 1979 - qualche giorno prima del nostro passaggio in Volkswagen con Alfons....- l'opposizione dei leader religiosi (aiutati dagli Stati Uniti...) era diventata tale da richiedere l'intervento dell'esercito russo. L’avevamo scampata bella.... Dall'Afghanistan il viaggio proseguiva passando il confine attraverso il famigerato e pericoloso Khyber Pass, l’entrata in Pakistan. Ai bordi della tortuosa strada di montagna, che si inoltrava in zone tribali dove gli abitanti non rispettavano e non rispettano ancora oggi l’autorità governativa, vi erano dei cartelli che ammonivano di non allontanarsi oltre il ciglio della strada perché le autorità [chissà quali] non rispondevano della sicurezza delle persone. Così si arrivava nella famosa Peshawar. Un bazar affollatissimo, la possibilità di comperare armi fatte sul posto o droga, e l’ancora più facile possibilità di finire in una galera pakistana! Il Pakistan, a parte la valle di Hunza e il nord in generale, era il paese più antipatico fra tutti quelli che s’incontravano fra la Turchia e l’India. Maniaci sessuali, toccate continue per strada indipendentemente dal fatto

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se eri uomo o donna, inimicizia, insomma uno di quei paesi che vuoi lasciare al più presto possibile. Il treno che conduceva a Lahore era qualcosa di inabbordabile. Avevamo assunto dei portatori; appena arrivato il treno questi, letteralmente, assalirono il vagone e, letteralmente ancora, si sdraiarono su due cuccette e le mantennero fino al nostro -faticoso- arrivo nello scompartimento. Lahore non la visitammo, avevamo fretta di arrivare in India e rilassarci. Si fa così per dire! La frontiera era poco lontana e prendemmo un taxi.

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ARRIVO IN INDIA

[Indra dice a Rohita:]

Non c’è felicità per chi non viaggia, Rohita! A forza di stare nella società degli uomini anche il migliore di loro

si perde! Mettiti in viaggio. I piedi del viandante diventano fiori, la sua anima cresce e da frutti, e i suoi

vizi sono lavati via dalla fatica del viaggiare! La sorte di chi sta fermo non si muove. Dorme quando quello è nel

sonno, e si alza quando quello si desta. Allora vai, viaggia, Rohita!

Ancora una volta arrivammo nel deserto. Dovevamo attraversare a piedi un pezzo di terra di nessuno e mentre camminavamo notammo sulla destra una fila di uomini provenienti dalla frontiera indiana con una giacca rossa che trasportavano della merce sulle spalle; sulla sinistra una fila di uomini con la giacca blu che si dirigeva verso la frontiera indiana, sempre con la merce

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in spalla. Erano i portatori indiani e pakistani che facevano il trasporto merci, perché gli automezzi non erano autorizzati ad attraversare la terra di nessuno. Fantastico. Ma il fantastico, l’imprevedibile, tipico dell’India, doveva ancora arrivare. Guadagnammo la casetta della polizia indiana. Entrammo, ci sedemmo e pazientemente attendevamo. A un certo punto chiesi dov’era il bagno e un poliziotto mi indicò una porta. Aprii. Dietro c’era il solito deserto. Chiesi spiegazioni; lui mi accompagnò fuori e indicando il deserto con un ampio gesto della mano disse: “Guarda quanto spazio, vai dove vuoi!”, e tornò dentro. Anche io tornai dentro, e notai che mentre uno degli impiegati scriveva un’altro non faceva nulla. Poi si passavano gli occhiali e quello che li riceveva cominciava a scrivere, mentre il primo attendeva. Vista la nostra curiosità uno di loro spiegò: “Oggi ho dimenticato gli occhiali a casa e siccome abbiamo le stesse diottrie ce li passiamo.”. Eravamo arrivati in India! Pochi chilometri ci separavano da Amritsar, la città sacra per i sikh. Andammo a dormire, si fa così per dire, nella guest house del tempio d’oro, il cui vero nome è Harimandir Sahib. Il tempio d’oro è uno dei più bei

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monumenti che ho visto in India; l’atmosfera è tranquilla e rilassata, i sikh sono persone ospitali e cordiali. Questo episodio avvenne prima dell’operazione Blue Star3 nel 1984, voluta da Indira Gandhi, condotta dall’esercito che semi-distrusse il tempio. Dormimmo. ‘Si fa così per dire’ significa che durante la notte c’era un viavai di pellegrini. Alcuni arrivavano, altri partivano; accompagnati da decine di bambini che piangevano; di consequenza i genitori urlavano, le porte sbattevano, insomma difficile riposare. Cosi arrivai in India. La prima tappa fu Delhi. Seguendo il consiglio di un amico conosciuto da qualche parte lungo la strada andammo a dormire al Palace Heights. Il nome era altisonante, ed era localizzato a Connaught Place, il

3 Un’azione militare diretta contro un capo sikh, Bhindranwale, che lottava per l’indipendenza del Punjab si era nascosto dentro al tempio d’oro insieme ad un gruppo di ‘terroristi’ pensando che l’esercito non avrebbe mai osato profanare il luogo sacro. Per saperne di piu: https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Blue_Star

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centro commerciale di Delhi. Ma non ci diedero una camera bensì due letti su un balcone. Proseguimmo in pullman verso il nord e arrivammo per la prima volta nella città con le case dai tetti in lamiera dove risiedo ora. Prendemmo alloggio a McLeod Ganj, nella guest- house di ‘Yes, Please!’, un simpatico signore che ogni sera alle 17, puntuale come la morte, veniva a bussare alla porta per riscuotere l’affitto del giorno dicendo quella frase come introduzione. Era molto cortese. La cameretta era piccola e dava su uno stretto balcone, verso la valle, dove noi siedevamo e facevamo dei tentativi di suonare le tabla. E sì! Rompevamo i timpani a tutti con i nostri suoni storpiati, ma insistevamo perché ci eravamo iscritti a un corso di tabla, con Pawan, un giovano indiano - morto di tuberculosi pochi mesi dopo il nostro incontro-. L’affitto della camera era di 5 rupie; a McLeod Ganj gli alberghi e le guest-house erano pochissime, le pinete erano ancora intatte e la strada che scendeva verso la biblioteca tibetana era ancora bella da percorrere a piedi perché le macchine non c’erano. E così al mattino scendevamo al fiume, a piedi, ci portavamo qualcosa da mangiare e facevamo il bucato con gli indiani. Facevamo il bagno e prendavamo il sole e poi la lunga salita di ritorno fino al villaggio. Per

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entrare in guest-house passavamo davanti a Tilopa. Che personaggio, Tilopa. È ancora vivo adesso. Età sconosciuta. Abita in una sorta di palafitta in legno, piccolissima, costruita per lui al bordo della strada; nella palafitta vi è la sua ciotola per mangiare dove spesso le mucche infilano il muso; alcuni cani dormono con lui sotto coperte che dire luride è poco. Seminudo, non parla mai, il suo corpo è cosparso di croste antiche, le unghie sono lunghe; non sembra mai avere freddo o caldo, infatti ha superato almeno trent’anni d’inverni, alcuni gelidi. I tibetani gli portano da mangiare e una volta tentarono di lavarlo; fu allora che lo sentii parlare o meglio urlare, tanto che i poveri ragazzi furono costretti a lasciarlo in pace. Il nome Tilopa glielo demmo perché sembra un asceta, proprio come Tilopa, oramai indifferente a tutto. Ora gli hanno spostato la palafitta dall’altro lato della strada, per il traffico. Per lui va bene. Non è cambiato nulla. Quindi passavamo davanti alla sua ‘casa’ e ci infilavamo in un piccolo chai shop a bere qualcosa di caldo e a mangiare, per pochissime rupie. Era uno dei locali dove si facevano incontri con occidentali e si scambiavano i pareri sul posto e su dove andare dopo. Qui incontrammo Piero, accompagnato da altri tre monaci occidentali. Parlammo di dharma,

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argomento per noi poco noto, finchè uno di loro ci disse con aria seria che se non praticavamo bene saremmo finiti all’inferno. Kristin ed io lo guardammo esterrefatti e Piero lo fulminò con lo sguardo. A McLeod tutti fanno qualcosa di ‘impegnato’, così per non essere da meno cominciammo a seguire i corsi di filosofia alla Library, a metà strada fra McLeod Ganj e Dharamsala. Con una bella passeggiata fra i boschi si raggiungeva la biblioteca, un edificio molto grande e ben fatto in stile tibetano; allora c’erano poche costruzioni intorno, ora è sorto un villaggio. Al primo piano vi è un piccolo museo molto interessante con antiche thangka, oggetti rituali di un certo valore e un bellissimo mandala tridimensionale. Al pianterreno è situata la biblioteca dove si possono consultare testi sia tibetani che occidentali e una sala dove si tenevano i corsi. Si poteva assistere a due lezioni prima di decidere se iscriversi o meno. Noi assistemmo ma non ci iscrivemmo. Il lama che insegnava parlava tibetano e le sue parole su argomenti difficilissimi venivano tradotte in inglese, così mollammo. Tutto ciò succedeva prima della nostra completa dedizione al dharma e il soggiorno al monastero di Sherabling.

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Girovagando scoprimmo il Tibetan Medical Center. Per noi intrigante, perché non sapevamo nulla sulla preparazione delle medicine tibetane, una mescolanza di erbe e minerali. La diagnosi era anche molto interessante. Veniva fatta attraverso l’auscultazione dei polsi; il medico poggia delicatamente le dita sul polso per sentire eventuali squilibri energetici. Ci azzeccavano sempre e ci somministravano medicine amarissime e dure da rompere; però in molti casi funzionavano. Un’altra meta durante i nostri soggiorni a McLeod era il tempio del Dalai Lama. Andavamo spesso, a sentire i suoi insegnamenti o semplicemente a fare una passeggiata al pomeriggio. Già dall’Italia avevo in mente di avvicinarmi al buddhismo, ma la ricerca fu presa alla larga. Ogni volta che si arrivava in India c’era sempre qualcosa da vedere e allora si rimandava. Prima le spiagge del Kerala e quelle di Goa dove si passavano le giornate a fumare e a bere sulla veranda della casa coloniale. Poi la Thailandia e il Laos, dov'era appena finita la guerra. E Kathmandu, la meta ultima del ‘Viaggio all’Eden’. Poi di nuovo l’India. Si viveva e ci si spostava con pochi soldi. Su pullman incredibilmente pieni e su treni ancora più affollati. Si dormiva nelle guest-house. Quando ci si fermava per

