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Anno LXIII, n. 3-4 Novembre 2017 - AMSI | Associazione ... · Carmine PATERNOSTRO(Morano Calabro, Cosenza) Marco PESCETTOcon Antonella (Genova) Paolo PISI(Mantova) ... dott. Enrico

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Anno LXIII, n. 3-4 Novembre 2017

Rivista letteraria dellaAssociazione Medici Scrittori Italiani

Aderente all’U.M.E.M.(Union Mondiale Écrivains Médecins)

LA SERPE

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A.M.S.I.Associazione Medici Scrittori Italiani

www.mediciscrittori.it

Presidente: Patrizia VALPIANI–Via Cristalliera, 3– 10139 Torino – [email protected] – 3394405052Vice Presidente: Giuseppe RUGGERI – via Dei Mille,243 – 98123 Messina – [email protected]– 090 2921681 /335 5303647Segretario: Simone BANDIRALI – via Nazario Sauro,5 – 26013 Crema – [email protected] –333 3612861Tesoriere: Gino Angelo TORCHIO – via Brozola,1 – 10034 Chivasso (To) – [email protected]– 347 1940571Consiglieri: Enrico AITINI, Gianfranco BRINI(incaricato dei rapporti con l’UMEM), AlfredoBUTTAFARRORevisori dei conti: Silvana MELAS, CarloCAPPELLICoordinatori: Enrico AITINI (Nord), LanfrancoLUZI (Centro), Alfredo BUTTAFARRO (Sud)

LA SERPE

Anno LXIII (2017), n. 3-4 – ISSN: 0037-2498Rivista letteraria trimestrale iscritta al Regi-stro Giornali e Periodici del Tribunale diAscoli Piceno (n. 524, 27/10/2015)

Direttore Responsabile: Giuseppe RUGGERIDirettore Editoriale: Carlo CAPPELLIComitato di Redazione: Enrico AITINI, Si-mone BANDIRALI, Gianfranco BRINI, AlfredoBUTTAFARRO, Giuseppe RUGGERI, Gino An-gelo TORCHIO, Patrizia VALPIANIRedazione: Carlo Cappelli – Via Fabriano, 37– 63100 Ascoli Piceno – Tel. 0736/42753 (se-greteria) – [email protected] editrice Lamusa – Via Fabriano, 37 –63100 Ascoli Piceno

Copie arretrate o copie in più de "La Serpe" pos-sono essere richieste alla Redazione, e sarannoinviate previo pagamento di euro 10 ciascuna sulc/c dell’A.M.S.I.

Quota associativa annuale: Euro 100.(Amici: Euro 50).

Per entrare a fare parte dell’Associazione,come membri o amici, con diritto a riceverela rivista, occorre scaricare l’apposito moduloall’indirizzo Web:http://www.mediciscrittori.it/moduli-di-iscrizione/Per l’invio del modulo alla Segreteria:

[email protected] il versamento:Banca Prossima del Gruppo Intesa San PaoloIBAN: IT 55 R 03359 01600 10000 0069 173Intestazione: AMSI – Associazione Medici Scrit-tori Italiani

NORME PER GLI AUTORI

* invio per posta elettronica con file in alle-gato, in Word o Word compatibile, E-mail:[email protected];

* ogni pagina deve essere composta da unmassimo di 40 righe;

* ogni riga deve contenere un numero di bat-tute (caratteri più spazio fra le parole) di60/70;

* lunghezza non superiore alle 5 pagine cosìdefinite;

* dichiarazione che il testo è opera del pro-prio ingegno.

LIBRI DA RECENSIRE

Inviare a:per la narrativa, Carlo Cappelli, Via Fa-briano, 37 – 63100 Ascoli Piceno, Tel. 0736/42753(segreteria), E-mail: [email protected];per la saggistica,Gianfranco Brini, via Po-marolo, 1 – 23801 Calolziocorte (LC), E-mail:[email protected], cell. 3395975557;per la poesia, Gino Angelo Torchio, viaBrozola, 1 – 10034 Chivasso (To), E-mail:[email protected], cell. 3471940571.

Tutti i libri inviati saranno oggetto di recen-sione, secondo l’ordine di ricezione e la dispo-nibilità di spazio sulla rivista e di tempo per lalettura, purché rispondano a due requisiti: chesiano stati scritti da Soci AMSI e che gli autorisiano in regola con le quote associative.

In copertina: MARCO GIORDANO, Ippocrate (2016), olio su tavola, 120x100.

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CONGRESSO A.M.S.I.Genova, Bristol Palace Hotel

9 – 11 giugno 2017

PARTECIPANTI

Enrico AITINI (Mantova)Simone BANDIRALI con Nicoletta (Crema)Marcello BETTELLI con Simonetta (Vignola, Modena)Maddalena BONELLI con Carlo Candela (Matera)Gianfranco BRINI (Calolziocorte, Lecco)Alfredo BUTTAFARRO con Michela (Messina)Carlo CAPPELLI con Furio (Ascoli Piceno)Angelo CARENINI (Cisano Bergamasco, Bergamo) (†)Cinzia CAROTI (Bogliasco, Genova)Elena CERUTTI con Roberto Tentoni (Torino)Silviano FIORATO con Maria Carla (Genova)Ernesta GALGANO (Genova)Alfredo IMPERATORE (Napoli)Domenico LOMBARDI (Pietrasanta, Lucca)Lanfranco LUZI (Roma)Loris Maria MARCHETTI (Torino)Marco MARCHETTO con Anna (Grugliasco, Torino)Sergio MARENGO (Granois, Savièse – Svizzera)Rina MUSCIA con Claretta Canavese (Bologna)Carmine PATERNOSTRO (Morano Calabro, Cosenza)Marco PESCETTO con Antonella (Genova)Paolo PISI (Mantova)Mario TAMBURELLO (Cuggiono, Milano)Gino TORCHIO (Chivasso, Torino)Patrizia VALPIANI (Torino)Valentino VENTURI (Bergamo)Enrico VERCESI con Lucia (Torino)Franco VILLA con Anna (Torino)

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CRONACA

Scrivo le mie impressioni sul treno che mi riporta a casa. Come si raccontaun congresso? Non con l’arida cronaca, questo è certo: sarebbe comeconfermare e semplicemente ampliare il programma che tutti conoscono.Vorrei invece che queste giornate fossero viste con i miei occhi, con tutti ilimiti che ciò comporta, certo, ma per quanto limitata sia la mia capacitàd’osservare e riferire, sarà pur sempre come se chi legge abbia partecipato.

Genova, giovedì 8 giugno. Pre-congresso

Come preferiamo per le sedi lontane da casa nostra (Ascoli), io e mio figlioFurio arriviamo il giorno prima, affinché la stanchezza del viaggio non ciprivi in parte del piacere del già breve incontro. Ad accoglierci ci sono igenovesi Silviano Fiorato, una delle colonne dell’AMSI, e l’organizzatoreMarco Pescetto. Sono loro che, dopo averci rifocillato, ci accompagnano allasede congressuale, l’Hotel Bristol, un gioiello sulla strada principale diGenova, via XX settembre, un’arteria maestosa con palazzi di cinque o seipiani e grandi loggiati simili a quelli torinesi: architettura di fine Ottocentoche, come il nome della strada, celebra l’unità nazionale. L’hotel è lussuoso,ma senza esagerazioni, con chiara impronta liberty visibile negli spazicomuni, nelle camere, nelle decorazioni come nei pavimenti, nei quadri e nelmobilio, per culminare nello straordinario scalone centrale dal disegno ovalecon rampa unica tra piano e piano, che arriva fin lassù al sesto, scalone sotto-lineato sapientemente dalle ringhiere in stile e dalla elegante guida continua,rosso-bordeaux. Un colpo d’occhio che è uno splendore!

Venerdì 9 giugno

Trascorro la mattinata nella hall dell’albergo ad accogliere gli amici chegiungono alla spicciolata. Gli iscritti con gli accompagnatori – mariti, mogli,figli – formano il consueto allegro e pittoresco gruppo di ‘facce da congresso’.Ci sono i nuovi o recenti (Pescetto, Bettelli, Bonelli, Lombardi, Marchetto,Paternostro, Pisi) che promettono bene e con la loro età abbassano la mediache era da anni pericolosamente in aumento. Il ristorante dell’albergo iniziaottimamente la due giorni gastronomica con un buffet che serve a riprendere

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CRONACA

subito i contatti, poi cominciano i lavori.Il congresso si apre con due bellissimi filmati sulla Città, seguiti dalle

parole appassionate di un figlio devoto quale deve esser considerato il nostroPescetto. Dopo gli interventi del presidente dell’Ordine dei Medici di Genovadott. Enrico Bartolini e della nostra Valpiani, si passa alle premiazioni: quelledel concorso La Serpe d’Oro di poesia e quella di Valentino Venturi quale‘Medico-scrittore dell’anno’ (titolo di recente istituzione), da parte del prof.Enrico Testa, ordinario di Storia della Lingua italiana presso l’Università diGenova. Segue la presentazione e distribuzione della nuova Antologia diPoesia Dialettale, un’originale e coraggiosa iniziativa di cui non ricordol’eguale. Tra le comunicazioni, che si susseguono secondo l’ottimo e collaudatoritmo di una ogni dodici minuti, permettetemi di menzionare soltanto quelladi Fiorato che ha voluto ricordare, come ha già fatto sulla rivista, la figura diFranco Cusmano, medico-scrittore genovese di grande valore scomparso direcente.Per cena veniamo accompagnati in pullman a Boccadasse, borgo marinaro

del levante genovese. La sala che ci accoglie si sporge con la vetrata, comeprua di nave, sul mare del golfo, calmissimo, su cui si dondolano pigramentecabinati all’ancora. Dopo il tramonto ci saluta la luna piena che sorgerossastra dietro il promontorio di Portofino. Ragazzi musici allietano laserata con repertorio classico (Paganini) e moderno (De André). I giovaniimpegnati nella musica fanno sempre tenerezza e danno speranza, perché siavvicinano al bello dell’arte e si allontanano dalla stupidità e dalla violenzadilaganti.

Sabato 10 giugno

Implacabile, alle 9,30 la nostra rossa presidente incalza riottosi ritardatarinella sala riunioni dove riprendono i lavori con l’assemblea dei soci. Larelazione della presidenza viene fornita scritta a tutti, con efficienza manageriale.Seguono gli interventi del segretario Bandirali e (sempre atteso e temuto)quello del tesoriere Torchio. Ma ci rassicurano: l’Associazione gode buonasalute ed è in buone mani, gli iscritti sono in aumento, i conti regolari. Qualedirettore editoriale de La Serpe, posso aggiungere che la rivista è ormaicollaudata nella sua nuova veste e viaggia tranquilla. Confermo i criteri chemi hanno finora guidato: priorità di pubblicazione secondo l’ordine diricezione dei contributi proposti, salvaguardando un opportuno alternarsi di

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CONGRESSO A.M.S.I.

prosa e poesia; divieto assoluto di pubblicazione o recensione per chi non èin regola con le quote annuali. Siccome la rivista è finanziata soltanto conqueste, non sono ammesse deroghe. Riprendono e terminano le comunicazioni dei soci, che sono state ben

quattordici (Aitini, Bonelli, Fiorato, Imperatore, Marchetto, Luzi, Muscia,nella giornata di venerdì 9; Cappelli, Marengo, Paternostro, Pisi, Torchio,Vercesi e Venturi, sabato 10), un risultato mai neppure sognato nei congressidi un tempo, quando le giornate congressuali erano tre.Subito dopo chi può si avvia a piedi verso il Porto Antico, dove è previsto

il pranzo. Lungo il tragitto attraversiamo il cuore della Città e veniamoscoprendo le bellezze storico-artistiche dell’antica repubblica marinara,guidati da Pescetto e dalla meravigliosa sua figlia Antonella, la cui rossaveste, insieme alla balda e giovanile figura della nostra fulva presidente,sembrano bandiere che aprono il nostro corteo che, pur se acciaccato qui elà, appare sempre pieno di speranza e desideroso del bello.Si pranza ai margini del Porto, praticamente sul molo, in un moderno

edificio alto che fa parte della ristrutturazione affidata nel 1992 a RenzoPiano, in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America. Sarò‘passatista’, come spesso mi si dice, ma queste invasioni (e prevaricazioni) delnuovo sull’antico non le gradisco. “Qui era tutto in abbandono – precisaperò Fiorato. – Adesso invece la città vive.”Dopo il pasto continuiamo la visita degli antichi carrugi fino al Teatro

Carlo Felice. Qui, dove Pescetto evidentemente è di casa quale melomaneadorante, siamo accolti da una gentile e preparatissima dipendente del teatroche ci fa da guida. Dell’antica struttura è rimasto solo il pronao classicheggianteche si affaccia sulla piazza. Il teatro è stato infatti distrutto dai bombardamentidell’ultima guerra e ha dovuto attendere ben cinquant’anni per la sua totalericostruzione e riapertura (1991). È un’imponente struttura, dotata della piùavanzata tecnologia, la cui ‘torre scenica’ si alza per ben 63 metri sul panoramadella città. Ma è un altro lo stupore che ci avvince durante la visita. Lasciatigli sterminati locali al pianterreno, saliamo in ascensore per visitare la salache accoglie il pubblico. In fila indiana, percorrendo corridoi interminabili,entriamo nello spazio vivo del teatro. In un’immensità buia e indistinta,laggiù in basso, scorgiamo il palcoscenico, quasi un fiore di luci colorate,animato da una folla di attori, e udiamo note di grande musica: si staprovando il finale della Turandot. Seduti nelle comode poltrone dell’immensagalleria (non ci sono palchi: è un teatro moderno) assistiamo a lungo inreligioso silenzio. Non capita spesso un’emozione così forte, forse perché

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CRONACA

inattesa. Bravo Pescetto! E non è finita. La nostra solerte guida ci accompagnadietro le quinte, dove ci mescoliamo ai figuranti e agli operatori, e perfino neisotterranei dove possiamo ammirare le spettacolose macchine di scena, veree proprie piazze che possono essere mosse in ogni direzione.La visita della città termina, dopo aver percorso via Garibaldi con la

dovizia dei suoi palazzi, con la salita in ascensore alla Spianata Castelletto dadove si può ammirare l’intero panorama della Città.La cena di chiusura è il consueto elegante e raffinato appuntamento che

conclude le giornate congressuali, a cui si aggiunge stavolta un intrattenimentocon letture poetiche fatte dal prof. Testa (opere sue) e dalla brava attriceMaria Elena Pollak (poeti genovesi). L’indomani mattina i saluti. Appuntamento per l’anno prossimo a

Pietrasanta (Lucca), in Versilia.

Carlo Cappelli

Veduta di Genova dal Porto Antico

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RELAZIONE DI APERTURA

GENOVA PER NOI

Ahi Genovesi, uomini diversid’ogni costume e pien d’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?

(Divina Commedia, Canto XXXIII dell’Inferno)

Questo è il pensiero che Dante rivolge ai miei concittadini, forse inspecial modo a Branca Doria, uomo illustre della nobile casata ghibellina,che il Sommo Poeta pone nel nono girone infernale riservato aitraditori degli ospiti, immerso con il capo nel lago ghiacciato della To-lomea, le cui lacrime non possono sfogare il suo dolore perchéghiacciano non appena sgorgano dagli occhi. Dante viene a Genovanell’inverno a cavallo tra il 1311 e il 1312, esule da Firenze per l’assediodella città ad opera di Arrigo VII e si dice abbia incontrato il padre diPetrarca, suo amico, in compagnia del giovane Francesco. Questosarebbe l’unico incontro tra i due grandi poeti e sarebbe avvenutoproprio nella nostra città.Per contro Francesco Petrarca userà toni diversi per descrivere la

città: “Vedrai una città regale addossata a una collina alpestre, superbaper uomini e per mura il cui solo aspetto la indica Signora del mare”Forse davvero la migliore etimologia del nome della città è da

ricercarsi nel dio Giano, inconfondibilmente bifronte, che guarda con-temporaneamente verso il mare e verso la terra.Simbolo di questa città è la Croce di San Giorgio, croce rossa in

campo bianco; al 1096 risale la prima attestazione ufficiale da Jacopoda Varagine. I Genovesi concederanno l’uso della bandiera ad altripopoli, come gli inglesi, le cui flotte naviganti allora nel Mediterraneola utilizzeranno per sentirsi al riparo dagli attacchi dei Saraceni, nonprima di aver pagato una tassa ai Genovesi.Nel 1099 la conquista di Gerusalemme è uno dei capisaldi dell’orgoglio

genovese nel Medioevo. L’impresa è infatti resa possibile da Guglielmo

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RELAZIONE DI APERTURA

Embriaco, detto Testa di Maglio (1040-1102), comandante della flottacittadina che, una volta raggiunta la meta, fa smontare le navi ecostruire con il legname ottenuto le torri d’assedio che consentirannolo sfondamento dei crociati.Nel 1128, quindi sempre in epoca medievale, è edificata la prima

torre della Lanterna, sulla cui sommità arde un fuoco alimentato daerica e ginestre secche; le navi che entrano in porto pagano una tassa“pro igne faciendo in capite fari”. Oggi è alta 77 metri e la sua strutturadefinitiva risale al 1543.Dopo la conquista di Gerusalemme, Genova si afferma come

potenza navale, politica e commerciale, occupando un ruolo di premi-nenza tra le Repubbliche Marinare.Nel 1260 viene ultimata la costruzione di Palazzo San Giorgio, per

volere di Guglielmo Boccanegra; sarà sede del potere civile e ospiterànelle proprie carceri Marco Polo, catturato nella battaglia di Curzolanel 1298, che qui detterà Il Milione a Rustichello da Pisa, catturato asua volta nella battaglia della Meloria del 1284.Il 23 dicembre del 1339 viene acclamato dal popolo il Primo Doge

della Repubblica , Simone Boccanegra. Con la nomina di Boccanegraha inizio l’età dei dogi perpetui e della cosiddetta “egemonia popolare”che avrebbe contraddistinto il governo della Repubblica di Genova.Contrastato dai nobili, Simone dopo qualche anno perde l’appoggiodel popolo e rinuncia al dogato, riparando a Pisa. Nel 1356 tuttavia,con l’appoggio dei Visconti, riprende la carica di doge e, dopo diecianni muore, forse avvelenato da sicari delle famiglie Adorno e Fregoso,bramose di metter mano al potere.Giuseppe Verdi, protagonista del melodramma dell’Ottocento

italiano, celebrerà le sue gesta nell’opera omonima ambientata nellacittà della Lanterna nel 1857.Nel 1451 nasce nell’antico quartiere di Porta Soprana Cristoforo

Colombo, figlio di Domenico e Susanna Fontanarossa, tessitori, il piùgrande navigatore di tutti i tempi, che con la Nina, la Pinta e laSantamaria varcherà l’oceano atlantico inesplorato per raggiungere escoprire le Americhe.Nel 1528 l’ammiraglio Andrea Doria, sessantaduenne, libera Genova

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CONGRESSO A.M.S.I.

