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“IN-DIPENDENZE CULTURALI.
L’INCLUSIONE AI TEMPI DELL’INSICUREZZA” 25-27-giugno 2008
Seminario Regionale “Quale inclusione ai tempi dell’insicurezza?” 25 giugno 2008
Sala della Partecipazione - Palazzo Cesaroni - Piazza Italia
Introduzione
Massimo COSTANTINI, Presidente CNCA Umbria. Intanto un saluto a tutti dal CNCA
Regionale. Io sono Massimo Costantini e vorrei spiegarvi un momento il senso di questa
iniziativa. “In-Dipendenze culturali” è un’iniziativa che è nata intorno alla Giornata mondiale
contro l’abuso e il traffico illecito delle sostanze stupefacenti, che è il 26 di giugno. Abbiamo
preso questo pretesto anche perché la situazione delle dipendenze a livello regionale è
abbastanza emblematica. L’iniziativa è di tre giorni e prevede una serie di eventi: questo
convegno di oggi dal titolo “Quale inclusione ai tempi dell’insicurezza?”, poi, come vedrete
anche nel programma che avete in cartellina, domani il CNCA Umbria parteciperà all’evento
nazionale organizzato dalla “Tavola dell’alta integrazione”con Federserd e Ficte (Federazione
Italiana Comunità Terapeutiche), che incontreranno il Sottosegretario Giovanardi per capire che
livello di dialogo e di ascolto possiamo avere dalla politica in questo particolare momento;
domani pomeriggio e venerdì pomeriggio, prima a Terni e poi a Perugia, ci sarà la presentazione,
e la conseguente tavola rotonda, del libro di Susanna Ronconi e Monica Brandoli “Città, droghe
e sicurezza”. Ci sembrava assolutamente interessante approfondire questo tipo di tema, vista
anche la situazione regionale per quanto riguarda le dipendenze. Abbiamo invitato a questi tre
eventi gli Assessorati alla Cultura e a Perugia sarà presente anche l’Assessore all’Urbanistica
perché ci sembrava interessante studiare riguardo a questo argomento anche il tema della
sicurezza nelle città. Venerdì mattina, poi, avremo un altro seminario dal titolo “Prossimità e
sicurezza: 10 anni di Unità di Strada a Perugia”, perché ci piace festeggiare così, con questo
seminario, i 10 anni di Unità di Strada e di intervento di prossimità a Perugia.
Brevemente, qual è la nostra ambizione? Il seminario di oggi e i lavori di questi tre giorni
avremmo l’ambizione di farli diventare un momento fisso a livello regionale, cioè ogni anno
vorremmo comunque creare, piano piano, un momento di discussione partendo, appunto, dal
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tema delle dipendenze, ma non solo, cioè allargando comunque il dibattito anche a tutta la
questione sociale. La nostra idea è che, appunto, quello di quest’anno sia l’inizio di una serie di
appuntamenti annuali.
Il titolo del nostro seminario è: “Quale inclusone ai tempi dell’insicurezza?” e perché abbiamo
scelto questo tema è facilmente comprensibile: adesso il tema della sicurezza è dominante,
soprattutto per quanto riguarda l’opinione pubblica e anche i media, che comunque mandano un
messaggio molto forte relativo alla sicurezza sul tema della repressione, del controllo sociale.
Noi vorremmo da oggi tentare, con tutte le difficoltà di cui ci rendiamo conto, di ribaltare
culturalmente questo tema. Ovviamente il tema della sicurezza ci sembra importante, ma ci
sembra che comunque la vera emergenza del paese e anche della regione non sia tanto il discorso
della sicurezza, quanto il porre al centro la questione sociale nella sua globalità. Il fatto che
comunque ancora questo paese, la politica soprattutto, non sia riuscito a porre al centro e ad
assumere con forza questo tema - con la forza che noi ci aspettavamo, con la forza con la quale
noi ormai da anni abbiamo chiesto sia al governo regionale, che nazionale una presa di coscienza
sulla questione sociale - ci dice che la battaglia è difficile, ma non impossibile. E comunque
questo di oggi vuole essere un momento di apertura, un segno di speranza, perché comunque
sappiamo che sono molte le persone, sono molti i soggetti che credono come noi che le politiche
di sicurezza debbano partire da politiche di inclusione sociale.
Ora, a livello nazionale (poi ce ne parlerà un po’ più diffusamente Joli Ghibaudi del CNCA
Nazionale) il CNCA è fra i capofila dell’iniziativa “Cantiere del Welfare” con la quale, con una
serie di sigle nazionali, stiamo tendendo di prendere una sorta di distanza anche dalla politica,
soprattutto da quella politica dalla quale non ci sentiamo rappresentati, per tentare un dialogo
soprattutto con la gente, ma anche, ovviamente, con tutti gli amministratori che sono disponibili
a questo lungo cammino che dovrebbe portarci, nella nostra utopia – “un’utopia possibile”, per
dirla con il gergo del CNCA - ad avvicinarci a porre al centro, appunto, tutta la questione sociale.
Ora, brevissimamente, poi passerò la parola agli altri relatori che vi presenterò, cercherò di fare
un quadro della situazione dell’Umbria. La situazione dell’Umbria ci sembra molto
emblematica; noi abbiamo una serie di emergenze che sono anche imbarazzanti e una serie di
segnali di buona volontà importanti. Innanzitutto c’è la questione dell’emergenza dell’overdose e
noi vorremmo partire anche da qui, perché da questo punto di vista ci sembra interessante capire
anche com’è possibile riconiugare questa emergenza. Ovviamente a livello nazionale siamo
passati alla ribalta per un tristissimo primato: anche nel 2007 abbiamo avuto il maggior numero
di morti per overdose in assoluto a livello nazionale come regione. Questo dipende da una
molteplicità di fattori, come voi tutti sapete meglio di me: abbiamo comunque l’insistenza
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all’interno del nostro territorio della malavita organizzata, c’è tutto il discorso legato al traffico
illecito delle sostanze illegali. Però ci viene anche da chiederci: ma sulle politiche giovanili, per
esempio, stiamo coniugando tutte le politiche possibili, possiamo fare di più da questo punto di
vista? Come ci siamo posti il problema, nella città di Perugia, di tutta la subpopolazione, diciamo
così, degli studenti che provengono da tutte le parti d’Italia, ma anche dei molti studenti stranieri
che abitano le nostre città? Come abbiamo organizzato questa questione? Come ci siamo pensati
nell’inclusione di queste persone che insistono nel nostro territorio? Alcuni fatti di cronaca fanno
emergere che probabilmente alcuni punti di criticità ci sono.
Un altro aspetto importante ci sembra anche quello del carcere. I carceri che sono presenti nel
nostro territorio sono un corpo estraneo, oppure è possibile tentare la scommessa di fare di questi
luoghi dei luoghi mirati alla riabilitazione, all’inclusione? Ora sarebbe interessante fruttare il
momento in cui anche all’interno del carcere c’è il passaggio, per le situazioni sanitarie, al
Servizio Sanitario Nazionale per questa responsabilità.
E poi dobbiamo porci anche la questione di genere. Quante violenze esistono nelle nostre case?
Quanti nuovi nuclei genitoriali in difficoltà esistono perché uno dei due coniugi, soprattutto
l’uomo, usa violenza nei confronti della donna? Le separazioni stanno aumentando? Le donne
con bambini hanno difficoltà anche economiche, qualora non esistano problemi particolari, per
l’andamento normale della loro vita?
Ecco, tutte queste cose ovviamente ci fanno interrogare e ci fanno interrogare in un momento
particolare della nostra regione perché stanno per essere varati i due Piani Sanitario e Sociale.
Ora, molto brevemente, e qui concludo, da una parte noi condividiamo e siamo stati anche parte
degli attori di questo lavoro di programmazione partecipata del quale noi siamo stati convinti
sostenitori, quindi apprezziamo lo sforzo regionale di questi momenti. Però abbiamo una paura e
la diciamo, abbiamo un dubbio e lo diciamo: non vorremmo che ci sia un grosso sforzo per
quanto riguarda l’organizzazione, la programmazione, l’implementazione di una serie di
politiche inerenti i Piani Sanitario e Sociale, e che poi non ci fosse da parte della politica quel
giusto investimento per quanto riguarda le politiche sociali, la questione sociale in generale, che
permetterebbe l’implementazione di tale modello. Ora, questo dubbio permane, cioè francamente
non ci sembra (qui abbiamo anche l’Assessore Stufara che poi ci dirà qualcosa da questo punto
di vista) che politicamente, anche a livello di Giunta, ci sia un’assunzione della questione
sociale, ma ci sembra che sia ancora marginale, soprattutto per quanto riguarda l’investimento
delle risorse. Questo ovviamente ci fa interrogare in questo senso: non vorremmo che comunque
sia, anche dopo il varo dei nuovi Piani, permanessero i problemi che sono sempre esistiti, cioè
che le politiche sociali e le parti marginali del Servizio Sanitario comunque non diventassero un
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servizio universalistico in tutti i territori, ma permanesse una situazione a macchia di leopardo
che comunque non crea assolutamente una situazione di giustizia sociale. Ora, ci piace pensare
all’Umbria come ad un territorio dove, anche se piccolo, si possano però sperimentare delle
politiche di inclusione all’avanguardia rispetto al territorio nazionale.
Dopo questa breve premessa, passo all’organizzazione della giornata. Avevamo previsto alcuni
relatori, ma alcuni di questi non ci saranno, verranno nel pomeriggio. Innanzitutto che cosa ci
aspettiamo da questa giornata? Noi abbiamo invitato Leopoldo Grosso, che coordinerà un po’ i
lavori, e l’idea è che, dopo l’ascolto di una serie di interventi, nel pomeriggio, dopo il pranzo,
vorremmo tentare di costruire un documento condiviso sul tema della sicurezza e dell’inclusione
sociale. Questo potrebbe essere un nuovo punto di partenza per porre la questione da un punto di
vista culturale nel nostro territorio, nella nostra regione, e quindi gli interventi di questa mattina
serviranno per poi aprire un dibattito nel pomeriggio. Leopoldo sintetizzerà, a chiusura della
mattinata, gli interventi e rilancerà il dibattito nel pomeriggio. L’idea è quella di riuscire a
chiudere un documento condiviso, questo è quanto.
