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Autori Vari Fantascienza Racconti Brevi II Pocket Series © 1990 DUELLO SULLA SIRTE di Poul Anderson Poul Anderson, autore di questo racconto dal titolo originale «Duel on Syrtis», è uno dei più prolifici scrittori americani di fantascienza, noto e apprezzato da legioni di "fans" in tutto il mondo. Le sue opere sono infatti tradotte in numerosissime lingue. Poul Anderson è nato nel 1926 negli USA, in Pennsylvania, da genitori scandinavi ed è vissuto in Danimarca subito dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1948 si è trasferito negli USA presso l'Università del Minnesota. È così avvenuto l'incontro di Anderson con scrittori affermati come Simak e Gordon Dickson che hanno indotto il giovane studioso di fisica a dare inizio alla sua carriera di scrittore di fantascienza. Il primo scritto di Anderson è del 1947 ed è apparso su «Astounding Science Fiction». Si intitolava «Tomorrow Children». La notte sussurrò il messaggio, un messaggio che viaggiò per miglia e miglia di plaghe deserte, trasportato dal vento, diffuso dal fruscio dei licheni semisenzienti e degli alberi nani, mormorato da una all'altra di quelle creaturine che si annidavano nei crepacci, nelle caverne, nelle dune ombrose. Un messaggio che non era fatto di parole, ma che era una pulsazione di paura che riecheggiò nel cervello di Kreega e il messaggio carico di monito diceva: Sono tornati in caccia. Kreega provò un brivido sotto un'improvvisa folata di vento. La notte era enorme attorno a lui, sopra di lui, dalla tetra massa di quelle colline amare alle lucenti costellazioni che roteavano a migliaia di anni luce sopra di lui. Tremebondo sondò il vuoto con le sue percezioni, sintonizzandosi sulla steppa e sul vento e su quelle piccole cose che scavavano gallerie Autori Vari 1 1990 - Racconti Brevi II

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Autori Vari

FantascienzaRacconti Brevi II

Pocket Series © 1990

DUELLO SULLA SIRTEdi Poul Anderson

Poul Anderson, autore di questo racconto dal titolo originale «Duel on Syrtis», è uno dei più prolifici scrittori americani di fantascienza, noto e apprezzato da legioni di "fans" in tutto il mondo. Le sue opere sono infatti tradotte in numerosissime lingue. Poul Anderson è nato nel 1926 negli USA, in Pennsylvania, da genitori scandinavi ed è vissuto in Danimarca subito dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1948 si è trasferito negli USA presso l'Università del Minnesota. È così avvenuto l'incontro di Anderson con scrittori affermati come Simak e Gordon Dickson che hanno indotto il giovane studioso di fisica a dare inizio alla sua carriera di scrittore di fantascienza. Il primo scritto di Anderson è del 1947 ed è apparso su «Astounding Science Fiction». Si intitolava «Tomorrow Children».

La notte sussurrò il messaggio, un messaggio che viaggiò per miglia e miglia di plaghe deserte, trasportato dal vento, diffuso dal fruscio dei licheni semisenzienti e degli alberi nani, mormorato da una all'altra di quelle creaturine che si annidavano nei crepacci, nelle caverne, nelle dune ombrose. Un messaggio che non era fatto di parole, ma che era una pulsazione di paura che riecheggiò nel cervello di Kreega e il messaggio carico di monito diceva: Sono tornati in caccia.

Kreega provò un brivido sotto un'improvvisa folata di vento. La notte era enorme attorno a lui, sopra di lui, dalla tetra massa di quelle colline amare alle lucenti costellazioni che roteavano a migliaia di anni luce sopra di lui. Tremebondo sondò il vuoto con le sue percezioni, sintonizzandosi sulla steppa e sul vento e su quelle piccole cose che scavavano gallerie

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sotto i suoi piedi, lasciando che fosse la notte a parlare per lui.Solo. Solo. Non c'era un altro marziano nel raggio di cento miglia. Solo

il vuoto. Solo i minuscoli animaletti e le sterpaglie tremanti e il triste, sottile ansito del vento.

Il grido senza voce dei morenti viaggiò di pianta in pianta attraverso le macchie di vegetazione, riecheggiato dalle pulsazioni di terrore degli animali e riflesso sonoramente dalle colline. Ed essi si raggomitolarono, si raggrinzirono e si annerirono mentre il razzo li inondava della morte luminescente e le loro vene, i loro nervi avvizziti, gridavano il loro grido di dolore alle stelle.

Kreega si rannicchiò contro uno scheletrico spuntone. I suoi occhi erano come delle lune gialle nelle tenebre, freddi di odio e di terrore e in essi vi si poteva leggere la decisione che stava lentamente maturando. Con espressione tetra, giudicò che la morte veniva seminata in un raggio dal diametro di dieci miglia. E lui era intrappolato proprio dentro di esso e presto il cacciatore sarebbe venuto a cercarlo.

Alzò lo sguardo verso le stelle che brillavano indifferenti e tutto il suo corpo fu percorso da un lungo fremito. Poi sedette e cominciò a pensare.

***

Tutto era cominciato qualche giorno prima nell'ufficio privato del commerciante Wisby.

- Sono venuto su Marte - disse Riordan - per procurami un civetto.Wisby in tanti anni aveva ormai imparato il valore di una faccia

perfettamente impassibile, da giocatore di poker, quindi scrutò l'uomo da sopra il bordo degli occhiali, cercando di valutarlo.

Anche in un buco dimenticato dal Signore come Port Armstrong, chiunque aveva sentito parlare di Riordan. Erede di una ditta di spedizioni del valore di un milione di dollari che lui stesso aveva trasformato in un gigante tentacolare presente in tutto il Sistema Solare, Riordan aveva anche fama di grande cacciatore. Aveva preso prede dappertutto, dai draghi di fuoco di Mercurio, ai mostri striscia-ghiaccio di Plutone, con l'unica eccezione di un marziano, naturalmente. Quella particolare caccia, infatti, era ormai proibita.

Riordan si spaparanzò sulla sedia. Era un uomo ancora giovane, grosso, forte e spietato che faceva rimpicciolire quella stanza così disordinata con

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la sola sua presenza e la forza che sembrava sprigionare. I suoi freddi occhi verdi soggiogarono il commerciante.

- È illegale, lo sapete bene - gli disse Wisby. - E se vi prendono, sono vent'anni di galera.

- Bah! Il Commissario per Marte si trova su Ares, dall'altra parte del pianeta. Se ci diamo subito da fare, chi verrà mai a saperlo? - Riordan ingollò il suo drink. - Mi rendo benissimo conto che fra un altro anno o giù di lì avranno talmente stretto i freni che la caccia sarà assolutamente impossibile. Questa insomma è l'ultima occasione di potersi aggiudicare un civetto. Ed è per questo che sono qui.

Wisby esitò, guardando fuori dalla finestra. Port Armstrong non era altro che un ammasso polveroso di cupole, collegate tra di loro da tunnel, disposte su un immenso deserto di sabbia rossa che si stendeva fino all'orizzonte. Un terrestre munito di tuta pressurizzata e di casco trasparente stava camminando per la strada e contro una parete ciondolavano un paio di marziani. Per il resto niente... una monotonia silenziosa e mortale che covava sotto un sole sempre più piccolo. La vita su Marte non era particolarmente piacevole per un essere umano.

- Voi non vi siete lasciato prendere da tutto quell'amore per i civetti che ha corrotto la Terra? - chiese Riordan con sprezzo.

- Oh, no! - esclamò Wisby. - Io li tengo al loro posto a casa mia. Ma i tempi stanno cambiando. Non c'è nulla da fare.

- C'è stato un tempo in cui erano schiavi - gli ricordò Riordan. - Adesso ci sono quelle vecchie beghine della Terra che gli vogliono dare perfino il voto! - sbuffò con indignazione.

- Sicuro, i tempi stanno cambiando - ripeté Wisby in tono più tranquillo. - Quando i primi umani atterrarono su Marte un centinaio di anni fa, la Terra era appena passata attraverso gli orrori delle Guerre degli Emisferi. Le peggiori che si fossero mai conosciute. Per poco tutte le vecchie idee di libertà ed eguaglianza non andarono a pallino. La gente era diventata dura e sospettosa... ed era necessario che lo fosse, se voleva sopravvivere. Così non era in grado di fraternizzare con i marziani, o comunque vogliate chiamarli. Non riusciva assolutamente a considerarli nulla di più che animali intelligenti. E i marziani si rivelarono degli schiavi veramente utili... Avevano bisogno di pochissimo cibo, calore e ossigeno. Potevano perfino sopravvivere per un quarto d'ora o giù di lì senza neanche respirare. E i marziani selvatici potevano offrire anche una bellissima

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diversione sportiva... Erano una preda intelligente che poteva spesso riuscire anche a sfuggire e qualche volta era perfino in grado di uccidere il cacciatore.

- Lo so - disse Riordan. - È per questo che voglio dare la caccia a un marziano. Non c'è nessun divertimento se anche la selvaggina non ha una possibilità di difesa.

- Ma adesso è diverso - continuò Riordan. - La Terra ha conosciuto un lungo periodo di pace. Prevale la sinistra moderata e naturalmente una delle sue prime riforme è stata di porre fine alla schiavitù dei marziani.

Riordan imprecò. Il rimpatrio forzato dei marziani che lavoravano sulle sue astronavi gli era costato una fortuna.

- Sentite, io non ho tempo per le discussioni accademiche - disse. - Se voi potete organizzarmi una caccia a un marziano, sarete adeguatamente ricompensato.

- Quanto? - chiese Wisby.Contrattarono un po' prima di stabilire una cifra. Riordan aveva portato

con sé delle armi e una piccola scialuppa a razzo, ma Wisby avrebbe dovuto fornire del materiale radioattivo, un «falco» e un cane selvatico. Poi bisognava anche pagarlo per il rischio di una causa legale, ma questo non era molto. Il totale tuttavia arrivava alle stelle.

- Bene! - esclamò Riordan. - E adesso dove trovo il mio marziano? - Con una mano indicò i due che ciondolavano per la strada. - Intendete prendere uno di quelli e lasciarlo libero nel deserto?

Questa volta fu Wisby ad essere sprezzante. - Uno di quelli? Ah! Quelli sono marziani di città! Un abitante di una qualsiasi città della Terra vi offrirebbe una partita più emozionante!

I marziani non sembravano nulla di speciale. Erano alti solo un metro e venti circa e si reggevano su delle gambette magre dai piedi ad artiglio e le braccia che terminavano con mani ossute munite di solo quattro dita erano viscose. Avevano il petto ampio e profondo ma la cintura ridicolmente stretta. Erano vivipari, a sangue caldo e allattavano i propri piccoli, ma avevano la pelle coperta di piume. Le teste, rotonde e dal becco a gancio, con grossi occhi ambrati e ciuffi di piume sulle orecchie, rivelavano chiaramente la ragione per cui erano stati chiamati «civetti». Indossavano solo delle cinture munite di tasche e portavano dei coltelli inguainati; perfino le forze liberali della Terra non erano pronte a concedere loro attrezzi ed armi moderni. C'erano ancora troppi vecchi rancori

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insoddisfatti.- I marziani sono sempre stati dei bravi combattenti - affermò Riordan. -

Ai vecchi tempi hanno cancellato dalla faccia del pianeta più di un insediamento di terrestri.

- Quelli selvatici - ammise Wisby. - Ma non questi. Questi sono solo degli stupidi operai che dipendono dalla nostra civiltà quanto noi. Ma a voi serve un vero marziano di vecchio stampo e io so dove posso trovarvelo.

Spiegò una carta geografica sulla scrivania. - Ecco qui, sulle Colline di Hraefn, a circa cento miglia da qui. Questi marziani hanno una vita molto lunga, probabilmente circa due secoli, e questo Kreega c'era già quando sono atterrati i primi terrestri. A quei tempi ha guidato parecchie incursioni di marziani, ma da quando c'è stata l'amnistia generale e la pace, è vissuto laggiù da solo in una delle vecchie torri in rovina. Un vero guerriero d'altri tempi, un guerriero che odia a morte i terrestri. Di tanto in tanto viene qui per scambiare pelli e minerali, così un po' lo conosco. - Gli occhi di Wisby ebbero un lampo selvaggio. - Ma farete un piacere a noi tutti se eliminerete quell'arrogante bastardo. Quando viene qui, sembra che sia lui il padrone. E potete stare certo che vi offrirà una caccia emozionante. Non rimpiangerete i vostri soldi.

La grossa testa scura di Riordan annuì.L'uomo aveva un uccello e un cane selvatico. Questo era male. Se ne

fosse stato sprovvisto, Kreega sarebbe riuscito a seminarlo in quel labirinto di caverne, canyon e macchie di arbusti... Ma il cane sarebbe riuscito a seguire il suo odore e l'uccello avrebbe potuto individuarlo dall'alto.

A rendere ancora peggiori le cose, l'uomo era sceso vicino alla torre di Kreega, là dove erano custodite tutte le armi, e adesso lui si trovava tagliato fuori dalla torre, disarmato e solo, e poteva contare solo sullo scarso aiuto che gli poteva offrire la vita del deserto. A meno che non fosse riuscito a ritornare in qualche modo nella torre... Ma nel frattempo doveva pensare a restare vivo.

Si sedette in una caverna e abbassò lo sguardo su un paesaggio tormentato di sabbia, arbusti e rocce scavate dal vento che si stendeva per qualche miglio fino al punto in cui brillava il metallo del razzo che era atterrato. L'uomo era solo un minuscolo puntino in quel deserto dall'aria limpida, un insetto solitario che strisciava sotto un cielo azzurrino. In quella atmosfera estremamente rarefatta, le stelle brillavano perfino di giorno e la luce del sole, pallida e debole si versava sulle rocce color ocra

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scuro e rosso ruggine, sopra i piccoli cespugli spinosi e impolverati e i bassi alberi contorti e la sabbia che il vento spingeva debolmente tra di essi. Quello era l'Equatore di Marte!

Ma solo o no, quell'uomo aveva un fucile che poteva seminare la morte fin sulla linea dell'orizzonte e poi aveva anche i suoi animali e a bordo del razzo avrebbe anche avuto una radio per chiamare i suoi simili. Inoltre la morte luminescente li chiudeva in un cerchio magico che Kreega non avrebbe potuto attraversare senza richiamare su di sé una morte ancora peggiore di quella che avrebbe avuto dal fucile...

O forse c'era una morte ancora peggiore? Venir abbattuto dal mostro il quale avrebbe riportato a casa la sua pelle imbalsamata per esibirla come trofeo agli idioti? Il vecchio orgoglio indomabile della sua razza colpì Kreega con la violenza di una frustata. Ormai lui non chiedeva poi molto alla vita... Cercava solo la solitudine della sua torre per potersi dedicare a quelle lunghe meditazioni di marziano e creare i piccoli e squisiti oggetti artigianali che tanto amava; la compagnia dei suoi simili nella Stagione del Raduno, la grave e antica cerimonia che gli offriva l'acre felicità e la possibilità di generare e allevare figli; di tanto in tanto un viaggio fino alla colonia terrestre per procurarsi oggetti di metallo e il vino, le uniche cose di qualche valore che gli invasori avevano portato su Marte; un vago sogno di poter emancipare la sua gente in modo che potesse ergersi da uguale di fronte a tutto l'universo. Non chiedeva altro. E adesso volevano portargli via anche queste cose!

Lanciò una rauca imprecazione all'indirizzo del terrestre e riprese a scalpellare un frammento di pietra per farne la punta di una lancia, che chissà se gli sarebbe poi servita. La sterpaglia arida frusciò in segno di allarme, i minuscoli animali nascosti ovunque mugolarono per il terrore e il deserto gli gridò che il mostro stava avanzando verso la sua caverna. Ma non era necessario mettersi a fuggire ora.

***

Riordan spruzzò l'isotopo di metallo pesante attorno alla vecchia torre per un raggio di cinque miglia. Lo fece di notte, giusto per evitare di venire sorpreso da qualche pattuglia di sorveglianza. Ma una volta atterrato, era al sicuro, in quanto avrebbe potuto sempre sostenere di essere impegnato in qualche esplorazione o di dare la caccia ai saltatori o comunque di non fare

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nulla di illegale.La radioattività aveva un mezzo ciclo vitale di quattro giorni circa, il che

significava che sarebbe stato pericoloso avvicinarsi per circa tre settimane... o come minimo due. Ma sarebbe stata sufficiente, una volta che il marziano fosse stato imprigionato in quell'area così ristretta.

Non c'era pericolo che tentasse di attraversare la barriera. I civetti avevano ormai imparato cosa voleva dire la radioattività, l'avevano imparato a loro spese quando avevano combattuto contro gli umani e la loro vista, che si stendeva fino all'ultravioletto, la rendeva loro visibile grazie alla luminescenza, per non parlare poi degli altri sensi assolutamente non umani di cui disponevano. No, Kreega avrebbe cercato di nascondersi e magari di combattere e alla fine si sarebbe trovato con le spalle al muro e nessuna via di scampo.

Tuttavia non c'era ragione di correre rischi. Riordan caricò il segnatempo della radio di bordo. Se non fosse tornato a spegnerlo entro due settimane, questo segnatempo avrebbe emesso un segnale che Wisby avrebbe captato e lui sarebbe stato salvato.

Controllò l'equipaggiamento. Aveva una tuta pressurizzata studiata appositamente per le condizioni di Marte, con una piccola pompa azionata da un raggio energetico proveniente dal razzo per comprimere l'atmosfera in modo da rendergliela respirabile. La stessa unità era in grado di recuperare dal suo fiato acqua sufficiente a permettergli di non caricarsi di un peso eccessivo di provviste per parecchi giorni, considerato anche che la gravità marziana era ridotta rispetto a quella della Terra. Come arma aveva un fucile calibro 45 costruito per funzionare appunto nell'aria marziana e che era abbastanza potente per lo scopo che si era prefisso. E naturalmente era anche munito di bussola, binocolo e sacco a pelo. Un equipaggiamento piuttosto leggero in definitiva, ma cui non voleva rinunciare.

Come ultima misura di emergenza aveva una piccola bombola di sospensione e che poteva venire immessa nell'aria che respirava aprendo una valvola. Il gas non provocava esattamente un'animazione sospesa, ma paralizzava i nervi efferenti e rallentava in generale il metabolismo a un punto tale per cui un uomo poteva sopravvivere per diverse settimane con la sola aria che aveva nei polmoni. Era un gas utilissimo in chirurgia e aveva salvato la vita di più di un esploratore interplanetario quando c'era stato qualche guasto ai respiratori. Ma Riordan non si aspettava di doverlo

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usare. Certo sperava di non doverlo fare. Sarebbe stato davvero tedioso rimanere completamente sveglio per giorni e giorni in attesa che il segnale automatico chiamasse Wisby.

Riordan scese dal razzo e lo chiuse. Non c'era pericolo che il civetto vi penetrasse nel frattempo in quanto ci sarebbe voluta della tordenite per incrinare lo scafo.

Con un fischio chiamò i suoi animali. Queste erano delle bestie indigene addomesticate da tempo dai marziani e più tardi dagli uomini. Il cane selvatico era simile a un agile lupo, ma aveva il petto assai sviluppato ed era coperto di penne, ottimo per la caccia quanto un qualsiasi segugio della terra. Il «falco» invece, assomigliava di meno alla sua controparte terrestre: anch'esso era un uccello da preda, ma in quella tenue atmosfera aveva bisogno di un'apertura alare di quasi due metri per sollevare un corpicino da nulla. Riordan era ben contento di come erano stati addestrati. Il cane abbaiò, fu una nota bassa e tremolante che sarebbe stata quasi inaudibile in quell'aria così rarefatta se il casco di plastica del cacciatore non avesse avuto inclusi microfoni e amplificatori. Il segugio si mise a girare in tondo annusando, mentre il falco si levò in volo in quel cielo alieno.

Riordan non guardò attentamente la torre, un mozzicone di costruzione diroccata in cima a una collina rossastra, disumana e grottesca. Un tempo, forse diecimila anni fa, i marziani avevano avuta una loro civiltà, città e agricoltura e una tecnologia neolitica, ma assecondando la loro tradizione avevano raggiunto poi una unione o una simbiosi con la vita selvaggia del pianeta e avevano abbandonato quegli ausilii metallici in quanto non necessari. Riordan sbuffò.

Il cane abbaiò di nuovo. Il suono sembrò rimanere sospeso nell'aria fredda e silenziosa con effetto soprannaturale, per poi dileguarsi tra le rocce e morire con riluttanza in quel silenzio senza fine. Ma era il suono di una tromba, la sfida orgogliosa a un mondo che era divenuto ormai vecchio... Fatevi da parte, tutti, ecco che arriva il conquistatore! Improvvisamente l'animale balzò in avanti. Aveva colto un odore. Riordan si incamminò di buon passo, agevolato dalla bassa gravità. I suoi occhi brillavano come frammenti di ghiaccio verde. La caccia aveva avuto inizio!

Nei polmoni di Kreega ci fu un ansito convulso e doloroso. Ora sentiva le gambe deboli e pesanti e i tonfi del suo cuore sembravano scuotergli

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tutto il corpo.Ma continuò a correre, mentre dietro di lui si levava un terribile clamore

e il tonfo delle zampe del cane si faceva più vicino. Kreega si mise a fuggire, saltando, correndo, sgattaiolando di roccia in roccia, scivolando giù per pendii argillosi e inoltrandosi in mezzo a macchie di alberi.

Ma il segugio era sempre dietro di lui e il falco si librava sulla sua testa. Erano bastati un giorno e una notte per ridurlo in quella situazione, costringendolo a scappare come un pazzo tallonato dalla morte. Non aveva mai immaginato che un umano potesse muoversi così velocemente e con tanta costanza.

Il deserto si batteva dalla sua parte; le piante con la loro straordinaria vita cieca che nessun terrestre avrebbe mai compreso erano dalla sua parte. I loro rami spinosi si dipartivano quando lui vi si gettava in mezzo a capofitto, per poi tornare a sfregare i fianchi del cane e rallentarne l'avanzata... ma non poteva lo stesso fermarne lo slancio brutale. Il cane si limitava a sfondare l'ostacolo di quelle dita adunche ma senza forza e abbaiava sulle peste del marziano.

L'umano procedeva più a fatica un buon miglio più indietro, ma non mostrava segni di stanchezza. Ma Kreega continuava a correre. Doveva raggiungere il cornicione dell'altura prima che il cacciatore potesse inquadrarlo nel mirino del fucile... Doveva farlo, ad ogni costo, e il cane ormai ringhiava a meno di un metro di distanza.

Risalì di corsa il lungo pendio. Il falco piombò giù in picchiata, cercando di colpirlo alla testa col becco e gli artigli. Kreega vibrò un colpo al falco con la lancia e si riparò dietro un albero, poi l'albero fece scattare un ramo su cui il segugio si schiantò rimbalzando indietro e riempiendo l'aria di guaiti.

Il marziano si lanciò sull'orlo dell'altura che dall'altra parte cadeva a picco fino in fondo al canyon, centocinquanta metri di rocce ferrose su cui spirava il vento. Al di là delle rocce il sole che stava calando lo abbacinò. Kreega si fermò solo un attimo, perfettamente inquadrato contro lo sfondo del cielo, un bersaglio perfetto se il cacciatore fosse sbucato in tempo, poi saltò al di là.

Kreega aveva sperato che il cane si sarebbe lanciato a capofitto in avanti, ma l'animale frenò giusto in tempo. Kreega rotolò giù per il pendio, aggrappandosi con gli artigli ad ogni spaccatura e tremando mentre la roccia resa friabile dall'età si sgretolava sotto le sue dita. Il falco gli

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sfrecciò vicino, cercando di colpirlo e gracchiando per richiamare il padrone. Kreega non poteva combatterlo, ora che aveva le dita delle mani e dei piedi impegnate a impedirgli di cadere nel vuoto, ma...

Scivolò lungo il pendio del precipizio e finì in un groviglio di arbusti e i suoi nervi lanciarono il richiamo dell'antica simbiosi. Il falco si lanciò di nuovo all'attacco e Kreega rimase immobile, rigido come se fosse morto, finché il volatile non lanciò un acuto strillo di trionfo e non gli si posò sulla spalla per accingersi a beccargli gli occhi.

Poi i viticci scattarono. Non erano forti, ma le loro spine si affondarono nella carne del falco e questi non poté più liberarsi. Kreega continuò la faticosa discesa in fondo al canyon mentre i viticci laceravano in due il volatile.

Riordan apparve in cima all'altura, enorme contro lo sfondo del cielo che stava abbuiandosi. Sparò una volta, due e i proiettili ronzarono orribilmente vicino a Kreega, ma il marziano riuscì a sparire nelle ombre che salivano dal basso.

L'uomo azionò l'amplificatore del microfono e la sua voce rimbombò mostruosamente nella notte, un rimbombo di tuono quale il pianeta Marte ormai da tempo arido non aveva più sentito da millenni: - Un punto per te! Ma non è ancora finita! E io ti troverò!

Il sole calò sotto l'orizzonte e la notte scese come un manto. Nel buio, Kreega udì l'uomo ridere. Le antiche rocce tremarono sotto quella risata.

Riordan cominciava ad essere stanco del lungo inseguimento e l'insufficienza della scorta di ossigeno cominciava a preoccuparlo. Desiderava fumare, mangiare, un pasto caldo, ma nulla di tutto questo era possibile. Oh, pazienza, sarebbe tornato ad apprezzare i lussi della vita ancora di più quando sarebbe tornato a casa... con la pelle del marziano!

Sogghignò mentre si accampava per la notte. Il piccoletto si stava rivelando una preda coi fiocchi, questo era certo. Ormai era da due giorni che resisteva, in una piccola zona circolare dal diametro di dieci miglia e aveva perfino ucciso il falco. Ma Riordan ormai lo incalzava così da vicino che il cane poteva seguire le sue peste, perché su Marte non c'erano corsi d'acqua che potevano interrompere una pista. Così non c'era nulla da fare.

Il cacciatore rimase sdraiato a osservare quella splendida notte di stelle. Fra poco avrebbe cominciato a far freddo, un freddo intenso e spietato, ma il suo sacco a pelo era bene isolato e lo avrebbe tenuto al caldo con la sola energia solare immagazzinata durante il giorno dalle cellule Gergen. Marte

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era buio di notte, le sue lune offrivano poca luce... Phobos era solo un ciottolo celeste e Deimos una stella luminosa. Buio, freddo e vuoto. Il cane selvatico si era scavato una buca nella sabbia lì vicino, ma se appena il marziano si fosse avvicinato al campo avrebbe subito dato l'allarme. Non che questo fosse probabile... anche lui avrebbe dovuto trovare un posto in cui ripararsi se non voleva morire congelato.

I cespugli e gli alberi e gli animaletti furtivi del deserto sussurrarono una parola che non poté sentire e si raccontarono l'un l'altro sulle ali del vento la storia del marziano che si teneva al caldo col lavoro, ma lui non riuscì a capire quella lingua che non era una lingua.

Mezzo addormentato, Riordan ripensò alle passate cacce. Le grandi prede della Terra, i leoni e le tigri e gli elefanti e i bufali e le pecore sulle alte vette inondate di sole delle Montagne Rocciose. Le foreste pioviginose di Venere e il cupo ruggito del mostro delle paludi dalle molte gambe che aveva sradicato gli alberi nella sua folle corsa verso il punto in cui si trovava lui. Il rullio di primitivi tamburi in una notte calda e umida, il canto dei battitori che danzavano accanto al fuoco... Le scarpinate sulle pianure infuocate di Mercurio sotto un sole enorme che cercava di forzare la misera tuta isolante che lo riparava... La grandiosità e la desolazione delle paludi di gas liquido di Nettuno e l'enorme essere cieco che lo rincorreva urlando...

Ma questa era la caccia più strana e solitaria e forse più pericolosa di tutte quante e appunto per questo, anche la migliore.

Non provava sentimenti di cattiveria verso il marziano, anzi rispettava il coraggio di quel piccolo essere così come aveva rispettato il valore degli altri animali che aveva abbattuto. Qualunque fosse il trofeo che avrebbe riportato a casa dopo quella caccia, sarebbe stato un trofeo ben meritato.

Il fatto che il suo successo avrebbe dovuto essere trattato con discrezione non aveva importanza, perché lui non cacciava tanto per la gloria, anche se doveva ammettere che la pubblicità non gli dava certo fastidio, quanto per amore. I suoi antenati si erano sempre battuti sotto un nome o l'altro... vichinghi, crociati, mercenari, ribelli, patrioti, qualunque fosse la dizione comune al momento. Lui aveva la lotta nel sangue e in questi tempi degeneri c'erano ben pochi tipi di lotta, anzi restava solo la caccia.

Be', domani... lentamente il sonno lo colse.

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***

Si svegliò all'alba, un'alba breve e grigia, fece una rapida colazione e con un fischio fece scattare in piedi il cane. Le nari gli si dilatarono per l'eccitazione e provò un'ubriacatura che lo galvanizzò come una canzone di guerra. Oggi... sì, forse oggi era il gran giorno!

Per scendere nel canyon dovettero fare un giro di deviazione e il cane dovette andare avanti e indietro per quasi un'ora prima di riuscire a ritrovare la pista. Poi si udì di nuovo il grido profondo e si rimisero in marcia... più lentamente adesso, perché la pista di roccia era assai disagevole.

Il sole si levò alto mentre scarpinavano lungo l'antico letto del fiume. La sua luce pallida e fredda inondava gli acuminati spuntoni di roccia e dipingeva di fantastici colori le alture, le masse argillose e la sabbia e tutta quanta la rovina di tante ere geologiche. La sterpaglia bassa e arida scricchiolava sotto i suoi piedi e si contorceva e crepitava in segno di impotente protesta. Per il resto tutto era ancora silenzio, un silenzio profondo e teso, quasi in attesa. Il cane infranse la quiete lanciando un guaito e si tuffò avanti. Aveva trovato le peste! Riordan si gettò dietro di lui calpestando i folti arbusti, ansimando e imprecando e sogghignando per l'eccitazione.

Improvvisamente le sterpaglie cedettero e con un ululato di terrore il cane scivolò giù lungo la parete della fossa che era rimasta fino a quel momento nascosta. Riordan si buttò in avanti con rapidità felina, pancia a terra, e con una mano riuscì appena in tempo ad afferrare l'animale per la coda. Per poco lo strappo non trascinò anche lui nella fossa. Passò un braccio attorno a un cespuglio che gli sfiorava il casco e tirò su di peso l'animale.

Poi, tremando, scrutò la trappola. Era stata ben costruita... era profonda circa sette metri e aveva le pareti lisce e strette, almeno come potevano esserlo delle pareti scavate nella sabbia, e il foro era stato abilmente coperto di sterpaglie. Sul fondo erano piantate tre lame di selce dalla punta minacciosa. Se solo fosse stato un'ombra meno svelto nelle sue reazioni, avrebbe perso il cane e magari anche la vita. Si guardò attorno scoprendo i denti in un ringhio da lupo. Il civetto doveva aver lavorato tutta notte per costruire quella trappola. Quindi non poteva essere lontano... e doveva essere molto stanco...

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Come in risposta ai suoi pensieri, un masso piombò giù da una piccola altura. Era un oggetto mostruoso, ma su Marte un oggetto cade con metà dell'accelerazione che avrebbe sulla Terra e Riordan saltò a fianco mentre il masso si schiantava proprio nel punto in cui c'era lui un momento prima.

- Ci sei! - gridò e si lanciò su per l'altura. Per un istante sulla cima comparve una forma grigia che gli lanciò contro una lancia. Riordan sparò un colpo e la sagoma svanì. La lancia schizzò via dalla tuta quando ne urtò il tessuto resistente e Riordan si arrampicò su per il precipizio fino a raggiungere un cornicione in cima.

Il marziano non era più visibile, ma c'era una leggera stria rossa che si snodava tra le rocce. L'ho preso, per Dio! Il cane fu più lento a risalire gli schisti d'argilla e quando arrivò in cima aveva le zampe che gli sanguinavano. Riordan imprecò contro di lui e si rimisero in caccia.

Seguirono le tracce per uno o due miglia poi la pista finì. Riordan si guardò attorno cercando di vedere attraverso l'intrico di alberi e di rami che bloccavano la vista in ogni direzione. Era chiaro che il civetto si era ritirato fin lì per salire in cima a una di quelle rocce da cui poteva lanciarsi con un balzo verso qualche altro punto. Ma dove?

L'uomo aveva il viso e il corpo madidi di sudore e non poteva tergerseli per cui provava un prurito intollerabile. I polmoni gli dolevano per lo sforzo che avevano fatto con la scarsità d'aria offertagli dal respiratore. Ma scoppiò lo stesso in una risata soddisfatta. Che caccia! Oh, che caccia!

***

Kreega era sdraiato all'ombra di un'alta roccia e provò un brivido di stanchezza. Al di là della zona d'ombra, la luce del sole danzava e quel riverbero per lui era accecante, intollerabile, caldo e crudele e assetato di sangue, duro e luminoso come il metallo dei conquistatori.

Era stato un errore perdere delle ore a montare quella trappola mentre avrebbe potuto riposare. Infatti non aveva funzionato e questo avrebbe anche potuto aspettarselo. Ed ora aveva fame e la sete lo divorava come una cosa viva. E aveva ancora gli inseguitori alle calcagna.

Non erano più molto lontani ormai. Era tutto il giorno che gli tenevano dietro e non era mai riuscito a distanziarli per più di mezz'ora di cammino. Niente riposo, solo una caccia senza quartiere in un aspro deserto di pietra e di sabbia e adesso non gli restava che aspettare lo scontro finale esausto

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dal peso di quella fatica.La ferita al fianco gli bruciava. Non era profonda, ma gli era costata

sangue e dolore e i pochi minuti di sonno che altrimenti sarebbe riuscito a fare.

Per un momento il guerriero Kreega non fu più e nel silenzio del deserto si udirono i singhiozzi di un bambino solo e spaventato. Ma perché non mi lasciano in pace?

Si udì uno stormire di sterpi. In uno dei crepacci un corridore della sabbia lanciò il suo richiamo. Si stavano avvicinando.

Kreega si arrampicò stancamente in cima alla roccia e si acquattò. Era tornato indietro sulle proprie tracce, ora secondo ogni logica gli inseguitori avrebbero dovuto passargli oltre per puntare verso la sua torre.

La poteva vedere bene da lì, una costruzione gialla diroccata, straziata dai venti di millenni. C'era stato solo il tempo di correre dentro per afferrare un arco, delle frecce e un'ascia. Delle ben misere armi, però, perché le frecce non sarebbero potute penetrare attraverso la robusta tuta del terrestre quando c'era solo la debole mano di un marziano a tendere l'arco e perfino la testa d'acciaio dell'ascia era una ben povera cosa. Ma era tutto ciò che aveva assieme ai suoi piccoli alleati di un deserto che combatteva solo per difendere la propria solitudine.

Gli schiavi rimpatriati gli avevano raccontato della potenza della Terra. Le loro macchine rombanti rompevano il silenzio dei loro deserti, sfiguravano il volto tranquillo della loro luna e facevano tremare i pianeti con la furia insensata di una energia che in fondo non aveva nessun significato. Loro erano i conquistatori e a loro non era mai venuto in mente che una pace antica e fatta di silenzi valeva la pena di essere rispettata.

Bene... Inserì una freccia sulla corda e si rannicchiò sotto il sole cocente e silenzioso, in attesa.

Il primo ad arrivare fu il cane che guaiva e ululava. Kreega tirò indietro la corda tendendo l'arco al massimo della potenza. Ma l'umano doveva avvicinarsi di più...

Ed ecco che poi arrivò di corsa, rimbalzando da una roccia all'altra con fucile in mano e gli occhi irrequieti che gli brillavano di una luce verde, diretto verso la morte. Kreega si girò lentamente sul fianco. La bestia aveva già superato la roccia e il terrestre era quasi di sotto.

La corda dell'arco cantò e con un brivido di selvaggia esultanza, Kreega vide la freccia che trapassava il cane. La bestia fece un salto nell'aria e poi

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prese a rotolare spasmodicamente su se stessa ululando e cercando di mordere la cosa che aveva conficcata nel fianco.

Poi con la rapidità di un lampo, la grigia sagoma del marziano si lanciò giù dalla roccia addosso all'umano. Se solo fosse riuscito a spezzargli il casco con l'ascia...

Riuscì a colpire l'uomo e caddero a terra entrambi. Il marziano vibrò dei colpi all'impazzata, ma l'ascia scivolò via sulla plastica del casco... non c'era spazio per poter far roteare il braccio e colpire con forza. Riordan lanciò un ruggito e vibrò un pugno. Kreega rotolò indietro con una sensazione di nausea.

Riordan cercò di colpirlo con una pallottola. Kreega si voltò e fuggì. L'uomo si mise in posizione di tiro con un ginocchio a terra e prese con cura di mira la forma grigia che sfrecciava su per il più vicino pendio. Un piccolo serpente del deserto si arrampicò su per la gamba dell'uomo e gli si avvolse attorno al polso. La sua forza per quanto piccola fu sufficiente a far deviare il colpo e la pallottola fischiò accanto all'orecchio di Kreega proprio mentre svaniva in una spaccatura della roccia.

Il marziano sentì la debole agonia e il dolore della morte del serpente mentre l'uomo se lo strappava di dosso e lo schiacciava sotto il tacco dello stivale. Un po' più tardi udì un'esplosione soffocata tra le colline. L'uomo aveva preso dell'esplosivo dal suo razzo e aveva fatto saltare la torre.

Kreega aveva perso l'ascia e l'arco. Ora era completamente disarmato e non aveva neppure un posto in cui riparare per l'ultima resistenza. E il cacciatore non si sarebbe certo arreso. Anche senza gli animali avrebbe continuato a dargli la caccia, più lentamente forse, ma con la stessa pervicacia di prima.

Kreega crollò su una roccia piatta. Il suo corpo fu scosso da singhiozzi senza lacrime e il vento del tramonto pianse con lui.

Poi alzò lo sguardo verso il sole che scendeva in una immensità di colori rossi e gialli. Lunghe ombre scivolavano sulla terra, pace e tranquillità per un breve istante prima che si abbattesse sul deserto il freddo tenace della notte. Da qualche parte risuonò tra le alture corrose dai venti, il trillo dolce di un corridore della sabbia e le sterpaglie cominciarono a parlare, un sussurro continuo e generale che parlava un antico linguaggio senza parole.

Il deserto, il pianeta col suo vento e la sua sabbia sotto le stelle alte e fredde, la vasta distesa aperta fatta di silenzio e isolamento e un destino

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che non era quello dell'uomo, gli parlarono. La grande, immensa unicità della vita di Marte, così unita contro la crudezza dell'ambiente, gli rimescolò il sangue. E mentre il sole calava e le stelle sbucavano in tutto il loro gelido splendore, Kreega riprese a pensare.

Non odiava il suo persecutore, ma la durezza di Marte era in lui. Lui combatteva la guerra di tutto ciò che era vecchio e primitivo e perso nei suoi sogni contro il dissacratore alieno. Quella guerra era antica e spietata come la vita e ogni battaglia vinta o perduta significava qualcosa anche se nessuno ne avrebbe mai sentito parlare.

Tu non combatti da solo, gli sussurrava il deserto. Tu combatti per tutto Marte e noi siamo con te.

Qualcosa si mosse nelle tenebre, una minuscola forma tiepida che gli corse su per la mano, un piccolo esserino pennuto simile a un topo che scavava le sue tane sotto la sabbia e viveva una breve vita di fuggiasco ed era lieto di quel modo di vivere. Ma tutto ciò faceva parte di un mondo e Marte non conosceva la pietà.

Tuttavia c'era della tenerezza nel cuore di Kreega e la sua risposta fu un dolce sussurro nella lingua che non era una lingua fatta di parole: Tu farai questo per me? Tu lo farai, fratellino?

Riordan era troppo stanco per poter dormire bene. Così era rimasto sveglio a lungo, pensando, e questo non era bene per un uomo che si trova solo tra le colline di Marte.

Così adesso anche il cane selvatico era morto. Ma non aveva importanza, il civetto non sarebbe riuscito a sfuggire. Ma in qualche modo il fatto gli fece comprendere l'immensità, l'età e l'isolamento del deserto.

Il deserto sussurrava attorno a lui. Le sterpaglie stormivano e qualcosa uggiolava nelle tenebre e il vento soffiava tristemente sopra le alture debolmente illuminate ed era come se tutto quel mondo avesse una voce e mormorasse contro di lui e lo minacciasse nella notte. Così si chiese vagamente se l'uomo sarebbe mai riuscito a sottomettere Marte e se la razza umana non aveva forse incontrato un avversario che era troppo grande per lei.

Ma questo era una sciocchezza. Marte era un pianeta vecchio, esausto e spoglio che sognava solo di poter sprofondare lentamente nel dolce oblio della morte. Ora i passi pesanti degli uomini, le loro grida e il rombo delle loro astronavi lo stavano risvegliando ma per un nuovo destino, quello dell'uomo. Quando Ares aveva innalzato le sue aspre guglie sopra le

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colline della Sirte, dove erano allora gli antichi dei di Marte?Faceva freddo e il freddo si intensificava man mano che la notte

progrediva. Le stelle erano fuochi di ghiaccio, dei diamanti che luccicavano in una tenebra cristallina. Di tanto in tanto si sentiva un debole scoppiettio trasmesso dalla terra quando una roccia o un ramo si spaccavano in due. Il vento si quietò, i rumori sì congelarono in un silenzio di morte e ci furono solo i raggi limpidi e freddi delle stelle che inondavano il deserto.

Di nuovo si agitò qualcosa e Riordan si svegliò da un sonno irrequieto in tempo per vedere un piccolo esserino che sgattaiolava verso di lui. D'istinto portò la mano verso il fucile accanto al sacco a pelo, ma poi scoppiò in una rauca risata. Era solo un topo del deserto, ma ciò gli dimostrava che il marziano non aveva nessuna possibilità di sorprenderlo mentre riposava.

Ma non rise una seconda volta. Quel suono era sembrato troppo lugubre nel chiuso del casco.

Quando sorse la prima alba scialba, si alzò. Ora voleva farla finita con quella caccia. Si sentiva sporco e aveva la barba lunga ed era nauseato dalle reazioni di emergenza che aveva dovuto ingollare e si sentiva anche tutto indolenzito e stanco per lo sforzo. Ora che era privo di cane, l'aveva dovuto abbattere purtroppo, l'inseguimento sarebbe stato più lento, ma non voleva tornare a Port Armstrong per procurarsene un altro. No, che il diavolo si portasse quel dannato marziano, fra poco avrebbe avuta la sua pelle!

Dopo aver fatto colazione ed essersi mosso si sentì meglio. Con occhio ben addestrato cercò la pista del marziano. C'erano sabbia e sterpaglie dappertutto, perfino le rocce mostravano segni di erosione dovuta ad esse. Il civetto non avrebbe potuto nascondere perfettamente le sue tracce... se ci avesse provato, sarebbe stato troppo rallentato. Riordan prese a camminare di buona lena.

Il mezzogiorno lo sorprese in una zona più alta, aspre colline dagli acuminati spuntoni di roccia che si levavano per qualche metro verso il cielo e lui continuò per la strada, fiducioso nella propria abilità per sfinire la preda. Sulla Terra aveva cacciato il cervo, un giorno dopo l'altro finché il cuore dell'animale era scoppiato e la bestia aveva atteso il suo avvicinarsi negli ultimi sussurri della morte.

La pista ora appariva chiara e fresca e Riordan si tese tutto, conscio che

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il marziano non poteva essere lontano ormai.Era troppo chiara, però! Che fosse un'altra esca per un'altra trappola?

Imbracciò il fucile e procedette con maggiori cautele. Ma no, non poteva averne avuto il tempo...

Riordan si arrampicò in cima a un alto costone e scrutò quel torvo e fantastico paesaggio. Vicino alla linea dell'orizzonte vide una striscia nerastra, il confine della sua barriera radioattiva. Il marziano non avrebbe potuto procedere oltre e se fosse tornato sui suoi passi, Riordan avrebbe avuto la possibilità di individuarlo agevolmente.

Accese il microfono e la sua voce ruggì nel silenzio: - Vieni fuori, civetto! Sono deciso a prenderti e tanto vale che tu esca subito e la faccia finita!

L'eco si impadronì della sua voce e la portò qua e là tra i picchi spogli, vibrante sotto la gran volta del cielo. - Vieni fuori, vieni fuori, vieni fuori...

Il marziano parve sbucare dal nulla, un grigio fantasma che sorse da un cumulo di pietre e rimase ritto in piedi a meno di sette metri di distanza. Per un istante lo choc di quella vista improvvisa fu troppo forte e Riordan rimase a bocca spalancata, incredulo. Kreega non si mosse, e restò in attesa, la sua immagine vibrava nell'aria come quella di un miraggio.

Poi l'uomo lanciò un grido e sollevò il fucile.Ma ancora il marziano rimase immobile come se fosse intagliato nella

pietra grigia e con un brivido di delusione. Riordan pensò che forse, dopo tutto, aveva deciso di darsi così la morte da solo.

Be', in fondo era stata una buona caccia. - Addio! - sussurrò Riordan e premette il grilletto.

Ma dal momento che il topolino del deserto era strisciato nella canna, il fucile esplose.

Riordan udì il rombo e vide la canna spaccarsi come una banana troppo matura. Non era rimasto ferito, ma mentre lui faceva un passo indietro, ancora scosso per l'incidente, Kreega si lanciò verso di lui.

Il marziano era alto un metro e venti, magro e privo di armi, ma urtò il terrestre con la violenza di un piccolo tornado. Le sue gambe si strinsero attorno alla cintura dell'uomo e le sue mani cercarono il tubo dell'aria.

Sotto l'impatto, Riordan cadde e ringhiò ferocemente mentre le sue mani stringevano la gola sottile del marziano. Kreega cercò inutilmente di colpirlo col becco ed entrambi rotolarono a terra in una nube di polvere. Le sterpaglie presero a sfringuellare eccitate.

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Riordan cercò di spezzare il collo di Kreega, ma il marziano si sottrasse alla mossa per poi tornare all'attacco.

Con un sussulto di terrore, l'uomo udì il sibilo dell'aria che fuggiva quando il becco e le dita di Kreega riuscirono alla fine a strappare il tubo dell'aria dal punto di inserzione. Una valvola automatica si chiuse di scatto, ma purtroppo la pompa ora non gli forniva più aria...

Riordan imprecò e riportò le mani alla gola del marziano e quando ci riuscì non le mosse più da lì, continuando a stringere in modo che, nonostante i sussulti e i contorcimenti, Kreega. non riuscisse a liberarsi.

Allora Riordan sorrise stancamente e continuò a tenere le mani attorno alla gola del marziano. Dopo cinque minuti o giù di lì, Kreega smise di contorcersi e rimase immobile. Riordan continuò a stringergli la gola per altri cinque minuti, tanto per essere sicuro, poi lo lasciò andare e con le mani cercò freneticamente di raggiungere la pompa dietro le spalle.

L'aria nella tuta era ormai calda e fetida. E lui non riusciva a raggiungere la pompa dietro le spalle per collegarla col tubo di alimentazione.

Una progettazione infelice, pensò vagamente. Ma dopo tutto queste tute stagne non sono state progettate come armature.

Guardò la forma slanciata e silenziosa del marziano. Un debole venticello gli scompigliava le piume. Che avversario era stato quel piccoletto! Sarebbe stato il suo pezzo più prezioso sulla terra, là nella stanza dei trofei.

Ma adesso... Srotolò il sacco a pelo e lo distese accuratamente al suolo. Non ce l'avrebbe mai fatta a raggiungere in tempo il razzo con la poca aria che gli restava, così era necessario immettere la sospensina nella tuta stagna. Ma se non voleva che il freddo della notte gli congelasse il sangue doveva prima entrare nel sacco a pelo.

Vi strisciò dentro, chiuse accuratamente i risvolti e aprì la valvola del serbatoio di sospensina. Una fortuna averla avuta con sé, ma del resto un buon cacciatore deve sempre pensare a tutto. Naturalmente si sarebbe annoiato terribilmente nell'attesa, fin tanto che Wisby avesse ricevuto il segnale tra una decina di giorni e fosse venuto quindi a cercarlo, ma ce l'avrebbe fatta. Sarebbe stata un'esperienza indimenticabile. E in quell'aria così asciutta la pelle del marziano si sarebbe conservata perfettamente.

Sentì che la paralisi lo raggiungeva, il cuore che si indeboliva, i polmoni che rallentavano il ritmo. I suoi sensi e la mente, però, erano ancora vivi e si accorse a poco a poco che il completo rilassamento aveva anche degli

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aspetti spiacevoli. Oh, be', aveva vinto. Aveva ucciso la preda più difficile con le sue stesse mani.

Un istante dopo Kreega si rizzò a sedere. Si toccò con cautela. Gli parve di avere una costola rotta, ma poco male, sarebbe guarita. Cosa più importante... era vivo. Era rimasto soffocato per dieci minuti buoni, ma un marziano può durare anche quindici minuti senz'aria.

Aprì il sacco a pelo e prese le chiavi di Riordan, poi tornò lentamente con passo zoppicante verso il razzo. Un giorno o due di prove gli insegnarono come funzionava. Ora avrebbe potuto raggiungere i suoi simili vicino alla Sirte e adesso che avevano una macchina terrestre e armi terrestri da copiare...

Ma prima c'era un'altra faccenda di cui occuparsi. Kreega non odiava Riordan, ma Marte è un mondo aspro. Tornò indietro verso il terrestre e lo trascinò in una caverna, nascondendolo in modo che nessuna squadra di ricerca umana sarebbe mai riuscita a trovarlo. Per un po' fissò gli occhi dell'umano e vi vide riflessa un'espressione di silenzioso orrore. Lentamente, in un inglese incerto e zoppicante, Kreega gli disse: - Per tutti coloro che hai ucciso e per essere uno straniero su un mondo che non ti vuole, fino al giorno in cui Marte sarà libero, io ti abbandono qui da solo.

Prima di andarsene definitivamente, prese diversi contenitori d'ossigeno dal razzo e li collegò alla riserva d'aria dell'uomo. Ora Riordan ne aveva parecchia per un uomo in animazione sospesa. Abbastanza per tenerlo vivo per almeno mille anni.

Traduzione di Antonio Bellomi

VERSO L'ABISSO DI CHICAGOdi Ray Bradbury

Inventore di favole, narratore-poeta, mago dell'orrore, evocatore d'ombre e di emozioni... Ray Bradbury è forse lo scrittore più etichettato e meno etichettabile degli ultimi trent'anni. Certo, è di gran lunga l'autore di fantascienza più noto al di fuori della cerchia degli appassionati del «genere»; e anche se buona parte della critica tende ormai ad estrapolare il suo nome dai cataloghi specialistici per inserirlo d'autorità nel «mainstream», è innegabile che la sua opera ha fatto fare un vero

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e proprio salto di qualità alla science fiction e alla fantasy, sia oggettivamente sia nella considerazione del pubblico. Le sue «The Martian chronicles», «Cronache marziane», i racconti di «The illustrated man», «L'uomo illustrato», o di «The october country», «Paese d'ottobre» e un romanzo come «Fahrenheit 451» resteranno sempre fra gli esempi più luminosi della letteratura fantastica del Novecento.

Carezzato da un vento lieve che spirava sotto un pallido cielo di Aprile come il ricordo labile di un inverno appena trascorso, il vecchio trascinava i piedi stanchi, avvolti in bende macchiate di nicotina, attraverso il parco quasi deserto a mezzogiorno. I capelli lunghi, arruffati, erano grigi come la barba che incorniciava una bocca in apparenza animata dall'eterno tremore di rivelazioni imminenti. Di tanto in tanto si rigirava a posare lo sguardo sulle lontane rovine crollanti, l'orizzonte sdentato di quella che era stata una grande città, forse il tentativo di ridestare i fantasmi di cose perdute, quante neanche lui avrebbe osato stabilire ormai. Senza risposta da quella desolazione, continuò con il suo passo strascicato, finché non gli apparve una panchina su cui una donna, sola, se ne restava seduta. Dopo un breve esame, il vecchio annuì, come approvando, per poi lasciarsi cadere sul l'estremità opposta della panchina, dove rimase immobile, senza guardarla.

Serrava gli occhi nel silenzio, la bocca muta compresa a sillabare misteri, la testa in movimento pareva voler tracciare un'unica parola nell'aria, arabescando con la punta del naso. Quando gli parve di averla scritta in modo inequivocabile, schiuse finalmente la bocca per pronunciarla. Il suono della sua voce era morbido, chiaro:

- Caffè.La donna si era irrigidita, lasciando sfuggire un rapido sospiro affannato.Ora le mani nodose del vecchio si muovevano in una grottesca

pantomima, a sottolineare le sue parole eccitate.- Un barattolo rosso vivo, tutto decorato a lettere gialle! Tiri l'anello! Si

apre! Aria compressa... HISS-S..! L'aria esce fischiando! Il profumo esce fischiando... Sssst!

Come se l'avessero schiaffeggiata, la donna aveva girato la testa di scatto a fissare la bocca agitata del vecchio. Sembrava catturata da un pauroso incantesimo.

- L'odore, il profumo, l'aroma. Ricco, denso! Quei meravigliosi chicchi

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brasiliani, appena macinati..!Di colpo in piedi, vacillando come se le avessero sparato, la donna aveva

mosso qualche passo malcerto, allontanandosi dalla panchina.Il vecchio spalancò gli occhi. - No! Io...Ma lei ormai stava fuggendo, era già sparita.Il vecchio sospirò e si addentrò nel parco finché non ebbe raggiunto

un'altra panchina su cui sedeva un giovane tutto compreso nel compito di avvolgere dell'erba secca in un quadratino di carta sottile. Le sue dita magre plasmavano l'erba con una sorta di trepida tenerezza, quelle mosse vibranti facevano pensare al devoto adempimento di un sacro rituale. Aveva finito di arrotolare il piccolo tubo e ora se lo portava alla bocca per accenderlo con un gesto lento, quasi ipnotico. Si abbandonò contro la spalliera, socchiudendo gli occhi, soddisfatto, tutt'uno con l'acredine di quell'aria innaturale che gli riempiva la bocca e i polmoni.

Il vecchio seguiva le spirali di fumo trasportate dalla brezza del mezzogiorno. - Chesterfields - disse, senza voltarsi. Il giovane si era afferrato le ginocchia, serrandole convulsamente.

- Lucky Strike - disse ancora il vecchio - Raleigh.Il giovane si era girato a fissarlo.- Kent. Marlboro. Kool... - continuava il vecchio, sempre con lo sguardo

perso lontano. - Quelli erano i nomi. Pacchetti bianchi, rossi, ambrati. Verde-erba, blu-cielo, oro puro, con il nastrino rosso lucido tutt'intorno, da tirare per togliere il cellofan trasparente e il bollino della tassa governativa...

- Stai zitto! - gli intimò il giovane, a voce bassa.- Potevi comprarle nei negozi, trovarle nei distributori, nella

metropolitana...- Zitto!- Calma - gli disse il vecchio. - È stato il tuo fumo che mi ha fatto venire

in mente... ,- Non c'è più niente da farsi venire in mente! - scattò il ragazzo. Nella

violenza del movimento, la sigaretta appena rotolata con tanta pazienza gli era caduta in grembo, ridotta in briciole.

- Ecco, guarda cosa mi hai fatto combinare!- Mi rincresce. C'era nell'aria qualcosa di tanto amichevole, oggi.- Io non sono amico di nessuno!- Che ci facciamo al mondo, se non siamo tutti amici, di questi tempi?

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- Amici! - sbottò il giovane, mentre faceva vagare le dita fra i resti della sigaretta rovinata. - Forse nel millenovecentonovanta esistevano ancora degli amici. Ma ora...

- Milienovecentonovanta. Dovevi essere piccolo, allora. Vendevano ancora quei dolci avvolti nel cellofan giallo brillante. «Butterfingers»... E i «Baby Ruth», le «Clark Bars», nella carta arancio. Le «Via Lattea», a forma di stelle, comete... Tutt'un universo da succhiare e inghiottire. Era bello.

- Non è mai stato bello. - Il giovane si era levato in piedi all'improvviso. - Ma che hai che non funziona? Sei matto?

- Già, sono matto, perché riesco a rammentare anche i limoni, e i pompelmi, e i mandarini. E le ricordi tu, le arance?

- Ho ragione, sei proprio matto. All'inferno le arance! Ma che cerchi? Vuoi proprio farmi star male per forza? Sei matto. La conosci la legge, o no? Lo sai che potrei denunciarti, lo sai?

- Lo so, lo so. - Il vecchio alzava le spalle, deluso. - Mi sono lasciato ingannare dal bel tempo. Mi ha fatto venir voglia di ricordare, e confrontare...

- Confrontare le voci, le dicerie, questo direbbero quelli della polizia, quelli della squadra speciale, lo direbbero, sì, malvage dicerie, l'hai capito, bastardo sobillatore!

Afferrò il vecchio per il bavero urlandogli, a un palmo dalla faccia: - Ma perché dovrei trattenermi dal pestarti a morte, perché non dovrei riempirti di cazzotti, perché? È da tanto che non faccio male a qualcuno, è da tanto...

Con una spinta allontanò da sé il vecchio, quel poco da permettergli di mollare qualche colpo, per poi eccitarsi a colpire sempre più forte e più veloce, e ben presto si era scatenato come una furia, in una grandinata di percosse che l'altro futilmente cercava di riparare con le dita, colto di sorpresa in quell'uragano di violenza dissennata. E intanto il giovane urlava nomi di sigarette, mugolava marche di caramelle, singhiozzava su frutta e dolci in un parossismo di furia angosciata, finché il vecchio non cadde a terra, per essere rotolato a calci nel parco deserto, con il viso e il corpo pesti e sanguinanti. Poi il ragazzo si arrestò bruscamente e incominciò a piangere. A quel suono, il vecchio, raggomitolato, vincendo il dolore distaccò le dita dalle labbra lacerate per aprire gli occhi e fissare stupito il suo assalitore. Il ragazzo continuava a piangere.

- Per favore... - lo implorò il vecchio.

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E giovane piangeva sempre più forte, il volto rigato di lacrime.- Non piangere - gli disse il vecchio. - Non resteremo affamati per

sempre. Ricostruiremo le città. Ascolta, ti prego. Non ti volevo far piangere, volevo solo farti riflettere. Dove ce ne stiamo andando, noi tutti, che stiamo facendo, che cosa abbiamo fatto? In realtà, tu non stavi picchiando me. Il bisogno era di colpire qualcosa di diverso, ma per l'appunto c'ero io, disponibile. Guarda, mi sto alzando. Non sto male.

Il giovane si era acquietato e ora lo guardava sbattendo le palpebre.- Tu... tu non puoi andartene in giro così a far star male la gente. Lo

troverò io qualcuno che ti metta a posto.- Aspetta! - Il vecchio si era sollevato a fatica sulle ginocchia.- No...!Ma il giovane stava correndo via come una furia e gridava, ormai fuori

del parco.Rimasto solo, il vecchio si tastò le ossa, rannicchiato contro la panchina.

C'era uno dei suoi denti sulla ghiaia accanto a lui. Lo raccolse per guardarlo tristemente.

- Stupido! - disse una voce.Un uomo asciutto, sui quarant'anni, appoggiato ad un albero lì accanto,

lo stava osservando, una vaga espressione di curiosità sulla lunga faccia stanca.

- Stupido, stolto! - ripeté lo sconosciuto. Il vecchio aspirò convulsamente. - Voi... voi eravate qui, mentre... mentre... E non avete fatto niente?

- Che cosa avrei dovuto fare, battermi contro uno stupido per salvarne un altro? No.

Lo sconosciuto lo aiutò ad alzarsi. - Mi batto solo quando ne vale la pena. Andiamo, ora! Verrete con me, a casa mia. Il vecchio ansimava ancora. - Ma... perché?

- Il ragazzo tornerà da un momento all'altro, e con la polizia. Non posso permettere che vi sequestrino da qualche parte, siete una merce troppo rara e preziosa. Avevo sentito parlare di voi, ormai sono giorni che vi sto cercando. Santoddio, ed ecco che vi trovo proprio al momento giusto, mentre vi state esibendo con le vostri celebri prodezze. Che gli avete detto al ragazzo, per farlo andar di fuori a quel modo?

- Gli dicevo delle arance, e dei limoni, di caramelle e sigarette. Ero sul punto di rammentare giocattoli, pipe di radica, e i fumetti a colori della

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domenica, per descriverli in tutti i particolari, proprio quando lui si è scatenato a quel modo.