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periodi lunghi si affittava una casa e quando si partiva si portava tutto con noi, come i nomadi. Incontrammo molte persone durante questi nostri viaggi; alcune sono completamente svanite dalla memoria, di altre il ricordo rimane chiaro e vivido. Una volta decidemmo di andare da Mumbai a Goa, per un periodo di vacanza al mare. Prendemmo il battello che partiva il pomeriggio e arrivava il mattino dopo; ci sistemammo sul ponte con i sacchi a pelo. Poco dopo incominciammo a parlare con una coppia, lui alto magro e con i capelli biondi e lunghi, lei più piccola, con i capelli biondi e lunghi. Nazionalità svizzera. Ci scambiammo i racconti di tutte le nostre avventure, finchè la luna era molto alta e ci addormentammo. A Goa decidemmo di affittare una casa insieme, una di quelle coloniali con tante stanze. Dietro alla veranda, dove passavamo il nostro tempo, si trovava il ‘bagno’, una costruzione separata alla quale si accedeva salendo un paio di gradini; ma che orrore scoprire che il prodotto finale delle nostre visite finiva direttamente in bocca ai maiali in attesa sotto... Verso sera Jean Marie aveva l’abitudine di fare il bagno nudo nel mare. Finchè un pomeriggio era in acqua da tempo e aveva voglia di uscire, ma non potè. Noi eravamo seduti sulla spiaggia, circondati da una

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scolaresca di bambine che si erano fermate a parlare con noi. Jean Marie ci faceva segno di portargli il costume da bagno. Lo negammo e continuammo a parlare con le bimbe. .. Passammo un mese con loro, e poi ognuno per la propria strada. Tornammo in Italia e andammo a trovarli molte volte in Svizzera. Roseline ci mostrava sempre grandi attenzioni, ci preparava la fonduta di formaggio. Un giorno partirono per la Grecia, Creta, per fare la vendemmia e noi ri-partivamo per l’India. Così decidemmo di passare da Creta per una visitina. Ci fermammo con loro un mese a lavorare anche noi. Al mattino andavamo in piazza e aspettavamo che qualcuno ci reclutasse per il lavoro; un lavoro pesante che rendeva poco, ma si mangiava bene e l’ospitalità greca era insuperabile. L’ultima volta li abbiamo incontrati in Svizzera; abitavano in un bel chalet con la OM dipinta sulla facciata; erano nati tre bambini, Roseline faceva l’infermiera e Jean Marie il contadino, in un angolo della Svizzera abbandonato che un po’ somigliava al Nepal; avevano una grande stalla con alcune mucche, e Jean Marie gli legava la coda perché non se la sporcassero....Incredibili, gli svizzeri!

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A Kathmandu conoscemmo Alicia, una bella signora spagnola, distinta ed elegante; aveva 60 anni. Allora Kathmandu era diversa; giravamo per la valle in bicicletta, senza paura di essere investiti da una macchina -ce n’erano pochissime- e senza respirare lo smog di oggigiorno. Noi vivevamo in una guest-house nella mitica Freak Street, lontano dalla nascente Thamel, e le nostre passeggiate ci portavano nella Durbar Square, poco lontana dalla guest-house. Non si pagava per entrare nella piazza allora! E così un giorno incontrammo Alicia, e ci chiedemmo cosa ci faceva nella città dei frikkettoni. Andammo a bere qualcosa e mentre si chiacchierava lei tirò fuori una palla di hashish, lasciandoci stupefatti. Quella signora distinta andava in giro con quella roba? Ci disse che aveva sempre con se un ‘pochino di roba’ e considerata la sua età e la sua eleganza la polizia non la frugava mai. A quei tempi a Kathmandu c’erano le ‘pleasure rooms’, che non erano dei bordelli bensì delle specie di bar dove venivano serviti tè e cake alla marijuana, e si poteva fumare liberamente. Noi non eravamo a conoscenza di questi locali ma la nostra amica sì. La sera ci portò in tour; sedemmo ad un tavolino altezza terra e ordinammo. Sembrava un bidone, non succedeva nulla

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e così decidemmo di uscire a passeggiare sotto la luce argentea della luna piena. Una musica di tabla e cimbali ci fece alzare dai gradini dove eravamo seduti e ci guidò verso un tempietto, una costruzione in legno con tanti gradini e all’ultimo piano, in una stanzetta con finestre senza vetri rischiarata da lumini e dalla luce della luna, alcuni sadhu sedevano in cerchio, salmodiavano una puja e suonavano. Ci fecero accomodare fra di loro e tirarono fuori un cylum di dimensioni enormi che riempirono fino all’orlo. Il sadhu seduto vicino me lo offrì e mi disse che per dovere di ospitalità dovevo accenderlo. Era bello il sadhu; capelli lunghi, sorridente, tranquillo, ma il cylum era troppo grande. Provai. Lo accesi e lo ripassai a lui. Sorrise e mi disse che non era ben acceso. Rifarlo. Lo rifeci e stramazzai a terra completamente stordito. Non ricordo molto bene cosa successe dopo ma so che dormimmo per quasi due giorni di fila. Quando ristabiliti uscimmo per andare a comperare lo yogurt che veniva venduto in ciotole di terracotta, incontrammo Alicia. Era molto arzilla, e ci chiese se volevamo tornare nella ‘pleasure room’; noi gentilmente rifiutammo.

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Che dire di Kito e Monica, gli amici della vendita del sangue a Kabul. L’incontro avvenne sul pulmino che ci trasportava nella terra di nessuno, fra l’Iran e l’Afghanistan. Quando i gentili signori ci chiesero il supplemento, tutto quello che Kito disse fu “figli de puta”. Erano argentini. Viaggiammo con loro fino in India e con loro passammo la nostra prima notte sul suolo indiano in quel famoso tempio sikh di Amritsar. Ci separammo con la promessa di incontrarci in Kerala per fine anno. Noi eravamo già arrivati quando un giorno spuntarono anche loro. Fummo felici di rivederli, e si sistemarono in casa nostra. In seguito viaggiammo verso Kodaikanal. Anche qui bella casa coloniale divisa fra noi. Ma cosa potevamo fare? Ci annoiavamo! Decidemmo di fare vendita di alcool al mercato nero. Non avevamo bisogno di soldi ma ci divertiva. All’epoca la vendita dell’alcool era vietata per la gente locale, ma per noi bastava farci emettere un ‘liquor permit’ e via. Così chiedemmo il permesso. Un sera andammo a comperare parecchie bottiglie di whiskey, le sistemammo in due borse e poi camminando rasenti al muro e coperti dalla nebbia arrivammo a casa. Sembrava una scena da protezionismo. Ci sistemammo su un divano in attesa di clienti. Sembra che si era

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sparsa la voce. Toc toc. Apriamo la porta e un giovane indiano entra e ci chiede una bottiglia. Mio dio, incominciavano gli affari! Data la bottiglia l’indiano si dirige verso la porta per andare via. Kito: “Ehi, dove vai?”. Indiano: “Grazie, vado a casa.”. Kito:” Ma credi che siamo scemi?”. Il ragazzo non capiva molto bene cosa intendeva e rimase perplesso vicino la porta. Kito si alzò e disse: “I soldi!”. Erano una sciocchezza e insomma alla fine, dopo tutto questo atteggiamento da gangster guadagnammo qualche rupia. Non ci restava che bere le nostre bottiglie. Nella nebbiosa Kodaikanal il cibo era sempre lo stesso finchè un giorno sentimmo parlare della ‘cheese-factory’. Kito e io eravamo ghiotti di formaggio e quindi ci lanciammo alla ricerca del dove-facevano-il formaggio. Pensavamo di entrare in un negozio, invece varcammo il cancello di un caseificio molto grande, sotto la supervisione degli svizzeri. Entrammo ma non vedevamo formaggi. Espresso il nostro desiderio per il formaggio ci condussero in una stanza. Nelle pareti vi erano dei pannelli di ferro chiusi a chiave; sembrava di essere nel sotterraneo di una banca svizzera dove

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vengono custoditi dei valori. Infatti furono aperte un paio di ‘casseforti’ e dentro giacevano belle forme di formaggio. Ci guardammo felici, ne comperammo un bel po’ per i primi giorni; in seguito il sotterraneo divenne una delle nostre mete preferite. Oltre al formaggio fra Kito e me vi era un’altra intesa mangereccia. A lui non piaceva il bianco dell’uovo, a me il rosso. Siccome si mangiavano spesso uova sode quando si viaggiava facevamo una separazione accurata delle uova e mangiavamo quello che più ci piaceva; lui dava a me il bianco e io a lui il rosso! Il treno che andava verso Benares era affollato come al solito e noi occupavamo quattro cuccette. Kito aveva quella sopra di me. Avevamo con noi pochi grammi di hashish e sapevamo che su quella tratta la polizia saliva spesso per controllare i turisti; chiedevano soldi, poi li lasciavano andare. E così successe anche a noi. Arrivarono due poliziotti, ci chiesero i documenti e poi vollero guardare negli zaini. Gli dissi di prenderselo lui, lo zaino. Io avevo pochi grammi nelle scarpe, che erano vicino alla cuccetta. Mentre la legge controllava il mio zaino dissi che dovevo andare in bagno. Tento di infilarmi le scarpe ma il poliziotto capisce, mi ferma, ficca una mano dentro e tira fuori la ‘droga’. “Vietata, lo

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sai? Ora scendi e vieni con me.”. “Non lo sapevo.”, fu la mia risposta mentre gli altri guardavano. La strappo dalla sua mano e faccio per buttarla dal finestrino ma lui sempre veloce mi blocca. “100 rupie!”, proclama. Mi rivolgo a Kito e gli dico se puo darle lui; volevo fare in modo che anche gli altri vedessero che prendeva i soldi. Il poliziotto prende i soldi e se ne va. Nell’angolo dello scompartimento c’era un indiano che appena andati via i poliziotti disse: “Son of a bitch!”, e il viaggio continuò. Ci incontrammo ancora a Sherabling, quando noi abitavamo nella casetta nel bosco. Loro vivevano nella guest-house ma cenavamo insieme; Monica preparava il dolce di latte e altre leccornie con i mezzi rudimentali a disposizione. Aveva dell’incredibile tutto ciò, ma ci divertivamo un sacco: seduti su due panche malferme, illuminati dal lume a petrolio, mangiavamo come fossimo a casa in Italia! Le nostre strade si separarono per sempre; Kito si trasferì in Vietnam e noi in India. Ci ripromettiamo sempre di rivederci…….chissà! Arrivò il momento che stanchi di tanto girovagare senza uno scopo preciso, decidemmo di dirigerci a Bodhgaya, il luogo dove il Buddha ha raggiunto l'illuminazione. Nel paese incontrammo un amico australiano; stava per

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sposarsi con una tibetana, ma ebbe il tempo di consigliarci di prendere rifugio con Beru Khyentse Rimpoce. Rifugio? Anche senza sapere bene il significato, seguimmo il consiglio ed eravamo felici di essere entrati nella comunità, nell’elite, insomma eravamo già dei realizzati, peccato che non sapevamo ancora cosa fare. Poi sentimmo parlare di un grande raduno di lama a Dehradun, dove Dilgo Khyentse Rimpoce stava dando un ciclo di insegnamenti molto importanti. Si decise di andare a vedere. Trovammo la solita cameretta in una delle solite guest- house e conoscemmo degli ‘adepti del dharma’ occidentali. Prendemmo informazioni e cominciammo a frequentare anche noi il gompa dove si tenevano gli insegnamenti. Non capivamo nulla, ma eravamo affascinati da quell’atmosfera così particolare del mondo tibetano, almeno del mondo tibetano nel gompa. Siedevamo diligentemente per ore, in fila con centinaie di tibetani, e ogni tanto guardavamo i lama. Alla fine delle iniziazioni andammo a chiedere la benedizione da Dilgo Khyentse Rimpoce. Decidemmo di chiedergli un appuntamento.