Gli interventi di questa mattina, invece, saranno i seguenti: dopo un’introduzione di Leopoldo
Grosso anche su una visione un po’ esterna di quella che è la situazione dell’inclusione anche
nella nostra regione, daremo la parola all’Assessore Stufara, che per impegni poi dovrà
assentarsi. Dopodiché non avremo l’intervento dell’Assessore alle Politiche Sociali del Comune
di Perugia Tiziana Capaldini, che verrà solo nel pomeriggio e che comunque ha assicurato la
partecipazione al dibattito. Successivamente daremo la parola a Susanna Tabarrini, del Nucleo
Operativo Territoriale della Prefettura, sul tema “Quali sinergie mettere in campo?”;
successivamente avremo l’intervento della dott.ssa Claudia Covino, Direttore del Dipartimento
per le Dipendenze della A.S.L. 2, che ci parlerà del tema “Quale qualità della vita per i
consumatori di sostanze?”. Non avremo l’intervento di Marcello Catanelli, perché è malato e
quindi non è potuto intervenire, su “Quali strategie sociosanitarie?”. Concluderemo poi con una
visione più d’insieme a livello nazionale fatta da Joli Ghibaudi del CNCA Nazionale, che ci
illustrerà anche l’iniziativa del “Cantiere del Welfare”.
Quindi, ora, ringraziandovi, passo la parola a Leopoldo Grosso.
Interventi
“Quale inclusione vive e propone l’Umbria?”
Leopoldo GROSSO, Vice Presidente Gruppo Abele. Grazie per l’invito a partecipare a questa
giornata che ha un obiettivo un po’ ambizioso, cioè quello di stendere un documento, perlomeno
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le linee più generali di un documento, che ha come obiettivo quello di cercare di individuare
quelle che sono le difficoltà che oggi si incontrano e coniugare il lavoro che si fa sul sociale e sul
sanitario con la problematica della sicurezza. Noi siamo profondamente convinti che solo se si
mettono insieme questi tre aspetti, quindi il lavoro sul sociale, il lavoro sul sanitario e il lavoro
degli operatori della sicurezza, possiamo avere delle politiche che siano effettivamente di
inclusione e non di esclusione, e che, quindi, anche gli aspetti più tipicamente repressivi
rimangano così confinati alle situazioni che effettivamente debordano in comportamenti
criminali.
Ma mettere insieme questi tre aspetti non è scontato, non è scontato anche perché non c’è ancora
una chiara consapevolezza, in molti ambiti del nostro fare sociale e sanitario, che alcuni
interventi di reinserimento sociale e di inclusione sociale danno un contributo molto alto alla
sicurezza. Ci sono alcuni studi, che purtroppo non sono italiani ma sono europei, che, per
esempio, dicono che con un buon assetto dei servizi, che riescono a coniugare un insieme di
funzioni, si ha una riduzione della criminalità così detta “predatoria”, legata alle situazioni di
dipendenza, di quasi l’80%. Quindi, sostanzialmente, quando c’è un assetto di servizi che
puntano in particolare su alcune funzioni, cioè il facile accesso e poi la ritenzione in trattamento,
e quando poi a questi primi due obiettivi fa seguito un programma di intervento che punta
sull’inclusione sociale, quindi interventi che vanno dalla riabilitazione all’inserimento socio-
abitativo, ad interventi di riduzione del danno in senso stretto, si riesce fortemente a ridurre
l’indotto della criminalità.
Noi dobbiamo cercare, in qualche modo, a livello cittadino, quindi a livello delle città, in ogni
città - città che anche nella vostra regione sono forse più coinvolte da problematiche che creano
difficoltà a settori produttivi o a settori dell’opinione pubblica - di creare dei tavoli in cui ci siano
queste tre componenti, quindi gli operatori della sicurezza, gli operatori del sociale e gli
operatori del sanitario, perché se noi riteniamo che l’inclusione sia una parte non secondaria
della sicurezza, questo vuol dire che ogni tavolo dovrebbe dotarsi di un piano di lavoro e questo
piano di lavoro è possibile costruirlo e renderlo operativo solo se si crea uno sguardo comune e
condiviso sulle problematiche da affrontare e su come affrontarle; quindi è necessario che questo
tavolo si doti di un coordinamento stretto e soprattutto di un coordinamento operativo, quindi
dovrebbe essere probabilmente un tavolo che, da una parte, riesca a far confluire le altre
rappresentanze istituzionali della città, ma, dall’altra, dia anche piena delega a coloro che, una
volta definite le linee, le debbono attuare e che possano confrontarsi in maniera stretta su come
funziona il lavoro di coordinamento per poter fare le giuste verifiche.
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Questo non è un obiettivo facilmente raggiungibile perché noi sappiamo, dalle esperienze
italiane in particolare, che i tavoli si costruiscono sull’emergenza, e quindi, sull’onda di qualche
episodio che magari capita a raffica in qualche zona del territorio, c’è un movimento
dell’opinione pubblica, l’opinione pubblica preme, la stampa fa la sua parte e magari
sull’emergenza si crea il tavolo. La difficoltà è di rendere questi tavoli permanenti, strutturati e
che vogliono governare pienamente il territorio utilizzando gli strumenti di coesione sociale.
Per quanto riguarda i servizi e in particolare i servizi per le dipendenze, la declinazione
dell’integrazione dovrebbe dipanarsi su più interventi. Uno, per esempio, è quello preventivo.
Che cosa si tratta di integrare a livello preventivo? Da una parte, si tratta di integrare interventi
che sono mirati all’attenzione alla domanda, e quindi al rafforzamento dell’area del non-
consumo, con interventi che invece hanno come obiettivo la riduzione dei consumi tra chi
consuma e non ha intenzione di smettere di consumare; parliamo soprattutto del fenomeno delle
droghe sintetiche e quindi delle droghe da prestazione, non di quelle da estraneazione. Però
diciamo che forse in questi aspetti il problema è riuscire a mantenere un forte equilibrio tra la
protezione e l’area del non-consumo, che è l’area maggioritaria, e gli interventi invece più
dedicati alla prevenzione selettiva, all’area dei consumatori. Molto spesso questo equilibrio non
riusciamo a mantenerlo neanche nella proporzione degli interventi che svolgiamo. Tenete
presente che oggi, nonostante l’espansione del consumo soprattutto per le tre sostanze di base
(due legali e una illegale: alcol, tabacco e cannabis) e l’espansione anche del consumo di
cocaina, tanto che tutte le ricerche, soprattutto quelle del CNR, dicono che almeno una volta
nella vita una persona ha consumato e quindi arriviamo a proporzioni che sfiorano a volte, in
alcune situazioni, il 30% della popolazione, nel momento in cui però parliamo di consumo
problematico siamo all’1,5% della popolazione. Allora questo dato noi dobbiamo assolutamente
tenerlo presente, perché anche quando si va a fare prevenzione all’interno delle aule scolastiche,
noi ci rivolgiamo, anche nelle scuole superiori, quindi alla fine del biennio o nel triennio pieno,
ad una popolazione che comunque può avere eccezionalmente consumato, ma abitualmente non
consuma, quindi dobbiamo tener presente che la diffusione di una dispercezione di quello che è
il consumo delle sostanze può ottenere un effetto opposto. Mi spiego: l’ultima lezione da questo
punto di vista è arrivata da una campagna massiccia che è stata condotta negli Stati Uniti contro
il consumo di cannabis, utilizzando, quindi, molte risorse economiche, utilizzando i mass media
etc., con l’obiettivo di ridurre il consumo. Avendo investito cifre ingenti in denaro in questa
campagna, è stata chiesta all’Università di Pennsylvania una valutazione sui risultati di questa
campagna e il dato che è emerso, che è un po’ paradossale, è che in realtà c’era stato un forte
effetto boomerang, cioè: insistendo così tanto sul consumo di hascisc e marijuana da parte dei
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giovani, l’effetto era stato, soprattutto sulle fasce giovanili, quello di pensare: allora consumano
tutti, sono solo proprio io che non consumo, e quindi paradossalmente c’era stata una spinta al
consumo. Perché? Perché il dato che veniva recepito non era difendersi dal consumo, ma era:
allora tutti consumano e quindi, se io non consumo, sono una minoranza, e allora in qualche
modo mi adeguo a quello che fanno gli altri, quindi c’è stato un effetto boomerang di tipo
paradossale. Il che vuol dire, però, che questo aspetto di prevenzione, quello classico di
prevenzione primaria, va coniugato con gli altri interventi di riduzione dei rischi a livello del
consumo.
Sugli interventi di riduzione dei rischi, soprattutto all’interno dell’uso delle sostanze psicoattive
coniugate al divertimento giovanile, ormai si è fatta abbastanza esperienza in Italia. Quello che
anche qui non c’è, come neanche sugli interventi di prevenzione primaria per il non-consumo
fondamentalmente, è che non si sono mai creati sostanzialmente neanche qui dei coordinamenti,
delle strutture che abbiano una tenuta nel tempo e quindi una lunga durata. Perché quando noi
diciamo questo con lo sguardo rivolto ai Servizi, non pensiamo ai progetti dei Servizi, ma in
realtà queste idee, che sono delle vere e proprie politiche di intervento, dovrebbero essere
sostenute da dei coordinamenti operativi che durino anche questi nel tempo.
L’integrazione che è richiesta, invece, a livello della cura essenzialmente, della riabilitazione, è
in particolare una: quella tra gli interventi medico-farmacologici e gli interventi psicosociali.