- Quasi non riesco a biasimarlo. C'è anche in me una certa voglia di saltarvi addosso e prendervi a bastonate. Andiamo, ora, e svelti. Questa è una sirena della polizia. Su forza!

Si allontanarono veloci, nell'opposta direzione, fuori dal parco.

***

Per prima cosa bevve il vino fatto in casa. Per il cibo avrebbe dovuto attendere finché la fame non si fosse fatta tanto acuta da vincere il dolore nella bocca martoriata. Beveva piccoli sorsi, approvando con la testa. - Buono. Molte grazie. Buono.

Lo sconosciuto che lo aveva aiutato a fuggire gli stava di fronte, assiso alla fragile tavola che ora sua moglie stava apparecchiando con una tovaglia consunta su cui poi deponeva vecchi piatti raggiustati.

- Allora... - disse infine il marito. - L'aggressione. Com'è successo?Ci mancò poco che alla moglie sfuggisse un piatto di mano.- Rilassati! - la tranquillizzò il marito. - Non siamo stati seguiti. Dunque,

spiegaci un po', vecchio, perché ti comporti come un santo che anela al martirio? Sei famoso, te l'ho detto. È da parecchio che si sente parlare di te. Molti vorrebbero conoscerti. Io per primo. Mi piacerebbe proprio sapere che cosa ti spinge ad agire così. Allora?

Ma il vecchio sembrava in trance davanti alla verdura sul piatto sbreccato. Ventisei, no, ventotto piselli! Li ricontò per arrivare a quell'impossibile totale. Estasiato, restava chino sull'incredibile messe come uno che prega in silenzio sul suo rosario. Ventotto stupendi piselli verdi, più alcuni geroglifici di spaghetti mezzi crudi, ad annunciare che per oggi gli affari promettevano bene. Ma, sotto le striscioline di pasta, la superficie incrinata del piatto traspariva, a ricordare in che senso da anni ormai gli affari quotidiani stavano andando tremendamente male. Il vecchio si librava a contare il cibo in quel piatto come un grosso avvoltoio assurdo caduto per caso ad appollaiarsi in questo appartamento gelido, sorvegliato dai suoi ospiti samaritani. Finalmente riuscì a parlare. - Questi ventotto piselli mi ricordano un film che ho visto da bambino. Un film comico... lo sapete che cos'era, vero?... Un uomo buffo che si ritrova insieme a un pazzo di notte, in questo film, e... Il marito e la moglie risero,

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cheti.- No, la barzelletta non è tutta qui, scusate. Il pazzo fa sedere il comico a

una tavola vuota. Niente coltelli, niente forchette, niente cibo. «Il pranzo è servito!» annuncia il matto a gran voce. Il comico, che ha paura di essere ammazzato, lo asseconda. «Squisito!» esclama, facendo finta di mangiare, prima una bistecca, poi il contorno, e alla fine anche il dessert. Con grande convinzione, addenta l'aria, entusiasta. «Eccellente! Meraviglioso!». Eh... be', ora potreste anche ridere.

Ma il marito e la moglie, silenziosi, si limitavano a guardare i loro piatti rabberciati e le rade porzioni che non riuscivano a nascondere le incrinature del fondo.

Il vecchio scosse la testa e proseguì. - Il comico, per guadagnarsi meglio la fiducia del matto, a un certo punto crede bene di esclamare, estasiato: «E queste pesche con il brandy! Superbe!». «Pesche?!» urla il pazzo, estraendo una pistola. «Io non ho servito nessuna pesca! Devi essere matto da legare!». E spara al comico nel didietro.

Nel silenzio che era seguito al suo racconto, il vecchio usò la malconcia forchetta d'alluminio per infilzare il primo pisello e soppesarne l'amabile forma prima di portarlo alla bocca. In quell'attimo un colpo secco fece vibrare la porta. - Polizia speciale! - Una voce alta autoritaria.

In silenzio, tremante, la moglie nascose il piatto dell'ospite. Il marito, calmo, si era alzato per condurre il vecchio a un muro, dove, con un sussurro lieve, un pannello si aprì ad accoglierlo nel buio di un vano segreto. Di lì, nascosto, sentì aprire l'uscio dell'appartamento e, subito dopo, un mormorio agitato. Il vecchio cercò di immaginare la scena: gli uomini della polizia speciale con le loro divise blu-notte, con le pistole spianate, che entravano ad esaminare il povero mobilio, le pareti nude, il pavimento di linoleum sciupato, le finestre protette da cartoni al posto dei vetri, questa sottile, oleosa bava di civiltà dimenticata a lambire una spiaggia rimasta deserta dopo che la tempestosa marea della guerra si era ritirata.

- Sto cercando un vecchio - diceva, oltre il muro, la stanca voce dell'autorità. Strano pensò il vecchio. Perfino la legge ha un suono stanco, ora. - Abiti rattoppati... - Ma, pensò il vecchio, credevo che ormai tutti portassero abiti rattoppati! - Sporco. Circa ottant'anni. - Non siamo tutti sporchi non siamo tutti vecchi? piangeva il vecchio dentro di sé. - Chi ce lo consegnerà riceverà in premio le razioni di un'intera settimana - stava

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dicendo il poliziotto. - Più dieci scatolette di verdura e cinque di minestre, extra.

Autentiche scatolette, con le loro etichette stampate colori brillanti, pensava il vecchio. Gli parve di vederle lampeggiare come vivaci meteore in un arco che rischiarava il buio oltre le sue palpebre. Che premio stupendo! Non diecimila dollari, né ventimila, no no, ma ben cinque incredibili scatolette di vera minestra, e ben dieci, contale, dieci scatolette a colori più lucenti di quelle di un circo, un arcobaleno, e, dentro, una profusione di verdure esotiche, fagiolini in erba... granturco giallo come il sole...! Pensaci!

Al di là del muro si era prolungato un silenzio durante il quale il vecchio immaginò di percepire gli esausti mormorii di stomaci a disagio, quasi in letargo ma capaci ancora di sognare pranzi ben più sostanziosi che non le radici delle antiche illusioni stravolte in incubo e delle politiche inacidite dall'interminabile crepuscolo che rabbuiava il mondo da quella data, G.D.A., il Giorno dell'Annientamento.

- Minestre. Verdure. - stava ripetendo la voce del poliziotto, con un tono apatico di finalità. - Quindici scatolette grandi.

Udì il rumore secco della porta che si richiudeva. Il sonoro passo degli stivali decisi si allontanava attraverso il corridoio del palazzo traballante, unito ai tonfi sempre più fiochi di colpi bussati a porte simili ai coperchi di bare, per ricondurre precariamente alla vita altri Lazzari, con miraggi strazianti di vividi contenitori, di cibi veri e forse possibili. Dopo il colpo sordo di un ultimo uscio che si richiudeva lontano, all'esterno non restò che il silenzio.

E alla fine il pannello si spalancò con il suo complice sussurro. Il marito e la moglie non lo guardarono, mentre usciva dal nascondiglio. Lui sapeva perché, e avrebbe voluto sfiorare i loro gomiti, in un tentativo di comunicare quello che stava provando.

- Perfino io - disse, dolcemente - perfino io avrei avuto voglia di costituirmi, per poi pretendere il premio, avere per me tutta quella roba...

Ma ancora loro evitavano il suo sguardo.- Perché? Perché non mi avete consegnato? Perché?Il marito, come ricordando qualcosa all'improvviso, fece un cenno con il

capo verso la moglie. Lei si diresse alla porta, esitò un attimo, ma poi, a un altro gesto impaziente del marito, si decise e uscì silenziosa. La sentirono frusciare lungo il corridoio, grattando cautamente su porte che poi si

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aprivano a liberare respiri ansiosi e mormorii.- Che sta facendo? Che cosa avete in mente, tutti e due? - chiese il

vecchio.- Lo scoprirai da te. Siediti. Finisci di mangiare - gli disse il marito. -

Intanto cerca di spiegarmi come fai ad essere tanto stupido e matto da costringere anche noi ad essere così stupidi e matti da volerti venire a cercare e portarti qui.

- Perché sono stupido e matto fino a questo punto? - Il vecchio si mise a sedere. Incominciò a masticare lentamente, prendendo i piselli uno alla volta dal piatto che gli era stato restituito. - Sì è vero, sono uno stolto. Come ho incominciato a esercitare la mia stoltezza? Anni fa ho dato uno sguardo al mondo in rovina, alle dittature ormai dovunque, agli stati e nazioni senz'anima, e mi son detto: «Che ci posso fare? Proprio io, un uomo solo, vecchio e debole, che potrei farci io? Ridar vita a una devastazione come questa? Ah!». Ma una sera, mentre giacevo tra il sonno e la veglia, mi tornò in mente la musica di un vecchio disco che mi piaceva quando ero bambino. Un duo, le sorelle Duncan, cantava una canzone intitolata «Ricordando». «Mi resta solo ricordare / quello che non ho più / caro / così, tenta di ricordarlo insieme a me / anche tu». Mi provai a cantarla, quella sera, e scoprii che non era soltanto una canzone, ma che poteva diventare un certo modo di intendere la vita, questa vita. Cosa avevo io da regalare a un mondo che stava dimenticando tutte le cose buone e belle? La mia memoria! E di quale aiuto sarebbe stata? Poteva offrire un termine di paragone. Raccontando ai giovani come era una volta, facendoli riflettere su quanto avevano perduto. Scoprii che, ricordando alcune cose, subito me ne venivano in mente altre, molte altre. A seconda di chi riuscivo ad intrattenere con i miei ricordi, rammentavo senza fatica, per esempio, i fiori finti, o i telefoni privati, i frigoriferi, gli scacciapensieri, (sapete cosa sono? Ne avete mai suonato uno?). I ditali per il cucito, le mollette da usare in bicicletta, buffo e strambo, no? Non le biciclette, ma le molle per fermare i pantaloni! Persino le fodere di tela che servivano a riparare le poltrone dalla polvere, ricordavo. Mai viste? Non importa. Una volta un uomo mi chiese di ricordare per lui niente di meno che i quadranti sul cruscotto di una Cadillac. Li ricordavo bene. Glieli descrissi nei particolari più minuti. Ascoltava, zitto, mentre grosse lacrime gli bagnavano la faccia. Lacrime di contentezza o di dolore? Non potrei dirlo. Io mi limitavo a ricordare. E non si trattava mai di libri, di

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letteratura, no, non ho mai avuto il cervello adatto per occuparmi di poesia, né di teatro, è roba che mi scivola via, che muore per conto suo. Per quanto mi riguarda, non mi considero niente più che il custode di un accumulo di mediocrità, di rottami di terza mano, rifiuti inutili nelle loro cromature, buttati via da una cieca civiltà in corsa verso l'orlo di un precipizio. Così, in realtà tutto quello che ho da offrire è robaccia che luccica, come i tanto declamati cronometri, elettrodomestici, e tutto il macchinario assurdo vomitato in un torrente senza fine di robot e di gente impazzita per possederli. Eppure, in un modo o nell'altro, la civiltà dovrà riprendere il suo corso. Quelli che hanno da offrire poesie belle e leggere come ali di farfalla, che ricordino, che offrano il loro dono. Quelli che riescono a tessere tele delicate come un soffio di primavera, che tessano, che costruiscano quello che sanno costruire. Il mio dono è minore di questi, forse roba da poco, di fronte al lungo sforzo necessario per risalire, spingere, saltare su verso l'antica vetta, desiderabile quanto sciocca, forse. Ma io sento che devo rendermi degno con i miei poveri sogni. Perché le cose che la povera gente riuscirà a ricordare, che siano sciocche o no non importa, sono le cose che poi cercherà di ritrovare. Per questo io non cercherò di ulcerare i loro desideri mortificati con ricordi che volteggeranno nelle loro menti come acide ali di pipistrello. Allora, forse, proveranno a scrollare il polveroso pendolo del tempo, a dargli delle manate, per vedere se riprende a funzionare, a restituire un ritmo di vita alla città, prima, poi allo stato, e infine al mondo intero. Fate che un uomo voglia riavere il vino, un altro si fissi sull'idea di una sedia a sdraio, un terzo non possa fare a meno di un aliante dalle grandi ali, per ascendere ancora una volta con i venti di marzo, e poi di costruire ancora più grandi elettropterodattili, per librarsi su venti più maestosi in compagnia di altri come lui. Qualcuno vorrà degli insulsi alberi di Natale, e ci sarà qualcun altro tanto saggio da andare a procurarglieli. Fai di tutto questo un solo bagaglio e mettigli le ruote, al bisogno di tutti, pretendi quelle ruote, ed eccomi qui, pronto ad oliarle, e le olierò, state sicuri. Oh, sì, un tempo anch'io avrei delirato: «Soltanto il meglio vale, la qualità è quello che conta!». Ma le rose crescono più belle dallo sterco. Viva il mediocre, perché possa fiorire il meglio. Così è mio proposito dedicarmi a essere il meglio della mediocrità, e battermi contro tutti quelli che mi diranno «Nasconditi, sprofonda, rotolati nella polvere, che crescano spinaie sulla tua tomba di morto-vivo». Io sfiderò le bande vagabonde degli uomini-

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scimmia, le pecore umane che mordicchiano penose i campi più remoti già spogliati dai pochi lupi feudali sempre più rarefatti nelle superstiti sommità dei grattacieli dove ammassano cibi dimenticati dagli altri. E sterminerò questi infami con apriscatole e cavatappi. Li travolgerò con fantasmi di Buick, Fiat e Chevrolet, li frusterò con scudisci di liquirizia finché non implorino un'inqualificabile misericordia. Potrò farlo, tutto questo? Non mi resta che provare.

Con le ultime parole, il vecchio si rigirava in bocca l'ultimo pisello, mentre il suo ospite samaritano si limitava a fissarlo con una sorta di affettuoso stupore nello sguardo. E in lontananza, per tutta la casa, si diffondevano i movimenti di persone che aprivano e richiudevano le porte, mentre già dietro quella dell'appartamento si sentiva la presenza di gente riunita in attesa. Il marito disse al vecchio: - E proprio tu ci hai chiesto come mai non ti abbiamo consegnato ai poliziotti? Lo senti cosa sta succedendo qui fuori?

- È come se stessero arrivando tutti gli inquilini del palazzo...- Sì, tutti. Vecchio, caro vecchio matto, ti ricordi... i teatri, o, meglio

ancora, gli spettacoli pubblici in quelli che chiamavano «cinematografi»?Il vecchio sorrise. - E tu, li ricordi? Possibile?- Quasi. Un poco. Ora guarda, ascoltami. Oggi, adesso, se ci tieni

davvero a fare lo stupido, se ti va di correre rischi, dovrai farlo con molti, tutti insieme, in un sol colpo. Perché sciupare il fiato per una persona soltanto, o due, o tre quando...

Il marito apri la porta e fece un cenno verso l'esterno. Senza parlare, uno per volta o a coppie, gli abitanti della casa entrarono. Entrarono in quella stanza come se fosse stata una sinagoga, o una chiesa, o anche quel genere speciale di chiesa che un tempo si chiamava cinematografo, e intanto si faceva tardi, il sole stava calando, e ben presto nelle prime ore della sera, la stanza sarebbe rimasta nella penombra, alla luce dell'unica lampada si sarebbe levata la voce del vecchio, e loro tutti avrebbero ascoltato, le mani nelle mani, tutto sarebbe stato come ai vecchi tempi, nel buio delle balconate e sarebbe bastato il ricordo, il suono delle parole, parole che ricreavano popcorn, gomma da masticare, noccioline, e bibite ghiacciate e gelati con la crosta di cioccolato per l'estate, e cioccolatini e caramelle, nel buio incantato, il magico caleidoscopio delle parole, nell'aria della stanza ora più calda, accesa di colori dimenticati.

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Mentre la gente in arrivo si sistemava sul pavimento, e mentre il vecchio guardava, ancora incredulo all'idea che proprio lui, senza saperlo, li avesse fatti radunare qui, il marito gli disse: - Non ti pare meglio così, piuttosto che rischiare all'aperto?

- Sì è vero. Può sembrare strano che l'abbia fatto. Non sopporto il dolore fisico. Odio l'idea di esser picchiato e inseguito. Ma questa lingua mi si agita per conto suo. Non riesco a zittirla, sono costretto a darle retta. Ora, però, così, mi sembra molto meglio.

- Bene! - Il marito gli infilò un biglietto rosso fra le dita. - Quando avremo finito, qui, fra un'ora, potrai adoperarlo. A me l'ha procurato un amico impiegato nei trasporti. C'è un treno che attraversa tutto il paese, una volta alla settimana. E ogni settimana riesco a procurarmi un biglietto per qualche idiota che non posso fare a meno di aiutare. Questa settimana tocca a te.

Il vecchio lesse la destinazione sul biglietto rosso ripiegato. -«Chicago Abyss» - e chiese: - Esiste ancora, l'Abisso di Chicago?

- L'anno venturo, in questa stagione, è molto probabile che il lago Michigan riesca a sfondare l'ultimo diaframma della terra, e si formerà un nuovo lago nel cratere dove un tempo sorgeva la città. Sui bordi c'è ancora della vita, però, la gente ce la fa, in qualche modo. Là troverai anche un treno per l'ovest, su una linea secondaria che funziona una volta al mese. Fai attenzione: quando sarai uscito di qui, non fermarti fino alla stazione, e scordati di averci conosciuti. Ti fornirò una breve lista di gente come noi. Presso di loro farai quello che stai per fare qui. Prima di andare a cercarli però lascia passare del tempo. Poi li troverai, anche se stanno lontano, in posti fuori mano. Ma, per l'amor del cielo, almeno per un anno, quando sei all'aperto, nei luoghi pubblici, astieniti, non avvicinare nessuno. Tappatela bene, quella bocca meravigliosa. E, a proposito... - Il marito gli porse un biglietto da visita ingiallito. - Questo è un dentista che conosco bene. Digli che ti faccia una dentiera, una speciale, che vada bene per farti usare la bocca soltanto all'ora dei pasti.

Qualcuno dei presenti aveva sentito, e ora rideva, e anche il vecchio rise, quasi fra di sé. Ora c'erano tutti, dozzine di persone, s'era fatto buio, fuori, e il marito e la moglie serrarono bene la porta e vi si appostarono accanto, in attesa di questa ultima occasione molto speciale, davvero l'ultima, almeno per un pezzo, in cui il vecchio avrebbe avuto agio di aprire la bocca e ricordare.

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Così il vecchio si levò in piedi.Il suo pubblico attendeva, in silenzio.

A mezzanotte arrivò il treno, in un turbine di ruggine e frastuono, nella vecchia stazione d'improvviso rinnovata da festoni di neve. Sotto la crudele spolverata di bianco, un'umanità mal lavata si accalcava attraverso le decrepite carrozze a sedili, ora scomparsi ad arroventare chissà quali stufe, trascinando il vecchio nella sua maleodorante anonimità verso un grande scompartimento ancora vuoto, un tempo destinato a toeletta comune. Ben presto il pavimento fu nascosto da una massa solida di sacchi a pelo, e in quello spurio tepore sedici persone si giravano e rigiravano al buio, tentando di dimenticarsi in qualsiasi parvenza di sonno.

Il treno intanto si era avventato contro un deserto fosforescente di bianchi simulacri.

Il vecchio, esercitandosi a pensare, «Buono, buono, zitto, taci, no, non parlerai, niente niente, no, silenzio, stai fermo, rifletti, sii cauto, smetti!» si ritrovava ora a tentennare in qua e in là, sballottato senza tregua, reclinato, con le spalle addossate a una parete. Erano soltanto lui e un altro, in quella posizione, nella grande camera ambulante pervasa dall'addensarsi di un sonno venato di paure. Poco più in là, come lui pressato contro la parete, era seduto un bambino sugli otto anni. Le sue guance tirate sembravano emanare un pallido lucore malsano. Del tutto sveglio, gli occhi lustri ben aperti parevano scrutare, anzi, di sicuro stavano studiando la bocca del vecchio. Il treno ululava, ruggiva, strapazzava, strepitando alla notte la sua fuga insensata.

Passò una mezz'ora di quel frastornante viaggio caliginoso, ignorato da una luna seminascosta dalla neve che non cessava di turbinare, e la bocca del vecchio era come inchiodata. Un'altra ora, ed ecco che i muscoli intorno alle guance incominciavano ad ammorbidirsi. Un'altra ancora, e le labbra gli si aprirono perché avesse modo di inumidirle. Il bambino era sempre rimasto sveglio. Il bambino lo guardava. Il bambino era certamente in attesa. Il naturale silenzio all'esterno qui dentro arrivava trivellato nell'aria pesante dai mille palpiti mostruosi di quella valanga di ferro senza requie. I viaggiatori, torpidi, erano sprofondati, ognuno per conto suo, in un sonno di terrori affatturati, mentre il bambino, più che sveglio, pareva non riuscisse a distogliere le pupille, finché il vecchio, rinnegati con sollievo tutti i suoi propositi, non fu costretto a protendersi verso di lui,

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con grande cautela.- SSSH... Ragazzo. Come ti chiami?- Joseph.

Il treno ondeggiava e brontolava scontroso con il suo carico di sonno, un mostro tutto intento a dibattersi attraverso l'oscurità senza tempo, verso un'alba inimmaginabile.

- Joseph... - Il vecchio assaporò la parola, si chinò più in avanti, una luce gentile negli occhi. Il viso gli si distese in una parvenza di cerea bellezza. Fissava qualcosa di molto lontano, qualcosa ancora ben nascosto. Si schiarì la gola, con un rumore che era solo sospiro. Gli occhi, dilatati in una specie di immensità, sembravano quelli di un cieco.

Il treno modulò il suo ruggito, prendendo una curva. I passeggeri dondolavano nel loro sonno imbiancato di neve.

- Ebbene, Joseph, - bisbigliò il vecchio. Librò in alto le dita, in un morbido arco. - C'era una volta...

Traduzione di Mario N. Leone

BROOKLYN PROJECTdi William Tenn

L'autore di questo piccolo gioiello di SF "nera", William Tenn, dimostra ancora una volta la sua abilità nel saper trattare un tema ispirato al peggior pessimismo in un tono leggero, quasi umoristico. William Tenn, pseudonimo dello scrittore e docente Philip Klass, è nato negli Stati Uniti nel 1920. Ha pubblicato il suo primo racconto, «Alexander the Bait», nel 1946 su «Astounding Science Fiction». Tenn è fondamentalmente uno scrittore di racconti (apparsi soprattutto su «Galaxy» dal 1950 in avanti e per tutta la durata di questo periodico).

La brillante luce delle coppe incastonate nel soffitto color crema si attenuò un poco allo schiudersi della grande porta circolare sul retro della saletta, per tornare a splendere quando l'omino grassoccio appena entrato l'ebbe ben richiusa e bloccata dietro di sé.

Dodici giornalisti, di ambo i sessi, tirarono il fiato sonoramente mentre lui, con passo sportivo, si portava noncurante di fronte ad essi, voltando la schiena allo schermo semiopaco che ricopriva la parete. Dopo di che tutti

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si levarono in piedi, nel rispetto dell'usanza che imponeva quest'atto deferente all'arrivo di un rappresentante del governo. Con un affabile sorriso, l'uomo abbozzò un saluto, e nello stesso tempo si solleticava il naso con un rotolo di fogli ciclostilati. Era un naso imponente che sembrava sottolineare la sua aria di importanza.

- Seduti, seduti, signore e signori, vi prego. Qui, al Progetto Brooklyn, preferiamo fare a meno dei soliti convenevoli. Io, durante la realizzazione di questo esperimento sarò, diciamo, la vostra guida: il vicesegretario per le relazioni con la stampa. Il mio nome non è importante. Abbiate la cortesia di passare fra voi questi fogli!

Ognuno dei giornalisti trattenne per sé una delle copie, poi distribuì il resto ai colleghi. Infine tutti cercarono di sistemarsi meglio nelle scomode poltroncine metalliche. Il loro ospite strizzò gli occhi verso lo spesso schermo di plastica, poi sbirciò in alto, dove spiccava il quadrante di un orologio percorso da una sola pigra lancetta. Infine si gratificò di una gioviale pacca sulla tunica nera prima di rivolgersi nuovamente al suo attento pubblico.

- Allora, posso cominciare. Fra qualche momento sarà dato il via alla più importante escursione nel tempo che l'uomo abbia mai compiuto. Non con esseri umani, ben inteso, ma con l'uso di una apparecchiatura fotografica e sonora che ci procurerà dati sul passato di una incalcolabile ricchezza. Con questo esperimento, il Progetto Brooklyn renderà giustizia alla spesa di dieci miliardi di dollari e agli otto anni di studi impiegati per giungere a questo risultato finale. Dimostrerà non solo la validità di un rinnovato metodo di ricerca, ma anche il potenziale di un'arma che darà maggiore prestigio e sicurezza al nostro glorioso Paese, un'arma che qualsiasi nostro eventuale nemico dovrà ben giustamente invidiarci e temere.

- Intanto penso sia opportuno prevenirvi: nessuno cerchi di prendere delle annotazioni, ammesso che nonostante il controllo vi sia riuscito di portar dentro penne o matite. I vostri resoconti dovranno basarsi unicamente sulla memoria. Siete tutti ora in possesso di una copia del Codice di Sicurezza, con gli ultimi aggiornamenti, ed anche dell'opuscolo specifico sulle regole riguardanti il Progetto Brooklyn. I fogli che ora avete avuto in consegna vi indicheranno come presentare i vostri articoli, in più troverete suggerimenti riguardo il tono e lo stile. Per il resto, siete perfettamente liberi di raccontare secondo le vostre esigenze personali, ben inteso inquadrando il tutto nei limiti stabiliti dai documenti suddetti. Bene

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bene, c'è nessuno che vuol porre qualche domanda?All'unisono, i dodici giornalisti calarono lo sguardo verso il pavimento.

Cinque di essi incominciarono a leggere i fogli, provocando rumorosi fruscii.

- Ma come?! Niente domande? Mi aspettavo maggior interesse in una operazione che ha permesso di infrangere l'ultima frontiera possibile... La quarta dimensione... Il Tempo! Andiamo, andiamo! Come rappresentanti dell'interesse di tutta una nazione è impossibile che non abbiate da chiedermi chiarimenti. Bradley, mi sembrate dubbioso. C'è qualcosa che vi turba? Su, su, animo! Non mordo, ve lo assicuro!

Vi fu una risata generale con scambio di sorrisetti.Bradley, poi si alzò e indicò lo schermo. - Come mai quella plastica è

tanto spessa? Personalmente non ho il minimo interesse a scoprire il reale funzionamento del «chronar», ma di qui si vede veramente poco, oltre a un'immagine sfocata di gente che smuove macchinari sul pavimento. E perché quest'orologio, avrebbe un'unica lancetta?

- Una buona domanda! - Il naso del vicesegretario sembrò rilucere di soddisfazione. - Sì, un'ottima domanda. Per prima cosa, Bradley, l'orologio ha una lancetta sola perché, dopo tutto lo sapete, questo è un esperimento che riguarda il Tempo, e i Servizi di Sicurezza ritengono che rivelare il reale momento in cui lo si attua fornirebbe la possibilità, mettiamo, magari per colpa di sfortunate combinazioni, come una qualsiasi notiziola trapelata, con l'eventuale concorso di una intrusione dall'estero... Insomma, qualcosa del genere potrebbe fornire un elemento dannoso che sarebbe proprio inutile mettere in vista. Basterà sapere che l'esperimento avrà inizio quando la lancetta raggiungerà il puntino rosso, quello lì. Per la stessa ragione lo schermo è semiopaco e quanto si svolge al di là risulta poco chiaro. Una specie di mimetizzazione. Sono autorizzato a informarvi che i particolari tecnici dell'apparato possono risultare, diciamo, molto siginificativi. Qualche altra domanda? Calpepper? Calpepper del Consolidated, vero?

- Sì, signore. Del Consolidated News Service. I nostri lettori hanno mostrato una notevole curiosità a proposito dell'incidente che ha coinvolto la Federazione Scientifica del Chronar. Certo non intendo scusare quella gente, considerato il loro comportamento, ma in realtà, che avrebbero voluto dire, con quella storia dei pericoli che questo esperimento potrebbe comportare, a causa di dati insufficienti? E quel dottor Shayson, il loro

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presidente, c'è del vero nelle voci della sua condanna a morte?

***

Il vicesegretario, dignitoso nella sua casacca di flanella nera, si accarezzava il naso, passeggiando su e giù davanti ad essi, in atteggiamento pensoso. - Debbo confessare che quelle loro vedute, alquanto esotiche, direi, non mi hanno mai detto niente. In ogni caso, ben raramente mi capita di soppesare le opinioni di un traditore. Questo Shayson, sì, potrebbe essersi meritata la fucilazione per aver rivelato pubblicamente la natura del lavoro che gli era stato affidato. Oppure, diciamo, non potrebbe, e forse potrebbe. Non sono autorizzato ad aggiungere altro, per motivi di sicurezza.

Motivi di sicurezza. La temuta frase aveva ottenuto un effetto immediato, quello di far raddrizzare di botto tutte le schiene dei presenti contro le dure spalliere delle poltroncine. Le guance di Calpepper, da un sano color rosa, erano trascolorate in un bianco patinato. Che diavolo mi è venuto in mente di tirare in ballo quella dannata federazione e quel pazzo di Shayson, gli lampeggiò nel cervello. Intanto cercava di assumere l'atteggiamento più consono a dimostrare al vicesegretario delle «relazioni stampa» che la sua vergogna, anzi, il suo orrore erano del tutto genuini.

Il ticchettio dell'orologio stava notevolmente aumentando di intensità. La lancetta si trovava ormai soltanto a un quarto di giro dal punto rosso che spiccava sullo zenit. Oltre lo schermo appannato, nell'immenso laboratorio ogni attività era cessata. Erano distinguibili due grandi sfere di metallo opaco che si toccavano, e tutt'attorno i tecnici, minuscoli nella distanza, sembravano intenti a studiare quadranti e pannelli. Altri, terminato il loro compito, stavano scambiando inaudibili commenti con le guardie del servizio di sicurezza, riconoscibili dalle bluse nere.

- Siamo quasi pronti per dare inizio all'Operazione Periscopio. La definizione, naturalmente, è dovuta al fatto che noi stiamo per infilare un periscopio nel passato, un periscopio in grado di riprendere immagini e registrare eventi di vari periodi, da quindicimila anni a quattro miliardi di anni fa. Bene, ora sarà necessario impartirvi qualche nozione riguardante il chronar e la sua funzione, naturalmente solo quelle rese disponibili dal Servizio di Sicurezza del Progetto Brooklyn. Ma, riuscite ad afferrare l'importanza di questa arma stupenda che il chronar ha posto al servizio

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della nostra democrazia? Tanto per considerare soltanto un aspetto, ricorderete quanto avvenne con i Progetti Coney Island e Flatbush, prima che l'impiego del chronar fosse valutato al massimo delle sue possibilità. In quei primitivi esperimenti non si era ancora scoperto che la terza legge di Newton sul movimento, qualsiasi azione provoca una uguale reazione, era valida anche per il tempo e non solo per le altre dimensioni. Quando il primo chronar venne spinto nel passato per un nono di secondo, l'immediata conseguenza fu che l'intero laboratorio venne proiettato nel futuro per la stessa frazione di tempo, per tornare poi nel presente in condizioni, be', diciamo, indescrivibili. Fra l'altro, questo fatto ha prevenuto l'idea di qualsiasi escursione nel futuro: sembra che l'equipaggiamento subisca alterazioni stupefacenti, a dir poco, e nessun essere umano potrebbe sopravvivere. Potete rendervi conto delle possibilità che questo, diciamo, sbaglio potrebbe offrire in caso di guerra? Spedire nel passato una adeguata massa di chronar nelle adiacenze di una nazione ostile significherebbe forzare simultaneamente l'intera nazione nel futuro, un futuro da cui tornerebbe popolata soltanto di cadaveri.

L'uomo grassoccio nella casacca scura si dondolava sui tacchi, le mani riunite dietro la schiena. Con un'occhiata penetrante verso il suo pubblico, continuò: - Ed ecco perché ora vedete due sfere, in quel laboratorio. Soltanto una, quella a destra, è equipaggiata con il chronar. L'altra è un simulacro della stessa massa e serve da contrappeso. Una volta stimolato in azione, il chronar sprofonderà per quattro miliardi di anni nel nostro passato, prenderà fotografie di una Terra semiliquida, una massa in parte ancora gassosa in via di rapida solidificazione. Contemporaneamente, il simulacro verrà lanciato per quattro miliardi di anni in un futuro dal quale tornerà molto cambiato, per ragioni ancora non completamente razionalizzate. Poi i due globi batteranno l'uno contro l'altro, in un attimo che per noi rappresenterà il «Presente», per rimbalzare via di nuovo e coprire più o meno metà della distanza cronologica coperta nel primo viaggio. A quel punto, l'apparato chronar avrà la possibilità di registrare dati su un pianeta ormai quasi solido, squassato da immani terremoti e forse contenente forme di vita elementari, qualcosa di simile a molecole complesse. Ad ogni collisione dei due globi nel presente, il chronar compirà escursioni sempre più brevi, ognuna press'a poco la metà della precedente, raccogliendo dati con il solito sistema automatico. I periodi geologici e storici di cui si prevedono registrazioni sono elencati sui vostri

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fogli con i numeri romani, da I a XXV. Naturalmente ci saranno più di venticinque oscillazioni, prima che le due sfere esauriscano il loro movimento pendolare, ma gli scienziati in carica ritengono che tutti i periodi susseguenti verranno toccati per una frazio41

ne di tempo troppo breve perché sia possibile ottenere buone fotografie o altro materiale decifrabile. Ah, bene, vedo che c'è una domanda...

***

La donna sottile tutta in grigio alla destra di Calpepper si alzò con una mossa nervosa. - Mi... mi rendo conto che è una domanda poco importante - incominciò, a bassa voce - ma, mentre discutevate gli altri argomenti non ho trovato il momento giusto per farla, signor Segretario...

- Vicesegretario, - corresse, sempre gioviale, il funzionario grassoccio vestito di nero. - Sono soltanto il vicesegretario. Sentiamo.

- Sì, ecco, quello che volevo dire... Signor Segretario, non ci sarebbe la possibilità che il periodo che dovremo passare sotto controllo, dopo l'esperimento, venga ridotto? Non sono pochi due interi anni da trascorrere qui, in isolamento, solo per il dubbio che qualcuno di noi abbia visto o capito qualcosa di troppo... E sia per di più tanto poco patriottico da costituire un pericolo per la sicurezza della nazione. Dal momento che la censura avrà approvato i nostri articoli, mi parrebbe che un periodo, per esempio, di tre mesi, sarebbe più che sufficiente. Io a casa ho tre bambini ancora piccoli, e anche altri, fra i colleghi presenti...

Ci fu una specie di ruggito da parte dell'uomo del servizio di sicurezza. - Parlate solo per voi, signora Bryant! Siete la signora Bryant, è vero? Del Sindacato Riviste Femminili, non è così? La signora Alexis Bryant. - Intanto sembrava che stesse prendendo minuziose note mentali.

***

La signora Bryant era crollata a sedere stringendo al petto l'opuscolo e il foglio ciclostilato. Calpepper, che le stava accanto, cercò di ritirarsi più che poteva verso il lato opposto della sedia. Capitavano tutte a lui, oggi. Per peggiorare le cose, quella matta ora lo stava guardando, lacrimosa, sperando comprensione. Calpepper incrociò le gambe, lo sguardo inchiodato dalla parte opposta.

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L'ometto in nero, ora, sembrava più deluso che sdegnato. - Se dovrete restare nei confini di questa giurisdizione, signori, conoscete bene il motivo. Soltanto così i nostri servizi di sicurezza potranno avere la certezza assoluta che nessuna informazione importante possa filtrare all'esterno, prima che l'apparato subisca le necessarie modifiche, modifiche tali da non poterlo riconoscere. Voi non siete stata obbligata a venire qui, signora Bryant. Siete tutti dei volontari. Una volta selezionati dai vostri direttori, ognuno di voi disponeva del privilegio, squisitamente democratico, di accettare o rifiutare. Avete tutti accettato. Ovviamente vi siete resi conto che un rifiuto poteva implicare un'ammissione di irresponsabilità da parte vostra nei confronti del Codice di Sicurezza, anzi, una critica ben precisa. E ora ci tocca sentire anche questo! Cara signora Bryant, arrivare all'ultimo minuto con una richiesta del genere, una persona come voi, finora considerata abile e degna di fiducia... - E qui la voce dell'ometto calò fino a un incredulo sussurro: - Ah, questo mi fa addirittura sorgere dei dubbi sulla reale efficienza delle misure protettive adottate dal servizio di sicurezza!

Calpepper annuì rabbiosamente verso la signora Bryant, che ora si mordeva le labbra e faceva sforzi patetici per mostrare il massimo interesse nelle poco chiare attività che si svolgevano oltre lo schermo.

- Sì, quella domanda era poco importante. Proprio inutile. Ci ha fatto perdere del tempo che avrei piuttosto dedicato a una discussione dettagliata sugli aspetti più divulgabili del chronar, per esempio il suo non lontano impiego per usi industriali. Ma la nostra signora Bryant doveva concedersi i suoi piccoli sfoghi femminili, per lei non fa grande differenza il fatto che i pericoli esterni per la nostra nazione si facciano più minacciosi, di giorno in giorno. A lei interessano soltanto i due anni della sua vita che il Paese le chiede di offrire perché il futuro dei suoi figli sia più sicuro.

Il vicesegretario si concesse una lisciatina alla casacca nera e parve rilassarsi. Di conseguenza, nella saletta l'atmosfera si fece meno tesa.

- L'apparato entrerà in azione da un momento all'altro, ormai, così mi sbrigherò a citare soltanto i periodi più significativi che il chronar riuscirà a registrare, fornendoci i dati di maggiore utilità. Intanto, il I e il II periodo, naturalmente. Sono quelli in cui la Terra stava assumendo la forma attuale. Poi il III, il Periodo PreCambriano del Protozoico, un miliardo di anni fa, la prima era in cui si possano situare chiari segni di

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vita, per lo più crostacei ed alghe. Il IV Periodo, a centoventicinque milioni di anni, riguarda il Giurassico e il Mesozoico. Qui abbiamo la cosiddetta «Era dei Rettili» e contiamo di ottenere fotografie di dinosauri, in modo da risolvere, una volta per tutte, la vecchia questione del loro colore, come anche con una certa fortuna, immagini dei primissimi mammiferi e uccelli. Infine, l'VIII e il IX, l'Oligocene e il Miocene, del Periodo Terziario, notevoli soprattutto per la comparsa degli antenati dell'uomo. Dopo di che, purtroppo, il chronar subirà delle oscillazioni troppo rapide perché sia possibile ottenere registrazioni utili...

***

L'improvviso suono di un gong interruppe la sua tirata. La lancetta dell'orologio aveva raggiunto il punto rosso. Nel laboratorio cinque tecnici abbassarono simultaneamente delle leve. I giornalisti non fecero in tempo a protendersi dai loro posti per vedere meglio: al di là del pesante schermo di plastica, le due sfere erano scomparse nel nulla. Al loro posto c'era uno spazio vuoto.

La voce enfatica dell'ometto in nero risuonò di nuovo.- Il chronar ha iniziato il suo viaggio di quattro miliardi di anni nel

passato! Signore e signori, un momento veramente storico! Ci vorrà un po' di tempo, prima che le sfere siano di ritorno, e io, intanto, cercherò di esporvi e farvi notare gli incredibili errori sostenuti da quella cosiddetta Federazione Scientifica del Chronar.

Qualche risatina nervosa punteggiò la pausa, mentre i dodici giornalisti cercavano di sistemarsi meglio sui poco morbidi sedili, per godersi la dissezione di quei famigerati concetti.

- Come ben sapete, una delle idee maggiormente pubblicizzate a proposito di viaggi nel passato era la paura che anche un'azione innocentissima, la più insignificante, potesse provocare cambiamenti catastrofici nel nostro presente. Come, per citare una delle ipotesi più diffuse, se Hitler fosse morto, mettiamo, nel 1930, non avrebbe fatto in tempo a provocare la fuga degli scienziati dalla Germania e dai Paesi poi occupati, la nostra nazione non avrebbe avuto la bomba atomica, e così, niente Terza Guerra Mondiale, e oggi l'Australia esisterebbe ancora, in mezzo all'Oceano Pacifico. Quel traditore di Shayson e la sua federazione illegale avevano ampliato questa ipotesi, al punto da pretendere che anche

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azioni quasi impercettibili nel passato, come provocare lo spostamento di una molecola di idrogeno, potrebbero causare gravi conseguenze nel presente. All'epoca del primo esperimento, dopo l'attuazione del Progetto Coney Island, quando il chronar fu spinto nel passato per un nono di secondo, almeno una dozzina di laboratori diversi eseguirono i più precisi e sofisticati controlli per scoprire qualsiasi cambiamento, anche di ordine infinitesimale. Ebbene, non risultò assolutamente nulla. I funzionari del governo ne conclusero che il fluire del tempo, passato, presente e futuro, era immutabile, niente poteva essere alterato. Ma Shayson e i suoi accoliti non erano affatto d'accordo, così...

I. Quattro miliardi di anni fa. Il chronar ora dondolava, immerso in una modesta nube di diossido di silicone, alto sul pianeta ribollente, mentre raccoglieva dati, senza fretta, per mezzo dei suoi strumenti automatici. Il vapore rimosso dalla sua apparizione si condensava intanto e ricadeva verso la Terra in grosse gocce scintillanti.

- Essi, imperterriti, continuarono ad insistere perché gli esperimenti venissero sospesi finché non si fossero effettuati nuovi, più rigidi controlli sugli aspetti matematici del problema. Arrivarono all'incredibile affermazione che era probabile, quasi certo, che, se dei cambiamenti si fossero verificati, nessuno se ne sarebbe reso conto, nessuno strumento avrebbe potuto rilevarli come tali. Affermavano cioè che qualsiasi mutamento sarebbe stato considerato come qualcosa esistito da sempre. Ebbene, e tutto questo signore e signori, tutto questo in un momento in cui il nostro Paese, ma anche il loro, notate, anche il loro!, si trovavano alle strette... La minaccia era enorme! Ma si può, si può...

Gli mancarono le parole, si limitò a misurare la saletta, avanti e indietro, scuotendo il capo. Tutti i giornalisti seduti sulla lunga panca di legno non poterono che imitarlo, comprensivi. Il gong risuonò di nuovo. Le due sfere lucide fecero una breve apparizione, rimbalzarono l'una contro l'altra per sparire di nuovo nelle opposte direzioni temporali.

- Eccoci qui! - Il funzionario del governo, con un ampio gesto, indicò il soffitto trasparente, sopra di loro, e il laboratorio che vi poggiava. - Siete stati testimoni della prima oscillazione. Notate qualcosa di cambiato? Tutto è come prima. Ma i dissidenti continuarono a sostenere che noi non ci' saremmo mai resi conto di alcuna eventuale alterazione. È chiaro che, di

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fronte a certi punti di vista fideistici, tutto meno che scientifici, non è possibile discutere. Gente come quella...

II. Due miliardi di anni nel passato. La grande sfera stava scattando fotografie del terreno sconvolto, punteggiato di eruzioni, che fiammeggiava al di sotto. Qualche brandello di magma incandescente tintinnò contro il suo rivestimento. In quelle minute collisioni, cinque o seimila molecole complesse mutarono la loro struttura fondamentale. Solo un centinaio rimase qual era.

- Gente di quella specie si darà da fare trenta ore al giorno su trentatré per convincervi che il nero è bianco, che abbiamo sette lune e non due. Il pericolo maggiore che questi tipi rappresentano...

Una lunga nota sommessa accompagnò una nuova collisione dell'apparato nel laboratorio soffuso di un chiarore verdognolo. Il caldo arancio delle luci agli angoli della saletta si accentuò, nell'attimo in cui il macchinario scompariva di nuovo.

- È soprattutto l'influenza della loro erudizione, il fatto che non pochi si sarebbero aspettati da loro una guida verso più alte realtà vegetative. - Il funzionario del governo ora stava strisciando su e giù rapidamente, gesticolando con tutti i suoi pseudopodi. - Attualmente ci troviamo di fronte a un problema che presenta notevoli difficoltà...

III. Un miliardo di anni nel passato. Resti acquosi della primitiva trilobite che la macchia aveva distrutto nel materializzarsi stavano ricadendo, flaccidi.

- Un difficilissimo problema. Questa è la domanda chiave che ci poniamo: ci conviene ancora shillkare o possiamo fare a meno di shillkare? - A questo punto ovviamente non stava affatto parlando inglese, già da un po' aveva cambiato modo di esprimersi. Il suo pensiero lo aveva espresso percuotendo gli pseudopodi, a vicenda, gli uni sugli altri, come sapeva di aver sempre fatto.

IV. Mezzo miliardo di anni fa. Una notevole varietà di batteri viene annichilita nel leggero cambiamento di temperatura dell'acqua provocato dall'arrivo della macchina.

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- Perciò non è proprio questo il momento di accontentarsi delle mezze misure. Se ci sarà consentito di continuare a riprodurci in termini accettabili...

V. Duecentocinquanta milioni di anni.

VI. Centoventicinque milioni di anni.

- Con il permesso dei Cinque Che Spiraleggiano, avremo...

VII. Sessantadue milioni di anni. VIII. Trentun milioni.

IX. Quindici milioni.

X. Sette milioni e mezzo.

- Considerando il riconoscimento avallabile di qualsiasi altrimenti irraggiungibile merito...

XI - XII - XIII - XIV - XV - XVI - XVII - XVIII - XIX... Bong... bong... bong...

bongbongbonggonngonngngngngn..g.. n.. n.. n..

- Siamo allora realmente sincronizzati per rifrangerci. E questo, posso trasmettervelo, è abbastanza fatidico, sia per chi ondeggia che per quanti amano invece scoccare. Ma, come sempre si è dimostrato, quelli che ondeggiano saranno facilmente squalificabili, poiché ben rikolchiamo che nello scocco è il germe del Gran Rotolare, e lì unicamente risiede un'asplurgica verità. Di sicuro è sgocciolevole supporre un mutarsi flaviano per il risibile merito di un organo ticroskopico inaridito. L'apparato ha scelto alfine di posarsi. Vogliamo concedergli un flickoo di più attenta considerazione, fratelli?

Tutti d'accordo, i vari corpi bulbosi, striati di porpora, si dissolsero in un'unica massa liquida, per fluire tutt'attorno all'apparato. Raggiunti i quattro cubi, ormai silenziosi, si ricomposero, solidificandosi nelle viscide forme originali.

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- Vedete? - giubilò la cosa che era stata il Vicesegretario dei Servizi di Sicurezza per le Relazioni con la Stampa. - Osservate, osservate! Controllate! Quelli che ondeggiano, ma quali dubbi? Quelli che ondeggiano erano nel falso: niente è cambiato, neppure asplagicamente!

Trionfali, i suoi quindici pseudopodi bulbosi gli fecero corona. - Niente, niente è cambiato!

Traduzione di Mario N. Leone

LA DONNA PERFETTAdi Robert Sheckley

L'umore mordace, lo stile incisivo, la varietà immaginativa al limite della prodigalità, fanno di Robert Sheckley uno dei più brillanti autori contemporanei di racconti fantastici, anche al di fuori dell'ambito della science fiction. Nato e cresciuto a New York, in seguito a lungo residente in Gran Bretagna, Sheckley ha pubblicato la sua prima raccolta di short stories nel 1954; si trattava di quella fondamentale «Untouched by Humand Hands» (Mai toccato da mani umane) di cui faceva parte, tra altri autentici gioiellini «La settima vittima», portato sullo schermo da Elio Vetri. Da allora - nonostante il relativo appannamento degli anni Settanta - il suo successo si è puntualmente rinnovato con altre antologie e vari romanzi, tra cui «Journey Beyond Tomorrow» (I testimoni di Joenes) e «The Status Civilization» (Gli orrori di Omega).

Il signor Morcheck si svegliò con un sapore aspro in bocca e una risata che gli echeggiava nelle orecchie. Era la risata di George Owen-Clark, l'ultima cosa che ricordava del party di Triad-Norgan. E che party era stato! Tutta la Terra celebrava il nuovo secolo. L'anno Tremila! Pace e prosperità per tutti, e vita felice...

- Quant'è felice la tua vita? - aveva chiesto Owen-Clark con un ghigno sornione, molto più che brillo. - Voglio dire, come va la vita con la tua dolce mogliettina?

Il che era stato spiacevole. Tutti sapevano che Owen-Clark era un primitivista, ma che diritto aveva di farci strofinare su il naso alla gente?

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Solo perché aveva sposato una Donna Primitiva...- Amo mia moglie, - aveva detto risoluto Morcheck. - È un sacco più

carina e affettuosa di quel mucchio di nevrosi che tu chiami tua moglie.Ma naturalmente è impossibile perforare la spessa pelle di un

primitivista. I primitivisti amano i difetti delle loro donne quanto le loro virtù... forse di più. OwenClark aveva ghignato sempre più sornione e aveva detto: - Morcheck, vecchio mio, sai, credo che tua moglie abbia bisogno di un check-up. Hai fatto caso ai suoi riflessi, di recente?

Insopportabile idiota! Il signor Morcheck si alzò dal letto, strizzando gli occhi al lucente sole del mattino che traspariva tra le tende. I riflessi di Mira... Il guaio era che c'era una punta di verità in quello che aveva detto Owen-Clark. Da un po' di tempo Mira sembrava piuttosto... indisposta.

Mira! - chiamò Morcheck. - È pronto il caffé? - Ci fu una pausa. Poi la sua voce salì chiara dalle scale. - Tra un minuto!

Strizzando ancora gli occhi insonnolito Morcheck s'infilò un paio di calzoni sportivi. Grazie a Stat i successivi tre giorni erano dedicati alle celebrazioni. Gli sarebbero serviti tutti per riprendersi dal party della notte prima.

Di sotto Mira era affaccendata a versare il caffé, a piegare tovaglioli, a scostargli la sedia dal tavolo. Si sedette e lei si chinò a baciarlo sulla chiazza pelata. Gli piaceva essere baciato sulla chiazza pelata.

- Come sta oggi la mia mogliettina? - chiese.- Splendidamente, caro, - rispose lei dopo una pausa, - Stamattina ti ho

fatto i Seffiners. Ti piacciono, i Seffiners.Morcheck ne morse uno a tortiglione e bevve un sorso di caffé.- Come ti senti, stamattina? - le chiese.Mira gli imburrò una fetta di pane tostato, poi disse: - magnificamente,

caro. Sai, il party di ieri notte è stato splendidamente perfetto. Me ne sono goduto ogni istante.

- Ho alzato un po' il gomito, - disse Morcheck con un sorriso storto.- Ti amo, quando alzi il gomito, - disse Mira. - Parli come un angelo...

Un angelo molto in gamba, voglio dire. Potrei starti ad ascoltare per sempre. - Gli imburrò un'altra fetta di pane tostato.

***

Il signor Morcheck irraggiò su di lei come un sole benigno, poi aggrottò

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le sopracciglia. Posò lo Seffiner e si grattò una guancia. - Sai, - disse, - ho avuto un piccolo battibecco con Owen-Clark. Parlava delle Donne Primitive.

Mira gli imburrò una quinta fetta di pane tostato senza rispondere, aggiungendola alla pila in crescita. Stava prendendone una sesta, quando lui le toccò leggermente la mano. Si chinò a baciarlo sul naso.

- Donne Primitive! - disse con tono derisorio. - Quelle creature nevrotiche! Non sei più felice con me, caro? Posso essere una Moderna... ma non c'è Donna Primitiva che ti amerebbe come me... Diceva la verità. In tutta la storia conosciuta l'uomo non era mai stato in grado di vivere felice con la Donna Primitiva non ricostruita. Quelle creature egoiste e viziate pretendevano cure e attenzioni per tutta la vita. Era cosa nota che la moglie di Owen-Clark gli faceva asciugare i piatti. E quell'idiota la sopportava! Le Donne Primitive erano sempre lì a chiedere denaro per comprare vestiti e gingilli, a pretendere la colazione a letto, a correre a giocare a bridge, a parlare per ore e ore al telefono e Stat sa che altro. Cercavano di portare via il lavoro agli uomini. Di recente avevano ottenuto l'eguaglianza.

E c'erano degli idioti come Owen-Clark che insistevano sulla loro eccellenza.

Sotto l'avviluppante amore il signor Morcheck sentiva svanire il cerchio alla testa. Mira non mangiava. Lui sapeva che aveva mangiato prima, in modo da poter prestare tutta la sua attenzione alla colazione di lui. La differenza stava in queste piccole cose.

- Ha detto che il tuo tempo di reazione è rallentato.- Ah sì? - chiese Mira, dopo una pausa. - Questi primitivisti credono di

sapere tutto.Aveva risposto giusto, ma ci aveva messo troppo. Il signor Morcheck

fece qualche altra domanda alla moglie, osservando di straforo sull'orologio della cucina il suo tempo di reazione. Stava rallentando davvero!

- È arrivata la posta? - domandò velocemente. - Ha chiamato nessuno? Farò tardi al lavoro?

Dopo tre secondi lei aprì la bocca per poi richiuderla. C'era qualcosa di tremendamente sbagliato.

- Ti amo, - gli disse con semplicità. Il signor Morcheck sentiva il cuore pulsargli sotto le costole. Anche lui l'amava! Pazzamente,

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appassionatamente! Ma quel disgustoso di Owen-Clark aveva ragione. Le serviva un check-up. Sembrò che Mira percepisse il suo pensiero. Si riprese percettibilmente e disse: - Tutto quello che desidero è solo la tua felicità, caro. Credo di star male... Mi farai curare? Mi riprenderai, dopo che mi avranno curata...? Invece di cambiarmi... Non voglio essere cambiata! - Teneva il suo capo lucente affondato tra le braccia. Piangeva... In silenzio per non disturbarlo.

- È solo un check-up, cara, - disse Morcheck, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Ma sapeva, come lo sapeva lei, che era ammalata davvero.

Non era giusto, pensò. La Donna Primitiva, con la sua grossolana struttura mentale, era immune a questa infermità. Ma la delicata Donna Moderna, con la sua sensibilità finemente equilibrata, ne era troppo soggetta. Era così mostruosamente ingiusto! Perché la Donna Moderna conteneva in sé tutte le migliori e le più care qualità della femminilità.

Tranne la resistenza.

***

Mira si riprese ancora. Si alzò in piedi con uno sforzo. Era molto bella. Il malessere le aveva aggiunto colore alle guance e il sole mattutino le brillava sui capelli.

- Caro, - disse, - non vuoi che resti ancora un po'? Posso riprendermi da sola.

Ma aveva gli occhi che stavano andando rapidamente fuori fuoco.- Caro... - Lei si ricompose con rapidità, tenendosi al bordo del tavolo. -

Quando avrai una nuova moglie... Cerca di ricordare quanto ti ho amato. - Si risedette, col viso pallido.

- Vado a prendere la macchina, - mormorò Morcheck, e si allontanò in fretta. Ancora un po' e sarebbe crollato anche lui.

Mentre andava al garage si sentiva ottuso, stanco, a pezzi. Mira... Andata! E la scienza moderna, con tutti i suoi grandi progressi, che non ci poteva far nulla.

Raggiunse il garage e disse, - Va bene, vieni fuori.L'auto uscì pianamente a marcia indietro e gli si fermò vicino.- Qualcosa che non va, padrone? - chiese l'auto. - Mi sembra

preoccupato. Ha ancora i postumi di stanotte?

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- No... È Mira. Sta male.Per un istante l'auto rimase silenziosa. Poi disse con gentilezza: - Mi

dispiace davvero, signor Morcheck. Vorrei che ci fosse qualcosa che potessi fare.

- Grazie, - disse Morcheck, felice di avere un amico in un momento come quello. - Ho paura che non ci sia niente da fare.

L'auto andò a marcia indietro fino alla porta e Morcheck aiutò Mira a salire. Con gentilezza l'auto si mosse.

Mantenne un delicato silenzio per tutto il viaggio di ritorno dalla fabbrica.

Traduzione di Ferruccio Alessandri

FIGLIAdi Philip José Farmer

Il racconto qui pubblicato, «Daughter», appartiene ad una raccolta uscita nel 1960 col titolo «Strange relations», pubblicata in Italia nel 1973 dall'editore Fanucci (Relazioni aliene). L'autore dei racconti di «Strange Relations», e quindi di «Daughter», è Philip José Farmer, uno scrittore americano che tutti i critici definiscono o «geniale» o «un pioniere» o, quanto meno «coraggioso». La complessa e vastissima opera di Farmer non può essere qui nemmeno riassunta. Basterà dire che ha introdotto per primo il serio discorso dei rapporti sessuali tra terrestri e creature aliene, quello degli aspetti più impensabili della genetica aliena, quello, molto arduo, della religione, attraverso un indimenticabile personaggio: Padre Carmody, un tempo super-criminale. La protagonista di «Figlia» è nata dall'unione tra un terrestre e una immensa aliena entro il cui corpo l'uomo viene ospitato per un tempo indefinito. P.J. Farmer è nato nel 1918 nello stato dell'Indiana. Laureatosi alla Bradley University nel 1950, ha esordito nella SF due anni dopo pubblicando su «Starting stories» un'opera che fece enorme scalpore: «The Lovers» (romanzo noto in Italia come «Un amore a Siddo»).

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CQ!CQ!* [* Segnale internazionale di chiamata per trasmissioni radio.] Qui è Mamma Testadura che sta trasmettendo. Fate silenzio, tutte voi

Vergini e Mamme, mentre io comunico. Ascoltate, ascoltate, tutte voi che siete collegate con questa trasmissione. Ascoltate, e io vi dirò come ho lasciato la mia Mamma, come le mie due sorelle ed io ci facemmo crescere i gusci, come ho affrontato l'upolay, e perché sono diventata la Mamma di maggiore prestigio, con il guscio più forte, con l'emittente e il radar più potenti, e con la capacità di trasmettere in un linguaggio nuovo. Innanzi tutto, prima di narrare la mia storia, rivelerò a tutte voi che non lo sapete, che mio padre era un mobile. Non rabbrividite. Questa è una storia così. Non è affatto una storia non-così. Mio padre era un mobile.

***

La Mamma trasmise: «Fuori!».E poi, per dimostrare che stava facendo sul serio, aprì il diaframma

dell'ingresso.Questo ci raffreddò e ci fece comprendere che parlava davvero sul serio.

Prima, tutte le volte che apriva il diaframma, lo faceva perche ci esercitassimo a trasmettere alle altre piccole accovacciate sulla soglia del grembo delle loro Mamme, o a mandare un rispettoso saluto alle altre Mamme, o magari a mandarne uno, molto rapido, alla Nonna, che stava lontano lontano, su di una montagna. Non credo che lei ricevesse i nostri messaggi, perché noi piccine eravamo troppo deboli per trasmettere ad una distanza simile. Comunque, la Nonna non diede mai segno di aver ricevuto i nostri segnali.

Qualche volta, quando la Mamma era irritata perché noi volevamo trasmettere tutte in una volta invece di chiederle il permesso di parlare una ad una, o perché ci arrampicavamo sulle pareti del suo grembo e poi ci lasciavamo cadere dal soffitto al pavimento con un tonfo rumoroso, lei ci trasmetteva di andarcene fuori e di costruirci i nostri gusci. E affermava che diceva sul serio.

Allora, a seconda del nostro umore, o ci mettevamo tranquille o diventavamo ancora più sfacciate. La Mamma allungava i tentacoli, ci teneva ferme e ci sculacciava. Se anche questo non serviva a niente, minacciava che sarebbe venuto l'upolay. Questo ci faceva effetto. Cioè, fino a quando lei non ce lo ripeté per troppe volte. Noi pensavamo che

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Mamma stesse inventando una storia non-così. Tuttavia avremmo dovuto capire che non era possibile, perché la Mamma detestava le storie non-così.

Un'altra cosa che le metteva i nervi in agitazione era la nostra conversazione con Papà in Orsemme. Sebbene lui le avesse insegnato la sua lingua, si era sempre rifiutato di insegnarle l'Orsemme. Quando lui voleva trasmetterci qualche messaggio, e sapeva che lei non l'avrebbe approvato, comunicava nella nostra lingua privata. Fu anche questo, appunto, secondo me, che alla fine esasperò tanto la Mamma da indurla a buttarci fuori nonostante le suppliche di Papà, il quale avrebbe voluto farci restare ancora per quattro stagioni.