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Lui sedeva, enorme, sul trono in camera sua e quando domandammo che pratiche fare ci disse: “Osservate la vostra mente, che colore ha, da dove viene, dove va, come si muove.”. Allora non capimmo e rimanemmo stupiti chiedendoci qual’era il significato delle sue parole. Il tempo libero era molto e decidemmo d’impegnarlo nello studio della lingua tibetana. Trovammo un insegnante tibetano che ci propinava dieci parole al giorno, insieme a qualche regola grammaticale per metterle insieme. Studiavamo fino ad avere mal di testa, ma fu la base dei nostri studi susseguenti a Sherabling. Eravamo seduti in un chai shop sulla strada principale quando spuntò Piero, uno dei primi monaci del centro di Pomaia; bevve un tè con noi e gli spiegammo cosa stavamo facendo. Annuiva alzando e abbassando il suo cranio rasato, ci consigliò di comperare un vocabolario tibetano-inglese, il Chandra Das. All’epoca non esisteva l’edizione compatta, era un tomo pesantissimo che si aggiungeva ai nostri bagagli non proprio leggeri. E poi incontrammo il primo maestro. Si chiamava Karma Thinley Rimpoce; era seduto poco distante da noi nel gompa durante gli insegnamenti. Era disponibile e ci conduceva tutte le mattine a fare il

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giro dello stupa, ma su cosa dovevamo fare non diceva una parola, a parte la recitazione del mantra di Cenresi. Già questo ci faceva sentire ancora più realizzati, più nella comunità, superiori a tutto e a tutti. Eravamo buddhisti e avevamo un maestro. Accidenti! Arrivò il giorno che dovevamo partire per l’Italia via strada, quindi verso ovest. Ci consigliò di andare a trovare Situ Rimpoce, un giovane lama con molto tempo a disposizione. Ci recammo da Dilgo Khyentse Rimpoce per salutarlo e lui ci diede una lettera da consegnare a Situ Rimpoce.

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SHERABLING

Sherabling è un monastero tibetano situato in Himachal Pradesh, Nord India. Il monastero all’epoca era piccolo e la sua colletività monacale molto esigua. L’abate era -ed è tutt’ora- Situ Rimpoce. Ci arrivammo da un villaggio chiamato Bir. La prima persona che incontrammo fu una tedesca, poco amichevole, direi anzi diabolica nella sua impersonificazione di protettrice del Rimpoce. Le chiedemmo come si arrivava a Sherabling, ma lei, invece d’indicare il sentiero, ci disse che il monastero era affollato e che tutti i residenti praticavano e noi saremmo stati un disturbo nella calma vita del monastero. Meglio incontrare il Rimpoce a Bir, -dove proprio in quel momento Situ Rimpoce stava dando una iniziazione di lunga vita-, salutarlo e andare via. Eravamo dispiaciuti, ma accettammo; dovevamo consegnare la lettera! E qui lei fece un errore: quello di permetterci d’incontrare Situ Rimpoce. Infatti lui fu molto cordiale, gentile e, contrariamente a quello che aveva detto la demonessa, ci invitò ad andare al monastero, dove lui

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sarebbe arrivato dopo alcuni giorni. Camminammo per più di un’ora fra risaie, ruscelli, collinette e pinete, con gli zaini in spalla. Infine vedemmo il monastero, molto carino e invitante. Incontrammo un monaco che ci accompagnò nella stanzetta del medico tibetano, in quel momento assente, dove potevamo dormire. Infatti, come diceva la tedesca, era vero che era affollato, ma più che seri praticanti i residenti erano sballatoni come noi che si avviavano sulla strada della meditazione. Entrammo nella comunità di una quindicina di occidentali, e ci trovammo bene. Conoscemmo Amala e Acca, una coppia allora ancora relativamente giovane, ma distrutta dal lavoro fatto gratuitamente per il monastero. Abitavano in una casetta nella pineta, ora non esiste più perché Situ Rimpoce ha fatto distruggere tutto per costruire un enorme monastero che sembra più una prigione del KGB che un luogo di preghiera. Ma torniamo alla coppia. Per guadagnare poche rupie preparavano la colazione, il pranzo e la cena per tutti noi. L’estate sedevamo fuori sulle panche e loro ci servivano il cibo. In inverno sedevamo dentro la casetta, povera, piena di oggetti e vecchie foto, ma sempre

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pulita. Era il luogo di ritrovo di noi occidentali e la gentilezza di lei fu il motivo perché la chiamammo Amala che vuol dire ’mamma’. Giunse, infine, Situ Rimpoce e lo incontrammo. Ci furono le presentazioni rituali, domande e risposte e in seguito chiedemmo degli insegnamenti. Ci furono concessi e ci sentimmo immediatamente dei realizzati! Ma il progresso spirituale andava avanti pigramente con molte note di mondanità. Infatti, la sera organizzavamo spesso qualche festicciola nella foresta, non lontano dal gompa perché avevamo paura dei leopardi. Graham e John suonavano la chitarra e cantavano, alcuni ballavano, si fumava marijuana e si mangiava carne cucinata sul fuoco che accendavamo con il rischio di mandare a fuoco tutta la pineta. Si faceva tardi e tornavamo al monastero disturbando il sonno dei monaci. Allora non vi erano case a disposizione dei praticanti occidentali e dormivamo in due per camera, mentre i monaci dormivano ammassati per lasciare il posto a noi. Il clima cambiò e Rimpoce, attraverso John, lanciò un messaggio a tutti noi. Un giorno lo incontrò nel cortile e gli disse: “John, ieri lì c’era un cespuglio di marijuana, oggi non c'è più. Come mai?”. Sapeva benissimo che il

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più delle sere eravamo fatti di alcool e di fumo, ma non aveva mai detto nulla. Quella volta finì la sua domanda con: “Sai John, io non dico nulla se volete fumare, ma se volete praticare dovete scegliere o l'una o l’altra cosa.”. Ecco, e si smise. Cosi cominciammo a praticare. Su una collinetta di proprietà del Rimpoce davanti al monastero furono costruite delle casette, molto molto rudimentali. Il patto era che uno poteva costruirsi la casetta, e quando era presente lui stesso, la casa era di sua proprietà; quando non c’era passava al monastero che poteva affittarla ad altri occidentali per la pratica. Ottenemmo una casetta costruita da una ragazza australiana appena partita. Era situata nella pineta, costruita su due piani. Non c’era luce elettrica, non c’era acqua, non c’era bagno. Per farci luce utilizzavamo candele e lampade a petrolio e a gas. Acca ci aveva costruito una piccola cucina di terra essiccata fuori dalla casetta, e avevamo un fornello elettrico [quando, più tardi, misero l’elettricità] e basta. Ogni giorno bisognava andare a prendere la legna nel bosco, ogni giorno veniva il nostro fedele amico Karma Puntsog, un uomo con una forza erculea, e ci portava l’acqua dal monastero. Come toilette si usava una buca scavata nel bosco, ricoperta

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con due assi di legno dove poggiare i piedi, che veniva chiusa dopo un po’ di tempo. Non era male, ma quando c’erano i monsoni le sanguisughe erano un tormento! La casetta non era proprio silenziosa. Si sentivano i tamburi e le trombe delle puje che si svolgevano al monastero, e la sera le campanelle e i damaru dei praticanti nella foresta compresi noi. Dopo cena siedevamo fuori e davamo da mangiare ad una famigliola di zibetti che veniva vicino casa. La notte godevamo della compagnia di topini che gironzolavano per la camera dove dormivamo. Non avevamo letti e dormivamo su materassini da campeggio poggiati su un pavimento di legno nei sacchi a pelo; insomma, era una sistemazione primitiva. La giornata era divisa in 4 sessioni di pratica; nel frammezzo si cucinava e si raccoglieva la legna. Andavo a raccoglierla nel bosco con il mio cane Mila che ci eravamo portati dall’Italia. Ebbe anche i cuccioli con Star, il cane di Norma che viveva poco distante da noi. Continuavamo a studiare tibetano. Karma Dorge, il nostro amico monaco, ci aiutava. Addirittura ci convinse di tradurre i ‘Gur Bum’, i ‘Centomila Canti di Milarepa’, il nostro eroe.

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“A che serve tenere i testi se non vengono usati?”, disse indicando i due volumoni di Milarepa recentemente acquistati. E così cominciammo quella traduzione che non si è ancora conclusa. La vecchia comunità di amici si rimpiccioliva sempre di più; alcuni tornavano nei loro paesi d’origine e non tornavano più, altri nuovi arrivavano. Noi eravamo diventati i ‘vecchi’. Nel 1981 morì il sedicesimo Karmapa e Situ Rimpoce si recò a Rumtek per i riti funerari. Noi lo seguimmo, non tanto per la cremazione, ma perché avevamo bisogno di alcuni insegnamenti. Rumtek era affollata di occidentali arrivati da tutte le parti del mondo, tibetani, e naturalmente una gran folla di lama. Il corpo del Karmapa era posto in un grande contenitore al centro dell’altare. A destra siedevano Jamgon Kongtrul e Situ Rimpoce, che giocavano con i vari strumenti rituali, a sinistra Gyaltsab e Shamar Rimpoce. Il lignaggio era al completo. In uno di quei giorni il padre di Situ Rimpoce s’impiccò nel cortile del monastero. Ottimo karma, si disse, era il posto dove si sarebbe svolta la cremazione del Karmapa! Nel gompa dove si svolgevano le puje, in fondo sulla destra siedeva un lama anziano, solo. Si alzava frequentemente per andare in bagno e qui Kristin lo incontrò più volte. Infine fummo ricevuti da Situ