Abbiamo visto che gli interventi a mantenimento metadonico danno dei discreti risultati di
stabilizzazione, ma potrebbero esserci elementi superiori se fossero maggiormente integrati con
gli interventi psicosociali. Questa integrazione, però, difetta un po’ per mancanza di risorse, sia
di personale e sia soprattutto di risorse a sostegno di progettualità di integrazione e di inclusione
psicosociale. L’anello debole di questa politica è in particolare quello degli inserimenti
lavorativi. Se vogliamo potenziare gli interventi di inclusione sociale, dobbiamo soprattutto
potenziare l’area del reinserimento lavorativo, anche abitativo, ma soprattutto lavorativo, perché
l’inserimento lavorativo è ovviamente a sostegno anche del reddito della persona. Le
remunerazioni che dà un inserimento lavorativo sono su molteplici piani; il problema è che su
un’area fortemente emarginata e fortemente tagliata fuori, bisogna condurre una politica che dia
la possibilità di avere occasioni di fare e un’attività lavorativa molto tarata sulle capacità delle
persone, che a volte sono anche capacità residuali, e quindi bisogna riuscire ad avere un arco di
interventi dove le cooperative di tipo B in genere sono già considerate all’interno
dell’inserimento ad alta soglia e non dell’inserimento a bassa soglia, e quindi si tratta di
un’articolazione di interventi che, diciamo, si dipana tutta prima della possibilità di utilizzare le
cooperative di tipo B, che tradizionalmente invece vengono utilizzate quando non riesce un
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inserimento lavorativo a tutti gli effetti. Però bisogna lavorare comunque sull’unità di aggancio e
di valorizzazione delle capacità di fare delle persone, qualunque esse siano, su un’area che
probabilmente sta prima delle cooperative di tipo B e rispetto alla quale le stesse cooperative di
tipo B sono oggi in difficoltà ad offrire opportunità. Però questa è un’area fondamentale per gli
interventi di integrazione psicosociale agli interventi farmacologici.
Un’altra area di integrazione è quella fra l’istituzione di nuovi servizi e il volontariato e la
valorizzazione di un apporto costruttivo dell’utenza, chiamiamola così. Non bisogna mai
dimenticare quanto sui nostri temi sia fondamentale continuare a svolgere un lavoro in
profondità di stimolazione e sensibilizzazione del volontariato, perché rimane un anello di
congiunzione fondamentale con la società a seguire non solo per l’apporto concreto e importante
che dà rispetto a singole situazioni o anche allo svolgimento di pezzi non sempre solo laterali di
servizio, ma soprattutto per la funzione di rapporto culturale che il volontariato riesce a svolgere
tra i Servizi e le difficili scelte che i Servizi a volte devono fare per essere efficienti e la
possibilità concreta da parte della popolazione. Mi sembra che invece in questi ultimi anni la
spinta da parte dei Servizi a creare volontariato intorno ad essi sia un po’ diminuita, così com’è
diminuita rispetto ad una decina di anni fa, sotto l’emergenza dell’AIDS in particolare per quanto
riguarda le nostre situazioni, la spinta ad un lavoro con l’utenza intesa non come un problema,
ma come risorsa, e quindi la spinta all’utenza ad una collaborazione, ad un coinvolgimento attivo
nella partecipazione e nella gestione anche di altri servizi. Non mi dilungo su questa questione
della valorizzazione dell’accompagnamento della formazione del volontariato e dell’utenza a
svolgere un lavoro attivo perché sappiamo che in parte questo è un lavoro che già compete ed è
in mano all’Unita di Strada, però dovrebbe essere più diffuso e preso in mano dall’intero sistema
dei Servizi.
Un’altra integrazione su una prevenzione che potremmo definire secondaria è quella che deve
avvenire sul piano della sicurezza stradale. Sappiamo che uno degli indotti dell’alterazione dei
comportamenti data dalle sostanze è anche una velocità eccessiva alla guida e una minore
capacità di padroneggiare il mezzo in determinate situazioni, sappiamo il ruolo che hanno l’alcol
e la cocaina in particolare, purtroppo, nel creare le condizioni per molti incidenti. Be’, qui
bisogna integrare molto di più il lavoro dei Comuni in particolare e delle forze dell’ordine, non è
possibile che l’Italia sia sotto ad un trentesimo dei controlli che fanno altri paesi, tipo la Francia
e la Spagna, su alcol e guida e così via. Siamo in una situazione in cui i Comuni, non solo si
prestano all’autovelox a vicenda, ma si prestano anche gli etilometri a vicenda per scarsità di
risorse e per non attuare, invece, una politica del controllo sulla guida a livello preventivo degli
incidenti, che diventa fondamentale, integrato con l’attività di prevenzione che fanno gli
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operatori, anche in funzione integrata tra A.S.L. e Servizi del Comune, all’interno e al di fuori
dei locali.
E poi c’è il controllo sociale, cioè quanto un tavolo che in qualche modo riesce a creare un
progetto condiviso sulla sicurezza, dove, quindi, mette insieme gli operatori sanitari, gli operatori
sociali e gli operatori della sicurezza, riesce a creare all’interno di obiettivi condivisi anche una
connessione più stretta di operatività. Sappiamo che non è facile mettere insieme l’operatore e il
poliziotto, le competenze sono divise e ben chiare per ognuno, però conoscersi di più,
apprezzarsi di più per usarsi meglio nei reciproci risvolti di ciascuno dei servizi è importante,
perché sappiamo quanto sia utile agli operatori della sicurezza, quando devono rendere esecutivo
uno sfratto, avere vicino un operatore sociale, e sappiamo viceversa che nell’assedio di molti
Servizi da parte di alcune frange di utenza che molto pretendono, molto spesso gli operatori sono
obbligati a ricorrere agli operatori della sicurezza. Quindi, nei fatti c’è l’esigenza di lavorare
meglio insieme. Sappiamo anche quanto, all’interno di un piano cittadino condiviso da tutte
queste forze, il lavoro degli operatori della sicurezza possa mediare tra penale e sociale, e quanto
soprattutto con coloro che sono in carico ai Servizi e che a volte tendono a sfrangiarsi dalle
terapie, dal lavoro di cura, dal lavoro di riabilitazione, gli operatori della sicurezza che stanno
sulla strada hanno la possibilità, invece di usare a volte non necessariamente la mano pesante
della repressione, di utilizzare la minaccia della stessa e di aiutare a ricondurre sostanzialmente
ai Servizi molti personaggi che sono sul filo tra attività microcriminale e devianza non
necessariamente criminogena. Allora su questo dovremmo ragionare di più, però è possibile
ragionare realtà per realtà solo se esiste un coordinamento stretto.
Un altro lavoro che implica una forte integrazione a più livelli è la bonifica di ambienti sociali
degradati di cui purtroppo ogni città è caratterizzata. Io vengo da un lavoro che è stato fatto a
Padova, dove c’è una situazione che conoscete perché è stata anche sui giornali (gli anelli etc.),
dove, quindi, il problema è, da una parte, riuscire a intervenire sulla scena aperta della droga
perché gli spazi che sono stati resi propri ed esclusivi dallo spaccio e dalla criminalità vengano in
qualche modo restituiti ai cittadini. Ma questo non può avvenire solo con il contributo, quando è
necessario, delle forze dell’ordine, ma avviene anche con un’iniziativa da parte dei cittadini
stessi che siano in grado in riappropriarsi di alcuni giardini pubblici, di alcuni stabili etc.. Però è
indispensabile un lavoro di riqualificazione urbana. E allora non si tratta solo di riuscire ad
eliminare alcuni ghetti dove si sono consolidate delle aree di emarginazione, ma si tratta
soprattutto di evitare che se ne creino altre, e su questo ovviamente l’integrazione non può essere
che all’interno di una strategia molto attenta da parte delle Giunte comunali.
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Quali indicatori possiamo in qualche modo ricavare da un lavoro di integrazione a tutti i livelli,
sanitario, sociale, sicurezza, prevenzione primaria, prevenzione secondaria, cura, riabilitazione e
così via? Dal momento che sappiamo solo che se riusciamo a fare questo lavoro di integrazione,
l’intervento funziona, altrimenti non funziona, io direi che forse l’indicatore migliore di questo
tipo di lavoro sia misurare la qualità, la stabilità e la ricchezza della vita che hanno i
coordinamenti che siamo riusciti a creare. Questo è un lavoro di rete e sappiamo quanto il lavoro
di rete sia faticoso, sappiamo quanto sia necessario fare una “manutenzione” della rete, e non
entro su questo argomento. Noi abbiamo: il coordinamento sulla sicurezza stradale, il
coordinamento sulla prevenzione rivolta ai giovani e il mondo della notte, il coordinamento sugli
interventi di riduzione del danno, il coordinamento del tavolo principale, che è il livello
cittadino. Si deve poi articolare il coordinamento sugli interventi in particolari zone a
consolidamento marginale, che sono diventate delle zone franche, sostanzialmente, dello spaccio
e della criminalità. Solo se riusciamo a mettere insieme istituzioni, servizi di diverso tipo,
cittadinanza attiva, e riusciamo a mantenere vivi dei coordinamenti su tutti questi aspetti che
riguardano vari interventi differenziati e che interessano anche diverse zone della città, possiamo
avere il migliore indicatore quando andiamo a fare una valutazione. Mi rendo conto che è ancora
un indicatore di processo e non è un indicatore di esito, però se ci dicono che i coordinamenti
sono vivi, che stanno facendo delle iniziative e se cercassimo di valutarli etc., questo, secondo
me, al momento, potrebbe essere l’indicatore più utile.
Ultima questione - questa è solo un’introduzione che consente semplicemente ad uno che è
esterno alla vostra regione, e che quindi la conosce in maniera molto limitata se non perché ha
parlato con alcuni di voi, ha partecipato ad alcuni dibattiti, ha letto qualche documento, di fare un
quadro della situazione - è il lavoro che riguarda in tutto questo la mediazione sociale. Rispetto
ad alcune situazioni complesse che fungono da detonatore, perché ciascuno di noi porta dentro di
sé “il suo negro” e quindi ciascuno di noi in qualche modo ha il suo capro espiatorio
preferenziale su cui scaricare le proprie frustrazioni, spiegare, spiegare, spiegare a volte non
basta, bisogna in qualche modo riuscire ad assumere, se ci riusciamo, anche il punto di vista di
coloro i quali non condividiamo scelte e modalità di porsi. E’ difficile, però se vogliamo fare un
lavoro di mediazione sociale, questa è un’operazione mentale fondamentale. E per fare questo,
dobbiamo in qualche modo immedesimarci nella loro difficoltà o in quelle che sono anche le
fonti della loro rabbia, che probabilmente stanno in un’insicurezza che non ha niente a che fare
con la minaccia contingente che può essere percepita dall’esterno, cioè non ha niente a che fare
con una minaccia percepita, o meglio, dispercepita, ma forse ha molto più a che fare con le fonti
di insicurezza che riguardano la loro vita. Allora se riusciamo a fare questa identificazione, e
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quindi a non farne solo un problema razionale ma anche una capacità emotiva di vicinanza, forse
riusciamo a far meglio il lavoro di mediazione, perché mediazione vuol dire andare incontro,
vuol dire in qualche modo assumere il punto di vista dell’altro e trovare, con difficoltà, il punto
di incontro, e quindi bisogna avere un po’ di empatia.