Perché dovete sapere che noi vergini eravamo rimaste nel grembo della Mamma molto più a lungo di quanto avremmo dovuto. E la causa di questo fu Papà.

Lui era mobile.Sì, so benissimo quello che stai per ribattere. Tutti i padri sono mobili,

dirai.Ma lui era Papà. Era il mobile che trasmetteva.Sì, sapeva farlo anche lui. Sapeva comunicare con noi. O magari, lui

personalmente non poteva farlo. Non direttamente. Noi trasmettiamo per mezzo di organi del nostro corpo. Ma Papà, se ho capito esattamente le sue spiegazioni, si serviva di una specie di essere che era distaccato dal suo corpo. O forse era un organo che non era veramente fissato a lui.

Comunque, non aveva organi interni e neppure antenne esterne, per trasmettere. Si serviva di questo essere, di questa r-a-d-i-o, come la chiamava lui. E funzionava perfettamente.

Quando conversava con Mamma, lo faceva in impulsi-Mamma, o nella sua lingua, impulsi- mobile. Con noi adoperava l'Orsemme. È come gli impulsi-mobile, solo un po' diverso. Mamma non era mai riuscita a capire quella differenza.

Quando avrò finito di raccontare la mia storia, carina, ti insegnerò l'Orsemme. Mi hanno trasmesso che tu hai sufficiente prestigio per entrare a far parte della nostra Sorellanza della Collina più Alta e quindi per imparare il nostro sistema segreto di comunicazione.

Mamma sosteneva che Papà aveva due mezzi per trasmettere. Oltre alla sua radio, che adoperava per comunicare con noi, sapeva trasmettere anche in un altro modo completamente diverso. E non usava il sistema dot-dit-

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dat-det. Quegli impulsi avevano bisogno dell'aria, per venire trasmessi, e li inviava con lo stesso organo con il quale mangiava. Ribolle proprio lo stomaco al solo pensarci, non è vero?

Papà era stato catturato mentre passava davanti alla mia Mamma. Lei non sapeva che profumo di fragola doveva mandare sottovento verso di lui, per attirarlo alla portata dei suoi tentacoli. Non aveva mai fiutato un mobile come quello, prima di allora. Ma lui aveva un odore molto simile a quello di un mobile d'un'altra specie, e la Mamma lo mandò verso di lui. A quanto pare il sistema funzionò, perché lui si avvicinò quanto bastava perché lei lo afferrasse con i tentacoli extrauterini e lo scaraventasse dentro al guscio.

***

Più tardi, quando ero già grandicella, Papà mi trasmise per radio (in Orsemme, naturalmente, perché la Mamma non potesse capire) che lui aveva sentito quel profumo e che era stato anche quello ad attirarlo. Ma era l'odore di un mobile peloso che si arrampicava sugli alberi, e lui si era chiesto che cosa ci facessero esseri di quel genere su di una collina completamente spoglia. Quando aveva imparato a conversare con Mamma, fu molto sorpreso scoprendo che lei lo aveva identificato con un mobile di quella specie.

Oh, beh, trasmise poi, non era la prima volta che una femmina trattava un uomo da scimmione.

Papà mi informò anche di avere scambiato Mamma, in un primo momento, per un enorme macigno in vetta alla collina. Soltanto quando una sezione della presunta roccia si apri lui si accorse che c'era qualcosa fuori dell'ordinario, e che il macigno era il guscio di Mamma e riparava il suo corpo. Mamma, mi trasmise, è una specie di lumaca o di medusa grande come un dinosauro, dotata di organi che generano onde radar e onde radio, e con una cavità a forma di uovo grande come il soggiorno d'una villetta, un utero nel quale lei genera e alleva le sue piccine.

lo non capivo neppure la metà di questi termini, naturalmente. E Papà non era capace di spiegarmeli in modo chiaro.

Mi fece promettere di non trasmettere a Mamma che lui l'aveva scambiata per una grossa massa di minerali. Perché abbia voluto questa promessa, non lo so.

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Papà era un enigma per Mamma. Anche se si era dibattuto, quando lei l'aveva trascinato dentro, non aveva unghie e denti abbastanza aguzzi per lacerare la protuberanza della concezione. Mamma cercò di provocarlo, ma lui rifiutò di reagire. Quando lei si rese conto che era un mobile capace di trasmettere e lo lasciò andare per studiarlo, Papà incominciò ad aggirarsi dentro al grembo. Dopo un po', comprese che Mamma trasmetteva per mezzo dell'antenna interna del grembo. Imparò a parlare con lei, servendosi del suo organo staccabile, che chiamava panrad. Alla fine, le insegnò la sua lingua, gli impulsi dei mobili. Quando Mamma l'ebbe imparata e ne informò le altre Mamme, il suo prestigio crebbe e divenne più grande di quello di tutte le altre Mamme della zona. Nessuna Mamma aveva mai pensato ad una lingua nuova: quell'idea le sbalordì.

Papà diceva di essere l'unico mobile capace di comunicare, su questo mondo. La sua a-s-t-r-o-n-a-v-e era precipitata, e lui sarebbe rimasto sempre con Mamma, ormai.

Papà imparò gli impulsi-pranzo quando Mamma chiamò a mangiare le sue piccine: e tramise il messaggio giusto. Mamma aveva i nervi a pezzi, al pensiero che fosse semantico, ma aprì il diaframma dello stufato e gli diede da mangiare. Poi Papà incominciò a mostrare frutti e altri oggetti, in modo che Mamma gli trasmettesse con l'antenna interna i dot-dit-dat-det corrispondenti a ciascuno.

Lui ripeteva il nome per mezzo della panrad, per controllare se aveva capito bene.

Naturalmente, Mamma era molto aiutata dal suo olfatto. Qualche volta è molto difficile scoprire la differenza fra una mela e una pesca semplicemente inquadrandole col radar. Gli odori sono di grande aiuto.

Mamma imparò presto. Papà le disse che era molto intelligente... per essere una femmina. Questo le sconvolse i nervi. Per molti periodi-pasto non volle più comunicare con lui.

***

C'era una cosa, in Papà, che piaceva moltissimo a Mamma: quando veniva il momento della concezione, lei poteva dargli le istruzioni e insegnargli quello che doveva fare. Non era costretta ad attirare nel suo guscio, per mezzo dei profumi, un mobile non semantico, e poi a tenerlo stretto contro la protuberanza della concezione mentre quello graffiava e si

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dibatteva e mordeva per liberarsi dalla stretta dei tentacoli. Papà non aveva artigli, ma portava con sé un artiglio staccabile. Lui lo chiamava b-i-s-t-u-r-i.

Quando gli domandavo perché aveva tanti organi staccabili, lui mi rispondeva che era un uomo a pezzi.

Papà diceva sempre tante cose strane.E faceva anche fatica a capire Mamma.I suoi sistemi di riproduzione lo meravigliavano molto. - Per D-i-o -,

trasmetteva, - chi potrebbe mai crederlo? Un processo di cicatrizzazione di una ferita che ha come risultato la concezione? È l'esatto contrario del cancro.

Quando noi eravamo già adolescenti, quasi pronte per venir spinte fuori dal guscio di Mamma, captammo un messaggio di Mamma che chiedeva a Papà di lacerare ancora la protuberanza della concezione.

Papà disse di no. Lui voleva aspettare ancora per quattro stagioni. Aveva detto addio per sempre a due covate di piccine sue, e voleva tenerci con lui il più a lungo possibile, per impartirci un'istruzione più completa e per godere della nostra compagnia invece di incominciare ad allevare un altro gruppo di vergini.

Quel rifiuto scosse molto i nervi di Mamma e sconvolse il suo stomaco dello stufato, al punto che per parecchi pasti il nostro cibo seppe di acido.

Ma non fece nulla contro Papà; lui le conferiva un prestigio troppo grande. Tutte le Mamme stavano abbandonando il linguaggio delle Mamme e imparavano la lingua del mobile da Mamma.

Io chiesi: - Che cos'è il prestigio?- «Quando tu trasmetti, le altre debbono ricevere. E non osano

trasmettere una risposta fino a che tu non abbia finito e non hai accordato loro il permesso di farlo».

- Oh! Mi piacerebbe proprio il prestigio! Papà si intromise.- Piccola Testadura, se vuoi essere più in gamba delle altre, sintonizzati

su di me. Ti dirò alcune cose che neppure la tua Mamma può dirti. In fin dei conti, io sono un mobile, e ho girato parecchio.

Lui mi spiegava quello che dovevo aspettarmi, dopo avere lasciato lui e Mamma, e mi diceva che, se avessi usato il cervello, avrei potuto sopravvivere e ottenere un prestigio anche più grande di quello di Nonna.

No so proprio perché mi chiamasse Testadura. Ero ancora vergine e naturalmente non mi ero ancora fatta crescere il guscio. Il mio corpo era

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molle come quello di tutte le mie sorelle. Ma lui mi diceva che mi voleva b-e-n-e proprio perché avevo la testa così dura. Io accettavo quella sua affermazione senza neppure cercare di capire cosa significava.

Comunque, restammo dentro a Mamma per otto stagioni più del normale, perché Papà voleva così. Avremmo potuto restarci, probabilmente, ancora più a lungo: ma quando ritornò l'inverno, Mamma insistette perché Papà lacerasse la protuberanza della concezione. Lui rispose che non se la sentiva. Stava riuscendo appena allora a conoscere bene le sue figliole - lui ci chiamava Sluggos - e, quando noi ce ne fossimo andate, non avrebbe avuto più nessuno con cui parlare, eccetto Mamma, fino a quando fosse cresciuta la nuova nidiata.

E poi, Mamma incominciava a ripetersi, e lui pensava che non lo apprezzasse quanto avrebbe dovuto. Troppo spesso lo stufato era inacidito o troppo cotto, e la carne era ridotta a brandelli, quasi in poltiglia...

Questo fu troppo, per Mamma.- Fuori! - trasmise.- Benissimo! E non credere di buttarmi fuori a morire di freddo! -

trasmise Papà, di rimando. - Il tuo guscio non è certo l'unico, in questo mondo!

Questo fece fremere i nervi di Mamma al punto che tutto il suo corpo tremò. Estromise la grande antenna esterna e si mise in comunicazione con le sue sorelle e con le sue zie. La Mamma al di là della valle confessò che, una delle volte che Papà se ne stava sdraiato al s-o-l-e davanti al diaframma aperto di Mamma, gli aveva chiesto di andare a vivere da lei.

Mamma cambiò idea. Si rendeva perfettamente conto che, se lui se ne fosse andato, il suo prestigio sarebbe finito, e quello della pettegola di fronte sarebbe cresciuto moltissimo.

- A quanto pare, resterò qui a vita - trasmise Papà. E poi:- Si direbbe proprio che la vostra Mamma sia g-e-1-o-s-a! La vita con

Papà era piena di questi incomprensibili gruppi semantici. Molto spesso non si voleva o non si poteva spiegare meglio.

Per molto tempo, Papà rimase in un angolo a meditare: non parlava né con noi né con Mamma.

Alla fine, lei non resistette più. Eravamo diventate così grosse e così impertinenti e agitate che lei continuava a tremare. E poi pensava che finché c'eravamo noi a comunicare con Papà, lei non sarebbe riuscita a convincerlo a lacerare la protuberanza della concezione.

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E così ce ne andammo.Prima che ci allontanassimo per sempre dal sub guscio, Mamma

trasmise: - Attente all'upolay.

***

Le mie sorelle non le diedero ascolto, ma io fui molto impressionata. Papà ci aveva descritto quella belva e le sue terribili abitudini. Anzi, si dilungava tanto nei particolari che alla fine noi non adoperammo più il vecchio termine per indicare quella bestia e adottammo quello di Papà. Tutto era incominciato quando lui rimproverò Mamma perché ci minacciava troppo spesso parlandoci di quella belva, quando non ci comportavamo bene.

- Non gridare troppo al lupo! - disse lui. Poi mi trasmise la storia dell'origine di quella strana frase. Lo fece in Orsemme, naturalmente, perché Mamma lo avrebbe picchiato con i tentacoli, se avesse immaginato che lui stava raccontando una storia non-così. La sola idea di una cosa non-così le sconvolgeva il cervello al punto che non riusciva più a pensare chiaramente.

Io non sapevo esattamente che cosa fosse «non-così», ma le storie di Papà mi piacevano moltissimo. E, come le altre Vergini e la stessa Mamma, incominciai a chiamare quella bestia «l'upolay».

Comunque, dopo che ebbi trasmesso - Buona emissione, Mamma -, sentii gli strani tentacoli rigidi di Papà attorno a me, e qualcosa di umido e di caldo che mi cadeva addosso.

- Buona f-o-r-t-u-n-a, Testadura -, trasmise lui. - Mandami un messaggio attraverso la rete di collegamento qualche volta. E ricordati sempre quello che ti ho detto dell'upolay.

Trasmisi che l'avrei fatto. Me ne andai, con una sensazione indescrivibile dentro di me. Era un tremito nervoso che era insieme piacevole e spiacevole se riesci ad immaginare una cosa del genere, mia cara.

Ma ben presto me ne dimenticai: ero troppo impegnata a rotolare giù per una collina, a salire lentamente la collina successiva, con il mio unico piede, a rotolare di nuovo lungo il versante opposto e così via. Dopo circa dieci periodi di tepore, tutte le mie sorelle, tranne due, mi avevano lasciata. Avevano trovato cime di colline libere e vi avevano costruito i loro gusci.

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Ma le mie due fedeli sorelle avevano dato ascolto alle mie idee: non avremmo dovuto accontentarci di poco; dovevamo trovare le colline più alte.

- Quando ci si fa crescere il guscio, poi si rimane sempre dove si è.Perciò decisero di seguirmi.Ma io le guidavo per un cammino lunghissimo: e loro si lamentavano di

essere stanche e indolenzite e avevano paura di imbattersi in qualche mobile carnivoro. Avrebbero persino voluto sistemarsi nei gusci vuoti di certe Mamme che erano state divorate dall'upolay o erano morte di cancro, che si era sviluppato invece delle piccole nella protuberanza della concezione.

- Andiamo -, le esortavo io. - Trasferirsi nei gusci vuoti non dà nessun prestigio. Volete proprio occupare l'ultimo posto nelle trasmissioni della comunità, solo perché siete troppo pigre per farvi crescere il guscio?

- Ma noi riassorbiremo i gusci vuoti, e più tardi faremo crescere il nostro!

- Davvero? Quante Mamme hanno detto così? E quante lo hanno fatto? Avanti, Sluggos!

Avanzavamo in una zona sempre più alta. Alla fine, io trovai quello che cercavo. Era una montagna dalla vetta piatta, circondata da moltissime colline. Vi salii. Quando arrivai in cima, feci una trasmissione di prova. La vetta era più alta di tutte quelle che potevo raggiungere con le mie emissioni. Pensai che quando fossi diventata adulta e avessi avuto una potenza maggiore, sarei riuscita a coprire un'area molto grande. Nel frattempo, prima o poi altre Vergini avrebbero finito per arrivare fin lì, e avrebbero occupato le colline più basse. Come avrebbe detto Papà con una delle sue tipiche espressioni, io ero in cima al mondo.

***

Si dà il caso che la mia montagna fosse molto ricca. I tentacoli da ricerca che feci spuntare e che affondai nel terreno trovarono molte varietà di minerali. Avrei potuto utilizzarli per costruirmi un guscio enorme. Più grande è il guscio, più grande è la Mamma. Più grande è la Mamma più potenti sono le sue emissioni.

Inoltre, avevo osservato la presenza di molti grandi mobili volanti. Papà li chiamava aquile. Sarebbero stati ottimi compagni: avevano becchi

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aguzzi e artigli affilati.In basso, in una valle, scorreva un ruscello. Feci spuntare un tentacolo

cavo, lo insinuai sottoterra, giù per il fianco della montagna, fino a quando entrò nell'acqua. Poi cominciai a pompare per riempire i miei stomaci.

Il suolo della valle era ottimo. Feci quello che nessun'altra della nostra specie aveva mai fatto, quello che mi aveva insegnato Papà. I miei tentacoli più lunghi raccolsero semi caduti dagli alberi, dai fiori o lasciati cadere dagli uccelli e li piantai. Diffusi una rete sotterranea di tentacoli attorno ad un melo. Ma non avevo intenzione di far passare i frutti caduti da un tentacolo mobile all'altro, su per il pendio, fino al mio diaframma. Avevo in mente un'altra idea.

Intanto le mie sorelle s'erano sistemate in vetta a due colline molto più in basso della mia. Quando scoprii quello che stavano facendo, i miei nervi fremettero. Tutte e due s'erano fatte crescere il guscio! Uno era di vetro: l'altro, di cellulosa!

- Cosa credete di fare? Non avete paura dell'upolay?- Smettila, vecchia pettegola. Non impicciarti dei fatti nostri. Noi siamo

già pronte per l'inverno e per la fregola, ecco! Noi saremo già Mamme e tu sarai ancora occupata a farti crescere il guscio. E dove andrà a finire il tuo prestigio? Le altre non vorranno neppure comunicare con te, perché sarai ancora vergine, e con un guscio a metà

- Testadivetro! Testadilegno!- Ah! Ah! Testadura!Avevano ragione loro... in un certo senso. Io ero ancora molle e nuda e

indifesa: una massa di carne tremula sempre in fase di crescita, una preda facile per qualunque mobile carnivoro che mi avesse trovata. Ero una sciocca, e rischiavo troppo. Tuttavia, me la presi con calma. Affondai i tentacoli e trovai parecchi minerali e risucchiai particelle di ferro in sospensione e costruii un guscio interno ancora più grande, credo, di quello di Nonna. Poi vi stesi sopra uno strato di rame, perché il ferro non si arrugginisse. Sopra al rame feci crescere uno strato d'osso, con il calcio che avevo ricavato dalle rocce calcaree. E, a differenza delle mie sorelle, non mi preoccupai di riassorbire la mia antenna da vergine e di farne crescere una da adulta. Lo avrei fatto più tardi.

Verso la fine dell'autunno, completai i miei gusci. Cominciai a cambiare forma ed a crescere. Mangiavo i frutti dei miei raccolti, e avevo anche grande abbondanza di carne, perché avevo messo nella valle piccoli gusci

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a grata fatti di cellulosa, e vi allevavo molti mobili che avevo catturato nei nidi, ancora piccoli, con i miei tentacoli più lunghi.

Pianificai la mia struttura con un'idea ben chiara nella mente. Mi feci crescere uno stomaco molto più grande, molto più profondo del normale. Non che avessi un appetito eccezionale, questo no: avevo un altro scopo, che ti trasmetterò più tardi, carina.

Il mio stomaco dello stufato era, inoltre assai più vicino alla sommità del mio guscio di quanto lo sia normalmente. Anzi, spostai deliberatamente il mio cervello dalla sommità a un lato, e misi al suo posto lo stomaco. Papà mi aveva spiegato che avrei dovuto approfittare della mia facoltà di decidere, almeno in parte, l'ubicazione dei miei organi di adulta. Questo richiese parecchio tempo, ma finii proprio prima che arrivasse l'inverno.

Venne il freddo.E l'upolay.

***

Venne come viene sempre, con il lungo naso munito di antenne retrattili che fiutava le minuscole incrostazioni di minerale puro lasciate come tracce dalle Vergini. L'upolay segue il proprio naso dovunque lo porta. Questa volta, lo portò fino alla mia sorella che s'era fatta crescere un guscio di vetro. Io avevo sospettato che sarebbe stata la prima ad essere avvicinata da un upolay. Infatti, fu proprio per quella ragione che avevo scelto una collina più oltre. L'upolay attacca sempre il guscio più vicino.

Quando sorella Testadivetro scoprì il terribile mobile, trasmise impulsi frenetici..

- Che cosa faccio? Che cosa faccio?- Stai buona, sorella e spera Ascoltare un consiglio del genere era come

mangiare stufato freddo, ma era il migliore e l'unico che io potevo darle. Non le ricordai che avrebbe dovuto seguire il mio esempio, costruire un triplice guscio invece di avere tanta fretta di finire al buon tempo pettegolando con le altre.

L'upolay si aggirò attorno a lei, cercò di scavare attorno alla sua base, che era piantata sulla roccia compatta, e non ci riuscì. Ma riuscì a staccare un pezzetto di vetro come campione. Normalmente, avrebbe dovuto inghiottire il campione e andarsene via, per trasformarsi in pupa. Questo avrebbe dato a mia sorella una stagione di tregua, prima che il mostro

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ritornasse all'attacco. Nel frattempo, lei avrebbe potuto farsi crescere un altro rivestimento di materiale diverso: e così avrebbe frustrato le intenzioni del mostro per un'altra stagione.

Ma accadde invece che, sfortunatamente, quell'upolay avesse fatto il suo ultimo pasto a spese di una Mamma il cui guscio era egualmente di vetro. Perciò aveva ancora gli organi specializzati per liquidare quel miscuglio di silicati. Uno di questi organi era una sfera grossa e molto dura, all'estremità della sua coda lunghissima. Un altro mezzo era un acido capace di indebolire il vetro. Dopo averlo fatto sgocciolare su un determinato punto, percosse il guscio di mia sorella con la sfera. Pochissimo tempo prima che cadesse la prima nevicata, riuscì a infrangere il guscio e arrivò alla carne.

Le emissioni frenetiche di panico e di onore di mia sorella mi fanno ancora vibrare i nervi, quando ci penso. Eppure devo ammettere che la mia reazione era anche sfumata di un certo disprezzo. Credo che mia sorella non si fosse mai presa il disturbo di mettere ossido di boro nel suo vetro. Se lo avesse fatto, avrebbe...

Che cosa? Come osi interrompermi... Oh, benissimo, accetto le tue umili scuse. Che non succeda mai più, mia cara. In quanto a ciò che volevi sapere, più tardi ti descriverò le sostanze che Papà chiamava silicato e ossido di boro e via di seguito. Dopo che avrò finito la mia storia.

Per continuare: il mostro, dopo avere finito Testadivetro, seguì con il naso la traccia di lei, a ritroso, giù per la collina, fino al punto in cui quella traccia si univa alle altre. Lì, dovette scegliere fra la traccia di mia sorella e la mia. Scelse l'altra. E anche questa volta cercò di scavare attorno alla sua base, le strisciò sopra, morsicò la sua antenna e riuscì a staccare un pezzettino di guscio.

Cadde la neve. L'upolay si allontanò, si scavò una buca e vi si rintanò per passare l'inverno.

Sorella Testadilegno fece crescere un'altra antenna. Era esultante.- S'è accorto che il mio guscio era troppo duro per lui! Non mi divorerà

mai! Ah, sorella mia, se avessi ricevuto le emissioni di Papà e se non avessi sprecato tanto tempo a giocare con le altre Sluggos! Allora ti saresti ricordata quello che lui ci aveva insegnato. Avresti saputo che l'upolay, come noi, è differente da quasi tutti gli altri esseri viventi. La maggioranza degli esseri hanno funzioni che dipendono dalle loro strutture. Ma l'upolay, quella creatura maligna, ha una struttura che dipende dalle sue funzioni.

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Non volli farle fremere i nervi dicendole che, avendo assorbito nel proprio corpo un campione del suo guscio di cellulosa, adesso l'upolay era passato allo stadio di pupa proprio attorno al quel campione. Papà mi aveva spiegato che alcuni artropodi hanno una esistenza differenziata in molti stadi: uovo, larva, pupa, adulto. Quando un bruco diventa pupa, nel suo bozzolo, per esempio, il suo corpo tutto intero, in pratica, si scioglie, i suoi tessuti si disintegrano. Poi qualcosa riforma questa sostanza ridotta a polpa, formando una creatura strutturalmente nuova con funzioni nuove, la farfalla.

Tuttavia, la farfalla non ritorna mai allo stadio di larva. L'upolay sì. Ha questa straordinaria facoltà che lo distingue dagli altri artropodi. Perciò, quando attacca una Mamma, preleva un minuscolo frammento del guscio e poi si addormenta. Per una stagione intera, raggomitolato nella sua tana, sogna sul campione... o almeno il suo corpo sogna. I suoi tessuti si disciolgono e poi si riformano. Rimane intatto soltanto il suo sistema nervoso, che in questo modo conserva il ricordo della identità e di ciò che dovrà fare quando uscirà dalla sua tana.

E accadde proprio così. L'upolay uscì dal suo covo, si annidò sopra mia sorella Testadilegno, e inserì un ovopositore modificato nel foro praticato staccandole l'antenna a morsi. Io potei seguire più o meno il suo piano di attacco, perché molto spesso il vento soffiava nella mia direzione, e potevo sentire l'odore delle sostanze chimiche di cui la belva si serviva.

***

Ridusse in poltiglia la cellulosa con una soluzione, l'intrise con una sostanza caustica, e poi riversò un fluido puzzolente che bolliva e gorgogliava. Quando questo fluido ebbe cessato la sua azione violentissima, versò altre sostanze caustiche nella depressione che si andava allargando e alla fine, attraverso un tubo, soffiò fuori la soluzione viscosa. E ripeté per parecchie volte l'intero procedimento.

Benché mia sorella, credo, producesse disperatamente altra cellulosa, non riuscì a farlo abbastanza rapidamente.

L'upolay, instancabile, allargò il buco. Quando fu abbastanza ampio, scivolò all'interno del guscio. Fine della seconda sorella...

***

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Fu una faccenda molto lunga, quella dell'upolay. Io mi davo da fare, e acquistai un po' di tempo grazie a qualcosa che avevo fatto ancora prima di costruirmi il guscio. Si trattava della falsa traccia di incrostazioni che avevo predisposto, una delle cose di cui le mie sorelle si erano fatte beffe. Loro non capivano quello che stavo facendo, quando ritornai indietro sulle mie tracce, impiegando parecchi giorni, e nascosi con la terra la traccia vera. Ma, se fossero sopravvissute, avrebbero certamente capito. Perché l'upolay abbandonò la pista vera che portava fino a me e seguì quella falsa.

Naturalmente, alla fine si trovò sul ciglio di un burrone. E, prima che riuscisse a frenare la sua andatura svelta, precipitò.

Non so come, riuscì a cavarsela senza grossi danni e risalì, lungo la pista falsa, a rovescio. Alla fine scoprì e dissotterrò le tracce vere, coperte di terra.

La traccia contraffatta era un ottimo trucco, e me lo aveva insegnato Papà. Peccato però che non fosse andato tutto come speravo, perché il mostro venne su diritto per la montagna, verso di me con le antenne che aravano la terra smossa ed i ramoscelli con cui avevo coperto le mie incrostazioni.

Comunque, io non ero ancora spacciata. Avevo raccolto un grande numero di grosse pietre e le avevo cementate insieme, fino a formare un grosso macigno. Questo macigno era posato, in bilico, sull'orlo della mia vetta. Attorno alla sua parte centrale, avevo depositato un cerchio di ferro, innestato su di un binario dello stesso metallo, che scendeva fino a metà del pendio. Così, quando il mostro arrivò a quel binario di ferro e lo seguì lungo il fianco della montagna, io tolsi con i miei tentacoli i piccoli sassi che impedivano al macigno di rotolare giù per la scarpata.

***

La mia arma rotolò sul binario ad una velocità terrificante, e son sicura che avrebbe schiacciato l'upolay se quello, con il naso, non avesse percepito le vibrazioni del metallo. Balzò da una parte e si acquattò. Il macigno gli rotolò accanto, sfiorandolo, e lo mancò di pochissimo.

Per quanto fossi delusa di tutto ciò, mi aveva dato un'altra idea per tenere a bada gli upolay, in futuro. Se avessi deposto due rotaie lungo il pendio, una su ciascun lato della linea principale, e poi avessi fatto rotolare

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contemporaneamente tre macigni, il mostro poteva schizzare da una parte o dall'altra, se voleva, ma sarebbe stato egualmente travolto!

L'upolay dovette spaventarsi moltissimo perché, dopo quell'episodio, non percepii più la sua presenza per ben cinque periodi di tepore. Poi ritornò, su per la rotaia e non, come avevo immaginato, lungo il fianco opposto, molto più ripido, della montagna. Era veramente molto stupido.

A questo punto desidero fare una pausa per spiegare che quel macigno era stata un'idea mia, non di Papà. Debbo aggiungere, tuttavia, che fu Papà, non Mamma, ad insegnarmi a pensare con il mio cervello. So benissimo che è roba da far fremere tutti i nervi, il pensiero che un semplice mobile, buono soltanto come cibo o per l'accoppiamento, potesse essere non solo semantico, ma anche dotato di un grado superiore di semanticismo.

Non voglio affermare che possedesse qualità superiori. Credo che fosse differente, ecco tutto, e che da lui ho preso proprio questa qualità differente.

Per ritornare al mio racconto, non potevo fare nulla, mentre l'upolay si aggirava attorno a me e prelevava campioni del mio guscio. Potevo soltanto sperare. E, come ebbi modo di scoprire, sperare non bastava. Il mobile staccò con un morso un pezzetto del rivestimento esterno del mio guscio: quello fatto di osso. Pensavo che si sarebbe accontentato di quello: e, quando fosse ritornato dopo essere uscito dallo stadio di pupa, avrebbe trovato il secondo strato, quello di rame. Così, avrebbe dovuto attendere un'altra stagione. Poi avrebbe trovato il ferro e avrebbe dovuto ritirarsi di nuovo. Allora sarebbe già stato inverno, e lui sarebbe stato costretto ad ibernare: o forse, sarebbe stato così deluso e frustrato che avrebbe rinunciato ad attaccarmi e avrebbe preferito andare alla ricerca di una preda più facile.

Non sapevo, allora, che un upolay non rinuncia mai, ed è molto scrupoloso. Per giorni e giorni scavò attorno alla mia base e scoprì un punto che io avevo rivestito in modo insufficiente. Lì, era possibile scoprire tutti e tre gli elementi del mio guscio. Sapevo che esisteva quel punto debole, ma non avrei mai pensato che lui scavasse a tanta profondità.

***

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Il mostro se ne andò, per trasformarsi in pupa. Quando venne l'estate, strisciò di nuovo fuori dalla sua tana. Ma, prima di attaccare me, divorò tutto il raccolto, rovesciò i miei guscigabbie e mangiò tutti i mobili che c'erano dentro, dissotterrò i miei tentacoli e li divorò e ruppe i miei tubi dell'acqua.

Ma quando raccolse tutte le mele del mio albero e le consumò, i miei nervi fremettero. L'estate precedente, per mezzo della mia rete di tentacoli sotterranei, io avevo trasportato fino all'albero un buon quantitativo di minerale velenoso. Per farlo, finii con l'uccidere i tentacoli che trasportavano quella sostanza, ma riuscii a immettere nelle radici della pianta una certa quantità di roba... mio Papà la chiamava selenio. Feci crescere altri tentacoli e portai all'albero altro veleno. Alla fine, l'albero era saturo di quella sostanza, ma io l'avevo accumulata così lentamente che aveva finito per raggiungere, la pianta, una specie di immunità. Una specie, voglio dire, perché aveva l'aria abbastanza malandata.

Devo ammettere di avere preso quell'idea da una delle storie non-così di Papà, trasmessa in Orsemme perché Mamma non si indignasse. Quella storia parlava di un mobile: era un mobile femmina, sosteneva Papà, anche se il concetto di una femmina mobile mi sembra così intollerabile che preferisco non indugiarvi. Era la storia di una femmina mobile, insomma, che era stata addormentata, un sonno molto lungo, per mezzo di una mela avvelenata.

A quanto pareva, però, l'upolay non conosceva affatto quella storia. Tutto quello che fece fu vomitare. Quando si fu ripreso, avanzò e si appollaiò in cima al mio guscio, strappò via la mia grande antenna, inserì l'ovopositore nel foro e cominciò a fare sgocciolare l'acido.

Io ero spaventata. Non vi è nulla che incuta terrore più dell'essere privata dell'antenna e di non sapere che cosa succede nel mondo, fuori dal tuo guscio. Ma, nello stesso tempo, devo dire che le azioni dell'upolay erano precisamente, quelle che mi aspettavo. Perciò cercai di reprimere il fremito dei miei nervi. Dopotutto, sapevo che l'upolay avrebbe incominciato a lavorare proprio in quel punto. Era proprio per quella ragione che avevo spostato lateralmente il mio cervello e avevo il mio stomaco esageratamente grande più vicino alla sommità del guscio.

Le mie sorelle si erano burlate di me perche mi ero data tanta pena a sistemare i miei organi. Loro si erano accontentate di crescere normalmente, per raggiungere la grandezza di una Mamma. Mentre stavo

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ancora aspettando che l'acqua pompata dal ruscello riempisse il mio sacco, le mie sorelle già da un pezzo avevano riscaldato la loro acqua e stavano mangiando ottimi stufati caldi. Io, invece consumavo molta frutta e carne non cotta, che qualche volta mi faceva stare male. Comunque la roba che rigettavo andava benissimo per concimare le mie colture, e così la faccenda non si chiudeva, per me, con una vera perdita.

Come ben sai, quando lo stomaco è pieno d'acqua e ben chiuso, il calore del nostro corpo riscalda il liquido. Poiché non c'è perdita di calore, se non quando facciamo entrare o uscire carne e verdura attraverso il diaframma, l'acqua finisce per raggiungere il punto di ebollizione.

Bene, per continuare a trasmettere la mia storia, quando il mostro ebbe scrostato via l'osso, il rame e il ferro con i suoi acidi ed ebbe praticato un foro abbastanza largo per farvi passare il suo corpo, si lasciò cadere dentro il guscio, con l'intenzione di divorarmi.

Immagino che si aspettasse d'avere a che fare con una delle solite Mamme o Vergini indifese, con i nervi storditi per il terrore, che si lasciasse divorare.

Se la pensava così, i suoi nervi dovettero subire un bello scossone. C'era un diaframma, sulla parte superiore del mio stomaco, che avevo fatto crescere tenendo bene in mente le dimensioni di un certo mobile carnivoro.

Ma vi fu un momento in cui pensai che forse non avevo formato un'apertura abbastanza grande. Lui era passato per metà, ma non riusciva a superare con le zampe posteriori il diaframma. Era incastrato saldamente, e a unghiate mi strappava via grossi pezzi di carne. Io soffrivo tanto che il mio corpo tremava e, credo oscillava addirittura sulla base, guscio compreso. Eppure, nonostante i miei nervi sconvolti, mi sforzai e mi sforzai e deglutii con tutte le mie forze, oh, proprio con tutte le mie forze. E alla fine, proprio quando stavo per rivomitarlo attraverso il foro dal quale era entrato, il che sarebbe stata la mia fine, deglutii convulsamente, e riuscii a farlo cadere nell'interno.

Il mio diaframma si chiuse. E non lo riaprii, anche se il mostro mordeva e versava acidi brucianti. Ero decisa a mettere la sua carne nel mio stufato: il più grosso pezzo di carne che una Mamma avesse mai avuto.

Oh, lui lottò e si dibatté. Ma non per molto tempo. L'acqua bollente gli entrò nella bocca aperta e gli strinse i sacchi della respirazione. Non poteva certamente prelevare un campione di quel fluido scottante e andarsene per trasformarsi in pupa.

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Era spacciato... ed era squisito.Sì, so benissimo che ci si deve congratulare con me e che queste mie

informazioni sul modo migliore di trattare questi mostri devono essere trasmesse a tutte quante, dovunque. Ma non dimenticare che una parte del merito di questa vittoria sul nostro antico nemico va ad un mobile. So che può far fremere i nervi soltanto a pensarci ma è proprio così.

Dove ho preso l'idea di piazzare il mio stomaco dello stufato proprio sotto al punto dove l'upolay fa sempre il suo foro, in cima ai nostri gusci? Ecco, è una delle tante idee che ho avuto. È derivata da una delle storie non-così di Papà, raccontate in Orsemme. Te le trasmetterò, una volta o l'altra, quando non sarò tanto indaffarata. E quando tu, cara, avrai imparato il nostro linguaggio segreto.

Ora incomincerò la lezione. Per prima cosa...Come? Stai fremendo per la curiosità? Oh, benissimo, ti darò un'idea

della storia non-così, e poi proseguirò la lezione che sto facendo a questa neofita.

Parla di nuay upolay e iday etray orcellinipay...Traduzione di A. Pollini

L'IMPOSTOREdi Philip K. Dick

Nato a Chicago nel 1928, Philip Kindred Dick è un grosso nome della fantascienza dal 1953, anno in cui sfornò qualcosa come ventisette racconti apparsi sulle riviste specializzate. Il suo primo romanzo, «Solar Lottery», «Il disco di fiamma», è del '55; il suo successo veniva consolidato un anno dopo con la pubblicazione di «Eye in the Sky», «L'occhio nel cielo», e consacrato definitivamente nel '63 con il Premio Hugo attribuito a quella che resta la sua opera fondamentale: «The man in the High Castle», «La svastica sul sole». Nell'ultimo decennio la bibliografia di Dick si è arricchita di altri titoli di assoluto rilievo e il suo personalissimo approccio alla SF ha mantenuto il rigore di lucida analisi che conferisce ad ogni sua opera il marchio di una costruzione narrativa complessa ed inconfondibile.

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Uno di questi giorni mi prendo una licenza - disse Spence Olham a colazione. Si voltò a guardare la moglie. - Dieci anni sono un sacco di tempo.

- E il Progetto?- Anche senza di me la guerra la vinceranno lo stesso. Non è che in

effetti questa nostra palla d'argilla corra un gran pericolo. Olham si sedette a tavola e accese una sigaretta. - I quotimatic alterano i bollettini per far sembrare che gli Spaziali ci stiano dritti sopra la testa. Sai che cosa mi piacerebbe fare in vacanza? Un bel campeggio sui monti fuori città, dove siamo andati quella volta. Ti ricordi? Io m'ero intossicato con l'edera pruriginosa e tu avevi pestato una serpe.

- Sutton Wood? - Mary cominciò a sparecchiare. - Il bosco è bruciato qualche settimana fa. Credevo che lo sapessi. Uno di quegli incendi improvvisi.

Olham si smontò. - E non hanno neanche cercato di scoprirne la causa? - Torse la bocca. - Non ci bada più nessuno. Tutti a pensare alla guerra. Serrò le mascelle, mentre gli veniva in mente tutto il quadro: gli Spaziali, la guerra, le navi-ago.

- Come si fa a pensare ad altro?Olham annuì. Certo, aveva ragione. Le piccole navi scure di Alfa

Centauri avevano aggirato con facilità gli incrociatori terrestri, lasciandoseli dietro come tartarughe inermi. Erano state battaglie a senso unico che si avvicinavano sempre di più alla Terra.

O almeno così era stato finché ai Laboratori Westinghouse non avevano sperimentato la sfera protettiva.

Proiettata prima intorno alle maggiori città della Terra e poi intorno a tutto il pianeta, la sfera era la prima vera difesa, la prima seria risposta agli Spaziali, come li avevano etichettati i quotimatic.

Ma vincere la guerra era un altra cosa. Ogni laboratorio, ogni progetto lavorava giorno e notte senza fine per trovare qualcosa di più: un'arma offensiva.

Il suo Progetto, per esempio. Per tutto il giorno, un anno dopo l'altro.Olham si alzò spegnendo la sigaretta. - Come la spada di Damocle.

Sempre sospesa sulle nostre teste. Comincio a essere stanco. Tutto quello che voglio è un bel riposo prolungato. Ma immagino che tutti si sentano così.

Prese la giacca dall'armadio e uscì sulla veranda. Da un momento

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all'altro sarebbe arrivato lo shuttle, la piccola e fulminea cimice che l'avrebbe portato al Progetto.

- Spero che Nelson non sia in ritardo. - Guardò l'orologio. - Sono quasi le sette.

- Eccolo - disse Mary, scrutando tra la fila di case. Dietro i tetti brillava il sole, riflettendosi sulle pesanti tegole di piombo. La cittadina era tranquilla: solo qualcuno cominciava ad affaccendarsi. - Ciao. Cerca di non lavorare fino a tardi.

Olham aprì la portiera e scivolò dentro, abbandonandosi con un sospiro contro lo schienale. Con Nelson c'era un uomo più anziano.

- Bé? - disse Olham, mentre la cimice partiva come una fucilata - qualche notizia interessante?

- Le solite - rispose Nelson. - Qualche nave spaziale distrutta, un altro asteroide abbandonato per ragioni strategiche.

- Sarà bello, quando il Progetto entrerà nello stadio finale. Forse è solo la propaganda dei quotimatic, ma è un mese che comincio ad averne fin qui. Mi sembra tutto tetro e serioso, senza più colori nella vita.

- Pensate che la guerra sia inutile? - disse all'improvviso l'uomo più anziano. - Ne fate parte integrale. Proprio voi.

- Questo è il maggiore Peters - disse Nelson. Olham e Peters si strinsero la mano. Olham lo esaminò con attenzione.

- Che cosa vi fa venire così presto? - chiese. - Non ricordo di avervi mai visto al Progetto prima d'ora.

- No, non ho a che fare con il Progetto - disse Peters - ma so qualcosa di quello che ci fate. Il mio lavoro è tutto diverso.

Lui e Nelson si scambiarono un'occhiata. Olham se ne accorse e aggrottò le sopracciglia La cimice stava accelerando, sfrecciando sul terreno spoglio e senza vita verso il distante complesso del Progetto.

- Di che cosa vi occupate? - chiese Olham. - O non vi è permesso di parlarne? - Lavoro per il governo - rispose Peters. - Con la FSA, il controspionaggio.

- Ah sì? - Olham inarcò un sopracciglio. - C'è un'infiltrazione nemica in zona?

- A dire la verità sono qui per voi, mister Olham. Olham era sbalordito. Riesaminò le parole senza cavarne nulla. - Per me? E perché?

- Sono qui per arrestarvi come spia spaziale. Prendetelo, Nelson...La pistola premette tra le costole di Olham. Nelson aveva le mani che

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tremavano violentemente per l'emozione non più dissimulata e il viso bianco. Fece una profonda inspirazione per poi emettere il fiato.

- Lo uccidiamo subito? - sussurrò a Peters. - Penso che dovremmo ucciderlo subito. Non possiamo aspettare.

Olham fissò il volto dell'amico. Aprì la bocca per parlare senza riuscirci. I due continuavano a fissarlo, rigidi e arcigni per la paura. Gli vennero le vertigini. La testa gli girava e gli faceva male.

- Non capisco - mormorò.In quel momento lo shuttle lasciò il suolo per spararsi in alto, dritto

verso lo spazio. Sotto, il Progetto si allontanò, sempre più piccolo, per infine sparire. Olham chiuse la bocca.

- Per un po' possiamo aspettare - disse Peters. - Prima voglio fargli qualche domanda.

***

Mentre la cimice raggiungeva lo spazio, Olham continuava ottusamente a fissare il vuoto davanti a lui.

- Arresto eseguito - disse Peters al videofono. Sullo schermo si vedeva la faccia del capo della Sicurezza. - Ci siamo levati una bella preoccupazione.

- Complicazioni?- Nessuna. È entrato nella cimice senza sospetto. Sembrava che non

trovasse troppo insolita la mia presenza.- Ora dove siete?- Nello spazio, proprio sotto la sfera di protezione. Andiamo alla

massima velocità. Può considerare terminato il periodo critico. Meno male che i jet per il decollo erano in buone condizioni. Se in quel momento ci fosse stato un intoppo qualsiasi...

- Fammelo vedere - disse il capo della Sicurezza. Guardò in direzione di Olham che sedeva con le mani in grembo, guardando fisso davanti a sé.

- Così è questo qui. - Continuò a fissare Olham per un po'. Olham non disse nulla. Infine il capo annuì a Peters. - Va bene, basta così. - Aveva il volto imbruttito da un certo disgusto. - Ho visto quello che volevo. Avete fatto qualcosa che sarà ricordata per un pezzo. Stanno preparando una citazione per tutti e due.

- Non è necessaria - disse Peters.

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- Quanto pericolo c'è, ora? C'è ancora una buona possibilità che...- Un po' ce n'è, ma non tanto. Per quel che ne so ci vuole una frase

chiave. Comunque è un rischio che dobbiamo correre.- Ho avvertito Baseluna che state arrivando.- No - Peters scosse il capo. - Atterrerò fuori, dietro la base. Non voglio

metterla in pericolo.- Come vuoi. - Il capo sbatté le palpebre, mentre fissava Olham ancora

una volta. Poi l'immagine svanì e lo schermo tornò uniforme.Olham spostò lo sguardo al finestrino. Lo shuttle stava già attraversando

la sfera protettiva, in continua accelerazione. Sotto il pavimento Olham sentiva ruggire i razzi. Peters aveva fretta. Avevano paura, correvano freneticamente a causa sua.

Sul sedile accanto Nelson si agitava a disagio. - Credo che dovremmo farlo subito - disse. - Darei qualsiasi cosa per farla finita.

- Calma - disse Peters - voglio parlargli. Prendete la guida per un po'.Scivolò accanto a Olham, guardandolo in faccia. Poi si allungò con

cautela a toccargli il braccio e la guancia.Olham non disse nulla. Se potessi farlo sapere a Mary, continuava a

pensare. Se potessi trovare il modo di farglielo sapere. Si guardò in giro.Come? Il videofono? Vicino ai comandi c'era Nelson, con la pistola in

mano. Non c'era nulla che potesse fare. Era preso in trappola.Ma perché?

***

- Sentì - disse Peters - voglio farti qualche domanda. Dove andiamo lo sai: verso la Luna. Entro un'ora atterreremo sul lato opposto, quello deserto. Dopo l'atterraggio sarai immediatamente consegnato a una squadra che è lì in attesa. Il tuo corpo sarà immediatamente distrutto, lo capisci questo? - Guardò l'orologio.

- Entro due ore avrai le membra sparse per tutto il paesaggio. Di te non rimarrà più nulla.

Olham lottò per uscire dall'apatia. - Non potete dirmi...- Certo, te lo dico - annuì Peters. - Due giorni fa abbiamo ricevuto un

rapporto su una nave degli Spaziali che aveva passato la sfera protettiva. La nave ha sbarcato una spia, un robot umanoide che doveva distruggere un particolare essere umano per prendere il suo posto.

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Peters guardava calmo Olham.- Dentro il robot c'era una bomba U. Il nostro agente non sapeva che

cosa l'avrebbe fatta esplodere, ma avanzava l'ipotesi che avrebbe potuto essere il pronunciare una certa frase, un certo gruppo di parole. Il robot doveva vivere la vita della persona da lui uccisa, entrando nelle sue solite attività, nel suo lavoro, nella sua vita sociale. Era stato costruito tale e quale a una persona. Nessuno avrebbe notato la differenza.

Il viso di Olham aveva il colore del gesso.- Quello che il robot doveva impersonare era Spence Olham, un alto

funzionario di uno dei progetti della Ricerca. Siccome quel particolare progetto si avvicinava a un punto cruciale, la presenza di una bomba animata che si muoveva verso... Olham si fissava le mani.

- Ma io sono Olham!- Una volta localizzato e ucciso Olham, prenderne il posto per il robot

era cosa da niente. Probabilmente è sbarcato dalla nave otto giorni fa. E probabilmente la sostituzione è avvenuta nell'ultimo week-end, quando Olham è andato a fare una passeggiata sulle colline.

- Ma io sono Olham. - Si voltò verso Nelson, seduto ai comandi. - Non mi riconosci? Ci conosciamo da vent'anni. Non ti ricordi di quando andavamo insieme al college? - Si alzò. - Stavamo insieme all'università. Avevamo la stessa camera. - Si mosse verso Nelson.

- Stammi lontano! - ringhiò Nelson.- Senti. Ti ricordi il secondo anno? ti ricordi di quella ragazza? Come si

chiamava... - Si strofinò la fronte - quella con i capelli neri. Quella che incontrammo da Ted.

- Basta! - Nelson agitava freneticamente la pistola. - Non voglio sentir altro. L'hai ucciso! Brutta... macchina!

Olham lo guardò. - Ti sbagli. Non so che cosa sia successo, ma il robot non mi ha mai raggiunto. Dev'essere andato storto qualcosa. Forse la nave è precipitata. - Si voltò verso Peters. - Sono Olham. Lo so. Non è stata fatta nessuna sostituzione. Sono quello che sono sempre stato.

Si toccò, correndo con le mani su e giù per il corpo. - Ci dev'essere il modo di provarlo. Riportatemi sulla Terra. Un controllo con i raggi X, un esame neurologico, una cosa così che ve lo dimostri. O forse possiamo trovare il relitto della nave.

Né Peters né Nelson parlavano.- Sono Olham - ripeté. - So di esserlo. Ma non posso provarlo.

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- Il robot - disse Peters - doveva essere inconsapevole di non essere il vero Spence Olham. Doveva diventare Olham nella mente, oltre che nel corpo. Gli è stato dato un sistema di memoria artificiale, di falsi ricordi. Doveva avere il suo aspetto, i suoi ricordi, i suoi pensieri e interessi, doveva fare il suo lavoro.

- C'era solo una differenza. Dentro il robot c'è una bomba U, pronta ad esplodere alla frase chiave. - Peters si allontanò un poco. - Quella è l'unica differenza. Ecco perché ti portiamo sulla Luna. Ti smonteranno e toglieranno la bomba. Forse esploderà, ma non importa, non là. Olham risedette lentamente.

- Arriveremo presto - disse Nelson.

***

Mentre la nave scendeva lentamente, Olham stava appoggiato allo schienale, pensando frenetico. Sotto di loro c'era la butterata superficie della Luna, un'infinita spianata di scorie. Che cosa poteva fare? Che cosa avrebbe potuto salvarlo?

- Preparatevi - disse Peters.Tra qualche minuto sarebbe morto. In basso si vedeva un piccolo punto,

una costruzione di qualche specie. In quella costruzione c'erano degli uomini, la squadra di demolizione, che lo aspettavano per farlo a pezzi. Lo avrebbero squartato, gli avrebbero strappato braccia e gambe, lo avrebbero strappato in due. Quando non avrebbero scoperto nessuna bomba, sarebbero rimasti sorpresi. Allora avrebbero capito, ma sarebbe stato troppo tardi.

Olham si guardò ancora in giro. Nelson teneva ancora la pistola puntata. Da quella parte nessuna possibilità. Se avesse potuto avere un dottore, farsi fare un esame... Era quello il solo modo. Pensava frenetico, con la mente al galoppo. Restavano solo pochi minuti. Se avesse potuto entrare in contatto con lei, informarla in qualche modo.

- Piano - disse Peters. La nave scese lentamente, facendo un tonfo contro il suolo duro. Poi il silenzio.

- Sentite - disse Olham con voce impastata. - Posso provare di essere Spence Olham. Chiamate un dottore. Portatelo qui...

- Ecco la squadra - indicò Nelson - arrivano. - Scoccò un'occhiata nervosa ad Olham. - Speriamo che non succeda nulla.

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- Ce ne andremo prima che incomincino a lavorare - disse Peters - tra un istante saremo fuori di qui. - Indossò la tuta pressurizzata. Quando ebbe finito prese a Nelson la pistola. - Per un po' lo tengo d'occhio io.

Maldestramente Nelson indossò in fretta la sua. - E lui? - indicò Olham - non gliene serve una?

- No! - Peters scosse la testa. - Probabilmente i robots non respirano ossigeno.

Il gruppo era quasi giunto alla nave. Si fermò in attesa. Peters fece loro qualche segnalazione.

- Avanti! - Fece un gesto d'invito con la mano e gli uomini si avvicinarono con aria attenta, figure rigide e grottesche nello loro tute rigonfie.

- Se aprite il portello - disse Olham - sarà la mia morte. Sarà un omicidio.

- Apriamo - disse Nelson. Allungò la mano verso la maniglia.Olham l'osservava. Vide la sua mano irrigidirsi sul profilato metallico.

Tra un momento la porta si sarebbe spalancata e l'aria della nave sarebbe affluita irnientemente fuori. Sarebbe morto e loro si sarebbero resi conto del loro errore. Forse in altri tempi, quando non c'era la guerra, gli uomini non si comportavano così, spingendo alla morte un'individuo solo perché avevano paura. Erano tutti spaventati, tutti desideravano sacrificare l'individuo alla loro paura di massa.

Veniva ucciso perché non potevano aspettare di avere le prove della sua colpevolezza. Non c'era il tempo.

Guardò Nelson. Nelson era suo amico da anni. Avevano fatto le scuole insieme. Era stato il suo testimonio quando si era sposato. Ora Nelson stava per ucciderlo. Ma Nelson non era un malvagio; non era colpa sua. Erano i tempi. Forse durante le pestilenze era andata nello stesso modo. Quando un uomo aveva una macchia sulla pelle, probabilmente veniva ucciso anche lui senza un momento d'esitazione, senza prove, solo per un sospetto. In tempi di pericolo non c'era alcun altro modo.

Non li biasimava. Ma lui doveva vivere. La sua vita era troppo preziosa per essere sacrificata. Olham pensava rapido. Che cosa poteva fare? C'era qualcosa? Si guardò in giro.

- Ci siamo - disse Nelson.- Avete ragione - disse Olham. Il suono della sua voce lo sorprese. Era la

forza della disperazione. - Non ho bisogno dell'aria. Apri il portello.

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Si fermarono, guardandolo curiosamente allarmati.- Avanti. Aprila. Non fa differenza. - La mano di Olham gli spari nella

giacca. - Chissà fino a che distanza riuscite a correre.- Correre?- Vi restano quindici secondi di vita. - Le dita gli si contorcevano sotto

la giacca, il braccio gli si era improvvisamente irrigidito. - Vi sbagliavate, per la frase chiave. Su questo punto vi sbagliavate. Quattordici secondi, ora.

Due visi sconvolti lo fissarono da dentro le tute. Poi i due si gettarono armeggiando sul portello e l'aprirono di colpo.

L'aria uscì rumoreggiando, riversandosi nel vuoto. Peters e Nelson balzarono fuori dalla nave. Olham si lanciò dietro di loro. Afferrò il portello e lo richiuse. Il sistema di pressione automatica sbuffò furiosamente rimpiazzando l'aria. Olham lasciò andare il fiato con un brivido.

Ancora un secondo...Al di là del finestrino i due si erano riuniti al gruppo. Il gruppo si

sparpagliò, correndo in tutte le direzioni. Uno dopo l'altro si gettavano a terra proni.

Olham si sedette ai comandi. Regolò i quadranti. Mentre la nave decollava gli uomini si rimisero in piedi, fissandola a bocca aperta.

- Mi spiace - mormorò Olham - ma devo tornare sulla Terra.Puntò la nave nella direzione da cui era venuta.

***

Era notte. Tutt'intorno alla nave frinivano i grilli, disturbando la gelida oscurità. Olham si chinò sul videofono. L'immagine si formò gradualmente: la chiamata era giunta senza guai. Emise un sospiro di sollievo.

- Mary - disse. La donna lo fissava. Emise un'esclamazione soffocata.- Spence! Dove sei? Che cos'è successo?- Non posso dirtelo. Senti, ho poco tempo per parlare. Possono

interrompere la chiamata da un momento all'altro. Va' subito al progetto e trova il dottor Chamberlain. Se non c'è, cerca qualsiasi altro dottore. Portalo a casa e fallo restare lì. Fagli portare gli strumenti, i raggi X, il fluoroscopio, tutto.

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- Ma...- Fa' come dico. Sbrigati. Fa' in modo che sia pronto tra un'ora. - Olham

si chinò verso lo schermo. - Va tutto bene? Sei sola?- Sola?- C'è nessuno con te? Non... Non si è fatto vivo Nelson o qualcun altro?- No. Spence, non capisco.- Va bene. Ci vediamo lì a casa tra un'ora. E non dire niente a nessuno.

Convinci Chamberlain con qualunque scusa. Di' che stai molto male.Tolse la comunicazione e guardò l'orologio. Un momento dopo lasciava

la nave e scendeva nell'oscurità. Aveva mezzo miglio da fare.Cominciò a camminare.

***

Si vedeva una finestra illuminata, quella dello studio. La osservò, in ginocchio contro la cancellata. Non c'erano suoni né movimenti di nessun genere. Tenne alto l'orologio e lo lesse alla luce delle stelle. Era passata quasi un'ora.

Sulla strada sfrecciò una cimice. Proseguì.Olham guardava in direzione della casa. Il dottore doveva essere già

venuto. Avrebbe dovuto essere dentro, in attesa con Mary. Lo colpì un pensiero. Lei aveva potuto lasciare la casa? Forse l'avevano intercettata. Forse stava andando verso una trappola.

Ma che altro poteva fare?Con le registrazioni, le foto e i rapporti di un medico c'era una

possibilità, una possibilità di prova. Se avesse potuto farsi esaminare, se avesse potuto rimanere vivo il tempo sufficiente perché lo studiassero...

In quel modo avrebbe potuto provarlo. Probabilmente era l'unico modo. L'unica sua speranza era lì in casa. Il dottor Chamberlain era un uomo rispettato. Era il dottore personale del Progetto. Avrebbe saputo la verità e la sua parola in proposito avrebbe avuto un peso. Avrebbe potuto vincere con i fatti la loro isteria, la loro pazzia.

Pazzia. Ecco che cos'era. Se solo avessero aspettato, avessero agito con calma, preso tempo. Ma non potevano aspettare. Lui doveva morire, morire immediatamente, senza prove, senza nessun genere di processo o di esame. L'avrebbe detto il test più semplice, ma loro non avevano tempo per il più semplice test. Riuscivano a pensare solo al pericolo. Al pericolo

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e a nient'altro.Si alzò e s'incamminò verso la casa. Salì sulla veranda. Alla porta si

fermò ad ascoltare. Ancora nessun rumore. La casa era completamente silenziosa.

Troppo silenziosa.Olham rimase immobile sulla veranda. Dentro cercavano di stare

silenziosi. Perché? Era una casa piccola, Mary e il dottor Chamberlain avrebbero dovuto essere a qualche metro al di là della porta. Eppure non sentiva nulla, nessun suono di voci, nulla di nulla. Guardò la porta. Era una porta che aveva aperto e chiuso migliaia di volte, tutte le mattine e tutte le sere.

Mise la mano sulla maniglia. Poi invece si sporse all'improvviso a suonare il campanello. Il campanello trillò da qualche parte sul retro. Olham sorrise. Ora udiva dei rumori.

Mary aprì la porta. Appena vide la sua faccia, seppe.Corse a gettarsi tra i cespugli. Un agente della Sicurezza spinse da parte

Mary e gli sparò dietro. I cespugli bruciarono con una vampata. Olham strisciò lungo il lato della casa. Balzò in piedi e corse una corsa sfrenata nell'oscurità. Si accese un faro, un cerchio di luce si muoveva vicino a lui.

Attraversò la strada e si arrampicò su una cancellata. Saltò giù dall'altra parte e attraversò un cortile. Dietro di lui stavano venendo degli uomini, agenti della Sicurezza che si gridavano cose l'un l'altro mentre correvano. Olham annaspò in cerca di fiato, con il torace che si gonfiava e si sgonfiava.

La faccia di Mary... Aveva saputo all'istante. Le labbra serrate, gli occhi terrorizzati e angosciati. Se si fosse limitato ad aprire la porta e ad entrare... Avevano intercettato la chiamata ed erano venuti subito, non appena lui l'aveva interrotta. Probabilimente lei aveva creduto alla loro versione. Non c'era dubbio che ora anche Mary pensava che lui fosse un robot.

***

Olham continuava a correre. Stava seminando gli agenti, se li lasciava dietro, proprio non sembravano molto bravi a correre. Risalì una collina e discese giù per l'altro versante. Tra un momento sarebbe stato di nuovo alla nave. Ma per andare dove, questa volta? Rallentò fino a fermarsi.

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Riusciva già a vedere, delineata contro il cielo, la nave nel punto in cui l'aveva parcheggiata. La cittadina era dietro di lui: era giunto al confine della zona selvaggia che separava quelle abitate, dove cominciavano i boschi e la desolazione. Attraversò un campo brullo e s'infilò tra gli alberi.

Quando giunse vicino al portello, questo si aprì.Peters balzò fuori, stagliato contro il riquadro di luce. Tra le braccia

aveva un pesante mitra Boris. Olham si fermò, rigido. Peters scrutava l'oscurità dalla sua parte. - Lo so che sei là da qualche parte - disse. - Vieni qui, Olham. Sei circondato dagli uomini della Sicurezza.

