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22 look lateral SGUarDo CorreNte 23 Bridget Jones non è come me l’aspettavo, goffa e cicciottella. É una splendida romana, Livia Giuggioli, che nel 1997 ha sposato l’affascinante attore inglese Colin Firth, con il quale ha due figli, Luca e Matteo. Produttrice cinematografica e attivista per i diritti umani, lo scorso anno insieme al marito, al fratello Nicola e al finanziatore Ivo Coulson, ha fondato Ecò. Il primo store ecologico, finalizzato a promuove una vita completamente ecosostenibile, è situato a Chiswick, quartire bene del sud-ovest di Londra. É lì che incontriamo Nicola, ideatore e forza trainante del progetto che ci racconta la loro storia, mentre Livia, più schiva, segue gli appuntamenti con i buyers. Lo spazio, con il pavimento a doghe di legno, ovviamente riciclate, si articola su quattro piani e ovunque si posi l'occhio troviamo prodotti legati da un unico filo conduttore: ecosostenibilità. La prima domanda, scontata e inevitabile, cade proprio sul famoso cognato Colin Firth, che in una precedente intervista si è definito “strumento di comunicazione” per questo progetto comune. "Lui, - precisa Nicola - insieme a mia sorella, mi ha dato la spinta necessaria. Quando ho presentato loro la mia idea, subito entusiasti, mi hanno dato appoggio totale. È iniziato così. Successivamente il suo coinvolgimento a livello d’immagine è stato davvero massiccio. Colin era ed è un partner, per questo si sente coinvolto personalmente. Un grosso aiuto, non c’è che dire. Crede profondamente nell’anima ecologista di questo lavoro, molto informato, va alla radice delle varie problematiche. All'inizio ha persino frequentato il negozio e i clienti sono impazziti!" Come è nata quest’idea? Era il 2006 e vedendo An unconvenient Truth, il documentario di Al Gore sul riscaldamento globale, mi resi conto che il film forniva analisi ma non dava imput per risolvere un fenomeno così complesso. Decisi allora di farlo io, producendo un lungometraggio insieme a Livia. Cominciai così a studiare e ricercare. Mi sono detto, ci vorrebbe una sorta di Green Hub, un centro specializzato su cui fare affidamento, dove trovare consigli esperti e prodotti, dalla lampadina al pannello solare. Quindi a maggio 2007 è nato il business plan e a febbraio 2008 abbiamo inaugurato Ecò. In Inghilterra ogni giorno si parla di ecologia, per questo avete scelto di aprire il negozio non in Italia ma a londra, dove vivono i tuoi partners? Esatto. I primi finanziatori sono italiani, però devo dire che hanno investito anche perchè il progetto avveniva a Londra. Non so se il mercato italiano sarebbe stato pronto. Il consumatore in Colin Firth & Co diario di un ecologista Snob? No. Convinto. Ha aperto a londra, con la moglie livia Giuggioli, il cognato Nicola e Ivo Coulson uno spazio innovativo eCÓ, Chiswick High Road 213 Londra W4 Livia Giuggioli, Colin Firth, Nicola Giuggioli e Ivo Coulson; sopra, la locandina del film di successo dell'attore inglese. di Paola Marchini Inghilterra è molto più informato e sensibile. In Italia l’eco-sostenibilità è ancora percepita come economia costosa, anche se non è più così. In quasi un anno di attività, hai già notato dei cambiamenti nei comportamenti della tua clientela? La risposta è stata fantastica, oltre le aspettative. Siamo riusciti a influenzare le scelte della comunità che ha capito che il nostro non era un atteggiamento dettato da snobismo. Molti prodotti che presentiamo vengono realizzati proprio in questo quartiere. Non cerchiamo di fare gli hippies, ma d’informare il consumatore e i nostri clienti lo apprezzano. Ora stiamo convertendo una chiesa di Chiswick, fornendola di sistema geotermico e fotovoltaico per renderla indipendente per quanto concerne riscaldamento e illuminazione. ecò è uno store autosufficiente dal punto di vista energetico? D’estate sì, il che mi ha sorpreso. Sai che una casa media consuma generalmente 4 o 5 Kw, mentre noi abbiamo un picco di consumo che raggiunge solo i 700 watts. Questo dà la possibilità ai clienti di verificare come si possa partire da un edificio nato secondo vecchi canoni e, senza stravolgerlo, arrivare a ridurne il fabbisogno energetico del 70%. Immagino che il giardino verticale esterno non sia solo una scelta estetica... No, ispirati dal Mur Végétal di Patrick Le Blanc, abbiamo voluto riprodurre un simile effetto, usando dei piccoli pannelli già piantumati, quindi di facile montaggio e mantenimento. Un modo fantastico per isolare l’edificio. Il giardino, bello, garantisce anche bio diversità, produce ossigeno e assorbe arnidride carbonica. tra i prodotti e servizi che offrite, quale il più richiesto? Senza dubbio la sezione di Interior Design, quindi tappeti, tappezzerie, superfici di lavoro e vernici. Questo perchè hanno un prezzo equivalente a quello di un prodotto non ecosostenibile di ottima qualità. La gente si sorprende della loro bellezza e li sceglie perchè sono chiaramente superiori. Nel futuro anche l'Italia? Mille idee. Prima di tutto una collaborazione con Coco de Mer, di Sam Roddick (figlia di Dame Anita Roddick, pioniera nel sostenere il consumo etico e la causa ambientalista, nonchè fondatrice del Body Shop n.d.r). Inoltre, ci piacerebbe aprire altri negozi: ne abbiamo in programma uno a Milano, che dimostra di avere un’attenzione per questo mondo, e uno negli Stati Uniti. In confidenza, che ne è stato della camicia bagnata indossata da Colin in una scena del film orgoglio e Pregiudizio? Beh, ti posso garantire una cosa: quella camicia non era certo di cotone organico! I gemelli Giuggioli con la sorella Livia; dettaglio della lampada Vespa di Maurizio Lamponi Leonardi realizzata con pezzi originali; Nicola e Alessandro (attore, ha recitato in Genova di Winterbottom) davanti alle carte da parati; Pencil Necklace, collana realizzata con matite colorate; elefante prodotto con lattine riciclate; coperte in mohair e seta; dettaglio di un tappeto Nonna Pepa.