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Rimpoce che spiegò di non avere tempo per darci gli insegnamenti, ma ci assicurò che il lama dal quale ci mandava era un ottimo maestro. Andammo a trovarlo. Chi era? Il lama anziano del bagno. Molto gentile, ma allo stesso tempo molto severo, e noi non avevamo ancora una buona maestria del tibetano. Comunque ci dette gli insegnamenti richiesti e noi tornammo a Sherabling senza attendere la cremazione. Alcuni amici ci raccontarono che nel bel mezzo della cremazione Situ Rimpoce allungò la mano nella pira per prendere il cuore del Karmapa. Non si bruciò. Si manifestarono altri miracoli d’obbligo; arcobaleni, musiche etc. Ma noi eravamo a Sherabling. Passarono i mesi e un giorno, gironzolando per il monastero, incontrai il vecchio lama: Salgye Rimpoce. Per una strana ragione fui felice di vederlo, mi salutò e tutto fini lì. In seguito cominciammo a frequentarlo per ricevere insegnamenti, e lui divenne quello che poi chiamai il mio ‘padre-lama’ ed io divenni per lui ‘pu chungwa’ o ‘Jao’ che rispettivamente si possono tradurre con ‘piccolo figlio’ e ‘barba’. La nostra conoscenza della lingua tibetana migliorava, ma facevamo fatica a capirlo, anche perché lui a volte si

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toglieva la dentiera... Era gentile, modesto, attento, amorevole, istruito. Lo incontrammo tutti i giorni, e divenimmo i suoi unici discepoli occidentali. Abitava in una stanzetta molto modesta del monastero, lui non era famoso! Il suo assistente, un monaco anziano di nome Karwang, ci prese in simpatia, anche se era un po’ burbero. Siedevamo a terra, ma prima di sederci Rimpoce ci obbligava a prendere due tappetini; non voleva che avessimo freddo. Dopo offriva qualsiasi cosa avesse a portata di mano e ripeteva gli insegnamenti fino a quando non era sicuro che avessimo capito. Che belle giornate, mesi, anni, abbiamo trascorso con lui! Durante i monsoni ci accorgemmo che l’acqua filtrava dal soffitto della sua camera. Decidemmo di offrirgli dei soldi per ripararlo, ma lui rifiutò dicendo che venivamo da lontano e dovevamo risparmiare per praticare. Aggirammo la cosa dando i soldi a un monaco di nostra conoscenza e il soffitto fu riparato. Quando andavamo a incontrarlo portavamo sempre qualche offerta: frutta, ovomaltina, formaggio, incenso o altro. Non uscivamo mai senza che lui ci restituesse una parte delle offerte. Era molto attento alle nostre condizioni fisiche e mentali e continuava a dire:

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“La meditazione va fatta gradualmente, altrimenti si diventa pazzi.”. ‘Gradualmente’ in tibetano si dice ‘rim-ghi rim-ghi’; mentre lo diceva accompagnava la frase facendo salire il dito sul vetro della finestra, piano piano.

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CASTAGNETO: KARMA SAMTEN CIŐLING Hilda abitava in una casetta vicino alla nostra nel bosco di Sherabling. Era di nazionalità austriaca ed eravamo molto amici. Che fare e che dire al monastero? Mangiavamo spesso insieme nella nostra casetta, e una sera partorimmo l’idea di fondare un centro di pratica buddhista in Italia. Chiedemmo consiglio a Salgye Rimpoce che ci guardò stupito. “I centri non servono a nulla,”, disse, “restate qui a praticare!”. Naturalmente non ascoltammo. Ascoltammo invece Situ Rimpoce, che ci incoraggiò a mettere in pratica il nostro progetto. Tornammo in Italia e cominciammo la ricerca di una casa adatta. Con una Renault 4 di colore marrone ci dirigemmo in Emilia - ci attirava in particolare una cittadina con il fantastico nome ‘Pavullo nel Frignano’. Arrivammo nel Modenese, e sentimmo di una casolare isolato, ci recammo dai proprietari e mentre salivamo, con loro, verso la casa un arcobaleno spuntò nel cielo. Doveva essere quella, la nostra casa! Era un vecchio casolare di campagna, a 4 km dal villaggio di Castagneto, quindi isolato; era molto grande e si adattava alle nostre esigenze. La strada che portava al villaggio era in buona parte sterrata e quando pioveva era un bel pasticcio

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percorrerla sia a piedi che in macchina; oltre alla strada dissestata vi erano parecchi lavori da fare per rendere la casa abitabile, ma i proprietari erano persone deliziose e quindi l’affittammo. Hilda ci raggiunse. La casa era piena di mobili da sistemare, non c’era un bagno, e nell’aia erano parcheggiate due macchine, una con targa belga e l’altra con targa austriaca. I primi anni 1980 erano tempi molto severi con le leggi anti-terrorismo in corso in Italia. Dopo qualche settimana avevamo fatto amicizia con la Giovanna, proprietaria del bar-ristorante nel villaggio, una donna simpaticissima e per fortuna affezionata a noi. Fu al bar-ristorante che i carabinieri si rivolsero alla ricerca di informazioni su di noi. La proprietaria, indicatagli la strada, disse: “Perché non arrestate i veri delinquenti e lasciate in pace quei bravi ragazzi?”. Ma sembra che i rappresentanti della legge non ascoltarono e arrivarono da noi inzaccherati perché pioveva e dovettero lasciare la macchina a 500 m di distanza. Gentili, informazioni, caffè e richiesta di documenti. A Hilda, che non parlava italiano, ci rivolgemmo in inglese e lei si avviò verso il piano di sopra per prendere i documenti. I carabinieri furono presi dal panico pensando ad un tentativo di omicidio; nelle loro menti noi eravamo potenziali terroristi. Uno

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fece un cenno all’altro che si precipitò dietro a Hilda; Kristin nel mentre portò il caffè ma con un movimento maldestro fece cadere per terra il cappello di uno dei due signori; il cane giocava e io dissi che eravamo disarmati. Finì con una risata e il caffè, ma tornarono più volte a controllarci. Cominciammo i lavori di ristrutturazione della casa aiutati da Brian, un altro amico di Sherabling, inglese. Lavoravamo come pazzi, aggiustammo tutto da soli compreso l’ultimo piano che doveva diventare la ‘stanza del lama’. All’eccezione di Brian, noi non avevamo destrezza nel maneggiare gli attrezzi dei muratori, così il risultato di uno dei muri nella ‘reading room’ fu conosciuto come ‘il muro atomico’ per il gran numero di crateri che mostrava....Divenne un posto bellissimo e Hilda rimase con noi per un po’ di anni. Piano piano si andava formando un gruppetto di persone che venivano a trovarci per praticare durante il fine settimana; brontolavano quando pioveva perché si sporcavano di fango... volevano diventare yogin ma con comodo. La casa era abbastanza grande per fornire camerette singole -molto spartane- a una decina di persone, inoltre c’era il gompa dove facevamo meditazione in comune alla sera. Studiavamo il tibetano, studiavamo qualche

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testo sulla pratica buddhista, e facevamo meditazione, insieme oppure individualmente. In estate organizzavamo i ritiri. Si inziava con una sessione mattutina in comune e poi ognuno proseguiva individualmente con le proprie pratiche. Di certo non mancavano le buone mangiate: eravamo nel regno del prosciutto, della mortadella, del formaggio grana e del lambrusco, -quello che ‘lascia la macchia’, come diceva il padrone di casa-. La sera, seduti a un lungo tavolo in giardino, ci godevamo lo spettacolo della natura. La collinetta al fianco della casa era cosparsa di ballotti di fieno tagliato di fresco e in piena estate meditavamo in mezzo a un tappeto di lucciole, decine e decine di lucciole che illuminavano la notte a intermittenza. Qualche volta invitammo un lama dall’India oppure altri lama residenti in Italia, in Francia o in Inghilterra. E poi avevamo tempo per fare pratica noi stessi, e per fare traduzioni dal tibetano. Hilda andò via, si sposò e tornò con il marito e una bella bimba che portavo sempre con me al villaggio. Invitammo Ontrul Rimpoce, con la moglie e uno dei suoi tre figli. Lo avevamo incontrato a Tsopema, un piccolo villaggio tibetano in Himachal Pradesh famoso per il laghetto dedicato a Guru Rimpoce, intorno al quale sono sorti monasteri di

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differenti religioni. Uno di questi apparteneva al rimpoce. Eravamo diventati amici; la nostra relazione era di amicizia più che di maestro-discepolo. Quindi lo invitai a Castagneto e lui accettò. I preparativi furono laboriosi: dovemmo riportare l’invito ai carabinieri, responsabilizzarci per eventuali rimpatri, eventuali spese mediche e sostentamento monetario. Ma alla fine ci riuscimmo. Gli preparammo una bella stanzetta all’ultimo piano. Il rimpoce diede brevi insegnamenti al centro, ai quali partecipavano amici e devoti buddhisti. I suoi insegnamenti erano semplici e diretti, e lui rispondeva anche a domande ‘mondane’ perché essendo sposato conosceva la vita famigliare e i suoi problemi. Mi ricordo una bellissima scenetta: lui seduto in giardino, con la moglie che gli scioglieva i capelli lunghissimi e glieli pettinava con amore. Un giorno decidemmo di portare la famigliola in tour a Modena e Bologna. Al mattino mi ritrovai rimpoce vestito con giacca e pantaloni; non ero abituato a vederlo in quegli abiti e mi misi a ridere. Il motivo del cambiamento era semplice: non voleva distinguersi dagli altri. Dovevamo anche mantenerci e certamente non erano le entrate del centro a farci mangiare, anzi erano più le

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uscite che le entrate. Quindi ci trasformammo in taglia/pulisci boschi, un lavoro mai svolto in precedenza. Comperammo la motosega ed entrammo nel nostro primo bosco, non lontano da casa, una mattina che faceva un freddo incredibile. Mettere in moto la motosega, fatto! Tagliare.........e come? Guardavamo l’albero davanti a noi che sembrava deriderci: “Non siete capaci di abbattermi, vero?”. Una voce arrivò alle nostra spalle: “Avete fatto la tacca?”. Era Bosi, un vicino, si fa per dire perché abitava sulla collina di fronte. La tacca? Ci guardò perplesso, venne giù, afferrò la motosega e ci mostrò come dovevamo fare. Si trattava di tagliare uno spicchio dal lato dove si voleva che l’albero cadesse; dopo bastava tagliare dall’altra parte ed era fatta. Così diventammo taglia-boschi. Dovevamo lasciare alberi in piedi a una certa distanza, ripulire il bosco, e tagliare i tronchi della giusta misura per trasportarli a casa, per essere bruciati o venduti. Era bello andare nel bosco, giorno dopo giorno, e notare i cambiamenti nella natura mano mano che trascorreva il tempo. Era bello veder nascere i ciclamini nel sottobosco, a ciuffetti viola che creavano meravigliose macchie di colore. Quando il bosco fu tagliato si ri-proponeva il problema della sopravvivenza. Ci

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aggregammo a una cooperativa agricola formata da giovani, -allora eravamo giovani anche noi-, che ne sapevano quanto noi. Si partiva alle cinque del mattino e si tornava verso le tre del pomeriggio. Tornati a casa dovevamo continuare i lavori nella camera per il lama, poi c’era l’orto poi il giardino e poi si riposava. Ma eravamo felici e in piena forma. Però il centro non funzionava come avevamo sperato e decidemmo di tornare in India, per ritrovare il nostro maestro e continuare a praticare lì.