A me ha molto colpito a questo proposito quanto mi ha detto un operatore che lavora nei
dormitori popolati soprattutto da stranieri e stranieri clandestini. Questo lavoro cominciava a
pesargli e quindi in qualche modo denotava anche un po’ di stanchezza, però mi ha lanciato
questa osservazione, mi ha detto: sai cos’è incredibile? Che di notte, quando tutti dormono, in
realtà tutti parlano, perché tutti parlano nel sonno, ma la cosa ancora più incredibile è che quando
parlano nel sonno, ciascuno parla nella sua lingua. Un operatore che è in grado di fare queste
notazioni, che sono notazioni di qualità perché vuol dire che intanto non sta dormendo mentre gli
altri dormono ma è lì che in qualche modo cerca di rendersi conto, è un operatore che ha ancora
molta empatia perché un operatore che fa queste notazioni è un operatore fortemente empatico.
Ma la nostra empatia non deve essere a senso unico, dobbiamo cercare di distribuirla equamente
su tutta una serie di parti sociali che finiscono poi per configgere tra loro in maniera molto
improduttiva. Il cammino è lungo, la strada è irta di ostacoli, non so se l’obiettivo che ci siamo
dati oggi di cominciare a buttare giù qualche linea importante in un documento comune possa
essere utile alla città da parte di forze sociali che però, comunque, su questi problemi ci lavorano
e quindi qualche idea se la sono fatta. Quindi questa mattina sentiamo tutti gli altri contributi,
però oggi pomeriggio poi ci tocca cercare di approfondirli e lavorare. Grazie.
Massimo COSTANTINI, Presidente CNCA Umbria. Grazie a Leopoldo. Ora passiamo la
parola all’Assessore regionale alle Politiche Sociali e Abitative Damiano Stufara.
“Quali politiche regionali?”
Damiano STUFARA, (Assessore Politiche Sociali e Abitative Regione Umbria). Buongiorno a
tutte e tutti. Io ringrazio Massimo Costantini, ringrazio ovviamente il CNCA dell’Umbria per
l’invito alla giornata di oggi e alle prossime due giornate, alle quali ovviamente sarò presente.
Ma vi ringrazio soprattutto perché io credo, senza troppi giri di parole, che non solo in Umbria,
ma forse per alcuni aspetti soprattutto in Umbria, si avverta - o quantomeno lo dico
soggettivamente: avverto - il bisogno che più soggetti, fra questi ovviamente annovero il CNCA,
tentino di esprimere un di più di protagonismo e di capacità di interloquire, anche di produrre
conflitto, perché (ci tornerò alla fine su questo ragionamento) a me pare che viviamo una fase
nella quale da più parti sono avvertiti elementi di malessere, da più parti, seppure in maniera
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sopita, emergono elementi di critica e di criticità, ma dopodiché rischiamo di rimanere un po’
avvitati su noi stessi e di non produrre fatti politici. Io penso che invece noi abbiamo bisogno che
quegli elementi si traducano in analisi e in elaborazione e, penso, anche in conflitto - non mi
spaventa per nulla questo tema -, perché senza processi di questo tipo, in una fase nella quale
altri processi prevalgono e fra questi io annovero anche il processo di crisi della politica, si corre
concretamente il rischio che non si facciano innanzitutto passi in avanti verso il contrasto di
alcuni di quei processi più deteriori e soprattutto che non riusciamo a produrre quegli elementi di
innovazione che ci possono consentire, ovviamente non è un fatto scontato, anche di affrontare
in maniera decisamente più efficace elementi molto critici - alcuni venivano citati
nell’introduzione da Massimo - che caratterizzano oggi la nostra regione.
E’ di tutta evidenza che il tema posto a base di questa giornata di riflessione è un tema, da un
lato, di natura epocale, dall’altro, particolarmente impegnativo e, come diceva Leopoldo Grosso,
anche ambizioso, questo credo non sfugga a nessuno. Così come a nessuno sfugge anche, da un
lato, la delicatezza dell’argomento da maneggiare e, dall’altro, il livello di stereotipi e di
convincimenti che si sono sedimentati nell’opinione pubblica che rendono tutto molto, molto più
difficile.
Penso di aver colto dalle cose che sia Massimo Costantini, che Leopoldo Grosso dicevano delle
considerazioni che sono state espresse su più livelli: sia, cioè, su un livello, permettetemi,
politico-culturale, che su un livello più aderente e attinente all’azione amministrativa e ai
processi di governo. Vorrei provare anch’io in pochi minuti a sviluppare un ragionamento che
tenti di tenere sempre insieme questi due livelli, altrimenti credo che rischieremmo un eccesso di
parzialità che, anche vista la portata del tema, sarebbe certamente negativo.
Intanto è fuor di dubbio che il tema dell’insicurezza è totalmente squadernato all’interno del
dibattito che complessivamente si svolge e anche del livello di percezione che le cittadine e i
cittadini hanno nel proprio vissuto quotidiano. Io credo che sia molto meno squadernato invece
un livello adeguato di analisi capace di indagare i processi e gli elementi che generano quella
insicurezza e che si è invece portati molto di più ad intraprendere delle scorciatoie che forse
possono - anche attraverso la costruzione del capro espiatorio che prima Leopoldo citava, ma ci
tornerò fra un po’ - rendere più semplice la possibilità di offrire risposte agli interrogativi che ci
attanagliano, ma che rischiamo anche di produrre serissimi danni. Su questo ci sarebbe da parlare
per troppo tempo e non voglio né annoiarvi, né scomodare o tirare in ballo la mucillaggine di De
Rita o la società liquida di Bauman, e ovviamente le citazioni anche di natura sociologico-
culturale potrebbero essere ulteriori. Ma è di tutta evidenza che nel nostro paese, ma anche nella
nostra regione, assistiamo ad elementi di disgregazione delle comunità e soprattutto in Umbria
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questo significa il progressivo venir meno di quella intelaiatura sociale che ha permesso negli
ultimi decenni di mantenere qui piuttosto che altrove un livello, da un lato, di coesione, ma,
dall’altro, anche di benessere largamente inteso, decisamente superiore a quello che in altre aree
geografiche del paese si viveva. Non vi è altrettanto dubbio che l’elemento dell’incertezza pare
essere la caratteristica che accomuna l’esistenza della maggioranza delle cittadine e dei cittadini,
con ciò che questo determina in termini di conseguenze, e mi riferisco al tema della solitudine,
mi riferisco anche al crearsi di situazioni di disagio più o meno conclamato.
Ora io vorrei provare a mettere in relazione tutto ciò con un altro tratto distintivo, con un altro
processo caratterizzante la nostra contemporaneità, e cioè il fatto che le nostre società sempre di
più si costruiscono ed evolvono - non dando un giudizio di merito su questa evoluzione, cioè non
volendomi adesso esprimere se essa sia positiva o meno - all’interno di un meccanismo
competitivo. Il problema che io vedo è che questa competizione oltrepassa la sfera economica e
tende ad attraversare ogni aspetto della vita delle persone, altrimenti non riesco a spiegarmi, se
non attraverso questo tipo di analisi e questo tipo di lettura, il perché viviamo una fase nella
quale, mi sembra decisamente evidente, il livello di diritti esigibili in questi anni si è compresso,
il livello di difficoltà delle persone al contempo è aumentato, e però le conflittualità che nei
territori si producono sono sempre orizzontali, sono cioè sempre tese, secondo quella logica del
capro espiatorio, a contrastare, quasi che ci fosse un attentato alla propria condizione, il soggetto
sociale o la persona che sta immediatamente un po’ peggio di me, quasi che ci sia la percezione
diffusa che la coperta è corta ed è meglio che rimangano fuori i piedi di qualcun altro piuttosto
che i miei. Io penso che sia questo, detto in maniera particolarmente grezza e brutale, il processo
che si sta determinando. Il punto è quale risposta si offre a questo processo.
A me pare – e qui vedo la grande colpa della politica – che prevalga la logica della risposta
emergenziale, cioè si tende a far sì che le responsabilità dei processi che in questa lettura davo
vengano attribuite ai capri espiatori di turno (il tossicodipendente, l’immigrato clandestino, il
rom e via dicendo), ingenerando elementi di paura verso qualsiasi diversità da se stessi possa
emergere e riportando tutto all’interno di una risposta che risponde a quella logica emergenziale.
Ovviamente non considerando il fatto che, ad esempio, i clandestini esistono perché c’è una
determinata normativa che li produce nel vero senso della parola, perché altrimenti il fatto che
non ci si interroghi sul perché dei 3,5 milioni di immigrati regolari oggi presenti in Italia l’80%,
prima di essere regolare, è stato clandestino e non per questo erano criminali, che è una domanda
che un’approssimativa conoscenza del processo potrebbe indurre, io penso che significhi
qualcosa.
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Ora il tema è, dal mio punto di vista quantomeno, come si sviluppano processi politici e processi
sociali che vanno ad incidere su quella logica dell’emergenza, che la contrastano, che tentano di
produrre un cuneo, un varco su cui costruire altre politiche. Massimo in maniera esplicita poneva
alcune questioni. Non mi sottraggo a questo. Massimo parlava di come l’Umbria sia
caratterizzata da emergenze che lui definiva imbarazzanti: overdose, politiche giovanili,
immigrazione etc., faceva un elenco di questioni. Ora io voglio fare alcuni riferimenti alle
questioni poste, vorrei provare però anche a ricondurre gli elementi parziali di risposta che darò
all’interno dello sviluppo di questa analisi e di questo ragionamento politico che tentavo di
proporvi, ovviamente venendo alla fine sul tema più esplicito che Massimo poneva, e cioè il
tasso di marginalità, nella gestione dei flussi economici, che le politiche per l’integrazione
sociale oggi hanno in Umbria, su cui arriverò alla fine a conclusione di un ragionamento.