dai francesi, alleandosi con l’imperatore Carlo V di Spagna e fa promulgareuna nuova costituzione. Il Comune si trasforma in una Repubblica Ari-stocratica, fondata sulle famiglie nobili. Il Doge viene eletto e governaper due anni: Doria non avrà alcuna carica, ma sarà di fatto il “garante”della Repubblica. Morirà a 94 anni.Nel 1617 un gruppo di cittadini dà vita al “gioco del seminario“. Si

tratta di indovinare i nomi dei cinque membri dei Serenissimi Collegirinnovati per sorteggio ogni sei mesi in una lista di 120 candidati. Ilgioco ha grande successo. È nato il gioco del Lotto che si diffondepresto in tutta Italia.Nel 1782 nasce Niccolò Paganini, figlio di un portuale appassionato

di musica e di una casalinga, in Vico Fosse del Colle nelle pieghe diGenova antica. Autodidatta, sarà in vita considerato il più grandeviolinista del mondo. Il suo strumento, detto “il cannone”, costruitoda Giuseppe Guarnieri nel 1743, verrà donato alla città ed è conservatoa Palazzo Tursi, sede del Comune.“Paganini non ripete”. Questo detto popolare ha origine nel febbraio

1818 al Teatro Carignano di Torino, quando Carlo Felice, dopo avereassistito a un concerto del maestro, lo fece pregare di ripetere un branoche lo aveva particolarmente colpito. Paganini, che amava improvvisaremolto di quello che suonava, gli fece rispondere: “Paganini non ripete”.Per questo motivo gli fu tolto il permesso di eseguire il terzo brano inprogramma.Nel 1805 al n.11 di via Lomellini, nasce Giuseppe Mazzini, figlio di

Giacomo, medico di Chiavari, e di Maria Drago. Giornalista e avvocato,sarà protagonista del Risorgimento Italiano.E giungiamo al 1847. In un piazzale del quartiere collinare di

Oregina, davanti a 30 mila persone, viene eseguito per la prima volta il“Canto degli Italiani”: parole di Goffredo Mameli e musica di MicheleNovaro, entrambi genovesi. Sarà poi noto come Inno di Mameli.1853. A Sampierdarena, banchieri e armatori sostenuti da Cavour

fondano l’Ansaldo; produrrà prima locomotive a vapore, poi motori,navi, aerei, tram e cannoni.Nel XIX secolo Genova diventa tappa obbligata del Gran Tour Eu-

ropeo in cui gli intellettuali del vecchio continente raffinavano la loro

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RELAZIONE DI APERTURA

cultura recandosi nelle città più ricche di fascino: Stendhal, CharlesDickens, Mark Twain, George Byron, Mary Shelley, Gustave Flaubert,Anton Cecov, solo per citarne alcuni, misurarono la Superba e ne per-corsero le anguste vie.Prima della fine del secolo nasce a Genova il Genoa Cricket and

Football Club, la più antica società calcistica italiana (1893). A fondarlanella sede del Consolato Britannico un gruppo di inglesi impiegatinell’armamento e nelle assicurazioni.Nel XX secolo, al termine di reiterati bombardamenti anglo-

americani e successive rappresaglie dell’esercito tedesco, il 25 aprile1945 il comandante della guarnigione tedesca Gunter Meinhold firmala resa davanti ai rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale.Genova è l’unica grande città europea a liberarsi da sola: gli esercitialleati si trovano ancora a La Spezia.Le ferite aperte lasciate dall’ultimo conflitto mondiale impiegheranno

decine e decine di anni per rimarginarsi. Uno degli esempi emblematicidi questo degrado in cui viene lasciato il cuore della città è il TeatroCarlo Felice, ridotto a uno scheletro, dopo i bombardamenti aerei del‘42. Ci vorranno 49 anni prima che i genovesi possano riavere unteatro degno della loro storia. Nell’autunno del 1991 verrà inauguratoil nuovo Teatro Carlo Felice con Il Trovatore di Giuseppe Verdi,musicista che tanto amava la nostra città.1970 Genova si conferma città laboratorio dei tempi che cambiano.

Un messaggio audio si inserisce nei programmi del Telegiornale eannuncia la nascita di Nuovi Gruppi Armati Proletari. Nasce la bandaXXII ottobre che nel giro di qualche mese eseguirà l’assassinio delportalettere Alessandro Floris e il rapimento a scopo di riscatto del-l’imprenditore Sergio Gadolla. È la nascita del terrorismo: nell’aprile1974 le Brigate Rosse rapiranno il magistrato genovese Mario Sossi,poi miracolosamente risparmiato e perpetreranno l’assassinio del Pro-curatore Francesco Coco e degli uomini di scorta. La loro escalation siconcluderà con l’assassinio dell’operaio Guido Rossa nel ‘76. Siamonegli “anni di piombo” in cui viene seriamente messa in discussione lademocrazia, tra continui ed efferati crimini contro gente inerme,politici e funzionari dello Stato.

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CONGRESSO A.M.S.I.

Molto lentamente Genova riprende quota e l’anno seguente, il1992, in occasione delle celebrazioni colombiane, si apre l’Expo 92cioè l’Esposizione Internazionale Specializzata sul tema: CristoforoColombo, la nave e il mare.Viene riqualificata su progetto di Renzo Piano l’intera area del

Porto Antico: prendono forma l’Acquario, i ristrutturati Magazzinidel Cotone e gli edifici limitrofi; al centro viene eretto il Bigo, copia digrandi gru da carico delle navi che ora regge un ascensore panoramicocon vista mozzafiato su tutta la città.La città comincia a scoprire una vocazione turistica oltre che indu-

striale.

Marco Pescetto

Consegna della targa di ringraziamento all’organizzatore del Congresso.Da sinistra: Marco Pescetto, Antonella Pescetto, Patrizia Valpiani, Simone Bandirali

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PREMIO DI POESIA“LA SERPE D’ORO - NORA ROSANIGO” 2017

Sezione A1EDITI MEDICI

DOMENICO LOMBARDI (I Premio)Domenico Lombardi in Disperse comparse (Giuliano Landolfi editore), coglieil senso di crisi e d’insicurezza di cui l’Occidente soffre da tempo ed espressoculturalmente dalle filosofie nichilistiche. In uno stile essenziale ma eleganteper ricchezza d’immagini e figure retoriche, sostenuto da un sicuro estrocreativo l’Autore mette al centro della sua ricerca poetica la figura dell’uomocontemporaneo, e le sue problematiche esistenziali affrontate con sensibilitàpartecipativa e dolente tuttavia lontana dai toni negativi del pessimismo.Non temo la fatica del viaggio / verso ciò che ignoro / e non è facileguardare il sole / che tramonta lungo il muro / del sogno. || Se tu incontrila vita / domandagli cosa è la tristezza, / il silenzio, la consolazione. || Ionon conosco la lingua del nulla / e lo sguardo della rassegnazione.

FRANCO VILLA (II Premio)Nei dintorni di Colono rappresenta la visione lirica di Franco Villa sullamolteplice connessione che tiene vincolata l’esistenza umana al mondo degliaffetti, della natura e al desiderio d’indagare il mistero esistenziale. L’Autore siavvale di un sicuro ed accurato stile, fedele ai canoni di un amato classicismoben posseduto e rielaborato in maniera originale, come ben appare nellaseconda strofa della poesia Le coefore, dove il ritmo, l’eleganza del verso, icolori e i profumi ricordano alcuni frammenti dei poeti della stagione alessandrina. Ed ecco, vengono avanti, / su per le vie profumate dei giacinti, / dallaparte azzurro cupo del mare. / Ma con passi affrettati ora, / come ibattiti del cuore. / Sono guidate dal silenzio.

SERGIO MARENGO (III Premio)Rincorrendo la luce, opera trilingue dell’Autore italo-svizzero Sergio Marengo,presenta liriche di gioiosa affermazione della positività dell’esistenza, sianoesse ispirate al fascino delle donne amate o alla natura, custode anch’essa dibellezza e spiritualità. Lo stile, nell’essenzialità del verso, favorisce l’immediatezzadella comunicazione.

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INFINITÀOra, comprendo l’acre / perdurare proprio / al limite del male /e dellacieca violenza / che incendia l’uomo. || Eppure, ogni giorno, / resisto esento crescere / di più l’intima nostalgia / del bello, che strugge, / comeun sogno beato, / che viene incontro, / che continuo avvolge, / in unabbraccio reale. || E gli occhi, ormai, / si spalancano alla promessa /infinità, dove, alla fine, / ogni ombra cade.

FRANCO CASADEI (Menzione speciale)Egloga di significativo valore poetico per i suoi aspetti contenutistici e stili-stici.I FIORI DEL VENTONel fervere del sole / i papaveri accesi / fra le creste d’asfalto, / i fiori dicampo / seminati dal vento || bellezza randagia / che preme / di un’ab-bondanza non nostra / A chi obbediranno i fiori?

LUIGI GASPARRONI (Menzione speciale)In un linguaggio famigliare e in uno stile privo di artifici retorici l’Autorepresenta il mondo semplice e puro dei valori affettivi. Da Spiragli di luce:DONNAIn viso un’alba chiara, / lieve come ala di farfalla, / morbida alga marinala sua pelle. / Spiragli di luce come lucciole / tra i suoi capelli. / Gli occhi unmare profondo, / nelle parole la voce serena / d’un tenero crepuscolo.

Sezione B 1INEDITI MEDICI

ANGELO CARENINI (I Premio)Nella silloge Le stagioni dell’anno e le stagioni dell’anima l’Autore consottile malinconia e versificazione sincopata accosta alla metafora dellestagioni dell’anno la situazione della sua interiorità e dei suoi stati d’animonella loro dimensione sentimentale. Le parole sono quelle di tutti i giorni e ilrischio di incorrere nel banale era molto alto. Al contrario, Angelo Careniniha trovato una dimensione poetica originale, nel rispetto dei ritmi del tempoe di quelli della vita, con una tensione sottesa al filo della memoria in unequilibrio quasi rarefatto, ma con la perfezione di un cristallo.

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CONGRESSO A.M.S.I.

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PRIMAVERATarda quest’anno la primavera. / Sul calendario, / è già quasi estate. /È confuso il mio giardino, / tra strane assonanze / e tante discordanze /di sfumature e di colori, / frastornato da insolite fragranze / di profumie di odori. / Anche la natura, / tutt’attorno a me, / mi sembra incerta. /Come un pittore insicuro / nello stendere la pennellata adatta, / comeun compositore / che non trova la giusta armonia. / Anch’io, / daqualche tempo, / fatico a riconoscere le stagioni / dell’anima mia.

ERNESTA GALGANO (II Premio)In Mare d’inverno la contemplazione delle onde in una fredda giornatafornisce ad Ernesta Galgano l’occasione per un dialogo che muovendo dauna realtà naturalistica diventa dialogo interiore apportatore di nuove energiespirituali. Lo stile presenta ricchezza di appropriate immagini. Un frammen-to:Anche oggi vengo a guardarti / meraviglioso mare mio / sensibile,fedele, / libero mare d’inverno

RINA MUSCIA (III Premio ex aequo)Con stile sobrio ma articolato in efficace creatività espressiva Rina Musciacon le sue liriche attesta e rivendica la spontaneità e la persistenza deldesiderio di amare che supera ogni limite posto dal tempo e dai rimpianti.ESTATEAh, L’estate furente / stampa colori / sui corpi distesi / tra il muschio el’ombra. / La veemente calura / raggiunge le annoiate / cime deicastagni. / Compone desideri: / ah, bere a trentotto gradi / il tuo respirodi menta: / neve pura nel deserto / esilarante ora / di frescura!

MADDALENA BONELLI (III Premio ex aequo)La produzione poetica di Maddalena Bonelli è ispirata ai ricordi del giovanilepassato vissuto in campagna e agli affetti famigliari, temi che tratta connostalgia e sentimento attraverso una versificazione priva di toni retorici. DaFelici giorni a Grassano:Felici quei giorni / in cui correvi a piedi nudi / nel paese di asinicaprette e muli / con un filo al dito stretto / su cui ronzava ipnotico espaurito / il verde smeraldo del calabrone.

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PREMIO DI POESIA

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Sezione A 2 EDITI AMICI

LORIS MARIA MARCHETTI (I Premio)Nell’Opera Suite delle tenebre e del mare (Puntoacapo editore) Loris MariaMarchetti muovendo da un tono lirico di base esamina l’umanesimo delquotidiano cogliendone i molteplici aspetti con divertita e blanda ironia,senza tuttavia negarsi all’ispirazione che gli proviene dai suoi profondiinteressi musicali e dal mondo delle memorie. L’agile e posseduta sapienzalinguistica ed espositiva che tiene conto della lezione antiaccademica del No-vecento europeo, e la modulata armonia del verso consentono all’Autore diraggiungere livelli stilistici di grande originalità e di eccellente profilo artisti-co.LABILITÀ DI CONFINIData l’età / le restavano solo i fantasmi / dei molti sogni sognati ingioventù / e il suo vivere onirico di rendita / si svolse, per un poco, ini-mitabile. / Fino a quando divenne una colonia / del neofondato imperodegli incubi.

MARIO TAMBURELLO (II Premio)Con Xiatu Sicanu (Atene del Canavese editore) l’Autore avvalendosidell’idioma delle genti siciliane dei monti Sicani rende un profondo ecommosso omaggio alla loro antica civiltà e cultura nei vari aspetti del lorovissuto, ma sottolineando altresì il legame memoriale e nostalgico checontinua a legarlo alla sua terra d’origine anche vivendo in altri luoghi e si-tuazioni. L’egloga è corredata di interessanti immagini di opere pittoricheche aiutano il lettore ad immedesimarsi nel lirismo vibrante e intenso diMario Tamburello.A QUATTRUOCCHIUocchi ca muti / diciti, / uocchi ca liggiennu / sunnati, / uocchi cachianciennu / amati, / ‘ncapo a peddi du mè sèntiri / ‘na nsinga lassàti,/ accussì ca ‘llu scaru / iu puozzu truvariti, / videmma ccu l’uocchi at-tuppati.

RENZO PICCOLI (III Premio)Ospizio Bernina è la seconda egloga della Trilogia d’Autunno in cui l’Autoresi ispira agli aspetti del vivere che maggiormente allacciano il vissuto e ilmondo naturalistico alla realtà altrettanto affascinante del sogno e dell’ideazione.

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CONGRESSO A.M.S.I.

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Il percorso stilistico articola ampiamente immagini e neologismi che fornisconol’aspetto caratteristico della scrittura di Renzo Piccoli.SOSPESOSospeso tra un sogno insanguinato e l’atroce dimenticanza / tra unlembo di vita e lo spezzone della morte / tra la lucida trasparenza e ilnulla.

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PREMIO DI POESIA

Un momento dei lavori congressuali presso la sala dell’Hotel Bristol

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ASSEMBLEA DEI SOCI A.M.S.I.

RELAZIONE DELLA PRESIDENTE PATRIZIA VALPIANI

È cosa ragionevole nella relazione annuale all’Assemblea dei Soci che la Pre-sidente inizi con un excursus di quanto è accaduto in ambito della Associazione,di quanto si è fatto per concludere con delle proposte per il futuro che ci siaugura sempre più denso di soddisfazioni.Sul primo punto penso cosa di grande spessore l’esserci dotati di una sede

in Torino, uscendo da quella situazione un po’ precaria di fissare la sede as-sociativa nell’abitazione del Presidente pro tempore. Si è preso al balzo dauna parte una tipologia di locazione office e dall’altra la presenza nello stessocortile abitato dalla Presidente di una struttura cui fanno capo con la stessametodologia altre associazioni culturali. Abbiamo la disponibilità: a) di unlocale nostro che abbiamo arredato con un armadio biblioteca, cui fareconfluire la memoria storica, e gloriosa per alcuni versi, dell’Associazione b)di una sala attrezzata utilizzabile in occasione di conferenze, riunioni diconsiglio, presentazione di libri. Questo ci porta a invitare i Soci a forniremateriale documentario, copia di loro libri, pubblicazioni, articoli che dianocorpo e sostanza all’idea. Da parte nostra è in corso il reperimento di tutti inumeri de La Serpe per avere la collezione completa. La sede è aperta perquattro ore settimanali e si entra da Corso Francia 169, mentre la Casella diposta è posizionata in Via Cristalliera al n. 3 (altro ingresso) ed è lì che va in-dirizzata la corrispondenza. Il CAP è 10139 Torino. Ho portato per la cono-scenza dei Soci alcune fotografie.Oltre ai Patrocini ed alla collaborazione con i premi letterari Omodei

Zorini di Arona, il Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo, il LILT di Parma,la kermesse-festival letterario Naxolegge in Sicilia, da quest’anno abbiamoaggiunto il Premio Cronin di Savona.Ricordo l’iniziativa “Medico-scrittore dell’anno”. Nel 2016 ad Andrea Vitali,

nel 2017 a Valentino Venturi.Vi invito a consultare il nostro sito (www.mediciscrittori.it) gestito in

maniera encomiabile da Elena Cerutti, che ringrazio a nome di tutti, esoprattutto a non cestinare le newsletter che hanno cadenza diversa dellaSerpe e provengono dalla Segreteria di Simone Bandirali. Le notizie sono piùfresche soprattutto per quanto riguarda bandi e scadenze dei premi letterari.Il nostro premio letterario La Serpe d’Oro che era a cadenza triennale

verrà bandito ogni anno e si alterneranno poesia, saggistica e narrativa. Si è

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ASSEMBLEA DEI SOCI

accorciata la formula del Congresso annuale anche per un doveroso conteni-mento dei costi. Si sono istituite le macroregioni in numero di tre e ilconsiglio ha nominato per ognuna un referente. Si è decisa la concessione dellogo AMSI, dietro semplice richiesta, per le pubblicazioni degli associati,come concreto simbolico segno di appartenenza. Alle presentazioni di vostreopere è possibile chiedere la presenza della Presidente o dei referenti dellemacroregioni, nei limiti ovvii del possibile e del praticabile. Sono ormai dueanni che pubblichiamo sotto l’insegna dell’AMSI antologie. La prima per iracconti brevi ha avuto la partecipazione di oltre trenta iscritti, la secondapresentata ieri è dedicata alla poesia dialettale. Si vuole continuare su questastrada che predilige la partecipazione corale di noi medici scrittori e chiediamosuggerimenti riguardo all’argomento per la prossima edizione a tutti voi percontinuare nell’esperimento. Ho ricevuto i complimenti dai responsabilidelle delegazioni straniere per l’organizzazione e la riuscita del Congressomondiale in Italia nel 2016, il più frequentato degli ultimi anni.Propongo per il Congresso del prossimo anno, che spetterebbe alla mega-

regione del Centro, Pietrasanta (Lucca). L’onere dell’organizzazione sullespalle mie e quelle più possenti di Domenico Lombardi. Maddalena Bonelli,che è di Matera, si è proposta per il 2019 che è anche l’anno per la città di unambito riconoscimento. Per il 2020 vorremmo ritornare a Roma.