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RITORNO IN INDIA

Noi erranti, sempre in cerca della via piu solitaria, mai iniziamo un giorno dove l'altro abbiamo chiuso; ne ci trova aurora dove il tramonto ci ha lasciato. Anche

mentre la terra dorme noi andiamo errando

[ “il profeta” di K. Gibran]

Ritornammo ad abitare nella casetta a Sherabling, questa volta con l’elettricità. Fummo felici di ritrovare Salgye Rimpoce, e di averlo tutto il tempo a nostra disposizione per studiare, tradurre e meditare. Con lui traducevamo i ‘Centomila Canti di Milarepa’, un lavoro lungo e laborioso, e studiavamo il Nges Don rGya mTsho, un manuale molto elaborato per la pratica della Mahamudra. Dopo un po’ di tempo il rimpoce andò a fare il maestro nel centro di ritiro poco distante dal monastero-madre. Era felice perché così si allontanava dal rumore delle ruspe che stavano scavando per la costruzione del nuovo monastero. Noi andavamo a trovarlo. Non potevamo superare le mura del centro di ritiro; usciva lui con la sua sedia e ci faceva portare i

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tappetini. Siedevamo al sole e lui proseguiva con gli insegnamenti. Una volta, preso da furore mistico, gli dissi che avrei desiderato fare il ritiro di tre anni. Mi guardò stranamente mentre rispondeva: “A che cosa ti serve rinchiuderti per tre anni? Sei sposato e questo richiederebbe una divisione; puoi fare tutte le pratiche anche senza fare quel ritiro.”. Il mio furore mistico svanì con quelle parole! Molte furono le cose che mi sorpresero di lui. Fra queste: un pomeriggio siedevamo ai suoi piedi in camera sua. Ci stava dando la trasmissione di un testo lunghissimo; era seduto sul letto a gambe incrociate e teneva il libro in mano. A un certo punto interruppe la lettura e si addormentò, ma continuava a tenere il testo in mano. Il suo ‘pisolino’ durò a lungo, tanto che Kristin e io ci chiedemmo se era successo qualcosa. Poi si ‘svegliò’ e come se nulla fosse riprese la lettura dall’esatta parola che aveva interrotta. Non era il sonno di un vecchietto, ma la dimostrazione dell’essere sempre cosciente anche durante il sonno. Un’altra volta, sempre di pomeriggio, ci stava interrogando al riguardo di un’argomento sul quale si stava meditando. Non risposi bene alla sua domanda e

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lui perse la pazienza. Guardai Kristin e le dissi: “Ce ne andiamo?”. Nello stesso istante il rimpoce si alzò e disse: “Vado in bagno, ma non muovetevi di qui perché con voi non ho finito!”. Combinazioni? Può darsi! Dormiva seduto nella posizione del loto, con la schiena poggiata a un asse di legno senza mai sdraiarsi, e in questa posizione morì! Un giorno partì per il Nepal, voleva fare un pellegrinaggio. Quando andammo a salutarlo gli chiesi se ci avrebbe dato gli insegnamenti dei sei yoga di Naropa al suo ritorno. Mi rispose: “Se il karma lo vuole sicuramente.” Il karma non volle. Alcuni mesi dopo, una sera, eravamo seduti in un ristorante di McLeod Ganj, quando vedemmo entrare due monaci di Sherabling. Li invitammo a sedere con noi e chiedemmo dove stavano andando. Risposero: "A Kathmandu.", e non aggiunsero altro. Naturale che chiesi: "Ma perché?”. Uno di loro mi guardò e rispose: “Rimpoce!”. Non aggiunse altro, ma capimmo e fui colpito come da un pugno nello stomaco. Rimpoce era morto! Morto? Incredibile, tutte le teorie e gli insegnamenti sull’impermanenza in quel momento andarono al diavolo; la sua frase, detta tanto tempo prima: “Sarò sempre con voi, più da morto che da vivo.”, in quel momento mi risuonò antipatica. Smisi di mangiare e

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incominciai a bere e fumare per tutta la notte. Pensammo che la cosa migliore era tornare al monastero e continuare a praticare come lui desiderava. Ci dissero che era morto perché di notte aveva chiesto uno yogurt a Karwang, e questo glielo aveva dato freddo dal frigo. Una semplice congestione. Morì seduto e rimase seduto per tre giorni senza che il corpo cadesse. Non ci muovemmo dal monastero fin quando il suo corpo non fu portato dal Nepal. Al suo arrivo -era ormai passato più di un mese da quando era morto- la bara fu aperta e un amico monaco ci disse che non c’erano segni di decomposizione. La salma fu posta dentro un contenitore di legno e posato sull’altare principale per un paio di settimane. Era estate e noi andavamo ogni giorno a meditare davanti a lui; mi stupì che non ci fosse nessun cattivo odore! Furono fatti i preparativi per la cremazione e il suo attendente ci chiamò perché eravamo i suoi discepoli più vicini e sapeva dell’amore che ci legava a lui. Uno stupa fu costruito al centro del cortile, aperto sopra e da un lato, per fare entrare il contenitore con il corpo. Era una giornata meravigliosa, tanto sole, tanta gente e ai quattro lati del cortile quattro rimpoce erano pronti a cominciare i rituali non appena la pira fosse

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stata accesa. Aspettavamo perché mancava Situ Rimpoce. Nel momento in cui arrivò la pira prese fuoco da sola, nessuno aveva acceso il fuoco. Probabilmente una kata (una sciarpa ceremoniale) cadde su una lampada e questa prendendo fuoco accese la legna cosparsa di kerosene. Le fiamme consumarono immediatamente tutti gli ornamenti intorno, come se lui volesse rimanere nella sua modestia; erano alte e si stagliavano contro le montagne in fondo alla valle. Andai a fare un giro sul terrazzo, da solo, e incontrai un monaco che teneva il naso sollevato verso il cielo. Gli chiesi cosa stesse facendo e lui rispose: “Guardo se si vedono degli arcobaleni.”. Me ne andai. Lui, rimpoce, non credeva ai miracoli... La sera lo semi-stupa fu chiuso con lamiere e fu lasciato indisturbato per una decina di giorni. Qualche tempo dopo Karwang ci chiamò dicendo che lo stupa stava per essere aperto e voleva che noi aiutassimo a raccogliere i resti. Kristin cominciò a raccogliere le ceneri in un contenitore di bronzo, il cranio fu prelevato da Karwang in persona; io raccolsi alcuni pezzi d’ossa e chiesi se potevo conservarli come reliquie. Le ceneri furono messe in un’urna e l’urna, ancora oggi, è in una camera apposita nel centro di ritiro.

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Lama Karwang e lama Tobciu fecero l’inventario dei beni di rimpoce nella sua camera, fu un inventario molto veloce perchè rimpoce aveva pochissime cose. Ci chiesero se volevamo qualcosa in suo ricordo; io presi un suo cappellino, tipo coppola, che usava indossare quando faceva freddo, Kristin optò per la sputacchiera di plastica. Le sue ossa pendono ancora al mio collo dentro un piccolo gau box. Questo fu il saluto al nostro padre-lama. Tornammo nella nostra casetta, continuammo a fare le nostre pratiche. Mentre rimpoce era ancora vivo lo convincemmo a scrivere la sua biografia. Con il suo bel sorriso ci disse che l’aveva già fatto. Ci diede un quadernetto e noi pensammo di tradurlo. Qualche settimana dopo la sua morte un tibetano arrabbiato, proprietario di una fabbrica di tappeti in Nepal dove sfrutta il lavoro infantile mentre lui si arricchisce, si presentò alla nostra porta ‘esigendo’ la biografia di rimpoce perché lui ‘era un suo sponsor’. Non ci rimase altro che dirgli di aspettare qualche giorno se la voleva; la facemmo copiare per intero da un amico monaco consegnando l’originale al prepotente.

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La morte di rimpoce ha lasciato un grande vuoto nella mia vita. Il maestro seguente fu Mingyur Rimpoce. Ancora giovane e appena uscito dal ritiro, non aveva intenzione di insegnare a noi occidentali. Lama Karwang lo convinse dopo avergli spiegato che eravamo discepoli di Salgye Rimpoce e quindi avevamo lo stesso maestro. Era bravissimo, spiritoso, allegro e soprattutto si dedicava alla meditazione con costanza. Le nostre pratiche e la nostra traduzione di Milarepa andarono avanti con lui. Un giorno andai al monastero e incontrai una ragazza svizzera-italiana appena arrivata. Incinta. Da sola. Pochi soldi. Il bambino doveva nascere fra un paio di mesi. Parlammo un po’ e le dissi che se avesse avuto bisogno di qualcosa poteva chiamarmi. Me ne andai. Una mattina una monaca inglese mi chiamò urlando, dicendo di correre perché la svizzera stava partorendo. Mi chiesi cosa c’entravo io, non ero mica un ginecologo! Andai e mi dissero: “Sta partorendo!”. “Allora? Fatela partorire.”. “Non si può, nel monastero non è permesso, è una cosa negativa.”.

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“Cavolo, evviva i buddhisti. È cosi che si saluta un nuovo essere che arriva in questo mondo?”, chiesi. Bisognava portare via la partoriente. Ci fu un po’ di confusione perché inizialmente i monaci non volevano usare la jeep per portarla fino all’ospedale di Dharamsala; poi chiesero a Situ Rimpoce che accettò di mettere a disposizione la macchina. L’accompagnatore ero io. Chissà perché? Agitato e nervoso nel mio nuovo ruolo di assistente a una partoriente pensai a Tsewang, la moglie di Nyima, tre figli, che aveva partorito in una casetta nel bosco lontano dal monastero. Mentre aspettavo che la ragazza ricevesse qualche soldo in prestito dal monastero, Nyima, esperto in parti, mi si presenta con una lametta nuova in mano e me la porge. “Per cosa?”, chiesi. Mi disse: “In caso partorisca per strada devi tagliare il cordone ombelicale.”. “Cosaaaaaaaaaaaaaaaaa? Io, ma siete scemi?”, urlai. Convinsi Nyima a mandare la moglie con me, anche lei esperta, molto esperta. Meno male che accettò! Infatti prima di arrivare sulla strada principale la ragazza incominciò a stare male davvero. Il monaco-autista si lamentò e si agitò perché aveva paura che la macchina si sporcasse di sangue. Tsewang lo guardò male e disse:

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“Dì qualche preghiera!”. Per tutta risposta lui rispose: “Quale?”. Il parto stava per arrivare e ci fermammo vicino a un ruscello. Scendemmo e il monaco scappò via, lasciandoci con la ragazza in mezzo al bosco. Lei era assistita dalla tibetana che, ovviamente, le parlava in tibetano, e io traducevo. E il travaglio cominciò. Tsewang: “Dille di spingere.”. Io: “Spingi!”. Tsewang: “Dille di spingere più forte.”. Io: “Spingi più forte!”. Alla fine nacque. Una bella bimba. Tsewang la lavò nel torrente e me la mise in braccio. Avevo paura di scivolare con la piccola e chiesi: “Cosa faccio adesso?”. Tsewang: “Tienila, no?”. Ma non avevamo macchina, nè panni per asciugare la mamma e la bimba. Corsi al villaggio e chiamai un amico taxista che fece aprire un negozio per comperare lenzuola e asciugamani; tornammo al ruscello assieme, in macchina. Era fatta! Tsewang tornò al monastero, io portai la ragazza da un amico medico americano che abitava sulla strada verso Dharamsala. La moglie del medico le lavò entrambe con acqua calda, lui visitò la

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ragazza e la bimba trovandole bene. Le portai a Dharamsala. Non la rividi mai piu. Peccato! Una delle cose incredibili in questa storia è che mentre lei partoriva sulla riva di un ruscello la gente passava, adulti e bambini, e nessuno si fermò neanche per dare uno sguardo.