Intanto voi sapete perfettamente, essendo addetti ai lavori e, pur non essendo umbro, Leopoldo le
conosce altrettanto bene, quali sono le caratteristiche della diffusione di sostanze nella nostra
regione, le statistiche ci pongono ai vertici del tasso di mortalità per overdose sia rispetto ad altre
regioni, sia rispetto al dato medio nazionale. Ora io penso che il limite che in questi anni
abbiamo espresso complessivamente - poi penso che abbiamo fatto anche altre cose e ci arrivo
fra un attimo - è stato il non inserire quei dati all’interno di una lettura della nostra società, cioè il
non porci il problema di quali sono stati i processi che in questi ultimi dieci anni hanno
incentivato questo fenomeno, dal momento che questo fenomeno vent’anni fa non c’era, ma
forse neanche quindici anni fa ed è tutto riconducibile all’ultimo decennio, quindi sarà successo
qualcosa in questo ultimo decennio che ha incentivato quel fenomeno. Oppure qualcuno ha
pensato che Perugia, che ha anche un problema di collegamento infrastrutturale con il resto del
paese, potesse per questa via diventare un nodo del commercio interregionale o nazionale di
sostanze stupefacenti? Ora, il fatto che su questo vi sia stato uno scarso livello di
approfondimento penso che sia una causa che ha limitato la capacità di rispondere alla
problematica e che invece ha favorito altri elementi di scorciatoia anche da parte della politica. Il
fatto, cioè, che si sia voluto puntare - e i governi locali lo hanno fatto esplicitamente - alla
militarizzazione del territorio, alla risposta repressiva, al patto per la sicurezza firmato con il
precedente Ministro dell’Interno e via dicendo risponde ad una determinata logica politica. Non
porsi invece il tema di come ci sia una contemporaneità del processo di diffusione delle sostanze
in maniera più massiccia, della specificità di quelle sostanze, del fatto che quella diffusione
produce una maggiore tendenza all’overdose, in un contesto caratterizzato anche da processi
socioeconomici di un certo tipo, credo che sia un limite. Cioè il traffico di sostanze illegali
muove un volume di risorse e penso che rispetto a questo ci si debba interrogare su dove vanno a
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finire quelle risorse per capire bene il processo. E allora io penso che il parallelismo temporale
che c’è stato con la ricostruzione post terremoto e la crescita del comparto dell’edilizia e della
cementificazione dei territori sia un elemento che aiuti a capire meglio l’intero processo. Credo
che su questo si debba sviluppare una capacità maggiore di analisi, credo che nel mentre
facciamo questa analisi un po’ meglio tutti quanti, dobbiamo anche capire come affrontiamo la
partita.
Ieri leggevo dei dati che sebbene non abbiano ancora l’ufficialità che permetterebbe loro di
essere universalmente diffusi, ci dicono però già qualcosa. Voi ricordate come abbiamo lanciato
qualche mese fa una campagna massiccia sull’utilizzo del Narcan e sul far sì che per questa via
intanto si potesse ridurre il danno che la mortalità produce, cioè evitare che ci fosse quel numero
di morti che abbiamo avuto. Sapete anche come su questo vi sia stata una forte polemica politica,
in maniera particolare nei riguardi del sottoscritto, ma fa parte del gioco, da parte non soltanto di
pezzi dell’opposizione politica nella sala del Consiglio Regionale. Ebbene, un dato a me sembra
interessante, che può essere parziale quanto volete, ma che indica secondo me il fatto che alcuni
risultati, attraverso una misura che è totalmente parziale, si colgono: nel mese di aprile di
quest’anno, quindi pochi giorni fa, vi è stata un’impennata vera e propria del numero di overdose
nella nostra regione e in maniera particolare nella città di Perugia. A quella impennata però è
seguita un’altrettanto intensa impennata di interventi del 118 e di utilizzo del farmaco salvavita e
a fronte del fatto che questo vi è stato, c’è stata una riduzione delle morti nello stesso mese
rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Traduco: nel mese di aprile 2008 in Umbria è
morta una persona per overdose; nel 2007, nello stesso mese di aprile, ne sono morte tre; gli
interventi con il Narcan sono passati da 19 a 67 in casi di overdose. Io penso che sia un dato
significativo, che ovviamente non ci dice che abbiamo risolto il problema, figuriamoci, ma che in
qualche maniera supporta la validità di una strada. Penso che però questi dati debbano essere
diffusi anche stimolando la politica ad interrogarsi su di essi. Per questo motivo, anche con
Leopoldo, nei prossimi giorni, riprenderemo e rafforzeremo il percorso, in parte già avviato, del
mettere tutti insieme a lavorare congiuntamente, cioè del dare gambe ad un tavolo permanente
che tenga insieme istituzioni, livello sanitario, servizi sociali, ma anche forze dell’ordine e forze
del contrastato, affinché vi possa essere, nella reciproca autonomia dei ruoli, un’azione comune,
senza la quale non riusciamo ad ottenere dei risultati. Se noi pensiamo che mettendo venti
poliziotti in più nei parchi e nei marciapiedi di Perugia riusciamo a contrastare la diffusione del
fenomeno, sappiamo bene quello che succederà.
Ora, insieme a questo, però, dobbiamo interrogarci su come quella crisi della politica alla quale
prima facevo riferimento - e ci tornerò alla fine - influenza anche la possibilità di fare
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determinate scelte. Vi è stata - ne vedo alcuni dei protagonisti in questa sala - la battaglia nei
mesi scorsi della collocazione fisica del Ser.T. qui a Perugia, battaglia che avete, abbiamo -
possiamo dirla come ci pare - perso perché comunque tutti hanno l’interesse, o almeno i più, a
far sì che servizi che possono produrre elementi di turbativa, lo dico fra virgolette, o
conflittualità su qualsiasi territorio vengano il più possibile collocati in contesti meno visibili, a
prescindere dal fatto che ciò può minare l’efficacia e dell’appropriatezza dell’intervento di quei
servizi. Guardate che è un problema serissimo che si è verificato rispetto al fatto specifico che
citavo, ma che può essere citato anche rispetto ad altri esempi, può accadere con frequenza anche
nel momento in cui ci poniamo il problema di come ammoderniamo una rete e un’offerta di
servizi anche alla luce, sempre volendo rimanere sul tema delle sostanze, di come si riarticola un
modello di consumi che ci porta, anche attraverso lo studio dei dati sulla mortalità, a dire come la
diffusione della cocaina sia in ascesa anche rispetto al tema delle overdose e come c’è una
difficoltà oggettiva nell’intercettare quella tipologia di consumatori. Probabilmente anche in
questo senso quell’elemento della competizione come base fondante della costruzione di un’idea
di società determina un cambiamento nei modelli di consumo.
Ora io potrei citare anche le cose nuove, aggiuntive, io penso, più forti e più efficaci del passato,
che in questi anni, in questi tre anni sono state fatte, ad esempio sul tema delle politiche
giovanili, dell’immigrazione, del carcere, della violenza di genere, che sono un po’ quegli
elementi di emergenza imbarazzanti che Massimo Costantini poneva nella sua introduzione.
Ovviamente io penso che ne vadano aggiunti altri, sia come evidenziazione di criticità, sia anche
come sottolineatura di una capacità di risposta che, sia pure parziale, è più intensa e più forte che
in passato. Penso al tema dell’abitare e delle politiche della casa per intenderci, ma possono
esserci anche altri ragionamenti. Ma non mi interessa buttarla sull’elenco della spesa, penso che
invece dobbiamo fare insieme una riflessione più compiuta. Invece che parlare di interventi di
singole politiche su singoli e specifici aspetti, proviamo a ricondurre questi aspetti ad una visione
più complessiva e ad un progetto, ad un’idea politica più generale. Mi pare che da questo punto
di vista voi stessi, la stessa organizzazione del CNCA dell’Umbria, qualche mese fa - penso al
convegno di cui, ho visto, sono stati distribuiti gli atti, che si è svolto a gennaio 2007 - avete
posto alcune questioni che vorrei riprendere. In quell’occasione ne ponevate due principalmente,
e cioè il tema e la necessità di sviluppare un welfare partecipato, da un lato, e il tema
dell’integrazione fra sociale e sanità, dall’altro; erano queste, se non ricordo male, le due
discriminanti che ponevate. Ora io penso che anche attraverso quella sollecitazione siano stati
avviati alcuni processi che sarei per non banalizzare e che rientrano tutti all’interno di un
processo, di un percorso che ci porterà, come sistema regionale complessivamente inteso, entro
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la fine di quest’anno ad avviare il nuovo ciclo di programmazione sociale. Dico “ciclo di
programmazione sociale” perché ovviamente non parliamo del pur importante e fondamentale
secondo Piano Sociale Regionale, anche chiaramente, ma parliamo anche della riforma della
Legge regionale sui Servizi Sociali, parliamo di tutti gli atti a corredo di questi due strumenti che
si renderanno necessari, e parliamo anche di altri strumenti legislativi che nel frattempo
l’assemblea legislativa ha approvato. Ora voi queste cose le ponevate a gennaio 2007; segnalo il
fatto che successivamente a quella data abbiamo inaugurato, anche come innovazione
metodologica che però si fa sostanza, lo strumento del Forum sul welfare, che, anche con il
vostro protagonismo, qualche mese fa ha raccolto per più giorni le voci di centinaia di umbre e
umbri che hanno dato avvio a questo processo. Domani partirà un’esperienza che a me sembra
altrettanto importante; l’abbiamo voluta, forse in maniera troppo ridondante, chiamare “Viaggio
dell’Umbria sociale”, dodici giornate di lavoro in ciascun ambito in cui è suddiviso il nostro
territorio regionale per presentare a metà della traversata il livello di elaborazione che si è
conseguito e per riaprire, insisto, a metà al processo, un’ulteriore e più intensa fase di ascolto,
evitando che ci sia l’adunata, passatemi il termine, nelle stanze della Regione, ma facendo sì che
sia la Regione, nelle sue articolazioni, ad andare a vedere e a conoscere meglio ciò che sul
territorio si produce. Questo porterà nel mese di settembre ad un’accelerazione nell’elaborazione
e al confezionamento della proposta sia del nuovo Piano Sociale, che della nuova Legge
regionale, che saranno poi sottoposti nel mese di ottobre ad una nuova sessione del Forum
regionale sul welfare. Che segnalo perché io penso che sarebbe un errore banalizzarlo perché è
un elemento di validazione collettiva di un’elaborazione prima ancora che l’iter e il processo
istituzionale si apra e non mi pare che questo sia, nella pratica di governo di questa come di altre
regioni, elemento usuale, da un lato, dall’altro, io penso che serva per rendere più efficace, più
appropriato il contenuto di quelle indicazioni che da questi strumenti di programmazione e
legislativi scaturiranno.