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DEVOTE MOSTRUOSITÀAlessandra e Luigi Gasparroni

Dal tempo lontano del mito e delle leggende arriva, con un salto disecoli, la più famosa e conosciuta storia della lotta tra il drago el’uomo. Animale reale, fantastico, escatologico, tante le attribuzioninei confronti della bestia. Animale che ha preso forme diverse aseconda dei vari periodi storici e che la fantasia umana ha contribuitoa deformare, arricchire, rendere sempre più spaventoso. Resta invariatoperò il rischio che l’incontro tra l’uomo e il rettile continua ad avere,anche se si è cercato di renderlo innocuo, tenendolo a distanza. Questaattrazione ancestrale si palesa non solo in ambiti naturali ma ancheladdove l’uomo cerca di riconfigurare realtà naturalistiche come iParchi a tema americani.Non sempre però quel limite sottile e invalicabile di guardare, te-

nendosi a distanza, viene rispettato. Così il 14 giugno 2016 un bambinodi due anni viene trascinato in acqua da un grosso alligatore in unospecchio d’acqua del Gran Floridian Resort di Disney a Orlando inFlorida e, con i mezzi di controllo di oggi, vengono uccisi quattroalligatori prima di recuperare i resti del piccolo. Abbiamo citato que-

Saggistica

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SAGGISTICA

st’esempio, purtroppo finito tragicamente, perché ci permette diinoltrarci nel particolare rapporto tra la bestia che assale e l’uomo cheviene assalito, ferito, a volte mangiato. Proprio perché temuto l’animale è stato spesso adorato, si tratta di

coccodrilli o alligatori che, vivendo in alcune zone del mondo, vennerodeificati come accadde in Egitto dove nel tempio di Kom Ombo, sullerive del Nilo, ancora oggi sono visibili grandi rettili imbalsamati.Dunque animali che, nell’immaginario collettivo, sono stati rappresentaticome esseri mostruosi sconfinando nell’estrema bruttezza e malvagitàcome rappresentazione del male al tempo del Vecchio Testamento cheli vide uscire dalle acque come recita il Salmo 74 (13-14): Tu conpotenza hai diviso il mare, / hai schiacciato la testa dei draghi delleacque, / al Leviatàn hai spezzato la testa, / lo hai dato in pasto aimostri marini e nel Salmo 89 (11): Tu hai calpestato Raab come unvinto (Raab nome di un mostro mitico che personifica il caos marino),e nel Salmo 104 (26): Ecco il mare spazioso e vasto. / Lo solcano le navi,/ il Leviatàn che hai plasmato / perché in esso si diverta.L’idea di un mostro che oscura l’universo e si nutre di esso si

ritrova anche in Giobbe 3 (8): la maledicano quelli che imprecano algiorno, / che sono pronti ad invocare Leviatàn. / Si oscurino le stelle alcrepuscolo. / Speri la luce e non venga (drago, serpente fuggitivo cheprovoca l’eclissi inghiottendo il sole) e ancora Giobbe 40 (15-25): Eccol’ippopotamo che io ho creato al pari di te. / Beemot: bestia gigantesca./ Puoi tu pescare il Leviatàn con l’amo / e tener ferma la sua lingua conuna corda? (si riferisce al coccodrillo). Il mostro che viene dall’acqua e che distrugge si ritrova nei versi del

Profeta Isaia 27 (1): In quel giorno il Signore punirà / con la spadadura, grande e forte / il Leviatàn serpente guizzante, / il Leviatànserpente tortuoso / e ucciderà il drago che sta nel mare, e in Ezechiele29 (3) 32 (2): Il Leviatàn rappresenta l’Egitto ed evoca il mostro / chefu vinto da Jahavè, e in Daniele 7 (7): Ecco una quarta bestia spaventosa,terribile, d’una forza / eccezionale, con i denti di ferro. E l’immagine siconclude con quanto citato nell’Apocalisse di Giovanni 12 (3): Alloraapparve un altro segno dal cielo: un enorme / drago rosso con sette testee dieci corna e sulla testa / sette diademi.

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DEVOTE MOSTRUOSITÀ

La sagoma animalesca si definisce nella sua mostruosità e, nel tempocristiano, vide in San Michele Arcangelo e in San Giorgio coloro chesconfissero draghi diabolici, nell’affermazione del bene sul male. L’idea che rettili così pericolosi vivessero lontani da corsi d’acqua

europei è stata, nel tempo, superata dalla storia naturale che ha rilevatotracce fossili durante campagne di scavo e anche da reali prelevamentidi animali che vennero trasferiti dalle loro aree di origine e portati indono o in scambio presso potenti e prestigiose famiglie quando, nel‘500, si inaugurò la moda della Wunderkammer, stanza delle meraviglie,che consisteva in una reale camera o più propriamente in una zonadella residenza signorile adibita a raccogliere e custodire quanto di piùstrano e meraviglioso il signore potesse possedere: uova di uccelli sco-nosciuti (struzzi), animali mostruosi conservati in barattoli di vetro,conchiglie provenienti da lontani paesi, minerali e metalli grezzi daicolori affascinanti, ragni e scorpioni disseccati o vivi e uccelli piumati,scimmie minuscole, tutto quello che potesse meravigliare i visitatori e,naturalmente, aumentare l’ammirazione verso chi li possedeva. In alcuni serragli si stipavano quadrupedi esotici e piccoli laghi

ospitavano pesci particolari, in alcuni bacini venivano tenuti coccodrilli. Poteva capitare, come in realtà accadde in alcuni fiumi italiani, nel

Mincio, nell’Adige, nel Serio, nel Chienti che una piena del fiumefacesse esondare il corso d’acqua, facendo aumentare il livello delbacino e uno di questi animali si ritrovasse in un nuovo habitat, ilfiume, sulle cui sponde vivevano pescatori, animali e famiglie. L’incontrotra l’uomo e la bestia, di cui si parlava, si ripeteva con assalti e terroree, in seguito, vedremo come l’eventuale scampato pericolo apriràscenari di devozione. Tutto il bagaglio della cultura cristiana relativo alla bestia immonda

ha trovato coniugazione con quanto l’archeologia ha svelato e con leleggende di fondazione di città e paesi anche in Italia dove, come inAbruzzo, studiosi del territorio hanno raccolto e pubblicato preziosenotizie.Nel convento dei Ss. Sette Fratelli di Mosciano sant’Angelo, in pro-

vincia di Teramo, non molti anni fa sono stati restaurati alcuni piccoliaffreschi che decorano l’altare dedicato a Sant’Antonio Abate. In uno

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SAGGISTICA

di questi, di mano popolare risalente al 1500, il Santo egiziano è rap-presentato su un fiume (forse il Nilo) e sembra essere traghettato daun rettile che assomiglia a un coccodrillo o grosso serpente. Il Santo,aiutandosi con il cordone del suo abito, tiene a guinzaglio la bestia chelo trasporta sull’altra riva. Il gesto sottende alla subordinazione del-l’animale diabolico alla potenza della fede di Antonio la cui vita fuvessata spesso dalle angherie del maligno. Giovanni Pansa, nel suo lavoro “Miti, leggende, superstizioni

d’Abruzzo”, cita il racconto del drago di Atessa che, vivendo in unagrotta profonda e cibandosi di carne umana, venne ucciso da SanLeucio che proveniva dall’Oriente. Il santo addomesticò il dragonetrascinandolo nella piazza del paese dove lo uccise, raccogliendone ilsangue e distribuendolo alla gente come rimedio per i dolori alle ossa.Il sangue del drago Pterocampus santalinus era considerato un astringentetonico della medicina antica, ma è chiaro che la mescolanza tra aspettidella religiosità, credenze magiche e cultura popolare hanno contribuitoa comporre questo quadro più fantastico che reale.Antonio De Nino e Gennaro Finamore, autorevoli studiosi di

cultura tradizionale abruzzese, riferiscono sulla fondazione di Atessa,legata alla presenza del drago. Due paesi Ate e Tixa erano divisi da unvallone dove viveva un dragone che divorava chiunque passasse neidintorni. San Leucio intervenne e uccise il dragone privandolo di unacostola. La scomparsa del drago portò alla riunione dei due paesi cheassunsero il nome di Atessa con San Leucio suo protettore. In una delle due leggende il santo consegna al sacerdote la costola

dell’animale insieme a tanti anelli preziosi che potessero servire allacostruzione di una chiesa e ad abbellire le dita della sua statua. Lacostola appesa nella chiesa madre di Atessa, testimonianza del pericoloscampato e del dominio del bene sul male, è la prima offerta votiva checi conduce nel sentiero di queste devote mostruosità. Non opered’arte, non gioielli preziosi o quadri votivi ma ossa o animali interipendono dal soffitto di numerose chiese italiane ed europee e sottolineanola potenza del santo o della Madonna che furono invocate per fugare ilpericolo di morte certa.

In alcuni casi, soprattutto quando si tratta di costole di pesci

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DEVOTE MOSTRUOSITÀ

enormi, come quelle di balena, il trofeo poteva essere soltanto donatoin ossequio alla città, come quella sospesa sotto l’arco di Piazza delleErbe a Verona, o portata in dono da naviganti come l’altra cheincornicia il portale prospicente l’apertura del giardino nella chiesa diSanta Maria dell’Orto a Roma.Crociati e mercanti, dal Medioevo in poi portarono in Europa

esemplari di animali sconosciuti, spesso imbalsamati, a volte vivi.L’isola siciliana, terra prossima all’Africa, fu sede per due secoli di unemirato arabo che si concluse con l’avvento dei Normanni. Gli arabiintrodussero certamente questi animali e, in seguito, è probabilepensare che alcuni di questi imbalsamati si disperdessero in Europa.Un esempio diretto lo si ha a Palermo con la presenza di un grandecoccodrillo sospeso al soffitto di una storica bottega nel mercato dellaVucciria. La leggenda e la storia reale si fondono: il coccodrillo delPapireto ne è la testimonianza. Proprio per quanto detto sulla storiasiciliana, la credenza voleva che vi fossero molti di questi animali nelfiume Papireto che scorreva sotto la città di Palermo e, dal suotoponimo si può considerare una volta arricchito, sulle rive, da piantedi papiro. Pianta che si collega strettamente con il coccodrillo e conl’Egitto tanto che si voleva affermare che vi fossero canali sottomarinidi comunicazione tra questo fiume siculo e il Nilo. In realtà si pensasia stato pescato alla fine del ‘500 in questo fiume isolano e poi espostoin uno dei mercati più tipici al mondo, per sottolineare la capacità deipescatori, considerandolo un trofeo che travalica la storia nell’eternalotta dell’uomo con il drago. L’affezione al coccodrillo del Papiretoresta immutata, nel 2011, con una grande festa, l’animale restaurato èstato riappeso al soffitto della storica drogheria da dove mancava da 15anni. Simbolo di storia, di forza e talismano positivo in quella realtàmultietnica. La maggior parte dei donativi però è strettamente legata alla lotta

vittoriosa con il drago, ormai chiaramente coccodrillo o alligatore, icui assalti furono risolti con il suo abbattimento tramite l’invocazioneal santo o alla Madonna.Percorrendo sentieri alla ricerca delle devote mostruosità, con la

certezza che non sia esaustiva, le tracce fuori confine ci portano in

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Spagna, nel Duomo di Siviglia. Nella loggia del giardino interno èsospeso dal soffitto un coccodrillo, una volta vero e poi realizzato inlegno. Anche qui la presenza araba si congiunge a quella dell’animalese la leggenda recita che il Sultano d’Egitto offrì una zanna di elefante,una giraffa e un coccodrillo come doni ad Alfonso X per avere lamano di sua figlia. La risposta fu negativa, i doni rimasero al re diSpagna e l’animale esotico, prima imbalsamato poi forse perchédeteriorato ricostruito in legno, resta a testimonianza simbolica dellapresenza araba, del rifiuto del re cattolico e della vittoria della fedesugli infedeli. La chiesa di Viso de Marquès ne custodisce unoproveniente dal Nilo, riportato da Don Alvaro de Balzàn durante unasua spedizione, l’animale è fissato sulla parete e sembra si arrampichi,verosimilmente, su di essa. La chiesa di Avila, vicino Madrid loconserva in una teca con la spiegazione del miracolo avvenuto, adopera della Vergine, che salvò uno spagnolo dall’attacco della bestianelle Americhe, che poi venne uccisa e donata come ex voto allaVergine. In Francia, la chiesa di Saint Bertrand de Comminges vicinoTolosa conserva, inchiodato lungo una colonna, un coccodrilloimpagliato. La suggestione dell’ambiente e forse anche l’animaledivennero scenario di un romanzo inglese “L’Album del CanonicoAlberico” scritto nel 1894 da M.R. James. Forse ve ne erano di più maresta la testimonianza visibile di un terribile e mostruoso animaleportato da coloro che tornarono dalle Crociate come trofeo di vittoriacristiana o come traccia votiva di un reale pericolo scampato. La Badiadi Saint Victor a Marsiglia pare ne ospitasse anche, mentre la città diNines raffigura nel suo stemma cittadino un coccodrillo incatenato aduna palma probabile retaggio della Colonia Nemausus fondata daisoldati veterani che avevano preso parte alla campagna d’Egitto, altempo di Cesare.Percorrendo sentieri italiani, a Macerata nella chiesa di Santa Maria

delle Vergini, l’intreccio storico-leggendario si ripete. Un coccodrillodall’aria inquietante è appeso in alto a sinistra della cappella dedicataalla Vergine. Forse portato dai crociati o forse, come racconta il fattoprodigioso del 1590 che svela il miracolo, ucciso dopo molti tentativipoiché le squame erano dure, mentre stava attentando alla vita di un

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SAGGISTICA

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DEVOTE MOSTRUOSITÀ

bimbo. Il padre lo colpì con la forca, invocando l’aiuto della Madonnaquando l’animale si alzò per azzannare anche lui ma mostrando laparte più tenera del suo corpo. Fu sventrato e impagliato e portatocome ex voto. La lotta tra l’uomo e il drago, che sia reale o figurata èuno degli schemi che si ritrovano spesso nelle narrazioni che giustificanola presenza soprattutto di questi animali nelle chiese. Come si diceva,torna incessantemente il riferimento a San Giorgio che uccide il dragodiabolico, a Ragusa infatti la chiesa madre è dedicata a questo Santo evi sono conservate molte parti ossee di coccodrillo. Dopo la distruzione,a causa di un terremoto nel 1693, l’edificio fu ricostruito in stilebarocco tra il 1738 e il 1775. Ancora oggi, il 23 aprile festa del Santo, lacosiddetta “chiesa dei coccodrilli” festeggia con una processioneitinerante che porta un animale dalle forme di drago-coccodrillo perrievocare la vittoria della fede e del Santo sulla bestia diabolica.Di lucertola marina si parlava anticamente riferendosi al coccodrillo

custodito nella parrocchiale di Santa Maria Annunziata a Ponte Nossasul fiume Serio, in provincia di Bergamo. Le leggende si intreccianocon parti residuali di documentazione che accostano assalti subiti damercanti sulla spiaggia di Rimini a fastidi procurati dalla bestia a unadonna con un bimbo e ai traghettatori che operavano sul lago che, an-ticamente, si trovava nei pressi di Ponte Nossa. In tutte e due lenarrazioni, solo con l’invocazione alla Madonna, il mercante uccise ilcoccodrillo sulla spiaggia adriatica e lo portò in questa chiesa e un cac-ciatore liberò la mamma e suo figlio e gli abitanti della zona, imbalsa-mandolo. Negli anni ‘80 del secolo scorso un documento rivela la do-nazione, nel 1594, dell’animale alla chiesa. Questi non fu accoltosubito con devozione e la pelle fu riposta e non mostrata. Con ilrestauro dei tetti della chiesa, all’inizio del 1700, la pelle fu ritrovata el’animale assurse a testimonianza della devozione alla Vergine, legata aprobabili miracoli.Un coccodrillo lungo circa cinque metri pende dal soffitto della

chiesa di Santa Maria della Pace vicino a Verona. Anche qui storia, leg-genda e simbolismo religioso si fondono in un’alchimia che rispondeperfettamente alle esigenze umane e fideistiche. La più antica notizialo vede mettere a repentaglio la vita di uomini e animali sulle rive del-

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l’Adige, presso l’ansa del fiume di San Michele Extra nella zonaveronese. Gli abitanti gli tendono una trappola e lo costringono in unazona paludosa dove muore di fame. Un’altra versione lo vede arrivarein quelle zone risalendo il Nilo, attraverso il mare e poi raggiungereuna delle foci dell’Adige fino al momento in cui una giovane, invocandol’aiuto delle Madonna, gli prepara una trappola di frasche dove l’animalecade e poi viene ucciso. In tutte e due le versioni, il coccodrillo vieneimbalsamato e portato in chiesa. Più probabile risulta invece chel’animale sia stato donato, nello stesso periodo, da una nobildonnadella zona che, caduta ammalata, promise alla Vergine quello che dipiù prezioso aveva nel proprio museo (o Wunderkammer). A guarigioneavvenuta il grande animale, ricevuto a sua volta da un crociato tornatoda terre lontane, fu donato alla Madonna a segnalare la relatività dellagrandezza del dono con quella della grazia ricevuta. Tali notizie sonoconservate nei locali della parrocchia e datate intorno al 1608.La chiesa di Santa Maria del Monte di Varese custodisce una pelle

arrotolata di un coccodrillo che, si dice, sia stato catturato nel 1700 nelCanton Ticino.Un grande rettile, nel fiume Mincio, rappresentò un grave pericolo

ai tempi della famiglia Gonzaga. L’animale, con molta probabilità,faceva parte delle meraviglie esotiche della famiglia ed era alloggiato inun bacino di una delle loro residenze sul fiume. Una tracimazione locondusse nell’alveo del corso d’acqua e si potrà immaginare il terroredella popolazione che viveva di pesca tra i canneti. La cattura, con l’in-vocazione di protezione della Vergine, e la sua uccisione, ne fecero unex voto. Da allora il coccodrillo è sospeso al soffitto della navatacentrale del Santuario delle Grazie di Curtatone, in provincia diMantova. Il Santuario della Madonna di Montallegro, a Rapallo, offre ai

visitatori la vista di un alligatore, anch’esso sospeso al soffitto la cuistoria è descritta da due fratelli che, capitani di veliero, sfuggirono al-l’assalto della bestia tra le anse di un fiume amazzonico, nel 1694.La parte superiore del cranio di un grosso coccodrillo è conservata

nel convento della Trinità alla Selva, in provincia di Grosseto. Laleggenda, si ambienta nel 1400 e ripercorre sentieri simbolici già

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SAGGISTICA

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DEVOTE MOSTRUOSITÀ

percorsi in altre realtà. Nei pressi del convento si trova il FossoSerpentaio che ricorda nel nome la presenza della terribile bestia. Ilpresunto drago che viveva nel territorio era, in verità, un coccodrillofuggito da una peschiera di proprietà di nobili e venne abbattuto dalConte Giudo II di Santa Fiora, il cranio venne poi donato alla chiesa.Orrido serpente, lucertola marina, orrendo drago, tanti i nomi

attribuiti al rettile che infestava presumibilmente le terre e i corsid’acqua italiani. Nel Santuario della Madonna della Quercia nellafrazione omonima, in provincia di Viterbo, non vi è un coccodrillo mauna testimonianza scritta e dipinta di un combattimento occorso tradue fratelli e un drago che aveva azzannato e ucciso il loro padre. Ladescrizione è presente nel Codice della Fondazione Besso, già Librodei Miracoli con acquerelli che rendono viva la scena nella quale ifratelli lo uccidono a colpi di spada. Ci piace suggerirne la dicitura sot-tostante: Vicino a Civitavecchia era un dracone di smisurata grandezza quale

occideva animali huomini, et non si poteva praticare intorno allemarine, né si trovava modo d’ucciderlo non temendo l’archibugiate:dui fratelli carnali Jacopo et Pietro d’Antonio Romagnoli per il dannoche havevano ricevuto del occisione del padre da questo mostro, et dalpremio che si dava a chi l’havesse occiso: confessati et communicati, etcon la devotione della Madonna Santissima della Quercia affrontornoil drago. Jacopo con lo stocco passò nella bocca del drago fino alorecchio: et Pietro con l’accetta tirò alla testa et li tagliorno il capo, né ilveleno del drago, né la puzza né altro apportò loro nocumento: il tuttofu attribuito a miracolo della Madonna della Quercia. Portorno il votoin tauletta che anco si vede l’anno 1521.Storia, fantasia, paura, fede, credenze popolari, culture tradizionali

si mescolano e rendono ancora oggi affascinanti e misteriosi questianimali presenti negli edifici sacri come devote mostruosità. Il devotoo il semplice visitatore potrà mostrare, oggi, perplessità circa la con-servazione di simili tracce nelle chiese. Ma ognuno ha una sua storia,ognuno si lega strettamente alla vita di quella comunità e a tuttol’apparato rituale che ne scaturisce. La presenza iconografica di mostrie draghi nella scultura e nella pittura sacra risulta più facilmente

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SAGGISTICA

accettabile, nel panorama della descrizione di un Giudizio Universaleo di edicole funerarie. Di più forte impatto rimane la percezionemateriale della bestia che incute terrore da viva ma che, morta e postain una chiesa, non può che significare la vittoria del bene sul male de-moniaco.