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Bridget Jones non è come me l’aspettavo, goffa e cicciottella. É una splendida romana, Livia Giuggioli, che nel 1997 ha sposato l’affascinante attore inglese Colin Firth, con il quale ha due figli, Luca e Matteo. Produttrice cinematografica e attivista per i diritti umani, lo scorso anno insieme al marito, al fratello Nicola e al finanziatore Ivo Coulson, ha fondato Ecò. Il primo store ecologico, finalizzato a promuove una vita completamente ecosostenibile, è situato a Chiswick, quartire bene del sud-ovest di Londra. É lì che incontriamo Nicola, ideatore e forza trainante del progetto che ci racconta la loro storia, mentre Livia, più schiva, segue gli appuntamenti con i buyers. Lo spazio, con il pavimento a doghe di legno, ovviamente riciclate, si articola su quattro piani e ovunque si posi l'occhio troviamo prodotti legati da un unico filo conduttore: ecosostenibilità. La prima

domanda, scontata e inevitabile, cade proprio sul famoso cognato Colin Firth, che in una precedente intervista si è definito “strumento di comunicazione” per questo progetto comune."Lui, - precisa Nicola - insieme a mia sorella, mi ha dato la spinta necessaria. Quando ho presentato loro la mia idea, subito entusiasti, mi hanno dato appoggio totale. È iniziato così. Successivamente il suo coinvolgimento a livello d’immagine è stato davvero massiccio. Colin era ed è un partner, per questo si sente coinvolto personalmente. Un grosso aiuto, non c’è che dire. Crede profondamente nell’anima ecologista di questo lavoro, molto informato, va alla radice delle varie problematiche. All'inizio ha persino frequentato il negozio e i clienti sono impazziti!"Come è nata quest’idea?Era il 2006 e vedendo An unconvenient

Truth, il documentario di Al Gore sul riscaldamento globale, mi resi conto che il film forniva analisi ma non dava imput per risolvere un fenomeno così complesso. Decisi allora di farlo io, producendo un lungometraggio insieme a Livia. Cominciai così a studiare e ricercare. Mi sono detto, ci vorrebbe una sorta di Green Hub, un centro specializzato su cui fare affidamento, dove trovare consigli esperti e prodotti, dalla lampadina al pannello solare. Quindi a maggio 2007 è nato il business plan e a febbraio 2008 abbiamo inaugurato Ecò. In Inghilterra ogni giorno si parla di ecologia, per questo avete scelto di aprire il negozio non in Italia ma a londra, dove vivono i tuoi partners?Esatto. I primi finanziatori sono italiani, però devo dire che hanno investito anche perchè il progetto avveniva a Londra. Non so se il mercato italiano sarebbe stato pronto. Il consumatore in

Colin Firth & Co diario di un ecologistaSnob? No. Convinto. Ha aperto a londra, con la moglie livia Giuggioli, il cognato Nicola e Ivo Coulson uno spazio innovativo

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Livia Giuggioli, Colin Firth, Nicola Giuggioli e Ivo Coulson; sopra, la locandina del film di successo dell'attore inglese.

di Paola Marchini

Inghilterra è molto più informato e sensibile. In Italia l’eco-sostenibilità è ancora percepita come economia costosa, anche se non è più così.In quasi un anno di attività, hai già notato dei cambiamenti nei comportamenti della tua clientela?La risposta è stata fantastica, oltre le aspettative. Siamo riusciti a influenzare le scelte della comunità che ha capito che il nostro non era un atteggiamento dettato da snobismo. Molti prodotti che presentiamo vengono realizzati proprio in questo quartiere. Non cerchiamo di fare gli hippies, ma d’informare il consumatore e i nostri clienti lo apprezzano. Ora stiamo convertendo una chiesa di Chiswick, fornendola di sistema geotermico e fotovoltaico per renderla indipendente per quanto concerne riscaldamento e illuminazione.ecò è uno store autosufficiente dal punto di vista energetico?D’estate sì, il che mi ha sorpreso. Sai che una casa media consuma generalmente