Olham non si mosse.- Senti. Ti prenderanno in poco tempo. Sembra proprio che tu non creda

di essere un robot. La chiamata, che hai fatto alla donna indica che sei ancora sotto l'illusione creata dalla tua memoria artificiale. Ma tu sei il robot. Sei il robot, e dentro di te c'è la bomba. Da un momento all'altro può venire pronunciata la frase chiave, da te, da qualcun altro, da chiunque. Quando accadrà questo, la bomba distruggerà ogni cosa per un raggio di miglia. Il progetto, la donna, tutti noi saremo uccisi. Capisci?

Olham non disse nulla. Ascoltava, c'erano degli uomini che si muovevano verso di lui, tra i tronchi.

- Se non vieni fuori, ti prenderemo lo stesso. È solo questione di tempo. Non abbiamo più l'intenzione di smontarti a Baseluna. Sarai distrutto a vista, e dovremo correre il rischio che la bomba possa esplodere. Ho fatto venire in zona ogni agente della Sicurezza disponibile. Tutta l'area sarà frugata al centimetro. Non c'è posto dove tu possa andare. Intorno a questi boschi c'è un cordone di uomini armati. Ti restano circa sei ore, prima che l'ultimo centimetro venga frugato.

Olham si allontanò. Peters continuava a parlare: non l'aveva visto affatto. Era troppo scuro per vedere chiunque. Ma Peters aveva ragione. Non c'era posto dove potesse andare. Era al di là della cittadina, ai confini dei boschi. Avrebbe potuto nascondersi per un po', ma alla fine l'avrebbero preso.

Solo questione di tempo.Olham camminava silenziosamente nel bosco. Un miglio dopo l'altro

ogni parte del paese veniva delimitato, messo a nudo, frugato, studiato, esaminato. Il cordone continuava a stringersi, confinandolo in uno spazio sempre più piccolo.

Che cosa gli restava? Aveva perso la nave, l'unica sua speranza di fuga.

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Occupavano casa sua. Sua moglie stava con loro, senza dubbio convinta che il vero Olham fosse stato ucciso. Strinse i pugni. Da qualche parte c'era il relitto di una nave-ago spaziale con dentro i resti di un robot. La nave era precipitata in qualche parte lì vicino, precipitata e distrutta.

E dentro giaceva il robot, a pezzi.Una lieve speranza lo rimescolò. E se avesse trovato il relitto? Se avesse

potuto far vedere i resti della nave, il robot...Ma dove? Dove avrebbe potuto trovarla?Continuava a camminare, perso nei pensieri. Qualche posto non troppo

lontano, probabilmente. La nave doveva atterrare nelle vicinanze del Progetto: ci si aspettava che il robot avrebbe fatto a piedi il resto della strada. Risalì il fianco di una collina per guardarsi in giro. Distrutta e bruciata. C'era qualche traccia, qualche indizio. Aveva letto qualcosa, udito qualcosa. Un luogo vicino, che si poteva raggiungere a piedi. Un posto deserto, un punto remoto in cui non c'era gente.

Improvvisamente Olham sorrise. Distrutta e bruciata...Sutton Wood.Affrettò il passo.

***

Era mattina. Il sole filtrava tra gli alberi spezzati, illuminando l'uomo accovacciato sull'orlo della radura. Olham ogni tanto scoccava delle occhiate verso l'alto, ascoltando. Non erano lontani, solo qualche minuto. Sorrise.

Sotto di lui, disseminata tra la radura e i monconi carbonizzati che erano stati Sutton Wood, giaceva una massa aggrovigliata di rottami. Alla luce del sole brillava un poco di un opaco bagliore. Non aveva avuto difficoltà a trovarla. Sutton Wood era un bosco che conosceva bene, si era arrampicato fin lì molte volte, quando era più giovane. Sapeva dove avrebbe trovato i resti. C'era un picco che si ergeva all'improvviso, senza segnali aerei.

Una nave in atterraggio, che non conosceva il bosco, aveva poche possibilità di mancarlo.

E ora stava accovacciato a guardare la nave, o quello che ne rimaneva.Olham si alzò in piedi. Li sentiva venire, poco lontano, parlando a bassa

voce. S'irrigidì. Tutto dipendeva da chi l'avrebbe visto per primo. Se fosse

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stato Nelson, non avrebbe avuto una possibilità.Nelson avrebbe sparato immediatamente e lui sarebbe morto prima che

avessero visto la nave. Ma se avesse avuto il tempo di avvertirli, di trattenerli per un istante... Era tutto quello di cui aveva bisogno. Una volta che avessero visto la nave sarebbe stato al sicuro.

Ma se avessero sparato subito...Una fronda carbonizzata scricchiolò. Apparve una figura che veniva

avanti incerta. Olham trasse un profondo respiro. Rimanevano solo pochi secondi, forse gli ultimi secondi della sua vita. Alzò le mani, fissandola intento.

Era Peters.- Peters! - Olham agitò le braccia. Peters alzò il mitra, prendendo la

mira. - Non sparate! - La voce gli tremava. - Aspettate un momento. Guardate dietro di me, nella radura.

- L'ho trovato - gridò Peters. Gli uomini della Sicurezza si riversarono fuori dal bosco bruciato intorno a loro.

- Non sparate. Guardate dietro di me. La nave, la nave-ago. La nave degli Spaziali. Guardate!

Peters esitò. La canna del mitra ondeggiava.- È laggiù - disse Olham rapidamente. - Lo sapevo che l'avrei trovata

qui. Il bosco bruciato. Ora mi crederete. Nella nave troverete i resti del robot. Guardate, per piacere!

- Laggiù c'è qualcosa - disse nervosamente uno degli uomini.- Sparategli! - disse una voce. Era Nelson.- Aspettate. - Peters si girò di scatto. - Sono io che comando. Nessuno

faccia fuoco. Forse dice la verità.- Sparategli - ripeté Nelson - ha ucciso Olham. Da un momento all'altro

può ucciderci tutti. Se la bomba esplode...- Silenzio! - Peters avanzò verso la scarpata. Guardò in basso. - Guardate

là. - Fece un cenno ai due uomini più vicini. - Scendete a vedere che cos'è.Gli uomini corsero giù per la scarpata verso la radura. Si chinarono a

frugare tra i resti della nave.- Be'? - gridò Peters.Olham tratteneva il fiato. Sorrideva vagamente. Doveva essere là: non

aveva avuto il tempo di guardare di persona, ma doveva essere là.Lo prese un dubbio improvviso. E se il robot fosse sopravvissuto quel

tanto da andarsene? E se fosse bruciato completamente, ridotto in cenere?

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Si leccò le labbra. La fronte gli grondava sudore. Nelson lo fissava, ancora con la faccia livida. Il petto gli si alzava e abbassava affannosamente.

- Uccidetelo - disse Nelson. - Prima che lui uccida noi. I due uomini si rizzarono.

- Che cosa avete trovato? - gridò Peters. Teneva sempre il mitra puntato. - C'è qualcosa?

- Si direbbe di sì. È proprio una nave-ago. E c'è anche dell'altro.- Vengo a vedere. - Peters oltrepassò Olham. Olham lo guardò scendere

la scarpata e raggiungere gli uomini. Gli altri lo seguivano, cercando di sbirciare.

- È una specie di corpo - disse Peters.- Guardate!Olham si unì a loro. Stavano tutti in cerchio, guardando in basso.

***

Per terra, piegata in una strana forma, c'era una sagoma grottesca. Sarebbe sembrata umana, se non fosse stata per i suoi angoli strani, con le gambe e le braccia sparse in tutti i sensi. Aveva la bocca aperta, gli occhi fissavano il vuoto, vitrei.

- Come una macchina guasta - mormorò Peters. Olham ebbe un sorriso fioco. - Be'? - disse.

Peters lo fissò. - Non posso crederci. Avete sempre detto la verità.- Il robot non mi ha mai raggiunto - disse Olham. Si mise in bocca una

sigaretta e l'accese. - È rimasto distrutto con la nave. Eravate troppo occupati con la guerra per chiedervi se un bosco fuori mano si fosse incendiato improvvisamente. Ora lo sapete.

Continuava a fumare, osservando gli uomini. Stavano estraendo i grotteschi resti dalla nave. Il corpo era indurito, con braccia e gambe rigide.

- Ora troverete la bomba - disse Olham. Gli uomini deposero a terra il corpo, Peters si chinò.

- Credo di vederne un angolo. - Allungò la mano a toccare il corpo.Il petto del cadavere si era aperto. Nello squarcio brillava qualcosa,

qualcosa di metallico. Gli uomini fissavano quel metallo senza una parola.- Ci avrebbe distrutti tutti, se fosse sopravvissuto - disse Peters a Olham.

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- Con quella scatola di metallo.Ci fu silenzio.- Credo che vi dobbiamo qualcosa - disse Peters a Olham. - Per voi

dev'essere stato un incubo. Se non foste fuggito, sareste stato... - S'interruppe.

Olham posò la sigaretta. - Naturalmente io lo sapevo che il robot non mi aveva mai raggiunto. Ma non avevo modo di provarlo. A volte non è possibile provare qualcosa lì per lì. Ecco qual era il guaio. Non c'era alcun modo con cui potessi dimostrare che io ero io.

- Che ne direste di una vacanza? - disse Peters. - Penso che potremmo farvi avere una licenza di un mese. Potreste prendervela calma, rilassarvi.

- Credo che ora vorrei andare a casa - disse Olham.- Bene, allora - disse Peters. - Tutto quello che volete. Nelson era

accovacciato per terra, vicino al cadavere. Allungò una mano verso il luccichio che brillava nel suo petto.

- Non toccare - disse Olham. - Potrebbe esplodere. È meglio che d'ora in poi se ne occupi la squadra di demolizione.

Nelson non rispose. Improvvisamente afferrò con mano ferma il metallo e tirò.

- Ma che fai? - gridò Olham.Nelson si rialzò. Aveva in mano l'oggetto metallico. Aveva il volto

bianco di paura. Era un coltello metallico, un coltello ago spaziale, coperto di sangue.

- Questo l'ha ucciso - sussurrò Nelson. - Il mio amico è stato ucciso con questo. - Guardò Olham. - L'hai ucciso con questo e l'hai lasciato vicino alla nave.

Olham cominciò a tremare. Batteva i denti. Continuava a far correre lo sguardo dal coltello al corpo. - Non può essere Olham - disse. La testa gli girava, tutto gli girava intorno. - Avete torto?

Trattenne il fiato.- Ma se quello è Olham, allora vuol dire che io sono... Non finì il

periodo, solo la prima frase. L'esplosione si vide fin da Alfa Centauri.Traduzione di Ferruccio Alessandri

IL DUEMILAdi J. G. Ballard

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James Graham Ballard è nato nel 1930 ed ha dimorato a lungo in Asia, dove è nato (Shangai). Rientrato nella sua patria, la Gran Bretagna, nel 1946, ha studiato medicina a Cambridge e, dieci anni dopo, ha esordito come scrittore di SF con un racconto apparso sulla rivista inglese Science Fantasy. I suoi primi tre romanzi, «The Wind from Nowhere», «The Drowned World» e «The Drowght» appartengono, scrive Gianni Montanari, "a quella scuola della soppravivenza che gli autori inglesi ritengono anche oggi un sistema classico ma eccellente per esporre le loro idee, mentre i loro romanzi distruggono il mondo...". Il racconto «Billenium», «Il Duemila», è uscito nel 1962 e tratta il tema della sovrappopolazione, una delle possibili ragioni che porteranno l'umanità all'autodistruzione, e si inserisce quindi nella generale tematica della rovinografia cui Ballard rivolge la massima attenzione.

Il rumore dei piedi che salivano e scendevano le scale tutto il giorno, e spesso anche la sera tardi, risuonava nel cubicolo di Ward. Costruito in una stretta rientranza di una curva delle scale tra il quarto e il quinto piano, aveva pareti di compensato che si piegavano e scricchiolavano ad ogni passo come l'assito di un mulino in rovina. Nei tre piani sopra di lui della vecchia casa viveva un centinaio abbondante d'inquilini, e qualche volta Ward restava sveglio nella stretta branda fino alle due di notte a contare meccanicamente gli ultimi che tornavano dal cinema notturno non-stop dello stadio nei pressi. Dalla finestra udiva parti del dialogo amplificato che echeggiava sui tetti. Lo stadio non era mai vuoto. Di giorno l'immenso schermo cubico veniva sollevato dalle gru pontone e sotto avvenivano ininterrottamente gare di atletica e partite di calcio. Per chi abitava nelle case affacciate sullo stadio il rumore doveva essere insopportabile.

Almeno Ward godeva di un certo grado di privacy. Fino a due mesi prima, quando era venuto ad abitare sulla scala, aveva diviso con altri sette una camera al pianterreno di una casa nella 155* Strada e l'incessante pressione della gente che si accalcava fuori dalla finestra l'aveva ridotto a uno stato d'esaurimento cronico. La strada era sempre piena, un infinito rumore di fondo di voci e di piedi strascicati. Fin dalle sei e mezza, ora in cui si svegliava per correre a prender posto nella coda davanti al bagno, la

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folla già intasava la strada da un marciapiede all'altro e il forte brusio era scandito ogni trenta secondi dal ruggito della sopraelevata che correva sui negozi del lato opposto della via. Quando aveva visto l'annuncio che descriveva il cubicolo sulle scale (come tutti, passava la maggior parte del suo tempo libero a esaminare gli annunci economici dei giornali, traslocando in media ogni due mesi) ci si era trasferito, anche se l'affitto era più alto. Un cubicolo sulle scale sarebbe stato quasi certamente tutto suo.

Il che aveva comunque i suoi risvolti negativi. La maggior parte delle sere gli amici della biblioteca lo venivano a trovare, avidi di riposare i gomiti dopo il pigia pigia della sala di lettura. Il cubicolo aveva un'area leggermente più grande di quattro metri quadrati e mezzo, mezzo metro quadrato in più del massimo legale per persona, perché i falegnami avevano approfittato illegalmente di una rientranza vicino a una canna fumaria. Per cui Ward aveva potuto sistemare un seggiolino nello spazio tra il letto e la porta, così che sul letto doveva sedere soltanto una persona... Nella maggior parte dei cubicoli ospite e padrone di casa dovevano star seduti sul letto fianco a fianco, conversando col mento sulla spalla e scambiandosi di posto ogni tanto per non prendersi il torcicollo.

- Sei stato fortunato a trovare questa stanza, - non si stancava mai di ripetergli Rossiter, il suo frequentatore più regolare. Si mise comodo sulla branda, indicando il cubicolo con un ampio gesto. - È enorme, ha una prospettiva profondissima. Sarei sorpreso se qui tu non avessi cinque metri, forse anche sei.

Ward scosse la testa con decisione. Rossiter era il suo migliore amico, ma la ricerca dello spazio vitale faceva sviluppare riflessi pronti.

- Solo quattro e mezzo, ho preso le misure con cura. Su questo non c'è dubbio - Rossiter sollevò un sopracciglio. - Sorprendente. Allora dev'essere il soffitto.

La manipolazione del soffitto era uno dei trucchi preferiti dei padroni di casa senza scrupoli... La maggior parte delle misurazioni veniva fatta scomodamente sul soffitto e inclinando le pareti di compensato l'area di un cubicolo poteva o essere a beneficio di un potenziale inquilino (molte coppie venivano imbrogliate così, finendo in un cubicolo per singoli), o temporaneamente diminuita per la visita di un ispettore edile. I soffitti erano solcati da righe tracciate a marita, a sostenere le contrastanti rivendicazioni degli inquilini ai lati opposti di un tramezzo. Chi era troppo

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timido per far valere i propri diritti poteva essere letteralmente strizzato fuori dall'esistenza... In effetti la frase pubblicitaria "vicinato tranquillo" era di solito un tacito invito a questo tipo di pirateria.

- La parete balla un po', - ammise Ward. - Effettivamente è in fuori di quattro gradi... Ho usato il filo a piombo. Ma sulle scale c'è ancora un sacco di spazio per il passaggio.

Rossiter sogghignò. - Ma certo, John. Sono solo invidioso. Ho la mia stanza che mi tira scemo. - Come tutti, per indicare il suo cubicolo microscopico usava il termine "stanza", residuo di mezzo secolo prima, quando la gente viveva davvero uno per stanza e, a volte, incredibilmente uno per appartamento o per casa. I microfilm della sezione architettura della biblioteca mostravano scene di musei, sale da concerto e altri edifici pubblici come apparivano nella vita di tutti i giorni, spesso praticamente vuoti, con due o tre persone che vagavano in gigantesche gallerie e scaloni. Nel centro delle vie scorreva liberamente il traffico e nei quartieri più tranquilli i marciapiedi erano liberi per tratti di cinquanta metri e anche più.

Naturalmente ora gli edifici più vecchi erano stati demoliti per fare posto a complessi residenziali o ristrutturati in gruppi di appartamenti. La grande sala dei banchetti dell'antico Municipio era stata divisa orizzontalmente in quattro piani, ciascuno dei quali era composto di centinaia di cubicoli.

E da molto tempo il traffico dei veicoli aveva smesso di scorrere nelle strade. A parte le poche ore prima dell'alba, quando solo i marciapiedi erano affollati, ogni arteria stradale era piena zeppa di pedoni che camminavano a passi strascicati, pedoni necessariamente costretti a ignorare gli ininterrotti striscioni di "Tenere la sinistra" appesi sopra le loro teste, guadagirandosi uno dietro l'altro, con la lotta, la strada verso casa o verso l'ufficio, con gli abiti polverosi e informi. Spesso si creavano degli ingorghi, quando una gran massa infilava contemporaneamente una strettoia, bloccandosi inamovibilmente. A volte questi ingorghi duravano giorni. Due anni prima Ward era finito in uno di questi presso lo stadio: per più di quarantotto ore era rimasto intrappolato in un gigantesco ingorgo pedonale di oltre ventimila persone, alimentato da un lato dalla folla che usciva dallo stadio e dall'altro da quella che ci voleva entrare. La zona circostante era rimasta paralizzata per più di due chilometri quadrati ed egli ricordava vividamente l'incubo di ondeggiare impotente sui piedi, mentre la folla si spostava e si gonfiava, con il terrore di perdere

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l'equilibrio e finire calpestato. Quando finalmente la polizia aveva chiuso lo stadio e disperso l'ingorgo, era tornato al suo cubicolo e aveva dormito una settimana, col corpo blu per le contusioni.

- Ho sentito che forse ridurranno le assegnazioni a tre metri e mezzo. - osservò Rossiter.

Ward aspettò che una comitiva d'inquilini del sesto piano avesse finito di scendere le scale, tenendo ferma la porta in modo che non scattasse la serratura. Poi commentò: - Dicono sempre così. È una voce che circola da dieci anni.

- Non è una voce, - lo ammonì Rossiter. - Presto può essere una misura necessaria. Ora come ora, in questa città sono ingabbiate trenta milioni di persone, con un milione d'incremento in un solo anno. All'Assessorato Alloggi devono aver preso le cose molto sul serio.

Ward scosse la testa. - Una rivalutazione così drastica è quasi impossibile a realizzarsi. Bisognerebbe tirar giù ogni tramezza per poi inchiodarla ancora: il solo lavoro amministrativo sarebbe così vasto che è difficile immaginarselo. Milioni di cubicoli da riprogettare e riapprovare, licenze da rilasciare, più la completa risistemazione di ogni inquilino. La maggior parte degli edifici costruiti dopo l'ultima rivalutazione sono stati progettati sul modulo dei quattro metri: non si può togliere semplicemente mezzo metro quadrato all'estremità di ogni cubicolo e dire di farne tanti nuovi cubicoli. Sarebbero larghi solo quindici centimetri. - Rise.

- E poi come si fa a vivere in solo tre metri e mezzo? Rossiter sorrise. - Questa è l'obiezione definitiva, no? La usarono venticinque anni fa, all'ultima rivalutazione, quando il minimo di cinque fu tagliato a quattro. Non si può fare, dicevano tutti, nessuno è in grado di vivere in solo quattro metri quadrati: c'è posto per un letto e una valigia, ma non puoi aprire la porta per entrare. - Rossiter ridacchiò dolcemente. - Si sbagliavano. Si decise semplicemente che da allora in poi tutte le porte si sarebbero aperte verso l'esterno. I quattro metri quadrati erano arrivati per restare.

Ward guardò l'orologio. Erano le sette e mezza. - È ora di mangiare. Vediamo se riusciamo a entrare nella tavola calda qui di fronte.

Brontolando alla prospettiva, Rossiter si tirò su dalla branda. Uscirono dal cubicolo e si fecero strada giù per le scale. Queste erano piene di valigie e casse d'imballaggio, così che restava libera solo una stretta zona vicino alla balaustra. Ai piani inferiori la congestione era anche peggio. I corridoi erano abbastanza larghi per essere divisi in cubicoli, l'aria era

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viziata, sulle mura di cartone pendevano biancheria ad asciugare e dispense improvvisate. Ognuna delle cinque stanze di ogni piano conteneva una dozzina di inquilini, con le loro voci che echeggiavano al di là delle tramezze. C'era gente seduta sugli scalini, usando la scala sopra il secondo piano come un salotto alla buona, anche se questo era contro le norme antincendio, donne che chiacchieravano con uomini in maglietta, in fila davanti al bagno, bambini che si tuffavano intorno a loro. Quando raggiunsero l'ingresso Ward e Rossiter avevano dovuto farsi strada attraverso gli inquilini ammassati in ogni pianerottolo, raggruppati intorno agli albi murali, o che spingevano per rincasare dalla strada sotto. Dopo un profondo sospiro alla fine delle scale, Ward indicò la tavola calda all'altro lato della strada. Era lontana solo trenta metri, ma la moltitudine scorreva per la strada come un fiume in piena, tutta nella stessa direzione. Alle nove cominciava il primo film allo stadio e la gente già vi si affrettava per essere sicura di trovar posto.

- Non possiamo andare da un'altra parte? - chiese Rossiter, arricciando il naso alla prospettiva della tavola calda. Non solo sarebbe stata piena zeppa e ci sarebbe voluta mezz'ora per essere serviti, ma anche il cibo era insipido e poco appetitoso. Il viaggio di quattro isolati dalla biblioteca gli aveva dato un certo appetito.

Ward scrollò le spalle. - C'è un posto all'angolo, ma dubito che possiamo farcela. - Erano duecento metri controcorrente: avrebbero dovuto contrastare la folla per tutto il percorso.

- Forse hai ragione. - Rossiter mise una mano sulla spalla di Ward. - Sai, John, il tuo guaio è che non vai mai da nessuna parte, t'impegni troppo poco, proprio non ti rendi conto di come vada tutto sempre peggio.

Ward annuì. Rossiter aveva ragione. La mattina, quando usciva per andare in biblioteca, il traffico pedonale si muoveva con lui verso la zona degli uffici; la sera, quando tornava, fluiva in direzione opposta. In complesso Ward non aveva mai modificato questo tran tran. Cresciuto da quando aveva dieci anni in un ostello municipale, aveva man mano perso i contatti col padre e la madre, che vivevano nella zona est della città e non potevano, o non volevano, affrontare il viaggio per venirlo a trovare. Il suo spirito d'iniziativa si era arreso alla dinamica della città ed egli era riluttante a riconquistarlo solo per bere un caffé migliore. Per fortuna il suo lavoro alla biblioteca lo metteva in contatto con un'ampia gamma di giovani con interessi simili ai suoi. Prima o poi si sarebbe sposato, avrebbe

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trovato un cubicolo matrimoniale vicino alla libreria e si sarebbe sistemato. Se avessero avuto abbastanza bambini (tre era il minimo richiesto) un giorno avrebbero potuto possedere una piccola stanza tutta per loro. Si tuffarono nella fiumana di pedoni, seguendola per dieci o venti metri, poi accelerarono il passo muovendosi diagonalmente attraverso la folla e virando lentamente verso il lato opposto della strada. Là trovarono rifugio negli ingressi dei negozi e si fecero lentamente strada tornando verso la tavola calda, le spalle tese contro le infinite collisioni minori.

- Quali sono le ultime stime sulla popolazione? - chiese Ward, mentre aggiravano un chiosco di sigarette, avanzando dovunque si creasse per un momento un varco.

Rossiter sorrise. - Mi spiace, John. Mi piacerebbe dirtelo, ma potresti provocare il panico. E poi non mi crederesti.

Rossiter lavorava alla Sezione Assicurazione del Municipio e in pratica aveva accesso alle statistiche dei censimenti. Da dieci anni queste erano informazioni riservate, in parte perché diventate inaccurate, ma specialmente perché si temeva che potessero innescare un attacco di claustrofobia di massa. Si erano già verificate esplosioni minori del genere, e così la versione ufficiale era che la popolazione mondiale si era stabilizzata a venti miliardi. Nessuno lo credeva neanche un po', e Ward dava per scontato che l'incremento annuo del 3%, mantenuto fin dagli anni Sessanta, ci fosse ancora.

Era impossibile giudicare quanto a lungo si sarebbe andati avanti così. Nonostante le più cupe profezie dei neomalthusiani l'agricoltura mondiale era riuscita a stare al passo con l'aumento della popolazione, anche se una coltivazione intensiva significava che il 95% della popolazione doveva essere permanentemente intrappolata in vasti conglomerati urbani. Infine era stata bloccata l'espansione delle città: infatti in tutto il mondo le vecchie aree suburbane erano requisite per l'agricoltura e la popolazione in eccesso veniva confinata nei ghetti urbani preesistenti. La campagna, intesa come tale, non esisteva più. Ogni metro quadrato di terreno produceva un raccolto di qualche tipo. Nel mondo i campi e i prati di una volta erano ora delle fabbriche, da com'erano altamente meccanizzati, e chiusi al pubblico come ogni zona industriale. Le rivalità economiche ed ideologiche erano svanite da lungo tempo di fronte a una sola esigenza globale: la colonizzazione interna della città. Raggiunta la tavola calda, s'infilarono a forza nell'ingresso per unirsi alla mischia di avventori che

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premeva contro il banco, profonda sei persone.- Quello che c'è di veramente sbagliato nel problema della popolazione, -

confidò Ward a Rossiter, - è che nessuno ha mai cercato di affrontarlo. Cinquant'anni fa il miope nazionalismo e l'espansione industriale premiavano l'incremento demografico, e anche oggi un incentivo implicito è farsi una famiglia numerosa per conquistarsi un po' di privacy. I singoli sono penalizzati semplicemente perché sono in soprannumero e non sono adatti a essere raggruppati convenientemente in cubicoli doppi e tripli. Ma il vero colpevole, con la sua logistica compatta e risparmiatrice di spazio, è la famiglia numerosa.

Rossiter annuì, mentre avanzava gradatamente verso il banco, pronto a urlare la sua ordinazione. - Fin troppo vero. Tutti quanti non vediamo l'ora di sposarci, in modo da poter avere i nostri sei metri.

Immediatamente davanti a loro due ragazze si voltarono sorridendo. - Sei metri quadrati, - ripeté una di loro, una bruna con un bel viso ovale. - Mi sembri proprio il tipo d'uomo che mi piacerebbe conoscere. Ti sei messo nelle immobiliari, Henry?

Rossiter sogghignò e le strinse un braccio. - Ciao Judith. Ci sto facendo un pensierino. Ti piacerebbe metterti con me in un'impresa privata?

La ragazza gli si strinse addosso, mentre raggiungevano il banco. - Be', si può fare. Però dovrebbe essere una cosa legale.

L'altra ragazza, Helen Waring, impiegata della biblioteca, tirò Ward per la manica. - La sai l'ultima, John? Judith ed io siamo state buttate fuori di casa. In questo momento siamo sul lastrico.

- Cosa? - esclamò Rossiter. Presero la minestra e il caffé e indietreggiarono a forza verso il fondo del locale. - Cosa diavolo è successo?

- Ti ricordi quello sgabuzzino per le scope di fianco al nostro cubicolo? - spiegò Helen. - Judith ed io lo usavamo come studio, ci andavamo a leggere. È tranquillo e riposante, quando hai fatto l'abitudine a non respirare. Be', la vecchia l'ha scoperto e ha piantato un gran casino, ha detto che violavamo la legge e così via. In breve, fuori. - Helen fece un pausa. - Abbiamo appena sentito che ora l'affitterà come singolo.

Rossiter si appoggiò al bordo di un banco. - Uno sgabuzzino per le scope? Qualcuno ci andrà a vivere? Quella non avrà mai la licenza.

Judith scosse la testa. - Ce l'ha già. Suo fratello lavora all'Assessorato Alloggi.

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Tra una cucchiaiata e l'altra Ward rideva. - Ma a che le serve? Nessuno andrà a vivere in uno sgabuzzino per le scope.

Judith lo fissò cupa. - Lo credi davvero, John?Ward posò il cucchiaio. - No, credo che tu abbia ragione. La gente andrà

a vivere dovunque. Dio, non so se mi fate più pena voi o il poveraccio che andrà a vivere nello sgabuzzino. Che cosa farete?

- C'è una coppia a due isolati da qui che ci subaffitta metà del loro cubicolo. Ci appendono un lenzuolo in mezzo ed io ed Helen dormiremo a turno su una brandina. Senza scherzi, la nostra stanza è larga mezzo metro. Ho detto ad Helen che dovremmo dividerla ancora e subaffittarne metà al doppio del nostro affitto.

Ci fecero su una bella risata, poi Ward diede la buonanotte agli altri e tornò a casa. Là si trovò alle prese con un problema molto simile.

***

L'amministratore stava appoggiato alla porta sottile, rigirando in bocca un mozzicone masticato di sigaro, con un'espressione di tetra noia sul volto non rasato.

- Hai quattro metri e settantadue, - disse a Ward, che si era fermato sulle scale davanti all'ostacolo dell'uomo. Altri inquilini passavano nel pianerottolo, dove due donne in bigodini e sottoveste stavano litigando, dando irosi strattoni al muro di bauli e casse. Di tanto in tanto l'amministratore scoccava loro un'occhiata irritata. - Quattro e settantadue. L'ho misurato due volte. - Lo disse come se questo ponesse fine a ogni possibilità di obiezione.

- Soffitto o pavimento? - chiese Ward.- Soffitto, cosa credi? Come faccio a misurare il pavimento con tutta

quella robaccia? - Diede un calcio alla scatola di libri che sporgeva di sotto il letto.

Ward lasciò correre.- C'è una bella inclinazione nel muro, - fece notare. - Almeno tre o

quattro gradi.L'amministratore fece un vago cenno d'assenso. - Sempre sopra i

quattro. Un bel po' oltre il limite. - Si voltò verso Ward che era sceso di qualche scalino per permettere a un uomo e a una donna di passare. - Questo lo posso affittare come doppio.

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- Come, solo quattro e mezzo? - chiese Ward incredulo.- E come?L'uomo che era appena passato si piegò oltre la spalla

dell'amministratore e ficcanasò nella stanza, impadronendosi di ogni particolare con una sola rapida occhiata. - Affitti un doppio, qui Louie?

L'amministratore gli fece il gesto di filare e fece entrare Ward con lui nella stanza, chiudendo la porta.

- Legalmente è un cinque, - gli disse. - È appena uscito il nuovo regolamento. Ora tutto quello che è sopra i quattro e cinquanta è un doppio. - Occhieggiò Ward con aria scaltra.

- Allora, che facciamo? È una bella stanza, qui c'è un sacco di spazio, sembra triplo. Ingresso sulle scale, finestrino... - S'interruppe perché Ward si era lasciato cadere sul letto e aveva incominciato a ridere. - Be', cosa c'è? Senti, se vuoi una stanza grande come questa devi pagarla. O cinquanta per cento in più o fuori.

Ward si asciugò gli occhi, poi si tirò su stancamente e andò allo scaffale. - Calma, me ne vado subito. Vado a vivere in uno sgabuzzino delle scope. "Ingresso sulle scale"... Questa si che è una buona. Dimmi, Louie, c'è vita su Urano?

***

Per il momento prese con Rossiter un cubicolo doppio in una casa semidiroccata a un centinaio di metri dalla biblioteca.

Il quartiere era malandato e fatiscente, le case rigurgitavano d'inquilini. Le possedevano più che altro proprietari che abitavano altrove o enti comunali, e gli amministratori erano di basso livello, semplici esattori dell'affitto che se ne fregavano di come gli inquilini dividevano il loro spazio e non si avventuravano mai oltre il primo piano. I corridoi erano costellati di bottiglie e lattine vuote e i bagni sembravano cisterne. La maggior parte degli inquilini erano vecchi e ammalati che restavano svogliatamente seduti nei loro stretti cubicoli, parlandosi l'un con l'altro schiena a schiena attraverso le sottili tramezze.

Il loro cubicolo era al terzo piano, in fondo a un corridoio che faceva il giro della casa, la cui architettura era impossibile a seguirsi per i cubicoli sistemati con ogni angolazione possibile. Per fortuna il corridoio era cieco il mucchio di casse finiva a un metro dal muro e una tramezza separava il

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cubicolo, ampio a sufficienza per due letti. Un'altra finestra dava sulla casa di fronte.

Sistemate le sue proprietà nello scaffale sopra la sua testa, Ward si sdraiò sul letto e guardò pigramente il tetto della biblioteca attraverso la bruma pomeridiana.

- Mica male, qui, - gli disse Rossiter mentre sballava la sua cassa. - Lo so che non c'è una vera privacy e che nel giro di una settimana ci tireremo scemi l'un l'altro, ma almeno non abbiamo sei altre persone che ci respirano sul collo mezzo metro più in là.

Il cubicolo più vicino era singolo inserito nello strato di bagagli, una dozzina di passi più in là lungo il corridoio. L'occupante era un settantenne sordo e immobilizzato a letto.

- Mica male, - gli fece eco Ward con riluttanza. - Ora dimmi quali sono le ultime cifre dell'aumento di popolazione. Può darsi che mi facciano consolare.

Rossiter rimase un istante in silenzio.- Quattro per cento, - disse poi a voce bassa. Ottocento milioni di gente

in più in un anno... Poco meno della metà di tutta la popolazione mondiale nel 1950.

Ward fece un leggero fischio. - Così faranno la rivalutazione. Quanto? Tre metri e mezzo?

- Tre. Dall'inizio dell'anno prossimo.- Tre metri quadrati! - Ward balzò a sedere e si guardò in giro. - È

incredibile! Il mondo è impazzito, Rossiter. Per amor di Dio, quando faranno qualcosa? Ti rendi conto che presto non ci sarà più posto per sedersi, solo per sdraiarsi?

Esasperato colpì con un pugno il muro al suo fianco. Al secondo colpo cedette uno dei piccoli pannelli di compensato coperti da una leggera tappezzeria.

- Ehi! - gridò Rossiter. - Butti giù la stanza. - Si tuffò lungo il letto a recuperare il pannello che pendeva in dentro, trattenuto solo da una leggera striscia di carta. Ward fece scivolare la mano nell'orifizio scuro e cautamente appoggiò il pannello al letto.

- Chi c'è dall'altra parte? - sussurrò Rossiter. - Hanno sentito?.Ward sbirciò nell'orifizio, aguzzando gli occhi nella debole luce.

Improvvisamente lasciò il pannello e afferrò la spalla di Rossiter, tirandolo lungo il letto.

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- Henry! Guarda!Rossiter si liberò dalla stretta, spinse la faccia nell'apertura, mise

lentamente a fuoco la vista ed emise un'esclamazione soffocata.Proprio davanti, a loro debolmente illuminata dalla grigia luce del

giorno, c'era una stanza di medie dimensioni, sui quindici metri quadrati, vuota tranne che per la polvere sedimentata sui battiscopa. Il pavimento era nudo, attraversato da qualche striscia di linoleum logoro, i muri coperti da una stinta tappezzeria a fiori. Qua e là pendevano brandelli di carta da parati e la cornice superiore era marcita, ma a parte questo la stanza era abitabile.

Trattenendo il respiro Ward chiuse con un piede la porta aperta del cubicolo e poi si volse a Rossiter.

- Herry, ti rendi conto di che cosa abbiamo trovato? Te ne rendi conto?- Zitto. Abbassa la voce, per amor del cielo. - Rossiter esaminava la

stanza con attenzione. - È fantastico. Sto cercando di capire se nessuno l'ha usata di recente.

- Ma certo che no, - notò Ward. - È ovvio. Non si vede una porta nella stanza. Ci stiamo guardando attraverso ora. Anni fa devono aver messo i pannelli su questa porta e poi devono essersene dimenticati. Guarda la polvere che c'è dappertutto.

Rossiter continuava a fissare la stanza, con la mente che gli vacillava per la sua vastità.

- Hai ragione, - mormorò - Allora, quando traslochiamo? Un pannello dopo l'altro smantellarono la parte più bassa della porta e la inchiodarono su un telaio di legno, in modo che la falsa sezione potesse essere rimessa a posto all'istante.

Poi, scegliendo un pomeriggio in cui la casa era mezza vuota e l'amministratore dormiva nel suo ufficio nel seminterrato, fecero la loro prima irruzione nella stanza. Ci andò prima Ward, mentre Rossiter faceva il palo nel cubicolo.

Per un'ora continuarono a scambiarsi di posto, girando in silenzio per la stanza polverosa, allargando le braccia per percepire la sua profondità senza confini, avvinghiati alla sensazione di assoluta libertà nello spazio.

Per quanto più piccola di tante stanze suddivise in cui avevano abitato, questa sembrava infinitamente più grande e i suoi muri enormi rupi che s'innalzavano verso il lucernario.

Finalmente, due o tre giorni dopo, vi traslocarono.

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La prima settimana nella stanza ci dormì solo Rossiter, con Ward nel cubicolo, ma il giorno ci stavano tutti e due. Man mano vi contrabbandarono qualche mobile: due poltrone, un tavolo, una lampada che attaccarono alla presa del cubicolo. Erano pesanti mobili vittoriani, i meno cari sul mercato, e le loro dimensioni valorizzavano la vastità della stanza.

Il posto d'onore fu preso da un enorme guardaroba di mogano, pieno di angeli intagliati e di specchi a castello, che furono costretti a smantellare e a portare in casa un pezzo per volta nelle loro borse. Torreggiava su di loro e ricordava a Ward i microfilm sulle cattedrali gotiche, con le loro massicce cantorie che attraversavano vaste navate.

Dopo tre settimane dormivano tutti e due nella stanza, trovando il cubicolo insopportabilmente scomodo. Un paravento imitazione giapponese divideva la stanza convenientemente, senza sminuirne le dimensioni.

Quando Ward stava seduto là la sera, circondato dai suoi libri e dai suoi album, gli era facile dimenticare la città di fuori. Per fortuna raggiungeva la libreria per un vicolo secondario ed evitava le strade affollate. Lui e Rossiter cominciarono a sembrargli gli unici veri abitanti del mondo, e chiunque altro prodotto collaterale senza significato della loro esistenza, un casuale duplicato d'identità fuori controllo.

***

Fu Rossiter a suggerire di chiedere alle due ragazze di venire a dividere la stanza con loro.

- Sono state sfrattate ancora, e può darsi che debbano dividersi, - disse a Ward, ovviamente preoccupato che Judith potesse finire in cattiva compagnia. - Dopo una rivalutazione c'è sempre un blocco dei fitti, ma tutti i proprietari lo sanno e non affittano più. È maledettamente difficile trovare alloggio dovunque.

Ward annuì, stirandosi contro il tavolo rotondo di mogano. Giocherellava con una nappa del paralume verde arsenico, e per un istante si sentì come un letterato vittoriano che conduceva una piacevole vita piena di spazio in mezzo a mobili superimbottiti.

- D'accordo, - convenne, indicando gli angoli vuoti. - Qui c'è un sacco di spazio. Ma dobbiamo assicurarci che non ci spettegolino su.

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Dopo le dovute precauzioni iniziarono al segreto le due ragazze, godendosi il loro stupore nel trovare quell'universo privato.

- La divideremo con un tramezzo, - spiegò Rossiter, - e lo tireremo giù tutte le mattine. Potrete venire tra un paio di giorni. Che ve ne pare?

- Meraviglioso! - Stralunarono gli occhi davanti al guardaroba, sbirciando gli infiniti riflessi degli specchi.

Non c'era nessuna difficoltà a farle entrare e uscire dalla casa. L'avvicendarsi degli inquilini era continuo e gli avvisi di pagamento dell'affitto venivano messi nella rastrelliera della posta. A nessuno importava chi fossero le ragazze o notava le loro visite regolari al cubicolo.

Comunque, mezz'ora dopo che erano arrivate non avevano ancora disfatto i bagagli.

- Che cosa c'è, Judith? - chiese Ward, spostandosi di traverso dietro i letti delle ragazze nello stretto spazio tra il tavolo e il guardaroba.

Judith esitò, spostando lo sguardo da Ward a Rossiter che stava seduto sul suo letto a rifinire il tramezzo di compensato. - John, è solo che... - Helen Waring, più positiva, continuò lei, mentre lisciava con le mani le pieghe della coperta. - Quello che Judith sta cercando di dire è che siamo in una posizione un po' imbarazzante. Il tramezzo è...

Rossiter si alzò. - Per amor del cielo, Helen, non ti preoccupare, - le assicurò parlando con voce sussurrante che avevano tutti imparato a coltivare. - Niente strani scherzi, puoi crederci. Il tramezzo è solido come una roccia.

Le ragazze annuirono. - Non è questo, - spiegò Helen, - ma è mobile. Pensavamo che se qui ci fosse una persona anziana, diciamo la zia di Judith... Non prenderebbe tanto spazio e non darebbe fastìdio, è tanto cara... Non avremmo bisogno del tramezzo... Solo la notte - aggiunse in fretta.

Ward scoccò un'occhiata a Rossiter, che scrollò le spalle e si mise ad esaminare il pavimento.

- Be', è un'idea, - disse Rossiter. - John ed io comprendiamo quello che provate. Perché no?

- Certo, - convenne Ward. Indicò lo spazio tra i letti delle ragazze e il tavolo. Uno in più non fa differenza.

Le ragazze esplosero in grida di giubilo. Judith andò a baciare Rossiter sulla guancia. - Scusa se sono seccante, Henry. - Gli sorrise.

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- Che splendido tramezzo che hai fatto! Non potresti farne un altro per la zia... uno piccolo piccolo? È molto cara, ma invecchia.

- Naturalmente, - disse Rossiter. - Capisco. Mi è avanzato un sacco di compensato.

Ward guardò l'orologio. - Sono le sette e mezza, Judith. È meglio che entri in contatto con tua zia. Può darsi che non ce la faccia a venire stasera.

Judith si abbottonò il cappotto. - Oh, sì che ce la fa, - assicurò a Ward. - Torno in un lampo.

Entro cinque minuti arrivò la zia, con tre pesanti valigie solidamente legate.

***

- È sorprendente, - disse Ward a Rossiter tre mesi dopo.- Le dimensioni di questa stanza ancora mi sbalordiscono. Sembra quasi

che ogni giorno diventi più grande.Rossiter convenne prontamente, distogliendo gli occhi da una delle

ragazze che si cambiava dietro il tramezzo centrale. Ormai questo era fisso, da quando tirarlo su e giù si era rivelato stancante. E poi c'era attaccato il tramezzo sussidiario della zia e lei si seccava per i continui spostamenti. Era già abbastanza difficile assicurarsi che seguisse le istruzioni per entrare e uscire dalla porta camuffata e dal cubicolo.

Malgrado questo, sembrava improbabile che li avrebbero scoperti. La stanza era stata ovviamente costruita in un secondo tempo nel cavedio della casa e ogni rumore era attutito dai bagagli ammassati nel corridoio periferico. Direttamente sotto c'era un piccolo dormitorio occupato da parecchie donne anziane e la zia di Judith, che le visitava per ragioni mondane, giurava che nessun suono proveniva dallo stesso soffitto. Sopra il lucernario finiva in un abbaino e la sua luce era distinguibile dalle altre centinaia di lampadine che illuminavano le finestre della casa.

Rossiter finì il nuovo tramezzo che stava costruendo e lo mise in piedi, adattandolo alle sporgenze inchiodate al muro tra il suo letto e quello di Ward. Avevano convenuto che questo avrebbe fornito loro un po' più di privacy.

- Dovrò farne uno anche per Judith ed Helen senza dubbio. - confidò a Ward.

Ward sprimacciò il cuscino. Avevano riportato al negozio di mobili le

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due poltrone, perché occupavano troppo spazio. Il letto, comunque, era più comodo. Non si era mai completamente abituato alle coperture soffici.

- Non è una cattiva idea. Che ne dici di mettere un po' di scaffali sul muro? Non ho niente dove mettere le mie cose.

***

Gli scaffali portarono nella stanza un ordine considerevole, liberando grandi zone del pavimento. Divisi dai loro tramezzi, i cinque letti erano allineati lungo il muro posteriore, di fronte al guardaroba di mogano. In mezzo c'era lo spazio libero di poco più di un metro, più un paio di metri dall'altra parte del guardaroba.

La vista di tanto spazio affascinava Ward. Quando Rossiter disse che la madre di Helen era ammalata e bisognosa di cure, seppe subito dove piazzare il suo cubicolo: davanti al suo letto, tra il guardaroba e il muro laterale.

Helen moriva dalla felicità. - È proprio una gran buona azione, la tua, John, - gli disse, - ma non ti dispiacerebbe se mamma dormisse di fianco a me? C'è spazio sufficiente per infilarci un letto.

Così Rossiter tirò giù i tramezzi e li rimontò più vicini. Ora lungo il muro c'erano sei letti. Tra di loro c'era uno spazio di settantacinque centimetri, sufficiente, per rifarli, stando da una parte sola. Sdraiato all'estrema destra, con gli scaffali a mezzo metro sopra la testa, Ward vedeva appena il guardaroba, ma lo spazio davanti a lui, un bel due metri fino al muro di fronte, era ininterrotto.

Poi giunse il padre di Helen.

***

Dopo aver bussato alla porta del cubicolo, Ward sorrise alla zia di Judith che lo faceva entrare. L'aiutò a spostare il letto che bloccava l'entrata e tamburellò sul pannello di legno. Un istante dopo il padre di Helen, un ometto brizzolato in maglietta, con le bretelle legate ai pantaloni con lo spago, apri il pannello.

Ward gli fece un cenno d'assenso e s'incamminò lungo i bagagli ammucchiati sul pavimento davanti ai letti. Helen era nel cubicolo della madre ad aiutare la vecchia a prendere il brodo serale. Respirando

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pesantemente, Rossiter stava inginocchiato davanti al guardaroba di mogano a staccare con uno scalpello la cornice dello specchio centrale. Pezzi del guardaroba giacevano sul suo letto e sul pavimento.

- Bisogna incominciare a portar fuori questi domani, - gli disse. Ward aspettò che il padre di Helen si togliesse a passi strascicati dal passaggio ed entrasse nel suo cubicolo. Aveva eretto una porticina di cartone e se la chiudeva dietro con un grezzo uncino di filo di ferro.

Rossiter lo seguì accigliato con lo sguardo. - Certa gente è proprio fissata. Questo guardaroba è un casino di lavoro. Come c'è venuto in mente di comprarlo?

Ward sedette sul suo letto. Il tramezzo gli premeva sulle ginocchia, e lui si poteva muovere appena. Quando Rossiter fu di nuovo compreso nel lavoro, alzò gli occhi e vide che la riga tracciata a matita sul soffitto era sparita sotto la tramezza. Puntando contro di questa, cercò di farla saltare ancora fuori, ma sembrava che Rossiter avesse inchiodato il bordo inferiore al pavimento.

Ci fu un rapido tamburellare alla porta che dava nel cubicolo: Judith, che tornava dal lavoro. Ward cominciò a tirarsi su, ma si rilasciò andare. - Signor Waring, - chiamò sottovoce. Era il turno serale del vecchio.

Waring andò strasciconi alla porta del suo cubicolo e l'aprì rumorosamente, borbottando a se stesso.

- Su e giù, - brontolava. Inciampò nella borsa degli attrezzi di Rossiter, imprecando a voce alta, e con intenzione disse sopra la spalla: - Se me lo chiedete, qui c'è troppa gente. Nella stanza di sotto sono solo in sei, ed è grande come questa.

Ward annuì distrattamente e si sdraiò sullo stretto letto, cercando di non battere la testa negli scaffali. Waring non era il primo a suggerire che se ne andasse. Due giorni prima un suggerimento simile l'aveva fatto la zia di Judith. Da quando aveva lasciato il lavoro alla biblioteca (il piccolo affitto che chiedeva agli altri era sufficiente per quel poco cibo che gli era necessario) passava la maggior parte del tempo nella stanza, vedendo il vecchio un po' più di quanto desiderasse. Ma aveva imparato a tollerarlo.

Mentre si accomodava notò che la cuspide di destra del guardaroba e tutto quello che era riuscito a vedere da lì negli ultimi due mesi era stato smontato.

Era stato un bel mobile che in un certo senso simbolizzava tutto il suo mondo privato e il venditore gli aveva detto che come quello ce n'erano

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rimasti pochi. Per un istante Ward provò un'acuta fitta di rimpianto, come gli succedeva da bambino quando suo padre in un accesso d'ira gli aveva portato via qualcosa che sapeva non avrebbe mai più rivisto.

Poi si riprese. Senza dubbio era un bel guardaroba, ma quando non ci sarebbe più stato la stanza sarebbe sembrata anche più grande.

Traduzione di Ferruccio Alessandri

PARETIdi Keith Laumer

L'autore di questo racconto dal titolo originale «The Walls» è nato negli Stati Uniti nel 1925, ed ha svolto una lunga attività, prima come ufficiale dell'Aviazione e successivamente come diplomatico. Ha esordito nel 1959 su «Amazing Stories» con il racconto «Greylorn». Le sue opere più conosciute sono «World of the imperium», 1962, «1 mondi dell'Impero», «A Trace of Memory», 1962, «Il segno dei due mondi», oltre al ciclo di Jaime Retief, il diplomatico interstellare, protagonista di una serie di avventure nei pianeti più disparati. Questo personaggio è in un certo senso legato alle esperienze diplomatiche e militari dell'autore.

Harry Trimble aveva un'aria contenta, quando mise piede in casa. La porta dell'ascensore non aveva finito di chiudersi con uno scatto sulle facce occhieggianti degli altri passeggeri della cabina, che già lui aveva fatto scivolare un braccio dietro le spalle di Flora, aveva urtato con la faccia contro la guancia di lei e domandato, ridendo: - Be', che ne diresti di una piccola sorpresa? Qualcosa che aspettavi da tanto tempo?

Flora guardò in su dal pannello-razioni. - Una sorpresa, Harry?- So quello che provi per quest'appartamento, Flora. Bene, d'ora in

avanti, non lo vedrai più tanto...- Harry!Lui trasalì per il modo come Flora gli aveva stretto il braccio. La faccia

di lei era pallida sotto la luce del giorno artificiale. - Non dirmi che... Ci trasferiamo in campagna...?

Harry liberò il braccio. - In campagna? Ma che diavolo vai dicendo? -

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Aggrottava la fronte, tutta la contentezza di poco prima sfumata.- Dovresti usare di più la lampada - disse. - Hai un aspetto malaticcio. -

Guardò l'appartamento intorno a sé, le quattro pareti rettangolari perfettamente piatte, la superficie vetrosa del soffitto a luminosità regolabile, il pavimento con il suo schema di pannelli mobili, estraibili. L'occhio gli cadde sullo schermo TV, di un metro e venti di lato.

- Domani verranno a portar via quell'arnese - disse. L'espressione compiaciuta stava tornandogli. Fece l'occhietto a Flora. - Ho deciso di fare installare un bel Video-parete!

Flora lanciò uno sguardo allo schermo spento. - Un Videoparete, Harry?- Sissignora! - Harry si picchiò il pugno contro la palma muovendo

alcuni passi su e giù per la stanza. - Saremo i primi del nostro isolato monocellulare ad avere un Video-parete!

- Be'... Sarà piacevole, Harry.- Piacevole, dici? - Harry schiacciò l'interruttore dello schermo, poi

estrasse le due poltroncine pieghevoli con mensola portavassoio, pronte per ricevere il pasto serale.

Dietro di lui, lo schermo si era animato. - Sarà ben di più che piacevole, cara mia, - disse, alzando la voce per coprire il frastuono della musica. - Tanto per cominciare, costa un occhio della testa. Chi altri conosci che possa permettersi..

- Ma...- Ma, un corno! Pensaci, Flora! Sarà come avere un... un palco di prima

fila, per affacciarsi sull'esistenza degli altri!- Ma abbiamo così poco spazio, noi; non occuperà...?- Ma no, che idea! Come hai fatto a rimanere così ignorante per quel che

riguarda il progresso della tecnica? Ha uno spessore di soli tre centimetri. Pensa: spesso così... - Harry indicava con le dita i tre centimetri. - ... E colori molto più belli, e una nitidezza di particolari che finora non avevi mai visto. E tutto grazie a un effetto tecnico che chiamano...

- Harry, il televisore che abbiamo va benissimo. Non potremmo usare quel denaro per un viaggetto...

- Come fai a dire che va benissimo? Non c'è pericolo che tu lo accenda. Devo sempre accendermelo da me, quando torno a casa.

Flora portò i vassoi e mangiarono in silenzio, guardando lo schermo. Dopo cena, Flora gettò via i vassoi, fece rientrare tavolo e sedie, estrasse i letti. Marito e moglie giacquero al buio, in silenzio.

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- È un sistema completamente nuovo - disse all'improvviso Harry. - Quelli della Videoparete hanno un loro schema di programmazione tutto particolare; ti organizzano l'intera giornata, ti svegliano all'ora giusta con qualche motivetto allegro, ti suggeriscono i menu della prima colazione da programmare sul pannello-razioni, poi fanno seguire una buona seduta di gruppi per inserirti nella giornata; poi c'è musica da siesta, con ipnosi subliminale se hai difficoltà a prender sonno; poi...

- Harry... posso spegnerlo, se voglio?- Spegnerlo? - Harry sembrava perplesso. - Veramente l'idea è che debba

rimanere acceso. Proprio per questo ho pensato di fartelo installare, sai: perché tu possa usarlo!

- Ma qualche volta a me piace pensare in silenzio...- Pensare! Rimuginare, vorrai dire. - Harry mandò un gran sospiro. -

Senti, Flora, lo so che questa casa non è l'ideale. Lo capisco ti stanca un po' dover rimanere sempre chiusa qui dentro; ma pensa a quanti stanno molto peggio di così... E ora, con il Video-parete avrai una sensazione di maggiore spazio.

- Harry.. - Flora parlava in modo concitato - Io vorrei che potessimo andarcene. Lasciare la città, voglio dire, e trovare un posticino dove poter rimanere soli, anche se questo significa lavorare duramente, ma un posto dove poter coltivare un giardinetto, dove io potrei allevare dei polli e tu spaccare la legna..

- Buon Dio! - la interruppe Harry, quasi con un ruggito. Poi: - Queste tue fantasie! - aggiunse più calmo. - Devi imparare a vivere nel mondo reale, Flora. Abitare in campagna? Nei boschi. Foglie morte, umidità, insetti, muffa; altro che parlare di depressione.

Seguì un lungo silenzio.- Lo so; hai ragione, Harry - disse Flora. - Mi godrò la televisione a

parete. Sei stato proprio tanto caro a pensare di farla installare, per me.- Certo - disse Harry. - Andrà tutto meglio. Vedrai...

***

Il Video-parete era tutt'altra cosa, convenne Flora non appena i tecnici ebbero completato la messa a punto dell'impianto e messo in funzione l'apparecchio. C'erano colori più vivi, nitidezza di particolari, e un senso ben diverso della profondità. I programmi erano più o meno gli stessi: a

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ritmo sostenuto, tutto varietà ed energia. Da principio era esaltante, avere gente a grandezza naturale che parlava, mangiava, litigava, faceva il bagno oppure faceva l'amore, e tutto lì nella stanza con te. Se ti mettevi a sedere dall'altra parte della stanza, con gli occhi un po' socchiusi, potevi quasi immaginare di avere di fronte persone in carne ed ossa. Naturalmente, la gente vera non si comportava così. Ma già, era difficile dire che cosa potesse fare o non fare la gente, nella realtà. Flora aveva sempre pensato che Doll Starr portasse reggiseni imbottiti ma, quando l'aveva vista spogliarsi su quel video a parete... non c'era né trucco né inganno, in verità.

Harry era molto contento, tra l'altro, quando arrivava a casa e trovava che il video era acceso. Lui e Flora programmavano la cena con un occhio allo schermo, poi si infilavano a letto e seguivano il programma fino a che le pillole che da un certo tempo avevano cominciato a prendere non facevano effetto. Forse, pensava Flora speranzosa, le cose vanno effettivamente un po' meglio. Un po' più di come andavano una volta.

Ma, dopo un mese o due, il Video-parete cominciò a perdere fascino. Sempre le stesse facce, le stesse trovate comiche a base di capitomboli, gli stessi presentatori di quiz dal tono entusiasta, gli stessi vincitori dall'aria frastornata, i delinquenti minorili e relativi padri brancolanti... la stessa minestra!

Il sessantatreesimo giorno, Flora spense il Viedo-parete. La luce e il suono svanirono, lasciando un lieve chiarore che andava via via estinguendosi. Lei scrutava la parete di vetro a disagio, come si osserverebbe il feretro di un conoscente.

C'era una gran quiete nell'appartamento. Flora armeggiava con il pannello-razioni, evitando di guardare lo schermo inerte. Si girò per aprire il tavolo pieghevole e trasalì violentemente. Lo schermo, ora che il chiarore residuo era svanito del tutto, era uno specchio perfetto. Lei si avvicinò, toccò con un dito la dura superficie. Era quasi invisibile. Studiò il proprio volto riflesso; i grandi occhi neri segnati da cerchi scuri, la linea delle guance, un tantino troppo infossata per essere veramente chic, i capelli trattenuti in una crocchia priva di grazia. Alle sue spalle, la stanza era apparentemente raddoppiata, disadorna ora che tutte le suppellettili retrattili erano ancora ritirate nel pavimento e restavano soltanto i quadri alle pareti; fotografie dei ragazzi lontani, a scuola, una scena raffigurante ampi pascoli soleggiati, un altro dipinto in cui si vedeva un mare in burrasca.

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Flora indietreggiò, per studiare l'effetto d'insieme.Pavimento e pareti sembravano continuare senza interruzione, salvo una

linea che sì e no si notava. Era come se l'alloggio fosse due volte più largo. Se soltanto non fosse stato così vuoto...

Flora estrasse tavolo e sedie, programmò un pranzetto e sedette a tavola, a contemplare il proprio doppione. Niente di strano se Harry si è fatto così indifferente da un po' di tempo, pensò, notando le spalle incurvate, il busto insignificante, tutto l'atteggiamento di abbandono. Doveva assolutamente fare qualcosa per migliorare il proprio aspetto.

Mezz'ora nella silenziosa compagnia della sua stessa immagine era sufficiente. Flora riaccese lo schermo, rimase a guardare quasi con sollievo mentre un sorridente cowboy in calzoni di velluto faceva il gesto di chi pizzica delle corde e la colonna sonora inondava la stanza di una melodia di chitarra suonata da dita ben più esperte.

Da quella volta, prese a spegnere lo schermo tutti i giorni, dapprima soltanto per un'oretta e via via per periodi sempre più lunghi. Una volta, si sorprese a chiacchierare animatamente con la propria immagine, e si affrettò a tacere. Per rassicurare se stessa, si disse che non stava diventando nevrotica; era soltanto quella sensazione di spazio che la induceva ad amare lo specchio. E stava sempre bene attenta ad avere il video acceso quando Harry rincasava.

Erano passati circa sei mesi da quando il Video-parete era stato installato e, un giorno, Harry uscì dall'ascensore con un sorriso che rammentò a Flora quell'altra, memorabile serata. Lasciò cadere la cartella nell'armadietto del pavimento, poi guardò attorno, canticchiando tra sé.

- Che c'è, Harry? - domandò Flora.Harry le lanciò un'occhiata. - Non si tratta di una casetta in montagna -

disse. - Ma forse ti piacerà ugualmente...- Che cos'è... caro...?.- Non prendere quel tono dubbioso. - Lui sorrideva, ora, apertamente. -

Ti faccio installare un altro Video-parete.Flora non capiva. - Ma Harry, questo funziona benissimo. - Certo che

funziona - disse lui, spazientito. - Sto dicendo che ne avrai un secondo: due Video-parete, capisci? Che cosa ne dici? Due, pensa... e bada che gli altri, nell'isolato, non ne hanno nemmeno uno, per adesso. C'è un solo problema da risolvere.. - Fregandosi le mani, prese ad andare su e giù, studiando le pareti. - ... Su quale conviene montarlo? I Video possono

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essere adiacenti, oppure opposti. Oggi abbiamo esaminato la questione con quelli della Video-pareti. Perdiana, stanno portando avanti un lavoro di programmazione magnifico. Le due pareti, capisci, si possono sincronizzare. Così segui lo stesso show su entrambe: lo vedi da due angolazioni diverse, proprio come se ti trovassi nel bel mezzo della scena. L'intera serie di programmi è stata studiata su questo principio.