* * * Victor era un omone enorme, un’alto squadrato portoricano residente a San Francisco. Un veterano del Vietnam. Ci raccontava che aveva fatto tutta la guerra e sembra, almeno fisicamente, che gli era andata bene. Lo conoscemmo a Sherabling. Aveva cominciato a praticare il buddhismo per alleggerire la sua mente dagli orrori della guerra; tali erano le sue parole! Una persona dolce, spiritosa, ma sempre in ansia. Abitava nella guest- house del monastero e la sua finestra era visibile dalla nostra casa e noi ogni mattina ci alzavamo molto presto, verso le quattro, e notavamo un fascio di luce proveniente dalla sua finestra che cercava nella foresta. Una mattina andai a trovarlo; mi piaceva parlare con lui e alle volte minacciavo di picchiarlo. Era il doppio di me, mi abbracciava avvolgendomi come una coperta e rideva. Dunque mi recai nella sua camera e trovai tutti

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gli oggetti, letto compreso, fuori dalla porta. Gli chiesi cosa stava facendo e mi disse che aveva un topino in camera e non lo sopportava. Lui che aveva fatto la guerra! Quindi gli chiesi il motivo della luce che cercava nella foresta; mi guardò e disse che aveva sentito dei rumori e voleva controllare. Gli additai le due torce per terra e lui disse che dormiva sempre con la mano destra libera e l’altra sulla torcia: ricordi, ancora vivi dopo anni, lo riportavano sempre in Vietnam. Ci raccontò storie da film, solo che film non erano ma erano la realtà. Si mise a ridere quando gli chiesi dei Rambo. Rispose: “Hey man, in action we shit in our pants, you know! What fucking Rambo? Look.”. Mi mostrò la sua mano raccontandomi che era una ferita d’arma da fuoco. Erano nella giungla e il suo superiore gli disse di andare fuori per una perlustrazione. La sua risposta fu: “Fuck you man, look!”. Alzò la mano e gli spararono. Erano circondati e nessuno del suo plotone tornò indietro eccetto lui. Faceva parte di quei personaggi che combattevano senza nome dietro le linee nemiche, e li lo lasciarono con altri quando la guerra finì. Mi raccontò che fecero il percorso Vietnam-Laos-Thailandia a piedi, sempre di notte, e occasionalmente sparando per difendersi!

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Quel giorno decidemmo di fare una gita fino a Dharamsala, insieme con un altro veterano del Vietnam. Da queste parti, stranamente, se ne incontrano molti! La macchina, com’era naturale, poco distante da Dharamsala si ruppe. Scendemmo, e Victor guardava l’autista che cercava di ripararla. Gli chiesi se era capace di fare qualcosa, mi rispose che certo che lo era ma non ne aveva voglia. Bene! Mi girai e vidi l’altro veterano accovacciato vicino a un piccolo canale, con il suo pinguino (un pupazzo) nello zainetto, che parlava rivolto verso il canale. Mi avvicinai e gli domandai con chi parlava. “With the frog.”, rispose. Guardai nel canale ma di rane non ce ne erano! Infine la macchina ripartì per arrivare in città. La sera andammo a cenare con Victor, il pinguino era stato escluso perché Victor non lo sopportava. Victor sedeva sempre con le spalle al muro e rivolto verso la porta, era ossessionato. Appena finito di mangiare cominciava a dire: “Andiamo via, andiamo via.”. Era difficile trattenerlo. Poco dopo partì per il Nepal dove si iscrisse all’università per studiare sanscrito e per continuare ad avere il visto. Quando arrivai a Kathmandu lo cercai, domandai di lui perché era molto noto. Non sapevano dov’era e io mi sedetti su un rialzo a Boudhanath. A un certo punto vidi

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sotto di me un enorme sombrero che camminava, sotto c’era Victor. Eravamo felici di rivederci perché ci volevamo bene. La seconda volta che tornai e lo cercai di nuovo era sparito definitivamente e per sempre. Nessuno sapeva più nulla di lui, svanito e forse, come lui spesso accennava, ‘riassorbito dalla CIA’ con la quale aveva lavorato in Sud America. L’atmosfera al monastero si andava deteriorando; i rapporti con i monaci peggioravano fino al punto che una sera un amico andò in cucina a reclamare per il volume della musica troppo alto. Fu affrontato da un monaco con un coltello in mano, lo stesso che aveva guidato la jeep con la partoriente, che lo minacciò dicendogli che se non andava via non avrebbe esitato ad usarlo. Io fui ‘processato’ dai monaci perché ero stato strumentale nell'eliminazione di una sponsor per una tibetana che ne aveva già 4. Una gran parte della società tibetana dal ’59 fino a oggi vive sulle sponsorizzazioni degli occidentali. Prendendo a motivo l’occupazione del Tibet e il loro susseguente esilio i tibetani hanno saputo sfruttare la situazione e propagandare la loro ‘rovina’ nel mondo. Questo sicchè gli occidentali, per un qualche strano senso di colpa, elargiscono soldi a una

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popolazione che non ne ha bisogno. Molti di loro hanno non solo uno ma due o tre sponsors per lo stesso bambino/a o per la stessa persona adulta, non si sa bene dove finiscono questi soldi perché spesso sono gestiti da organizzazioni tibetane. Rimane di fatto che i giovani tibetani, che tendono più a ri-esiliarsi in occidente che a tornare in Tibet, indossano capi di vestiario firmati, girano con moto costose ma hanno sempre bisogno dello sponsor come un qualcosa che oramai è entrato nella loro cultura. Un nostro conoscente tibetano ci diceva anni addietro: “I tibetani sono gli esiliati più ricchi del mondo: hanno sponsor anche per i loro cani!”. La sentenza -naturalmente in mia assenza- fu: ‘Espulsione dal monastero’. I monaci più vecchi che mi conoscevano da anni si opposero e tutto finì lì. Una amica monaca andò dal rimpoce a reclamare per la confusione e i rumori provenienti dal monastero che disturbavano i praticanti. Lui rispose che il monastero era un luogo per i monaci, che questi facevano del loro meglio, e se non riusciva a sopportare la situazione era forse il caso di cercarsi un altro luogo. Rimpoce era cambiato, non aveva più bisogno di noi; noi eravamo stati un mezzo per metterlo in contatto con un mondo

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occidentale più ricco e disponibile alle sponsorizzazioni, noi eravamo solo dei praticanti. Passarono gli anni e decidemmo di trasferirci a Dharamsala, dove si vive con un po’ più di comodità, in una casa senza topi e con elettricità. Ma in estate ci sono i monsoni, e qui sono molto forti. Per alcuni anni, da maggio a novembre, ci trasferivamo più in alto, nel Ladakh.

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LADAKH

I am a ball in the field of months and years. In the fate’s game of polo, I roll from station to station

[Abdul Rahman Jami] L’estate era la stagione lavorativa per noi e quindi ci recavamo in Ladakh per accompagnare gruppi di turisti. All'inizio facevamo soprattutto trekking; i trekking avevano differenti gradi di difficoltà e differente durata, e di solito io accompagnavo quelli meno difficili perché sono pigro. Si camminava per ore al giorno, spesso nel deserto pietroso e privo d’ombra. Alle volte, attraversando piccoli villaggi dove la vita si era fermata a qualche secolo addietro, facevamo una piccola sosta e chiacchieravamo con gli abitanti. Sempre ospitali, sempre gentili. Un giorno il cielo di solito terso si coprì di nuvole nere e basse, non mancò molto che fummo sotto una pioggia torrenziale; dovemmo camminare a lungo per arrivare a un villaggio e chiedemmo ospitalità in una casa. Eravamo fradici e avevamo deciso di non

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continuare più per quel giorno. L’accoglienza fu calorosa in tutti i sensi. Ci dettero la possibilità di cambiarci e sedere vicino al fuoco per riscaldarci, ci offrirono del tè e la sera dormimmo al coperto in un paio di stanze invece che nelle tende. In una giornata di marcia normale si arrivava al campo che le tende erano già sistemate e il cuoco ci faceva trovare tè, caffè e biscotti disposti su un tavolo da campo circondato da seggiolini pieghevoli. La sera si cenava attorno al fuoco e dopo si tiravano fuori le bottiglie di Old Monk, il rum indiano. Il personale dello staff si sedeva con noi e spesso la gente del villaggio ci raggiungeva per assistere e partecipare alle nostre piccole festicciole. La musica era il compito dei nostri amici dello staff. Come tamburi venivano usate le taniche vuote della benzina; incredibile la musica e il ritmo che ne usciva. I ladakhi cantavano una loro canzone e noi dovevamo rispondere con qualcosa in italiano. La gente del villaggio si univa ai canti e spesso ballavano le loro danze intorno al fuoco. Nonostante la giornata impegnativa che ci aspettava si andava a dormire sempre molto tardi. Il Ladakh è deserto, un bel deserto di pietra solcato in estate da alcuni fiumiciattoli dall’acqua limpida tributari dell’Indo, vicino ai quali sorgono i villaggi all’ombra dei

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salici o dei pioppi. La gente, principalmente seguaci del buddhismo tibetano, è ospitale e serena; lavorano ancora i campi con l’aratro trainato dagli dzo (tipici animali domestici, un ibrido dello yak e la mucca). Le case sono simili a quelle tibetane, una specie di piccoli fortini sui quali sventolano le lungta - le bandierine sulle quali sono stampati mantra protettivi-; sono spaziose perché destinate ad ospitare tutta la famiglia congiunta, compresa quella dei figli con mogli e nipoti. Le cucine sono ampie e intorno ai muri, sulle mensole, sono sistemati i piatti, le pentole, le ciotole, quasi sempre in ottone o rame scintillante. Un lato della camera è riservato a una fila di tavolini bassi, con cuscini per terra sistemati vicino al muro; lì si mangia. In inverno una stufa di latta decorata alimentata con sterco di yak provvede al riscaldamento del locale. Nelle altre stanze sono sistemate piccole stufe a legna; senza di quelle si gelerebbe! I monasteri, punti di riferimento per la popolazione, sorgono con molta imponenza sulle colline. Sono ancora abitati e vivi. Ancora la comunità monastica li adopera per le loro funzioni, a differenza del Tibet dove molti monasteri sono, oramai, musei. Le montagne, che fanno da protezione ai villaggi, sono formate da rocce stratificate di diversi colori, dal rosa al