BIBLIOGRAFIA

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dell’Edizione Barbera 1881).FINAMORE G., Credenze Usi e Costumi Abruzzesi, Adelmo Polla Editore,

Cerchio (AQ) 1988.GASPARRONI A., Il culto di S. Antonio Abate in Abruzzo e il ciclo pittorico

dell’altare nel Convento dei Ss. Sette Frati di Mosciano S. Angelo, in Abruzzo.Itinerari nella memoria, Barbieri Selvaggi Editori, Manduria (TA), 2002.JAMES M.R. L’Album del canonico Alberico, (Canon Alberic’s scrap book),

in National Review, Londra, 1894.La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, (17° edizione) Bologna,

2000.PANSA G., Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, Ubaldo Caroselli

Editore, Sulmona, 1927.ROTELLAD., Piccolo Dizionario di Santa Maria dell’Orto, Aracne Editrice,

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ponte-nossa (sito visitato il 2/02/2017).

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DEVOTE MOSTRUOSITÀ

LUIGI GASPARRONI, nato a Roseto degliAbruzzi nel 1925, è stato primario pedia-tra nell’Ospedale Civile di Teramo. Hapubblicato 7 raccolte di versi. Vincitoredi premi letterari, è socio dell’A.M.S.I.dal 1962. Collabora con “La Serpe” ealtre riviste con saggi e poesie.

Contatti: Via Fonte Baiano, 1164100 Teramo

Cell. [email protected]

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SOCRATE E CRISTO SULLA VIA DI EMMAUSCarmine Paternostro

Socrate e Cristo: filosofia e fede, antinomici o simili ? Domandalegittima per chi, spontaneo, ha seguito i Vangeli e studiato, per volerescolastico, filosofi nuovi ed arcaici. Dire di Socrate è dire “la scuola”:Platone, Aristotele, Critone; di Cristo: apostoli e gente. Ambedue di-scorsivi, educatori, espressivi, saggi, giusti, lineari, logici rivolti allagente. Nessuno dei due scrisse. Lo fecero gli allievi più prossimi e,seppure atemporali, inviarono echi indelebili al mondo tuttora attuali,precisi. I due maestri sembrano evadere dalla disputa tra l’egizio DioToth ed il re Thamus: “la scrittura è deleteria, indebolisce la mente e lamemoria dell’uomo…”. A tal proposito mi vengono in mente lefamose ‘tabelline’, stampate sul retro delle copertine dei quaderni, dicui dovevamo rendere conto all’insegnante e parenti (“le conosci le ta-belline?”). Le chiedevano e noi le declamavamo, canterini, rapidi.Oggi i calcolatori elettronici le hanno annullate, cancellandole dallamemoria. La visione socratica e l’insegnamento, la parabola di Cristosi traducono, invece, in parole perenni, che rimangono impresse,indelebili, nella nostra mente. Nel Nazareno trascendono sempre piùin alto oltre la fine dei tempi.Immagino i due sulle pietrosa via di Emmaus: Cristo avrebbe

ascoltato la ricerca affannosa di Socrate di quella verità che passa per lamorale, il bello, il bene, il giusto, ritengo l’amore, la pace (agapè,aletheia), avrebbe condiviso, confermando ed aggiungendo spiritualitàa quei principi ed un volto al “Daimon sconosciuto” socratico (final-mente!), invocato da Paolo sull’Agorà dell’ostrakon. Socrate avrebbegradito l’attenzione, la musicalità, il peso, la coerenza, la verità delleparole del Cristo ignoto (anche per i compagni in viaggio versoEmmaus) e forse scoperto che era “a sua immagine”. Socrate cercavamaieuticamente la verità, intervistando, interrogando, discorrendo; il

Prose sparse

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Galileo aveva divinità e verità. Era lapidario, preciso, aulico, autorevolenelle risposte. Gli chiesero: ”Sei tu il Messia?”, “Sei tu il Re deiGiudei?”, risposta secca: “Tu l’hai detto”, “Non sono Re di questomondo”. Alle domande ovvie o provocatorie taceva. La sua veritàscavava e rimaneva negli umili, restava incompresa, bestemmia, oltraggioal Dio d’Israele nell’orgoglio, alla superbia vuota, alla sapienza discribi e farisei, alla casta sacerdotale del Tempio, dura, “sepolcri im-biancati”, prigionieri nella caverna platonica, illusi dalla realtà d’ombreindistinte, inanimate, evanescenti e fatue, cavernicoli plumbei, vittimedell’oscurità del globo.Il saggio d’Atene sembra illuminato ai principi del cristianesimo,

qualcuno lo accosta al Battista che prepara la via del Signore. Il sapere,l’avere, il tributo per l’insegnamento non interessano Socrate, il saggiodel “sa di non sapere”, del “conosci te stesso”.Eppure è accusato di corrompere i giovani e di non onorare gli Dei.

Ambedue sono martiri della verità. Socrate rifiuta la difesa di Lisia,rifiuta la fuga dal carcere, ricorda a Critone di sacrificare un gallo adAsclepio/Esculapio, accetta la morte che libera (finalmente) l’animadalla prigione del corpo. Cristo accetta la morte, da Dio, per redimerel’umanità. Celebra amore, perdono, misericordia, carità, povertà,l’uguaglianza di popoli e gente, cancellando la schiavitù. Restituiscedignità e grazia all’uomo. Pensiero rivoluzionario, scomodo. È blasfemo,sacrilego per il potere costituito ed i sommi sacerdoti!Gesù “il figlio del falegname” è soter-salvezza, è kristos-unto, è ke-

rios-maestro, è cittadino del mondo, Signore dell’Universo. L’uomo lotortura ed uccide! Gesù salva con la sofferenza e la morte per risorgeree rendere l’uomo cittadino del cielo. Socrate libera l’anima dallaschiavitù del corpo, Cristo dal peccato, rendendo spirito e corpocittadini dell’eternità. L’uomo ritornerà al colloquio con Dio, comeAdamo nel Paradiso terrestre, scoprirà il volto di Dio, riavrà la sapienzaperduta.Socrate e Kristos-Kerios dissimili, lontani ?Siamo giunti ad Emmaus, il volto di Cristo si illumina, Socrate

sembra che dica: “Resta con me, Signore” ed il Salvatore sussurri:“Oggi sarai con me in Paradiso”, saluta e scompare.

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SOCRATE E CRISTO

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PROSE SPARSE

L’anfiteatro socratico intanto si empie nei secoli. Tutti i discepolicominciano a scrivere. Platone è astuto, loquace, acquisisce i dettamidel grande maestro, li esprime (La Repubblica, Apologia di Socrate,Fedone, Carmide), Aristotele predica scienza fino alle soglie dell’eramoderna, Critone sacrifica un gallo al collega Esculapio. Seguonofilosofi (Kierkegaard, Hegel, Nietzsche), scrittori, apologeti (Giustino,Tertulliano), recentemente il medico scrittore Bandirali e noi studentidi un tempo, molti anestetizzati dalla torpedine socratica, che lega, af-feziona.Abbiamo ascoltato le ultime parole socratiche ai giudici: “Il difficile

non è evitare la morte, ma evitare di fare il male”. E Platone nella suaapologia socratica: ”Il male è più veloce della morte”.Parole sue?

CARMINE PATERNOSTRO, nato nel 1946, socioAMSI dal 2016, specializzato in Gastroenterolo-gia e Odontostomatologia. È autore di cinque vo-lumi sulla Magna Grecia di Sybaris, di libri dipoesia e di un libro recente sul dopoguerra nellazona montana del Pollino.

Contatti: via Nazionale , 61 - 87016 Morano Calabro (CS)telefono: 098 130214 / 349 8631298 / 328 8634574

E-mail: [email protected]

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MARZIO CAVALLARO

POÈME POUR UN MALADE DE CANCER

Par tes yeux perdus dans le dernier espoir,j’ai appris tout ce qu’ils valent les petites choses,dans ce monde souvent injuste.De ton lit fait de souffrancestu m’as enseigné à gérer,avec dignité la douleur physique,et, plus encore, celle-là pénible de l’âme.Par toi, j’ai appréciétout ce qu’elle est la chaleurd’une poignée de mains prolongée:plus qu’un discours et de nombreux mots.Par toi, l’anxiété agréablede l’attente pour la visited’une connaissance.Par toi, le regard à la fenêtre,pour voir éclorer une fleur dans un pot,quand tu sais que ne la reverras plusla prochaine fois.Par toi ,la patience d’écouter,pensant silencieux,et quand c’est le moment de parler,le faire avec sagesse.Cher ami,pourquoi à toi?Il y n’a pas de raison .La foi pour celui-là qui l’a

Gli Spazi della Poesia

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POESIA

dans ce cas réconforte beaucoup,l’imprécation par contreaide les autres.De ceci tu ne parle pas,en silence tu tournes la tête de l’autre côté.Tu vois loin:que l’homme prie,que l’homme blasphèmela malédiction est certain à soi.L’enthousiasme à la vie se perd,peu à peudans l’attente des rapporteet le faible courage seul reste,même si chaque demain c’est un inconnu.Aube et coucher du soleilils jouent cyniquesla vie de n’importe quel jour.Maintenant je comprendsà quel point tu es héros.Il ne m’est pas épuissant te rester près,il ne m’écoeure pas l’odeur qui exhale ton corps,il ne m’effraye pas la pâleur de ton visage,ni le gel qui enlence la pièce;je juste voudrais que l’ange camarade ,qu’il s’est posé dans cet instant entre nous,avant de ton long voyage,il me laissât te dire un dernier mot:“Salut...!”

POESIA PER UN AMMALATO DI CANCRO

Dai tuoi occhi persi nell’ultima speranza,ho capito quanto valgono le piccole cose,

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in questo mondo spesso ingiusto.Dal tuo letto, fatto di sofferenza,mi hai insegnato a gestirecon dignitàil dolore fisico,e, ancor più, quello penoso dell’anima.Da te ho apprezzatociò che è il caloredi una stretta di mano prolungata:è più importante di un discorso e di mille parole.Da te l’ansia piacevoleper l’attesa della visitadi una persona conosciuta.Da te lo sguardo alla finestraper vedere fiorire un fiore in un vaso,quando sai che non lo rivedrai più,la prossima volta.Da te la pazienza di ascoltare,pensando silenzioso,e quando è il momento di parlarefarlo con saggezza.Caro amico,perché a te ?Non c’è una ragione.La fede, per quelli che ce l’hanno,in questo caso,conforta molto,per contro, l’imprecazione,aiuta altri.Di questo non parli ;in silenzio giri la testa dall’altra parte.Tu vedi lontano:che si preghi,che si bestemmi,la maledizione è solo tua.

MARZIO CAVALLARO

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POESIA

L’entusiasmo alla vita si perde,a poco a poco,nell’attesa dei refertie il fragile coraggio rimane soloin un domani ogni volta sconosciuto.Alba e tramontosi giocano cinicila vita di tutti i giorni.Ora comprendo quanto sei eroe Non mi è faticoso restarti vicino,non mi nausea l’odore che emana il tuo corpo,non mi impressiona il pallore del tuo viso,né il gelo che avvolge questa stanza;vorrei solo che l’angelo custodeche si è posto questo istante fra noi,prima del tuo lungo viaggio,mi lasciasse dirti un’ultima parola: “....ciao ! ”

(in memoria di mio padre Bruno, morto il 28/4/1996 di cancro del pan-creas)

MARZIO CAVALLARO, nato nel 1953, socio AMSIdal 2017, fino a poco tempo fa medico con la pas-sione per l’arte, ora artista a tempo pieno. Al suodebutto come artista, nell’anno 1970, viene segna-lato come miglior poeta e pittore della provincia.Vive e lavora a Mantova.

Contatti: via Morandi, 3 - 46047 Sant'Antonio (MN)E-mail: [email protected]

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UNA MADRE GELOSAGiuseppe Ruggeri

Amava la terra, così nera e forte e al tempo stesso friabile, pronta a dissolversi inuna nuvola di polvere. La incontrava ogni giorno, uscendo per strada e respirandoa pieni polmoni l’aria frizzante del mattino, guardava allora verso un puntoindefinito del cielo, ed ecco subito apparire quella nuvola sospesa a mezz’aria.Aveva un colore cangiante, la luce del giorno vi passava attraverso scomponendosinei colori dell’arcobaleno, ma quei granelli di terra che il vento aveva sospinto inalto, verso un punto indefinito del cielo, erano esattamente gli stessi di prima.Prima, era nera e forte e formava uno strato compatto la terra che adesso andavadissolvendosi mentre saliva in alto sempre più, fino a scomparire.È il destino delle cose quello di giacere per lungo tempo in un luogo nascosto

del mondo prima di manifestarsi. Ma in quel loro uscire allo scoperto, quelle cosefiniscono per perdere ogni consistenza e così i loro contorni finiscono persfumare, le linee che le compongono per sbiadire. In un attimo scompaiono, esembra che non siano mai esistite. È il destino delle cose – si ripeteva Mattia,intento a dissodare con le sue mani robuste il terreno dove avrebbe a brevepiantato i semi preziosi dei prodotti della terra nel suo piccolo orto di città, unfazzoletto di verde ricavato nella selva di palazzi che lo attorniavano. Vistodall’alto, quel minuscolo appezzamento si rimpiccioliva sempre più circondatocom’era dalle alte muraglie degli edifici del complesso residenziale dove Mattiaabitava. Ferro, vetro e cemento sorvegliavano a vista l’orticello che tuttavia nonsembrava punto intimorito da quell’assidua vigilanza e, pur nella sua naturaleesiguità, scintillava riflettendo i raggi del sole che, penetrando dalle stretteintercapedini che correvano tra un palazzo e l’altro, lo inondava di luce. Mattiasapeva bene che, respirando a fondo l’ossigeno che proveniva da tutta quella luce,i suoi piccoli semi sarebbero presto diventati teneri virgulti pronti a spiccare il voloverso l’alto. Broccoli dalle larghe foglie, cavolfiori rigogliosi, lattughe cespugliose epomodori vermigli avrebbero ricoperto la superficie dell’orto in men che non sidica, trasformando il minuscolo orto in un giardino multicolore.

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Prose sparse

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PROSE SPARSE

Ma ce n’erano altri, di semi, che Mattia immergeva nelle viscere della terra,semi da cui sarebbero germogliate piante dal comportamento diverso. Quellepiante non amavano forare il guscio della terra per crescere all’aperto, baciatedai raggi del sole. Si spingevano, piuttosto, nel profondo della zolla guadagnandosispazi inesplorati che gonfiavano il terreno di piccole rotondità bozzute.Quando piantava i semi di patate, Mattia lo faceva con un certo rispetto che a

volte sconfinava nella reticenza. Gli sembrava di violentarla, quella terra dentro laquale spingeva i semi dei tuberi che vi sarebbero nati sprofondandovi piuttostoche scrollarsela di dosso per sprigionare fuori in un tripudio di forza e di colori.Si domandava il perché le patate odiassero il cielo, preferendo serpeggiare

attraverso tortuosi cunicoli ipogei, si chiedeva per quale strano motivo isemi che stava per consegnare alla loro madre legittima – la terra –morissero senza dare alla luce i propri figli.E un mattino come gli altri, improvvisamente, scrutando il pulviscolo

di terra che risaliva dal suolo verso il cielo, il suo scomporsi in coloricangianti, il suo dileguarsi nella luce, Mattia intuì che quei semi oscuriavevano ragione. Avevano capito che, sollevandosi da terra, ogni cosa è de-stinata prima o poi a sparire, divorata e inghiottita dal frangente che lacirconda. Se ne va via così, senza che altri possa fare nulla, scivolando sem-plicemente da una dimensione all’altra, divenendo eterea come il cielo delquale ha subito l’incantesimo e che la travolge in un abbraccio mortale.Per proteggersi da quell’abbraccio, le patate preferiscono ramificarsi in

profondità, nel tepore oscuro della zolla che ha dato ristoro ai loro semi e chele fa vivere dove tutti pensano che sia solo morte, abbandono, silenzio.La terra è una madre gelosa – pensò Mattia, soddisfatto.

GIUSEPPE RUGGERI (Messina 1961), iscrittoall’A.M.S.I. dal 2004. È dirigente medico pressol’Azienda sanitaria di Messina. Docente a contrattopresso Università di Messina – Sez. Scienze Forensi.Ha pubblicato tre romanzi e due saggi sulla Sicilia.

Contatti: Via dei Mille, 243 - 98123 Messinacellulare: 3355303647

E-mail: [email protected]

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IL SANTO BORGHESEGiacomo Pisani

Un po’ curvo, il passo rassegnato, l’atteggiamento dimesso l’uomofugge la solitudine. Nel grigiore di tutto solo gli occhi sono intensamentevivi.Nel loro gioco dei bimbi tentano invano di far salire al cielo una

farfalla alla quale hanno mozzate le ali.L’uomo si ferma. Seduto sulla panchina, col palmo delle mani ai

pantaloni lisi sulle ginocchia, nella pena del povero animale rivive lasua pena di sempre.Mille mani, e per tutta la vita, gli hanno mozzate le ali.E torna addietro negli anni.

Giochi perduti all’ora dei VespriFatica e cigolio del vecchio mantice dell’organoLa scala dell’antico monasteroL’odore di fratiI pochi anni di studioI compagni più grandi di luiLa vitaIl bugigattolo del rigattiereL’amore impossibileLa solitudineCosì. Senza ribellione e senza ancora sapere perché.Correre il pendio sotto il sacrato ai rintocchi della campanaCorrere le dita sulla tastiera dell’organoCorrereAntico monastero senza luce né caloreDisgusto dell’odore di frati oltre la porta di clausuraSapere

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Il rispetto degli altriLa vitaScintillio di luciUna cravatta eleganteIl grande amore.