- Harry, non sono certa di desiderare un'altra parete...- Oh, sciocchezze! Ma cos'è, di', una specie di impulso di auto-

privazione? Perchè non concedersi il meglio... visto che puoi permettertelo? E, per Dio, posso permetterlo e come! Sono nel meglio della mia affermazione...

- Harry, non potrei venire con te un giorno... domani? Vorrei vedere dove lavori, conoscere i tuoi amici...

- Ma Flora, sei impazzita per caso? L'hai pur visto come viaggiano i pendolari. Sai bene come sono affollati quei mezzi. E che cosa faresti, una volta arrivata là? Te ne staresti come una mummia per tutta la giornata, a bloccare il passaggio centrale? Perché non apprezzi il lusso d'avere un posto tutto per te, un po' di intimità, e ora ben due Video-pareti...

- Allora non potrei andare da qualche altra parte? Potrei prendere un mezzo dopo l'ora di punta. Vorrei uscire un po' all'aria aperta, Harry. Io... non vedo il cielo da... anni, credo.

- Ma... - Harry fissava Flora, brancolando alla ricerca delle parole. - Che ragione hai di voler salire sul tetto?

- No, non sul tetto; voglio uscire dalla città, non fosse che per qualche ora. Sarò di ritorno in tempo per programmarti la cena..

- Ma insomma, tu vorresti spendere tutti quei soldi per incunearti in un verri-vagone, poi trasbordare su un mezzo trasversale, viaggiare magari per una settantina di chilometri, su mezzi dove si sta stretti come sardine, e in piedi, manco a dirlo, al solo scopo di scendere in pieno deserto e voltarti a guardare dei muri dall'esterno? Per poi rifare lo stesso viaggio disastroso se hai la fortuna di risalire su un mezzo per ritornare a casa?

- No. Non lo so... io voglio soltanto uscire all'aperto, Harry. Il tetto. Non potrei salire almeno sul tetto?

Harry si avvicinò alla moglie per batterle un po' goffamente su un braccio. - Via, Flora, calmati. Ti senti un po' stanca e oppressa. Lo so. Provo anch'io la stessa sensazione, a volte. Ma non metterti in testa di rimetterci qualcosa solo perché tu non devi partecipare a quella specie di

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gara tra sorci. Sa il cielo quanto anch'io vorrei potermene restare a casa. E questa nuova parete ti farà apparire tutto diverso, vedrai...

***

Il nuovo Video-parete venne installato adiacente al primo, con un raccordo talmente perfetto che soltanto una linea sottilissima segnava il punto di congiunzione. Non appena rimase sola in casa, Flora spense tutto. Ora erano due le immagini riflesse che la fissavano da dietro quelli che sembravano due piani intersecantisi di specchio. Provò ad agitare un braccio. Le due figure scimmiottarono. Andò verso l'angolo formato dagli specchi. Le figure avanzarono. Indietreggiò, e quelle si ritirarono. Andò a mettersi nell'angolo opposto della stanza e studiò l'effetto. Non era più gradevole come prima. Invece di una semplice stanza delimitata da solide pareti su tutt'e quattro i lati, le sembrava di occupare un palcoscenico con finestre attraverso le quali erano visibili altri palcoscenici identici, ripetuti all'infinito. L'antica sensazione di intimità e cameratismo con il suo io riflesso era scomparsa; le due donne-immagine erano delle estranee, che la osservavano in silenzio. Con gesto di sfida, Flora mostrò la lingua. Le due immagini reagirono con una smorfia minacciosa. Flora, lasciandosi sfuggire un grido, corse all'interruttore e rimise in funzione gli schermi.

Da quel momento, raramente rimasero spenti. A volte, quando il martellare degli zoccoli dei cavalli diveniva troppo ossessivo, o le grida dei personaggi dei fumetti troppo stridenti, si rassegnava a spegnere, si sedeva, con le spalle agli specchi a sorseggiare una tazza di caffè sintetico bollente, e aspettava... Ma gli schermi erano sempre accesi quando Harry rincasava, a volte immusonito, a volte vispo e soddisfatto.

Lui si sistemava sulla poltroncina, aspettava con sufficiente pazienza la cena e guardava gli schermi..

- Che invenzione fantastica! - dichiarava, assentendo. - Guarda, Flora! Hai visto come quel tizio è saltato da una parte all'altra? Perdiana, bisogna dire che ci sanno fare, questi della Video-parete!

- Harry... dove li girano quegli spettacoli? Quelli dove si vedono quei panorami bellissimi, con alberi, colline, montagne?

Harry stava masticando. - Non lo so - disse - sul posto, immagino.- Allora esistono davvero posti così? Sì, ecco... non sono soltanto finti?Harry la stava fissando, a bocca piena e semiaperta. Poi mandò un

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brontolio e ricominciò a masticare. Deglutì. - Sarà una delle tue solite spiritosaggini, suppongo.

- Non capisco, Harry, - disse Flora. Lui addentò un altro boccone, guardò di sotto in su l'espressione perplessa di lei.

- Naturale che non sono finti. Come diavolo potrebbero fare a costruire una montagna?

- Mi piacerebbe vederli, quei posti.- Ecco che ci risiamo! - Disse Harry. - Speravo di poter gustare un buon

pranzetto e intanto godermi un po' di televisione, ma naturalmente tu ti guarderai bene dal permettermelo!

- Ma no, Harry. Dicevo solo...- Lo so che cosa volevi dire. Be', guardali allora. - Agitava la mano e

indicando lo schermo. - Ce l'hai davanti il mondo intero. Puoi vedertelo tutto, standotene seduta lì...

- Ma io voglio fare qualcosa di più che guardarlo. Voglio viverci. Voglio esserci in quei luoghi, e sentire le foglie sotto i miei piedi, e la pioggia che mi batte sulla faccia...

Harry aggrottava la fronte, incredulo. - Vuoi dire che vorresti fare l'attrice?

- Ma no, che cosa c'entra...- Senti, io non lo so che cosa vuoi. Hai una casa, due Video-pareti, e non

è ancora tutto. Sto dandomi da fare per un progetto, Flora...Flora sospirò - Sì, Harry. Sono una donna molto fortunata.- Puoi ben dirlo! - Harry assentiva con enfasi, lo sguardo fisso sullo

schermo. - Programmami un altro caffè, per piacere.

***

Il terzo Video-parete arrivò come una sorpresa. Flora aveva preso la cabina 1100 per recarsi alla Robotclinica su al 478° livello, per il suo check-up annuale. Quando ritornò a casa... il Video-parete era là. Lei quasi non fece caso al coro di esclamazioni soffocate e troncate bruscamente dalla porta che si richiudeva sulle facce delle altre mogli che occupavano la cabina. Rimase là, immobile, suo malgrado impressionata dal panorama fantastico che riempiva il suo appartamento. Proprio di fronte a lei, il pubblico presente nello studio televisivo la fissava a bocca aperta dai sedili a perdita d'occhio. Un grassone in prima fila infilò una mano sotto la

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camicia scozzese rossa, per darsi una grattatina. Flora poteva vedere la traspirazione che gli imperlava la fronte.

Un po' più indietro, una coppietta si teneva abbracciata, gli occhi fissi sulla scena.

Chi saranno mai, pensava Flora; come saranno riusciti a uscire dai loro appartamenti e uffici per andare a sedersi in un teatro vero...

A sinistra, un giovane dall'aria idiota, ammiccava da una gabbia vividamente illuminata Sulla destra, un parlamentare accarezzava il microfono, parlando fitto fitto.

Flora estrasse e spiegò la sedia, vi si lasciò cadere, guardando un po' da un lato e un po' dall'altro. Succedevano tante di quelle cose... E lei veniva a trovarsi proprio nel bel mezzo. Guardò per una mezz'ora poi rientrò la sedia ed estrasse il letto. Il percorso l'aveva stancata. Un riposino...

Si fermò fin dalla prima cerniera lampo.Il parlamentare fissava proprio lei. Il giovane ritardato mentale la

guardava, battendo le palpebre. Il grassone continuava a grattarsi, fissandola dalla prima fila. Non poteva spogliarsi davanti a tutta quella gente...

Si guardò attorno, individuò l'interruttore accanto alla porta. Con un clic, la scena attorno a lei svanì. Le pareti ancora semiluminose parvero serrarsi intorno a lei, sbiadendo lentamente. Flora si girò verso l'unica parete rimasta opaca, gli occhi sulle foto a lei familiari.

I suoi figlioli: non li vedeva dall'ultima settimana di vacanza semestrale.Il costo del viaggio era altissimo, e l'affollamento...Si girò verso il letto, e si trovò di fronte le tre pareti a specchio. Fissò la

figura pallida davanti a lei. Nuda contro la parete costellata di sbiaditi ricordi.

Mosse un passo; ai due lati, un'interminabile fila di sparute figure nude si mosse all'unisono.

Si girò di scatto, fissò con gratitudine gli occhi sulla parete familiare, sulla sottilissima fessura che delineava la porta, sul quadro raffigurante il mare...

Chiuse gli occhi, andò verso il letto a tentoni. Una volta coperta dal lenzuolo, riaprì le palpebre.

I letti stavano tutti in fila, identici, ciascuno con la sua figura umana rannicchiata. Come una corsia d'ospizio senza fine, pensò Flora... o come un obitorio, dove tutto il mondo giacesse esanime.

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***

Harry masticava la sua braciola sintetica, muovendo la testa da parte a parte mentre seguiva l'azione attraverso le tre pareti.

- È meraviglioso, Flora. Meraviglioso. Ma potrebbe essere anche meglio di così, - aggiunse, misteriosamente.

- Harry... non potremmo trasferirci in un alloggio più grande, e magari fare a meno di due delle pareti? Io...

- Flora, sai benissimo di dire una cosa senza senso. È stata già una fortuna ad avere questo appartamento, quando ce l'hanno assegnato; non c'è niente di disponibile: assolutamente niente. - Rise. - In un certo senso, questa situazione è un po' un'assicurazione sul posto di lavoro. Sai, non potrei mai essere licenziato, neppure se la ditta lo volesse; non saprebbero come fare per sostituirmi. Un uomo non può in nessun modo avere un impiego se non ha un posto in città dove vivere; e io in questa casa posso restarci finché mi piace. Potremmo magari stancarci delle razioni che vengono ammannite ma, per Dio, potremmo resistere. Non che ci sia alcun pericolo di venire licenziato, ma si fa per dire.

- Potremmo andare a stare fuori città, Harry. Quand'ero ragazza...- Oh, non ricominciamo! - gemette Harry, seccato. - Credevo che

quest'argomento fosse chiuso, una volta per tutte! - Fissò su Flora uno sguardo costernato. - Cerca di capire, Flora. La popolazione mondiale è raddoppiata, da quand'eri ragazza tu. Ti rendi conto di che cosa significa? Ci sono più persone vive oggi di quante ne erano mai nate in tutta la storia umana precedente fino a una cinquantina d'anni fa. Quella fattoria che ricordi d'aver visitato da bambina è tutta pavimentata, ora, e al suo posto sorgono dei grattacieli. Le autostrade che ricordi, piene di auto private, grandi arterie che correvano attraverso l'aperta campagna, non esistono più. Non ci sono più autostrade, né aperta campagna salvo i set degli studi televisivi e poche tenute come l'acro e mezzo intorno alla residenza del Presidente - ma non credere che ci sia tanto sole, con tutti quegli edifici attorno - e forse qualche fattoria indispensabile, a livello industriale, per quei prodotti che non possono essere ottenuti sinteticamente o ricavati dal mare.

- Dev'esserci pure qualche posto dove potremmo andare. Non era previsto che l'umanità dovesse vivere così: lontano dal sole, dal mare.

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Un'ombra passò sul volto di Harry. - Ho anch'io i miei ricordi, Flora - Il tono era nostalgico. - Una volta, quand'ero bambino, passammo una settimana al mare. Ricordo che mi alzavo all'alba, quando il cielo era tutto rosa e porpora, e scendevo sulla spiaggia, fino in riva all'acqua. C'erano delle bestioline nella sabbia: granchiolini, credo. Vedevo dei pesciolini piccoli piccoli schizzare lungo la cresta di un'onda, prima che si frangesse. Sentivo la sabbia sotto i piedi nudi. In alto volteggiavano i gabbiani, e c'era perfino un albero... Ma è tutto scomparso, ormai. Non ci sono più spiagge, da nessuna parte. È tutto scomparso...

S'interruppe. - Non pensiamoci. Allora era così. Oggi, è diverso. Hanno pavimentato le spiagge, per costruirvi degli impianti di trasformazione, e hanno pavimentato fattorie, parchi e giardini... Ma in cambio ci hanno dato i Video-parete, ed è già...

***

Avevano suonato alla porta. Harry si alzò.- Ah, eccoli, Flora. Aspetta, ora vedrai...Qualcosa parve serrarsi attorno alla gola di Flora mentre l'uomo usciva

dall'ascensore, armeggiando con precauzione, alle prese con il grande rotolo di schermo murale.

- Harry...- Quattro pareti! - annunciò Harry, trionfante. - Te l'avevo detto che

stavo lavorando a qualcosa, ricordi? Bene, è questo! Per Dio, i signori Trimble possono dire d'avere qualcosa di cui vantarsi!

- Harry... non è possibile... quattro pareti poi no...- Lo so che ti senti un poco sopraffatta: ma tu meriti questo, Flora...- Harry, io non VOGLIO le quattro pareti! Non potrò sopportarle! Sarà

tutt'intorno a me...Harry le si accostò, l'afferrò ferocemente per il polso. - Taci! - sibilò. -

Vuoi che questi operai credano che tu sia matta? - Sorrise agli uomini. - Che ne direste di un caffè, ragazzi?

- Volete scherzare? - fu la risposta di uno dei tecnici. L'altro si stava già accingendo silenziosamente all'operazione di srotolare il pannello, attaccandovi strisce adesive. Il primo allungò la mano verso il quadro del mare...

- No! - Flora si gettò contro la parete, come per difendere il quadro con

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il proprio corpo.- Non potete toccare i miei quadri! Harry, non devi permetterglielo.- Senti, sorella, non so proprio che farmene, io, dei tuoi stupidi quadri.- Flora, controllati! Su, ora ti aiuterò a riporre i quadri nel vano-armadio.- Gabbia di matti! - borbottò uno dei tecnici.- Ehi, vediamo di moderare i termini! - tentò di redarguirlo Harry.L'uomo che aveva parlato gli si accostò. Era più alto di Harry e di

corporatura molto più solida. - E tu provati a fiatare di nuovo e ti spezzo in due. Fa' silenzio, tu e quella befana, e levatevi di mezzo tutti e due. Ho da fare, io!

Harry sedette accanto a Flora, pallido in volto per il furore. - Tu e le tue manie! - le mormorò. - Così, guarda cosa mi tocca sopportare. Avrei una gran voglia di... - Ma non finì la frase.

Gli uomini terminarono il lavoro e se ne andarono, lasciando tutt'e quattro le pareti a tutto volume.

- Harry, - a Flora tremava la voce. - Ora come farai per uscire? L'hanno messo attraverso la porta. Ci hanno sigillati dentro...

- Non essere ancora più idiota di quel che sei, dopo la figura che hai fatto! - Harry, con voce cattiva, gridava per coprire il frastuono degli schermi. Andò alla parete appena ricoperta, tastò, trovò il minuscolo pulsante dell'interruttore. Al suo tocco, il pannello scivolò da un lato come sempre, rivelando la superficie della porta di sicurezza che dava sulla tromba dell'ascensore. Qualche istante dopo, anche quella scivolò da un lato e Harry si fece largo a gomitate dentro la cabina. Flora fece in tempo a scorgere la faccia arrossata e furente del marito, prima che la porta si richiudesse.

Attorno a lei, le pareti rombavano. Un saloon, dove la zuffa in atto era nel pieno. Flora si scansò perché una sedia volava verso di lei, si girò di scatto e la vide investire in pieno un uomo alle sue spalle. Echeggiavano spari. Il rumore era assordante. Uomini correvano in tutte le direzioni. Flora pensò: quel tecnico, quello con l'aria grifagna: ha fatto ha fatto apposta a regolare il volume così alto, l'ha fatto di proposito.

La scena cambiò. Cavalli galoppavano attraverso la stanza; si levavano nuvole di polvere, che quasi la soffocavano nella loro verosimiglianza con la realtà. Era come se Flora se ne stesse rannicchiata sotto una piccola tettoia quadrata di cielo, proprio nel mezzo della pianura sconfinata.

Ora c'era del bestiame. A occhi dilatati, scuotendo le corna, mugghiando

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e dilagando in un mare tonante e ininterrotto attraverso gli schermi, la mandria caricava Flora da tutte e quattro le pareti, riversandosi oltre la sua persona da destra e da sinistra. Lei urlò, chiuse gli occhi e corse alla cieca verso la quarta parete, brancolando per trovare l'interruttore.

Il frastuono cessò. Flora ansimò di sollievo, la testa ancora ronzante. Si sentiva debole, in preda a un senso di capogiro; doveva sdraiarsi... Tutto stava diventando nero intorno a lei; le pareti ancora luminescenti roteavano, svanivano. Flora scivolò a terra.

***

Più tardi, forse minuti, forse ore, lei non aveva modo di saperlo, Flora si tirò su. Guardò attraverso l'infinita distesa del pavimento, che fuggiva via in tutte le direzioni a perdita d'occhio, fino al più lontano orizzonte: e sopra quella pianura immensa donne dagli occhi infossati, accoccolate a intervalli di cinque metri, in numero infinito, aspettavano.

Flora fissò negli occhi l'immagine più vicina. L'altra ricambiava lo sguardo, estranea. Provò a muovere rapidamente la testa, per cercare di scorgere meglio la donna successiva; ma, per quanto rapidamente si movesse, la più vicina la preveniva, interponendo la sua faccia tra Flora e tutte le altre. Flora si girò; anche a guardia di quella fila c'era una donna dagli occhi ostili.

- Vi prego, - si udì supplicare Flora. - Vi prego, vi prego...Chiuse gli occhi e si morsicò le labbra. Doveva ritrovare il controllo di

sé, quelli erano soltanto specchi: lei lo sapeva. Soltanto specchi. Le altre donne... non erano che immagini riflesse. Perfino quelle ostili, che nascondevano le altre... erano lei stessa, rispecchiantesi nelle pareti.

Apri gli occhi. Sapeva che c'erano delle giunture nella superficie vetrosa; non doveva fare altro che trovarle, e l'illusione di distesa a perdita d'occhio sarebbe crollata. Là... quella sottile linea nera, come un filo teso da terra al soffitto... quello era l'angolo della stanza. Non era perduta in mezzo a una infinità di donne piangenti, sparse su una vasta pianura; era lì nella propria casa: sola. Si girò, cercando gli altri angoli. Erano tutti là, tutti visibili; lei sapeva che c'erano...

Ma perché continuavano a sembrare fili, tesi per isolare i vari riquadri di pavimento, ciascuno con la propria silenziosa, disperata occupante...?

Tornò a chiudere gli occhi, per dominare il panico. L'avrebbe detto a

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Harry. Non appena sarebbe rincasato - era questione di alcune ore - gli avrebbe spiegato tutto.

- Sono malata, Harry. Dovrai mandarmi via di qui, in qualche luogo dove potrò giacere in un vero letto, con lenzuola e coperte, accanto a una finestra aperta che guardi attraverso campi e foreste. Qualcuno, un'anima buona, mi porterà un vassoio, con una scodella di minestra: minestra vera, fatta con brodo di pollo vero e con pane vero, e perfino un bicchiere di latte, e un tovagliolo, un vero tovagliolo di stoffa...

Ora avrebbe dovuto cercare il letto, avrebbe dovuto estrarlo, allungarlo, e stendersi a riposarsi fino al ritorno di Harry, ma era talmente stanca!

Meglio aspettare lì dov'era, rilassarsi e cercare di non pensare all'immenso pavimento e a tutte quelle donne che aspettavano con lei...

Si addormentò.Quando si svegliò, si sollevò un poco da terra, confusa. Aveva fatto un

sogno...Ma che cosa strana! Le pareti dell'isolato di monolocali erano

trasparenti, ora; lei poteva vedere tutti gli altri appartamenti, che si stendevano intorno a lei da ogni lato. Assentì; era come lei pensava. Erano tutti spogli e privi di individualità come il suo: e Harry si sbagliava.

L'avevano tutti, l'impianto di Video-parete su tutt'e quattro i lati.E le altre donne... le altre mogli, chiuse come lei in quelle piccole celle

disumane, stavano tutte invecchiando, e tutte erano malate, esangui, affamate d'aria fresca e di sole.

Tornò ad assentire e la donna dell'appartamento attiguo ricambiò il cenno, come se fosse d'accordo. Assentivano tutte: erano tutte d'accordo con lei, poverette.

Al ritorno di Harry, avrebbe mostrato al marito come stavano le cose.Si sarebbe reso conto che i Video-parete non erano sufficienti. Anche le

altre li avevano, tutte, ed erano tutte infelici.Appena sarebbe tornato Harry...Era ora, ormai. Lei lo sapeva. Dopo tanti anni, non c'era bisogno di

guardare l'orologio per sapere quando Harry stava per tornare. Avrebbe fatto meglio ad alzarsi, a rendersi presentabile. Un po' a fatica, si rimise in piedi.

Anche gli altri mariti stavano per rincasare, e Flora lo notò; tutte le mogli si stavano preparando. Si muovevano per l'ambiente, aprivano gli armadi del pavimento, si lisciavano i capelli, si cambiavano d'abito.

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Flora si avvicinò al pannello-razioni e tutt'attorno a lei, negli altri appartamenti, le mogli estraevano la tavola e componevano i pranzi sull'apposito quadro.

Tentò di vedere che cosa stesse componendo la donna della porta accanto, ma era troppo distante. Flora rise, nel vedere come anche la vicina stesse allungando il collo per vedere che cosa programmava lei. Rise anche l'altra donna. Era di spirito, una compagnona.

- Alghe - le gridò allegramente Flora - e braciole sintetiche, e il solito caffè, si fa per dire...

Il pranzo era pronto, ormai. Flora si girò verso la parete dove c'era la porta e aspettò. Harry sarebbe stato così contento di non dover aspettare. Poi, dopo cena, lei gli avrebbe spiegato della sua malattia...

Era la parete giusta quella verso la quale si era messa in attesa? La linea attorno alla porta era talmente sottile che quasi non la si vedeva.

Rise al pensiero di come sarebbe stato buffo se Harry, entrando, l'avesse trovata ritta là, ad aspettare davanti alla parete sbagliata.

Si voltò e vide un movimento alla sua sinistra, nell'appartamento accanto. Flora rimase a osservare perché la porta si apriva.

Un uomo entrava in casa. La donna dell'appartamento accanto gli andava incontro...

Andava incontro a Harry! Era Harry!Flora prese a girare su se stessa. Le quattro pareti rimanevano vitree e

vuote mentre, tutt'intorno a lei, le altre mogli accoglievano Harry, lo facevano sedere alla loro tavola, gli offrivano il caffè...

- Harry! - urlò gettandosi contro la parete.La parete la respinse. Corse alla parete accanto, picchiandovi sopra,

gridando - Harry! Harry!In tutti gli altri appartamenti, Harry masticava, assentiva, sorrideva. Le

altre mogli versavano, si affaccendavano attorno a Harry, mangiavano con eleganza.

E nessuna di loro, neppure una, prestava la minima attenzione a lei...Ferma al centro della stanza, Flora non urlava più, ora, singhiozzava

soltanto, silenziosamente. Tra le quattro pareti di vetro che la rinchiudevano, stava là, sola. Non c'era alcuno scopo di continuare a chiamare.

Per quanto potesse urlare, per quanto potesse picchiare contro le pareti, o invocare Harry... sapeva che nessuno l'avrebbe sentita mai.

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Traduzione di Hilia Brinis

LE MURA DI GERICOdi John Wyndham

L'autore del racconto «Le mura di Gerico» (titolo originale: «And the Walls Carne Tumbling down...») che qui presentiamo, è uno degli scrittori veramente fondamentali nella storia della fantascienza: John Wyndham. Il nome di questo inglese versatile quanto rigoroso nella costruzione delle sue storie era alquanto lungo: John Wyndham Parkes Lucas Beynon Harris (1903-1969). Esordì molto giovane agli inizi degli anni Venti. Nel decennio successivo era già una grande firma. Incline alla space opera, Wyndham spaziò tra eroi marziani (Vaygan the Martian) e mirabolanti macchine spaziali. Dopo la seconda guerra mondiale la sua attenzione di narratore si rivolse verso i temi della guerra nucleare e delle invasioni aliene nonché verso i disastri naturali o provocati. Tra le opere più conosciute di Wyndham vanno ricordate «The Day of the Triffids», 1951, e «The Midwich Cuckoos», 1957, (I figli dell'invasione), romanzo dal quale venne ricavato il film "Il villaggio dei dannati".

RAPPORTO N. 1. Da Mantus, Comandante del Gruppo Esplorativo N. 8 (Sol 3), a Zennacus, Comandante in Capo dell'Avanguardia Forze Migratorie (Electra 4).

Signore,- Condizione Scafi: In piena efficienza 4; Lievi danni 1; Perduti in

azione 2.- Condizioni del Personale: Abili 220; Inabili 28; Perduti in azione 102.- Attuale Posizione: 54/28/4 x 23/9/10 - Sol 3.- Condizione dei Rifornimenti: Molto soddisfacente. Equipaggiamento.

Soddisfacente.- Morale: Buono, in via di miglioramento.Manovre di avvicinamento a Sol 3 eseguite alle 28/11 (ora di Electra 4).

Rilevati segni immediati di ostilità. Ritirata la spedizione senza

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contrattaccare. Compiuto avvicinamento sull'altro emisfero. Segni di ostilità sempre più violenti. Due navi disintegrate con tutto l'equipaggio. Una terza nave e 28 a bordo sofferto lievi incrinature. Ritirata la spedizione. Segni di ostilità provenienti da tutte le zone abitate visitate in seguito. Indetta conferenza. Deciso di atterrare in area disabitata, se adatta. Dopo ricerche, individuata area ideale. Spedizione atterrata senza interferenze, alle 32/12. Tenendo conto delle ostilità incontrate, deciso di iniziare immediatamente la costruzione di un ridotto.

Caro Zenn, quanto sopra vale per la registrazione ufficiale, potrebbe comunque bastare per farti presente che razza di inferno possa risultare/per noi, questo pianeta Terra. La mia solita fortuna bastarda, che mi sia toccato proprio il Gruppo N. 8. Me lo merito, così imparerò a comportarmi da onesto cretino quando avrei potuto benissimo tirarla per le lunghe e imboscarmi in una situazione più comoda. La politica non sarà mai il mio forte, temo, ammesso che mi riesca di scamparla su questa grottesca caricatura di pianéta. Posso definirlo, in breve, come un postaccio pericoloso e rivoltante, con tutto il potenziale di un vero paradiso. Tanto per cominciare dalle caratteristiche peggiori, circa due terzi della superficie sono allagati. Così l'atmosfera viene infestata da grandi masse di vapore che se ne restano lì sospese, a girare in eterno. Puoi immaginarti l'effetto tetro che presenta l'insieme! Ma è ancora peggio quando qualcuno di questi ammassi putridi si dilegua. Allora, quel tanto di umidità che resta mischiato all'atmosfera dà a tutto il cielo una minacciosa, repellente tinta blu. È chiaro che nessuno si aspetterebbe di ritrovare le cose esattamente come a casa, ma qui pare proprio che la regola sia di pervertire deliberatamente ogni sano principio. Intanto sarebbe logico supporre che uno sviluppo civile dovrebbe manifestarsi nei punti più salubri e adatti alla vita, ma non certo da queste parti. I centri maggiori sono stati facili da individuare, composti da gruppi di costruzioni artificiali da cui si irradiano delle tracce che potrebbero rappresentare forme di comunicazione. E non ce n'è uno che non sia collocato nelle zone peggiori.

Mentre ci avvicinavamo a uno di questi centri, nella convinzione di non essere stati individuati, ci accorgemmo invece che tutto era pronto per respingerci. Le difese erano già in azione, senza che ci fosse stato un minimo tentativo di conoscere prima le nostre intenzioni. Bisogna dedurre che gli abitanti del luogo sono dotati di una natura anormalmente

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sospettosa, o addirittura motivati da malvagità.Dopo aver considerato l'evenienza che in altre zone di questo pianeta il

nostro arrivo non fosse stato ancora segnalato, ci siamo spostati sull'emisfero opposto, dove i centri abitati apparivano più frequenti e meglio organizzati. Niente da fare: anche qui le difese erano pronte ancora più efficienti delle prime. Il loro raggio d'intercettazione era di tale portata e accuratezza che due nostre navi sono state subito disintegrate senza possibilità di scampo, e un'altra ha riportato fratture notevoli.

A bordo delle quattro navi superstiti, noi, testimoni impotenti, soggetti a vibrazioni e tensioni al limite della sopportabilità, eravamo scossi al punto da temere prossima anche la nostra fine. Con una buona dose di fortuna ci è stato possibile ritirarci a una distanza di sicurezza, con la sola perdita di qualche oggetto più fragile, di non grande importanza. Dopo di che, usando la massima cautela, ci siamo avventurati a investigare parecchie altre città. Non ne abbiamo trovata una sola che non fosse già pronta e decisa ad attaccarci.

Ci riesce incomprensibile il perché di questa aggressività gratuita da parte degli abitanti. Da parte nostra, nessuna provocazione. Non ci è stata offerta la minima possibilità di spiegare che le nostre intenzioni sono pacifiche né di provare a stabilire un qualsiasi contatto. Giunti alla meta di questo lungo viaggio, ci ritroviamo in una situazione senza uscita che ci deprime non poco.

Ho indetto una conferenza per decidere quale sarebbe stata la prossima mossa. Le opinioni, in generale, non sono state incoraggianti. La convinzione più diffusa emersa nel dibattito è che questo pianeta presenta aspetti di una follia senza confronti. Qualcosa di positivo, comunque, se ne è ricavato. La concentrazione di vita civilizzata nei posti meno indicati, di solito aree umide e malsane, spesso lungo vasti corsi d'acqua, non può essere del tutto accidentale, anche se il suo scopo rimane oscuro. Implica però, per quanto assurdo possa sembrare, che le regioni più ospitali non presentano segni di vita.

Questa osservazione, condivisa da diversi partecipanti, ha contribuito parecchio a sollevarci il morale. Così abbiamo deciso di stabilirci in una di queste zone disabitate, per costruire un ridotto nel quale si possa vivere al sicuro finché non si riesca a scoprire un sistema per comunicare con gli abitanti del pianeta e rassicurarli sulle nostre intenzioni. Così abbiamo fatto, sistemandoci nella posizione sopra indicata, ed è facile spiegare il

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rapporto che riguarda il morale degli equipaggi se descrivo il luogo in cui ci siamo fermati, una concentrazione incredibile delle vettovaglie più succulente. Immagina, se ci riesci, una intera area composta esclusivamente di silicati! Non me lo sarei mai aspettato in vita mia, ma si tratta della pura verità.

Eptus è dell'opinione che il pianeta sia quasi interamente composto di silicati, anche sotto le distese d'acqua e sotto la schifosa roba verde che ricopre gran parte della restante superficie. È una idea fantastica, vorrei crederci, ma per ora mi limito ad accettare la sua ipotesi con molta cautela. Se però risultasse vero, tutti i nostri problemi sarebbero risolti. Si aprirebbe per noi una nuova era, volendo supporre, di conseguenza, che anche gli altri pianeti del sistema abbiano una composizione simile a questo. In altre parole, saremmo presto in grado di formulare un rapporto che indichi il sistema di Sol come composto quasi esclusivamente di silicati in una forma facilmente assimilabile e in quantità inesauribile. Ad ogni modo sarà necessario investigare con cura prima di averne una prova certa. Per ora, il resto della nostra compagnia sa soltanto che ci siamo scelti una favolosa sacca, appetitosamente ricca di alimenti.

Il punto preciso che abbiamo fissato per il ridotto è situato fra due grandi rocce che offrono bastioni naturali a nord e a sud, per cui basterà innalzare mura soltanto a est e ad ovest, e un tetto che protegga la costruzione. A tutto non dovrebbe richiedere molto tempo. Il sole è abbastanza vicino per assicurare sufficiente energia. Diversi membri del gruppo hanno subito ricevuto l'incarico di assimilare silicati finché non abbiano raggiunto la forma e la densità necessarie. Indirizzati in posizione riflettente su un deposito di quarzo di purezza eccezionale, si è giunti alla fusione con notevole velocità. In breve tempo abbiamo avuto a disposizione materiale sufficiente per mettere insieme parecchi forni lenticolari, con cui ora stiamo fondendo e squadrando blocchi di ottimo boltik dal materiale greggio che si stende attorno a noi in abbondanza.

Dal momento dell'atterraggio non si è avuto nessun segno degli abitanti, ma, da varie caratteristiche locali, ci è venuto il sospetto che la regione, anche se trascurata, non deve essere del tutto ignota. Per esempio, una striscia di terreno appare molto più solida di tutto il resto, come se un peso notevole vi fosse stato trascinato sopra. Questa striscia si estende pressappoco verso est ed ovest, passando fra le due rocce che abbiamo scelto per il ridotto. In direzione ovest continua inalterata, senza

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interruzione, mentre ad est si congiunge con un'altra striscia più larga, evidentemente prodotta dalla trazione di un oggetto ancora più pesante. Dove le due strisce si incontrano, sul lato verso di noi, si erige una strana forma, di una certa regolarità, e che perciò riteniamo di origine artificiale. È composta di un materiale fibroso poco resistente e vi appaiono dei segni disposti in sequenza non casuale. Questi:

STRADA DESERTICARIFORNIRSI DI ACQUA

Non riusciamo a indovinare di che si tratti, ammesso che vi si possa scoprire un significato logico.

Da quando ho iniziato questo resoconto, Eptus e Podas sono venuti da me con delle novità di natura tanto fantastica che ho stentato a crederci. Devo però fidarmi della loro competenza. Sembra che Podas abbia raccolto nelle vicinanze diversi campioni da studiare. Alcuni sono oggetti asimmetrici, in qualche modo aderenti al terreno. Un altro, di tipo molto diverso, mostra invece una certa simmetria. Si tratta di un cilindro morbido che termina con una sporgenza tozza da un lato e una allungata, a punta, dall'altro. Il tutto sostenuto da altre quattro sporgenze più o meno uguali. Del tutto indipendente dal terreno, è in grado di muoversi con sorprendente agilità quando usa le quattro sporgenze inferiori. Dopo un esauriente esame, Podas ha dichiarato che si tratta di oggetti viventi e che in entrambi i casi la base dell'organismo è il carbonio! Non chiedermi come sia possibile una cosa del genere. Dal momento che anche Eptus è della stessa opinione, sono costretto ad accettarla. Come risultato di questa scoperta hanno in più dedotto che, se la vita su questo pianeta è tutta basata sul carbonio, abbiamo un'ottima spiegazione per lo stato di abbandono in cui si trova questa meravigliosa riserva di silicati. Quello che non si spiega, però, è l'immediato atteggiamento ostile degli abitanti, cosa che in questo momento mi sta molto più a cuore.

Podas dichiara che nessuno dei suoi campioni mostra segni di intelligenza, sebbene l'oggetto cilindrico reagisca in modo evidente a stimoli esterni. Mi riesce difficile immaginare l'eventuale aspetto di un essere intelligente basato sul carbonio. Comunque ho idea che non tarderemo a scoprirlo, e devo ammettere che la possibilità di tale evenienza non solo mi attira poco ma sono anche portato a considerarla con una

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notevole sensazione di disgusto.

***

RAPPORTO N. 2. Condizioni e posizioni immutate. Ridotto completato. Nessuna conferma di contatto con forme di vita intelligenti.

Caro Zenn, poco dopo la terza apparizione del sole, con le fornaci in piena efficienza, siamo stati in grado di produrre il boltik necessario per finire il nostro ridotto. L'ultimo blocco è stato fuso verso la metà del periodo diurno, che qui è molto breve. È stato un sollievo vederlo terminato senza subire interruzioni. Ora che disponiamo di una protezione così efficiente, sia per noi che per l'apparecchio, ci sentiamo in grado di affrontare il futuro con maggiore fiducia.

Podas ed Eptus hanno esaminato altri esemplari locali. Questo ha confermato le loro teorie, senza però aggiungere niente di nuovo. Per ora nessun contatto con esseri intelligenti. Dopo le prime brutte esperienze, non facciamo nessuno sforzo per andarli a cercare: aspetteremo qui che qualcuno trovi noi. Per la precisione, dovrei aggiungere che Podas crede ci sia stato, o quasi, un incontro con creature intelligenti, durante il quarto sole, e che tale situazione sia ancora attuale. Eptus però non è d'accordo e, a pensarci bene, darei ragione a lui. Ecco quanto è accaduto.

Verso la metà del quarto periodo di sole, una nuvola di polvere è stata notata ad est, sulla striscia più lunga di cui ti ho già parlato. Non ci è voluto molto per renderci conto che l'oggetto che la stava provocando si stava muovendo verso di noi. Mentre si avvicinava ci siamo stupiti non poco nel constatare che si trattava di una creatura sostenuta da quattro dischi, con un corpo nero e lucido. Sul davanti brillavano diversi accessori metallici. Stava avanzando a velocità moderata, evidentemente a disagio per le continue scosse trasmesse dalle asperità del terreno ai dischi di supporto. Eptus ne deduce che deve aver avuto origine in ambienti completamente lisci, probabilmente, ghiacciati, e che quindi è inadatta a spostarsi in luoghi come questo. Mentre si avvicinava sempre più, non c'è stato nessun dubbio sulle sue intenzioni ostili, infatti lo abbiamo sentito proiettare fortemente verso di noi. È probabile che per fortuna non possedesse abbastanza dati sul nostro conto, o che non disponesse di mezzi

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per un attacco efficace, perché il suo campo d'azione si è dimostrato del tutto inoffensivo. Per poterlo esaminare meglio, lo abbiamo lasciato avvicinare al massimo, prima di investirlo con la nostra emissione. Siamo rimasti più che stupiti e, devo dirlo, abbastanza costernati, nel renderci conto che il risultato era stato nullo. La nostra ansietà è cresciuta nel vederlo muoversi lungo la striscia verso di noi, incolume e sempre più vicino. Due altre emissioni a frequenze più potenti della prima hanno avuto lo stesso effetto negativo. A questo punto Podas ha espresso l'opinione che non poteva logicamente trattarsi di una creatura senziente. L'oggetto era ormai vicinissimo e proseguiva nella nostra direzione come se noi non esistessimo.

Sempre alla stessa velocità, lo abbiamo visto sbattere contro la parete del ridotto, con l'effetto immediato di schiacciare la parte anteriore. Nello stesso tempo, alcuni pezzi se ne staccavano con violenza. Dopo aver atteso un poco, constatato che rimaneva del tutto immobile, siamo usciti dal ridotto per studiarlo da vicino.

Sembra si tratti di una creatura composita. Una parte se ne era separata, proiettata contro il muro al momento del brusco impatto. Di aspetto cilindrico, più o meno come quella descritta nel primo rapporto, questo tipo di creatura tuttavia ne differisce per i tegumenti distaccabili che la ricoprono. La sua protuberanza anteriore aveva incontrato il muro del ridotto con forza considerevole. Ne abbiamo dedotto che questa circostanza possa aver causato la sua de-animazione. Investigando il corpo della creatura su dischi, Podas ha scoperto nell'interno una seconda creatura cilindrica, un poco più piccola dell'altra. Potrebbe trattarsi di una singolare forma di parto, naturale per gli esseri di questo pianeta. Non so proprio cos'altro suggerire. È già abbastanza duro farcela a restare aggrappati alla propria ragionevolezza, in questo luogo pazzo, che è meglio lasciar perdere le elucubrazioni su cose che appaiono del tutto irragionevoli.

Un fatto certo è che nessuna delle due creature più piccole mostra traccia di dischi. Tutte e due erano ricoperte da tegumenti che non sembrano naturali, in particolare nel caso della seconda, i cui tegumenti palmati verso il basso sembrerebbero fatti apposta per impacciare le estremità posteriori. In realtà potrebbero servire a scopi più logici che non è facile teorizzare. Abbiamo portato queste creature più piccole nell'interno del ridotto per un esame più accurato. Quella più voluminosa, genitore o

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ospite simbiotico che sia, rimane fuori, perché occuperebbe troppo spazio.Studiandoli con attenzione, ci siamo accorti che esistono delle diversità,

fra i due esseri cilindrici. Non ci sembrano però di grande importanza: la differente lunghezza delle fibre applicate alle estremità superiori tozze, per esempio, potrebbe essere attribuita a qualche incidente. Podas, dopo aver aperto il corpo schifosamente molle della prima creatura, con un'assenza di disgusto tipicamente scientifica che posso solo invidiargli, ha riferito che la disposizione dell'interno, per quanto incomprensibile possa risultargli, è dello stesso tipo di quella riscontrata nell'altro esemplare di piccole dimensioni di cui ho parlato nella mia ultima. Eptus sarebbe ansioso di aprire anche l'altra creatura disponibile, per una conferma, ma Podas è contrario. Dice che non ne ricaveremmo alcun elemento nuovo e che, per di più, non sembra del tutto inattivata. Lo interessa un curioso movimento ritmico di inflazione e deflazione che per ora non sa come spiegare. È Podas il responsabile di questo servizio, perciò la faccenda per il momento resta in sospeso.

Nel frattempo, Orkiss, il capo della sezione matematica, per pura curiosità aveva esaminato quella che supponevamo fosse la creatura-madre, all'esterno del ridotto. È sua precisa opinione che non si tratti di una creatura, bensì di un artefatto. In una seconda ispezione lo ha accompagnato Podas, che ora condivide questa ipotesi. Eptus si riserba un giudizio. Podas ha anche azzardato il suggerimento che il nostro secondo esemplare, quello che aveva le sporgenze inferiori racchiuse nello strano tegumento palmato, possa rappresentare un qualche tipo di intelligenza, dal momento che l'abbiamo trovato nell'interno di un artefatto. A quest'idea Eptus si oppone strenuamente. Come ci si può aspettare che una qualsiasi forma di intelligenza, riconoscibile come tale, ci si chiede, possa provenire da una sciatta raccolta di tubi innumerevoli appesi a una carcassa di calcio indurito? Inoltre, aggiunge, il ragionamento più elementare presuppone almeno la capacità di concepire una linea retta. E questo tipo di creatura non esibisce una sola linea retta nella sua costruzione. Arrotondata, molle, risulterebbe più o meno amorfa, se non fosse per la carcassa che la sostiene. È chiarissimo che non partecipa di una natura in grado di concepire una linea retta, e ne consegue che deve essere del tutto incapace di un pensiero matematico, e pertanto neanche di un qualsiasi pensiero logico.

Così ragiona Eptus, e devo dire che i suoi argomenti mi convincono.

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Podas ribatte che l'artefatto lasciato all'esterno presenta evidenti linee rette. Eptus non accetta l'idea che si tratti di un prodotto artificiale. Podas insiste sulla convinzione che invece si tratti proprio di questo, e per di più concepito da un certo tipo di ragionamento. Eptus gli obietta che l'esistenza di una creatura formata da una sacca piena zeppa di tubi è di per sé del tutto irragionevole, perciò lasciamo perdere che si possa crederla capace di ragionare. Così stanno le cose, per il momento.

***

RAPPORTO N. 3. Nessun cambiamento (eccetto Perdite). Perdite: Una.

Scarsi sviluppi da riferire. Scoperto un certo tipo di essere intelligente. Contatto non ancora stabilito. Il termine «intelligente» va inteso qui solo in senso tecnico e dedotto dalla relativa capacità di influire su riflessi esterni. Sia il raziocinio che la percezione sono così limitati, nel campione in esame, da far considerare poco probabile che si tratti della forma locale più avanzata. L'esemplare è ostile e ha provocato una perdita fra il personale, Althis, meccanico. Siamo sempre in attesa di contatto con forme di intelligenza superiore.

Caro Zenn, una sovrabbondanza di cose buone può presentare altrettanti problemi quanto la scarsità di mezzi per sopravvivere. Diversi membri del gruppo non hanno saputo resistere davanti alla incredibile ricchezza di silicati facilmente assimilabili che ci circondano. Almeno una dozzina dei nostri hanno ceduto e si sono abbandonati a quella che potrei descrivere come un'orgia di ghiottoneria. Quando li abbiamo scoperti, un po' ad ovest della nostra posizione, avevano già creato una cavità di notevoli dimensioni, aumentando la propria struttura a un punto tale da rendere impossibile il loro rientro nel ridotto. Così, a loro rischio, dovranno rimanere là fuori. Ho richiamato l'attenzione degli altri sulle conseguenze di una simile intemperanza, spero con effetto salutare. Staremo a vedere.

Nel frattempo, Podas ha dimostrato l'accuratezza di alcune sue deduzioni, con nostro grande stupore. Eptus ne è un tantino indispettito e insiste con accanimento sulla necessità di usare per prima la ragione. Lo fa in un modo che a Podas, e anche a me, devo dire, sembra del tutto

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irragionevole. Come gli ho fatto notare, questo pianeta è al di là di qualsiasi ragionevolezza. Basandoci sulle prime esperienze, non mi sorprenderebbe affatto di scoprire, per esempio, che due più due fa sette, secondo le regole del posto. A un'idea del genere Eptus, ostinato, si rivolta, asserendo che la ragione è assoluta e universale, e perciò misura valida anche sul pianeta più folle. Quanto a me, posso solo ribattere che questo non mi sembra proprio il caso nostro, a giudicare da quanto sta capitando.

Il secondo esemplare di Podas, quello estratto dall'oggetto su dischi, dopo un periodo in cui è rimasto in posizione orizzontale senza esibire altro fenomeno percepibile oltre alla regolare espansione e contrazione di cui ho detto, ha iniziato a mostrare qualche segno di rianimazione. Si è mosso un poco e, subito dopo, due piccoli lembi del tessuto permanente che gli ricopre l'estremità ottusa si sono sollevati, rivelando delle specie di piccole lenti, composte a quanto pare, di liquido colorato. Per un po' di tempo non si è verificato altro. Ma in seguito abbiamo avuto la prova che ci trovavamo di fronte a un certo tipo di intelligenza, per quanto abnorme.

Riuscivamo a sentire la sua mente, che fino ad allora era rimasta silenziosa, o in uno stato di diffusione impercepibile. Mentre concentravamo la nostra attenzione sull'eventuale condensarsi di una qualunque forma logica, la creatura ha sollevato verticalmente la massa cilindrica principale, sostenendola sulla rotondità terminale inferiore, che in questa specie non possiede un prolungamento appuntito. Il primo riflesso è stato una forte inquietudine, dovuta all'assenza dei tegumenti che Podas aveva prelevato per esaminarli a parte. Questa preoccupazione, tuttavia, è stata subito sostituita da un'altra maggiore: un'immediata paura di cadere. Ha girato le lenti verso il basso. Questo movimento ha provocato un caos improvviso di emozioni nella sua mente, in cui il motivo dominante era: perchè restava sollevata a una certa distanza dal terreno, invece di cadere?

Bene, e perchè mai avrebbe dovuto? Era sostenuta da un solido blocco di boltik, che a sua volta poggiava sul solidissimo pavimento. L'ha però scoperto quasi subito, tastando la superficie con una delle lunghe escrescenze superiori. Ma questo, invece di rassicurarlo, non ha fatto che aumentare il suo stato di confusione. È qui che abbiamo fatto una sorprendente scoperta, e cioè che le sue lenti sono straordinariamente difettose. Il loro campo visivo è talmente limitato da renderle del tutto insensibili non solo al boltik, ma anche ad ogni altro nostro materiale, noi

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stessi compresi! Questa creatura può rendersi conto della nostra esistenza solo per mezzo del contatto fisico.

Di conseguenza, si stava ora chiedendo come fosse possibile trovarsi sospesa a una certa altezza sopra il terreno, in mezzo a questo deserto. Dopo aver rivolto la sua attenzione all'esterno, verso l'artefatto danneggiato, ha ripreso in parte il controllo, apparentemente con lo scopo assurdo di dimostrare a se stessa la propria esistenza.

Che l'ostilità sia un tratto istintivo, in questa specie, è più che evidente. La loro arma è integrata nell'interno e viene proiettata attraverso un orifizio posto al disotto delle due lenti. Questo assume la forma di una fessura o di un cerchio, approssimativamente, a seconda della forza impiegata. A questo punto, la creatura ha iniziato ad usarla, per fortuna a bassa energia, un registro di frequenze moderate che ci ha causato solo un lieve disagio.

Muovendo una delle lunghe sporgenze inferiori, e trovato il bordo del blocco, l'ha spinta a tastare il pavimento. Rassicurata sulla sua esistenza, ha allungato verso il basso anche la sporgenza gemella. Ma poi, invece di usare anche le altre anteriori per sorreggersi, è rimasta perfettamente equilibrata soltanto sulle prime due! La vista di questo fenomeno ha spinto Eptus a dichiarare che doveva trattarsi di una allucinazione. Secondo lui, il peso della creatura è così evidentemente concentrato verso l'alto che la sua stabilità nella posizione in cui la vedevamo si opponeva a qualsiasi logica e ragione. Eravamo tutti d'accordo sul principio enunciato, ma gli abbiamo fatto notare che stavamo anche noi testimoniando lo stesso fenomeno, e perciò dovevamo accettarne la realtà, a dispetto di ogni ragione. Eptus, sconvolto, ha dichiarato che di certo Podas, nell'esaminare l'interno del primo esemplare, aveva trascurato l'esistenza di un giroscopio, in mezzo alla gran confusione di quei tubi.

Nel suo stato verticale, la creatura è rimasta un momento immobile, prima di iniziare a spostarsi in direzione dell'artefatto, con uno sgradevole trasferimento del peso da una delle sporgenze all'altra. Nell'impossibilità di percepire il muro del ridotto, ne è venuta a contatto all'improvviso, emanando sensazioni di evidente sorpresa. Ha rinnovato le sue manifestazioni di ostilità mentre tastava la superficie, in stato di completa confusione. Poi, scoraggiata, è tornata indietro.

È stato in quel momento che per la prima volta ha notato l'altro esemplare, ridotto in uno stato di notevole disordine, dopo l'investigazione

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di Podas. Si è fermata di colpo, mentre la dimensione delle sue lenti aumentava in modo sensibile. E qui abbiamo imparato a nostre spese quanto tremendo possa rivelarsi un attacco di questi esseri. Pur non riuscendo a vederci, deve aver sospettato in qualche modo la nostra presenza, noi sentivamo che era consapevole di un pericolo, qualcosa che per lei rappresentava una minaccia. Per questo motivo ha usato la sua arma a piena energia. Per sfortuna, credo, piuttosto che per un intento preciso, era sintonizzata esattamente sull'onda di Alihis, il meccanico. Il disgraziato è stato distrutto in un secondo. Di lui è rimasto solo un triste mucchio di polvere. Simultaneamente si è verificata un'incrinatura in uno dei muri interni del ridotto.

Per nostra fortuna, la secca detonazione con cui Althis si era disintegrato, ha posto la creatura in acuto stato di allarme. Per il momento ha interrotto l'attacco ed è rimasta a guardarsi attorno per individuare la provenienza del rumore. Prima che facesse in tempo a rinnovare le ostilità, siamo riusciti a entrare in azione, in modo da impedirle l'uso della sua terribile arma. Con encomiabile prontezza di spirito, Podas ha modellato una forma di boltik e l'ha raffreddata, questo perché avevamo scoperto che la sostanza di cui queste creature sono composte si calcina anche a basse temperature. L'ha poi applicata con destrezza, in modo che quest'essere ostile non fosse più in grado di riutilizzare la sua pericolosa fessura. Posso dire che questo non l'ha di certo rappacificata, perché ha insistito nei tentativi di recuperare l'uso dell'arma, ma ormai la sua energia era ridotta a un livello che si è rivelato solo leggermente fastidioso. Quando l'abbiamo lasciata libera ci ha colpiti, agitando le sporgenze superiori nella nostra direzione, benché non fosse affatto in grado di vederci. In questo modo ha leso il suo molle tegumento su Eptus, lasciandogli addosso una macchia di liquido rosso. Sembrava molto inquieta, nel vedere la macchia muoversi, come sospesa in aria, quando lui si muoveva.

Nel rendersi conto che le sue membra troppo molli restavano danneggiate se battevano contro di noi, ha cessato di agitarsi, per dedicare i suoi sforzi a rimuovere l'impedimento costruito da Podas, con l'evidente intenzione di attaccarci di nuovo. Quando si è accorta che non ci sarebbe riuscita, com'è naturale, considerata la debolezza della sua costituzione, ha incominciato a tastare le pareri interne del ridotto, in apparenza alla ricerca di un'uscita. Intanto non desisteva dai vani tentativi di usare la sua arma. Ci è parso poi che avesse danneggiato anche le lenti, in qualche modo,

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perchè ne scendeva del liquido verso la fessura bloccata. I suoi processi mentali erano ridotti in uno stato di confusione e di allarme tale che non siamo riusciti a individuarvi alcun segno di raziocinio.

La situazione era a questo punto quando è stato individuato in distanza un altro artefatto su dischi. Si è avvicinato sempre seguendo la striscia, poi, raggiunto un punto adiacente alla posizione dell'altro artefatto, si è arrestato e ne è uscita una creatura simile al nostro primo esemplare, cioè con tegumenti del tipo biforcato alle estremità inferiori. Lo abbiamo visto considerare il primo artefatto con ovvia curiosità, fino a ispezionarne l'interno.

Nel frattempo, anche il nostro esemplare racchiuso nel ridotto aveva notato l'arrivo della nuova creatura. Ha cercato subito di muoversi nella sua direzione, ma è stato naturalmente trattenuto dalla solida superficie del muro. Con segni evidenti di frustrazione ha allora tentato di usare ancora la sua arma, questa volta contro uno della sua stessa specie, circostanza che ha destato in noi non poca perplessità. In quel momento la creatura all'esterno ha alzato le lenti e ha potuto notare l'altra che si agitava all'interno del ridotto. Per un attimo ci siamo aspettati un attacco. Le sue lenti si sono allargate in modo notevole, la fessura si è spalancata, ma, stranamente, per un certo periodo non ne è uscito nulla, Quando è accaduto, l'emissione è stata a un livello di energia del tutto innocuo.

- Dobbiamo prenderlo, prima che ci attacchi - ha consigliato Eptus.- Potrebbe anche non attaccare, se non gliene diamo una buona ragione -

ha replicato Podas.- Ragione! BAH! - Eptus diventa molto irritabile, quando si ritorna a

quel concetto.Un nuovo genere di confusione aveva intanto disorientato il nostro

esemplare. Lo abbiamo visto raccogliere in fretta uno dei pezzi di tegumento che Podas gli aveva distaccato e stringerselo contro il tubo principale. La creatura all'esterno, dopo essersi alquanto schiariti i processi mentali, aveva incominciato a proiettare pensieri verso l'altra. Abbiamo scoperto che, in casi come questo, in cui la forma di comunicazione appare diretta, siamo parzialmente in grado di seguirla. Il discorso era, pressappoco: «Peccato che tu non sia vera, tesoro! Se da queste parti i miraggi sono tutti così, ho sciupato un mucchio di tempo sulle spiagge».

Che cosa intendesse significare con questo, proprio non l'abbiamo afferrato. Ma abbiamo potuto osservare un fatto molto curioso: mentre nel

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pensiero non mostrava traccia di ostilità, nello stesso tempo emetteva energia aggressiva a basso livello attraverso la fessura apposita. Era anche evidente che il nostro esemplare non stava ricevendo il messaggio. Stava invece simultaneamente lanciando una richiesta di aiuto che l'altro non recepiva, se non in misura molto debole.

- È davvero curioso! - ha osservato Podas.- Sembra che non esista la minima comprensione, fra i due. Per di più,

mentre il nostro compie grandi sforzi per usare la sua arma, non si nota alcun intento aggressivo nella sua mente. Sarà possibile che queste armi abbiano, come scopo secondario, quello di comunicare?

- In un posto di questo genere tutto è possibile, e tutto è inverosimile - gli ha risposto Eptus. - Ormai ho raggiunto uno stato in cui sarò prontissimo a credere che il loro sistema normale di comunicare sia picchiarsi a morte, se tu mi dichiari che è così.

La creatura all'esterno sì è avvicinata, sbattendo contro il muro del ridotto. Si è strofinata la parte che aveva fatto contatto, per poi incominciare a esplorare la parete usando le due escrescenze superiori, con la mente invasa da un costante senso di meraviglia. Intanto, la creatura all'interno sembrava volesse spingersi attraverso il muro. Visto quanto risultasse inutile questo tentativo, ha ripreso a segnalare con le sue sporgenze, indicando sè, l'artefatto e il primo esemplare deanimato. Quando quest'ultimo è stato finalmente notato dalla creatura esterna, la sua mente si è bloccata con rapidità eccezionale. Ha arretrato, per poi estrarre un oggetto da una fessura del suo tegumento. Lo ha allungato in direzione del ridotto. C'è stato un forte rumore secco, non dissimile da quello che si produce quando una persona si disintegra, e perciò su una gamma inoffensiva per noi.

Qualcosa ha colpito il muro ed è subito ricaduto. La creatura si è avvicinata e ha raccolto un piccolo disco di metallo schiacciato. Era ben percepibile la sua perplessità. Poi ha appoggiato le estremità superiori al muro e l'ha tastato per tutta la larghezza, da una roccia all'altra. Era costernato. Ha spostato la parte di tegumento che gli poggiava sull'estremità superiore più tozza, di cui ha poi stimolato la superficie fibrosa, con l'intenzione di sollecitare i processi mentali, o così ci è sembrato. Si è poi accostata al suo artefatto, ne ha estratto un piccolo cilindro scuro che ha poi portato con sé tornando al ridotto. L'oggetto conteneva una sostanza nera, viscosa, con la quale la creatura ha

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scarabocchiato sulla parete. I segni ci sono ancora. Dall'interno appaiono disposti in questa formazione:

ASPETTATEMI TORNERÒ

Sembra che la nostra creatura ne abbia recepito il senso perché ha risposto con un segnale. L'altra è rientrata nell'artefatto e si è allontanata. Questa è la situazione, al momento.

Finalmente anche Eptus accetta l'idea che l'oggetto su dischi sia un artefatto ma rifiuta di credere che creature di costituzione flaccida e semiliquida come il nostro esemplare possano aver costruito un oggetto di quella consistenza. Sostiene, perciò, che qui deve esistere una diversa, e senza dubbio superiore, forma di intelligenza contenuta in un involucro molto più solido e resistente, capace di usare materiali di quel tipo.

Podas sta ancora cercando di stabilire un rapporto con il nostro esemplare, che ora se ne sta ripiegato in un angolo fra il muro e il pavimento e insiste nei tentativi per liberarsi dalla forma di boltik che gli impedisce l'uso della sua arma. Podas è convinto che la fessura sia in qualche modo anche collegata alla trasmissione del pensiero. Eptus sostiene che questa è una vera sciocchezza. Secondo lui è chiaro che il nostro muro blocca le onde mentali delle creature, per cui devono ricorrere a una forma di comunicazione secondaria, a base di segni grafici. Podas gli fa notare che da qui siamo stati in grado di rilevare le onde mentali della creatura all'esterno, alcune anche con molta chiarezza. Al che Eptus ribatte che è naturale, dal momento che, logicamente, possediamo una sensibilità di gran lunga superiore a quanta se ne possa attribuire a una forma di vita acquosa e rivoltante come questa con cui abbiamo la disgrazia di avere a che fare. Secondo me, discussioni a un livello del genere potrebbero andare avanti all'infinito, ed è quanto accadrà, temo.