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verde al nero. L’acqua dell’Indo in inverno è verde e fredda, contrariamente all’estate quando è fangosa e veloce. La comunità buddhista vive pacificamente con la comunità musulmana ed entrambe con la comunità militare che come numero supera le prime due messe insieme. Ma tutto è tranquillo e il turismo è una delle risorse della zona, che rovina non poco il silenzio delle valli popolate da greggi di capre, pecore , dzo e alle volte yak. Nei giorni di riposo si andava a camminare su per le montagne circostanti. La nostra casa era un po’ fuori città; per pranzo e cena ci recavamo in paese camminando su una strada silenziosa circondata da coltivazioni d’orzo. Incontravamo gli amici occidentali che come noi vivevano a Leh, e mangiavamo nei giardini dei ristoranti locali. Era in uno dei miei trekking che visitai il monastero di Phyang e conobbi il suo abate. Kristin e io avevamo in mente di fare un ritiro, e cercavamo un posto tranquillo. Scegliemmo il monastero di Phyang, non molto distante da Leh, ma comunque isolato. Qualcuno ci aveva parlato di una casetta di ritiro situata in una piccola valle, distante dalla strada, di proprietà del monastero. Ci recammo a

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Phyang in pullman per chiedere se era possibile stare nel loro tsamkhang (casa di ritiro) e parlammo con l’abate. Una persona deliziosamente dolce. Acconsentì e ci fece accompagnare da un monaco che avevamo già incontrato nei nostri tour turistici. Il sentiero che portava allo tsamkhang attraversava il deserto per un breve tratto; oltrepassato una collinetta si perdeva di vista il gompa principale e si scendeva verso una piccola oasi. La casetta era costruita sopra un rialzo; sotto vi erano dei salici, un po’ di erba e una sorgente d’acqua quasi gelata. L’interno era composto da due camere, niente luce elettrica, niente riscaldamento. Nessuno poteva avvicinarsi senza essere visto da lontano e la strada era distante; il silenzio era assordante e noi eravamo felici di aver trovato un simile posto! Tornammo a Leh e comperammo le provviste al bazar. Il bazar di Leh consiste in un’unica strada con molti negozi, e tante donnine locali sedute sul marciapiede che vendono le verdure dei loro orti; più avanti alcuni uomini, sempre seduti per terra, vendono deliziose albicocche secche. Comperammo tutto quello che poteva essere necessario per qualche settimana, una bombola di gas per la cucina, e basta. Pochi giorni

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dopo organizzammo una jeep, stracarica, e partimmo per lo tsamkhang. Qualunque persona vada in ritiro in Ladakh è guardata con una speciale attenzione, una sorta di riverenza, e così fummo salutati anche noi. Molto prima del monastero la jeep lasciò la strada principale e s’immise su una pista che portava alla casetta; si fermò su un cocuzzolo e l’autista, insieme a un’altra persona venuta appositamente da Leh, trasferirono tutti i bagagli nella casa. Era pomeriggio e avemmo ancora tempo per andare al monastero e metterci d’accordo che ogni decina di giorni doveva venire un monaco a prendere la lista per la spesa da fare al bazar di Leh. Comperammo anche un sacco di sterco di yak per la stufa, unico mezzo di riscaldamento. Il monaco pendolare si rivelò prezioso e soprattutto puntualissimo e attento cercando di non interrompere le nostre sessioni di meditazione durante le sue visite. Dividemmo le due camere in questo modo: la più grande come cucina, stanza da lavoro per le traduzioni dal tibetano alla sera, e camera di meditazione per Kristin durante il giorno. L’altra, più piccola, fungeva come stanza da letto e camera di meditazione per me.

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La prima sera fu tragica. Dovevamo cucinare stando seduti per terra e con la luce di una lampada a gas più candele. Dovevamo pulire almeno un pochino laddove avevamo sistemato per terra i materassi con i sacchi a pelo, il nostro letto. Phyang è situata a 4000 metri di altitudine, e ogni sforzo, anche quello di chinarti e rialzarti, ti porta alla tachicardia! Intanto si era fatto sera e stanchi morti ci sedemmo sullo spiazzo antistante la casa a guardare il cielo. Un tappeto di stelle, vicinissime. Il silenzio! Il silenzio fu quello che più mi spaventò la prima sera. Pensai che doveva essere come quello della morte, dell’assoluto, dello spazio che ci sovrastava. Non si sentiva nulla, ma proprio nulla. Addirittura il ronzio delle orecchie spaventava come un qualcosa fuori luogo. Andammo a dormire un po’ timorosi, ma poi ci chiedemmo chi avrebbe avuto voglia di venire fino qui di notte. Organizzammo la nostra giornata in quattro sessioni di meditazione. La prima all’alba, dopo una tazza di tè conservato la sera prima in un thermos. Poi si faceva colazione, e un po’ di toilette - l’acqua era troppo fredda. La seconda sessione durava fino a mezzogiorno. Pranzo fuori al sole. La terza sessione fino alle 17,30. Poi ancora all’aperto, si passeggiava nella piccola oasi, si

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andava a prendere l’acqua e si esplorava il vicinato. Dopo cena traducevamo o studiavamo i testi di pratica, e infine l’ultima sessione prima di andare a dormire. Sicuramente il silenzio era un buon incentivo per la pratica di meditazione, i pensieri diventavano più limpidi e le abitudini mentali si modificavano con il tempo. Ogni mattino facevamo i nostri esercizi di yoga all’aperto, sotto quel cielo terso e blu senza nuvole per intere settimane. Dopo qualche tempo di permanenza la nostra attenzione fu attirata da colpi d’arma da fuoco. Degli spari? Scoprimmo che nella valle a fianco, saltuariamente, l’esercito faceva esercitazioni di tiro. Noi non li vedevamo e loro non vedevano noi e poi non era cosi fastidioso. A volte l’abate veniva a trovarci per sapere come stavamo e con lui passavamo un po’ di tempo seduti al sole a parlare di pratica. Una piccola mandria di dzo fece la sua apparizione. Arrivava da sola da uno dei villaggi e al tramonto se ne tornava a casa finchè una sera uno dzo decise di fermarsi a dormire sotto la casa. Era enorme e sembrava si fosse trattenuto per farci compagnia. Al mattino lo vennero a recuperare. Un pomeriggio, al tramonto, eravamo fuori a goderci gli

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ultimi raggi di sole. Come detto il silenzio era totale quindi non si faceva fatica a sentire anche i più piccoli fruscii. Il fruscio arrivava dalla cima della collina che ci separava dalla valle delle mitragliatrici. Una famigliola di cervi, magnifici esemplari, immobili ci guardavano seduti dalla cresta, noi immobili li guardavamo dalla valle e aspettammo che andassero via senza essere disturbati. Tornarono spesso. Non vi erano altri contatti con esseri viventi. Alla fine del ritiro si faceva la puja del fuoco, un rituale di purificazione per gli errori sia fisici che mentali commessi durante la pratica. Richiedeva una preparazione elaborata. S’iniziava andando al monastero per procurarci sacchi di sterco di yak e possibilmente della legna. Dovevamo fare delle torme, offerte fatte di tsampa [farina di orzo abbrustolita], dovevamo raccogliere una particolare erba [la tsa durwa] e fare altri tipi di preparativi. Era una puja lunga e faticosa perché mentre uno di noi leggeva un lungo testo e ritualizzava con campanelle, damaru e altri oggetti che servivano per versare olio sul fuoco in momenti determinati, l’altro compiva il rituale di prendere le offerte e gettarle nel fuoco, che erano

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molte. Incominciavamo subito dopo l’alba e si andava avanti quasi fino al tramonto, con una breve interruzione per mangiare. Per fortuna il fuoco riscaldava molto. Senonchè un giorno in cui ero io quello seduto che faceva il rituale del fuoco, a un certo punto sentii molto caldo all’altezza dei testicoli. Guardai insospettito e mi accorsi che il cuscino sul quale sedevo stava prendendo fuoco. Una benedizione? Mah. Alcuni visionari del dharma l’avrebbero interpretato come un segno, un’indicazione che bisognava abbandonare il sesso ... E così le giornate scorrevano tranquille; l’unico problema erano eventuali attacchi di diarrea la notte: non avendo un bagno dovevamo andare fuori e, credetemi, faceva freddo. Uno degli ultimi giorni, al mattino, uscimmo per trovare il deserto imbiancato di neve; era meraviglioso! Le pietre erano scomparse sotto la coltre di neve e il freddo si era fatto più freddo, il silenzio più silenzioso. Ci organizzammo per tornare a casa con la jeep e tutto il resto; salutammo il nostro amico abate del monastero e via….. Avevamo una casa in affitto a Leh, ed era il mese di novembre. Anche i campi in questa stagione sono addormentati. L’Indo scorre con acque verdi e pulite

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tanto da vedere i sassi sul greto, e solo i salici sono ancora verdi. In casa c’erano -5 gradi. Un gelo. Il nostro amico, il proprietario della casa, ci fornì legna per la stufa, manco se bastasse a riscaldarci. Inoltre il bazar era diventato deserto, le bancarelle si svuotavano del cibo e così dopo poco decidemmo di tornare verso l’Himachal Pradesh, verso l'altra nostra casa, in un clima leggermente più mite. L’aereo sorvolò proprio la valletta dove c’era lo tsamkhang. Non avevamo nostalgia perché sapevamo che ci saremmo tornati in estate per accompagnare qualche gruppo, e che ci saremmo ancora fermati per un altro breve ritiro. ..