Nell’inconscio il compromesso; nell’inconscio le mille mani cheper tutta la vita gli hanno mozzate le ali; le mille mani che senza sapereha trattenute per aggrapparsiDioAnimaDovereRispettoAmor proprioCarità MadrePadreLoroGli altriIl mattutinoIl requiemIl bene Il maleIl peccatoIl peccatoIl peccatoE avrai tutto dopo!

Per non dover più rinunciare non volle più niente.Mesti pellegrinaggi di porta in porta a consolare gli afflittia dar da bere agli assetatia dar da mangiare agli affamatia vestire gli ignudia far tacere se stesso.

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PROSE SPARSE

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IL SANTO BORGHESE

A un tratto i bimbi se ne vanno; il loro gioco è finito.

La farfalla per non poter volare è morta. Un po’ curvo, il passo ras-segnato, l’atteggiamento dimesso l’uomo si avvia. Nel grigiore di tuttogli occhi sono spenti. Ora sa che anche lui era nato per volare. Poco tempo dopo un officiante col volto rassegnato,rivolgendosi a

gente col volto rassegnato:“Ha chiuso gli occhi…..”Fu quella l’unica ribellione dell’uomo.Gli altri però non lo seppero mai.

GIACOMOPISANI (1926), iscritto all’AMSI dal 2003,Libero docente in Clinica Oropedica dell’Univer-sità di Torino, primario ortopedico emerito del-l’Ospedale di Alba (Cuneo). Pubblicazioni nonmediche: La festa di San Gervasio, Dialoghi in pro-spettiva, Mondo di notte illustrato, Una storia deltutto personale, Personaggi eventi luoghi del pianetapiede, Il cavallo triste.

Contatti: Piazza Vittorio Veneto, 3 – 12051 Alba (Cuneo)[email protected]

Tel. 0173 440810 Cell. 338 4435397

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L’ALZHEIMER SALE IN CARROZZAGino Angelo Torchio

Chi usa il treno per raggiungere tutti i giorni il posto di lavoro sa quantagente transita nella grande Stazione Centrale di Milano alle prime oredel mattino. A vederla dall’alto quella folla assomiglia ad un fiume inpiena che scorre in ogni dove, portandosi dietro valigie di pensieri e diaffanni. In quel via-vai di rumori e di voci nessuno bada ai bisogni altrui,né alle diversità quotidiane che incontra. Per questo, in quella afosamattina di Luglio, nessuno fece caso a quel corpo coperto da un vecchiocappotto invernale che, muto e concentrato nei suoi pensieri, fissava ibinari perdersi lontano nel nulla. La sua era una ricerca che procuravaun silenzioso dolore.Da tempo Giovanni aveva perso la memoria. La sua mente era ormai

diventata una grande distesa di nebbia in cui i pensieri girovagavanoconfusi e sbiaditi. Eppure quel mattino egli sapeva perfettamente che cosadoveva cercare. Ciò succedeva raramente, ma quando accadeva egli provavaun’emozione di vita infinita. Giovanni si lasciò spingere dalla gente fino al-l’enorme bocca di binari e di vagoni. Qui, da ferroviere di lungo servizio,cominciò a cercare il suo treno, comprimendo nello sforzo le mandibole eurtando la gente, come quando arrivava in stazione di corsa. Cercò. Allafine lo trovò. Improvviso. E fu silenzio fra tanto rumore!La sua Titta era ancora lì. La sua ALn688-1556 Fiat, inseparabile

compagna dei suoi ultimi tre anni di servizio, era lì, su quel binariomorto, proprio come l’aveva lasciata l’ultimo giorno. Piena di luce, l’au-tomotrice sembrava aspettarlo, come se da quel binario dimenticato dalmondo intero, non si fosse mai mossa, ma pronta ad intraprendere unnuovo fantastico viaggio, non appena il suo comandante vi fosse salito.Giovanni le si avvicinò con rispetto. Allungò la mano come per acca-

rezzarla, forse per istinto o per amore, ma subito la ritrasse sapendo difare in pubblico una cosa insensata. La osservò a lungo, come si osserva

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L’ALZHEIMER

ammirati una donna affascinante: Titta era bellissima!. Giovanni eravenuto senza ricordare da dove fosse partito, con il solo desiderio di ri-vederla e accarezzarla, ma riscoprendola così bella si sentì tentato di ri-prendere i comandi.Salì. Con circospezione. Si guardò attorno, provando un’emozione

indescrivibile. Raggiunse il posto di guida. Accarezzò il planale. Avvertìun leggero scossone. Capì che Titta, come lui, non era riuscita a resisterealla tentazione e si era messa in moto. Troppo tardi per tornare indietro!Il viaggio ormai era incominciato. La corsa, lontano dalla grande

città, fra gli interminabili campi di girasoli straordinariamente aperti alsole, lo portò lontanissimo dai suoi abituali vaghi pensieri. Tornare aviaggiare dopo tanto tempo fu per entrambi annullare d’incanto iltempo e procedere in un vissuto del tutto virtuale. Titta e Giovannierano tornati ad essere un binomio inseparabile. Come ai vecchi tempi.Nulla di reale esisteva più attorno a loro. Alla fine il treno rallentò la corsa. Dolcemente si fermò nel sole

rovente di mezzogiorno, là dove finivano i binari. Sola, quasi irreale,l’ultima stazione sembrava un limite invalicabile, come i paletti delleproprietà private. La corsa era terminata davvero! Il silenzio era grande, come grandi erano la sorpresa e la delusione di

Giovanni. Alla fine s’arrese e si decise a scendere. Non perché dovessefarlo, ma per rendersi conto dove Titta l’avesse portato. Il treno, ora, eralì: silenzioso e fermo. Dava l’impressione di essere stanco e di goderedella sosta. La stazione sembrava avvolta da una grande pace, rallegratadal frinire delle cicale.Fin dall’arrivo, Giovanni aveva notato il capostazione dritto davanti

all’unica porta d’ingresso della stazione, a braccia conserte, gambe leg-germente divaricate, immobile, quasi fosse piantato sul piccolo marciapiedeantistante il binario unico. La campanella aveva smesso di suonare. Aquella vista, Giovanni avvertì qualcosa di ostile. Una percezione istintivagli suggeriva di non avvicinarlo. Si guardò attorno per vedere se cifossero altre alternative, ma non vedendo anima viva, decise di andargliincontro per sapere dove fosse giunto e quando il treno sarebbe ripartito. Si avvicinò. Via via che la distanza fra i due ferrovieri diminuiva,

cresceva in Giovanni un senso di fastidio. Quell’uomo sembrava impietrito,

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PROSE SPARSE

come se non avesse mai visto arrivare nessuno. Lo raggiunse e chiesenotizie sul luogo. Il capostazione non rispose. Fissò a lungo l’automotrice.Sotto il berretto rosso da ferroviere, Giovanni vide un volto brutto,sfatto, disperato, come può essere profondo e sconvolgente il dolore dichi soffre da chissà quanto tempo. Gli occhi segnati da palpebre rugose ecadenti morivano lontano. La pelle, sciupata e ingiallita, sembrava segnatadal peso del tempo, come le spoglie di un ricordo sbiadito. Non disseparola, come se, parlando, aumentasse il suo dolore.Giovanni riprese coraggio: “A che ora riparte il mio treno?” domandò.Il capostazione continuò a fissare il treno, poi, senza distogliere lo

sguardo, rispose secco: “Quale treno?”. Giovanni sorrise: “Il mio. Non ne vedo altri!”. Continuando a fissare il treno, il capostazione continuò: “Anche lei

non vede niente? O siete tutti ciechi, o non volete vedere! È questo chemi fa arrabbiare!”.”Che cosa dovrei vedere?” domandò turbato Giovanni.A questo punto il capostazione indicò con il dito qualcosa davanti a sé: “Il mio treno! Sono anni che mi fa compagnia in questo posto deserto.

Quella vaporiera è stata per decenni il direttissimo Milano-Torino 685-135. Su quella locomotiva ho viaggiato vent’anni, fino a quando la lineaè stata elettrificata. Eravamo una coppia di massimo rispetto, ma dopol’elettrificazione siamo stati declassati e accantonati sulla Milano-Cremonae poi ancora su linee definite rami secchi e quindi cancellate per sempre.Questa è stata l’ultima postazione di servizio e qui vivo i miei ricordi, di-lettandomi a guidarla di tanto in tanto per brevi tragitti. Lo ammetta:non è una bella vaporiera?”.Sempre più sbalordito, Giovanni confermò: “Sono due bellissimi treni!”.Il capostazione continuò: “È ancora una macchina fantastica, velocissima,

potente, insuperabile. Raggiunge i 120 chilometri orari, 1850 millimetriil diametro delle ruote motrici, tender a carrelli, 220 metri cubi d’acqua,6000 chilogrammi di carbone e 12 atmosfere di pressione di esercizio incaldaia. Vedo che ne è ammirato: ferroviere anche lei?”.A quella domanda così invitante, Giovanni rispose con superba su-

periorità: “Macchinista di vaporiere per decenni, fin quando mi hannodato in gestione Titta.”

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L’ALZHEIMER

“Allora ho una sorpresa per lei. Mi segua.”Detto questo il capostazione prese sottobraccio Giovanni e lo guidò

dietro la stazione, dove poco lontano s’alzavano al cielo platani, tremulie alberi d’alto fusto. Qui si fermò.“Ecco il mio museo! Che ne dice: non è una meraviglia?” e indicando

una ad una le piante, commentò: “Questa è la madre di tutte. Una200.05 delle Ferrovie Nord Milano: anno di costruzione 1880, diametroruote motrici 1446 millimetri, velocità massima 60 chilometri orari. Equesta? Che ne dice di questa? 442.009, rodiggio 0-4, diametro ruote1350 millimetri, velocità massima 50 chilometri orari. Ma il gioiello piùbello lo tengo in disparte: là, dietro tutte: la 640.014, rodiggio 1-3,diametro ruote motrici 1850 millimetri, velocità massima 100 chilometriorari. Belle vero? Mi tengono occupato tutto il giorno. C’è tanto lavoroqui. Perché non si ferma e mi aiuta? Sono sicuro che ne sarebbe felice!”.Giovanni sorrise. Capì d’essere giunto in un posto sbagliato.Tagliò corto: “Mi scusi, quando parte il mio treno?” domandò.Il capostazione sorrise: “Quel treno non parte. Resta qui! Se non ha

ancora capito, mio caro, questa stazione è al chilometro zero. FermataAlzheimer. Fine corsa. La stavo aspettando da tanto tempo. Finalmenteè arrivato!”.

GINO ANGELO TORCHIO, Sposato e padre di trefigli, vive a Chivasso (Torino) dove, unitamentea Rondissone, esercita la professione di Medicodi Famiglia. Dal 1984 è iscritto all’AMSI. Scrivepoesie, racconti e testi teatrali. Ha pubblicatocinque romanzi, una raccolta di poesie e trelibretti di opere teatrali che ha messo in scena in-sieme ad altre sette (non pubblicate). Dal 2015 èTesoriere dell’AMSI.

Contatti: via Brozola, 1 – 10034 Chivasso (To)[email protected]

Cell. 3471940571

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ENRICO AITINI

DESIDERIO

È nella notte,profonda,indecifrabile come sogno dimenticatodi giovinezza oscurata,che ritrovo immagini nostre,le tue, le mie,insieme al tempotrascorso su di noi,sui miei occhiche fredda nebbia rinchiudecome animali in gabbia,sulle rughe del tuo viso,sulla fragilità del tuo corpoche non so far altro che amare,come arena che anela l’onda del marecui teneramente ruba dolci carezzein un’eternitàcontinua, come il desiderio,senza fine,del tuo respiro,delle tue labbra,oltre ogni tempo,oltre la vita…tu sai…

Gli Spazi della Poesia

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SOGNITi guardo,ammirato,correre lungo la linea bianca del campo.Immagino il tuo respirodi bambino,lo sentoe ricordo il mio,quando mezzo secolo fa,correvo e sognavo.Sogni anche tu.Sogni maglie di gloriainfrangibili numeri,il boato degli spalti.E mentre sogni corri, i polmoni colmi di passione.la palla che gioca coi tuoi rapidi gestiLa porta si avvicina,scatti, rapido,superi un ragazzo che,come te,sogna maglie di gloria,infrangibili numeri.Alzi lo sguardo,tutta la forza è nel tiroche vorrebbe il pallonegià in fondo alla rete.Vola il pallone,veloce,un lampo negli occhi del portiere che, timoroso, precorre l’irrompere.Anche lui,come te,

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ENRICO AITINI

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lucenti maglie di gloria sogna.

GIOCHI DI PENSIERO

Giochi di pensiero.Ascolto,la sera, echi degli amici,dopo gli anni,otto, o forse più.Giochi di pensiero:la parete azzurra,la lampada, più bassa,i piedi sopra il tavolo.Addio,primo novecento,compagno dei miei vecchi.Inventi il tuo colore,in fondo ai corridoi di pietra, nell’umidità,dentro la luce, un po’ più gialla, in alto, sul divano, discreto,tra foglie, verdi, di vasi,nella penombra di sussurri, tra polvere al sole.Giochi di pensiero.La casa rossa, in collina,bicchieri oltre i vetri,opachi,dell’antica credenza.Solo giochi di pensiero,acuto finaleche si spegne in alto,lontanocome fosse stato

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POESIA

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solo un flirt.

ESTATE 1945

Notte d’agosto È un ricordo la guerra,la guerra appena trascorsa.Sfuma, lontano,oltre gli oceani,il frastuono di bombe,che nei cieli d’orientecrea laceranti e irrealinuvole di morte.È un ricordo la guerra,lontana quanto il cielo d’oriente.Le stelle, silenti, tornano ad indicare il cammino.Grappoli d’uva,giovani ancora,nascondono il colore profondo del nostro cielo.Le finestre, aperte, regalano luci un tempo oscurate.Nell’silenzio dell’ortolontani lamenti di cicale in amore.Aromi di timo, di menta,di inebriante basilico,profumo di vita.“Tu sei quello che voglio e nessun altro”.La tua risposta ferma,decisa,convinta,cancella timorisospinti dal passare del tempo.Un bicchiere d’amarofiglio di erbe e radici

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ENRICO AITINI

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POESIA

sorridenti a ruscelli di acqueazzurre e verdastre,è compagno di un ultimo sigaro.Sei tu, lo sapevo,Ti amo così.

PENOMBRE

La profondità della nebbia,quasi luce al buio del tramontoconforta i rimpianti del passato.Mi fermo oltre le sbarre di una ferrovia localema il treno non si caricherà dei rimorsi.Andrò oltrefino ad immergermi nell’umidità della vita.

ENRICOAITINI (Mantova, 1950), iscritto all’AMSIdal 1997, specialista in Ematologia e in Oncologia,ospedaliero a tempo pieno presso l’ospedale diMantova, dal 2001 è direttore del dipartimento on-cologico provinciale. Ha scritto due romanzi, dueraccolte di racconti, un testo a commento di letteredi pazienti oncologici (Caro maledetto dottore) eun volume di ricerca storica (Sottotenente Baboni.Fronte russo 1942).

Contatti: via Conciliazione, 59 – 46100 Mantova [email protected]

Cell. 348 5150046

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IL NONNOLaura Gori

Il nonno era morto da pochi giorni. Lo aveva visto nella bara di legnochiaro, imbottita di raso beige. La mamma glielo aveva mostrato. Eramorto, morto. Se avesse preso una martello e glielo avesse tirato intesta non si sarebbe risvegliato. La mamma gli aveva detto che ilnonno era diventato un angelo ed era volato in cielo. Adesso aveva unnuovo angelo custode. D’ora in poi se faceva qualche birbonata, ilnonno gli avrebbe suggerito la strada giusta in un orecchio. Se si fossetrovato in pericolo il nonno sarebbe andato da Gesù bambino e ciavrebbe messo una buona parolina. Il giorno del funerale però dei tatiavevano scavato una buca profonda, profonda e poi ci avevano calatola bara del nonno. Poi avevano preso mattoni e calce e lo avevanochiuso nella tomba. Chiuso, chiuso. E poi con le pale avevano tirato laterra sopra fino a coprire la buca. Da lì il nonno non poteva più uscire. “Mamma ma il nonno vero è sottoterra, quello falso è in cielo?”

aveva detto proprio così alla mamma, al risveglio, la mattina dopo ilfunerale.“No, Riccardo, il corpo di nonno, quello che sempre vedevi è nella

sua nuova casina che è la tomba; l’anima, il nonno vero, è in cielo!“così gli aveva risposto la mamma.“E in cielo il nonno che fa? Vola?”“Sì, vola insieme agli altri angeli. In cielo, nonno non è solo, è in

buona compagnia, ha ritrovato tutti i suoi vecchi amici, la sua mammae il suo papà, la sua sorella, la zia Adele, quella che hai conosciuto dapiccolo anche te, nonno ci sta bene in cielo, non ti devi preoccupareper lui.”“Ma quando ci metterà il corpo di nonno a diventare tutti ossicini?”

continuava a chiedere alla mamma.“Tanto, tanto, tempo.”