4 o 5 Kw, mentre noi abbiamo un picco di consumo che raggiunge solo i 700 watts. Questo dà la possibilità ai clienti di verificare come si possa partire da un edificio nato secondo vecchi canoni e, senza stravolgerlo, arrivare a ridurne il fabbisogno energetico del 70%.Immagino che il giardino verticale esterno non sia solo una scelta estetica...No, ispirati dal Mur Végétal di Patrick Le Blanc, abbiamo voluto riprodurre un simile effetto, usando dei piccoli pannelli già piantumati, quindi di facile montaggio e mantenimento. Un modo fantastico per isolare l’edificio. Il giardino, bello, garantisce anche bio diversità, produce ossigeno e assorbe arnidride carbonica. tra i prodotti e servizi che offrite, quale il più richiesto?Senza dubbio la sezione di Interior Design, quindi tappeti, tappezzerie, superfici di lavoro e vernici. Questo perchè hanno un prezzo equivalente a quello di un prodotto non ecosostenibile di ottima qualità. La gente si sorprende della loro bellezza e li sceglie perchè sono chiaramente superiori.Nel futuro anche l'Italia?Mille idee. Prima di tutto una collaborazione con Coco de Mer, di Sam Roddick (figlia di Dame Anita Roddick, pioniera nel sostenere il consumo etico e la causa ambientalista, nonchè fondatrice del Body Shop n.d.r). Inoltre, ci piacerebbe aprire altri negozi: ne abbiamo in programma uno a Milano, che

dimostra di avere un’attenzione per questo mondo, e uno negli Stati Uniti.In confidenza, che ne è stato della camicia bagnata indossata da Colin in una scena del film orgoglio e Pregiudizio?Beh, ti posso garantire una cosa: quella camicia non era certo di cotone organico!

I gemelli Giuggioli con la sorella Livia; dettaglio della lampada Vespa di Maurizio Lamponi Leonardi realizzata con pezzi originali; Nicola e Alessandro (attore, ha recitato in Genova di Winterbottom) davanti alle carte da parati; Pencil Necklace, collana realizzata con matite colorate; elefante prodotto con lattine riciclate; coperte in mohair e seta; dettaglio di un tappeto Nonna Pepa.

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Stuart comer, the curatoracuto direttore della sezione cinema della tate modern di londra, indica modi e mondi della sperimentazione artistica internazionale influenzando tendenze, orientando sguardi e approfondimenti

Un tempo capitale del più grande impero coloniale del mondo, Londra gode oggi d’una spiccata identità cosmopolita che la colloca al di sopra di ogni nazionalità. Una città che ti porta a spogliarti di ogni certezza, e dove ogni mattino si anticipa il futuro, ha al suo timone artistico la Tate Modern. Stuart Comer, curatore della sezione cinematografia, stupisce con una direzione ardita e fuori dal coro. Esempio di una nuova generazione di intellettuali, capace di plasmare con le sue scelte ottiche e percezioni, colpisce per il modo pacato e lieve di porgersi in contrasto con il brulichio vivace di uno dei musei più giovani e frizzanti del mondo. Uomo mite ed acuto, affascina con un misto di consumata sapienza ed entusiasmo adolescenziale. Potente, ma disponibile, ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.

Quali i criteri che segue per la programmazione?Senza dubbio quando scelgo film e video cerco sempre di collegarmi a un discorso più ampio condiviso con le altre sezioni del museo. Così ne sortisce una indubbia coerenza e un impatto più incisivo. L'intento è quello di creare ciò che definisco ambient connections. Nello specifico, mi pongo l'obiettivo di presentare le arti visive in modo coinvolgente, non solo quindi inquadrandole storicamente, ma addentrandomi nei

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nella sua storia c’è la collaborazione con la Fondazione Prada. ce ne può parlare?Certo. Miuccia Prada è decisamente un patrono molto sofisticato dell’arte in generale. Insieme a Germano Celant, personaggio chiave del mondo artistico internazionale, mi ha contattato con questa idea: realizzare il festival Italian Kings of the B’s: Secret History of Italian Cinema 1949–81, in concomitanza con la mostra di Burri, Fontana e Manzoni. Abbiamo proposto numerosi artisti che con Miuccia Prada hanno rapporti stretti come Carsten Holler e Francesco Vezzoli. come vede un’esperto osservatore la situazione culturale italiana?Al momento è molto intrigante la diaspora italiana. I personaggi più interessanti del panorama sono secondo me curatori, critici e collezionisti: Franceso Manacorda curatore del Barbican, oppure Silvia Sgualdini ed Elena Crippa della galleria Lisson di Londra, e Massimiliano Gioni del New Museum di New York. Alcuni dei collezionisti che più ammiro qui a Londra sono italiani, come Valeria Napoleone, donna fantastica, sceglie solo opere di giovani donne; di recente un pezzo di Goshka Macuga, candidata al Premio Turner. Poi Paolo e Maddalena Kind: appoggiano molto i giovani e hanno il merito di riunire attorno a sè un circolo di persone valide. Quanto lavoro e passione per il cinema hanno influenzato la sua casa?Il mio modo di vedere ha modellato la mia casa. Quando vivevo a Los Angeles ho cominciato a collezionare mobili degli anni Cinquanta e opere d’arte di amici. Lavori che hanno un valore intrinseco, oltre la mera qualità formale. Preponderante è la presenza di libri, sono un vero amante della lettura. Apprezzo anche il design: penso che possa migliorare la vita di ogni giorno; e adoro il Giappone perchè lì la distinzione con l'arte è molto fluida, quasi impercettibile. Prediligo un’estetica minimalista e la luce gioca per me un ruolo primario. Non sopporto gli spazi troppo illuminati, forse per questo mi piacciono le camere oscure! L’elemento più caro è l'enorme parete in vetro che dà sul giardino privato, una finestra che sembra un gigantesco schermo. Non c’e’ niente di più cinematografico che guardare la natura.

video artisti da tener d'occhio

Duncan campbell – irlanda luke Fowler – ScoziaDaria Martin – Stati Unitiemily Wardill – inghilterraaurélien Froment – Franciarivane neuenschwander – Brasilelisa lapinski – Stati Unitilecia Dole-recio – Stati UnitiHito Steyerl – Germaniaakram Zaatari – libano

Qui, immagini e locandine di film proiettati durante il festival Italian Kings of the B's: Calibro 9 con Gastone Moschini e Barbara Bouchet, La Mala Ordina e I ragazzi del Massacro di Ferdinando Di Leo, Il medaglione insanguinato di Massimo Dallamano.