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TSO PEMA Ritornati in Himachal Pradesh decidemmo di andare a praticare a Tso Pema –chiamato Rewalsar in Hindi - , un piccolo villaggio situato intorno ad un lago altrettanto piccolo vicino a Mandi. Il suo nome significa ‘il lago del loto’. Poco conosciuto come luogo di pellegrinaggio fino ad alcuni decenni addietro, -così ci fu detto da un nostro amico scholar tibetano di Dharamsala-, di colpo era diventato luogo di venerazione per i tibetani, gli indù e i sikh. Sulle acque calme del laghetto alcuni cespugli di canne, considerati come una manifestazione di Guru Rimpoce, -il famoso mahasiddha che introdusse il buddhismo tantrico in Tibet nell’ottavo secolo-, si muovono ‘magicamente’ da una sponda all’altra. La leggenda narra che in questo stesso luogo Guru Rimpoce fu condannato al rogo dal re di Mandi, dopo che questi aveva scoperto che la figlia Mandarava era diventata seguace del Guru vagabondo di passaggio in questa contrada. Ma Guru Rimpoce aveva dei poteri magici, e quindi trasformò la pira in un lago, mentre la

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sua presenza rimane tuttora manifesta rappresentata dal canneto nell’acqua. Qui abitava Ontrul Rimpoce. Eravamo partiti da Sherabling in perlustrazione su un taxi che bucò ben sei volte durante il tragitto. Era di proprietà dello stesso personaggio che mi aveva aiutato con la partoriente svizzera. La strada, tutta curve, si arrampica da Mandi fino a Tso Pema; arrivando ci si trova davanti a un arco che segna l’ingresso alla zona lago, mentre il villaggio indiano si trova sulla sinistra. Superato l’arco s’incontra il monastero di Ontrul Rimpoce sulla destra, e più avanti la gurudwara sikh; sull’altra sponda un tempietto indù e un altro monastero tibetano. Alloggiammo in una decente Himachal Tourism Guest House e il giorno dopo incominciammo a perlustrare. Per prima cosa ci recammo al monastero tibetano nyingmapa di fronte a quello di Ontrul Rimpoce; avevano camere ma la pulizia era veramente scadente, in più si trovava vicino a un piccolo agglomerato di case tibetane e per bagno ci indicarono i prati. Cancellato. Giro del lago e arrivammo al gompa di Ontrul Rimpoce. Lo incontrammo sulla terrazza che guardava il lago e notammo che vicino a lui vi erano la moglie e i suoi tre figli. Più tardi, quando

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eravamo entrati in confidenza, mi avrebbe spiegato che lui e suo fratello -un’altro rimpoce- avevano provato a seguire la vita ascetica facendo dei ritiri nelle grotte sopra Tso Pema, ma con pochi risultati; avevano conosciuto due sorelle e le avevano sposate. Lui rimaneva sempre l’abate del gompa, ma non aveva i voti del celibato e del monaco. Era una bella persona. In quel tempo il suo gompa non era molto grande: oltre al tempio principale comprendeva la loro casa su due piani e una piccola guest-house con il bagno fuori. Notammo subito la mano femminile nel complesso: fiori, pulizia e ordine in tutto. I monaci residenti erano pochi, fra loro vi erano alcuni bambini. Tashi Drolma, la moglie, si prendeva cura dei monachelli come se fossero un estensione della sua famiglia: li consolava quando piangevano, li faceva giocare quando era tempo di giocare e li faceva studiare, con attenzione severa, quando era ora di studiare. Rimpoce li seguiva negli insegnamenti spirituali. Spiegammo al rimpoce il motivo della nostra visita. La moglie si dette molto da fare per trovarci una sistemazione. Nel villaggio, non lontano dal gompa, vi era una casa appena costruita e noi l’affittammo. Un disastro! Era composta da due camere con i muri ancora

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impregnati d’acqua, una cucina piccolissima e una verandina, e mancava l’acqua. Dicemmo al proprietario che saremmo entrati solo quando vi sarebbe stata l’acqua. Un giorno telefonò al gompa e disse: “L’acqua è allacciata.”. Bene! La sua frase detta con orgoglio stava a significare che aveva messo un bidone fuori, con un tubo collegato al rubinetto che entrava in casa. Ogni mattina lui stesso portava l’acqua e la versava nel bidone. Quindi noi avevamo l’acqua. Qui avevamo un buon amico. Un magnifico cane aveva scelto la nostra veranda come abitazione; noi gli davamo da mangiare e lui in cambio faceva la guardia. Era molto coscienzioso nel suo lavoro, tant’è che passava la notte ad abbaiare. Sembra che in India i cani abbiano un sistema di vita particolare: dormono di giorno e vegliano di notte chiacchierando ad alta voce fra di loro. Così lui passava la notte ad abbaiare finchè decidemmo di cambiargli il suo stile di vita. Gli demmo delle pillole per farlo dormire e lui sparì per due giorni. La nostra preoccupazione era grande, pensavamo di averlo ucciso..ma no... tornò e ricominciò la sua guardia. Così passammo l’inverno a studiare e a fare pratica di meditazione. La casa non era il massimo, a causa

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dell’umidità e perché situata in mezzo alle case degli indiani, curiosi di vedere questi occidentali sempre rintanati all’interno. Ma tre mesi passano in fretta, e per l’estate tornammo in Ladakh. Dopo un’altra estate passata tra i monti brulli e la luce fantastica dell’altopiano, fatto qualche trekking con gruppi di turisti per raccimolare qualche soldino, ecco che i due ‘vagabondi del dharma’ scesero un’altra volta a valle, pronti per un nuovo inverno di ‘spiritualità’. Ritorno da Ontrul Rimpoce. Questa volta ci disse che poteva darci un paio di camere nella piccola guest-house, in riva al lago. Tornammo a Sherabling, bagagli e via a Tso Pema. Ci sistemammo nella nuova casetta e riprendemmo le pratiche, questa volta seguiti saltuariamente da Ontrul Rimpoce. Spesso mangiavamo le buone cose che preparava Tashi Drolma, insieme a loro nella cucina della famiglia; altre volte cucinavamo nella nostra camera. Ma non era così tranquilla, Tso Pema. Verso il tramonto iniziava una puja nel tempio sikh, e durante la notte il tempio indù ci allietava con la sua musica assordante: quando non era per tutta la notte ci davano la sveglia verso le quattro del mattino. E va bene, accettiamo pure la musica sacra. Ma poco distante vi era il bazar con orde di cani nella strada.

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Questi cominciavano ad abbaiare verso le otto, e andavano avanti tutta la notte. Che fare... il posto era comunque piacevole. Talvolta salimmo alle grotte dedicate a Guru Rimpoce. Ora sono trasformate in grotte per pellegrini/turisti, ma allora dentro non vi era nulla tranne che un piccolo altare e il giaciglio dove dormiva la monaca guardiana. Erano fredde, umide e scivolose, ma sacre! Poco sotto le grotte viveva una comunità di monache e monaci eremiti, in piccole capanne nella foresta, un ambiente molto tranquillo. Ci fermavamo nelle grotte per fare un po’ le nostre pratiche e poi si scendeva. Il pomeriggio facevamo la kora intorno al lago con altri devoti tibetani laici o monaci. Nel lago si trovavano dei semi triangolari, i semi delle canne dei cespugli sacri, con tre punte e molto fragili; ci avevano detto che erano degli amuleti formidabili, motivo per il quale io ne facevo incetta, li facevo seccare e poi li regalavo agli amici di Sherabling. Così le giornate procedevano rilassate fra la pratica e le nostre passeggiate. Le finestre della nostra camera davano sul lago e quindi anche sul piccolo villaggio tibetano, sull’altra sponda del lago. Una mattina mi svegliai e vidi una fiamma gigantesca verso il villaggio; feci un’allusione al fuoco del

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gtum-mo, la pratica yogica del calore interiore. Non avevo capito che si trattava di un incendio che stava devastando una casa e che in quel momento quattro persone stavano bruciando vive all’interno. Più tardi nella mattina andammo a vedere. Della casa non restava nulla, e i corpi bruciati delle persone abbracciavano le grate di sicurezza sulle finistre nel disperato tentativo di salvarsi. Quello che mi sconvolse è che il giorno dopo, nell’altro monastero, apparvero le foto dei corpi bruciati e la richiesta di soldi per ricostruire la casa. La richiesta poteva andare bene, ma usare le foto... Rimpoce doveva partire con la famiglia e ci propose di muoverci in casa sua per avere più comfort e per sorvegliarla. Ci aveva messo a disposizione una bella cameretta ma uno di noi doveva dormire nella stanza dove riceveva i devoti per fare la guardia affinchè durante la notte non sparisse nulla. In quel periodo facevamo molti esercizi di yoga tibetano, esercizi che richiedevano uno sforzo fisico e resistenza notevole perché andavano fatti quattro volte al giorno per qualche mese. Il fisico era in ottima forma ma non si poteva dire altrettanto dello stomaco: la fame era eccezionale. Quindi un giorno decidemmo di andare a

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comperare della carne di montone e cucinarla alla ‘griglia’. Era per cena. Il profumo della carne che si rosolava sul fuoco ci fece venire un’acquolina tipo cascata e la mangiavamo mentre si cuoceva senza aspettare di sederci comodamente sui cuscini. Allora capimmo che bisognava cambiare qualcosa nella nostra alimentazione: dopo anni di riso, dal e verdure il corpo stava reclamando alimenti più sostanziosi! La cucina era utilizzata anche per le nostre traduzioni serali. Sedevamo tranquilli sui cuscini a studiare anche se eravamo un po’ infastiditi dai topolini che passavano sfacciatamente sui testi. Kristin si stufò e ne prese uno per la codina, gli disse qualcosa e lo portò fuori. Dopo qualche minuto era di nuovo a scorazzare vicino a noi... Con rimpoce diventammo molto amici per cui non ci facevamo scrupolo di lamentarci su alcune cose che non capivamo a riguardo del clero tibetano. Lui rispondeva con franchezza. Ad esempio una volta gli chiesi perché in molti testi vi era scritto: “Per spiegazioni più profonde bisogna chiedere al lama.”. Lui ci rispose ammiccando: bisognava andare dal lama, offrirgli una kata, e se questa era ben farcita di offerte l’insegnamento veniva

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dato, altrimenti veniva richiesto al discepolo di ri-tornare . Un giorno gli chiedemmo spiegazioni sulla karmamudra, una pratica basata sulla manipolazione dell’energia sessuale. Eravamo sul terrazzo, vi erano anche i suoi tre bambini. Ci rispose ridendo: “Non posso aiutarvi. Vedete, ho fatto tre errori!”. La sua spontaneità, semplicità e amicizia furono il motivo per il quale lo avevamo invitato in Italia. Volevamo uscire un pochino dal modello classico del lama monaco e presentare qualcuno che aveva più dimestichezza con la vita giornaliera. Questo non vuole dire che non era preparato su quello che doveva insegnare, anzi lo faceva molto bene.

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EPILOGO

Ora abito a Dharamsala, faccio il travel agent e non ho più molto tempo per le pratiche, anche se rimangono impresse nella mente e spesso ritornano alla consapevolezza ricordandomi le parole del mio padre-lama: “Non perdere tempo e pratica! ”. Mi sono allontanato molto dal mondo tibetano. A Sherabling ebbi modo di constatare da vicino che la vita in un monastero tibetano non è molto differente dal nostro mondo: arroganza, cupidigia, ipocrisia, violenza, spiacevoli caratteristiche che uniscono la nostra società laica con la loro, il nostro clero con il loro. Oggi non ho più il brio e la voglia d’avventura di una volta. Passo le mie giornate in questo stupendo posto circondato dalle montagne innevate del Dhauladar, con il mio Jampa e Kristin. Forse, però, qualcosa lo farei ancora, per un ultima volta: la strada fino in Italia, e tutto quello che ho raccontato fin’ora... Dharamsala 16 marzo 2007

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