Segnalo cinque aspetti che caratterizzeranno il merito di questo processo e di quegli strumenti,
sia del Piano, che della legge. Intanto io credo che l’integrazione che tutti avvertiamo come
necessità e come chiave di volta per poter fare meglio tutti noi il nostro mestiere si possa
produrre soltanto se si produce al contempo un rafforzamento del livello istituzionale all’interno
del quale l’integrazione avviene e io penso che quel livello istituzionale sia l’ambito sociale, la
zona, come dice la 328 - a prescindere dalla denominazione, ci siamo intesi. Ovviamente questo
può avvenire soltanto se lo strumento di programmazione e la Legge regionale inducono tale
processo e questo sarà l’elemento cardine di tutto il ragionamento. Su cui già stanno emergendo
alcune resistenze, perché ovviamente andare in questa direzione significa anche smontare alcuni
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pezzi, smontare alcuni pezzi che determinano anche, se volete, rendite di posizione,
sedimentazione di una modalità di gestione di determinati processi che impedisce che si produca
innovazione, e quindi si producono anche delle reazioni, delle critiche, dei conflitti. Il punto è, se
siamo convinti di questa esigenza, come tutti agiamo ciascuno per il proprio ruolo anche per far
sì che quei contrasti e quelle reazioni rimangano minoritari.
Seconda questione: io penso, come dicevo all’inizio, che un processo che il Piano e la legge
possono indurre debba essere, proprio per affrontare il tema dell’inclusione sociale ai tempi
dell’insicurezza, quello di come si rafforzano, in taluni casi, ricostruiscono, in altri, elementi di
comunità sul nostro territorio, che detta così sembra cosa semplice, ma a praticarla è ovviamente
un po’ più complicato. Vi faccio un esempio che probabilmente è una banalità, ma che però dà il
senso anche di un orizzonte verso il quale tendere e di come per tendere verso quell’orizzonte si
possono fare grandi politiche, ma si deve anche affrontare il concreto che è il quotidiano a partire
anche da elementi minimali. Ragionando con un’associazione, senza fare nomi perché non è
importante, che mi interrogava su come dal mio punto di vista potevano loro svolgere un ruolo in
questo senso, suggerivo di organizzare i pranzi di condominio, che sono una banalità ma che
rappresentano la possibilità di costruire nel piccolo, nel vissuto di ciascuno, un tessuto di
relazioni che si è desertificato. Adesso ho fatto l’esempio più basso, potrei farne altri, ma penso
che dobbiamo costruire un pacchetto di azioni, di iniziative, di politiche e di processi che si
muovano in quella direzione e che il Piano e la legge siano utili in tal senso.
Terza questione: vorremmo costruire all’interno del nuovo Piano una sezione innovativa e
sperimentale sulle politiche di convivenza urbana, sapendo che per lo più si tratta di un terreno
inesplorato, nessun’altra regione si sta interrogando su come si apre una stagione di questo tipo.
Anche facendo riferimento a quanto dicevo all’inizio e alla percezione di insicurezza diffusa che
questo tema produce anche indotta da un bombardamento mediatico particolarmente massiccio,
io credo che dobbiamo anche, soprattutto noi politici, essere in grado di inventare e di elaborare
un nuovo vocabolario per affrontare queste questioni, perché, insisto, le possiamo spiegare nella
maniera più ineccepibile, dopodiché la percezione, quello che Leopoldo chiamava il “nero che è
in noi”, è tale ed è talmente entrata all’interno dell’opinione pubblica e del senso comune, che la
possiamo mettere anche nella maniera più ineccepibile possibile, ma non la smontiamo. Il punto
è come invece proviamo a produrre dei varchi in questo senso e come si spezza la logica che
relega tutto a questioni di ordine pubblico. Io sono particolarmente preoccupato mentre dico
questo perché nel frattempo vedo, provo a leggere e ad approfondire quello che, per esempio, il
nuovo Governo sta facendo attraverso scelte velocissime, senza che nessuno si frapponga, che
rappresentano un salto di qualità in queste politiche. Ne metto tre in fila. In Umbria, in questi
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anni, abbiamo resistito, con due precedenti Governi, all’idea che qualcuno nei Ministeri degli
Interni ha avuto di costruire in Umbria un centro di permanenza temporanea per immigrati.
Ovviamente continuiamo a pensarla così, noi siamo una delle poche regioni che non li ha, ma la
scelta che sta facendo, senza neanche comunicarcela, la leggiamo dal Corriere della Sera, il
Ministero dell’Interno insieme al Ministero della Difesa è bypassare ogni autorità locale,
utilizzare il patrimonio del demanio militare inutilizzato e fare lì i CPT. In Umbria abbiamo
cinque siti militari dismessi, vecchie caserme o vecchi terreni, nulla di particolare, che sono però
tutti candidati ad avere quella destinazione d’uso. Ora il punto è: noi come istituzione ci
opporremo a tutto ciò, senza un livello di conflitto anche sul territorio, la nostra opposizione
rimarrà probabilmente agli atti, ma non avrà alcun tipo di efficacia.
Così come a me pare che sul tema dell’introduzione nel nostro ordinamento del reato di
immigrazione clandestina si stia sottovalutando il livello di gravità, da un punto di vista giuridico
e culturale, se volete, ma anche concretamente, fattuale, che ciò può determinare, perché voi
sapete bene che il nostro sistema penitenziario può contenere, posto più, posto meno, 50.000
detenuti, e dopo l’indulto di due o anni fa le carceri si sono nuovamente riempite, quindi siamo a
54.000 detenuti, se non vado errato, come presenze attuali, unità più, unità meno, e si stima
l’immigrazione clandestina nel nostro paese superiore al mezzo milione di persone. Quindi va da
sé che o si tratta di una norma propagandistica per poter grattare la pancia del senso comune, o si
tratta invece di un disegno un po’ complicato dove anche quello che poc’anzi dicevo rispetto alla
trasformazione di qualsiasi sito che possa essere nelle disponibilità del Governo in centri di
permanenza temporanea può costruire un sistema penitenziario parallelo come non vorremmo
conoscere nel nostro paese.
Terza questione: l’utilizzo dell’esercito all’interno dell’azione di monitoraggio e di controllo del
territorio.
Mettendo in fila questi fatti e magari leggendoli insieme alla riedizione in chiave ventunesimo
secolo, e quindi con elementi di innovazione tecnologica, di quello che una volta era il “libretto
di povertà”, capiamo che c’è un disegno di società. Capisco anche che a contrastare quell’idea di
società non ce n’è una che si ponga sullo stesso livello dello scontro, e questo lo dico in maniera
problematica, interrogando prima di tutto me stesso e parlando a voce alta. Vorrei provare a far
sì che anche i processi che nel nostro piccolo, qui in Umbria, stiamo costruendo diano un
contributo nella direzione del contrasto di quella idea di società, e per farlo - ulteriore questione -
io penso che dobbiamo, sì, affrontare il tema delle singole politiche, il tema della povertà, della
non autosufficienza, dell’immigrazione, dei giovani, su cui ovviamente il Piano dirà alcune cose,
però dovremmo porre anche l’accento, oltre che sulle cose che dicevo, anche su come noi
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riconnettiamo in una logica universalistica il sistema di welfare della nostra regione, perché
analogamente a quanto è successo attraverso il combinato disposto della 328, da un lato, e del
Titolo V della Costituzione, dall’altro, che ha determinato sistemi diversificati di stato sociale nel
nostro paese, per cui se nasci in Friuli Venezia Giulia hai dei diritti e se nasci in Calabra quei
diritti non ce li hai, stiamo, secondo me, correndo concretamente il rischio che nel piccolo e forse
anche in dimensioni inferiori la stessa cosa si produca in Umbria, per cui se nasci al Trasimeno o
a San Giustino hai diritti diversi che se nasci a Calvi dell’Umbria o a Norcia. E’ un problema.
Costruire un sistema per cui, in assenza di LIVEAS a livello nazionale, proviamo ad inventarci
dei LIVEAS e a garantire l’uniformità dell’esigibilità di quei diritti attraverso l’erogazione di
quei servizi in maniera uniforme sul nostro territorio regionale penso che sia un’ulteriore priorità
e penso che contribuisca, anche sia pure soltanto in parte, a rafforzare e a ricostruire quegli
elementi di comunità che dicevo. Su questo io credo che appunto dobbiamo elaborare una
strategia di contrasto alla logica dell’emergenza che va nell’altra direzione e io penso che bene
abbiate fatto - lo citavi tu, Massimo, all’inizio, in relazione all’appuntamento di dopodomani - a
coinvolgere anche il settore dell’urbanistica e del governo del territorio in questo ragionamento
perché è fondamentale, perché per come è in crisi la politica e per come – ed è anche un aspetto
positivo, evidentemente – il dirigismo si è attenuato da parte della politica, soprattutto nella
nostra regione, non può che instaurarsi la logica di interessi diversi che fra loro confliggono e di
cui alcuni prevalgono, e ancor più nel governo del territorio ciò avviene.