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PROSE SPARSE

“Ma dopo li possiamo portare a casa gli ossicini di nonno?”“No, Riccardo, gli ossicini di nonno non si portano a casa, restano

lì nella nuova casina.” “Ma se nonno si portava all’ospedale sarebbe guarito?”“No, Riccardo, nonno era molto vecchio e tanto malato. Ci sono

malattie che si possono curare ed altre di cui non c’è cura. Nessundottore poteva curare il nonno.”“Ma anch’io morirò un giorno?”“Quando sarai vecchio, vecchio, vecchio, con i capelli bianchi,

bianchi, bianchi e la barba lunga, lunga lunga.”“E tu, mamma, sarai già morta quel giorno?”“Sicuramente, ma per il momento non ho alcuna intenzione di

morire. Adesso hai finito con le domande? Possiamo alzarsi dal letto eandare all’asilo? Siamo già in ritardo.”“Ma a me, manca nonno, come si fa mamma? Puoi trovare una so-

luzione?” disse sconsolato alla mamma.“Quando ti manca nonno, pensa alle cose belle che hai fatto con lui,

quando giocavi con la lego con lui, o ti portava al parco giochi, oquando ti raccontava della guerra, quando lui era piccolo, vedrai che tisentirai meglio, poi se gli vuoi mandare un messaggio, una sera diqueste, si lancia una lanterna con legato un biglietto per nonno, voleràdritta, dritta in cielo e nonno lo leggerà.”Riccardo, di tanto in tanto, pensava a tutte le parole che gli aveva

detto la mamma ma non capiva in pieno il loro significato. Poi non glipiaceva l’idea che nonno fosse sotto terra. Non aveva freddo? Nonsarebbe morto di fame e di sete là sotto? Chi gli avrebbe dato damangiare? Riccardo voleva riportarsi il vero nonno a casa, ma nonsapeva come fare. Quei tati, il giorno del funerale, avevano scavatouna buca profonda, profonda, e poi ci avevano messo i mattoni, comeavrebbe fatto lui a sfare tutto quello? Lui aveva solo la pala blu delmare, quella con cui d’estate fa i castelli di sabbia, il martello dovevaprenderlo nella cassetta degli attrezzi di papà in soffitta. Dovevapensare ad un piano. Il suo cervellino doveva riflettere.La chiesa e il cimitero erano vicino alla sua scuola. La strada la co-

nosceva bene perché con papà ci andava tante volte a giocare a pallone

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IL NONNO

sul sagrato della chiesa. Una sera mentre mamma era intenta a cambiaresuo fratellino sul fasciatoio lui sarebbe andato in soffitta ed avrebbepreso qualche attrezzo utile di papà e l’avrebbe nascosto nello zainodella scuola, il mattino seguente mentre sarebbe stato all’asilo, con lascusa di andare in bagno sarebbe uscito in giardino e da qui avrebbepreso la strada per il cimitero ed avrebbe raggiunto il nonno. Qualchegiorno dopo mise in atto il piano. Non avrebbe fatto morire di fame ilnonno. Chiese alle maestre se poteva andare in bagno ed in un atto didistrazione della bidella, uscì nel giardinetto della scuola materna, e daun buco della rete, che aveva notato una settimana prima col suoamico Matteo, si trovò in strada con in spalla il suo zainetto. Raggiunseil cimitero, il cancello di metallo era aperto. La tomba del nonno era infondo vicino al muro di cinta. C’erano ancora i fiori che erano sullabara il giorno del funerale. Tirò fuori dallo zainetto la sua pala blu delmare e il martello che aveva preso nella cassetta degli attrezzi di papà.Si mise a scavare, dove avevano fatto la buca i tati il giorno delfunerale. La terra era ancora morbida, sembrava sabbia bagnata. Certonon era come fare i castelli di sabbia, poi al mare c’era suo papà che loaiutava. C’avrebbe messo tanto, tanto tempo ma ci sarebbe riuscito.Mentre stava scavando si avvicinò un uomo dai capelli bianchi e colviso scavato dalle rughe e nascosto dalla barba, anch’essa bianca.“Ehi, bambino che fai?”“Mio nonno è morto, e dei tati lo hanno seppellito qui, qualche

giorno fa. Voglio farlo uscire, perché voglio che torni a casa con me”gli rispose Riccardo.“Ma tuo nonno non è più li, bambino.”“E tu come lo sai?”“L’ho visto uscire l’altra notte.”“Cosa?”“Si, da quella fessura lì e col dito indicò una fessura all’angolo della

tomba del nonno che fino ad allora non aveva scorto.”“Ma era il mio nonno vero?”“Certo, c’ho fatto pure due chiacchiere, seduti su quel sasso là e poi

ha detto che doveva andare, ci siamo salutati e se n’è andato.”“E ti ha detto dove andava? Tornava da me e da nonna?”

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“Mi ha detto che doveva andare da Gesù bambino, perché dovevafare in modo d’ora in poi, di proteggere il suo nipotino.” “Ma tu chi sei?”“Io sono il custode delle anime di questo cimitero.”“E questo lavoro lo fai da tanto tempo?” “Da moltissimi anni, conosco quasi tutti gli abitanti di questo

cimitero, ho parlato con ognuno di loro. Quando arrivano qui, sonotutti un po’ spaesati, confusi, io ci parlo e gli mostro la strada da pren-dere.”“E il mio nonno ti ha detto altro quando c’hai parlato? Aveva fame,

perché era qualche giorno che non mangiava?”“Tuo nonno è tra le migliori anime che abbia incontrato qui dentro,

era sereno e sapeva già quale strada doveva percorrere. Non gli hodovuto spiegare nulla. Bambino, stai tranquillo, tuo nonno sta bene.Tu piuttosto, non dovresti essere a scuola adesso? Qualcuno in questomomento si preoccuperà per te?”“Ero a scuola ma sono scappato perché volevo liberare il mio

nonno. Ma ora che ho parlato con te, sono felice. Torno a scuola primache la bidella si accorga che non sono più in bagno. Ciao custode delleanime, poi nei prossimi giorni torno con la mia mamma e te la presen-to.”“Ciao bambino, abbi cura di te.” Riccardo aprì il cancello e percorse il viale del cimitero a ritroso, si

sentiva sollevato, chissà se le sue maestre si erano accorte della sua as-senza.In fondo al viale vide due carabinieri con sua madre che appena lo

vide iniziò a corrergli incontro.Sua madre non gli dette neppure il tempo di aprire bocca che già lo

abbracciava forte.“Mamma che ci fai qui con i carabinieri?”“Mi hanno chiamato le maestre che non ti trovavano più a scuola ed

hanno dato subito l’allarme, mi hai fatto morire di paura. Pensavo tifosse successo qualcosa, te l’ho detto che esistono i ladri di bambini,avevo paura che tu avessi incontrato uno di loro.”“No, mamma, ho incontrato il guardiano delle anime e mi ha detto

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PROSE SPARSE

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IL NONNO

che hai ragione tu, non mi hai raccontato una bugia, il nonno vero è incielo. Lui l’ha incontrato l’altra notte. Hanno parlato a lungo con lui.”Riccardo prese per mano la mamma.“Mamma, ora però, si può andare a casa che sono stanco?”

LAURAGORI, nata nel 1973, socia AMSI dal 2012,specializzata in Pediatria, attualmente dirigentemedico presso USL Toscana Nord Ovest. Hapubblicato un libro fotografico dal titolo: Giro-vagando dalle Ande al Chaco, immagini di unviaggio in Bolivia.

Contatti: via Luigi Vecchiacchi 54/a Ponte a Moriano, 55100 LuccaE-mail: [email protected]

Cell.: 340/0667569

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CERVELLO COLLETTIVO E SOCIETÀ LIQUIDAMassimo Scanarini

Viviamo in una società liquida, per dirla con Zygmunt Bauman, dovetutto rimane superficiale, tutto scorre e tutto è precario: viviamonell’era della confusione fra reale e virtuale, nell’era dei social networke del pensiero unico. La consapevolezza della transitorietà degliincontri, della precarietà dei ruoli e della volatilità delle relazionigenera timore e incertezza del futuro. In un mondo liquido o postmo-derno, i luoghi stessi, come le piazze di un tempo, hanno perduto lacapacità di definire l’identità, viene incoraggiato non il legame di ap-partenenza alla terra natia, quanto invece la capacità di “de localizzarsi”per lavoro (identità della non appartenenza). L’esperienza di legameideale è quella di un contatto chiamato “essere connesso”.È abbastanza chiaro che Internet agisca nella direzione di creare

una coscienza planetaria, un vero e proprio “cervello collettivo”, direiquasi un sistema nervoso globale: la globalizzazione del pensiero stadiventando o forse è già diventata una sorta di “neuro potere” impressonei cervelli dei cittadini del mondo. I grandi poteri finanziari, con ipotenti mezzi di comunicazione persuasiva, non producono solomercati ma anche nuovi moduli nervosi, cioè idee che distribuisconoalla massa: ne deriva una omologazione delle scelte e dei comportamentisociali, essendo la norma imperante esclusivamente economica.Le somiglianze strutturali e funzionali tra i cervelli sono nettamente

superiori alle differenze e ci consentono di parlare di “cervellocollettivo”, che, come tale, è alla base della comunicazione tra gliindividui della specie umana. Il cervello collettivo, di natura essenzialmenteculturale, quindi frutto della esperienza e dell’ambiente, viene a so-vrapporsi a quello della specie su base genetica. Lo sviluppo deimoderni canali mediatici che diffondono messaggi uguali a livello pla-netario, tende ad aumentare il cervello collettivo, globalizzando

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Saggistica

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CERVELLO E SOCIETÀ

economia, mercati, strategie politiche, persino gesti e desideri sociali(un esperanto culturale come magistralmente descritto nell’“Imperodei segni” di Roland Barthes,1970). Un antidoto efficace al cervelloglobale è forse rappresentato dalla follia quando diventa rifiuto e fugadall’omologazione del pensiero e dei comportamenti sociali. Non c’èvia più sicura per evadere dal mondo, che l’arte (Goethe 1786) e lafollia dell’artista sfugge l’ordine sociale, la routine del pensiero e delcomportamento. Forse è necessario andare controcorrente, respingerele regole più diffuse di questa società liquida, ricordando sempre cheogni cervello è , in realtà, unico e personale e che, nonostante tutto,esistono nel mondo e anche nel nostro meraviglioso paese, forze intel-lettuali e morali in grado di opporsi a ciò che sta accadendo. Tuttaviaalla cultura vera si sostituisce spesso la cultura dell’indifferenza chepuò diventare omertà e omissione; questo periodo storico è caratterizzatoda anomia, assenza di ideologie, distanza della politica dai cittadini,solo allarme sociale continuo e insicurezza: quindi regressione antro-pologica, abbassamento della soglia dell’illecito e cultura urbana sper-sonalizzante che ci coinvolge tutti. Nella maggior parte dei centriurbani osserviamo un progressivo ritirarsi degli spazi comuni, nonsolo in termini fisici, ma anche relazionali, come le piazze, luoghistorici della comunicazione orizzontale, della partecipazione, luoghidove per consuetudine i giovani incontravano gli adulti e gli anziani,perché esisteva un legame di appartenenza. Oggi le nostre belle piazzesono diventate luoghi di disagio collettivo, di solitudini, di minaccia ecriminalità.Oggi l’uomo senza qualità di Musil è diventato l’uomo senza

certezze, dotato di un Sé discontinuo, multiplo e decentrato, destituitodai suoi vincoli fondanti e dalle sue appartenenze costitutive. Ma èproprio da questo contesto antropologico, individuale e collettivo,che nasce la spinta creativa, il cambiamento, specialmente se impariamoad usare di più il nostro cervello destro (che in questa ormai vecchiaciviltà occidentale è ancora e in gran parte sostituito dal cervello sini-stro).Il cervello destro è più disponibile al nuovo e ragiona fuori dagli

schemi logici della mente sinistra dominante, non è vincolato dalle

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regole e dai regolamenti, è creativo, pronto a provare ciò che nonconosce: per il cervello destro il “caos” è il primo passo del processocreativo, per il cervello destro, troppo poco usato, solo il recuperodella bellezza può salvarci ancora, ”per ricostruire veri e magici giardininelle nostre città e nei nostri cuori” (Conte, 1999). E io scrivo:cominciamo a eliminare dalla mente, dall’informazione, dalla scritturaletteraria e non solo, la società “liquida” per ritornare alla società vera,capace di costruire futuro, conoscenza e progresso.

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SAGGISTICA

MASSIMOSCANARINI (1947), specialista in Neurochi-rurgia, Psichiatria ed Endrocrinologia. Responsabiledella U.O. di Neurochirurgia Endocrina del-l’Azienda Ospedaliera –Università di Padova fino almarzo 2015. Pubblicazioni non mediche: Neuroana-tomia dell’aggressività e criminalità di genere.

Contatti: Via Chopin, 9 – [email protected]

Cell. 338 6097401

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PENSIER AD NADALIosè Peverati

Quant bela zuvantù l’è andà a Cracoviapar incuntràr al Papa, che entusiasum!…Bandier ad tant culor ch’ill svantulavapar salutar Gesù, Lù che l’è nat,propia par nù e pό par nù tut i annsimbolicamentogni Nadal puntuàl al torna a nàsarpurtand ‘n inmensa LUS.La vita l’è al regal trop impurtant:dénas da far, seguéη la So dutrinapreghéη che al mondal sia più bόη e finalment la PASla posa duminar come Regina!

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Gli Spazi della Poesia

Bell’incontro di giovani a Cracoviainsieme al Papa, pieni di entusiasmo! Vessilli a sventolar multi coloricome accoglienza per Gesù ch’è natoproprio per noi e tutti gli annisimbolicamenteogni Natal di nuovo torna a nascereed elargisce immensa LUCE:La vita è il dono più importante;facciamo il bene, seguiam la Sua dottrinapreghiamo che il mondopossa migliorare e domini la Pacecome Regina!

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L’UOMO DI VETROAntonio Bonelli

L’incubo più spaventoso che un uomo possa immaginare è veniresepolto vivo. Ritrovarsi lucido e cosciente rinchiuso in una bara, conla consapevolezza di essere ricoperto da un paio di metri di terriccio.Costretto in un’angusta prigione di mogano che impedisce ogniminimo movimento. Se alzi appena la testa subito urti con la fronte ilcoperchio del tuo sarcofago. Buio e silenzio sono assoluti. Avverti solo il battito del tuo cuore,

sempre più furibondo, sempre più disperato, quasi volesse ribellarsi,fuggire, aprire le ali e librarsi in volo come un uccello, uscire infinefuori dalla gabbia toracica in cui è imprigionato. L’aria si fa sempre più stretta fino a diventare irrespirabile. La con-

sapevolezza della fine imminente, ineluttabile perché nessuno puòascoltare le tue grida d’aiuto, ti assale, ti stringe la gola. L’angoscia tiattanaglia, rende i tuoi pensieri incoerenti fino a farti precipitare in unvortice di pietosa follia. Sai perfettamente che nessuno verrà in tuosoccorso. Fra una decina d’anni o poco più qualcuno aprirà la cassa efinalmente il sole o la pioggia inonderanno di nuovo il tuo corpo. Masarà troppo tardi: gli occhi saranno scomparsi, al loro posto soloorbite vuote, incapaci di cogliere ancora la luce. La pelle ridotta aresidui incartapecoriti non potrà trasmetterti più alcuna sensazione difreddo o di calore.

Questa è la mia situazione, ma senza nemmeno la tiepida consolazionedella certezza di un’agonia di breve durata. Sono un uomo di vetro ecome tale destinato a rimanere per anni, forse decenni in questosepolcro che è il mio corpo. Nessuna possibilità di fuga. Nessunasperanza. La mia mente urla costantemente la propria ribellione contro un

Prose sparse

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destino beffardo. Si scaglia furibonda, gli artigli protesi verso il nulla,ma i responsabili di questo mio essere appaiono incorporei come esilivolute di fumo. Deridono la mia sterile collera, fuggono nelle tenebredileguandosi senza subire alcun danno. Non riesco nemmeno a identi-ficarli, ad attribuire loro un volto, un nome. Dio, che ha inteso punirmiper chissà quale colpa commessa ancor prima della mia nascita? Opiuttosto i miei genitori, colpevoli di avermi trasmesso inconsapevolmentequesti geni impazziti, aberranti? Sono affetto da una patologia molto rara: le mie ossa sono fragili

come vetro. Sono resistenti, ma è sufficiente un piccolo urto perspezzarle. Non esiste terapia: d’altronde le ricerche scientifiche hannoben altre priorità. Il cancro. Le malattie neurologiche degenerative. Infondo, quello della salute è un mercato come tutti gli altri. Vive di in-vestimenti, di utili, di profitti. Che giustificano costose sperimentazionisolo se esiste una richiesta numericamente significativa. Le multinazionalidel farmaco devono rendere conto ai loro investitori, agli azionisti.Non sono certo associazioni filantropiche, che diamine! Perché quindidovrebbero aprire i loro laboratori, impegnare i loro scienziati dainomi altisonanti, avviare studi lunghi e costosissimi solo per riuscire ascoprire una cura che potranno vendere al massimo a qualche decinadi sventurati?

I miei genitori erano consapevoli della mia condizione fin dalla nascita.Il trauma del parto mi aveva causato tre o quattro fratture assolutamenteinesplicabili. Sono stati sufficienti alcuni esami di laboratorio, unabiopsia per confermare la diagnosi. E per emettere una sentenza chemi condannava a vita, senza speranza di grazia o di indulto.Quindi... mi è stato precluso tutto. Dal mio balcone vedevo i miei

coetanei giocare a pallone giù nel cortile, ma non mi era permesso rag-giungerli, unirmi a loro. L’ora di ginnastica mi era vietata: ne eroesonerato. Mentre i miei compagni si cimentavano al quadro svedese osalivano la fune a forza di braccia io rimanevo in aula a ripassare mate-matica. O, più spesso, a riflettere sulla mia diversità.A quel tempo non ne ero ancora cosciente, non me ne facevo una

ragione. Perché queste proibizioni? Il mio corpo infantile era sano, ne

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L’UOMO DI VETRO

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ero certo. In forze. Mi sentivo uguale in tutto e per tutto ai mieicompagni. Ero sicuro di essere perfettamente in grado di affrontarequegli esercizi fisici che interrompevano la monotonia dello studio eche, potevo giurarlo, mi avrebbero giovato. Perché dunque vietarme-li?Ben presto venni isolato. La mia diversità era un deterrente

formidabile. Mi trovai estromesso non solo dall’attività fisica ma anchedalla vita sociale. Per i miei coetanei ero un individuo anormale,differente. Qualcuno di cui diffidare. Non erano in grado di analizzareil perché: le spiegazioni cliniche o scientifiche erano fuori dalla loroportata, ma lo avvertivano chiaramente, e questa sensazione epidermicaera sufficiente per emarginarmi. I bambini, si sa, sanno essere crudeli:amano socializzare, ma solo con i loro simili. Chi, per qualche ragioneappare diverso viene escluso, non gli è concesso aggregarsi al branco. Io ero in questa situazione. Pertanto trascorsi un’infanzia senza

amici.La mia casa era un utero protettivo, ma anche soffocante. I miei

genitori mi colmavano di attenzioni; tentavano di compensare quelche non potevo avere soddisfacendo ogni mio desiderio. La miacameretta era piena di giocattoli costosi. Ad ogni occasione se ne ag-giungevano di nuovi. Bastava chiedere, magari distrattamente, a tavola,e il giorno successivo un nuovo oggetto inutile si materializzava difianco al mio letto.Talvolta, ad esempio in occasione del mio compleanno mia madre

organizzava una festicciola in mio onore. Venivano invitati un paio diragazzi della mia età che non facevano nulla per dissimulare il loro di-sappunto di trovarsi lì. Obbligati dai loro genitori ai quali mia madreaveva telefonato pregandoli di aderire all’invito, facendo sfoggio diquelle arti persuasive che tutte le madri possiedono. I ragazzi vivevanoquell’esperienza come una costrizione, qualcosa di spiacevole che,speravano, sarebbe terminata in fretta. Mi mettevano in mano il lorodono e subito si chiudevano in un mutismo interrotto solo da pochimonosillabi, gli occhi permanentemente tenuti bassi.A un cenno di mia madre ci chiudevamo nella mia camera e io mo-

stravo loro la mia collezione di giocattoli, stupendomi del loro stupore.