A sinistra due opere Untitled di Lecia Dole-Recio, qui sopra In this house di Akram Zaatari, sotto The diamond di Emily Wardill e un ritratto dell'artista americana Daria Martin.La selezione di Stuart Comer spazia da un capo all'altro del mondo per cogliere stimoli visivi e peculiarità stilistiche: un viaggio tra i segni della contemporaneità.

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diversi linguaggi e nelle più giovani esperienze d'avanguardia. la referenza al passato gioca un ruolo fondamentale per il futuro?Sì, penso infatti che la storia dell’arte filmica sia stata trascurata profondamente per decenni e trovo straordinario poter usare la visibilità della Tate Modern per gettare luce su aree che sono state a lungo ignorate. Non ci occupiamo solo di sperimentazione, ci sono anche proiezioni di cinema nel senso più convenzionale, ma sempre in sintonia con le collezioni o le mostre presenti in quel momento.come è iniziato il suo lavoro alla tate?Sei anni fa e non subito nell'ambito della cinematografia, ma organizzando e ideando simposi e conferenze con artisti. Poi ho preso a selezionare e proiettare pellicole che ritenevo innovative. Questo nel 2002, quando si è acquisita consepevolezza che ci fosse una lacuna nella scena culturale del museo. Uno spazio che si è inteso colmare.non solo responsabilità, per lei, ma anche una posizione priviligiata che le permette di verificare interesse, audience e gradimento.Sì, i primi tempi alle nostre proiezioni assistevano di media una decina persone; oggi si registra il tutto esaurito. È successo anche con un classico del cinema sperimentale come Oskar Fishinger, il grande cineasta tedesco degli anni Quaranta. Il pubblico ora è più preparato e orientato verso la video art, questo anche grazie a internet. conoscendo il suo lavoro, ci pare di cogliere la spinta a un'iterazione tra creatore e pubblico. È così?Certamente. L’ironia è che il cinema nei musei sia sempre stato considerata un'arte di second’ordine, malgrado fosse la principale espressione del XX secolo. L’auditorium aveva una funzione solo ausiliaria. Ma è qui che possiamo instaurare un dialogo con il pubblico, come avviene nei festival del cinema dove, dopo la proiezione si può aprire un dibattito e un confronto con protagonisti e autori. Ecco, io voglio portare esattamente questo modello all’interno dell’istituzione museo. Fin ad ora non siamo stati sufficientemente avventurosi nell’uso degli spazi; occorre utilizzarli in modi nuovi. La collaborazione Unilever (multinazionale anglo olandese che da anni commissiona lavori su larga scala per la Turbine Hall n.d.r.) ci ha permesso di essere più partecipativi, è per questo motivo che la gente ama la Tate. Pensi a Carsten Holler e alla creazione del grande scivolo: un’idea che ha reso tutti parte integrante dell’ opera d’arte.Gli storici dell'arte ci hanno portato a inquadrare e conoscere tendenze, movimenti, maestri, scuole, rapportati al tempo e alle culture specifiche. Se dovessimo fotografare ciò che sta avvenendo?Non penso ci sia più un luogo che prevalga sugli altri, anche se il Medio Oriente spicca perchè incrediblilmente prolifico. Guardo al Brasile, all’Europa dell’Est, con la Polonia in primo piano, all’India che mi interessa molto, perchè usa un linguaggio originale per identificare un modernismo peculiare a lei, profondamente diverso da quello occidentale. Non dimentichiamo infine la Cina dove, come negli USA, a fianco di una grande cinematrografia commerciale sono nati fenomeni più sperimentali. Quello che osserviamo dell’arte cinese non è che la punta di un iceberg di un mondo più ampio e diversificato che spero di approfondire presto.in che modo pensa di procedere?Vogliamo evitare il grosso errore commesso in passato, quello di colonizzare l’arte declassandola a mero elemento esotico. Per questo stiamo cercando di costruire un'ampia rete di contatti. Prima di scegliere quali lavori mostrare vogliamo dialogare con gli artisti e gli intellettuali di questi Paesi evitando chi è solo trendy, la star del momento. Quali i traguardi raggiunti alla tate?La cosa principale è stata creare una posizione curatoriale permanente per quanto riguarda la sezione cinema. Poi decidere di utilizzare la Turbine Hall come spazio esibitivo. E far sì che l’evento artistico acquisisse lo stesso prestigio delle mostre. E infine, apprendere dagli artisti stessi nuovi strumenti per proporre l’arte.

Interni della Tate Modern: sopra, la Turbine Hall in tutta la sua ampiezza, sotto dettaglio dell'installazione di Carsten Holler: il maxi scivolo interattivo che nel 2006 ha stupito e divertito.