***

RAPPORTO PROVVISORIO

Caro Zenn, sono preoccupato per i recenti sviluppi della situazione. La verità è che non ne sappiamo abbastanza su questi esseri strani per riuscire a controllare il corso degli avvenimenti. Ora ce n'è una folla, con i loro

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artefatti, all'esterno del muro, verso est.Nel frattempo, parecchi del nostro gruppo si sono disintegrati, e temo

che da un momento all'altro possano verificarsi altre perdite. Questi esseri lanciano attorno a sè le più pericolose frequenze, non solo senza il minimo sforzo, ma anche del tutto incuranti delle conseguenze. Podas suggerisce che non è da escludere la possibilità che potrebbero ignorare il pericolo rappresentato dalle frequenze, perchè è improbabile che corpi tondeggianti e molli ne vengano traumaticamente influenzati, e che addirittura sarebbero in grado di assorbire i suoi senza danno. Ti parrà incredibile, ma una volta tanto Eptus tende a dargli ragione. Questa teoria parrebbe confermata, dopo l'esperienza con le nostre emissioni difensive dirette contro di loro.

Abbiamo inviato una emissione fra le più potenti, usando tutte le gamme di frequenze altamente distruttive. Non posso dichiarare che non si sia rilevato alcun effetto: per un momento si sono fermati e questo ci ha procurato un certo sollievo. Ci siamo illusi di essere vicini alla lunghezza d'onda giusta. Gli esseri si sono girati gli uni verso gli altri, con dimostrazioni di evidente perplessità nello scambio di pensieri. Sembra che Podas abbia ragione. Infatti, invariabilmente, quando comunicano accompagnano le proiezioni mentali con movimenti delle loro fessure. Da quel poco che ci è consentito di interpretare, si stavano «dicendo» cose come: Anche tu l'hai sentito...? Non sono soltanto le mie orecchie, vero...? Come una specie di musica strana..., solo che non è musica... È davvero curioso... Incredibile...

Quest'ultima sembra la reazione più diffusa fra loro. Così, non solo la nostra emittente non è in grado di disintegrarli, ma pare che, al massimo della potenza, non ottenga altro effetto che disturbarli vagamente e sconcertarli un poco. In altre parole, quest'arma potentissima e per noi micidiale è del tutto inutile, contro di loro. Così ora non sappiamo che fare. Dal momento che la situazione non mi piace affatto, ho deciso di anticipare i tempi e, prima di un eventuale, se possibile, rapporto ufficiale, ti invio questo resoconto diretto di quanto sta accadendo.

Dunque, la creatura che ci aveva fatto visita in precedenza è tornata, seguita da un certo numero di artefatti simili al suo. In seguito ne sono arrivati altri, e altri ancora ne vedo avvicinarsi mentre faccio questo rapporto.

Precedentemente, la creatura che teniamo qui si era fatta più inquieta.

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Podas era dell'idea che sentisse il bisogno di nutrimento, così Eptus le ha messo davanti dei silicati ma senza suscitare il minimo interesse. Podas, richiamandosi alla sua base chimica, ha ridotto a carbonati alcuni degli esemplari fibrosi locali, ma il risultato è stato ancora negativo.

Vorremmo evitare qualsiasi inutile motivo di disagio a questa creatura, ma è troppo difficile escogitare come comportarci in proposito. Potremmo provare a iniettare del carbonato in uno dei suoi orifizi, se avessimo la minima idea di quale usa per assimilare nutrimento. Comunque, il ritorno dell'altra con il suo seguito ha stimolato in lei un certo grado di attività, per cui si è di nuovo sollevata in posizione eretta.

Quasi tutti gli esseri in arrivo erano del tipo dotato di tegumenti inferiori biforcati. Alcuni esattamente uguali fra di loro, di un colore blu scuro con accessori metallici. La reazione immediata davanti al nostro esemplare è stata pressappoco uguale a quella già notata nel primo. È a questo punto che ci siamo resi conto di quanto sia grossolano e sciatto l'uso che questi esseri fanno normalmente delle loro frequenze. Per fortuna, quelle adoperate, per il momento erano ancora tutte sotto il livello di pericolo.

Come l'altro venuto prima, hanno incominciato a tastare lungo il muro del ridotto. Tutte le loro menti erano, e sono ancora, colme di stupore incredulo. Una volta controllata l'ampiezza del nostro rifugio, si sono industriati per scoprirne l'altezza, così ce ne siamo ritrovati alcuni sopra il tetto. La maggior parte era portata a stimolare la protuberanza tozza superiore, che sembrerebbe il ricettacolo delle loro menti, con una frizione praticata dalle appendici anteriori più lunghe. Li abbiamo visti sperimentare sul muro con vari attrezzi metallici, ma naturalmente quel materiale non era abbastanza duro per produrre qualche minimo effetto sul boltik. Come risultato, si sarebbe detto che si sentissero impotenti nei nostri confronti quanto noi nei loro.

Ma non tutti si dedicavano alla stessa attività. In particolare, uno se ne restava fermo accanto a un artefatto, emanando frequenze dalla sua fessura verso un oggetto che vi teneva accostato. Era chiaro dai suoi pensieri che stava descrivendo la situazione ma non ci è riuscito di afferrare a chi o a che cosa si rivolgesse, e per quale motivo.

Sperando di poter apprendere qualcosa di nuovo da un esemplare vivo del tipo biforcato, abbiamo deattivato la nostra parte. Uno di loro, continuando a tastare lungo il muro, alla fine ha scoperto l'apertura ed è entrato. Podas aveva già pronta un'altra struttura bloccante, per prevenire

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l'emissione di frequenze pericolose e, richiusa la porta, gliel'abbiamo subito applicata sulla fessura. L'avvenimento ha provocato un notevole grado di costernazione in quelli rimasti fuori. Intanto abbiamo dovuto riconoscere la correttezza della teoria di Podas sul loro modo di comunicare. Infatti i due ora chiusi nel ridotto hanno compiuto vari sforzi per usare le apposite fessure uno verso l'altro, ma, essendone impediti, hanno rinunciato e sono rimasti frustrati, nell'impossibilità di comprendersi.

La nostra curiosità è stata distratta dall'arrivo di altri artefatti. Alcuni contenevano creature del tipo a tegumento palmato. Abbiamo stabilito che sono queste le più pericolose. Una di esse, appena uscita all'aperto, ha emesso una frequenza estremamente dolorosa per molti di noi. Disgraziatamente, Ankis e Falinus rispondevano a quella esatta gamma e, raggiunta la vibrazione periodica critica, si sono disintegrati in un attimo. La secca detonazione provocata dalla loro distruzione simultanea ha posto in allarme tutte le creature, che hanno subito iniziato una ricerca per scoprirne la causa, naturalmente senza riuscirvi. Ancora non si può apprendere molto dal nostro nuovo esemplare. La sua mente sembra dominata da un caotico senso di apprensione. Pare disorganizzarsi al massimo soprattutto alla vista del lavoro di Podas sul primo esemplare del suo tipo. Avevo già suggerito a Podas che avrebbe dovuto incenerire da tempo quell'oggetto sgradevole. Ora insisterò perchè lo faccia.

***

Abbiamo eseguito, ma i risultati non pare abbiano ottenuto un effetto sedativo, sulle menti dei nostri due esemplari. Ci risulta sempre più sconcertante il comportamento dell'essere che, all'esterno, seguita senza interruzione ad emettere vibrazioni dirette al suo strumento. Dapprima recepivamo solo lui. Ora però lo riceviamo considerevolmente amplificato, dal momento che le stesse sue frequenze stanno uscendo duplicate da parecchi degli altri artefatti su dischi. Com'è possibile? E perché, una moltiplicazione del genere? Non riusciamo a determinarvi alcun senso logico. Tutte le altre creature qui attorno stanno già osservando direttamente quegli stessi fatti che lui si sforza di riferire. Oltre tutto, l'insieme ci disturba in modo considerevole. Una fila delle creature, all'esterno del muro sta ora cercando di comunicare con i nostri due

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esemplari. Tutti seguitano ad emettere con grande ostinazione su una frequenza innocua quanto sgradevole, ma senza successo. Ora stanno componendo dei segni scuri su delle superfici bianche. A questo i nostri due rispondono a cenni, dall'interno.

Un altro artefatto un po' differente, sovrastato da una macchina a lenti, è appena arrivato. Viene puntato verso di noi da una creatura che manovra da tergo. E del tutto inefficace, non ci procura alcun disturbo. Continua l'arrivo di nuovi artefatti a dischi. Tutte le creature sono molto dubbiose sulla prossima mossa. Un piccolo gruppo sta discutendo se è il caso di portare contro il nostro muro una certa cosa, una cosa capace di disintegrare con violenza, non ho afferrato bene il concetto, ma hanno paura che, se la usassero, potrebbero danneggiare anche i nostri due esemplari... Una delle creature, nell'esplorare il nostro tetto all'altra estremità, è caduta oltre il bordo ovest. Altre hanno fatto il giro del ridotto per raccoglierla, così ora le abbiamo da tutti e due i lati.

Nel frattempo, sempre tentando di comunicare con gli esemplari, Podas ha combinato una batteria di dieci menti, per provare a concentrare simultaneamente il nostro pensiero su di loro. La pressione è terribile... e del tutto inefficace! Questi esseri non sono altro che rozzi, ottusi, inutili brandelli di materia, del tutto insensibili anche al pensiero più acuto.

Una delle creature all'esterno ha appena emesso una frequenza che in un secondo ha distrutto tre di noi. È una faccenda orribile. Dobbiamo provare di nuovo con la nostra arma emittente.

Sono rimasti sorpresi, niente di più, fermi, come se ascoltassero. Anche la creatura parlante ha fatto silenzio. Sta sollevando il suo strumento come se volesse afferrare le onde che stiamo lanciando. Che cosa...? NO! Basta! BASTA!!

È stato terribile. Non sappiamo come, le nostre emissioni sono rimbalzate verso di noi. C'è una larga incrinatura nel muro, spaccature sul soffitto. Un'altra mezza dozzina dei nostri è rimasta disintegrata. Sono certo che tutto è dipeso da quella creatura parlante e dal suo strumento, ma come? Non ce la faccio a comprendere. Ora ha cominciato di nuovo a parlare. Le altre creature si danno da fare per scoprire l'origine degli scoppi di disintegrazione. Sono del tutto confuse.

La creatura parlante ha cessato di emettere, così per noi va meglio. Ma il suono riprodotto proveniente dagli artefatti su dischi non si è fermato. Come mai? Già, ora deve trattarsi dell'amplificazione di un altro essere, le

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risonanze sono diverse. Curioso! Non è altro che suono, quello che emerge, ed è senza significato. Non riesco a percepire alcuna onda mentale che vi sia collegata. Il suono deve aver origine in un altro luogo. Non capisco. Ecco, si è interrotto, ora, meglio così.

Il... oh, cielo misericordioso, che emanazione, d'improvviso, da quei riproduttori! Che supplizio! Un suono terrificante! Ritmico, pesante, trafiggente, diabolico! Ci sta distruggendo... che siano dannati! Ci sta... ci sta scuotendo, ci sta facendo a pezzi...

Spaventoso... Angosciante.,. OH... oh...!Almeno una ventina di noi sono scomparsi, con loro Podas. Ora Eptus...L'intero ridotto sta tremando... quella frequenza, ora... È quasi al punto

critico... Se va ancora un poco più in su...Troppo tardi! Il boltik va in frantumi. Sta cadendo in polvere tutt'attorno

a noi... Oh, quel suono... quell'orrendo suono! Non... non posso... oh, che angoscia! Quasi sulla mia frequenza, ormai...

Ora è... Oh!... OH.,.! OH!!Traduzione di Mario N. Leone

LENNYdi Isaac Asimov

Anche chi non ha mai letto nulla di fantascienza conosce Isaac Asimov. Eccellente venditore della sua immagine, infaticabile compilatore di raccolte antologiche direttamente o indirettamente autobiografiche, Asimov è sulla cresta dell'onda dagli inizi degli anni quaranta, da quando John V. Campbell jr. lo lanciò, su «Astounding», con Van Vogt, Heinlein e Sturgeon. Docente di biochimica, divulgatore appassionato e appassionante di materie scientifiche, Asimov è il «buon dottore» della science fiction: narratore spigliato di trame solidamente costruite su basi scientifiche sempre plausibili e interessanti. Nella narrativa di ampio respiro la sua opera più importante resta la monumentale trilogia «Foundation», mentre nel racconto la sua fama, rinfrescata dal premio Hugo attribuito a «The Bicentennial Man», nel 1977, è tuttora legata alla raccolta «I, Robot». Anche «Lenny», il racconto qui pubblicato, appartiene alla tematica dei

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robots. Il racconto è uscito in Italia nella raccolta «Dodici volte domani», appartenente alla collana SFBC della casa editrice «La Tribuna», Piacenza (1964).

La United States Robots and Mechanical Men, Corp, aveva un problema. Quel problema era rappresentato dalla gente. Il matematico Peter Bogert era diretto al Reparto Montaggio quando incontrò Alfred Lanning, direttore delle ricerche. Lanning stava incurvando ferocemente le sue foltissime sopracciglia bianche e guardava, oltre la ringhiera, nella sala del calcolatore.

Al di sotto del ballatoio, un fiume di esseri umani d'ambo i sessi e di età diverse si guardava attorno con curiosità, mentre una guida intonava un discorso prefabbricato sul calcolo robotico.

- Il calcolatore che vedete davanti a voi, - disse, - è il più grande di questo tipo che esista al mondo. Contiene cinque milioni e trecentomila criotroni ed è in grado di trattare contemporaneamente più di centomila varianti. Con il suo aiuto, la U.S. Robots può progettare con precisione i cervelli positronici dei nuovi modelli.

- I requisiti vengono riportati su un nastro che viene perforato dall'azione di questa tastiera... qualcosa che somiglia a una macchina da scrivere o a una linotype molto complessa, tranne che non ha a che fare con le lettere, bensì con i concetti. Le affermazioni vengono spezzate negli equivalenti della logica simbolica e questi, a loro volta, vengono tradotti in schede perforate.

- Il calcolatore può, in meno di un'ora, presentare ai nostri scienziati un progetto di un cervello che fornirà tutti i necessari tracciati positronici per fare un robot...

Finalmente Alfred Lanning alzò lo sguardo e vide l'altro.- Ah, Peter, - disse.Bogert levò entrambe le mani per allisciarsi i capelli già perfettamente

lisci, neri e lucenti. E disse:- Non mi sembra che gliene importi molto, Alfred.Lanning grugnì. L'idea delle visite del pubblico alla U.S. Robots aveva

un'origine abbastanza recente, e doveva avere una duplice funzione. Da un lato, si affermava in teoria, permetteva alla gente di vedere i robots da vicino e di combattere la paura quasi istintiva per quegli oggetti meccanici grazie a una accresciuta familiarità. E d'altra parte, si sperava che questo

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interessasse almeno una persona ogni tanto, fino al punto di indurla a dedicare la propria esistenza alle ricerche robotiche.

- Sa benissimo che non me ne importa, - disse alla fine Lanning. - Una volta alla settimana, il ritorno del lavoro si interrompe. Considerate le ore lavorative perdute, il risultato è insufficiente.

- Non c'è ancora stato un aumento nelle domande d'impiego, allora?- Oh, qualcuna, ma soltanto nelle categorie in cui non c'è una necessità

vitale. Noi abbiamo bisogno di ricercatori. Lei lo sa. Il guaio è che, essendo proibiti i robots sulla Terra, essere un roboticista è piuttosto impopolare.

- Quel maledetto complesso di Frankenstein, - disse Bogert, imitando inconsciamente una delle frasi preferite dell'altro.

Lanning non afferrò l'allusione. Disse:- Dovrei esserci abituato, ma non mi abituerò mai, invece. Si crederebbe

che ormai tutti gli esseri umani, sulla Terra, sappiano che le Tre Leggi rappresentano una garanzia assoluta; che i robots non sono affatto pericolosi. Guardi quella gente. - E indicò in basso, accigliandosi - Li guardi. Quasi tutti visitano la sala di montaggio dei robots con un brivido di paura, come se salissero sull'otto volante. Poi quando entrano nella sala dove c'è il modello MEC... dannazione, Peter, un modello MEC che non fa altro, sulla verde Terra di Dio, se non fare due passi avanti, dire "Felice di conoscerla, signore", stringere la mano e poi fare due passi indietro... bene, tutti indietreggiano e le madri prendono in braccio i bambini. Come possiamo aspettarci di ottenere una collaborazione da idioti del genere?

Bogert non sapeva cosa rispondere. Insieme, guardarono ancora una volta la fila dei visitatori che adesso uscivano dalla sala del calcolatore ed entravano nel reparto montaggio dei cervelli elettronici. Poi se ne andarono.

E, come risultò più tardi, non osservarono Mortimer W. Jacobson, di anni sedici, che, per rendergli completamente giustizia, non aveva nessuna intenzione di fare qualcosa di male.

***

In realtà, non si poteva neppure dire che fosse stata colpa di Mortimer. Il giorno della settimana in cui si effettuava la visita era conosciuto da tutti i dipendenti. Tutti i meccanismi che si trovavano sul percorso dei visitatori

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dovevano essere attentamente neutralizzati o bloccati, poiché era irragionevole pretendere che gli esseri umani resistessero alla tentazione di manovrare pulsanti, tasti, maniglie e bottoni. Per giunta, la guida avrebbe dovuto stare prudentemente all'erta, per badare a coloro che soccombevano a tale tentazione.

Ma, in quel momento, la guida era già passata nella sala accanto, e Mortimer era in fondo alla fila. Passò davanti alla tastiera mediante la quale le istruzioni venivano immesse nel calcolatore. Non aveva modo di sospettare che in quel momento vi erano stati immessi i piani per un nuovo robot; altrimenti, poiché era un bravo ragazzo, sarebbe girato al largo da quella tastiera. Non poteva sapere che, per ciò che si poteva considerare una negligenza quasi criminale, un tecnico non aveva disattivato la tastiera.

Così Mortimer toccò a casaccio i tasti, come se stesse suonando uno strumento musicale.

Non si accorse che una striscia di nastro perforato si protendeva fuori dallo strumento, verso un'altra parte della sala... senza far rumore, senza farsi notare.

E il tecnico, quando tornò, non scopri alcuna manomissione. Si sentì un po' imbarazzato quando si accorse che la tastiera era accesa, ma non pensò di controllare. Dopo pochi minuti, anche quel trascurabile senso di disagio scomparve, e il tecnico continuò a passare dati al calcolatore.

In quanto a Mortimer, nè allora nè poi seppe ciò che aveva fatto.

***

Il nuovo modello LNE era stato progettato per le miniere di boro nella fascia degli asteroidi.

Gli idruri di boro stavano crescendo di valore, di anno in anno, come materie prime per le micropile protoniche che rifornivano di energia le astronavi; e le magre risorse della Terra si stavano assottigliando.

Da un punto di vista fisico, questo significava che i robots del tipo LNE avrebbero dovuto essere provvisti di occhi sensibili alle linee preminenti nell'analisi spettroscopica del minerale di boro e del tipo di arti più adatto per la lavorazione del minerale, fino al prodotto finito. Ma, come sempre, il problema maggiore era rappresentato dalle caratteristiche mentali.

Il primo cervello positronico LNE era ormai completato. Era il

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prototipo, e si sarebbe aggiunto a tutti gli altri prototipi della collezione della U.S. Robots. Quando fosse stato finalmente collaudato, ne sarebbero stati costruiti altri per essere noleggiati - mai venduti - alle società minerarie.

Il prototipo LNE era ormai completo. Alto, diritto, lucido, all'aspetto era simile a molti altri modelli di robots non troppo specializzati.

Il tecnico responsabile, guidato dalle istruzioni per il collaudo contenute nel Manuale di Robotica, disse:

- Come stai?La risposta indicata avrebbe dovuto essere:- Sto bene e sono pronto per cominciare le mie funzioni. Credo che

anche lei stia bene, - o qualche frase lievemente modificata rispetto a questa.

Quel primo scambio di battute non aveva altro scopo se non quello di dimostrare che il robot era in grado di sentire, di comprendere una comune domanda e di dare una risposta comune, coerente a quello che doveva essere l'atteggiamento di un robot.

Cominciando di qui, si poteva passare a materie molto più complicate che avrebbero messo alla prova le diverse Leggi e la loro interdipendenza rispetto alla conoscenza specializzata di ogni particolare modello.

Così il tecnico disse:- Come stai?E fu immediatamente sconvolto dalla natura della voce del prototipo

LNE. Aveva un timbro che non aveva mai udito nella voce di un robot... e ne aveva udite molte.

Formava le sillabe come i tintinnii di un'arpa celeste appena sfiorata.Questo fu così sorprendente che solo parecchi secondi dopo il tecnico

sentì, in retrospettiva, le sillabe che erano state formate da quei toni celestiali.

Erano:- Da, da, da, guu.Il robot era ancora alto e diritto, ma la sua mano destra salì, un dito si

accostò alla bocca.Il tecnico lo guardò, in preda all'orrore più assoluto e scattò. Chiuse a

chiave la porta dietro di sé e, da un'altra stanza, richiese una comunicazione di emergenza con la dottoressa Susan Calvin.

La dottoressa Susan Calvin era l'unico robopsicologo della U.S. Robots,

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e virtualmente di tutta l'umanità.Non dovette addentrarsi molto nell'esame del prototipo LNE prima di

chiedere, con modi molto perentori, la trascrizione dei piani forniti dal calcolatore per gli schemi del cervello positronico e le istruzioni su nastro che ne avevano diretto la formulazione.

E dopo averli studiati un po', a sua volta mandò a chiamare Bogert.I suoi capelli grigioferro erano severamente tirati all'indietro; il suo viso

freddo, con le forti linee verticali sottolineate dal segno orizzontale che era la bocca pallida dalle labbra sottili, si volse con una espressione intensa verso di lui.

- Cos'è questo, Peter?Bogert studiò i passaggi che lei gli indicava, con crescente stupefazione.- Buon Dio, Susan, questo non ha senso!- Assolutamente no. Come ha fatto a finire in mezzo alle istruzioni?Il tecnico responsabile, convocato, giurò in tutta sincerità che non era

stato lui, e che non riusciva a spiegarsi come fosse accaduto. Il calcolatore aveva dato risposte negative a tutti i tentativi di trovare una imperfezione.

- Il cervello positronio), - disse, pensierosa, Susan Calvin, - non può essere modificato. Quindi parecchie delle funzioni più alte sono state cancellate da queste istruzioni prive di significato; e il risultato è molto simile a un neonato umano.

Bogert si mostrò sorpreso, e Susan Calvin si raggelò improvvisamente, come faceva sempre di fronte a chi mettesse esplicitamente o implicitamente in dubbio la sua parola. E disse:

- Noi facciamo tutti gli sforzi per creare un robot che sia il più possibile simile a un uomo, mentalmente. Eliminiamo ciò che chiamiamo funzioni adulte e ciò che rimane naturalmente è un uomo infante, mentalmente parlando. Perchè è così sorpreso, Peter?

Il prototipo LNE, che non dava affatto segno di aver compreso ciò che succedeva attorno a lui, scivolò improvvisamente a sedere e cominciò un esame attentissimo dei propri piedi.

Bogert lo guardò ad occhi sbarrati.- È un delitto dover smantellare questa creatura. È un bellissimo lavoro.- Smantellarlo? - chiese la robopsicologa con voce fredda.- Naturalmente, Susan. A cosa serve? Buon Dio, se c'è un oggetto

completamente, abissalmente inutile è un robot senza un lavoro che possa compiere. Non pretenderà che possa fare qualche lavoro, no?

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- No, naturalmente no.- Bene, e allora?Susan Calvin disse, ostinatamente:- Voglio fare altre prove.Bogert la guardò con impazienza momentanea, poi scrollò le spalle. Se

c'era una persona, alla U.S. Robots, con cui era inutile discutere, senza dubbio quella era Susan Calvin.

I robots erano tutto ciò che lei amava e la lunga dimestichezza con loro, così pareva a Bogert, l'aveva privata d'ogni apparenza d'umanità. Non poteva essere dissuasa da una decisione più di quanto una micropila innescata potesse essere dissuasa dal continuare a funzionare.

- A che serve? - sussurrò; e poi, a voce alta, in fretta: - Ci informerà, quando avrà completato le prove?

- Sì, - disse lei. - Vieni, Lenny.LNE, pensò Bogert. Diventa Lenny. Inevitabile.Susan Calvin tese la mano ma il robot si limitò a fissarla.Dolcemente, la robopsicologa prese la mano del robot e la strinse. Lenny

si levò in piedi, con scioltezza: la sua coordinazione meccanica, per lo meno, funzionava perfettamente.

E insieme uscirono dalla stanza: il robot sovrastava la donna di due piedi.

Molti occhi li seguirono, curiosamente, per i lunghi corridoi.

***

Una parete nel laboratorio di Susan Calvin, quella che si apriva direttamente nel suo ufficio privato, era coperta con una riproduzione, enormemente ingrandita, dello schema di un cervello positronico. Susan Calvin l'aveva studiata con intensità per quasi un mese intero.

E anche adesso l'osservava, attentamente, seguendo gli schemi attraverso le loro contorsioni.

Dietro di lei, Lenny sedeva sul pavimento, allargando e stringendo le gambe, cantilenando fra sé sillabe prive di significato con una voce tanto bella che si poteva ascoltare quei suoni insensati e sentirsene rapiti.

Susan Calvin si rivolse al robot.- Lenny... Lenny...Lo ripeté pazientemente, fino a che Lenny alzò lo sguardo ed emise un

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suono interrogativo.La robopsicologa permise che un fremito di piacere le percorresse

fuggevolmente il viso. L'attenzione del robot si poteva attirare ad intervalli che diventavano progressivamente sempre più brevi.

Lei disse:- Alza la mano, Lenny. La mano... su. La mano... su. Alzò la mano a sua

volta, mentre lo diceva, ripeté il gesto. Lenny seguì con gli occhi i suoi movimenti. Su, giù, su giù.

Poi fece un gesto abortito con la propria mano e tintinnò:- Ah... uh...- Molto bene, Lenny, - disse Susan Calvin, con serietà. - Prova ancora.

La mano... su.Molto delicatamente tese la mano, prese quella del robot, l'alzò,

l'abbassò.- La mano... su. La mano... su.Una voce la chiamò, dal suo ufficio, interrompendola.- Susan?Susan Calvin si fermò, stringendo le labbra.- Che c'è, Alfred?Il direttore delle ricerche entrò, guardò il grafico sulla parete e poi il

robot.- È ancora alle prese con quello?- Sto ancora lavorando, sì.- Ecco, vede. Susan... - Prese un sigaro, lo guardò fisso, e fece un gesto,

come per staccarne un'estremità con un morso. E mentre lo faceva, i suoi occhi incontrarono la severa espressione disapprovante della donna. Ripose il sigaro e ricominciò daccapo. - Ecco, vede, Susan, il modello LNE è ormai in produzione.

- L'ho saputo. E questo ha qualcosa a che vedere con il nostro colloquio?- N-no. Eppure, il semplice fatto che questo modello è in produzione e

che va benissimo significa che lavorare con questo esemplare scombinato è del tutto inutile. Non dovrebbe essere smontato?

- Per farla breve, Alfred, a lei secca che io sprechi il mio tempo così prezioso. Si tranquillizzi. Non sto affatto sprecando tempo. Io sto lavorando con questo robot.

- Ma è un lavoro che non ha senso!- Toccherà a me giudicarlo, Alfred! - La voce di lei aveva una calma di

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malaugurio, e Lanning ritenne più prudente cambiare terreno.- Non vuole dirmi che senso ha? Cosa sta facendo con lui in questo

momento per esempio?- Sto cercando di abituarlo ad alzare la mano a comando. Sto cercando di

abituarlo a imitare il suono della parola.Come se avesse ricevuto l'imbeccata, Lenny disse:- Ah... uh... - E alzò la mano ondeggiante. Lanning scosse il capo - Ha

una voce straordinaria. Come mai? Susan Calvin disse:- Non lo so proprio. Il suo trasmettitore è normale. Potrebbe parlare

normalmente, ne sono certa. Ma non lo fa: parla in questo modo, in conseguenza di qualche caratteristica dello schema positronio) che non è ancora stata individuata.

- Bene, la individui, per l'amor del cielo. Questo modo di parlare potrebbe essere utile.

- Oh, allora può darsi che i miei studi su Lenny siano di qualche utilità?Lanning scrollò le spalle, imbarazzato, - Oh, be', è una cosa di

importanza minima.- Mi dispiace che lei non veda le cose di importanza massima, allora, -

disse Susan Calvin, con asprezza. - Ma non è colpa mia. Adesso vuole andarsene, Alfred, e lasciarmi al mio lavoro?

***

Lanning riuscì a estrarre il sigaro, finalmente, nell'ufficio di Bogert e disse, acido:

- Quella donna diventa sempre più strana di giorno in giorno.Bogert comprese perfettamente.Nella U.S. Robots and Mechanical Men Corporation, "quella donna" era

soltanto una.- Sta ancora perdendo tempo con quel suo pseudo-robot, disse Bogert, -

quel suo Lenny?- Sta cercando di insegnargli a parlare, che Dio mi aiuti. Bogert alzò le

spalle.- Questo ci riporta al problema della nostra società. Voglio dire, trovare

persone qualificate per le ricerche. Se avessimo altri robopsicologhi, potremmo mandare Susan in pensione. Fra l'altro, immagino che la riunione dei direttori prevista per domani abbia lo scopo di discutere il

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problema delle assunzioni?Lanning annuì e guardò il suo sigaro come se non fosse buono.- Sì. Qualità, però, non quantità. Abbiamo aumentato gli stipendi fino a

che, adesso, c'è un afflusso continuo di richieste di assunzione... da parte di persone a cui interessa soprattutto il danaro. Il problema è trovare quelli cui interessa soprattutto la robotica... qualche altro come Susan Calvin.

- Diavolo, no. Quella donna non mi piace.- Ecco, non le piace personalmente. Ma dovrà ammettere, Peter, che è

completamente dedicata ai robots. Non ha altri interessi, nella vita.- Lo so. Ed è precisamente questo che la rende così insopportabile.Lanning annuì. Aveva perduto il conto delle volte in cui gli avrebbe

fatto tanto bene all'anima licenziare Susan Calvin. E aveva anche perduto il conto dei milioni di dollari che lei aveva fatto risparmiare alla società. Era una donna realmente indispensabile e sarebbe rimasta fino alla sua morte... o fino a che avessero risolto il problema di trovare altri uomini e altre donne del suo altissimo livello che fossero interessati nelle ricerche di robotica.

E disse:- Credo che dovremo smetterla con i giri di visite. Peter scrollò ancora le

spalle.- Se lo dice lei. Ma intanto, parlo sul serio, cosa facciamo con Susan? È

facile che si leghi a Lenny per un tempo indefinito. Lei sa com'è quando si dedica a un problema che giudica interessante.

- Cosa possiamo fare? - disse Lanning.- Se ci mostriamo troppo ansiosi di distoglierla da quel lavoro, lei vi si

attaccherà per puro spirito di contraddizione femminile. In ultima analisi, non possiamo costringerla a far niente.

Il matematico sorrise.- Io non applicherei mai l'aggettivo femminile a quella donna.- Oh, be' - disse Lanning, malinconico. - Per lo meno, questo non farà

male a nessuno.E almeno a questo riguardo si sbagliava.

***

Il segnale d'allarme è sempre qualcosa che provoca una grande tensione in un grande complesso industriale. I segnali d'allarme erano risuonati una

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dozzina di volte nella storia della U.S. Robots... per incendi, inondazione, tumulti e insurrezione.

Ma una cosa non era mai accaduta, in tutto quel tempo; quel particolare segnale che indicava "un robot fuori controllo" non era mai suonato. Nessuno aveva mai pensato che potesse suonare. Era stato installato soltanto dopo le insistenze del governo. - Accidenti al complesso di Frankenstein - brontolava Lanning nelle rare occasioni in cui vi pensava.

E adesso, finalmente, lo squillo acuto della sirena si levò e si spense a intervalli di dieci secondi, e nessuno dei dipendenti, dal presidente del consiglio d'amministrazione fino al viceportinaio appena assunto riconobbe, per qualche istante, il significato di quello strano suono.

Poi quei momenti passarono, e vi fu una massiccia convergenza di guardie armate e di personale medico verso la zona di pericolo indicata; e la U.S. Robots fu colpita dalla paralisi.

Charles Randow, tecnico calcolatore, fu portato nell'infermeria con un braccio rotto. Non c'erano altri danni. Non c'erano altri danni fisici.

- Ma il danno morale - ruggì Lanning, - è superiore a ogni possibile stima.

Susan Calvin lo affrontò, minacciosamente tranquilla.- Lei non farà niente a Lenny. Niente. Ha capito?- Ha capito lei, Susan? Quella cosa ha ferito un essere umano. Ha

infranto la Prima Legge. Non sa che cos'è la Prima Legge?- Lei non farà niente a Lenny.- Per l'amor di Dio, Susan, devo proprio dirle io la Prima Legge? Un

robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. La nostra posizione dipende dal fatto che la Prima Legge è rigorosamente osservata da tutti i robots di tutti i tipi. Se il pubblico dovesse sapere, e lo saprà, che c'è stata una eccezione, anche una sola eccezione, potremmo essere costretti a chiudere. La nostra unica speranza di sopravvivere sarebbe annunciare immediatamente che il robot colpevole è stato distrutto, spiegare le circostanze, e augurarci che il pubblico si convinca che questo non accadrà mai più.

- Mi piacerebbe scoprire esattamente come è accaduto - disse Susan Calvin. - Non ero presente e vorrei sapere con precisione cosa stava facendo quel Randow nel mio laboratorio, senza autorizzazione.

- La cosa più importante che è accaduta è ovvia - disse Lanning. - Il suo

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robot ha colpito Randow e quel maledetto sciocco ha premuto il pulsante dell'allarme "robot fuori controllo" e ne ha fatto una tragedia. Ma il suo robot lo ha colpito e gli ha inferto un danno, precisamente gli ha rotto un braccio. La verità è che il suo Lenny è così anormale che manca della Prima Legge e deve essere distrutto.

- Non manca affatto della Prima Legge. Ho studiato i suoi schemi cerebrali e so che non ne è privo.

- E allora come ha potuto colpire un uomo? - La disperazione si tramutò in sarcasmo. - Lo chieda a Lenny. Senza dubbio gli avrà insegnato a parlare, ormai.

Le guance di Susan Calvin si colorarono di un rossore doloroso.- Preferisco chiederlo alla vittima - disse. - E, durante la mia assenza,

Alfred, voglio che i miei uffici rimangano chiusi a chiave, con Lenny dentro. Voglio che nessuno lo avvicini. Se gli accade qualcosa di male mentre io sono assente, questa società non mi rivedrà mai più, qualsiasi cosa succeda.

- Se ha infranto la Prima Legge, acconsentirà alla sua distruzione?- Sì - disse Susan Calvin, - Perché so che non l'ha infranta.

***

Charles Randow era a letto, con il braccio chiuso nell'ingessatura. La sua maggiore sofferenza derivava dal trauma di quei pochi attimi in cui aveva creduto che un robot marciasse contro di lui con propositi omicidi nel cervello positronico.

Nessun altro essere umano aveva mai avuto tanta ragione di credere a una diretta minaccia robotica come l'aveva avuta lui, poco prima. Aveva vissuto una esperienza unica.

Susan Calvin e Alfred Lanning erano ritti accanto al letto; Peter Bogert, che li aveva incontrati lungo la strada, era con loro. Medici e infermiere erano stati allontanati.

Susan Calvin chiese:- Dunque... cos'è successo? Randow era sconvolto. Mormorò:- Quella cosa mi ha colpito il braccio. Mi stava venendo addosso.Susan Calvin disse:- Torni indietro. Cosa stava facendo, lei, nel mio laboratorio, senza

autorizzazione?

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Il giovane calcolatore deglutì, e il pomo d'Adamo si agitò visibilmente. Aveva gli zigomi sporgenti ed era anormalmente pallido. Disse:

- Sapevamo tutti del suo robot. Correva voce che lei cercasse di insegnargli a parlare come uno strumento musicale. Si facevano scommesse, se parlava o non parlava. Qualcuno diceva... ehm... che lei riuscirebbe a insegnare a parlare anche a un pilastro.

- Immagino - fece Susan Calvin, in tono agghiacciante, - che questo fosse un complimento. E questa cosa c'entrava con lei?

- Io dovevo entrare lì e accertarmi... scoprire se parlava, vede. Abbiamo preso una chiave del suo laboratorio e abbiamo aspettato che lei se ne andasse e poi siamo entrati. Abbiamo tirato a sorte per stabilire chi doveva farlo. Io ho perduto.

- E allora?- Ho cercato di farlo parlare e quello mi ha, colpito.- Cosa intende dire, ha cercato di farlo parlare? In che modo ha cercato?- Io... io gli ho fatto qualche domanda, ma non ha detto niente, e io ho

dovuto dargli una scrollata, così io ho fatto una specie... gli ho gridato e...- E...Vi fu una lunga pausa.Sotto lo sguardo fermo di Susan Calvin, Randow, finalmente, disse:- Ho cercato di spaventarlo perchè dicesse qualcosa. - E aggiunse, in

tono difensivo: - Dovevo dargli una bella scrollata.- E in che modo ha cercato di spaventarlo?- Ho fatto finta di sferrargli un pugno.- E lui le ha scostato il braccio?- Mi ha colpito il braccio.- Benissimo. È tutto. E, a Lanning e a Bogert: - Venite signori. Sulla

soglia, si voltò di nuovo verso Randow.- Posso risolvere io le scommesse che ci sono in corso, se le interessa

ancora. Lenny sa pronunciare benissimo qualche parola.

***

Non dissero nulla fino a che non giunsero nell'ufficio di Susan Calvin.Le pareti erano occupate da scaffali carichi di libri, alcuni dei quali

erano stati scritti da lei: lo studio aveva preso la patina della sua personalità frigida e ordinata. C'era soltanto una sedia, e lei vi sedette.

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Lanning e Bogert rimasero in piedi.Lei disse:- Lenny si è limitato a difendersi. Questa è la Terza Legge: Un robot

deve proteggere la propria esistenza.- Purché, completò con forza Lanning, questa autodifesa non contrasti

con la Prima e con la Seconda Legge. Completi l'enunciazione! Lenny non aveva il diritto di difendersi, in alcun modo, se per farlo doveva recare danno, anche un danno trascurabile, a un essere umano.

- E non lo ha fatto, ribatté Susan Calvin, coscientemente. Lenny ha un cervello abortito. Non poteva conoscere la propria forza o la debolezza degli esseri umani. Nello spingere da parte il braccio minaccioso di un essere umano non poteva sapere che l'osso si sarebbe spezzato. In termini umani, non si può biasimare un individuo che, in realtà, non sa distinguere tra il bene e il male.

Bogert l'interruppe, in tono propiziatorio.- Suvvia, Susan, noi non lo biasimiamo. Noi comprendiamo che Lenny è

l'equivalente di un bambino, parlando da un punto di vista umano, e non lo biasimiamo. Ma il pubblico lo biasimerà. E la U.S. Robots verrà chiusa.

- Esattamente il contrario. Se lei avesse il cervello d'una pulce, Peter, avrebbe capito che questa è l'occasione che la U.S. Robots aspettava. Questo risolverà i suoi problemi.

Lanning abbassò le sopracciglia bianche. E disse, sottovoce:- Quali problemi, Susan?- La società non si preoccupa di mantenere il personale addetto alle

ricerche al presente alto livello... il Cielo ci aiuti!- Certamente.- Ebbene, che cosa offrite ai futuri ricercatori? Eccitazione? Novità? Il

brivido di violare l'ignoto? No! Voi offrite loro uno stipendio e la garanzia che non avranno problemi.

Bogert disse:- Cosa intende dire, che non avranno problemi?- Vi sono problemi, forse? - ribatté Susan Calvin. - Che specie di robots

produciamo? Robots completamente evoluti, adatti ai loro compiti. Un'industria ci dice ciò che le occorre: un calcolatore progetta il cervello; le macchine formano il robot: ed eccolo qui, fatto e completo.

- Peter, qualche tempo fa lei mi ha chiesto, parlando di Lenny, a che cosa serviva. A che serve, lei ha detto, un robot progettato soltanto per un

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lavoro? Comincia e finisce nello stesso punto. I modelli LNE scavano il boro. Se occorre il berillio, sono inutili. Se la tecnologia del boro entra in una nuova fase, diventano inutili. Un essere umano costruito in questo modo sarebbe subumano. Un robot così progettato è subrobotico. - E lei vuole un robot versatile? - chiese Lanning, incredulo.

- Perchè no? - domandò la robopsicologa. - Perchè no? Mi è stato affidato un robot con un cervello quasi completamente atrofizzato. Io gli sto insegnando e lei, Alfred, mi ha chiesto a che cosa serve tutto questo.

- Forse servirà a ben poco per quanto riguarda direttamente Lenny, poiché non progredirà mai oltre un livello paragonabile, su scala umana, a quello d'un bambino di cinque anni.

- Ma a che servirà, in generale? A moltissimo, se lei lo considera come uno studio sul problema astratto di imparare a insegnare ai robots. Io ho imparato a cortocircuitare alcuni schemi contigui per crearne altri nuovi. Uno studio ulteriore ci porterà a tecniche migliori, più sottili e più efficienti per fare questo.

- Ebbene?- Immagini di aver cominciato con un cervello positronico che avesse

tutti gli schemi fondamentali accuratamente tracciati: ma che non avesse neppure uno schema secondario. Immagini di cominciare a creare questi schemi secondari. Lei potrebbe vendere robots fondamentali, progettati in modo da poter essere istruiti; robots che potrebbero essere modellati per un determinato lavoro, e poi modellati per un altro, se necessario.

- I robots diventerebbero versatili come gli esseri umani. I robots potrebbero imparare!

I due uomini la guardarono, sbalorditi. Lei disse, impaziente:- Non avete ancora capito, vero?- Ho capito quello che sta dicendo - fece Lanning.- Non capisce che con un campo completamente nuovo di ricerche e

tecniche completamente nuove da mettere a punto, con una zona completamente nuova dell'ignoto da esplorare, i giovani proveranno un nuovo impulso a entrare nella robotica? Provi e vedrà.

- Posso fare osservare - disse Bogert, gentilmente, - che questo è pericoloso. Cominciare con robots ignoranti come Lenny significherebbe non potersi fidare della Prima Legge... esattamente come è accaduto nel caso di Lenny.

- Precisamente. Date la massima pubblicità al fatto.

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- La massima pubblicità!- Naturalmente. Diffondete la notizia del pericolo. Spiegate che

fonderete un nuovo istituto di ricerca sulla Luna, se la popolazione della Terra non vuole permettere che questo avvenga sul pianeta, ma faccia notare in tutti i modi l'esistenza del pericolo a tutti coloro che presentano domanda di assunzione.

Lanning disse:- E perché, per l'amor di Dio?- Perché la droga del pericolo aumenterà il fascino, il richiamo. Crede

che la tecnologia nucleare non comporti pericoli, e che la spazionautica non presenti rischi? Il fascino dell'assoluta sicurezza le è forse servito a qualcosa? L'ha aiutato a distruggere il complesso di Frankenstein che lei disprezza tanto? Allora provi qualcosa d'altro, qualcosa che in altri campi è stato perfettamente efficace!

Oltre la porta che conduceva nel laboratorio personale di Susan Calvin si levò un suono.

Era la voce tintinnante di Lenny.La robopsicologa si interruppe immediatamente, ascoltando. Poi disse:- Scusatemi. Credo che Lenny mi chiami.- È in grado di chiamarla? - disse Lanning.- Ho detto che sono riuscita a insegnargli qualche parola. - Si avviò

verso la porta, un po' confusa. - Se volete aspettarmi...

***

La seguirono con lo sguardo mentre usciva e rimasero in silenzio per un momento. Poi Lanning disse:

- Crede che ci sia qualcosa di vero in quello che dice, Peter?- È possibile, Alfred - disse Bogert. - È possibile. Per noi è sufficiente

per presentare la proposta alla riunione dei direttori e vedere cosa ne diranno. Dopotutto, ormai l'olio è sul fuoco. Un robot ha ferito un essere umano e la notizia è di dominio pubblico. Come dice Susan, tanto vale che cerchiamo di volgere il fatto a nostro vantaggio. Naturalmente, diffido dei motivi che la guidano, in tutta questa faccenda.

- Cosa intendi dire?- Anche se tutto ciò che dice è perfettamente vero, per ciò che la

riguarda si tratta di semplice razionalizzazione. Il suo movente, in tutto

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questo, è il suo desiderio di tenere questo robot. Se insistessimo - e il matematico sorrise del significato incongruo di quella frase, - ci direbbe che lo fa perché intende continuare a imparare la tecnica di istruire i robots, ma credo che abbia trovato un altro uso per Lenny. Un uso piuttosto unico, che si adatterebbe, tra tutte le donne, soltanto a Susan.

- Non capisco l'allusione. Bogert disse:- Ha sentito cosa stava dicendo il robot?- Be', no, non ho... - cominciò Lanning, poi la porta si apri

improvvisamente, e i due uomini smisero di colpo di parlare.Susan Calvin rientrò, si guardò intorno incerta.- Avete visto, per caso... sono sicura che era qui, in qualche posto... Oh,

eccolo!Corse verso l'angolo d'uno scaffale e raccolse un oggetto metallico

intricato, a forma di campana e cavo, con pezzetti di metallo di varia forma nell'interno di ogni cavità, ciascuno abbastanza grande per non poter cadere dalla ragnatela di fili.

Quando lei lo raccolse, i pezzetti di metallo si mossero e urtarono uno contro l'altro, tintinnando piacevolmente. Lanning si accorse che quell'oggetto era una specie di versione robotica di un sonaglietto per bambini.

Mentre Susan Calvin apriva di nuovo la porta per passare, la voce di Lenny risuonò di nuovo, dall'interno.

Questa volta, Lanning l'udì chiaramente, mentre pronunciava le parole che Susan Calvin gli aveva insegnato.

In paradisiaci suoni di celeste, chiamò:- Mammina, ti voglio. Ti voglio qui, mammina.E i passi di Susan Calvin risuonarono frettolosi sul pavimento del

laboratorio, verso l'unica specie di bambino che lei potesse avere od amare.

Traduzione di Roberta Rambelli

IL SOLDATO ETERNOdi Fritz Leiber

Fritz Reuter jr. Leiber, autore di questo racconto uscito nel numero di maggio 1960 della rivista «Magazine of Fantasy and

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Science Fiction» col titolo «The Oldest Soldier» (qui tradotto in «Il soldato eterno») è nato a Chicago nel 1910. Figlio di attori teatrali, attore egli stesso dopo aver conseguito un diploma universitario, si è dedicato a studi telogici e successivamente ha insegnato dizione e arte teatrale in un "College" di Los Angeles. Più volte vincitore di premi Hugo e Nebula, Leiber è autore di una vastissima produzione di opere di narrativa incentrate molto spesso sulla fantasy (esordì nel 1939 col primo episodio di un ciclo di "heroic fantasy", dal titolo «Two Sought Avventure», sulla rivista «Unknown») e, soprattutto sui motivi onorifici.

Quello che veniva chiamato "Il Leutnant", per la sua origine tedesca, mandò giù un abbondante sorso della sua birra scura. Aveva appena finito di descrivere un duello fra razzi delle fanterie Tedesca e Russa, sul Fronte Orientale. Un'eruzione continua di viluppi infuocati che si intrecciavano nel cielo fra le due posizioni.

Max, con la boccetta verde della sua birra più chiara fra le dita, la faceva oscillare, guardando il liquido che si smuoveva ritmicamente, e intanto i suoi occhi sembravano vedere qualcos'altro, molto lontano. Alla fine parlò. - A Copenhagen gli abitanti morivano a migliaia quando arrivarono i razzi a ricamare di fiamma il cielo e ad accendere i campanili, i pennoni senza vele e gli alberi maestri delle navi inglesi. Nell'oscurità sembrava un campo di croci luminose.

- Non ho mai sentito che ci fossero stati sbarchi in Danimarca, - osservò qualcuno dei presenti. Parole buttate là come per caso, ma nella voce c'era una nota di aspettativa.

- Mi riferivo alle guerre napoleoniche, - spiegò Max. - Gli inglesi bombardarono la città e catturarono la flotta danese. È successo nel 1807.

- E tu, Maxie, c'eri? - chiese Woody, e il gruppo raccolto attorno al banco, come al solito, incominciò a ridacchiare sotto i baffi. Ci si può anche annoiare, se si cerca di ingannare troppo tempo in un bar senza altra occupazione che starsene a sorseggiare qualcosa, ogni diversivo è sempre il benvenuto.

- Perché pennoni senza vele? - qualcuno domandò.- Per diminuire il rischio che i razzi incendiassero anche le navi che li

lanciavano, - gli spiegò Max. - Le vele prendono fuoco facilmente, e in ogni caso quelle navi di legno sono un'esca perfetta. Ecco perché le navi a

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vela dotate di proiettili che si arroventano non sono mai state sicure. Già anche usando razzi e spogliando i pennoni c'era poco da stare allegri. Sicuro, e il "bagliore rosso" di cui si parla nell'inno nazionale americano era dovuto ai razzi Congreve su Fort McHenry, - continuò Max senza batter ciglio, - mentre le "bombe che esplodono nell'aria" erano i più antichi proiettili di precisione, per quanto ne sappia io, sparati da mortai. Direi che in quell'inno c'è tutto un condensato di storia della balistica. Con un sorriso si girò a scrutare tutte le facce che gli facevano corona. - Sì, c'ero anch'io, Woody. E c'ero anche quando le truppe di Marte-Sud presero d'assalto Copemicus, nella Seconda Guerra Coloniale. C'ero, come sarò in una trincea nei pressi di Copeybawa fra un milione di anni o giù di lì, mentre le esplosioni delle navi venusiane in combattimento sopra di noi scuotono il terreno e provocano ondate di mota, tanto per costringermi a scavarmi una buca più profonda.

Stavolta la compagnia si lasciò andare, esilarata. Tutti ridevano di gusto, mentre Woody scuoteva piano la testa ripetendo - Copenhagen e Copernicus e... cos'era il terzo? Oh, ma dove lo trovate un altro cervellaccio come questo?! - e il Leutnant, con il suo accento teutonico commentava - Ja, c'era tu là. Nei lipri! - e io pensavo, ringraziamo Iddio che ci fa dono delle teste matte, soprattutto quelle coraggiose, imperturbabili, che mai si arrabbiano né si scoraggiano, in modo che non scoprirai mai se lo fanno per divertirsi e divertire gli altri o se invece credono seriamente a tutto quello che ti sciorinano. A prendere un minimo sul serio Max e le sue storie, qui c'è una persona sola, eppure anche tutti gli altri sono entusiasti di lui, perché sanno che non abbasserà mai la guardia...

- Quello che stavo cercando di dimostrare, - continuò Max quando i commenti faceti degli altri si furono calmati, - è come si succedano regolarmente dei cicli nella preferenza data a un certo genere di armi piuttosto che a un altro.

- I Romani li usavano, i razzi? - chiese la stessa voce allegra di prima, quella che si era interessata alla Danimarca e ai pennoni spogli. Era Sol, proteso, dietro il suo banco.

Max scosse la testa. - Non mi risulta. La loro specialità erano le catapulte. - Socchiuse gli occhi. - Per quanto, ora che mi ci fai ripensare, ricordo un soldato che mi raccontava di come Archimede avesse messo insieme qualcosa di simile a razzi lanciati usando il "fuoco greco" per

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incendiare le vele delle navi romane. Secondo il mio compagno, non c'era niente di vero in quella storia leggendaria di una lente gigantesca che avrebbe concentrato i raggi solari sul nemico.

- Vorresti dire, - lo interruppe Woody, - che oltre a te ci sarebbero altri tipi coinvolti in questo imbroglio di guerra-attraverso-tutto-l'universo-e-tutti-i-tempi? - La sua voce profonda, colorata dal whiskey, aveva assunto l'accento più solenne e cogitabondo.

- Ma naturalmente, - gli assicurò Max, con gran calore. - Altrimenti come farebbero le guerre a ripetersi, una dopo l'altra?

- E perché mai uno deve combattere e ricombattere in tutte queste guerre? - chiese Sol, in tono leggero. - Una volta non sarebbe già abbastanza?

- Credi proprio che, viaggiando nel tempo, si riesca a stare alla larga dalle guerre? - gli ribatté Max.

Volli metterci anche la mia, tornando al discorso di prima. - Allora, quei razzi di Archimede sarebbero stati i primi a carburante liquido, e di un bel po' in anticipo su tutti gli altri.

Max mi guardò diritto in faccia, con una speciale intesa nel suo sorriso. - Sì, penso proprio di sì, - mi disse, dopo averci pensato un attimo. - Su questo pianeta, per lo meno.

L'ilarità di prima si era calmata, ma quella dichiarazione la ravvivò, e, mentre Woody, parlando a se stesso a voce alta, diceva: - Mi va, quella storia del ricombattere, è una cosa in cui siamo tutti dei gran campioni -, il Leutnant stava chiedendo a Max: - Kosì ha taféro compatuto su Marte? - Sì, l'ho fatto, - confermò Max, dopo un minuto di silenzio. - La baraonda di cui parlavo prima è stata sulla Luna, però. Facevo parte di un corpo di spedizione dal Pianeta Rosso.

- Ach, sì sì. E ora permette ti chietere una kosa...Dicevo seriamente prima, a proposito di questi cervelli che danno di

fuori in modo tanto congeniale e generoso. Non sto lì a guardare se appartengano a fanatici degli UFO o ai cultori della percezione extrasensoriale, oppure se siano maniaci musicologi o fissati filosofi / psicologi da baraccone, o magari personaggi toccati da sogni strani, per mezzo dei quali si divertono a comunicare, come nel caso di Max. Per quanto mi riguarda, sono convinto che oggi siano soltanto loro a tenere in vita quella rara qualità chiamata individualismo, in un'era in cui imperano i conformisti. Sono loro quelli ancora capaci di resistere all'assedio dei

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mass-media e alla noia dell'uomo massificato. Per me, l'unico lato negativo, nel caso di questi esseri fuori del comune, è che facilmente attirano gente calcolatrice, senza scrupoli, che li usa solo per far soldi. Il mio consiglio a tutti questi cervelli matti è uno: esercitatele le vostre doti, ma per conto vostro, non lasciatevi fregare, né siate troppo generosi della vostra amabile pazzia con chi non se lo merita. Siate saggi e coraggiosi, proprio come Max...

Ora lui e il Leutnuant stavano montando una discussione sui problemi che poteva presentare l'uso di artiglieria fuori dell'atmosfera e in posti a bassa gravità, argomento un po' troppo tecnico per mantenere l'euforia alla temperatura abituale. Così Woody si fece avanti per cambiare soggetto. - Senti un po', Massimiliano, se ti devi proprio sorbire tutte queste guerre, da casa del diavolo a Dio solo sa quando, dovrai mantenere un programma abbastanza serrato. Com'è che riesci a trovare anche il tempo per startene a bere con noi vagabondi? - Me lo chiedo spesso anch'io, - lo rimbeccò Max. - Comunque, la verità è che in questo momento sono in licenza, chiamiamola una licenza illimitata, risultato di un deplorevole disguido nei trasporti. Ma ormai dovrebbero passare a prendermi da un giorno all'altro, per tornare al mio distaccamento. Cioè, se prima non mi beccano gli agenti segreti del nemico.

Fu proprio allora, mentre Max scodellava quel gioiello sui servizi segreti nemici, e intorno si era risvegliato il buonumore, e Woody commentava, facendosi andare di traverso la birra: - Che ne dite, che ne dite, di questa..?! - e io stavo invece ripensando a quanto Max mi aveva dato nelle ultime due o tre settimane, Max, questo tipo dotato di un'intensità quasi poetica nel ricostruire a modo suo eventi storici tanto vividamente, ...fu proprio in quell'attimo che vidi i due occhi rossi giù, in basso, attraverso la spessa vetrina polverosa, due occhi rossi che sbirciavano dentro dalla strada buia.

Ero l'unico della compagnia che stesse per caso guardando fuori in quel particolare momento. La notte era scura e ventosa, la via buia e non certo tenuta a specchio. Sul marciapiede di fronte, dove volavano le cartacce, c'erano altre vetrine che a volte rimandavano riflessi molto curiosi, e anche per questo, quando ricevetti quella impressione fuggevole di una testa nera, informe, con i due occhi come brace ardente che fissavano dentro oltre la piramide di bottiglie vuote, non passò neanche un secondo prima di decidere che doveva trattarsi di qualcosa di normale, come per esempio un

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paio di cicche mantenute accese dal vento, o, ancora più probabilmente, di un insolito riflesso dei fanalini di un'auto che stava svoltando più in là, tanto più che mezzo secondo dopo non c'era proprio niente, come se l'auto avesse superato la curva, o il vento avesse soffiato le cicche più lontano. Eppure, un momento prima mi stava venendo la pelle d'oca, considerato che per l'appunto c'era di mezzo quella storia degli agenti nemici in agguato.

E fra l'altro la mia reazione non doveva esser rimasta inosservata, perché Woody, che non perde mai niente, mi gridò subito: - Ehi, Fred, per caso, quella schifezza di bibita che stai ingollando ha incominciato a liquefarti il sistema nervoso, o persino agli amici intimi di Max gli prende un brutto male, da come le conta spinte stasera?

Max mi lanciò un'occhiata acuta. Forse anche lui aveva visto qualcosa. Ad ogni modo, si limitò a finire la sua birra e a salutare. - Sarà ora che mi muova, si è fatto tardi. - Non lo diceva a me in particolare, ma intanto seguitava a guardarmi, così feci un cenno di assenso e posai sul banco la mia boccetta verde con ancora almeno un terzo della limonata, troppo dolce per me, anche se è la più agra che Sol tiene per i clienti. Tirammo su bene le chiusure-lampo delle nostre giacche a vento e Max apri la porta, facendo turbinare dentro una folata di vento. Il Leutnant disse a Max: - Tomani sera proccetiamo un canone spaziale mighliore. - Sol, tanto per fare, come al solito ci raccomandò di non metterci nei pasticci e andare subito a nanna da bravi ragazzi; Woody ci salutò con - A presto, soldati spaziali! - (e già riuscivo a immaginarmelo, appena si sarebbe richiusa la porta, che diceva, rivolto agli altri: - Quel Max è più matto di una capra, ma anche Freddy non è da meno! Augh..! Bere solo limonata effervescente!)

E così ci trovammo fuori, Max ed io, curvi nel vento, con le palpebre strette contro la polvere che volava dappertutto, a percorrere la via lungo i tre isolati fino al "materasso" di Max, nome che il suo buchette di appartamento si merita, senza certo voler forzare il linguaggio.

In giro non si vedevano grossi cani neri dagli occhi rossi ad aggirarsi furtivi, e neanche mi ero aspettato di trovarceli, dopo tutto.

***

Solo risalendo alla mia infanzia si può spiegare perché Max, con la sua

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spiritosa trovata del 'soldato di tutti i tempi', e quella specie di cameratismo superficiale che ci legava, avessero assunto per me tanta importanza. Ero stato un bambino timido, solitario, senza fratelli né sorelle con cui mettermi a confronto e magari litigare, ottimo esercizio per le battaglie che la vita non risparmia a nessuno, e non ero passato neanche per quello stadio tanto comune in cui i ragazzi si riuniscono in bande più o meno turbolente. Si può trovare perciò una certa coerenza nel fatto che, con il tempo, avessi maturato una ferma devozione verso i principi più liberali e odiassi la guerra con fervore quasi mistico, in particolare durante l'intervallo fra il 1918 e il 1939, al punto di riuscire, mettendocela tutta, a evitare il servizio militare durante il secondo conflitto, anche se l'alternativa era stata soltanto quella di finire a lavorare nel più vicino impianto per la produzione bellica, e non proprio la stoica, totale applicazione dei principi pacifisti.

Ma ecco arrivarmi l'inevitabile reazione, innescata da una maledetta caratteristica comune a tutti i veri liberali, e cioè la tendenza, e la capacità, di riuscire a vedere, sia pure a scoppio ritardato, i due lati opposti di qualsiasi questione. I militari e la loro vita incominciarono a incuriosirmi e anche a suscitare in me una certa cauta ammirazione. A malincuore, sulle prime, arrivai a intravvedere l'utilità e il lato romantico degli arcieri, quei guardiani, spesso solitari come lo ero io, dei perigliosi avamposti della civiltà e della fraternità in mezzo ad un universo cieco e ostile... guardiani necessari, senza voler smentire la verità in quelle accuse di irrazionalità e sadismo potenziale presenti nella guerra e nell'uso che ne fanno i fabbricanti d'armi e le forze reazionarie.