Quindi il tema è, dal mio punto, e su questo cerco di concludere, come si viene fuori da quella
marginalità che prima Massimo metteva in risalto, che è un tema di risorse, ma non solo,
aggiungo, anche provando a scompaginare alcuni piani. La spinta che abbiamo voluto dare al
tema della partecipazione nella costruzione della nuova programmazione sociale ha
evidentemente una logica intrinseca perché teoricamente poi va sviluppata e praticata e quindi
determina una maggiore efficacia, una maggiore appropriatezza e probabilmente anche un
pizzico di realismo in più nella costruzione della programmazione, ma esternamente ci abbiamo
puntato perché induce un altro processo, e cioè fa sì che un comparto - non è giusto chiamarlo
così, ma mi perdonerete - che è particolarmente articolato, complesso e frastagliato tenti di
assumere una massa critica e tenti di porsi anche politicamente in un livello di interlocuzione con
altri processi e altri poteri e interessi che nel frattempo in maniera molto massiccia si muovono
sui nostri territori e che interloquiscono ovviamente anche con i decisori politici. Il punto è come
per questa via sviluppiamo e induciamo anche un protagonismo maggiore della società. Perché,
vedete, io credo - potrei dimostrarlo conti alla mano - che in questi tre anni, tutto assommato, il
livello di risorse complessivamente afferenti in quest’area sia praticamente raddoppiato; vi dico
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contestualmente che non basta, che è totalmente insufficiente, ciò non mi sfugge, ma il punto è
come anche – adesso lancio io la provocazione, mi perdonerete – il vostro mondo fuoriesce da
una logica per la quale tutto è delegato alla politica. Io credo che il protagonismo che vi stimolo
anche esplicitamente a manifestare in maniera ulteriore rappresenti un contributo affinché quella
marginalità si attenui, perché se pensate che, per esempio, il tema delle risorse – che è
importantissimo, ma non è l’unico problema, dal mio punto di vista quantomeno - si risolva
esclusivamente in una logica per cui l’Assessore regionale di turno fa la battaglia, il conflitto
all’interno della Giunta regionale per portare a casa più soldi per queste politiche, io penso che
non andiamo molto lontano. Potrà un po’ aumentare quella quota di stanziamenti quando va
bene, in anni più difficili potrà anzi diminuire nonostante tutta la fatica e il casino che
quell’Assessore di turno può fare, ma, insomma, ci facciamo poco. Io penso che invece ci sia
bisogno di un livello di protagonismo maggiore, che non escluda neanche il momento di conflitto
nell’autonomia reciproca, e per questo io penso che sia particolarmente utile che, per esempio, la
giornata di oggi, come le giornate che in futuro organizzerete voi o altri soggetti, si concluda
anche con elaborazioni, con documenti che possano porre problemi, ma il punto è poi come quei
problemi che ponete diventano anche interni ad una battaglia politica più complessiva di cui io
avverto il bisogno. Posso sbagliarmi, ma lo vedo come uno dei pezzi che ci possono permettere
di affrontare questioni come quella che voi avete posto a base del vostro ragionamento e della
nostra riflessione di oggi, che sono epocali, che sono complicate, ma che non possono non valere
la pena di essere affrontate e per questo, appunto, io credo che dovremmo tentare di darci una
mano in questa maniera. Sapendo che ovviamente trattandosi di processi quantomeno nazionali a
voler tenersi bassi, non saremo in grado di risolverli completamente, ma che se dall’Umbria
dessimo alcuni segnali non di come si costruiscono modelli astratti, ma di come nella pratica si
contrastano determinati processi anche inaugurando stagioni e politiche alternative, penso che
avremmo fatto appieno il nostro dovere.
Massimo COSTANTINI, Presidente CNCA Umbria. Ringraziamo particolare l’Assessore per la
passione che comunque l’ha sempre contraddistinto e per aver accolto sempre le nostre
esortazioni in momenti di confronto come questo, perché in questi momenti in cui, sottolineo, a
livello pubblico, a livello aperto in faccia ci diciamo senza remore i nostri pensieri, possiamo
davvero tentare di iniziare a costruire un cambiamento. Quindi, davvero grazie, anche perché poi
questi momenti sono stati anche sostenuti dall’Assessorato e questo ha reso possibile incontrarsi.
Continuiamo con un ulteriore contributo, che è quello di Susanna Tabarrini del Nucleo Operativo
Territoriale della Prefettura di Perugia, su: “Quali sinergie mettere in campo?”
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“Quali sinergie mettere in campo?”
Susanna TABARRINI, Nucleo Operativo Territoriale - Prefettura di Perugia. Io sono Susanna
Tabarrini e lavoro non al Nucleo Operativo Territoriale della Prefettura, ma al Nucleo Operativo
per le Tossicodipendenze della Prefettura di Perugia, c’è stato un errore, ma non ci siamo
preoccupati molto di cambiarlo visto che poi, in realtà, come attività nostra in Prefettura,
occupandoci dell’Art. 75, cioè di quelle persone che vengono segnalate perché trovate in
possesso di sostanze stupefacenti, una minima parte di queste è costituita da tossicodipendenti, la
maggiore parte delle persone che vengono segnalate è costituita da persone che possono essere
considerate consumatrici, a volte problematiche, a volte non problematiche, di sostanze
stupefacenti. L’operato delle forze dell’ordine del resto è trasversale, è su tutto il territorio,
quindi non è specifico nei luoghi in cui si ritrovano i tossicodipendenti.
Io ringrazio molto il CNCA e le persone con cui in questi anni abbiamo anche collaborato e
lavorato insieme per averci invitato a partecipare a questo seminario, perché è un modo, credo,
per tenere in vita un’esperienza che per alcuni è stata considerata valida, un’esperienza di
formazione integrata sul territorio della provincia di Perugia che ha visto coinvolti operatori dei
Servizi che si occupano di sostanze psicoattive e personale delle forze dell’ordine. Questo tipo di
esperienza crediamo che sia stata significativa, perché qui, nel territorio, ha aperto un dialogo tra
operatori che hanno mandati molto diversi, e dopo un primo momento in cui si sono affrontate
molte problematiche relative anche a certi stereotipi e pregiudizi che possiamo ben immaginare,
si è cercato di lasciare un po’ sullo sfondo questo aspetto e di vedere dov’era possibile trovare
dei punti di contatto, dei punti di raccordo. Crediamo che questa esperienza abbia anche
contribuito alla realizzazione di qualche piccolo intervento sul territorio, a produrre alcune idee,
soprattutto a far dialogare persone con esperienze molto diverse che non si conoscevano prima di
questa esperienza. E io credo che parlarne oggi, anche se molti di quelli che sono qua conoscono
questa esperienza, sia un modo per continuare a pensare che si può progettare, che si può gettare
oltre quello che è stato fatto e non gettarlo via insomma.
Io devo per forza fare, e spero di farlo nella maniera più sintetica possibile, un po’ di storia di
come è nato questo progetto, per arrivare poi a quello che è emerso dal progetto in particolare
che ha visto il coinvolgimento degli operatori cui accennavo prima. Noi siamo stati assunti con il
D.P.R. 309 da ormai dodici, tredici anni. All’inizio ci siamo trovati come operatori a
sperimentare su di noi la necessità e anche la difficoltà di mettere insieme queste due parti, cioè
il percorso terapeutico, che la legge prevede essere realizzato ovviamente all’interno dei Servizi
pubblici per le Tossicodipendenze, e l’origine della segnalazione, che nasceva da un processo di
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tipo repressivo dell’applicazione della normativa. E un po’ per evidenti ragioni, essendo noi
assistenti sociali, ci siamo trovati innanzitutto a confrontarci con i Ser.T., con i quali magari
c’era un’esperienza precedente di lavoro o un linguaggio e probabilmente anche degli obiettivi e
delle modalità operative molto più condivise che non che con le forze dell’ordine. Quindi,
inizialmente, ci siamo molto preoccupati di confrontarci con i Ser.T., soprattutto per delineare il
significato del programma terapeutico nell’ambito del procedimento amministrativo, perché
coniugare l’aspetto legale con l’affidamento di una persona ad un Servizio per un programma
dopo che è stata fermata, segnalata ed è arrivata in Prefettura e ha avuto lì un colloquio, capite
bene che costituisce un grosso problema, e ripartire da tutto questo per un processo di ascolto, se
non quando terapeutico, non era cosa così scontata. Quindi con i Ser.T., e soprattutto con alcuni,
abbiamo cercato di mettere in piedi un’attività di collaborazione che potesse in qualche modo
coniugare queste due dimensioni: quella legale del controllo e quella educativa e terapeutica. E
l’abbiamo fatto attraverso dei normali incontri e riunioni di lavoro, ma anche attraverso
un’attività di formazione e supervisione, abbiamo cercato, cioè, di utilizzare come meglio
potevamo i finanziamenti del fondo nazionale “Intervento per la lotta alla droga”, e inizialmente
li abbiamo utilizzati per fare un’attività insieme ai Ser.T. attraverso una formazione specifica con
un approccio sistemico relazionale (colloquio motivazionale etc.). Tutto questo perché? Perché
in particolare il problema non si poneva per coloro che avevano già un percorso avviato di tipo
terapeutico con i Ser.T., per questi si trattava semplicemente di mediare un po’ la sanzione con
quello che stava già facendo la persona; il problema più grosso direi che è nato nel momento in
cui ci siamo trovati a contatto con persone che non si rivolgevano al Ser.T. e che difficilmente si
sarebbero rivolte al Ser.T. se non attraverso questa segnalazione. Ora, molte delle segnalazioni
che ci arrivano si esauriscono con un provvedimento amministrativo che chiude, diciamo, tutta
questa cosa che si è avviata con la segnalazione. Ma in alcuni casi non ce la sentivamo di
chiudere questo evento perché sentivamo che c’erano comunque delle problematiche che
emergevano dal colloquio e che magari erano anche non così connesse all’uso di sostanze, ma
che comunque andavano a parare su tutto un sistema di relazioni famigliari etc., per le quali era
necessario avviare un percorso, quindi dovevamo assolutamente trovare, inventarci un modo
perché queste persone transitassero dalla Prefettura ai Servizi, ai Ser.T., ma anche ai servizi di
territorio. Ancora questo è un problema aperto, perché in alcuni territori si è risolto magari anche
trovando delle modalità operative all’interno di Ser.T. specifici, in alcuni casi sono i Ser.T. che
se ne fanno carico, in altri casi sono stati inventati dei servizi proprio di territorio che sono in
collegamento con il Ser.T., ma che non sono in modo specifico i Ser.T.