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ANGOLO (IN)DIMENTICATO DI UNA BERLINO PATRIMONIO DELL’UNESCO, LA WEISSE STADT RIUNISCE IN MANIERA SORPRENDENTE PASSATO, PRESENTE E FUTURO DI UNA DELLE CITTÀ PIÙ CARISMATICHE E COINVOLGENTI DEL VECCHIO MONDO

Un luogo schiavo della luce, popolato da un piccolo esercito di edifici allineati come disciplinati soldatini dai volti pallidi che riflettono gli umori di un clima schizofrenico, qui spesso protagonista, la “città bianca” insieme ad altri cinque centri residenziali berlinesi diventa nel 2008 patrimonio dell’Unesco. Questa pagina minore della storia dell’architettura, scritta alla fine degli anni Venti in un contesto di grande fermento creativo che aveva fatto confluire a Berlino i più grandi artisti e pensatori dell’epoca, è figlia dello zeitgeist, cioè di quello “spirito del tempo” che registrò l’allontanamento dalla pura sperimentazione estetica a favore di un pratico funzionalismo. La Weisse Stadt fu infatti ideata sulla base di criteri che guardavano principalmente alla razionalità e all’efficienza economica, dovendo rispondere alla grave mancanza di alloggi scaturita alla fine della prima guerra mondiale. Diviene quindi esempio emblematico del suo tempo, grazie alla creatività di Martin Wagner, architetto e planner tedesco che, insieme a Bruno Taut e Martin Gropius, fu tra i principali fautori di un movimento di urbanizzazione modernista che influenzò tutto il mondo. A soli quindici minuti a nord della centralissima e turistica Alexanderplatz, a questa zona si giunge scendendo alla stazione metro di Paracelsus Bad, il cui sapiente e geometrico gioco di luci ed ombre riporta inequivocabilmente alla scuola Bauhaus che fu fondata appunto da Gropius, e che festeggia quest’anno il suo novantesimo anniversario. In una cupa mattinata invernale, le strade deserte, l’evidente distribuzione schematica degli edifici che si snodano ordinati sulle direttrici principali nella loro bianca sterilità, mostrano di questo quartiere dormitorio la vena più triste. Mentre ci si perde nella sequenza tutta uguale di viuzze si è colti tuttavia da emozioni contrastanti. Basta infatti uno spiraglio di sole perché la cittadella cambi espressione, perché le facciate candide evidenzino i tratti architettonici che ne hanno decretato il valore universale: le logge, i tetti piani, gli inserti di pietra nuda che incorniciano le finestre delle scale interne, allineate una sopra l’altra al di sopra dei portoni principali, e infine i rigogliosi giardini. Alberi maestosi e fitte siepi si intersecano armonicamente alle zone abitative come un perfetto

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puzzle, impedendo che questo angolo berlinese sia l’ennesimo esempio malriuscito di un’edilizia suburbana povera di mezzi. Eppure l’idea che qualcosa rispetto alle intenzioni fondatrici sia andato storto non abbandona. Ci si accorge velocemente che il problema viene dall’alto: è il rombo assordante dei jet che con spaventosa regolarità sfiorano questi condomini ogni cinque minuti a tacitare il sogno di una tranquilla vita di sobborgo. Certo non si poteva prevedere nel 1929 la nascita proprio dietro l’angolo del Tegel, l’aeroporto che solo lo scorso anno ha portato più di quattordici milioni di passeggeri in questo tratto di “cielo sopra Berlino”. Ma tutto ciò è destinato a cambiare: presto si respirerà aria nuova, non c’è che da aspettare un po’. L’aerostazione intitolata al pioniere dell’aviazione Otto Lilienthal, costruita nel 1948 in piena guerra fredda, verrà chiusa nel 2012 per lasciare posto al nuovo Berlin-Brandenburg International Airport a sud della città, ben lontano da qui. E allora l’unico rumore che si sentirà sarà quello delle voci disordinate dei giovani che come topini, alle quattro del pomeriggio, finita la scuola, cominciano a spuntare da ogni dove. Figli del melting pot, di una società in cui le razze si sono amalgamate così omogeneamente da non essere più facilmente riconoscibili sui loro volti, saranno loro ad assicurare alla città bianca un futuro a colori.

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Solo otto mesi dall'inaugurazione della nuova sede a Londra della Saatchi Gallery e anche la terza rassegna, in corso dal 3 giugno al 17 settembre, sembra destinata a lasciare il segno. Abstract America, spaccato sull’arte d’oltreoceano, presenta una peculiare selezione di dipinti e sculture provenienti dagli Stati Uniti. I 34 giovani artisti, che pur rientrano in stretta relazione con la cor-rente Astratto Espressionista della metà del secolo scorso, sono stati selezionati per la specificità del linguaggio e degli strumenti espressivi in quanto interpreti della nuova era digitale. Ispirati e in-fluenzati dalla cultura multimediale, utilizzano Internet e Photoshop comunicando con libertà e ironia il loro vissuto. Una vera trasmissione di energia che diviene gesto, segno, co-lore.La più grande galleria d’arte contemporanea gratuita ha riaperto dopo due anni nella centralissima King’s Road. Già ospitata alla St. John’s Wood e la County Hall, ora si sviluppa su 6.500 metri quadri, tutta luce e atmosfera: quindici spazi espositivi caratterizzati da pareti e pavimenti bianchi come tele da imprimere.Una location imponente in linea con l’ambizione del suo creatore, il

Denuncia e provocator ia sper imenta-zione nella nuova sede della più gran-de galleria d'arte contemporanea gratuita

In alto, Communication, Cang Xin, 2006; veduta laterale ed esterna della Saatchi Gallery, Duke of York HQ, Courtesy of the Saatchi Gallery, London, © Saatchi Gallery, 2008.