Incominciai allora a considerare il mio odio per la guerra come, almeno in parte, una maschera usata per nascondere una certa codardia, e mi dedicai a cercare una maniera tutta mia per rendere omaggio anche all'altro lato della verità. Sebbene, diciamo che viene molto facile sentirsi coraggiosi solo per il fatto che si ha voglia di esserlo. Le opportunità autentiche per dimostrare un vero coraggio son ben rare nel nostro consorzio, in gran parte 'civilizzato', infatti di regola vengono considerate soltanto dannose per lo spirito di autoconservazione, contrarie al concetto di 'buona cittadinanza' nei periodi di pace, e così via. È anche vero che tali opportunità si presentano eventualmente soprattutto durante gli anni della giovinezza. Così, a chi si fa venire troppo in ritardo questa voglia di mettere alla prova il coraggio, può succedere che debba aspettare almeno

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sei mesi prima che si presenti anche solo una piccola occasione, per poi facilmente riuscire a perderla in meno di sei secondi.

Insomma, per quanto l'idea non mi tornasse affatto comoda, dovetti fare i conti con questa mia reazione allo spinto pacifismo dei primi anni. Incominciai a sfogarla dandomi alla lettura. Divoravo le storie di guerra, attuali e del passato, compresi racconti e romanzi. Feci di tutto per assorbirne le cognizioni tecniche e il linguaggio militare di ogni epoca, i tipi di organizzazione e le armi, la strategia e le tattiche usate. Personaggi come Tros di Samotracia e Horatio Hornblower divennero presto i miei eroi segreti, a fianco dei cadetti spaziali di Heinlein e di Bullard, con tutti gli altri coraggiosi guardiani delle rotte stellari.

Ben presto mi accorsi che la lettura non poteva bastare. Sentivo il bisogno di sperimentare contatti diretti con dei militari in carne ed ossa, e li trovai, finalmente, fra i componenti della piccola banda di veterani che si riuniva tutte le sere nel vecchio bar di Sol. Sembra buffo, ma questi locali all'antica che servono soprattutto da bere sono privilegiati da una clientela in genere molto più ricca di carattere e di cameratismo che non quella della maggior parte dei bar. Sarà forse per l'assenza di cromature, di juke-box o di flipper, o delle donnine messe lì per far consumare più bevande e, al loro fianco, uomini a caccia di risse e di oblio. Comunque sia, era stato proprio nel locale di Sol che avevo conosciuto Woody e il Leutnant e Bert e Mike e Pierre, e lo stesso Sol. Un cliente di passaggio difficilmente avrebbe immaginato che si trattasse di gente diversa dai soliti tranquilli beoni, e di certo non li avrebbe presi per ex-militari di carriera, ma io stavo bene attento e avevo notato un paio di particolari che mi incuriosirono subito. Perciò incominciai a frequentarli più spesso, cercando di non farmi notare troppo mentre sorseggiavo le mie bibite gassate (che mi piacerebbe definire simboliche!), e non ci volle molto prima che loro incominciassero ad aprirsi anche in mia presenza per scambiarsi favolosi resoconti sul Nord Africa, Stalingrado e Anzio, la Corea e così via. La cosa mi rendeva abbastanza felice, sia pure in modo non del tutto imparziale.

Ed ecco che, da un mese circa, era comparso Max, e avevo così potuto rendermi conto che era soprattutto di uno come lui che io avevo bisogno. Un soldato genuino sotto diversi aspetti, fra l'altro come me portato a interessarsi della storia; soltanto che io, in confronto, non ero che un povero dilettante, tanto ne sapeva di più lui. Consideravo straordinaria anche la sua dedizione per quella trovata abbastanza geniale e tanto

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divertente, e oltre tutto gli ero rimasto simpatico e mi aveva invitato a casa sua qualche volta, così, a parte gli incontri al banco di Sol, fra noi era nata una certa amicizia. Per me Max era una presenza molto positiva, anche se non avevo ancora la più pallida idea di chi lui fosse veramente nè di quello che faceva per vivere.

Com'è naturale, neanche lui si era aperto con gli altri fin dalle prime sere. Aveva preso la sua birra ed era rimasto zitto e quieto, come per formarsi un'idea dell'ambiente, la stessa cosa che avevo fatto io. Però l'aspetto e la personalità del soldato erano così evidenti in lui che credo tutti gli altri fossero ben disposti ad accettarlo fra di loro fin dall'inizio, quest'uomo tarchiato dai gesti precisi e sicuri, dalle mani grandi, agili, e con una faccia che sembrava ricavata nel cuoio, gli occhi stanchi ma sempre sorridenti, con l'aria di aver visto ormai proprio tutto. Poi, la terza o la quarta sera, Bert aveva detto qualcosa a proposito della battaglia della Bulge e Max era intervenuto accennando a delle esperienze che aveva avuto proprio in quella occasione, e, dall'occhiata che si erano scambiati Berte il Leutnant, capii che Max 'era passato', ora faceva parte della compagnia, il settimo membro, considerando me come uno spettatore tollerato, una specie di cervellone che non aveva fatto segreto della sua completa mancanza di vere esperienze militari.

Non molto tempo dopo, forse saranno passate due o tre altre sere, Woody si fece bello con un paio di racconti spinti, almeno per metà inventati, e Max incominciò a tenergli testa, dando il via a quella sua trovata spiritosa del soldato-nel-tempo-e-nello-spazio. Era buffo come la prendevamo. Immagino che avremmo potuto dedurne semplicemente che Max dovesse aver coltivato una sua fissazione per la storia, e si compiacesse di esibire nel modo più pittoresco le cognizioni imparate dai libri. Può anche darsi che all'inizio qualcuno di noi la intendesse così, ma le sue descrizioni di altri tempi e di posti strani ci venivano esposte in un tono così vivido e nello stesso tempo tanto naturale da farci provare spesso la scomoda sensazione che ci fosse qualcos'altro sotto, a parte le cognizioni apprese. E qualche volta gli si dipingeva in faccia un'espressione così nostalgica, come persa, quando parlava di cose lontane cinquanta milioni di miglia, o di cinquecento anni prima, che Woody, in particolare, immancabilmente finiva per contorcersi dal gran ridere. E per Woody questo era il tributo più sincero che potesse elargire all'arte persuasiva di Max.

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Max non rinunciava al suo giochetto neanche quando io e lui ci trovavamo da soli, sulla strada verso casa sua, pur mantenendolo su un tono minore, potrei dire, come se volesse farmi intendere non tanto che lui era il Soldato al servizio di un Potere che lottava attraverso il tempo per cambiare la storia, ma semplicemente che noi uomini siamo creature dotate di immaginazione e che il nostro destino più gratificante sarebbe riuscire a vivere in altri tempi, in posti lontani, in altri corpi. Una volta mi disse, confidenzialmente: - La maturazione della coscienza è tutto, Fred, il seme della consapevolezza che germoglia e allarga le sue radici attraverso lo spazio e il tempo. Ma può crescere in tanti di quei modi diversi. Tessendo la sua tela da mente a mente, come un ragno, o rintanandosi nell'oscurità dell'inconscio, come un serpente. Le guerre più vaste sono quelle combattute con il pensiero.

Ma, qualunque cosa si sforzasse di farmi intendere, io continuavo a stare al suo gioco, perché a me questo sembra il modo più giusto di comportarsi con chiunque, eccentrico o no, finché ti riesca di farlo senza violare la tua personalità. C'è una persona che porta con sè un tantino di vita e di vivacità nel grigio mondo, e perché cercare di castrarle. Per me è soltanto una questione di educazione e di stile.

Da quando avevo conosciuto Max, mi capitava spesso di fare delle considerazioni sulla qualità elusiva definita "stile". Non importa gran che quello che fai nella vita, mi aveva detto una volta, puoi fare il militare o l'impiegato, il predicatore o il borsaiolo, quel che conta è metterci dello stile. È sempre meglio fallire in grande stile che vincere senza stile. I successi ottenuti con mezzi meschini non riesci mai a goderteli come avresti voluto.

Sembrava che Max riuscisse a capire i miei problemi personali senza bisogno che glieli confessassi. Mi aveva fatto notare che un soldato ha bisogno di addestramento per poter esercitare il proprio coraggio in modo efficiente. Lo scopo principale della disciplina militare è raggiungere la sicurezza che, quando capiteranno quei sei secondi che ti mettono alla prova, ogni sei mesi o press'a poco, riesci a realizzare il tuo atto di coraggio senza neanche pensarci: l'esercizio che ti sei, o ti hanno, imposto ti ha dotato di una specie di seconda personalità. È del tutto errata l'idea che il soldato disponga per natura di speciali virtù o di una virilità più decisa di quella di un qualunque civile. E poi, c'è la faccenda della paura: tutti possono aver paura, aveva detto Max, se si eccettuano alcuni tipi di

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psicopatici o di suicidi potenziali, i quali comunque ne sembrano immuni solo a un livello conscio superficiale. Ma, più e meglio conosci te stesso e la gente che ti sta vicino, e anche la situazione che devi affrontare, (tenendo conto però della difficoltà che si incontra a renderci conto in modo completo delle situazioni: qualche volta se ne riceve appena un barlume), be', più conosci questi elementi e più sei pronto a impedire alla tua paura di sopraffarti. Più genericamente: se cerchi di tenerti allenato con una disciplina quotidiana che ti prepari a una visione diretta, più quadrata possibile, della vita se riesci a immaginarti in modo realistico sia le probabilità negative che le opportunità favorevoli, allora sarà molto difficile che tu fallisca. Va bene, naturalmente tutte queste cose le avevo lette e sentite dire anche prima, ma, ascoltate dalla bocca di Max, mi pareva acquistassero un significato molto più reale e profondo. Come dicevo prima, avevo trovato nella presenza di Max degli elementi molto positivi.

Così, in questa serata in cui Max aveva raccontato di Copenhagen e di Copernicus e di Copeybawa, e io mi ero immaginato di aver visto un cagnaccio nero dagli occhi di brace, e noi due andavamo per le strade deserte tutti ingobbiti nelle nostre giacche a vento, e intanto io contavo i rintocchi delle undici che scendevano dal grande orologio dell'Università, bene, quella sera non mi passava per la mente proprio niente di particolare, eccettuato che ero in compagnia del mio amico un po' matto e che saremmo arrivati presto al suo alloggio e ci saremmo bevuti qualcosa di caldo prima di augurarci la buonanotte. Io già avevo in mente il profumo di un buon caffè.

Una cosa è certa: non mi sarei aspettato proprio niente fuori del normale. Finchè, giunti sull'angolo ventoso a un passo dall'uscio di casa sua Max si era arrestato bruscamente.

***

Max occupava un piccolo locale e una cucina sopra una fila di botteghe malandate, al secondo piano di un edificio in mattoni annerito dallo smog. C'era una scala di sicurezza incrostata di ruggine che scendeva lungo la parete, a fianco delle antiquate finestre a loggia, la rampa inferiore controbilanciata in modo da aprirsi e arrivare a toccare terra soltanto se qualcuno vi poggia i piedi sopra, vale a dire se mai capita chi abbia

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occasione di farlo.Quando vidi che Max si arrestava, naturalmente mi fermai anch'io. Stava

guardando in alto, verso la sua finestra. La finestra era buia e a me non riusciva di scorgere niente di particolare, eccettuato che lui o qualcuno altro avevano lasciato qualcosa sulla scala all'esterno, un grosso fagotto nero, e questo non mi fece nessun effetto speciale perché non sarebbe stata la prima volta che vedevo un posto simile adoperato come deposito per la spazzatura o per le bottiglie vuote, o anche per tenderci i panni ad asciugare, contravvenendo ai regolamenti dei pompieri, ne sono sicuro.

Eppure Max restava immobile e continuava a guardare lassù.- Ascolta, Fred, - mi disse dopo un poco, a bassa voce, - che ne diresti

se, tanto per cambiare, stavolta si andasse a casa tua? L'invito è sempre valido?

Fino a quella sera non mi era mai riuscito di far venire Max da me, neanche una volta, così restai un po' sorpreso. - Ma certo, Max, come no, - gli risposi subito, imitando il suo tono. - Chissà quante volte te l'avrò chiesto.

Abitavo appena due isolati più in là, bastava svoltare l'angolo su cui ci eravamo fermati.

- Bene, allora, - mi fece lui, - muoviamoci.Nella sua voce c'era un tocco di impazienza che mi era nuovo. Tutto a

un tratto pareva non vedesse l'ora di girare dietro quell'angolo. Mi prese per il braccio.

Ora lui non guardava più verso la scala accanto alla finestra, ma io sì. Il vento si era smorzato all'improvviso e tutto era molto quieto. Mentre svoltavamo, anzi, per l'esattezza, mentre Max mi tirava dietro l'angolo, per un attimo vidi quel grosso fagotto di non si sa che sollevarsi per guardare in giù verso di me con occhi come due carboni accesi.

Non mi lasciai scappare il fiato, né aprii bocca. Non credo che Max si fosse reso conto che avevo visto qualcosa, ma intanto io ero piuttosto scosso. Stavolta non mi sarebbe stato possibile attribuire quell'effetto a cicche di sigaretta o a riflessioni di fanalini rossi, ci voleva troppa fantasia per immaginarseli su una scala antincendio al secondo piano. Stavolta il mio cervello avrebbe dovuto esercitare un bel po' di inventiva in più per escogitare una spiegazione, e finché non ci fosse riuscito sarei stato costretto a credere che un qualche cosa... be', qualcosa di 'alieno', si aggirava in questi paraggi di Chicago.

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Nelle grosse città non mancano i rischi, diciamo, naturali: scippatori di mestiere, ragazzacci impasticciati, malati mentali sadici, questo genere di cose ed altro, rischi di cui tutti ci rendiamo conto. Ma non sarai mai preparato ad accettare qualcosa di... alieno. Se senti un tramestio in cantina, ti viene subito in mente che si tratta di topi, e per quanto tu sappia che anche i topi possono essere pericolosi, non ti spaventi per questo, anzi, è facile che tu scenda giù a dare un'occhiata. Non ti aspetti certo di trovarci dei mostruosi ragni-cacciatori, emigrati dall'Amazzonia.

L'aria era ancora calma, per il momento. Avevamo percorso circa un terzo della strada lungo il primo isolato quando mi giunse, distante ma chiaro, un cigolio rugginoso e, subito dopo, un fracasso metallico che non poteva riferirsi ad altro che al tratto inferiore della scala di ferro che si apriva e toccava il marciapiede.

Continuai a camminare facendo finta di niente, ma in quell'attimo la mente mi si era sdoppiata; con una metà mi sforzavo di ascoltare e di immaginare cosa potesse succedere alle mie spalle, mentre l'altra metà sfrecciava via a esaminare le possibilità più assurde, per esempio che Max fosse in fuga da qualche inimmaginabile campo di concentramento dall'altra parte dell'universo. Se campi di concentramento del genere fossero davvero esistiti, mi dicevo, nel mio stato di gelido isterismo, campi comandati da qualche razza di SS soprannaturali, questi avrebbero al loro servizio proprio cani come quello che credevo di aver visto, e, per essere onesto, che temevo avrei potuto vedere ancora meglio, dietro di noi, se mi fossi guardato ora alle spalle.

Era duro resistere e continuare a camminare normalmente, invece di correre, con questa follia, o quel che altro fosse, che mi incombeva nella mente; per di più, il fatto che Max se ne restasse muto non mi aiutava di certo.

Alla fine, mentre arrivavamo al secondo isolato, mi feci forza e, a bassa voce, gli comunicai esattamente quello che credevo di aver visto. La sua reazione mi colse di sorpresa.

- Com'è sistemato il tuo appartamento, Fred? È al terzo piano, mi pare.- Sì. Un momento, ora ti...- Incomincia a descriverlo da dove si entra.- L'ingresso dà sul soggiorno, poi c'è un breve corridoio e si entra in

cucina. È fatto più o meno come una clessidra, il corridoio è la parte centrale più stretta. Ci sono due porte laterali, nel corridoio: se guardi dal

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soggiorno, quella a destra dà nel bagno, l'altra a sinistra in una piccola camera da letto.

- E le finestre?- Due, affiancate, nel soggiorno. Nel bagno non ce n'è. Una nella

camera, che dà su un cavedio. Due in cucina, distanti fra di loro.- C'è una porta di servizio, in cucina? - mi chiese Max, attento.- Sì. Dà su una loggetta sul retro. La metà superiore è di vetro, non ci

avevo pensato. È come se ci fossero tre finestre, in cucina.- In questo momento, sono giù le tapparelle?- No, sono alzate.Domande e risposte si erano susseguite rapide mentre proseguivamo

lungo l'isolato, e non c'era stato il tempo per potermi permettere di pensare. Ora, dopo una pausa di un attimo, Max mi stava dicendo: - Ascolta, Fred. Non chiederò né a te né a nessun'altro di credere in tutto quello che ho raccontato da Sol come per scherzo, sarebbe troppo, così all'improvviso. Ma in quell'animale nero tu ci credi, è vero? - Mi toccò un braccio, un avvertimento. - No, non guardare indietro, ora.

Non potei trattenermi dal deglutire. - In questo momento ci credo, ci credo.

- Bene, allora. Seguita a camminare come se niente fosse. Mi rincresce di averti coinvolto in questa storia, Fred, ma ormai non mi resta che cercare di tirarci fuori tutti e due. Per quanto riguarda te in particolare, farai bene a non curarti di quella specie di creatura, fingi di non renderti conto che sta succedendo qualcosa di anormale. In questo modo la bestia non riuscirà a capire se io ti abbia detto qualcosa o no, esiterà prima di darti noia, e sarà capace anche di aspettare, finché ci sei tu, se deciderà che così le sarà più facile fregarmi. Ma non saprà trattenersi a lungo, il suo condizionamento è solo parziale. Quanto a me, il meglio che possa sperare è di riuscire a mettermi in contatto con il quartier generale in tempo. Avrei dovuto decidermi prima, e invece ho rimandato. Se ce la faccio mi tireranno fuori loro da questa situazione. Non mi occorrerà più di un'ora, forse anche meno. Se vuoi, sta a te, Fred, farmi guadagnare il tempo necessario.

- E come? - gli chiesi, mentre salivamo i gradini verso il vestibolo della casa. Avevo nelle orecchie l'impressione di un soffice scalpiccio dietro di noi. Non mi voltai a guardare. Aprii la porta d'ingresso e feci passare Max, poi salimmo le scale.

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- Appena saremo in casa, - mi disse, piano, - accendi tutte le luci del soggiorno e in cucina. Lascia alzate le tapparelle. Poi comportati esattamente come in un'altra sera qualunque se tu fossi rimasto alzato fino a quest'ora. Non so, mettiti a leggere o a scrivere, o magari fatti qualcosa da mangiare, se te la senti. Cerca di essere più naturale possibile. Se ti arrivano dei rumori, se hai l'impressione di qualcosa vicino, cerca di ignorarlo. Ma soprattutto guardati dall'aprire porte o finestre e, attento, sforzati di non guardare fuori, se ti riesce, sarà un impulso molto forte, vedrai. Naturalezza soprattutto. Se in questo modo ti riuscirà di trattenerli,... trattenere quella cosa alla larga per una mezz'ora o press'a poco, diciamo fino a mezzanotte, se ce la fai a concedermi trenta o quaranta minuti, io dovrei riuscire a concludere la mia parte. E, ricorda, se tutto va come ti dico, anche per te è la miglior soluzione. Una volta uscito io di qui, tu sei al sicuro.

- Ma, e tu... - Ero piuttosto snervato, mentre frugavo in tasca, alla ricerca della chiave. - ...Tu che farai, intanto?

- Appena saremo entrati, - mi rispose Max, - mi infilerò subito in camera tua e chiuderò la porta. Fai finta di non vedere. Soprattutto non venire a cercarmi, qualunque cosa tu dovessi sentire in quella stanza. C'è una presa di corrente? Avrò bisogno di energia.

- C'è, - gli dissi, girando la chiave nella serratura. - Ma le luci ultimamente sono mancate spesso. Ci deve essere qualcuno nella casa che provoca dei sovraccarichi, così saltano i fusibili nell'interruttore generale.

- Andiamo bene, - borbottò lui mentre mi seguiva nell'interno.Accesi le luci, poi andai in cucina e accesi anche quelle. Max era rimasto

nel soggiorno, chino sul tavolino, accanto alla macchina da scrivere. Stava scarabocchiando in fretta qualcosa su un foglio di carta verdognola che doveva aver avuto con sè. Poi si raddrizzò e me lo porse. - Ripiegalo e tienilo in tasca per qualche giorno.

La carta verde-chiaro, sottile, scricchiolava a toccarla. In alto c'era scritto «Caro Fred», e giù, in fondo alla pagina, «Il tuo amico Max Bournemann.» Tutto il resto era vuoto.

- Ma, che diavolo..? - gli feci, voltandomi a guardarlo.- Fai come ti dico! - scattò, duro. Subito dopo, nel vedere che c'ero

rimasto male e mi stavo scostando da lui, per scusarsi mi sorrise, un gran sorriso aperto, cameratesco. - Su, è ora di metterci al lavoro, - mormorò poi, infilandosi nella camera da letto. Restai un momento a fissare la porta

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che si era richiusa alle sue spalle.Piegai il foglio tre volte e lo riposi con cura nella tasca interna della

giacca a vento. Poi tirai fuori un volume a caso dalla libreria, per la precisione, dallo scaffale più alto, che, per l'appunto, mi venne in mente un attimo dopo, era quello riservato ai testi di psicologia. Mi lasciai andare sulla poltrona, aprii il libro a una pagina qualunque e incominciai a fissarla senza neanche vedere le parole che avevo davanti.

Finalmente, forse potevo permettermi di pensare. Fino ad ora, da quando avevo parlato a Max di quegli occhi rossi, non mi era riuscito di far altro che stare ad ascoltarlo, sforzarmi di ricordare le istruzioni e muovermi come un automa.

La prima cosa che mi venne in mente fu: Questa storia è ridicola! Qualcosa di strano e inquietante l'ho visto, certo, ma era buio, non si vedeva gran che, ci sarà senz'altro una spiegazione molto semplice, naturale, per quell'oggetto sulla scala di sicurezza. Avevo creduto di vedere qualcosa di anormale, e Max aveva intuito che mi ero spaventato, e quando poi gliel'ho raccontato avrà deciso di divertirsi alle mie spalle, portando avanti quella sua trovata a cui tiene tanto. Ci scommetterei che in questo momento se ne sta disteso sul mio letto a ghignare in silenzio e a chiedersi quanto ci metterò prima che...

La finestra accanto a me tintinnava come se il vento fosse tornato di colpo e la stesse scuotendo. Il rumore si era fatto sempre più forte, per cessare poi all'improvviso, senza decrescere prima, lasciando così nella stanza un senso di tensione, come se il vento, o qualcosa di più materiale, stesse ancora premendo contro il vetro.

E non mi voltai a guardare, né spostai minimamente la testa, sebbene, (o forse proprio per questo), sapessi che non c'era una scala antincendio là fuori, né alcun altro suo supporto valido. Mi limitai a considerare quel senso di una presenza sconosciuta che gravava lì, a un palmo dal mio gomito, mentre fissavo il libro che avevo in mano senza vederlo, con il cuore che martellava e ondate di calore e di freddo che si alternavano su tutta la mia pelle.

Mi resi conto pienamente, allora, che quei primi pensieri, tutti scetticismo, erano stati il prodotto automatico di uno sfacciato bisogno di evasione, e che invece, proprio come avevo detto a Max, credevo in modo sicuro e assoluto nell'esistenza di quella specie di sinistra bestia nera. E credevo ciecamente in tutta la faccenda, per lo meno fino al punto in cui

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riuscivo a rendermene conto. Credevo che potessero coesistere in questo universo poteri inimmaginabili in continua lotta fra di loro. Credevo che Max fosse precisamente un viaggiatore-nel-tempo arenatosi fra di noi, e che ora, nella mia camera, stesse freneticamente dandosi da fare con qualche aggeggio ultraterreno per segnalare il suo immediato bisogno di aiuto a qualche sconosciuto quartier generale. Credevo senza dubbi di sorta che entità impossibili, entità ferali si aggirassero stasera per Chicago.

Potevo credere e pensare quanto volevo, ma più in là di così non mi riusciva di inoltrarmi. I pensieri si reiteravano e mi si accavallavano in testa, sempre gli stessi, sempre più veloci. Mi sentivo la mente trasformata in una macchina sotto pressione, pronta a schiantarsi in mille frantumi. E l'impulso di girare la testa e guardare oltre il vetro della finestra mi era ormai venuto e aumentava di attimo in attimo.

Con un grande sforzo riuscii a mettere a fuoco il centro della pagina che avevo davanti e incominciai a leggere.

«... gli archetipi junghiani trasgrediscono ogni barriera del tempo e dello spazio. Ma c'è di più: sono in grado di spezzare le catene delle leggi di casualità. Sono dotati di facoltà 'prospettiche' di natura francamente mistica. L'anima stessa, secondo Jung, non è che la reazione della personalità verso l'inconscio e include in qualsiasi persona sia l'elemento maschile che quello femminile, l'animus e l''anima', come anche la reazione della 'persona' verso il mondo esterno...»

***

Mi pare di aver letto quell'ultima frase almeno una dozzina di volte, prima velocemente, poi parola per parola, finché ne risultò un guazzabuglio insensato e non ce la feci più a forzare lo sguardo sulla pagina.

Il vetro della finestra accanto a me stava scricchiolando.Misi giù il libro e mi alzai in piedi, lo sguardo fisso davanti a me, per

andare in cucina, afferrare una manciata di crackers e aprire il frigorifero.Quello stesso tintinnio che poi finiva in una pressione insistente si ripeté,

prima in una delle finestre della cucina, poi nell'altra, infine sul vetro della porta di servizio. Mi concentrai sul latte che avevo preso dal frigorifero.

Tornai nel soggiorno e, dopo aver esitato un momento sulla macchina da scrivere, dove era infilato un foglio nuovo, mi rimisi a sedere nella

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poltrona vicino alla finestra. Deposti i crackers e il contenitore del latte sul tavolino che avevo accanto, ripresi in mano il libro e lo appoggiai sulle ginocchia.

Il tintinnio mi aveva seguito, immediato e perentorio, come se qualcuno, o qualcosa, si stesse facendo impaziente.

Non riuscivo più a mettere a fuoco le parole stampate. Presi fra le dita un cracker per riposarlo immediatamente. Toccai il gelido contenitore del latte e subito mi si serrò la gola. Ritirai di scatto la mano.

L'occhio mi andò alla macchina da scrivere, e così mi tornò in mente il foglio di carta verde, e una spiegazione per quello strano gesto di Max mi apparve chiara. Qualsiasi cosa gli fosse successa stanotte, lui aveva voluto che io avessi l'oppotunità di scrivere un messaggio, con la sua firma sotto, in modo da esonerarmi da ogni responsabilità. Qualsiasi cosa gli fosse accaduta...

La finestra accanto a me venne scrollata come da un violento mulinello.Mi venne in mente una cosa. Anche se non dovevo guardare

direttamente verso la finestra come se mi aspettassi di vedere qualcosa dietro il vetro, (sarebbe stato proprio lo sbaglio che mi avrebbe tradito, e Max mi aveva messo in guardia), avrei invece potuto far passare lo sguardo per quel punto senza fermarcelo, come se, per esempio, mi stessi voltando a dare un'occhiata all'orologio dietro di me. Soltanto che, mi dissi, dovevo stare attento a non reagire, se avessi visto qualcosa.

Mi feci forza. Dopo tutto, c'era anche la speranza che niente di anormale mi sarebbe apparso all'esterno di quel vetro robusto, solo l'oscurità della notte ventosa.

Voltai la testa verso l'orologio.Lo vidi due volte, mentre lo sguardo andava e tornava indietro, e benché

riuscissi a mantenere l'occhio fermo, il sangue e i pensieri incominciarono a pulsare come se cuore e mente potessero scoppiarmi da un momento all'altro.

A circa mezzo metro dalla finestra, una faccia, o una maschera, o un muso, di un nero lucido più nero dell'oscurità che lo circondava. I lineamenti erano, contemporaneamente, quelli di un cane, di una pantera, di un pipistrello gigante e di un uomo, qualcosa di mezzo fra questi. Una faccia spietata, disperata, da uomo-bestia, viva e cosciente, ma anche morta, di una mostruosa malinconia venata di mostruosa cattiveria. C'era il lucido di denti bianchi, aguzzi come aghi, fra labbra nere come la pece.

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C'era il pulsare della luce smorta che emanavano gli occhi rossi come brace.

Il mio sguardo non si era fermato né aveva tremato, sì, né mi erano scoppiati il cuore o la mente. Invece, un attimo dopo riuscii a staccarmi dalla poltrona e, a passi rigidi, andai alla macchina da scrivere, mi sedetti e incominciai a battere sui tasti. Dopo un poco la vista mi tornò normale e incominciai a vedere quello che stavo scrivendo. Le prime parole erano:

«La svelta volpe rossa saltò sul nero cane pazzo...»

Continuai a scrivere. Era molto meglio che cercare di leggere. Scrivendo agivo, in qualche modo riuscivo a scaricarmi. Ripresi a battere senza fermarmi, un susseguirsi di frammenti senza fine: «Questo è il momento per tutti gli uomini buoni...», le prime righe della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione, la pubblicità delle sigarette Winston, sei versi dal monologo dell'Amleto, «Essere o non essere...», senza punteggiatura, la Terza Legge della Termodinamica, «Mary had a big black...»

In mezzo a tutto quel pasticcio, mi balzò in mente un'immagine del quadrante dell'orologio che avevo guardato di sfuggita poco prima. Fino a quel momento non c'era stato spazio per ricordare l'ora che stavano segnando le lancette: un quarto a mezzanotte...

Afferrai un foglio nuovo e incominciai a battere la prima stanza del «Corvo» di Poe, il Voto di Fedeltà alla Bandiera Americana, qualche riga da Thomas Wolfe, il Credo e il Pater Noster, poi «La bellezza è verità, la verità è tenebra...»

Il tintinnìo dei vetri stava compiendo un rapido circuito delle finestre, intanto non mi arrivava nessun segno di vita dalla camera, silenzio assoluto. Finalmente le vibrazioni si concentrarono sulla porta esterna della cucina, ora mi giungeva lo scricchiolìo del legno e del metallo sottoposti a una forte pressione.

Pensai: in questo momento stai facendo la guardia. Stai facendo la guardia per te e per Max. E subito dopo arrivò un secondo pensiero: Se aprirai la porta, se GLI dai il benvenuto, se apri la porta della cucina e poi quella della camera, ti risparmierò, non ti farà niente.

A più riprese fui costretto a combattere quest'ultimo pensiero e la tentazione, che l'accompagnava. Non mi sembrava di essere io a formularlo, era come se mi venisse dall'esterno. Ripresi a battere: Ford,

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Buick, i nomi di tutte le automobili che riuscivano a venirmi in mente, Oldsmobile, Overland; continuai a battere, tutte le parolacce in uso nei bar, tutto l'alfabeto, in minuscole prima, e poi di nuovo con le maiuscole. Continuai a battere: i numerali e le punteggiature, i tasti in fila„da sinistra a destra, dall'alto verso il basso, poi alternativamente dai due lati. Avevo riempito il foglio e, quando uscì dai rulli, seguitai a battere meccanicamente, producendo segni lucidi neri di inchiostro sul nero opaco della gomma.

Ma alla fine l'impulso si fece irresistibile. Mi alzai e, nel silenzio improvviso, attraversai il corridoio e mi avvicinai alla porta di servizio della cucina, con gli occhi fissi sul pavimento, e intanto, continuando a cercare di resistere, trascinavo ogni passo più a lungo che mi fosse possibile.

Le mani mi andarono al pomello e alla chiave dal lungo manico infilata nella serratura. Premevo con il corpo la porta che pareva gonfiarsi verso di me, in modo da darmi l'impressione che soltanto il mio peso le impedisse di spalancarsi, frantumata in una pioggia di schegge di legno e di vetro.

Da molto lontano, come da un altro universo, mi giunsero i rintocchi dell'orologio dell'Università. Uno... Due...

E allora, incapace di resistere più a lungo, girai il pomello e la chiave, contemporaneamente.

Le luci si spensero.Nel buio più assoluto, la porta mi si spalancò addosso e qualcosa mi

sfiorò passandomi davanti e oltre, come un turbine di vento freddo e nero.Sentii aprirsi la porta della camera.L'orologio stava finendo di suonare l'ora. Undici... Dodici...E poi...Niente, niente del tutto. Ogni sollecitazione mi aveva lasciato. Ero

cosciente soltanto di essere rimasto solo, completamente solo. Lo sapevo, lo sentivo dal profondo.

Dopo qualche... minuto, credo, richiusi e serrai quella porta, poi mi mossi cauto nel buio ad aprire un cassetto per frugarci e trovare una candela che accesi e portai con me attraverso l'appartamento, fino alla camera da letto.

Max non c'era. Sapevo da prima che non l'avrei trovato. Non avevo neanche la possibilità di sapere come e quanto le mie azioni lo avessero danneggiato. Mi sdraiai sul letto e dopo un poco incominciai a

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singhiozzare, e dopo un altro poco mi addormentai.

***

Il giorno, dopo parlai al custode del guasto all'impianto elettrico. Mi guardò con un'espressione curiosa.

- Me ne sono accorto, - mi disse poi. - Ho sostituito il fusibile stamattina. L'altro era conciato come non mi era mai capitato di vedere in vita mia. Si era persino rotto il vetro di protezione, e l'interno della cassetta era tutto spruzzato di metallo fuso.

Quel pomeriggio mi arrivò il messaggio di Max. Ero uscito per rilassarmi con una passeggiata nel parco, e ora me ne stavo a sedere su una panchina a guardare l'acqua della laguna che si arricciava sotto la brezza. A un certo momento ebbi la sensazione di qualcosa che mi stesse bruciando contro il petto, sotto la giacca. Lì per lì pensai di aver lasciato cadere proprio lì dentro il mozzicone della sigaretta ancora acceso. Ci infilai in fretta la mano e toccai qualcosa che scottava, nella tasca interna. Era il foglio di carta verde che mi aveva dato Max. Ne uscivano sottili spirali di fumo. Lo aprii, svelto, e lessi, scarabocchiate in caratteri che si annerivano rapidamente, queste parole:

«Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere sapere che me la sono cavata bene. Appena in tempo. Ora sono di nuovo con la mia squadra. Non si sta poi tanto male. Grazie per l'azione di retroguardia».

I caratteri, scritti a mano, (o scritti con il pensiero..?) erano identici a quelli che gli avevo visto buttar giù a casa mia, in cima e in fondo al foglio. Il quale all'improvviso prese fuoco del tutto, costringendomi a gettarlo lontano. Due ragazzi che stavano varando un modellino di barca a vela si voltarono a fissarmi, incuriositi. Io seguivo con gli occhi il progressivo fiammeggiare, annerirsi, incenerirsi, disintegrarsi del messaggio di Max...

Conosco quanto basta di chimica per sapere che, spalmando sulla carta del fosforo umido, quando questo sarà bene asciutto la carta prende fuoco. E so anche che esistono dei liquidi incolori usati per ottenere una scrittura invisibile che si rivela soltanto se esposta a un forte calore. Possibilità di questo tipo sono note: scrittura chimica, ecc.

E ora avevo scoperto la "scrittura mentale", un'espressione che invento io. Scrivere da lontano, il senso letterale della parola "telegramma".

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E ci può essere anche una combinazione dei due sistemi: la scrittura chimica attivata dal pensiero anche da lontano... da molto lontano.

Non lo so. Proprio non so cosa pensare. Quando rivedo quell'ultima sera con Max, ci sono dei momenti che ancora mi lasciano incerto. Ma almeno su una parte di quell'episodio non posso avere dubbi.

Quando la compagnia, da Sol, mi chiede. «Che ne è di Max?» mi limito ad alzare le spalle.

Ma quando loro incominciano a chiacchierare di ritirate che hanno protetto, azioni di retroguardia a cui hanno partecipato, io ricordo la mia. Con loro non ne ho mai parlato, lo tengo per me, ben sicuro di essere stato uno dei protagonisti.

Traduzione di Mario N. Leone

L'ULTIMO GIORNOdi Richard Matheson

Esploratore lucidissimo di una vena fantastica che si può idealmente collocare tra la «horror story» e l'anticipazione, Richard Matheson è senz'altro uno dei pochi autori di fantascienza universalmente conosciuti anche al di fuori di una cerchia specialistica. In misura preponderante, Matheson deve la sua popolarità alla fortunata trasposizione cinematografica di opere fuori dell'ordinario, quali «I am a Legend» (I vampiri) e «The Shrinking Man» (Tre millimetri al giorno), nonché alla sua stessa intensa attività di sceneggiatore per il cinema e la televisione (con al suo attivo, tra una miriade di titoli, l'indimenticabile «Duel» firmato da Steven Spielberg). Ma, forse, l'apporto più consistente dato da Matheson alla science fiction resta l'architettura sorprendente e la perfezione formale dei suoi racconti, molti dei quali considerati (come quello da noi scelto: «The Last Day») veri e propri classici.

Si svegliò e il suo primo pensiero fu: la notte è passata. Aveva dormito per una buona metà.

Disteso là sul pavimento, rimase a fissare il soffitto. Le pareti erano rischiarate dal riflesso rossastro che arrivava dall'esterno. Nel soggiorno

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non si udiva altro suono che quello di un profondo russare.Si guardò attorno. Per tutta la stanza c'erano corpi distesi in pose

scomposte. Sul divano, oppure accasciati sulle poltrone, o rannicchiati sul pavimento.

Si sollevò su un gomito e trasalì, per le fitte che subito avvertì all'interno del cranio. Chiuse gli occhi e per un momento li tenne così, serrati. Poi, li riaprì. Fece scorrere la lingua contro il palato riarso. Aveva ancora in bocca un sapore sgradevole di liquori e di cibo.

Appoggiato sul gomito, continuò a guardarsi attorno, mentre la sua mente registrava a poco a poco la scena.

Nudi entrambi, Nancy e Bill giacevano l'una nelle braccia dell'altro. Norman era raggomitolato in una poltrona, la faccia scarna tesa perfino nel sonno. Mort e Mel erano distesi sul pavimento, coperti da tappetini sudici. Russavano entrambi. E c'erano altri, là in terra.

Fuori, il chiarore rossastro.Guardò la finestra e, istintivamente, deglutì. Batté le palpebre. Abbassò

lo sguardo per contemplare la sua lunga persona. Tornò a deglutire.Sono vivo, pensava, ed è tutto vero.Si sfregò gli occhi, poi prese un lungo respiro. Nell'appartamento

stagnava un'aria soffocante, stantia.Nel tentare di alzarsi, urtò un bicchiere. Liquore e acqua di soda si

versarono sulla moquette e vennero subito assorbiti dalla trama blu scuro.Guardò, là intorno, gli altri bicchieri, rotti, allontanati a calci, scagliati

contro le pareti. Guardò le bottiglie, tutte vuote, sparse un po' dappertutto.Rimase là, sempre a fissare intorno a sé. Guardava il giradischi

capovolto, gli album sparpagliati un po' dappertutto, i frammenti di dischi spezzati che sembravano formare assurdi disegni sulla moquette.

Ora ricordava.Era stato Mort a cominciare. Mort, che all'improvviso era corso verso il

giradischi e si era messo a urlare, ubriaco com'era: «A che cavolo serve più, la musica! È soltanto rumore!»

E, puntata con forza la scarpa contro il mobiletto del giradischi, lo aveva rovesciato contro la parete. Aveva mosso un passo, barcollando, ed era finito in ginocchio. Si era rialzato a fatica, con il giradischi tra le braccia bovine; poi sollevato l'intero mobiletto l'aveva rovesciato del tutto, ricominciando a tirargli calci.

«All'inferno la musica!» urlava intanto. «Già io non l'ho mai potuta

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soffrire!»Infine aveva cominciato a sfilare i dischi dalle buste degli album e dalle

copertine, e a spezzarli via via su un ginocchio.«Forza!» gridava agli altri, incitandoli. «Spacchiamo tutto!»E la cosa aveva preso piede. Proprio come, da alcuni giorni a quella

parte, avevano attecchito le idee più folli.Mel era balzato in piedi, piantando lì di fare l'amore con una ragazza, e

s'era messo a scagliare dischi dalle finestre, mandandoli a fracassarsi in briciole dall'altro lato della strada. E Charlie aveva messo da parte per un momento la sua pistola per starsene anche lui presso una finestra a cercare di colpire la gente per la strada, lanciando dischi.

Richard era rimasto a osservare i dischi neri rimbalzare e fracassarsi sui marciapiedi sottostanti. Ne aveva perfino lanciato uno lui. Poi, aveva voltato le spalle, lasciando che gli altri imperversassero. Si era portato la ragazza di Mel di là in camera e insieme, per pochi istanti, avevano dimenticato quello che stava accadendo al loro mondo.

Ripensava proprio a questo, mentre stava là titubante nella luce rossastra della stanza.

Chiuse per un attimo gli occhi.Poi, guardò Nancy, e ricordò d'avere preso anche lei, a un certo punto,

nella confusione di ore selvagge in cui si confondevano l'ieri e la notte appena trascorsa.

Nancy gli appariva spregevole, ora. Era sempre stata un po' animalesca. Prima, però, aveva dovuto velarla, quella sua natura. Ora, nel crepuscolo finale di qualsiasi cosa, poteva rotolarsi nella sola cosa di cui in realtà le fosse mai importato. Richard si domandava se al mondo fosse rimasto ancora qualcuno in possesso di una vera dignità. Di quella dignità che sopravviveva anche quando non era più necessario fare buona impressione sugli altri.

Scavalcò il corpo di una ragazza addormentata. Addosso, lei aveva soltanto lo slip. Richard gettò uno sguardo alla massa di capelli arruffati, al rossetto sbavato, al cipiglio di tensione e di infelicità impresso sul volto.

Gettò un'altra occhiata, nel passarvi davanti, nella stanza da letto. Nel letto c'erano tre ragazze e due maschi.

In bagno trovò il cadavere.Era gettato con noncuranza nella vasca, e la tenda della doccia era stata

tirata giù per coprirlo. Soltanto le gambe spuntavano, grottescamente

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penzolanti da sopra l'orlo della vasca.Scostò la tenda e contemplò la camicia inzuppata di sangue, il viso

bianco, immobile.Charlie.Scosse la testa, poi si voltò e andò a lavarsi la faccia e le mani al

lavandino. Non che avesse importanza. Niente aveva importanza. All'atto pratico, Charlie era uno dei fortunati, a questo punto. Uno della legione di coloro che avevano messo la testa nel forno, o si erano tagliati i polsi, o l'avevano fatta finita in uno dei tanti modi accettati del suicidio.

Mentre guardava la sua faccia stanca riflessa nello specchio, pensò di tagliarsi i polsi. Ma sapeva che non ne sarebbe stato capace. Perché, per trovare il coraggio di distruggere se stessi, la disperazione non basta.

Si dissetò con un po' d'acqua. Per fortuna, pensò, l'acqua corrente c'è ancora. Era convinto che non vi fosse rimasto più nessuno a occuparsi degli impianti idrici. Né di quelli elettrici, o del gas, o telefonici, né di nessun altro tipo di impianto o servizio.

Chi poteva essere tanto pazzo da lavorare, il giorno della fine del mondo?

***

Spencer era in cucina, quando Richard vi entrò.In mutande, sedeva vicino al tavolo di cucina e si guardava le mani. Sul

fornello stavano friggendo delle uova. È evidente che il gas funziona ancora, pensò Richard.

- Ciao, - disse a Spencer.Spencer rispose con un brontolio, senza neppure alzare la testa.

Continuava a fissarsi le mani. Richard lasciò perdere. Abbassò un poco il gas, tirò fuori il pane dalla credenza e lo mise nel tostapane elettrico. Ma il tostapane non funzionava. Lui, con un'alzata di spalle, non ci pensò più.

- Che ore sono? - Spencer aveva rialzato la testa, nel fargli quella domanda.

Richard guardò il suo orologio. - S'è fermato, - disse. Rimasero a fissarsi.

- Ah. - disse Spencer. Poi domandò: - Che giorno è? Richard ci pensò. - Domenica, credo.

- Chissà se la gente va in chiesa, - disse Spencer.

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- Chi se ne frega? Richard aprì il frigorifero.- Non ci sono più uova, - disse Spencer.Richard richiuse la portiera. - Niente più uova, - ripeté, con voce spenta.

- Niente più polli. Niente di niente.Si appoggiò alla parete, con un sospiro e un brivido, e rimase a

contemplare il cielo rosso al di là della finestra.Mary, pensava. Mary, che avrei dovuto sposare. Che ho lasciato andare.

Si domandava dove fosse. Si domandava se stesse pensando a lui.Norman entrò, arrancando, ancora intontito dal sonno e dai postumi

dell'ubriachezza. Stava a bocca aperta. Sembrava inebetito.- 'giorno, - biascicò.- Buongiorno, buona domenica, - disse Richard, senza allegria.Norman lo guardò senza comprendere. Poi andò verso il lavello di

cucina e si sciacquò la bocca. Sputò l'acqua giù per lo scarico.- Charlie è morto, - disse.- Lo so, - rispose Richard.- Ah. Quando è successo?- Ieri sera, - disse Richard. - Tu eri completamente partito. Non ti

ricordi? Continuava a ripetere che avrebbe sparato a tutti. Che ci avrebbe liberati delle nostre sofferenze.

- Già, - disse Norman. - Ricordo che mi appoggiava la canna contro la tempia, dicendo: senti com'è fredda.

- Be', è scoppiata una lite tra lui e Mort, - disse Richard. -È partito un colpo. - Alzò le spalle. - E buonanotte.

Si fissavano l'un l'altro, senza espressione.Poi, Norman girò la testa e guardò fuori della finestra. - È ancora lassù, -

mormorò.Ora fissavamo tutti e tre l'enorme palla fiammeggiante nel cielo, che

stava spingendo in là il sole, la luna e le stelle.Norman distolse lo sguardo, deglutendo involontariamente. Le labbra gli

tremavano e lui si sforzava di serrarle. - Gesù, - disse poi. - È oggi.Tornò a fissare verso il cielo. - Oggi, - ripeté. - Tutto.- Tutto, - ripeté Richard.Spencer si alzò e spense il gas. Guardò per un momento le uova, poi

disse: - E queste perché diavolo le ho fritte?Le gettò nell'acquaio e quelle slittarono unticce sopra la superficie

candida. I tuorli si ruppero, spargendo liquido giallo fumante sopra lo

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smalto.Spencer si morse le labbra. Assunse un'espressione dura. - La prendo

ancora una volta, - disse, all'improvviso.Si spinse oltre Richard, lasciando cadere a terra i calzoncini intanto che,

dalla cucina, svoltava nel corridoio.- Diamo un addio a Spencer, - disse Richard.Norman sedette vicino alla tavola. Richard rimase a fissare la parete.Di là nel soggiorno, udirono improvvisamente Nancy gridare con tutta la

forza della sua voce stridente: - Ehi, svegliatevi voi! Guardatemi mentre lo faccio. Guardatemi, dico a tutti, guardatemi!

***

Norman guardò per qualche istante verso la porta della cucina. Poi qualcosa cedette dentro di lui, che crollò in avanti sulla tavola, abbandonando la testa sulle braccia. Le gracili spalle sussultavano.

- L'ho fatto anch'io, - disse con voce rotta. - L'ho fatto anch'io. Oh, Dio, perché sono venuto qui?

- Sesso, - rispose Richard. - Come tutti quanti noi. Pensavi di poter finire così, in preda all'estasi carnale e all'alcool.

La voce di Norman risonava smorzata. - Non posso morire così, - singhiozzava. - Non posso.

- Due o tre miliardi di persone lo stanno facendo, - disse Richard. - Quando il sole ci investirà, staranno facendo la stessa cosa. Che spettacolo!

Il pensiero di un'umanità intera nell'atto di abbandonarsi ad un'ultima orgia animalesca lo fece rabbrividire. Chiuse gli occhi, premette la fronte contro la parete e si sforzò di dimenticare tutto.

Ma la parete era calda.Norman sollevò la testa dal tavolo. - Andiamo a casa, - disse.Richard lo guardò. - A casa? - ripeté.- Dai nostri genitori. Da mia madre e mio padre. Da tua madre.Richard scosse la testa. - Non voglio andarci, - disse.- Ma non posso andarci da solo!- Perché?- Perché... non è possibile. Sai bene che le strade sono piene di gente che

ammazza tutti quelli che incontra, così, per il gusto di farlo.

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Richard alzò le spalle.- Perché non vuoi? - domandò Norman.- Non voglio vederla.- Tua madre?- Già.- Tu sei pazzo, - disse Norman. - Chi altro c'è che...- No.Ci pensava a sua madre, a casa ad aspettarlo. Ad aspettare lui, in

quell'ultimo giorno. E lo faceva star male il pensiero di rimandare, di non rivederla forse mai più.

Ma continuava a ripetersi: come posso tornare a casa sapendo che cercherà di farmi pregare? Che cercherà di farmi leggere la Bibbia, di passare queste ultime ore in una broda di meditazioni religiose?

Lo ripeté ancora una volta, per se stesso: - No.Norman appariva smarrito. Il suo petto venne scosso da un singhiozzo

invano trattenuto. - Voglio vedere mia madre, - disse.- E tu vacci, - replicò Richard con indifferenza.Ma dentro di sé, sentiva come dei crampi. Non rivederla più. Né

rivedere la sorella, il cognato, la loro bambina.Non rivedere mai più nessuno della sua famiglia.Sospirò. Non serviva a niente lottare. Nonostante tutto, aveva ragione

Norman. Chi altro c'era, al mondo, cui rivolgersi? In un mondo intero sul punto di venire bruciato, c'era forse qualche altra persona che lo amasse al di sopra di chiunque altro?

- Oh... va bene, - disse. - Andiamo, allora. Qualsiasi cosa, pur di allontanarsi da qui.

***

Nel corridoio esterno c'era puzza di vomito. Trovarono il portinaio ubriaco fradicio sulle scale. Nell'atrio trovarono un cane, con la testa fracassata.

Si fermarono, nell'uscire dal portone dello stabile.Istintivamente, guardarono in su.Verso il cielo rosso, simile a metallo fuso. Verso frammenti infuocati

che cadevano come gocce di pioggia rovente attraverso l'atmosfera. Verso la gigantesca palla di fuoco che continuava a farsi sempre più vicina, che

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cancellava il resto dell'universo.Abbassarono gli occhi lacrimosi. Guardare faceva male.

S'incamminarono insieme lungo la strada. Il caldo era insopportabile.- Dicembre, - disse Richard, - e sembra d'essere ai tropici. Mentre

camminavano in silenzio, lui pensava ai tropici, ai poli, a tutti i paesi del mondo che non avrebbe visto mai. A tutte le cose che non avrebbe mai fatto.

Come tenere Mary tra le braccia e dirle, mentre il mondo finiva, che lui l'amava tanto e che non aveva più paura.

- Mai, - disse, sentendosi irrigidire, tanta era la sua frustrazione.- Come? - domandò Norman.- Niente, niente.Mentre proseguivano, Richard avvertì qualcosa di pesante nella tasca

della giacca. Gli batteva contro il fianco. Mise la mano in tasca per estrarne l'oggetto.

- Che cos'è? - domandò Norman.- La pistola di Charlie, - disse Richard. - L'avevo presa io, ieri sera,

perché nessun altro si facesse del male.La sua risata suonò aspra. - Perché nessun altro si facesse del male, -

ripeté, con amarezza. - Povero me, dovrei fare il comico.Stava per gettarla via, ma cambiò idea. Se la fece scivolare di nuovo in

tasca.- Potrei averne bisogno, - disse.Norman non lo ascoltava. - Grazie a Dio, nessuno mi ha rubato la

macchina. Oh...!!Qualcuno, con una sassata, aveva infranto il parabrezza.- Che differenza fa? - disse Richard.- Io... nessuna, immagino.Prima di salire, spazzarono via i frammenti di vetro dal sedile anteriore.

Si soffocava, nell'auto. Richard si sfilò la giacca e la gettò fuori, dopo avere trasferito la pistola nella tasca dei calzoni.

***

Oltrepassarono gente, per la strada, mentre Norman guidava verso il centro.

Alcuni correvano intorno disperatamente, come alla ricerca di qualcosa.

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Altri si azzuffavano. Riversi un po' dappertutto, sui marciapiedi, c'erano i morti. Gente che si era gettata dalla finestra o che era stata investita da macchine lanciate a corsa folle. Molti edifici erano in fiamme, le finestre in frantumi per l'esplosione del gas che usciva da rubinetti lasciati aperti.

C'erano anche persone che stavano saccheggiando negozi.- Ma come può mai venirgli in mente? - si meravigliò Norman, avvilito.

- È così che vogliono passare il loro ultimo giorno?- Forse è così che hanno passato tutta la loro vita, - rispose Richard.Appoggiato contro la portiera, fissava la gente all'esterno. Qualcuno gli

faceva ciao con la mano. Altri imprecavano e sputavano. Alcuni lanciavano un po' di tutto contro la loro auto.

- Gli esseri umani muoiono nel modo in cui hanno vissuto, - disse. - Alcuni bene, altri male.

- Attento! - gridò Norman, mentre una macchina sbucava a tutta velocità e veniva verso di loro, contromano. Uomini e donne si spenzolavano dai finestrini, urlando, cantando e agitando bottiglie.

Norman diede una violentissima sterzata e riuscirono, per miracolo, a evitare lo scontro.

- Ma sono impazziti? - commentò.Richard si era girato a guardar fuori dal finestrino posteriore. Vide l'altra

auto slittare, la vide sfuggire al controllo, andare a sbattere in pieno contro la vetrina di un negozio e capovolgersi su un fianco, con le ruote che giravano a vuoto, vorticosamente.

Tornò a girarsi, senza una parola. Norman continuava a fissare trucemente davanti a sé, pallido e in tensione, le mani sul volante.

Un altro incrocio.

***

Una macchina tagliò loro la strada a tutta velocità. Norman, con un'esclamazione soffocata, si gettò sui freni. Andarono entrambi a sbattere contro il cruscotto, rimanendo senza fiato. Poi, prima che Norman potesse rimettere in moto, una banda di teppisti adolescenti con mazze e coltelli sbucò da una delle strade dell'incrocio. Stavano dando la caccia all'altra macchina. Ma ecco che cambiavano direzione e si scagliavano contro quella che conteneva Norman e Richard.

Norman ingranò velocemente la prima e partì come un proiettile,

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superando l'incrocio.Uno dei ragazzi fece in tempo a salire sul baule dell'auto. Un altro tentò

di montare sul predellino, lo mancò e cadde, rotolando via attraverso la strada. Un terzo ci riuscì e, tenendosi aggrappato alla portiera dell'auto, tentò di vibrare una coltellata a Richard.

- Vi uccideremo tutti, bastardi! - urlava il ragazzo. - Figli di cani!Ritentò e, mentre Richard si scansava, per proteggersi la spalla, riuscì ad

aprire uno squarcio nello schienale imbottito.- Giù di lì! - urlò Norman, tentando di tenere d'occhio

contemporaneamente il ragazzo e la strada davanti a sé.Il ragazzo tentò di aprire la portiera mentre l'auto filava quasi a zig-zag

per Broadway. Calò un altro fendente ma il movimento dell'auto gli fece mancare il bersaglio.

- Ti ammazzerò! - urlava in un parossismo di odio irragionevole.Richard tentava di aprire la portiera per scaraventarlo giù, ma non ci

riusciva. Sempre brandendo il coltello, il giovane teppista spingeva dentro la faccia stravolta e pallida attraverso il finestrino aperto.

Richard aveva estratto la pistola, intanto. Sparò al ragazzo in piena faccia.

Il ragazzo venne scaraventato via all'indietro, con un ultimo grido, e atterrò come un sacco di pietre. Rimbalzò una sola volta, la sua gamba sinistra scalciò, poi rimase inerte.

Richard si girò per guardare.L'altro teppista, dietro, era ancora aggrappato al baule dell'auto, la faccia

da folle premuta contro il lunotto posteriore. Richard lo vedeva muovere le labbra, nel lanciare imprecazioni.

- Scrollalo via! - disse a Norman.Norman puntò verso il marciapiede, poi bruscamente sterzò, per

ritornare in mezzo alla strada. Il secondo ragazzo non mollava la presa. Norman ripeté la manovra. Il ragazzo resisteva, sempre aggrappato là.

Poi, al terzo tentativo perse l'appiglio e slittò via. Tentò di correre lungo la strada ma, trascinato dal suo stesso moto d'inerzia, finì sul marciapiede e venne proiettato con violenza verso una vetrina, le braccia tese davanti a sé per parare il colpo.

In macchina, Norman e Richard respiravano affannosamente, e per un pezzo non parlarono. Richard scaraventò la pistola dal finestrino e la guardò piombare rumorosamente sull'asfalto e rimbalzare contro un

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idrante. Norman era sul punto di fare un commento, ma rinunciò.L'auto svoltò nella Quinta Strada e proseguì verso il centro a quasi cento

all'ora. Non c'era traffico.Oltrepassarono chiese. Dentro, la gente vi si affollava, riversandosi sugli

scalini esterni.- Poveri idioti, - borbottò Richard, ancora tremante. Norman prese un

profondo respiro. - Magari fossi anch'io un povero idiota, - disse.Un povero idiota che potesse credere in qualcosa.- Sarà, - disse Richard. Poi aggiunse: - Io preferirei passare il mio ultimo

giorno a credere nelle cose che ritengo vere.- L'ultimo giorno, - ripeté Norman. - Io... - Scosse la testa. - Io ancora

non ci credo, - disse. - Ho letto i giornali. La vedo con i miei occhi... quella cosa lassù. So che sta per succedere. Ma Dio! La fine?

Guardò Richard per una frazione di secondo. - E dopo, il nulla?- Non lo so, - confessò Richard.Arrivati nella 14' Strada, Norman prese in direzione est, poi attraversò

velocemente il Ponte di Manhattan. Non si fermava per nessuna ragione, manovrando per schivare cadaveri e auto fracassate. A un certo punto passò sopra un cadavere, e Richard lo vide fare una smorfia inorridita quando la ruota schiacciò la gamba del morto.

- Sono dei fortunati, - disse Richard. - Molto più fortunati di noi.Si fermarono davanti alla casa di Norman, a Brooklyn. Un gruppo di

ragazzini giocava al pallone in mezzo alla strada. Sembrava che non si rendessero conto di quanto stava per accadere. Le loro grida risonavano molto forti nella via silenziosa. Richard si domandò se i genitori sapessero dov'erano i loro bambini. E se se ne curassero.

Norman lo stava guardando. - Be'...? - cominciò a dire.Richard sentì i muscoli dello stomaco contrarglisi. Non poteva

rispondere.- Non vuoi... fermarti almeno un momento da me? - domandò Norman.Richard scuoteva la testa. - No, - disse. - È meglio che vada a casa. Io...

dovrei vederla. Mia madre, dico.- Ah. - Norman assentiva. Poi si eresse nella persona, imponendo a se

stesso una calma momentanea. - Per quello che vale, Dick, - disse, - ti considero il mio migliore amico e...

Perse il filo. Si limitò ad afferrare e a stringere la mano di Richard. Poi, si spinse fuori dall'auto, lasciando la chiave infilata nell'accensione.

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- Addio, - disse in fretta.Richard guardò l'amico fare di corsa il giro della macchina e dirigersi

verso il portone. Quando l'altro stava ormai per sparire nell'interno, gli gridò: - Norm!

Norman si fermò, si voltò. I due si fissarono a lungo. Tutti gli anni passati da quando si conoscevano parvero guizzare tra loro.

Poi, Richard riuscì a sorridere. Si toccò la fronte in un ultimo saluto.- Addio, Norm, - disse.Norm non sorrideva. Si spinse oltre il portone e scomparve.Richard rimase a lungo a fissare il portone. Riaccese il motore, poi tornò

a spegnerlo, pensando che i genitori di Norman potevano non essere in casa.

Dopo un po', tornò a rimettere in moto e cominciò il tragitto verso casa.

***

Mentre guidava, continuava a riflettere.Quanto più la fine si avvicinava, tanto meno lui sentiva la forza di

affrontarla. Voleva soltanto farla finita subito. Prima che cominciassero le scene di isterismo.