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PROSE SPARSE

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Vivevamo in mondi differenti. Quegli oggetti per loro erano desideriirrealizzabili, ambiti, preziosi, solo sognati, e allora li maneggiavanocon cura, timorosi di romperli e di pagarne poi le relative conseguenze.Quei trenini che viaggiavano veloci fra montagne di cartapesta evillaggi in miniatura, quelle auto radiocomandate dai colori accesi: sa-pevano che non li avrebbero mai posseduti, che erano al di fuori delleloro possibilità, e me li invidiavano con tutta l’intensità, il livore di cuisono capaci i ragazzini. Per me invece erano solo una compensazione, una sorta di risarcimento

per tutto ciò che mi era precluso. E io, a mia volta, invidiavo loro: conquale felicità avrei barattato tutti quegli oggetti, venutimi a noia giàimmediatamente dopo esserne entrato in possesso, con un’ora, un’orasoltanto di normalità! Una partita di pallone o un giro in bicicletta.Un’ora sola, non di più. Non era forse uno scambio equo? Ecco: ri-pensandoci adesso, fu allora che realizzai consapevolmente la miadiversità. Fra noi c’era un muro. Appartenevamo a due razze differenti.Io, condannato a vivere in un inutile agio, in un paradiso dorato delquale tuttavia ero l’unico abitante. Essi, per contro possedevano untesoro inestimabile del cui valore, nella loro miopia non si rendevanoconto: avevano la vita! Nulla gli era precluso.Che valore può avere tutta la ricchezza del mondo se non puoi con-

dividerla? Mi immagino nelle vesti dell’ultimo uomo sopravvissuto. Potrei

entrare in qualunque museo e dichiarare, senza tema di smentita chetutti quei capolavori unici ed inestimabili sono miei. Nessuno potrebbeconfutarmi. Ma che me ne farei? Mi renderebbe felice la consapevolezzadel loro possesso? Neppure per un secondo. Dopo un paio d’ore scarse mi ritrovavo di nuovo solo. Quel breve

tempo trascorso in compagnia dei miei coetanei era soltanto un pallidobarlume di felicità, ma mi bastava. Doveva bastarmi: dovevo farnetesoro fino alla prossima remota occasione.

Gli anni trascorsero. Divenni adolescente, quindi uomo fatto. Unuomo a metà. Non ebbi mai una ragazza. Il mio processo di crescita sisvolse sempre fra mille attenzioni, scrupolosamente protetto da qualsiasi

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minimo pericolo. Io avevo finito per accettare quella situazione, me neero rassegnato. Soggiacendo alla legge delle probabilità ero rimasto vittima di due

incidenti domestici. Una volta, ricordo, volli aiutare mio padre intentoad addobbare l’albero di Natale. All’improvviso afferrai una sedia e visalii in piedi per collocare fra i rami una stella lucente di plastica. Ilgrido di allarme di mia madre mi distolse, distrasse la mia attenzione.E allora persi l’equilibrio e caddi al suolo.Un’altra volta mi svegliai nel cuore della notte colto da una necessità

fisiologica impellente. Non accesi la luce per non rischiare di svegliarei miei. D’altronde conoscevo a memoria ogni millimetro della mia pri-gione: sarei stato in grado di aggirarmi in ogni dove nell’oscurità piùassoluta, come un cieco, con la massima precisione.Inciampai in qualcosa. Un giocattolo che non avevo riposto nel

cestone, e caddi rovinosamente in avanti.In quelle due occasioni constatai dolorosamente quanto fosse vul-

nerabile il mio corpo e quanto penoso fosse il processo di guarigionedi quelle ossa fragili che si erano infrante tanto facilmente e che mi co-strinsero a lunghi mesi di immobilità e dipendenza quasi assoluta daimiei genitori.Quelle due esperienze impressero un marchio a fuoco nella mia

mente. Fu lì che capii che avrei dovuto rassegnarmi. Ero un ragazzo divetro; sarei diventato un uomo di vetro.E fu così. Smisi di sognare una vita normale. Seppellii sotto una

tonnellata di considerazioni logiche ogni mio desiderio. Mi allenaiscrupolosamente, meticolosamente. Questo processo di elaborazionemi impegnava costantemente: ogni minuto qualcosa mi riportava aduna realtà che non mi apparteneva. Il rombo di una motocicletta. Lerisa di una ragazza. Le immagini di una corsa podistica trasmesse dallatelevisione...Ecco: la televisione. Riuscii a convincermi che la mia condizione sa-

rebbe stata, ora e sempre, quella di uno spettatore passivo. Un tifososeduto in tribuna intento ad osservare una partita di calcio, ma maichiamato a parteciparvi. Fu lunga, dura, ma alla fine ci riuscii.

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Divenne così automatico che tutte quelle esperienze a me preclusecessarono d’interessarmi. Anzi, ora sortivano l’effetto opposto: mi di-sgustavano.La logica conseguenza fu lo sviluppo di una progressiva misantropia.

Ero diverso dagli altri? Ebbene: ne ero consapevole. E, da diverso, nonprovavo alcun interesse per gli altri bipedi, maschi o femmine chefossero che sciamavano schiamazzando per le strade.

I miei genitori se ne andarono quasi insieme, a pochi mesi di distanzal’uno dall’altra. Fu giusto così: si amavano teneramente; erano indisso-lubili, un’unica entità, e nessuno dei due avrebbe sopportato la perditadell’altro.Mio padre era un avvocato di successo e aveva accumulato un

discreto patrimonio. L’eredità mi liberò per sempre da qualsiasi preoc-cupazione economica.E allora iniziai il mio secondo cambiamento. Non c’era più nessuno

a prendersi cura di me. La governante che veniva ogni mattina asbrigare le incombenze domestiche si occupava solo degli aspettipratici della casa. Io, per lei ero solo un mobile, una suppellettiledotata della singolare capacità di muoversi e parlare.Uscivo sempre più di rado, e solo se era strettamente necessario.

Per strada venivo colto da attacchi di ansia acuta, di agorafobia chequasi mi facevano perdere i sensi. Tutto attorno a me rappresentavauna minaccia. Un’auto in corsa avrebbe potuto sbandare all’improvvisoe travolgermi. Un passante distratto urtarmi e farmi cadere. Un vasodi fiori piombarmi addosso da un cornicione...Finì che rinunciai ad uscire. Volontariamente, mi rinchiusi in questa

prigione di sei vani e consapevolmente ne gettai la chiave dalla fine-stra.Naturalmente, mi organizzai. La casa era sempre pulita ed in ordine:

la domestica se ne occupava meticolosamente. Ordinavo ciò che minecessitava tramite telefono o computer e tutto, dai cibi ai libri agliabiti nuovi mi veniva puntualmente recapitato a domicilio.Come trascorsi le mie giornate? Gli anni, uno ad uno come pagine

bianche distaccatesi da un blocco e subito disperse dal vento? Da spet-

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tatore distratto. Avevo i miei amati libri, la televisione e, al mattino, ilquotidiano fresco di stampa posato sullo zerbino all’ingresso.E le emozioni, mi chiederete? I desideri? Quisquilie! Sono solo

parti della nostra mente. È sufficiente ignorarli e dopo un certo tempo,come uccelli annoiati si leveranno in volo e scompariranno all’orizzonte.Per non infastidirti mai più.

Ho ritrovato questi vecchi appunti dimenticati nel fondo di un cassetto.L’inchiostro sbiadito, la carta ingiallita. Al rileggerli mi si sono inumiditigli occhi. Per la prima volta, dopo troppi decenni ho riassaporato lastrana, dimenticata sensazione di un’emozione. Di un’ondata anomalache stravolge le acque placide di una perenne apatia.Sono vecchio e, credo, prossimo alla fine naturale. Sono seduto qui,

su questa poltrona di pelle consunta dove ho trascorso ogni pomeriggiodegli ultimi quarant’anni. Strani pensieri mi assillano. Mi torna alla mente “Aspettando Godot”, la nota commedia di

Beckett. Beffardo pensiero, nato da chissà quale strana associazione mentale. Mi ci ritrovo, non posso farci nulla. Quella parte mi s’attaglia alla

perfezione.Godot sono io, senza alcun dubbio. Un paradosso vivente. Il prota-

gonista che rimane fuori dalla scena per tutta la durata della rappre-sentazione, che non compare mai. Neppure per un istante. Un fantasmaincorporeo attorno al quale tuttavia ruota tutta la trama dell’opera. Anch’io non ho mai realmente vissuto; sono stato soltanto un

parassita delle vite altrui. Un insignificante voyeur. Cosa lascio dietro di me? Assolutamente nulla. Se analizzo la mia

intera esistenza, ogni attimo, mi accorgo solo ora di averli sprecatitutti. Tutti, senza alcuna eccezione. Sono rimasto alla finestra, al sicuro,dietro le persiane, osservando la vita passare sotto di me. Finché non èfuggita dedicandomi un sorriso di scherno prima di scomparire dietrol’angolo.Mi ripeto che non è stata colpa mia: la mia salute mi ha costretto a

una scelta tanto drastica, tuttavia...Navigare necesse est. Vivere non est necesse. Non è necessario so-

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pravvivere; lo è il vivere, in una libera traduzione. È un motto incisosul faro di Belem, in Portogallo, ad incitazione e monito per i naviganti,e venne ripreso da Gabriele d’Annunzio come incipit di uno dei suoicapolavori.Un ideale romantico, francamente demodé al giorno d’oggi. O no?I dubbi mi assalgono. È stato giusto vivere così? E, soprattutto, che

significato dare a questa mia vita-non-vita?Un pesciolino rosso in una boccia di vetro. Le necessità biologiche

elementari puntualmente esaudite da una mano amica. L’acqua cambiataogni giorno. Il mangime, polvere fine, sparso sulla superficie a intervalliregolari, prestabiliti.E per il resto? Un inutile interminabile girare e girare, schivare le

piantine di plastica incollate sul fondo, e osservare con occhi vacui,forse disinteressati, la realtà circostante, deformata dall’acqua e dallacurvatura della boccia.Al suo interno, nessun pericolo. Una bolla di sicurezza assoluta.

Ma a che prezzo?Mi sento quel pesce. Mi sono costretto a diventarlo. Non c’è alcuna

differenza fra noi due: esso rappresenta l’essere vivente più simile ame, molto più di ognuno dei sette miliardi di persone che popolano ilnostro pianeta.A quale scopo? Non ne trovo nessuno. Credo in Dio, anche se per

la verità non sono un cattolico fervente. Se dovessi giudicare il miooperato con gli occhi del Sommo Giudice, come mi pronuncerei?Quali azioni descriverei per giustificare il mio ingresso nel Mondo deiGiusti? Per quanto mi sforzi non me ne viene in mente nessuna.Se avessi avuto un figlio, o magari più di uno, almeno avrei

contribuito al perpetuarsi della mia specie. In fondo, l’etica della vita,lo scopo ultimo di ogni essere vivente è il rinnovo generazionaleattraverso la riproduzione. La vita non ha altra etica se non la vitastessa: può essere definita un sistema chiuso. Io non ho mai avuto un amore, neppure nell’adolescenza. Non ho

mai baciato una ragazza né provato quelle emozioni indicibili chetanti scrittori hanno tentato di descrivere nei loro libri e che io ho solopotuto immaginare.

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Lascerò qualcosa ai miei posteri? Solo la mia casa e i miei averi aderedi che neppure conosco. Oggetti che finiranno in case estranee,oppure venduti all’asta. Oggetti, sempre e solo oggetti. Cose inanimate cui noi e solo noi at-

tribuiamo un valore, un significato. Comunque, i soli amici, gli unicicompagni di viaggio che io abbia avuto, ma che, pur ridimensionati,pur nell’imminenza di un nuovo destino seguiteranno ad esistere. Asopravvivermi.Le mie giornate sono trascorse una ad una tutte uguali, direi

identiche al secondo. Ho fatto tesoro del mio tempo libero? La rispostaè ancora negativa. Di nuovo mi sono comportato da parassita, davoyeur, leggendo e assimilando ciò che altri avevano prodotto, masenza mai creare qualcosa di mio. Ho letto migliaia di libri; non lascio scritto neppure un rigo.Ho sfogliato migliaia di riviste scientifiche; non lascio neppure una

semplice considerazione elementare.E allora? Questo pesce rosso con il dono dell’autoconsapevolezza,

una volta giunto al termine del proprio cammino (cammino: che buffaparola! In realtà si è trattato soltanto di trasferirsi da una stanzaall’altra: pochi sterili passi), che bilancio può trarre dal proprio vivere?È stato giusto? Sopravviversi, assecondare quel perverso istinto diconservazione rifuggendo ogni rischio solo per giungere, infine, aquesto traguardo? Io incanutito, ingrassato, imbolsito, che dalla miapoltrona irrido il destino illudendomi di averlo beffato semplicementesopravvivendo? O non sarebbe stato meglio lasciarsi andare una volta,una volta sola, tanti anni fa, e bruciare la mia esistenza in pochi istantidi pura emozione, come una falena attratta dalla fiamma?Forse sì. Ma ormai è troppo tardi.

In fondo, c’è un aspetto positivo. La totalità dei miei simili ha terroredella morte. La cessazione della propria esistenza, lo spegnersi dellapropria autocoscienza sono intollerabili, inaccettabili per qualsiasimente. La mia, al contrario ne è indifferente, rassegnata. Addiritturaquasi lieta.Perché vedo in essa il compimento della perfezione. Il mio disegno

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portato, infine, a termine. Il mio corpo sigillato in una cassa di legnodelle mie misure. Chiusa accuratamente con viti e chiodi robusti.Sotto il mio capo un cuscino morbido di raso. Io, in comoda posizionesupina. Per l’eternità.E, infine, tutto il mondo fuori. Quel mondo irto di pericoli tenuti

accuratamente all’esterno dell’uscio di casa ma pur sempre minacciosi,sempre in procinto di trovare una strada o un pertugio. Di irrompere.Bene: quel pericolo non ci sarà più. Tra me e il mondo ci sarà una

barriera insormontabile di legno e terra, con l’ultimo suggello di unarobusta lastra di marmo. Solo allora sarò davvero al sicuro. E le mieossa di vetro infine non correranno più alcun rischio.

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L’UOMO DI VETRO

ANTONIO BONELLI, nato nel 1954, neo iscritto al-l’AMSI. Dal 1982 otorinolaringoiatra presso l'Ospe-dale Maggiore di Crema. Autore di sei romanzi editie di una antologia di racconti di imminente pubbli-cazione. Vincitore di numerosi concorsi letterari na-zionali e internazionali.

Contatti: via Fam. Mirotti, 7 - 26841 Casalpusterlengo (LO)E-mail: [email protected]

Cell.: 347/6549123

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ATTORE O REGISTA: UNA PARTITA A POKERSergio Invernizzi

Primo giorno di scuola dopo le rigeneranti vacanze estive, ultimoanno di liceo classico sulle rive del Lario di manzoniana tradizione.Una classe i cui componenti si sentivano come eletti dopo la scrematuradegli anni precedenti, eclettici con idee chiare, forse un po’ unti dal Si-gnore, ma certamente simpatici anche con senso dell’umorismo. Comed’abitudine al Provveditorato non erano state ancora assegnate lecattedre di insegnamento, pertanto la figura del supplente si materializzòcon un paio di occhiali scuri, aspetto giovanile e sorriso apparentementegioviale. Breve presentazione ed inizio di colloquio di conoscenzacogli studenti sulle esperienze durante il trascorso periodo estivo erelative buone letture.“Lei, L. come ha riempito le sue ore libere?” (Dare del lei era

all’epoca una consuetudine). “Mi sono recato in viaggio tra Umbria e Lazio per visitare il monte

Soratte, a 40 Km. a nord di Roma dove Orazio scrisse un’Ode …”.Il Prof. con sorriso compiaciuto proseguì: “Vides ut alta stet nive

candidum Soracte…, ottima scelta per riflettere sul significato simbolicodell’inverno emblema di tristezza e vecchiaia, in contrapposizione al-l’insegnamento epicureo a non rimandare ad un domani incerto ipiaceri della giovinezza.”L’interpellato successivo, tale G., con certa predisposizione alla ma-

tematica, rivelò di aver seguito le tracce della vita di Fibonacci inAlgeria e poi a Pisa per la consultazione del trattato Liber abbaci. Im-mediatamente il docente completò le informazioni sul più importantematematico del XIII secolo in Occidente, spiegando che la sequenzadi numeri positivi interi da lui trovata era in realtà nell’intento di poterdescrivere la crescita di una popolazione di conigli. “Avrebbe meritatoal giorno d’oggi la medaglia Fields, il più alto riconoscimento ai

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matematici che non abbiano superato i 40 anni. Come forse saprete, ilpremio Nobel non è contemplato per la matematica”.Un misto di stupore e curiosità cominciava ad aleggiare in quell’aula

nei confronti di quel giovane saputo che dispensava con facilità pezzidi pane di conoscenza. Alla successiva richiesta se qualcuno si fosserecato nel mondo anglosassone, prontamente tre amiche, sempreassieme nello studio, al cinema, in vacanza, stessi interessi, gli stessiamori (?), note come le Tre Grazie, e guarda caso gli stessi nomiGrazia, Graziella e … (il terzo sfugge all’Autore), con grande soddi-sfazione dichiararono essere andate a Londra, di avere visitato ilBritish Museum e di essere state colpite dalla sindrome di Stendhal difronte alla stele di Rosetta. E qui appunto si aprirono le cateratteegiziane. Il Prof. proruppe: “Rosetta, città del Basso Egitto alle focidel Nilo, dove venne rinvenuta la famosa pietra in basalto nero daparte di un ufficiale del Genio, tale Bouchard, nella spedizionenapoleonica nel 1799. La stele scolpita in tre lingue, geroglifico,egiziano demotico e greco, fu decifrata alcuni anni dopo dall’archeologoChampollion, sciogliendo il mistero dei geroglifici!”. Agli inevitabilicomplimenti, le Tre Grazie risposero arrossendo con sguardi languidi.Dal fondo dell’aula si percepiva un chiacchiericcio di voci, dapprima

sommesso, poi sempre più intenso, chiaro indizio di stupore per ilmonstrum di erudizione. La domanda che serpeggiava era: “Chi ècostui? Un redattore della Treccani? Un esploratore di incunaboli?Oppure banalmente un provocatore saputello?”. Nel gruppo deidiscenti eravi un tale S. che godeva di una qualche aureola di leader,non certo per particolari risultati scolastici brillanti, ma per una predi-sposizione allo sport, il gusto della battuta ironica e salace e nonultimo una chiara simpatia da parte del genere femminile. Ebbene, inquesto crescendo rossiniano di cipria e belletti culturali (tipico dei fre-quentatori di liceo classico), S. avvertiva che nel suo animo quellaparte di personalità fatta di sfida canzonatoria stava ipertrofizzandosicol trascorrere dei minuti. Un altro interpellato sulle letture che potevano avere lasciato un

segno, rispose con affettazione che aveva gustato Huckleberry Finn,romanzo picaresco umoristico ma anche di critica sociale. Il Prof. ag-

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ATTORE O REGISTA

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giustandosi gli occhiali scuri, con aria compiaciuta: “Ah, Mark Twain,il cui vero nome era S. L. Clemens, era stato pilota in età giovanile suibattelli a vapore sul Mississippi, pseudonimo che mutuò dal grido inslang della marineria fluviale: mark twain! Per segnalare la profonditàdell’acqua, ovvero ‘marca due’ (sottinteso tese) circa 3,7 metri.”Di fronte a questo tripudio multiculturale del tipo “me la canto e

mela suono”, vero centone di canto e controcanto con accompagnamentomelodioso, S. avvertì che quel lato oscuro del suo carattere fatto diazzardo e di spavalderia burlesca a mo’ di sfida, era ormai divenuto in-controllabile, situazione analoga a quella di Roger Rabbit che al suonodi “Ammazza la vecchia…” esplodeva urlando “Col Fliiiit !!!”. Cosìfu, in un gesto involontario di alzata di mano.“Mi dica” con cenno del capo ex cathedra. S. iniziò una breve anamnesi serioso-canzonatoria di giorni riccionesi

trascorsi fra partite di tennis, carte, in particolare bridge, nuotate rin-frescanti, balli notturni ed infine “… Avendo in animo di fare ilregista, ho organizzato con amici locali alcuni spettacolini come uncarro di Tespi! ”. Il silenzio in aula venne d’incanto interrotto da unbrusio accompagnato da sorrisini dei presenti che con ammiccamentidi compiacimento e tocchi di gomito si accingevano nell’attesasperanzosa che la rappresentazione andasse in onda. Ed a tal punto S.calò il carico da undici: “Ho riletto Le allegre comari di Windsor!”. Ilbuon Camilleri nel suo lemma agrigentino l’avrebbe definita una vera“farfanteria”, ovvero una balla colossale. Il volgo allo stesso tempoattonito e curioso si lasciò sfuggire un’esclamazione di stupore,rivolgendo all’unisono lo sguardo verso la cattedra. Il Prof. aggiustògli occhiali scuri che mascheravano gli occhi, ma non le labbra e ilmento, che si atteggiarono in un sorrisetto sarcastico, triste presagio diaccettazione della sfida.“Ah, Shakespeare … lei è un cultore del nativo di Strafford on

Avon, e il suo parere da regista, la commedia rispetta i canoni dell’unitàdi tempo, di luogo e d’azione?”.S. cercò di parare il colpo annaspando sulle reminescenze della

tragedie greche, nel tentativo di aggirare l’argomento e fissando l’in-terlocutore con affermazioni perentorie per celare l’effetto Pinocchio.