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controverso guru della pubblicità e patron dell’arte, Charles Saatchi, personaggio discusso non solo per il conflitto generato dal duplice ruolo di collezionista e di mercante, ma anche per la predilezione, secondo i detrattori, per una certa produzione scandalistica. Nato a Baghdad nel 1943 da famiglia ebrea, si trasferisce a Londra nel 1950. Arriva al successo con la creazione, insieme al fratello Maurice, di quella che negli anni Ottanta fu l’agenzia pubblicitaria più grande del mondo, la Saatchi & Saatchi, da cui rompe per contrasti e fonda nel 1995 la rivale M&C Saatchi. Evento decisivo per la svolta della sua vita è l'incontro con l'opera di Jackson Pollock al MoMa di New York. Nel 1985 il desiderio di rendere l’arte accessibile a tutti, non solo alla ristretta cerchia di compratori e galleristi, lo porta a esporre le sue straordinarie collezioni. Da allora diviene artefice della fortuna di molti giovani artisti bri-tannici, Young British Artists, noti con l’acronimo YBAs. Uno fra tutti Damien Hirst, divenuto icona degli anni Novanta con l'opera intitolata L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente, un enorme squalo conservato sotto formaldeide in casse trasparenti, acquistata da Saatchi per 50 mila sterline nel 1991 e rivenduta tredici anni dopo all’esorbitante cifra di 7 milioni. La consacrazione a potente mecenate dell’arte arriva nel 1997 quando la Royal Academy di Londra esibisce 110 opere di sua proprietà in una mostra itinerante intitolata, non a caso, Sensation, termine ambiguo che significa non solo sensazione, emozione, ma anche senso, scalpore, impressione. Da New York a Berlino, il lavoro dell’Inglese Marcus Harvey fa versare fiumi d’inchiostro e gridare allo scandalo. La gigantesca riproduzione pittorica della foto segnaletica di Myra Hindley, assas-sina che negli anni Sessanta insieme all’amante torturò e uccise quattro bambini e un adolescente, prende forma dalle impronte di tante piccole mani. Ci si chiese allora fino che punto, alla fine del secolo scorso, l’arte potesse spingersi, se fosse arte anche inscenare i più carnali e

In questa pagina, da sinistra in senso orario: Dead Dad, di Ron Mueck; angel, di Sun Yuan and Peng Yu, 2008; Myra, di Marcus Harvey, 1995; old Persons Home (dettaglio), di Sun Yuan and Peng Yu, 2007; Yalta No.2, di Shi Xinning, 2006.

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bassi istinti umani: violenza, morte, sessualità. O se il vero intento non fosse piuttosto generare un coup mediatico orientato al business. Provocazione fine a se stessa, o invece evoluzione dell’arte? Sta di fatto che la prima mostra di Saatchi nella nuova sede, The revolution continues: new art from China, è stata da record: in tre mesi 500 mila visitatori. La rassegna ha esaminato, spesso irridendo, le tradizioni, i cambiamenti e le contraddizioni della Cina. Molti sono gli artisti che rileggono l’eredità lasciata da Mao, con la convinzione che la sua importanza sia stata trascurata dall’Occidente. Come l’irriverente Shi Xinning che riscrive la storia, inserendo il dittatore cinese in un dipinto raffigurante il senato americano e lo siede tra Churchill e Roosvelt nella foto simbolo della Conferenza di Yalta (1945).La panoramica ha dato grande risalto alla scultura, confermando anche la passione di Saatchi per l’arte figurativa iperrealista. Una inclinazione evidenziata già nel 1997 quando puntò i riflettori su Ron Mueck, un model maker australiano convertitosi alle belle arti che, con attenzione maniacale per i dettagli e l’abile stravolgimento delle reali dimensioni umane riesce a produrre lavori sconcertanti, come Dead Dad, che lo ha reso famoso. La struggente scultura in silicone, tecniche miste e veri peli umani, raffigura il padre morto, nudo, in scala ridotta per sottolinere la fragile evanescenza della vita. Con lo stesso scioccante e puntiglioso realismo Zun Yang e Peng Yu creano l’Angelo caduto. Il volto di un vecchio uomo sotto il peso delle sue stesse ali ispira timore reverenziale e compassione allo stesso tempo. Mentre Communication, autoritratto di Can Xing, performing artist che fa del suo corpo il mezzo con cui esprimersi, strappa un sorriso e incuriosisce. Una scultura che lo raffigura, mentre lecca il pavimento su cui è prostrato perchè, egli afferma, è attraverso la lingua, parte del corpo tra le più intime e sensibili, che si può raggiungere la comunione religiosa tra essere umano, ambiente e cose. Obiettivo che lui, sciamano bona fide, si prefigge. Ma il lavoro che più ha riscosso successo è Old persons home,

Qui, Ghost, di Kader Attia, plotone di donne inginocchiate in preghiera, 2007; the physical impossibility of death in the mind of someone living; tiger shark, glass, steel, formaldehyde solution, di Demian Hirst, 1992; Untitled from the Ghajar Series, di Shadi Ghadirian, 1998-1999; Untitled from the like everyday Series, di Shadi Ghadirian, 2000-2001.