Sonnifero, pensò. Era la via d'uscita migliore. A casa ne aveva. Sperava che fosse rimasto un numero di pastiglie sufficiente. Poteva non essercene più, nella farmacia all'angolo. Durante quegli ultimi giorni, c'era stato un vero assalto alle farmacie, per l'acquisto di barbiturici. Intere famiglie si riunivano per prenderli, insieme.

Arrivò a casa senza altre avventure. In alto, il cielo era di un porpora incandescente. Il calore si avvertiva a tratti, sulla faccia, come ondate provenienti da un forno distante. Respirare, nell'aria surriscaldata, causava un senso di malessere ai polmoni.

Richard apri con la sua chiave la porta di casa ed entrò, lentamente.Probabilmente la troverò nel soggiorno, pensava. Circondata dai suoi

libri, a pregare, a esortare poteri invisibili di soccorrerla, mentre il mondo si prepara ad arrostire.

Non era nel soggiorno.La cercò in tutta la casa. Mentre la cercava, il cuore gli batteva sempre

più forte, e quando si accertò che veramente lei non c'era, provò come un gran senso di vuoto allo stomaco. Sapeva che tutti i suoi discorsi sul non

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volerla rivedere erano stati soltanto chiacchiere. Le voleva bene, ed era la sola che gli fosse rimasta, ormai.

Cercò un messaggio di lei nella camera della madre, nella sua, in soggiorno.

- Mamma, - ripeteva. - Mamma, dove sei? Trovò il biglietto in cucina. Lo prese, sulla tavola:

Richard caro,sono a casa di tua sorella. Vieni là, ti prego. Non farmi passare l'ultimo

giorno senza di te. Non farmi lasciare questo mondo senza rivedere la tua cara faccia. Ti prego.

L'ultimo giorno.Era là, nero sul bianco. Ed era stata proprio sua madre, tra tanti, a

scrivere quelle parole. Lei che era sempre stata così scettica verso i suoi gusti per le scienze materiali, ora, proprio lei, ammetteva la realtà dell'ultima predizione scientifica.

Perché neanche lei poteva più dubitare. Perché il cielo era riempito da quella prova fiammeggiante e nessuno poteva dubitare più.

L'intero mondo sul punto di sparire. Lo sconcertante insieme di evoluzioni e rivoluzioni, di conflitti e di scontri, di interminabili continuità di secoli che scorrevano risucchiati nella nebulosità del passato, di rocce, di alberi, di animali e di uomini. Tutto destinato a sparire. In un baleno, in un istante. L'orgoglio, la vanità del mondo dell'uomo ridotti in cenere dal capriccio di un disordine astronomico.

Qual era lo scopo di tutto, allora? Nessuno, assolutamente nessuno. Poiché tutto era arrivato alla fine.

Prese i barbiturici dall'armadietto dei medicinali e uscì di casa. In macchina, andò fino da sua sorella, sempre pensando a sua madre mentre percorreva strade ingombre di tutto, dalle bottiglie vuote ai cadaveri.

Se soltanto non lo avesse atterrito il pensiero di dover discutere con lei anche l'ultimo giorno. Di disputare su Dio e tutte le altre convinzioni di lei.

Prese la ferma decisione di non discutere. Avrebbe imposto a se stesso di fare di quell'ultimo giorno un giorno di pace. Avrebbe accettato l'ingenua devozione materna, senza fare del sarcasmo su quella fede.

Da Grace, il portoncino di strada era chiuso. Richard suonò il campanello e, dopo un momento, udì dei passi frettolosi all'interno.

Sentì anche la voce di suo cognato Ray gridare: - Non apra, Mamma! Potrebbe essere di nuovo quella banda di teppisti!

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- È Richard, lo so che è lui! - risonò, di rimando, la voce di sua madre.Poi la porta venne aperta, e ora lei lo stava baciando, e piangeva di

felicità.Lui, da principio, non riusciva a parlare. Alla fine, mormorò

teneramente: - Ciao, Mamma.La sua nipotina Doris giocò per tutto il pomeriggio in anticamera mentre

Grace e Ray sedevano immobili nel soggiorno, a fissarla.Se fossi con Mary, continuava a pensare Richard. Se soltanto fossimo

insieme, oggi. Poi si disse che magari avrebbero avuto un bambino. E ora gli sarebbe toccato starsene lì a sedere, come Grace, sapendo che i pochi anni vissuti dalla sua creatura sarebbero stati anche gli unici.

Il cielo si faceva più vivido, via via che la sera avanzava, e come percorso da correnti di un rosso intenso. Ora Doris se ne stava buona buona presso la finestra, a guardarlo. Non aveva riso né pianto, in tutta la giornata. E Richard pensava tra sé: la piccola sa.

E pensava, anche, che da un momento all'altro sua madre avrebbe chiesto a tutti loro di pregare insieme. Di sedersi a leggere la Bibbia, e di sperare nella divina provvidenza.

Ma lei non diceva niente. Sorrideva. Preparava la cena. Richard andò a tenerle compagnia in cucina, mentre lei preparava per tutti.

- Non so se aspetterò, - le disse. - Forse... prenderò delle pillole per dormire.

- Hai paura, caro?- Tutti hanno paura.Lei scosse la testa. - No, non tutti, - disse.Ecco, pensò Richard, ci siamo. L'espressione tronfia, l'inizio della solita

predica.Lei gli diede da portare il piatto del contorno e tutti si misero a tavola,

per mangiare.Durante la cena nessuno di loro parlò, se non per chiedere pane o altro.

Doris non disse neppure una parola. Richard sedeva di fronte a lei, a tavola, e la osservava.

Stava pensando alla notte precedente. Il bere fino all'assurdo, le liti, l'orgia carnale. Pensava a Charlie morto nella vasca da bagno. All'appartamento di Manhattan. A Spencer, che tentava di chiudere la propria vita in un vero parossismo di lussuria. Al ragazzo che giaceva morto in una strada di New York, con una pallottola nel cranio.

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Sembravano tutti così lontani. Quasi finiva per convincersi che il tutto non fosse mai accaduto. Per convincersi che quello fosse un pasto serale come tanti altri, in famiglia.

Salvo per il chiarore color ciliegia che inondava il cielo e la stanza, entrando dalle finestre come un riflesso proveniente da un caminetto magico.

***

Verso la fine del pasto Grace andò di là e tornò con una scatola che aprì, dopo essersi rimessa a sedere. Prese dalla scatola delle pillole bianche. Doris la guardava, i grandi occhi attenti, interrogativi.

- Queste sono caramelle, - le spiegò Grace. - Ora mangeremo tutti un po' di queste caramelline bianche, come dolce.

- Sono mentine? - domandò tranquillamente Doris.- Sì, - disse Grace. - Sono proprio mentine.Richard si sentì rizzare i capelli mentre Grace le metteva davanti a

Doris. Davanti a Ray.- Non ne abbiamo a sufficienza per tutti, - disse poi, rivolta a Richard.- Ho le mie, - rispose lui.- Basteranno anche per la mamma?- Io non ne prendo, - disse la madre.In tensione com'era, Richard per poco non inveì contro di lei, non le urlò

di smetterla di mostrarsi così maledettamente eroica e altruista. Ma si trattenne. Fissava, inorridito e affascinato, Doris che teneva le pillole nella manina.

- Queste non sono mentine, mamma, - disse la piccola. - Non sono mentine...

- Sì che lo so. - Grace prese un profondo respiro. - Mangiale tesoro.Doris ne mise una in bocca. Fece una smorfia, poi la sputò nel palmo. -

Non sanno di menta, - disse, sconvolta.Grace si portò una mano alla bocca, addentandosi le nocche. I suoi occhi

cercarono disperatamente Ray.- Mangiale, Doris, - disse Ray. - Mangiale, su, sono buone. Doris

cominciò a piangere. - No, non mi piacciono.- Mangiale!Bruscamente Ray si girò in là, tremando da capo a piedi. Richard tentava

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di immaginare un modo per indurre la bambina a mandar giù le pillole, ma non ci riusciva.

Poi, sua madre parlò. - Ora facciamo un gioco, Doris, - disse. - Vediamo se sai mandar giù tutte le caramelline prima che io conti fino a dieci. Se ci riesci, ti darò un dollaro.

Doris tirò su col nasino. - Un dollaro? - disse.La madre di Richard assentì - Uno, - cominciò a contare.Doris non si mosse.- Due, - disse la madre di Richard. - Un dollaro-Doris si asciugò una

lagrima. - Un... dollaro, nonna?- Sì, cara. Tre, quattro, sbrigati.Doris allungò la manina verso le pillole.- Cinque... sei... sette...Grace sedeva immobile, a occhi chiusi. Era pallidissima.- Nove... dieci...La mamma di Richard sorrideva, ma le labbra le tremavano e c'era un

luccichio nei suoi occhi. - Là, - disse, allegramente. - Hai vinto tu, brava Doris!

***

Improvvisamente Grace si ficcò le pillole in bocca e le inghiottì, in rapida successione. Guardò Ray. Lui allungò una mano tremante e le mandò giù a sua volta. Richard mise la mano in tasca per prendere le sue, ma poi tornò a estrarla. Non voleva farsi vedere da sua madre, mentre le prendeva.

Doris venne colta quasi immediatamente dalla sonnolenza. Sbadigliava e faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Ray la prese in braccio e lei gli appoggiò la testa sulla spalla, mettendogli le piccole braccia attorno al collo. Grace si alzò e tutti e tre se ne andarono di là, in camera.

Richard rimase al suo posto mentre sua madre andava anche lei di là, per salutarli. Seduto là, fissava la tovaglia bianca, e i resti della cena.

La madre, quando tornò, gli sorrise. - Mi dai una mano a lavare i piatti?- A lava...? - stava per dire lui; ma si trattenne. Che differenza c'era, nel

fare una cosa piuttosto che l'altra?Stette con lei nella cucina invasa di luce rossa, avvertendo un acuto

senso di irrealtà mentre asciugava piatti che nessuno avrebbe più usato e li

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riponeva nello stipo che, di lì a qualche ora, non sarebbe esistito più.Non poteva smettere di pensare a Grace e a Ray, di là in camera. Alla

fine, lasciò la cucina senza dire una parola e andò di là. Aprì la porta della camera da letto e guardò nell'interno. Rimase per un pezzo a contemplarli, tutti e tre. Infine richiuse l'uscio e tornò a passi lenti verso la cucina. Fissò sua madre.

- Sono già...- Bene, - disse la madre.- Perché non hai detto niente? - le domandò. - Come mai li hai lasciati

fare, senza dire niente?- Richard, ciascuno deve scegliere da sé la propria strada, in un giorno

come questo. Nessuno può dire agli altri che cosa fare. Doris era la loro bambina.

- E io sono il tuo...- Tu non sei più un bambino, - disse lei.Richard finì di asciugare i piatti, con dita torpide e tremanti. - Mamma, a

proposito di ieri sera... - cominciò a dire.- Non voglio sapere niente.- Ma...- Non ha importanza, - disse lei. - Questa parte sta per finire. Ecco,

pensò lui, quasi con dolore. Questa parte. Ora lei avrebbe parlato dell'aldilà, del paradiso, della ricompensa per i giusti e dell'eterno castigo per i peccatori.

- Andiamo a sederci all'aperto, sotto il portico. - disse lei. Richard non capiva. Attraversò con lei la casa immersa nel silenzio. Sedette accanto alla madre, sugli scalini del portico, pensando: Non rivedrò più Grace. Né Doris. Né Norman, né Spencer, né Mary.

Non riusciva ad assorbire il tutto. Era troppo. Tutto quello che poteva fare era starsene seduto là, come un pezzo di legno, a guardare il cielo rosso e il sole immenso che stava per inghiottirli. Non riusciva più nemmeno a sentirsi nervoso. I timori erano come attutiti dall'interminabile ripetizione.

- Mamma, - domandò, dopo un silenzio, - perché... perché non mi hai fatto nessun discorso di religione? Eppure devi averne voglia, lo so.

Lei lo guardò, e il suo volto era dolcissimo nel chiarore rosso. - Non ce n'è bisogno, caro - disse. - So che saremo insieme, quando tutto sarà finito. Non occorre che anche tu lo creda. Lo crederò io, per tutti e due.

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E quello fu tutto. Richard la guardava, senza parole davanti alla sicurezza di lei.

- Se ora vuoi prendere quelle pillole, - aggiunse la madre, - fai pure, caro. Potrai addormentarti con la testa sulle mie ginocchia.

Lui si sentiva tremare da capo a piedi. - Non ti dispiacerebbe?- Voglio che tu faccia quello che ritieni sia meglio. Richard non sapeva

che fare, finché non pensò a lei seduta là, sola, al momento della fine.- Resterò con te, - disse.La madre sorrise. - Se cambi idea, - raccomandò, - puoi dirmelo.Rimasero in silenzio per un poco. Poi, lei disse: - È bello.- Bello? - ripeté Richard.- Sì. Dio chiude un sipario rosso sulla nostra commedia.Richard non sapeva rispondere. Ma circondò con le braccia le spalle

della madre e lei gli si appoggiò contro. E di una cosa, almeno, era certo.Sedevano là, nella sera dell'ultimo giorno. E, sebbene in fondo non vi

fosse alcuno scopo, si amavano.Traduzione di Hilia Brinis

LOROdi Robert Heinlein

Astro della fantascienza degli anni d'oro, punta di diamante della scuderia di Astounding, detentore di un record difficilmente uguagliabile in quanto a premi Hugo (quattro) vinti nella categoria romanzo: sono solo alcuni dei titoli «nobiliari» di Robert Anson Heinlein, indubbiamente uno dei massimi artefici dell'acquisizione di un più alto livello letterario e di un più consistente rilievo narrativo da parte della science fiction. Approdato, trentaduenne, ad una repentina notorietà con il racconto «Lifeline» (1939) Heinlein è scrittore di straordinaria prolificità e di qualità costantemente considerevole; in quattro decenni d'attività sono almeno una ventina le sue opere di assoluto valore, tra cui «The Puppet Masters» (Il terrore della sesta luna), «Double Star» (Stella doppia), «Stranger in a Strange Land» (Straniero in terra straniera), «The Moon is a Harsh Mistress» (La luna è una severa maestra). Il racconto che

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pubblichiamo è uscito col titolo «They» nel 1941 sulla rivista americana «Unknown».

Loro non gli permettevano di restarsene un po' da solo. Loro non l'avrebbero mai lasciato tranquillo. Si rendeva conto che questo faceva parte della cospirazione in atto contro di lui, il non concedergli un minimo di pace, non dargli l'opportunità di analizzare le falsità che gli andavano propinando, il tempo sufficiente per scoprirne i punti deboli e discernere così quale avrebbe potuto essere la verità. Stamattina, per esempio, quel dannato inserviente! Al trotto, aveva fatto irruzione nella stanza portando il vassoio della colazione con la sua aria vispa di balorda efficienza, e così lo aveva destato all'improvviso impedendogli di ricordare il sogno che aveva appena fatto, un sogno importante, significativo.

Qualcuno stava girando la chiave nella serratura. Fece finta di non aver sentito.

- Allora, come andiamo, vecchio mio. Ho sentito che avete rifiutato la colazione. Come mai? - La benevola maschera professionale del dottor Hayward era spuntata accanto al letto.

- Non avevo fame.- Ah, no no, così non va. Vi indebolirete e non riusciremo a rimettervi in

sesto a dovere. Ora vi alzate, da bravo, vi vestite e io vi farò portare uno zabaglione. Su, su, ecco, ora andiamo meglio.

Di malavoglia, ma comunque per niente disposto in quel momento a voler provare chi fosse il più cocciuto dei due, si levò da letto e infilò l'accappatoio. - Bene, ora ci siamo, - approvò Hayward.

- Una sigaretta?- No, grazie.Il dottore scosse il capo con aria perplessa. - Non arrivo proprio a

capirvi. Questa mancanza di interesse per i piaceri materiali non è prevista, in un caso come il vostro.

- E che razza di caso sarebbe, il mio? - chiese lui, senza espressione.- Ah ah! - Ora Hayward faceva lo spiritoso. - Se i dottori raccontassero i

loro segreti professionali, arriverebbe il momento che sarebbero costretti a lavorare sul serio per vivere!

- Ho chiesto di che genere sarebbe il mio caso.- Be', che importanza può avere un'etichetta? E poi, potreste essere voi,

invece, a spiegarlo a me, no? La verità è che io del vostro caso ancora non

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so praticamente nulla. Non vi pare che sarebbe ora di decidersi a parlarmene?

- Giochiamo a scacchi.- E va bene, d'accordo. - Hayward abbozzò un gesto fra l'impaziente e il

permissivo. - Abbiamo giocato a scacchi tutti i giorni, da una settimana a questa parte. Se parlerete, giocherò anche oggi con voi.

Che importanza poteva avere? Se le sue conclusioni erano quelle giuste, loro si erano già perfettamente resi conto che lui aveva scoperto il complotto. Non c'era da guadagnarci niente a voler nascondere quanto appariva ovvio. Che provassero pure a cercare di persuaderlo del contrario. Che cosa poteva perderci, ormai? All'inferno!

Tirò fuori i pezzi del giuoco e incominciò a sistemarli. - Che avete capito del mio caso, finora?

- Ben poco. Esame fisico, negativo. Eventuali precedenti, negativo. Alto livello di intelligenza, come dimostrano i documenti scolastici e l'ottima riuscita professionale. Qualche lieve crisi depressiva, ma niente di eccezionale. L'unica informazione significativa riguarda l'incidente che ha causato la vostra venuta qui e la decisione di curarvi.

- Che ha causato il mio internamento forzato, vorrete dire. Perché una sciocchezza del genere avrebbe dovuto provocare tanto scalpore?

- Ma insomma, santa pazienza, amico, quando uno si rinserra nella sua stanza e barrica la porta insistendo che sua moglie sta complottando contro di lui, vi pare logico che nessuno ci badi?

- Ma è vero. Lei stava complottando contro di me, proprio come voi ora. Bianchi o neri?

- Neri. È il vostro turno. Perché siete convinto che facciamo parte di un complotto ai vostri danni?

- È una faccenda complessa che ha avuto inizio durante la mia prima infanzia. C'è stato però un incidente ben preciso, in relazione... - Apri il giuoco facendo avanzare il cavaliere bianco. Hayward aveva sollevato le sopracciglia.

- Vi state «arroccando»?- Perché no? Lo sapete bene che per me è pericoloso rischiare un

«gambetto» con voi.Il dottore alzò le spalle, mentre faceva la sua mossa. - Allora vediamo di

considerare la vostra infanzia. Potrebbe illuminarci delle esperienze più recenti. Avevate l'impressione di essere perseguitato, da bambino?

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- No! - Era scattato, alzandosi a metà dalla sedia. - Quando ero piccolo mi sentivo molto sicuro di me. Lo ricordo bene, tutto mi pareva chiaro e pulito! La vita mi sembrava degna d'esser vissuta, ero in pace con me stesso e con tutto quanto mi circondava. Il mondo era gradevole, io mi sentivo buono e mi pareva logico che tutte le creature attorno a me dovessero assomigliarmi.

- E non era così?- Ma per niente! In modo particolare i bambini. Non avevo mai saputo

cosa fosse la cattiveria finché non venni messo insieme ad altri della mia età. I piccoli demoni! E io avrei dovuto essere come loro, far comunella con loro.

Il dottore annuì. - Capisco. L'istinto di gregge. Qualche volta i bambini sono capaci di comportarsi come dei selvaggi.

- Non ci siamo capiti. Non sto parlando di quel certo salutare spirito competitivo che porta anche alla violenza, a volte. Quelle creature erano «diverse», non mi assomigliavano affatto. Il loro aspetto era uguale al mio, ma non erano come me. Quando cercavo di comunicare con uno di loro, parlare di qualcosa di molto importante per me, al massimo ottenevo delle occhiate diffidenti e una risata di scherno. E dopo non mancavano mai di inventare qualcosa per farmi pagare caro quello che avevo detto.

Hayward annuì di nuovo. - Capisco. E gli adulti che effetto vi facevano?- Qui la cosa era differente. Ai bambini importa poco degli adulti, o,

diciamo, per lo meno a me non me ne importava. Erano più grandi e non mi disturbavano, sempre occupati in faccende che esulavano dai miei interessi. Fu solo quando incominciai a notare che la mia presenza fisica li importunava, fu allora che incominciai a pormi delle domande sul loro conto.

- Come sarebbe a dire?- Be', quando ero presente io si trattenevano dal fare tutte quelle cose che

invece facevano quando io non c'ero.Hayward lo considerò attentamente. - Perché questa dichiarazione sia

valida mi sembra che occorrano delle prove. Come facevate a sapere come si comportavano, se non eravate presente?

Lui ammise che l'osservazione era giusta. - Però, non appena arrivavo io, li sorprendevo nell'atto di bloccarsi. Bastava che entrassi in una stanza perché la conversazione si arrestasse di colpo, per riprendere subito dopo con divagazioni a proposito del tempo, della salute e altri argomenti

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altrettanto futili. In seguito provai a nascondermi e ad ascoltare e guardare senza esser visto. Gli adulti si comportavano in maniera ben diversa, a seconda che io fossi presente o no.

- Ora tocca a voi, mi pare. Ma insomma, vecchio mio, questo succedeva quando eravate ancora bambino. Quando si è piccoli succede a tutti di attraversare quella fase. Ora che siete un uomo non dovreste ignorare il punto di vista degli adulti. I bambini sono esseri strani, vulnerabili, e vanno protetti. Per lo meno si cerca di proteggerli, cercando di non coinvolgerli in faccende che riguardano solo gli adulti. Esiste un codice ben nutrito di convenzioni, al riguardo, che...

- Ma sì, ma sì, - lo interruppe lui, impaziente - Queste cose le conosco benissimo. Con tutto ciò, ho notato non pochi particolari, ricordati in seguito quanto basta, che non mi è mai riuscito di chiarire. E questo mi ha messo in guardia, posto sull'avviso perché non trascurassi di notare anche quello che avrei sperimentato dopo.

- E cioè? - Mentre il dottore spostava una delle sue torri, teneva gli occhi accuratamente distolti dalla sua faccia, e lui se n'era accorto.

- La diffidenza che avevo acquisito mi ha permesso in seguito di rendermi conto che qualsiasi cosa la gente faccia o dica non è mai niente di importante. Deve esserci sotto qualcos'altro, qualcosa che mi viene nascosto.

- Davvero non riesco a seguirvi.- Diciamo che non volete seguirmi. Io vi sto raccontando tutto questo in

cambio di una partita a scacchi.- Come mai vi piace tanto giocare a scacchi?- Perché è l'unica cosa al mondo in cui io sia in grado di verificare

chiaramente tutti i fattori e di capirne le regole. Ma lasciamo perdere. Mi son visto circondato da tutta questa enorme costruzione fasulla: città, fattorie, fabbriche, chiese, scuole, case private, strade ferrate, ogni genere di merci, baracconi di luna park, alberi, sassofoni, librerie, gente, animali... Gente identica a me, esteriormente, persone che avrebbero dovuto provare più o meno gli stessi sentimenti che provo io, se quanto sentivo di dire fosse stato vero. Ma, secondo le apparenze, come passano la vita, queste persone? Vanno a lavorare per guadagnare i soldi per comprare il cibo per tenersi in forze per andare a lavorare per guadagnare i soldi per comprare il cibo per aver la forza di andare a lavorare, per guadagnare i soldi per... e così via. Finché non ci restano secchi. E qualsiasi leggera variazione in

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questo schema non ha la minima importanza, perché la conclusione è sempre quella: la morte. E tutti cercano di persuadermi che anch'io dovrei comportarmi allo stesso modo. Ma non ci sono cascato!

***

Il modo in cui lo aveva guardato il dottore dopo quel discorso poteva lasciare intendere che si rassegnava a una resa senza condizioni. Con una risata, Hayward gli disse: - Non è possibile discutere con voi. In fondo non mi sento di contraddirvi. La vita quotidiana può anche apparire così, e magari è davvero futile come voi dite. Ma è l'unica che ci è concesso di vivere. Perché poi non decidere di goderla al massimo, nei suoi limiti?

- Oh, no! - Ora lui aveva un'aria fra l'ostinato e il risentito. - È inutile che cerchiate di smerciarmi delle sciocchezze tanto per darmi ragione, tanto per voler dimostrare che vi mancano gli argomenti. Devo dirvelo, come faccio a saperlo, che mi nascondete la verità? Perché questa complessa messa in scena, questi sciami di attori che si agitano senza scopo apparente, tutto ciò non avrebbe ragione di esistere al solo scopo di permettere alla gente di scambiarsi mosse e versi idioti all'infinito. Non è certo questa, la spiegazione. Una follia della portata, della complessità di questa che mi circonda deve per forza essere stata progettata minuziosamente. E io credo di aver scoperto di che progetto possa trattarsi!

- E quale sarebbe, secondo voi?Notò che di nuovo gli occhi del dottore evitavano i suoi.- È un progetto inteso a stornare la mia attenzione, a tenermi occupata la

mente e confondermi le idee, a frastornarmi con i dettagli in modo da non concedermi il tempo perché mi riesca di arrivare al vero significato. E ci siete tutti dentro, ognuno di voi ne fa parte. - Agitò l'indice verso il dottore. - La maggior parte dei partecipanti può anche essere formata da automi ignari e impotenti, ma non voi, di certo, voi non appartenete a quelli. Voi siete uno dei cospiratori. Vi hanno mandato a me con la missione precisa di cercare di forzarmi a tornare al ruolo che mi era stato assegnato, a recitare la mia parte, zitto e buono!

Si accorse che il dottore stava aspettando che si calmasse. Alla fine Hayward riuscì a parlare. - Non accaloratevi tanto. Se fosse davvero una cospirazione, come vi piace credere, che cosa può farvi pensare che

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proprio voi siate stato scelto fra tutti per dedicarvi tutte queste attenzioni speciali? E, anche ammettendo che tutti gli uomini siano vittime di un inganno, uno scherzo crudele, non potrei anch'io essere una delle vittime, e non un cospiratore, come voi dite?

- Proprio qui vi voglio! - Hayward si vide puntare addosso il lungo indice dell'altro. - Questo è il nocciolo del complotto. Tutti questi esseri sono stati strutturati a mia somiglianza con l'unico scopo di rendermi inconsapevole di un fatto ben preciso, e cioè che sono proprio io al centro della macchinazione. Però non mi è sfuggito un fatto essenziale, matematicamente inconfutabile, che mi fornisce la chiave di tutta la situazione: io sono unico. Eccomi qui, situato nel mio interno. Tutto il resto del mondo parte da me, per estendersi in ogni direzione verso l'esterno. Sono io il centro...

- Calma, amico, calma! Come fate a non rendervi conto che anche a me il mondo fa lo stesso effetto? Che ognuno di noi ha l'impressione di trovarsi al centro dell'universo...?!

- Niente affatto. Questo è esattamente quanto avete cercato di darmi a bere, cioè che io non sia altro che uno fra milioni di altri uguali a me. È falso! Se tutti fossero come me, mi sarebbe facile comunicare con loro. Ho provato e riprovato, e non ci sono mai riuscito. Ho tentato di proiettare verso gli altri i miei pensieri più intimi, nella speranza di scoprire qualche altro essere che li condividesse. E il risultato? Che cosa ho ricevuto, in cambio? Le risposte più sbagliate, incongruità discordanti, oscenità senza senso. Ci ho provato, ve lo ripeto, e come ci ho provato! Ma non c'è niente e nessuno, là fuori, che riesca a darmi una riposta giusta, niente, solo vuoto e un senso di alienazione, di nullità, di paurosa diversità.

- Un momento. Vorreste dire che qui, di fronte a voi, non c'è nessuno, ora? Davvero non lo credete, che io sia vivo e cosciente?

Lui fissò calmo il dottore senza scomporsi. - Sì, penso che, con ogni probabilità, voi siate vivo e pensante, ma voi siete uno degli altri, i miei antagonisti. Siete stati voi a sistemarmi intorno migliaia di esseri le cui facce sono vuote, non rispecchiano alcuna vita reale, le cui parole non sono che un insensato riflesso di rumore inutile.

- Bene, ma allora, se ammettete che, in bene o in male, io possegga un ego, una personalità, come mai insistete a trovarmi tanto diverso da voi?

- Come mai? Aspettate un momento! - Si alzò e, avvicinatosi a passi decisi al guardaroba, ne estrasse una custodia da violino.

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***

Mentre suonava, il suo viso perdeva a poco a poco i segni lasciati dalla sofferenza, per rilassarsi in una espressione di beatitudine interiore. Per un poco gli riuscì di riafferrare le emozioni da cui era stato posseduto nei sogni, ma non la consapevolezza di ciò che le aveva provocate. La melodia si snodava senza forzature, da una frase all'altra, come dotata di una sua logica inevitabile. La terminò ribadendo trionfalmente il tema principale, per rivolgersi poi al dottore. - Allora?

- Mmm..., sì. - Gli parve che l'atteggiamento di Hayward rivelasse una cautela ancor maggiore di quella dimostrata poco prima. - È un pezzo strano, notevole però. Peccato non vi siate dedicato alla musica seriamente. Avreste potuto farvi un'ottima reputazione nel campo professionale. Siete ancora in tempo. Perché non provate? Porreste permettervelo, senza problemi finanziari, credo.

Si alzò e rimase in piedi a fissare il dottore senza parlare, poi scrollò il capo, come se cercasse di schiarirsi le idee. - È inutile - fece poi lentamente, - niente da fare. Non c'è modo di comunicare. Sono solo. - Ripose lo strumento nella custodia e tornò alla scacchiera. - È il mio turno, mi pare.

- Sì, attenzione alla regina.- Non è necessario. Non ho più bisogno della regina. Scacco. Il dottore

interpose una pedina per parare l'attacco.Lui annuì. - Le pedine sapete come usarle, però ormai ho imparato a

prevedere le vostre mosse. Di nuovo scacco... scacco matto, mi pare.Il dottore esaminò la nuova situazione - No, - dichiarò alla fine. - No,

non ancora. - Si ritirò dalla posizione attaccata - Non è scacco matto se mai sarà una «impasse», nel caso peggiore. Sì, un'altra «impasse».

***

La visita di Hayward lo aveva turbato abbastanza. Era certo di non sbagliarsi, fondamentalmente, eppure il dottore gli aveva fatto notare alcune incongruenze nelle sue affermazioni. Seguendo una certa logica il mondo intero avrebbe anche potuto rappresentare un'impostura perpetrata ai danni di tutti. Ma la logica qui non significava un bel niente: quella

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stessa logica non era che un altro raggiro che partiva da assunti mai provati, per cui non era difficile riuscire a provare qualsiasi cosa. Il mondo è quello che è... e reca in tutte le sue manifestazioni le prove dell'inganno.

Ma era davvero così? Su che cosa stava basando questa certezza? Si sentiva davvero in grado di tracciare una linea netta che separasse i fatti di cui poteva fidarsi da tutto il resto, e poi trarre un'interpretazione razionale del mondo soltanto da quei fatti, una interpretazione libera dalle complessità della logica e che non tenesse conto di eventuali postulati preesistenti su punti di cui non si poteva essere sicuri? Benissimo...

Il primo fattore certo: lui stesso. Aveva di sé un'esperienza diretta. Lui esisteva.

Altri elementi sicuri: le prove fornite dai suoi «cinque sensi»: tutto quello che lui stesso vedeva, sentiva, odorava, toccava e assaporava con i suoi sensi fisici. Soggetto alle loro limitazioni, non gli restava che credere a quanto gli dimostravano. Privato di essi, sarebbe rimasto nel più assoluto stato di reclusione, prigioniero di un contenitore di ossa e di carne, cieco, sordo, privo di qualsiasi contatto, si sarebbe sentito come l'unico essere vivente.

Ma non era così. Sapeva bene che le informazioni fornite dai suoi sensi non se le era inventate lui. Doveva esistere qualcos'altro, là fuori, qualche «alienità» capace di produrre gli effetti registrati dai sensi. Le filosofie tese a proclamare che il mondo materiale attorno a noi esiste, se non nella nostra immaginazione, erano sciocchezze e basta.

Ma, oltre a tutto questo, c'erano fatti ulteriori su cui potesse basare una certa fiducia? No, a questo punto, no di sicuro. Non si poteva più permettere il lusso di credere a ogni cosa che gli si diceva, o che leggeva, o che fosse implicitamente considerato vero in rapporto al mondo che lo circondava. No, non gli era possibile crederne neppure una parte, perché il totale di quanto gli era da sempre stato dichiarato, di quello che aveva letto e delle nozioni apprese a scuola, era talmente contradditorio e insensato, così apertamente pazzesco che era impossibile crederne anche solo una piccola parte, a meno che non gli fosse riuscito personalmente di provarlo.

Un momento, però... La stessa circostanza che queste bugie venissero dette, che si verificassero queste insensate contraddizioni, era un fatto da considerare, un fatto noto a lui direttamente. Sotto questo punto di vista si trattava di dati, e anche molto importanti, con ogni probabilità.

Il mondo che gli veniva mostrato era un vero campionario di

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irragionevolezze, il sogno di un idiota. Tuttavia si presentava su scala troppo colossale perché non esistesse una qualsiasi motivazione. Ed ecco che si ritrovava al punto di partenza: dal momento che il mondo reale non poteva essere davvero folle quanto appariva, era inevitabile che fosse stato ordinato, predisposto in modo da sembrarlo, e al solo scopo di nascondere a lui la verità.

Ma perché prendersi tanto disturbo solo per lui? E quale poteva essere la verità che si nascondeva dietro questa immane frode? Qualche indizio poteva trovarsi proprio nella natura dell'inganno stesso. Quale filo conduttore lo attraversava? Bene, prima di tutto gli erano state ammannite in sovrabbondanza spiegazioni di ogni genere sul mondo che lo circondava: dalle religioni alle filosofie alla grottesca logica del «buon senso». Per la maggior parte erano tesi tanto goffe, così ovviamente inadeguate, o addirittura insensate, da rendere improbabile l'idea che «loro» si aspettassero di essere presi sul serio. Forse la loro intenzione era soltanto di metterlo su delle false piste.

Eppure c'erano dei presupposti di base in comune a quelle centinaia di spiegazioni applicate alla stoltezza che lo circondava. Proprio questi dovevano rappresentare il nucleo in cui lui avrebbe dovuto credere. Una di queste asserzioni comuni a tutte le filosofie e religioni era, per esempio, che lui fosse un «essere umano», essenzialmente uguale ai milioni di altri che lo circondavano e agli altri miliardi vissuti nel passato e previsti per il futuro.

E questa era una autentica sciocchezza! Non una volta gli era riuscito di comunicare realmente con qualcuna di queste «cose» dall'aspetto tanto simile al suo, eppure tanto diverse. Nella disperazione di questa sua solitudine, si era voluto ingannare persuadendosi che almeno Alice lo capisse, che fosse una creatura come lui. Ma ora sapeva bene quanto si fosse sforzato inconsciamente per ignorare, rimuovere, fingere di non notare migliaia di piccole stonature, particolari inspiegabili coerentemente, e solo perché non avrebbe saputo sopportare l'idea di ripiombare nella più completa solitudine. Aveva avuto un estremo bisogno di convincersi che sua moglie fosse un essere vivente simile a lui, capace di intendere e di capire i suoi pensieri più intimi e profondi. Si era rifiutato di considerare la possibilità che anche lei non potesse essere altro che un riflesso, un'eco... o qualcosa di impensabilmente peggiore.

Si era trovato una compagna e il mondo era diventato tollerabile, per

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quanto noioso, stupido e costellato di irritanti meschinità. Si sentiva moderatamente felice, così aveva accantonato i suoi sospetti accettando con la massima docilità il tran tran a cui era destinato. Finché un incidente minimo per un attimo aveva smascherato la frode, e allora i suoi sospetti erano rinati con forza moltiplicata, l'amara consapevolezza acquisita nell'infanzia aveva ricevuto una conferma.

Probabilmente era stato idiota a farne una questione davanti agli altri. Se avesse taciuto non lo avrebbero rinchiuso qui.

Avrebbe dovuto comportarsi con la loro stessa furberia e sottigliezza, occhi e orecchie ben aperti per riuscire ad afferrare tutti i particolari che potessero aiutarlo a capire le ragioni del complotto. Così avrebbe anche potuto aggirarlo e riuscire ad avere la meglio. Ma che importava se invece ora si ritrovava rinchiuso. Il mondo intero era un manicomio, e «loro» i suoi guardiani.

Il rumore di una chiave che girava nella serratura gli fece alzare la testa. Era un inserviente con il vassoio della cena. - Grazie, Joe, puoi appoggiarlo lì. - Aveva usato un tono gentile.

- C'è un film, stasera, - gli annunciò l'uomo. - Forse vi piacerebbe. Il dottor Hayward dice che potreste...

- Grazie, no. Preferisco restarmene qui.- Peccato se non venite, signore. - Notò, divertito, i modi intenti,

persuasivi dell'inserviente. - Credo che il dottore ci tenga molto. È un buon film. E c'è anche un cartone animato con Mickey Mouse...

- Sei convincente, Joe, - gli rispose, passivo ma sempre cortese.- A pensarci bene, i guai di Mickey somigliano molto ai miei.

Comunque non verrò. Possono risparmiarsi di proiettare il film, stasera.- Ma lo faranno lo stesso, anche senza di voi, signore. Ci saranno molti

spettatori fra gli altri ospiti.- Davvero? Si tratta del loro perfezionismo spinto agli estremi o sei tu

che vuoi mantenere la finzione a mio esclusivo beneficio? È uno sforzo superfluo, Joe, puoi farne a meno. Conosco bene il gioco, ormai. Se non sarò presente io, non c'è motivo perché si prendano la briga di proiettare un film, stasera.

Gli andò a genio il sorriso con cui l'inserviente aveva reagito a quella stoccata. Era possibile che questo essere fosse stato concepito esattamente come appariva, una creatura muscolosa dal carattere flemmatico, tollerante, una specie di bravo cane? O invece, dietro quello sguardo

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gentile c'era soltanto il vuoto, nient'altro che i riflessi di un robot? Ma no, era molto più probabile che anche lui fosse uno di loro, dal momento che la sua funzione lo riguardava tanto da vicino.

Uscito l'inserviente, si diede da fare attorno al vassoio con il cibo, raccogliendo con il cucchiaio i bocconi di carne già tagliati. Né coltelli né forchette; nel considerare questa inutile precauzione gli sfuggì un altro sorriso. Non c'era pericolo: si sarebbe guardato bene dal distruggere il proprio corpo finché fosse stato in grado di usarlo per investigare ed eventualmente scoprire quale fosse la realtà che gli si voleva nascondere. Le probabilità da studiare erano ancora numerose e finché non le avesse esplorate tutte non avrebbe avuto alcun desiderio di adottare soluzioni irrevocabili.

Quando ebbe cenato, prese la decisione di mettere per iscritto i propri pensieri, in modo da riuscire ad esprimerli con il massimo dell'ordine e della chiarezza. Con questo proposito, si fece portare della carta. Per prima cosa avrebbe steso una dichiarazione generica riferendosi ai postulati da cui derivavano alcuni dei più vistosi «credo» martellati nella sua coscienza durante tutto il tempo in cui era vissuto. «Vissuto»? Già, buona, questa. Incominciò a scrivere.

***

Mi si è voluto far credere che io sarei nato un certo numero di anni fa, e che morirò entro un simile periodo di tempo a partire da questo momento. Per quanto riguarda la mia eventuale situazione prima della nascita, e quella che mi toccherà dopo la morte, mi è stato concesso di scegliere fra varie possibilità, una più improbabile e mal congegnata dell'altra. Tutte bugie, invenzioni maldestre, approssimative, il cui fine non è tanto il volermela dare a bere quanto quello di imbrogliare le carte. Dal mondo che mi circonda non mi viene offerta una sola versione che non dichiari certa la mia mortalità. La mia presenza qui si limiterebbe in ogni caso a pochi anni, trascorsi i quali sparirei dalla faccia della terra come se non fossi mai esistito.

Niente di vero in tutto questo! Io sono immortale. Io trascendo questo minimo segmento di tempo terreno; gli eventuali settant'anni che lo comporranno non rappresentano altro che una fase transitoria, accidentale, della mia esperienza. In secondo luogo, stabilito il dato primario che esisto

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davvero, viene la certezza convincete, in senso emotivo, della mia continuità. Può darsi che la mia vita possa essere rappresentata da una curva chiusa, ma, chiusa o aperta che sia, un fatto certo è che io non ho principio né fine. La coscienza di sé non ha relazione con fattori esterni, è un fatto assoluto, al sicuro da qualsiasi attacco, e nello stesso tempo non può essere creata artificialmente. La memoria, al contrario, non essendo che un aspetto della consapevolezza legato a fattori esterni, può essere manipolata e anche distrutta.

È anche vero che la maggior parte delle religioni che mi sono state rese note insegnano l'immortalità. Ma attenzione a come la insegnano. Non esiste metodo più sicuro per mentire in maniera convincente quanto quello di dire la verità in modo non convincente. «Loro» non volevano che ci credessi, è chiaro.

Ora facciamo attenzione: Perché avrebbero cercato con tanta perseveranza di convincermi che sarà inevitabile che io «muoia» fra pochi anni? Dev'esserci una ragione estremamente importante. Io ne traggo questa deduzione: mi stanno preparando a un prossimo cambiamento di natura drastica. Può essere vitale riuscire a capire quali siano esattamente le loro intenzioni a questo proposito. È probabile che io abbia ancora a disposizione alcuni anni, durante i quali avrò la possibilità di giungere a un risultato decisivo. Nota bene: evitare sempre di usare il tipo di ragionamento che loro mi hanno insegnato.

***

L'inserviente era tornato nella sua stanza.- C'è vostra moglie, signore.- Ditele di andarsene.- Per favore, signore... Il dottor Hayward ci tiene moltissimo, insiste

perché la riceviate.- Riferite questo al dottor Hayward: è un ottimo giocatore di scacchi.- Va bene, signore. - Un attimo di esitazione.- Allora proprio non volete vederla?- Non voglio vederla.Quando l'inserviente fu uscito, incominciò a camminare avanti e

indietro, troppo agitato per riuscire a riprendere le sue note. In complesso non era stato trattato male, da quando lo avevano ricoverato. Era contento

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di avere a disposizione una stanza tutta per sé, e certo qui aveva maggior tempo per riflettere di quanto non ne avesse mai avuto fuori, a dispetto delle continue pressioni per tenerlo indaffarato e impedirgli di ragionare troppo. Usando una buona dose di ostinazione, gli era riuscito di farla in barba ai regolamenti e rubare così diverse ore al giorno per dedicarsi ai proprio pensieri.

Ma, dannazione, lo urtava troppo che insistessero a voler usare Alice nei loro tentativi di stornargli la mente dalle idee che gli premeva di mettere a fuoco. Anche se l'intenso orrore e la ripugnanza che lei gli aveva ispirato nel riscoprire la verità si erano ormai appannati, ed ora la sua presenza gli lasciava solo un certo senso di disgusto, il ricordargliela, l'esser costretto a prendere decisioni che la riguardassero, ancora lo disturbava, e non poco.

Dopo tutto, lei era stata sua moglie, e per parecchi anni. «Moglie»? Che cosa rappresentava, per lui, una moglie? Un'anima gemella, un necessario complemento, la metà indispensabile per formare una vera coppia, un santuario di comprensione e di risonanza nelle profondità sconfinate della solitudine. Questo era quanto lui aveva avuto bisogno di credere e aveva intensamente creduto per anni. Il bruciante bisogno di compagnia, una compagnia che sapesse dimostrargli affinità, gli aveva fatto vedere se stesso riflesso in quegli occhi bellissimi e gli aveva tolto qualsiasi facoltà critica nel considerare le occasionali incongruità nel comportamento di lei.

Sospirò. Sapeva di avercela fatta a eliminare la maggior parte delle reazioni emotive prefabbricate che gli avevano innestato per mezzo dei precetti e con l'esempio, ma Alice era difficile togliersela dalla pelle, aveva rappresentato qualcosa di troppo profondo, e ancora non l'aveva abbandonato il dolore per la terribile delusione provata. Era stato felice... che importava se si era trattato solo di un sogno, di una illusione? Gli avevano regalato uno straordinario, bellissimo specchio con cui giocare... il pazzo era stato lui, che aveva voluto guardarci dietro! Stancamente riprese a stendere il suo riepilogo.

***

Per giustificare l'esistenza del mondo in cui viviamo, di solito ci vengono presentate due alternative: una dettata dalla logica comune, il cosiddetto «buon senso», che vorrebbe intendere la realtà più o meno come si mostra ai nostri occhi e considerare ragionevole il comportamento

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medio degli esseri umani, comprese le motivazioni da cui deriva. Secondo l'altra, quella mitico-religiosa, il mondo percepibile è irreale, non ha vera sostanza, è qualcosa di simile a un sogno, mentre la realtà che conta esiste al di là di queste labili apparenze.

FALSE, tutte e due le interpretazioni. Quella che si ispira al «buon senso», semplicemente non ha senso alcuno, né buono né cattivo. «La vita è breve e piena di angustie. L'uomo nato da donna nasce per soffrire, così come le scintille svettano verso il cielo. I suoi giorni sono pochi, i suoi giorni sono contati. Tutto è vanità e delusione». Queste citazioni saranno confuse e scorrette, ma rappresentano il ritratto più onesto, l'unico accettabile del mondo del «buon senso», un mondo che sarebbe esattamente come ci appare. In un mondo del genere, fare degli sforzi, lottare, non ha maggior razionalità delle cieche sfrecciate di una farfalla notturna contro una lampada accesa. Il «mondo-del-buon-senso» è cieca follia, uno scaturire dal nulla per tornare nel nulla, senza alcun vero scopo.

Quanto alla seconda alternativa, al primo sguardo sembrerebbe più razionale, se non altro perché rifiuta l'assoluta irrazionalità di quell'altro modo di vedere. Ma, a guardar meglio, neanche questa è una soluzione razionale, ed è semplice constatare i motivo: si tratta né più né meno di una fuga da qualsiasi realtà, perché rifiuta l'evidenza dei risultati che si ottengono con l'unico mezzo di cui dispone il nostro «ego» per avere contatti con il «difuori». Certo, i cinque sensi non sono gran che, come unici canali di comunicazione, ma c'è poco da scegliere, non ne abbiamo altri.

***

Appallottolò il foglio e lo gettò lontano da sé, mentre scattava in piedi, quasi rovesciando la sedia. L'ordine e la logica non sarebbero serviti a migliorare le cose: la sua teoria era valida unicamente perché aveva il colore, l'odore della verità. E tuttavia ancora gli mancavano delle risposte. Soprattutto il perché di quest'inganno operato in grande stile, su scala planetaria: un'infinità di creature, interi continenti, una matrice enormemente complessa, minuziosamente dettagliata, una matrice di storia demenziale, assurde tradizioni, cultura folle. Perché darsi tanto da fare, quando sarebbero bastate una cella e una camicia di forza?

Tutto questo doveva essere stato considerato necessario perché era di

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suprema importanza riuscire ad ingannarlo fino in fondo, perché una messa in scena di minore portata non avrebbe funzionato affatto. Era possibile che «loro» non osassero rischiare l'insorgere di qualche sospetto sulla sua vera identità, non importa a costo di quali complicazioni e difficoltà enormi nell'architettare l'imbroglio?

Doveva sapere. In qualche modo doveva riuscire a vedere attraverso il velo della menzogna e rendersi conto di quanto realmente succedeva, a sua insaputa. L'unica prova, finora, era stata soltanto un'occhiata casuale; a questo punto era necessario scoprire il meccanismo nel suo insieme, sorprendere le manovre dei burattinai dietro le quinte.

Il primo passo, il più ovvio, doveva essere quello di riuscire a fuggire da questo manicomio, ed era necessario compierlo con tanta abilità e circospezione che loro non sarebbero riusciti ad accorgersene in tempo, non dovevano avere la minima opportunità di preparare la scena sulla strada. Era tutt'altro che facile riuscirvi. Doveva superarli in astuzia e in preveggenza.

Una volta presa questa decisione, trascorse il resto della serata a considerare gli eventuali mezzi che avrebbero potuto consentirgli di raggiungere il suo scopo. Era quasi un'impresa disperata: doveva sparire senza essere sottoposto al loro controllo neanche per un attimo, e poi trovare un nascondiglio sicuro. Doveva far perdere le sue tracce nel modo più completo, così che non avrebbero saputo dove centrare i loro trucchi da illusionisti. Questo poteva significare che gli sarebbe stato quasi impossibile procurarsi cibo, e per diversi giorni. Benissimo, la cosa non lo scomponeva. Non doveva metterli sul chi va là con azioni insolite o atteggiamenti particolari.

Le luci si spensero e si riaccesero due volte. Docile, si alzò e incominciò a prepararsi per andare a letto. Quando l'inserviente passò a lanciare la solita occhiata attraverso lo spioncino, lui era già disteso, con il viso rivolto alla parete.

Un gran senso di gioia lo aveva avvolto. Si sentiva immerso nella contentezza più assoluta! Com'era bello ritrovarsi con quelli della propria razza, sentire quella musica propagarsi da ogni essere vivente! Così era sempre stato e così sarebbe stato sempre, bello sapere che tutto possedeva una propria vita ed era cosciente di lui, facendo parte di lui come lui era parte del tutto. Era bello esistere, bello rendersi conto dell'unità dei molti e della diversità dell'uno. Su tutto ciò si era sovrapposto un solo pensiero

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negativo. Non era riuscito a precisarne l'esatta natura, ma ormai era scomparso, era come se non fosse mai stato, qui non c'era posto per le cose cattive.

***

Dalla corsia adiacente i primi suoni del mattino oltrepassavano le pareti e penetravano il suo corpo ancora pesante di sonno, riportandogli la consapevolezza del luogo in cui si trovava. La transizione era stata morbida, lenta, in modo da permettergli di avere presente anche da sveglio quello che aveva sperimentato poco prima, e perché. Giacque immobile, il volto disteso in un sorriso dolce ad assaporare lo strano ma non sgradevole languore che aveva invaso questo corpo di cui stava servendosi ora, qui, in questa situazione. Anche considerando gli stratagemmi e i trucchi con cui lo avevano ostacolato, era strano che avesse dimenticato per tanto tempo la realtà. Bene, ora che aveva ritrovato la chiave, non avrebbe avuto difficoltà a rimettere le cose a posto, in questo luogo bizzarro. Li avrebbe fatti venire immediatamente per annunciare il nuovo ordine. Sarebbe stato divertente osservare l'espressione del vecchio Glaroon quando si fosse reso conto che il ciclo era terminato...

Lo scatto dello spioncino che si apriva e il cigolio della chiave nella serratura ebbero l'effetto di una gelida lama a mozzare le delicate nervature dei suoi pensieri. L'inserviente del turno mattutino si era infilato nella stanza con la sua aria di vivace efficienza per appoggiare il vassoio della colazione sul tavolino. - Giorno, signore. Bella giornata, luminosa. Ve lo porto a letto o preferite alzarvi?

Non rispondere! Non ascoltare! Ignora questa distrazione...! Fa parte dei loro piani... Ma era già troppo tardi, troppo tardi. Si sentiva scivolare, cadere, strappato dalla realtà, di nuovo immerso nel mondo fraudolento in cui lo avevano relegato. Tutto era sparito, completamente, senza la minima associazione possibile attorno a lui su cui riuscire ad ancorare la memoria. Non gli era rimasto altro che un acuto, straziante senso di perdita e la frustrazione dolorosa della catarsi rimasta incompleta.

- Lasciatelo pure lì. Ci penserò da me.- Okay, benissimo. - L'inserviente, sempre vivace, sparì, sbattendo la

porta per poi serrarla rumorosamente.Restò sdraiato a lungo, immobile, con i nervi tesi fino a provare dolore

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in tutto il corpo.Finalmente si decise a levarsi dal letto, sempre sprofondato nella più

assoluta infelicità. Fece un tentativo di concentrazione per delineare un piano di fuga. Ma lo strappo psichico ricevuto nell'essere richiamato così bruscamente dal suo piano di realtà lo aveva lasciato troppo dolorante, con mille emozioni a fior di pelle. La sua mente ora, piuttosto che riuscire a impegnarsi in elucubrazioni costruttive, non sapeva fare altro che rimuginare tutti i vecchi dubbi. Era forse possibile che il dottore avesse ragione, che lui non fosse il solo ad affrontare questo pesante dilemma? E se la sua fosse davvero una forma di paranoia, se si trattasse di un semplice caso di megalomania? Era pensabile che ciascuna unità di questo sciame che gli lievitava attorno fosse la prigione di un altro solitario ego come il suo, inerme, cieco e muto, condannato a un'eternità di tristissima solitudine? E l'espressione di sofferenza che le sue azioni avevano fatto nascere sul volto di Alice era stata forse il vero riflesso di un tormento interiore e non, come lui aveva creduto, una forma di recitazione intesa a farlo reagire secondo i loro piani?

***

Qualcuno aveva bussato. Disse - Avanti, - senza voltarsi a guardare. Dei loro andirivieni non gli importava niente.

- Caro... - Una voce ben nota, bassa esitante.- Alice! - Era scattato in piedi, davanti a lei. - Chi ti ha fatto entrare?- Per favore, per favore, caro... Non ho resistito... dovevo vederti.- Non è giusto, non è giusto. - Parlava più a se stesso che alla donna. -

Ma perché sei venuta?Lei lo fronteggiava con una dignità che non si sarebbe aspettato. La

bellezza del suo volto dai lineamenti infantili era segnata da tracce di sofferenza, da ombre nuove, eppure c'era anche la luce di un coraggio inatteso. - Io ti amo, - gli rispose, piano. - Puoi anche dirmi di andarmene, ma non potrai costringermi a non volerti più bene, a non cercare più di porgerti il mio aiuto.

Le girò le spalle, tormentato dall'indecisione. Era mai possibile che l'avesse giudicata male? C'era, dopo tutto, dietro quella barriera di carne, di simboli sonori, uno spirito che sinceramente tendeva verso il suo? Sussurri di amanti nell'oscurità... - Ma allora tu capisci, è vero?

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- Sì, amore mio, capisco.- Se è così, niente di quanto ci potrà accadere avrà importanza, finché

saremo insieme e riusciremo a comprenderci... - Parole, parole che rimbalzavano vuote contro un muro solido, impenetrabile. No, no, non era possibile che si fosse sbagliato! Mettila alla prova di nuovo, vediamo... - Perché hai voluto che mantenessi quel lavoro a Omaha?

- Ma io non ti ho costretto a farlo! Ti avevo soltanto fatto notare che era meglio pensarci due volte, prima di...

- Non importa, non fa niente. - Mani morbide e un dolce viso sempre presenti, con la loro placida, garbata ostinazione, a impedirgli di fare qualsiasi cosa che il suo istinto gli suggerisse come quella giusta per lui. E sempre con le migliori intenzioni, le migliori intenzioni, ma sempre in modo da ottenere che a lui mai riuscisse di fare quelle cose sciocche, irragionevoli, a cui avrebbe tenuto, anche cose da poco ma che lui sentiva valide. Svelto, svelto, sempre più in fretta, datti da fare, con una guida dalla faccia d'angelo ben attenta che tu non ce la faccia a fermarmi quanto basta per riuscire a pensare un poco per conto tuo.

- Perché quel giorno hai cercato di fermarmi, quando stavo per risalire al piano di sopra?

Le riuscì di sorridere, benché i suoi occhi fossero gonfi di lacrime. - Non potevo immaginare che ci tenessi tanto. Era tardi, stavamo per perdere il treno...

Era stata una piccola cosa, in apparenza poco importante. Per un qualche motivo che lui non avrebbe saputo spiegare, aveva insistito per tornare un minuto nel suo studio, al piano superiore, proprio mentre stavano lasciando la casa, sarebbero stati via qualche giorno, una breve vacanza. Pioveva, e lei gli aveva fatto notare che avevano i minuti contati per arrivare alla stazione in tempo. Ma lui, sorprendendo, oltre a lei, anche se stesso, si era sentito costretto ad insistere, ostinato, proprio in circostanze in cui un tale comportamento appariva quanto mai assurdo. Una cosa del genere non gli era mai successa. Addirittura, aveva spinto da parte Alice per farsi strada su per le scale.

Anche così però non sarebbe successo niente se lui, giunto nello studio, senza il minimo motivo, non avesse sollevato la tapparella di una finestra che dava sul retro della casa.

In realtà, poteva anche sembrare una cosa da nulla. Quando, poco prima, stavano per uscire, davanti alla porta al piano terreno stava piovendo a

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dirotto. Da quella finestra invece appariva un cielo limpido in cui splendeva il sole, senza il minimo segno di pioggia.

A lungo, immobile, era rimasto a fissare quell'impossibile esterno soleggiato, mentre cercava di trovare un nuovo ordine per le tessere che componevano il mosaico del suo universo.

Riesaminava i dubbi per tanto tempo ignorati ma che risorgevano ora alla luce di questa minima e tuttavia assolutamente inspiegabile discrepanza. Nel voltarsi, alle sue spalle c'era lei. Da quel momento aveva sempre cercato di dimenticare l'espressione che aveva sorpreso sul suo volto.

Ed ora, eccola qui di nuovo, accanto a lui. - Che ne pensi tu, di quella pioggia... e di quel sole?

- La pioggia...? - aveva ripetuto lei, con una voce appena udibile, perplessa. - Ma sì, quel giorno stava piovendo, naturalmente. Perché me lo chiedi?

- Perché invece NON stava piovendo affatto, dalla finestra del mio studio.

- Cosa? Ma certo, che pioveva. Sì, ho notato che per un momento è uscito il sole dalle nubi, tutto qui.

- Ora vuoi farmi credere questa sciocchezza!- Ma, caro, che c'entra il tempo, con noi due? Che differenza può fare, se

piove o no, per quanto ci riguarda...? - Gli si era avvicinata timidamente, e ora infilava una piccola mano sotto il suo braccio. - Sarei io, la responsabile della pioggia, o del sereno...?

- Io credo che sia proprio così. Ora vai via, te ne prego.Lei si era scostata, come ferita, passando il dorso della mano sugli occhi,

in un rapido gesto meccanico. La vide deglutire a fatica, prima che si rivolgesse, sforzandosi di mantenere ferma la voce: - Come vuoi. Me ne vado. Ma ricordatelo, tu puoi tornare a casa in qualsiasi momento, se lo vuoi. E ci sarò io ad aspettarti, se mi vorrai ancora. - Si era interrotta. Esitando, aveva poi aggiunto: - Non mi vuoi... salutare con un bacio...?

Lui non le rispose, né con la voce né con gli occhi. Lo fissò ancora per un attimo e poi gli voltò la schiena di colpo, armeggiando alla cieca per aprire la porta e fuggire.

***

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La creatura che lui aveva conosciuto come Alice si portò subito nel luogo delle riunioni senza fermarsi a cambiar forma. - Sarà necessario aggiornare questa sequenza. Non sono più in grado di influenzare le sue decisioni.

«Loro» se l'erano aspettato, tuttavia ci fu un momento di inquietudine. Il Glaroon si rivolse al Primo Manipolatore. - Preparati a innestare subito la traccia mnemonica prescelta.

Poi, rivolgendosi al Primo Operatore, il Glaroon disse: - Le ultime estrapolazioni indicano che avrà una forte tendenza alla fuga entro due dei suoi giorni. La presente sequenza ha degenerato soprattutto a causa del tuo errore. Quando non hai esteso completamente quella pioggia attorno a lui. Ritieniti avvisato.

- Tutto sarebbe molto più semplice se riuscissimo ad afferrare le sue motivazioni.

- Nelle vesti del dottor Hayward l'ho spesso pensato anch'io, - commentò il Glaroon, acido, - ma se si arrivasse a comprendere le sue motivazioni, noi saremmo parte di LUI. Cerchiamo di tenere bene in mente il Trattato! Lui è quasi riuscito a ricordare.

Parlò la creatura conosciuta come Alice: - Non si potrebbe fargli avere il Taj Mahal, nella prossima sequenza? Lui ci terrebbe molto, per qualche oscura ragione.

- Ti stai facendo assimilare!- Forse. La cosa non mi fa paura. Glielo farete avere?- La possibilità verrà presa in considerazione.Il Glaroon riprese a impartire ordini: - Lasciare in piedi le presenti

strutture fino al prossimo aggiornamento. New York City e l'Università di Harvard attualmente sono smantellate. Non permettetegli di avvicinarsi a quei settori. Facciamo presto!

Traduzione di Mario N. Leone

FINE

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