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Per fare una valutazione, senza che mi soffermi più di tanto perché qui siamo un po’ tutti tecnici
della materia, tutto questo è stato utile per lavorare un po’ su quello che significava per la
persona avviare questo percorso, ciò che aveva costituito per lei e che era nato a partire
dall’evento della segnalazione, ed è stato anche un modo per l’operatore per riflettere su che tipo
di offerta poteva dare a questa tipologia di soggetti. Facendo questo lavoro iniziale con i Ser.T. è
emerso che, per migliorare la presa in carico e le prestazioni di consulenza alla persona
segnalata, per realizzare iniziative integrate sostenute da un’ampia collaborazione nell’area degli
interventi rivolti a consumatori di sostanze legali e illegali, per la gestione e il migliore
contenimento delle situazioni di grave disagio sociale ed emarginazione che possono generare
tensione e allarme sociale nel territorio (perché nell’ambito di questa attività che noi abbiamo
fatto con i Ser.T. è emersa poi tutta una serie di sfumature che non attenevano in modo specifico
soltanto alla persona che veniva segnalata e quindi con problemi di tossicodipendenza), mancava
un pezzo, cioè veniva proprio fuori da questa attività anche formativa, ma anche di
collaborazione, che c’era un pezzo che non stavamo proprio pendendo in considerazione, cioè
l’inizio della segnalazione, l’operato delle forze dell’ordine, e quindi non potevamo non fare un
processo di integrazione di questo aspetto nel nostro lavoro di ragionamento su quale più
efficace risposta dare ai soggetti che fanno uso di sostanze stupefacenti psicoattive, più o meno
problematici. Quindi abbiamo pensato di utilizzare finanziamenti anche per fare un’attività di
formazione integrata con le forze dell’ordine, e quindi abbiamo utilizzato quel 25% che il fondo
ha previsto per i Ministeri per attività di formazione, informazione etc., come Prefettura. Non
siamo stati gli unici, in Italia c’erano già anche altre realtà, la più importante di queste
sicuramente a Palermo, che ci ha dato lo spunto e ci ha confermato che forse poteva essere una
strada da percorrere e che poteva portare a qualche risultato. Quindi nel 2001 abbiamo presentato
questo progetto che si realizzava attraverso tre moduli formativi. Noi come Prefettura abbiamo
una competenza provinciale e quindi abbiamo cercato di realizzare questa attività formativa
nell’ambito delle tre A.S.L. della provincia di Perugia, la 1, la 2 e la 3; abbiamo coinvolto il
personale di questi servizi, dei Ser.T., dei servizi di alcologia, dei servizi a bassa soglia e l’Unità
di Strada, i servizi di igiene mentale (in alcune A.S.L. è stato possibile, in altre no), i Carabinieri,
la Polizia di Stato, la Polizia Stradale, la Guardia di Finanza, la Polizia Municipale e in alcuni
territori il servizio sociale del Comune. L’attività formativa si è svolta prevalentemente
attraverso il contributo di un docente e il lavoro più grosso è stato sicuramente quello del lavoro
di gruppo, e poi vedremo anche quello che hanno portato a casa i corsisti in termini di rapporto,
di confronto che si è realizzato all’interno di questi gruppi di lavoro.
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Poi ci sono state delle giornate seminariali, ma non mi soffermo più di tanto su questo perché
sarebbe un po’ lungo. Dirò solo sinteticamente di che cosa abbiamo parlato all’interno di questa
attività formativa: di nuove droghe, di sostanze di sintesi e stili di consumo, di percezione sociale
del tossicodipendente, di consumo e abuso di alcol nella popolazione giovanile. Nel Comune di
Perugia in particolare si è parlato di prostituzione e tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento
sessuale, perché qui si era già avviata un’attività di collaborazione, diciamo così, con la Questura
di Perugia per l’applicazione dell’Art. 18. Abbiamo parlato anche del tema che ci riguarda in
particolare oggi, cioè di sicurezza urbana e mediazione sociale, quindi di quale possibile
integrazione è possibile tra repressione e prevenzione, tra interventi di riduzione del danno e
sicurezza urbana.
Io ho riportato sinteticamente quali sono stati i temi che hanno vissuto più direttamente gli
operatori che hanno cercato di ragionare attorno a questi stimoli che riguardano, appunto, la
sicurezza urbana e la mediazione sociale, e ho riportato alcuni stimoli che sono stati l’oggetto di
discussione dei gruppi integrati. Mi sembrava particolarmente significativo quello che Pisapia,
intervenendo a questo seminario, ci ha portato come stimolo di discussione, e cioè
l’affermazione che l’ordine pubblico rinvia all’idea di ordine giuridico le cui lesioni sono
previste dal diritto penale positivo sia come delitti, che come contravvenzioni. L’ordine pubblico
è competenza delle forze dell’ordine, è una delle condizioni affinché vi sia sicurezza, ma si fa
spesso confusione tra ordine pubblico e dimensione della sicurezza. In realtà alla dimensione
della sicurezza contribuiscono molti altri soggetti, non solo gli operatori delle forze dell’ordine,
che sono invece chiamati prevalentemente ad applicare il diritto penale positivo, cioè quello che
è scritto nelle leggi. A realizzare la dimensione della sicurezza sociale ovviamente
contribuiscono le politiche sociali, culturali e le comunità locali, e la politica della sicurezza è
anche una politica della fiducia diretta a rasserenare e creare le condizioni oggettive per le quali
il cittadino possa nutrire fiducia in se stesso e nel proprio futuro. Ci sembrava particolarmente
significativo portare anche a voi questa riflessione, cioè che l’idea di sicurezza rinvia ad una
condizione oggettiva e soggettiva caratterizzata da assenza di situazioni di pericolo e rischio, ma
la vita quotidiana è l’incrocio tra il previsto e l’imprevisto, l’abitudine e il cambiamento, l’ordine
e la confusione, e quindi è per sua natura lo spazio dell’insicurezza.
Che cosa è emerso da questo gruppo di lavoro? Che ci sono anche nel territorio umbro molte
iniziative, come quella rieducativa di strada, di interventi di bassa soglia, che fanno un lavoro
che contribuisce molto alla sicurezza, ma che spesso non è valorizzato, non è conosciuto dalla
popolazione, e questo contribuisce a creare senso di insicurezza nei cittadini. Forse non sarebbe
così se si sapesse che cosa avviene fuori, che comunque si fanno delle cose in questo senso; ciò
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potrebbe probabilmente contribuire a dare maggiore serenità ai cittadini e soprattutto si
comprenderebbero gli obiettivi di questa attività. Questa è una cosa scontata, perché poi si è
parlato molto all’interno di questi gruppi di lavoro del fatto che si dovrebbe fare più prevenzione
così i ragazzi non andrebbero a chiedere sostanze, e del fatto che, viceversa, si dovrebbe
maggiormente ridurre l’offerta, e questa discussione si è molto sviluppata, nel senso che a partire
da questo poi si è articolata, è diventata più complessa, ricca di sfumatura. Mi pare che ancora
oggi in alcuni casi si possa avvertire tra i nostri vertici istituzioni che c’è un po’ un rimpallo tra
questi due livelli, piuttosto che comprendere le ragioni dell’uno e dell’altro, della domanda e
dell’offerta.
Venendo alle cose che si sono portati a casa i corsisti e che hanno anche restituito nelle situazioni
di valutazione e di riflessione, abbiamo la consapevolezza che nelle situazioni complesse e
multiproblematiche una strategia di lavoro di rete permette di dare risposte più efficaci ai
cittadini e soprattutto sostiene la motivazione degli operatori. Mi ricordo, per esempio, che c’era
un poliziotto di quartiere che una volta che ha incontrato gli operatori di strada, ha compreso le
ragioni del loro operare in strada, che cosa facevano e dove lo facevano, si è sentito un po’ più
sollevato, perché se lo chiama un cittadino perché c’è un tossicodipendente in strada che non si
regge in piedi, o sta male, o disturba, il poliziotto arriva e non sa che cosa fare, ha bisogno
assolutamente di un supporto diverso che non sia quello dell’intervento dell’ordine pubblico
perché quella persona non sta facendo nulla che vada contro l’ordinamento giuridico.
Gli incontri, poi, hanno permesso una conoscenza più articolata e il confronto dei diversi punti di
vista sui comportamenti di consumo di sostanze psicoattive. Siamo partiti da punti di vista, da
idee e, direi, anche da ideologie molto diverse su quello che può rappresentare il consumo. C’è
stata una conoscenza diretta e personale che contribuisce a dissipare le reciproche diffidenze, gli
stereotipi e i pregiudizi; c’è stata una definizione dei confini e delle competenze di ogni
professione, servizio e istituzione.
Alla fine di questa prima fase, che era soprattutto di informazione e sensibilizzazione, non aveva
la pretesa di produrre particolari progetti o modelli operativi, ma era semplicemente un’attività di
contatto tra persone che venivano da esperienze molto diverse, si è pensato che forse si poteva
transitare verso un’idea progettuale, che forse insieme si poteva costruire un progetto, si
potevano fare delle cose. C’è stato un periodo di circa un anno in cui non c’erano finanziamenti e
quindi non si poteva continuare a fare questa attività, ma i gruppi di lavoro si sono rivisti, si sono
un po’ ricostituiti, il gruppo di Perugia, il gruppo di Foligno, il gruppo di Città di Castello, il
gruppo di Gubbio e il gruppo di Spoleto, e questi incontri periodici hanno portato un po’ alla
definizione degli spazi che potevano interessare gli operatori dei Servizi e le forze dell’ordine,
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dei punti su cui si poteva pensare di lavorare o progettare insieme: sicuramente sulla lettura e sul
monitoraggio dei fenomeni del disagio, perché ognuno, per il proprio punto di vista, comunque
vede uno spaccato della realtà; sulla prevenzione e gestione delle situazioni di criticità sociale;
sulla progettazione congiunta di interventi di prevenzione, perché nelle scuole vanno tutti: vanno
le forze dell’ordine, vanno gli operatori, vanno gli educatori, e spesso portando messaggi, modi
di comunicare assolutamente diversi, non programmati, non coordinati; ognuno va pensando di
fare il meglio che può. E’ ovvio poi che gli interventi delle forze dell’ordine sono molto più
orientati a dare delle informazioni sul tipo di sostanze, lavorano molto sull’idea della paura etc..
Quindi è stato evidente che è piuttosto inefficace andare tutti nelle scuole; magari, forse, si può
fare un lavoro prima insieme e poi nelle scuole ci va qualcuno più competente.
E quindi si è presentato poi nel 2004 un progetto che aveva proprio lo scopo di affinare le
competenze dei partecipanti a fare progetti, a fare progetti insieme e a costruirsi come gruppo. I
destinatari erano ovviamente quelli che avevano partecipato alla prima esperienza di formazione
e qualcun altro che non era stato previsto nel precedente corso. Questa