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ossia Ospizio, un’altra opera del duo Yang e Yu. Tredici figure a dimensione reale raffiguranti i grandi della terra accasciati su sedie a rotelle. Castro, Arafat e compagni, errano per la sala in una sorta di spietato autoscontro globale.Come i cinesi, anche gli artisti mediorientali nell'evento appena con-cluso dal titolo Svelata: la nuova arte dal Medio Oriente, affrontano in maniera coraggiosa tematiche politico-ideologiche. Prima tra tutte, la condizione femminile nella società odierna, oggetto della satira più feroce. Sono donne i cui volti sbiadiscono come in vecchie fotografie; oppure ritratti ufficiali in cui appaiono eleganti e fiere mentre imbracciano l'aspirapolvere, o con i veli che coprono il volto sostituiti da grattugie, ferri da stiro, arnesi che ricordano l’immutevole e prigioniero ruolo domestico. Nella suggestiva installazione di Kattir Attia, Ghost, plotone di donne inginocchiate in preghiera, è sintetizzato da modellini in carta d’al-luminio: sempre uguali, senza volto, senza identità. Donne piegate e soggiogate al proprio immutevole ruolo domestico, che vivono in prigioni senza sbarre. Opere lapidarie, che non possono lasciare indifferenti.Come quelle ora esposte in Abstract America: new paintings and sculptures, tra cui spiccano le pagine di una quotidianità trasfigurata dal colore di Eric e Heather ChanSchatz, l'ironia di Stephen Rho-des, capace di stravolgere le forme in un'invenzione da cartoon. E ancora, i lavori di Dan Walsh, presentati anche a Milano alla galleria Paolo Curti/Annamaria Gambuzzi & Co.: grandi acrilici colorati, quasi monocromi nei quali l’uso ricorrente di un alfabeto composto da semplici elementi geometrici, linee, quadrati, rettangoli... crea composizioni astratte che dialogano e sono divenuti sempre meno “trascendenti” e più corporee, come colorate tovaglie estive. Nelle sculture di Carter in cellulosa, plastica e gel prende se stesso a modello dell'evoluzione di un uomo gay che diventa stereotipo dell'odierna omosessualità. Mark Grotjahn impagina le sue forme allungate in progressione logica e prospettica, crendo l'illusione ottica di un pulsare di arcobaleni.Saatchi: astuto burattinaio mediatico, abile mercante, o geniale propulsore dell’arte contemporanea? Sicuramente caustico e refrat-tario ai giornalisti. Al cronista del Sunday Times che gli chiede se le sue mostre trattano di Saatchi collezionista o di Saatchi mercante, risponde secco: “trattano di arte, stupido”.

A sinistra: 1949, Self Portrait as a Homosexual, 1965, 1970, di Carter, 2006; sopra, Magnolia Blvd, di Patrick Hill, 2006; a destra, k Is Multiplied, di Halsey Rodman, 2004 - 2007.

A sinistra, recondite, di Sterling Ruby, 2007; sotto, Continent, di Jacob Hashimoto, 2007.

A sinistra, PtG.96 M-P, di Eric and He-ather ChanSchatz, 2007; sotto a sinistra Untitled (large coloured butterfly white background 10 wings), di Mark Grotjahn, 2004.

A sinistra, red Diptych II, di Dan Walsh, 2005; a destra, Untitled (lavender Butterfly Jacaranda over Green), di Mark Grotjahn, 2004.

Sopra, Ssspecific object, di Stephen G. Rhodes, 2006.

ABSTRACT AMERICANEW PAINTINGS AND SCULPTURE

dal 3 giugno al 15 settembre

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NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE DIGITALI

IL VICTORIA AND ALBERT MUSEUM DI LONDRA, IN COLLABORAZIONE CON ONEDOTZERO, METTE IN SCENA FINO ALL’11 APRILE 2010 IL MEGLIO DELLA

CREAZIONE DIGITALE IN DECODE: DIGITAL DESIGN SENSATIONS, APRENDO UNO SQUARCIO SUL FUTURO DELL’ARTE DI CUI CONSACRA

UN NUOVO PROTAGONISTA: LO SPETTATORE

di Paola Marchini

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Una esibizione piena di sorprese, a cominciare dalla location principale, il V&A, museo normalmente votato alle collezioni storiche, che con questo progetto dimostra invece di aver intrapreso con vigore la strada dell’innovazione e della sperimentazione, anche in quanto possessore della più vasta collezione di media art al mondo.La rassegna, composta da opere create negli ultimi 5 anni o commissionate appositamente, è vasta, va dai semplici e piccoli monitor alle installazioni interattive su grande scala, e si dipana in diverse location: il Science Museum, la stazione di South Kensington ma principalemnte in una nuova ala della V&A, la Porter Gallery. Spazio a cui si accede varcando un’entrata imponente composta da pannelli rotanti rivestiti in fibra di carbonio riflettene alti 7 metri; un portone che è tutto una promessa di ciò che verrà. Attraversandolo si giunge infatti a un corridoio angusto e nero, costeggiato da due fitti filari di quelli che sembrano essere lunghi steli d’erba sulla cui cima si accendono al tocco piccoli pistilli in led (Dune di Daan Roosegaarde). La musica che ne esce poi, un trillio leggero che aleggia nell’aria seguendoci, contribuisce non poco a creare un senso di emozione e spaesamento. Ed ecco che appare la magia, ci si sente un po’ Alice nel paese delle meraviglie, giacché le “creature” in esposizione, immerse in una piccola stanza buia sono tutte colori, luci e suoni che mutano, si trasformano al nostro passaggio, ad un nostro gesto, ad una parola. Il richiamo è forte. Curiosi, ci avviciniamo al primo screen, poi al secondo, ammirando le forme che nascono in reazione al nostro agire, come nel caso del lavoro di Aaron Koblin, con il quale è possibile manovrare la trasposizione tridimensionale del volto di Thom Yorke, leader della band inglese Radiohead, grazie ad un complesso gioco di laser e sensori. Oppure On Growth and Form, una parata di fiori esotici che sbocciando si tramutano in ipnotica tappezzeria digitale. O ancora l’inquetante Opto-isolator II, l’occhio meccatronico, cioè funzionante mediante un sistema integrato di componenti meccaniche, elettroniche e informatiche, che “scruta” chi gli sta di fronte. Non ci vuole molto per capire che qui l’onnipresente divieto “per favore non toccare” è sostituito da un tacito “per favore toccate, agitatevi, urlate, saltate!”. Dictat a cui non ci si vuole certo sottrarre: uno sguardo a sinistra, uno a destra, per accertarsi che nessuno ci veda mentre, ad esempio, ci dimeniamo come tarantolati di fronte a Body Paint (vedi sopra), grande display virtuale sul quale “dipingere” con il proprio corpo affreschi caleidoscopici e in costante evoluzione.

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In apertura, in alto Dune di Daan Roosegaarde, sotto, Opto-Isolator II di Golan Levin; nella pagina a fianco, Body Paint di Mehmet Akten e a sinistra House of Cards di Aaron Koblin. In questa pagina la silhouette di un bambino che gioca con un virtuale fiore di tarassaco: Digital Dandelion della ditta Sennep. Nelle due pagine seguenti Videogrid di Ross Phillips.

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Foto: per gentile concessione di V&A Images

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È sì perché la cosa che più rimane impressa, è che ci si diverte un sacco, ci si anima, concetti raramente associati alle visite museali. Una novità fra le novità.Tra gli sviluppi più innovativi e onorevoli in tema di design digitale presentati, vi è il concetto di “open source code”, traducile con “codice accessibile” cioè che può essere modificato da chiunque, qui esemplificato da Recode. Un programma ideato da Karsten Schmitt, che è scaricabile da internet, e per il quale Karsten ha persino disegnato l’interfaccia grafica, così da consentire anche a chi non è un programmatore esperto di esprimere la propria fantasia in pixel. Software generativi, animazione 3D ed altre tecnologie reattive fanno sì che vi sia un elemento “vivo” introvabile altrove. Una rivoluzione sostanziale quindi che registra il crollo del muro che ha sempre separato creatore e spettatore, e sfuma il confine tra mezzi, metodologie, programmazione e performance.E pensare che sono già passati più di 40 anni da quando, nel 1968, Jasia Reichard scelse di esibire presso l’Institute of Contemporary Art della capitale britannica Cybernetic Serendipity: Computers and Arts; il primo tentativo di riunire sotto uno stesso tetto le varie forme di arte creata con l’utilizzo di computer. Robotica, scultura, musica e poesia a testimoniare l’uso della cibernetica nella produzione artistica contemporanea. Da allora però l’evoluzione è stata enorme, anche in termini di coinvolgimento umano. Dalle poche decine di computer artists negli anni sessanta, si arriva oggi ad una comunità di centinaia di migliaia di operatori, numeri che hanno innalzato la qualità e creato competizione.Tutto fantastico, penserete. Ma anche questa realtà presenta un rovescio della medaglia. L’evoluzione delle tecnologie, e delle nuove possibilità che queste offrono avviene a velocità esponenziale; il che porta inevitabilmente alla breve longevità delle opere create, con annesso tutta una serie di complessi problemi pratici. Primo fra questi, le competenze. Competenze di chi, all’interno di un istituzione museale dovrà essere in grado di riconoscere, gestire, e mantenere in vita il capolavoro. Non dimenticando poi il collezionista, il quale, nel valutare l’investimento dovrà soppesare il fatto che tra solo una decina d’anni potrebbe trovarsi in possesso di un qualcosa di morto, inutilizzabile poiché animato da tecnologia ormai obsoleta il che, tradotto in moneta, equivarrebbe a un assegno a vuoto. Ne deriva la necessità di ripensare a come porsi di fronte alle nuove forme d’arte e a come valutarle.Creatività senza frontiere, immaterialità, intangibilità, e un dubbio, derivante dall’osservare le file impazienti che si formano davanti a Venetian Mirror, due metri di schermo ad alta definizione che, per mezzo di una videocamera, riflette l’immagine di chi vi si pone dinnanzi o a Videogrid, installazione che permette agli utenti di registrare brevi video che vengono immediatamente trasmessi a scacchiera su di un mega televisore, solo per citare alcuni esempi. Inevitabile chiedersi pertanto se il grande apprezzamento dimostrato dal numeroso pubblico di questa collettiva londinese sia dovuto alla meraviglia nello scoprire le possibilità infinite del mondo digitale o non sia bensì il ruolo di protagonista che questa regala, anche se solo per pochi istanti? Il sottile piacere provato nel vedere la propria immagine sulla parete di uno dei più autorevoli musei del mondo? Aveva forse ragione Gustave Flaubert quando diceva che “la vanità è alla base di tutto”? Il dubbio è plausibile e rimane, ma una cosa è certa: questa mostra è da non perdere.

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