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PROSE SPARSE

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Ma Il Prof. oltre che colto doveva essere anche un buon semiologo,esperto di segni linguistici, visivi e gestuali, adesso non sorrideva più,aggrottata la fronte, non tradiva il più lieve cenno di entusiasmo, e convoce metallica proseguì: “Shakespeare non ha mai rispettato i canonidi unità di tempo, luogo ed azione! Salvo in una tragedia….” Silenzio assordante del presunto regista, l’ossimoro permeò l’aula. “La Tempesta“ tuonò colui che adesso aveva assunto l’espressione

del giocatore professionista di poker, puntando al rilancio per scoprirel’eventuale bluff dell’avversario. “E cosa si ricorda della scena all’osteriadella Giarrettiera?”La Giarrettiera… evocò nella fervida mente del giovane S. solo

procaci visioni simil-erotiche, ma proprio nulla di attinente alla tramadella citata commedia. Nel frattempo gli astanti, in particolare delgenere maschile, che non stavano più nella pelle essendosi calati neipanni di incuriositi spettatori in quel match-competizione il cui finaleera ancora da scrivere, tentavano vanamente di suggerire consigli,ahilui, confusi. A questo punto S. intuendo che, in quella partita apoker, le carte vincenti erano nelle mani dell’avversario, cercò con uncolpo di coda, in apparenza magistrale, di agganciarsi al termine diosteria con quello di manzoniana memoria della Luna Piena, inoltrandosinel concetto di luogo di ritrovo e di ristoro del buon Renzo….Insomma arzigogoli e girigogoli.Implacabile il Prof. si era trasfigurato in un Bounty Killer di fronte

alla sua preda, il Killer; grinta dura, tolti gli occhiali un lampo satanicogli lampeggiò nell’occhio destro, ed orribile visu, il sinistro era copertoda una benda nera! Con fare naturale spostò la benda dall’occhiosinistro all’occhio destro da cui fuoriuscì un bagliore metallico, accavallòla gamba sinistra sulla destra e con l’indice sinistro si titillò la naricedestra. Mancava solo il revolver. Implacabile invece il Prof. ritornò nelruolo di pokerista dichiarando All In ed esponendo le sue carte sultavolo. “È pericoloso esporsi in giochi d’azzardo! Nella scena all’osteriadella Giarrettiera l’oste si rivolge al protagonista, il sedicente seduttoreSir Giovanni Falstaff, definendolo Mio Prode Imbroglione, e dirimando Pistol suo servo, aggiunge l’epiteto Gabbamondo Abietto!”.La partita sembrava definitivamente conclusa, ma il vincitore volle

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ATTORE O REGISTA

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fino in fondo far bere il calice amaro al soccombente. “Non credo cheper il futuro la regia si attagli alle sue predisposizioni, forse ritengo chesarebbe più opportuna la scelta di attore... In particolare nel ruolo diSir Giovanni Falstaff!”. Così non fu. S. fece in seguito una scelta diversa di studi e di

professione (l’io narrante lo conosce bene), eppure in quel lontanogiorno d’ottobre avvenne una vera rappresentazione. Teatro nel teatro.Ed ancora adesso il dr. S. rilegge ogni estate, come giusto contrappasso,il testo in lingua originale “The merry wives of Windsor” e ridendo sidomanda “Ma quel giorno sono stato attore o regista?”.

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PROSE SPARSE

SERGIO INVERNIZZI, nato nel 1945, socio AMSIdal 2014. Specializzazione in Urologia e in Me-dicina Legale e delle Assicurazioni, DirigenteMedico presso la divisione di Urologia dell’ospe-dale di Lecco, dal 2004 Libero Professionista. Hapubblicato articoli vari riguardanti il mondodello sport, del bridge e short-stories di variocontenuto come “interviste impossibili”.

Contatti: Via Amendola 12 – 23900 LeccoE-Mail: [email protected]

Tel.: 0341365657 (abitazione) - 0341366713 (studio)Cell.: 3332787107

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PEBBLE BEACHRoberto De Rosa

New York City. 12 maggio 2016.18:30 LST. Upper West Side,Stazione della Subway sulla Settantaduesima.Piattaforma per Downtown, linee 1-2-3

Il ragazzo suonava scalzo. Gli infradito sistemati vicino alla custodiadel violino non scoraggiavano i passanti. La custodia era sempre piena.Per Michael Arthur Blake che aveva fatto della musica la ragione dellasua vita, quella custodia piena restava un mistero. Il ragazzo loinfastidiva. Suonava un violino malandato senza preoccuparsi di cercareun ritmo, una melodia. Quella che Arthur Blake sentiva era solo con-fusione. Se avesse dovuto recensire, avrebbe probabilmente scritto: “Ilmusicista esprime una confusa successione di suoni di differente altezzae durata, completamente disorganizzata, che alla fine non riesce atrovare un senso compiuto…” Di sicuro però quel ragazzo nonmeritava una recensione sull’importante “Classical Music” dove lui disolito si divertiva a confondere le idee su chi aveva grandi attese perqualche musicista emergente. Qualche sera prima l’aveva visto trafficaresulle chiavi della tastiera provando la tensione delle corde, era chiaroche stava accordando, ma non aveva usato un diapason. Arthur Blakenon fu sfiorato neppure per un momento dall’idea che un giovane dicirca quindici anni potesse essere dotato di un orecchio assoluto. Perlui, quel ragazzo era solo uno che suonava, uno tra i tanti che riuscivanoa incantare lo stanco popolo della Subway che, generoso solo come inewyorkers sanno essere, gli perdonava tutto purché riempisse disuoni l’attesa di un treno.Eppure Michael Arthur Blake era perplesso. Sapeva quanto fosse

difficile per un musicista di strada riempire una custodia, trasformare

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Prose sparse

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l’intrattenimento in banconote, anche avendo a che fare con i passantimeglio disposti al mondo. Si ricordava ancora di una chitarrista chesuonava nel sottopassaggio tra Bryant Park e la Quinta Avenue. Sapevasuonare, l’avrebbe descritta come una virtuosa. Una volta si era anchefermato per ascoltarla, quando aveva attaccato la cavatina di Myers, eper un attimo la galleria si era riempita con i fantasmi del “Cacciatore”.Robert De Niro e Christopher Walken erano là tra loro, li poteva im-maginare mentre, disperati, si puntavano una pistola alla testa. Guar-dandosi attorno però, si era accorto che era stato l’unico a vederli.Prima di allontanarsi aveva lasciato cadere la sua banconota solo perrendersi conto che quel dollaro non avrebbe risolto nulla nella vita diquella brava musicista. Essere bravi qualche volta non basta. La custodia di questo ragazzo era sempre piena, invece. Mancavano

due minuti all’arrivo del treno che lo avrebbe portato fino alla stazionedella Houston, da dove, in pochi minuti a piedi avrebbe raggiunto ilsuo loft, in pieno Greenwich Village. Gli investitori della scuola nonavrebbero approvato: non era un quartiere adeguato al prestigio diun’artista che doveva far vivere la musica classica. Lui non se ne preoc-cupava. Era la sua parte più nascosta, più dura, che si acquietava solonegli spazi nudi di un vecchio magazzino trasformato in appartamento.Era l’Arthur Blake da Loft che sotto pseudonimo scriveva sulla rivistaRollingStone, non proprio attenta al mondo della musica classica.Aveva contribuito anche alla pubblicazione della lista dei 100 migliorichitarristi viventi e non si era mai pentito di aver escluso Kurt Cobain,di cui, del resto, aveva ascoltato “Smell Like a Teen Spirit” almeno uncentinaio di volte. Sorrise tra sé. Forse, se non fosse stato, in fondo, un uomo da loft,

non si sarebbe mai accorto di quel ragazzo e non si sarebbe maiinfastidito davanti al mistero di quella custodia sempre piena. Il treno arrivò puntuale uscendo dalla galleria nel solito frastuono.

Folate d’aria calda, suono metallico e ripetuto di ruote sopra i binari,miagolio di freni, stridio di battenti delle carrozze, sbuffi di portepneumatiche che si aprono, scalpiccio frettoloso di passeggeri cheescono avviandosi vero l’uscita. Salì sulla solita carrozza, quella che si

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fermava proprio a metà piattaforma. Il ragazzo stava suonando, com-pletamente concentrato. Ed era ancora lì, abbracciato al suo violinoquando il treno si mise in moto per scomparire poco dopo nellagalleria che portava a downtown. Il giorno dopo lo ritrovò appoggiato allo stesso pilone e si chiese

per quanto tempo ancora sarebbe rimasto sulla Settantaduesima. Aimusicisti di strada non conveniva rimanere nello stesso posto a lungo,avevano bisogno di nuovi passanti da stupire, non potevano aspettarsidi ricevere ogni giorno qualche centesimo dalle stesse persone: perquei passeggeri sarebbe diventato come pagare un secondo bigliettoper la stessa corsa. Lui invece era ancora lì. Giorno dopo giorno, edera rimasto su quella piattaforma per due settimane di fila. Un suonatore inascoltabile con una custodia sempre piena. La vista del ragazzo gli dava sempre meno fastidio, però. Dopo due

settimane riuscì anche a sorridergli. Il ragazzo era troppo concentratoper guardarsi attorno e accorgersi della sua premura. Arthur Blakenon si meravigliò poi molto quando, a poco a poco, quell’insieme dinote e accordi distorti, quell’esplosione di suoni, graffiati, gracchiati esporchi, cominciarono a sembrargli familiari. Si ritrovò a guardare glialtri spettatori, quei passeggeri che per qualche minuto dividevanocon lui l’attesa del treno. Lui, loro, il suonatore. Agli altri quelle sonate non davano fastidio,

si vedeva, si capiva. Anzi, i passanti erano come in sintonia con queglisgraziati movimenti del corpo e delle braccia che chiedevano all’archettoincomprensibili acrobazie. E la custodia piena gli dava ragione.Alla fine della terza settimana, Michael Arthur Blake, in un momento

di pausa, si avvicinò per posare dieci dollari nella custodia. Eranomolto di più di quello che gli altri solitamente mettevano; lo sapeva.Guardò il ragazzo.“Ecco, ” gli disse lasciando cadere la banconota.Il ragazzo si accorse dei dieci dollari. Sollevò la testa e rispose:

“Grazie.”Il musicista capì che il ragazzo non si sarebbe venduto. Non gli

avrebbe dedicato una ballata. Non gli avrebbe regalato falsi sorrisi. Il

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PEBBLE BEACH

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ragazzo gli stava dicendo che rispettava un centesimo allo stesso modoin cui rispettava dieci dollari. Lui valeva quello che gli altri potevanopermettersi.Molto tempo dopo Arthur Blake avrebbe confidato a un famoso

concertista giapponese che fu quel gesto a fargli capire quello che stavasuccedendo. Con quella banconota, forse, era riuscito a entrare nelmondo del ragazzo, accettandolo, e in qualche modo, era diventatouno dei tanti che passavano, senza dover più sopportare il peso diessere il direttore artistico del più importante conservatorio d’America.Qualche volta bisogna saper essere semplici per riuscire a stupirsi.Il giorno dopo Arthur Blake era di nuovo là, come al solito, seduto

alla stessa panchina, ad aspettare il suo treno. Vicino alle scale ilpachistano di turno vendeva giornali, bibite e dolci, dentro il suo ba-racchino di lamiera verde, davanti a lui un musicista scalzo stavasfregando le dita sopra le quattro corde del violino lungo la tastiera,per arrivare al cavigliere e registrarne i perni. “Lo sta accordando, omeglio scordando,” pensò, per niente infastidito. Non capiva ma glipiaceva.Si sentiva strano; non sapeva ancora che qualcosa era cambiato, non

si rendeva conto di essere diverso. I rumori attorno a lui erano glistessi di sempre, ma lui, per la prima volta in tante settimane si trovòad ascoltarli. Cominciò a sentire il rumore del treno in lontananza.Pensò, stranamente, che in fondo, l’arrivo sferragliante del convoglioera qualcosa di festoso; fragoroso ma festoso. Solo allora si accorse cheil ragazzo stava suonando in Re Maggiore per passare subito dopo aun salto di terza che faceva stridere le corde del violino. Al fermarsidel treno il ragazzo sollevò l’archetto. Coprì il soffio delle porte pneu-matiche che si aprivano con tre battute in Sol Maggiore. Poi passò a unfraseggio sordo, una scala di Re Minore, ma suonata al contrario, dueottave più basse, con un suono greve che andava smorzandosi mentrei passeggeri uscivano. E ancora tre o quattro battute in Do Minore allachiusura delle porte. Riuscì a capire veramente, però, solo quando il ragazzo si lanciò in

un vibrato contenuto che andò smorzando con accordi di Re Minore,mentre il treno si allontanava dalla piattaforma, perdendosi nella

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galleria, per smettere di suonare proprio quando il rumore del treno siperse del tutto. A festa finita.In un attimo comprese. Il ragazzo suonava i rumori. Quel bastardo

suonava i rumori della Subway. I piedi nudi sentivano le vibrazionidella piattaforma molto prima del rumore del treno che stava arrivando.Così iniziava con un impercettibile vibrato contenuto e continuo chediventava abbondante ed energico con l’avvicinarsi del treno e cheesplodeva tre ottave sopra in un’armonica straziante, quando si fermava. Le porte si aprivano in tre secondi tra lo sbuffo iniziale del sistema

pneumatico e il rumore metallico dello stop. Fece mente locale. Ci vo-levano proprio tre colpi d’arco per riempire quei tre secondi.Non poteva credere a quello che stava succedendo.Sperò ancora di sbagliarsi e invece di salire in carrozza per la solita

corsa fino al Village, si tirò indietro per aspettare il treno successivo.Sperava di sbagliare, sperava all’esistenza del caso, voleva ancoracredere che quello che sentiva da venti giorni era solo il suonosgangherato di un violinista di strada che campava così, lontano dalladisciplina e dalla ricerca della perfezione che la sua scuola esigeva daallievi destinati a diventare famosi. Il treno successivo arrivò in perfetto orario, quattro minuti dopo.

Era un espresso della linea 2 questa volta, ma le carrozze erano ugualie uguali i tempi di arrivo e partenza in quella stazione. Trattenne ilfiato e contò le battute all’aprirsi delle porte. Tre colpi d’arco. Non si era sbagliato. Avrebbe voluto.Quel giorno il pachistano della baracchetta vicino alle scale si

accorse di un distinto signore che si comportava in modo strano.All’arrivo di ogni treno si alzava come per voler salire e poi rinunciava,tornava a sedersi e riprendeva a battere i piedi come se dovesse dare ilritmo a qualche cosa. Non poteva immaginare che stesse prendendo iltempo dal violinista che aveva di fronte.Continuarono a riempire la custodia. I passanti sentivano anche

senza capire che quel ragazzo non era un estraneo. Suonava quei pochi

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momenti della loro giornata che riusciva a condividere.Si accorse del violino solo alcuni giorni dopo. Non riusciva a

perdonarsi per non essersene accorto prima. Come poteva il ragazzoricavare da un vecchio e malandato violino quei suoni. Come avevapotuto ignorare il timbro di quello strumento. Forse la confusionedella Subway, il frastuono dei treni, il vociare dei passeggeri, l’odoredi bruciato che veniva dai binari lo avevano distratto: nulla facevapensare che il ragazzo stesse suonando un Nicolò Amati della liuteriacremonese del 1669. Eppure il timbro era quello, come non riconoscerloper chi di quel violino aveva decine di registrazioni. Guardò bene lostrumento, non l’aveva mai fatto prima; fino allora si era sempre con-centrato sui suoni. L’attaccatura della parte superiore della cassa diabete rosso era rivestita da una sostanza trasparente che ne aumentavail volume proprio vicino all’inserzione della tastiera. Dei tasselli dilegno verniciati rinforzavano il fondo di acero. Altri tasselli più piccolierano incollati in verticale uno vicino all’altro sulla superficie dellefasce. Sorrise: pesi e contrappesi, colle che restavano elastiche e checambiavano la risonanza dei suoni. E di sicuro dentro la cassa lui avevainventato qualcos’altro. Magari della fibra di vetro a colmare i puntidove gli anni aveva tolto al legno quello che serviva per far correre ilsuono. O qualche muffa che lavorava sul legno modificando l’acusticadella cassa, una volta eliminata. Anche il ponticello era stato spostatoleggermente indietro, verso la cordiera. Il ragazzo aveva trasformatoun malconcio violino in uno strumento che vibrava come se fosse ununico e irripetibile Amati.Il ragazzo aveva un buon orecchio. Si avvicinò alla bancarella e consegnò un dollaro e cinquanta

centesimi per avere una barra di Hershey’s. Aveva bisogno di qualcosadi dolce. Per consolarsi di aver scoperto qualcosa che non avrebbe maipotuto pensare possibile. Senza preoccuparsi di essere visto cominciòa scartare la barra di cioccolato. Non riuscì a tenere le mani pulite.Con la cioccolata sulle punte delle dita finì di scartarla. Forse il ragazzo sarebbe riuscito a suonare anche quel rumore.

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10 giugno 2016. 18:30 LST.Stazione della Settantaduesima.

Era contento. Aveva alle spalle una lunga giornata di prove. Inco-raggiare, correggere, consigliare, motivare, spronare, punire. Di questoavevano bisogno i giovani musicisti che affollavano il conservatorio al60 di Lincoln Center Plaza. Era il suo lavoro e gli riusciva bene.Suonare il pianoforte, la viola e il clarinetto gli permettevano di parlarecon tutti, essere poi un compositore, gli regalava il rispetto di cuiaveva bisogno per entrare nelle vite degli altri sapendo che lo avrebberoascoltato, odiato magari, ma pur sempre ascoltato. Il violinista della Settantaduesima però lo aveva fatto ricredere su

quello che lui sapeva fare. Quel giovane non lo avrebbe ascoltato: quelgiovane si faceva ascoltare. Cominciò a scendere le scale di ferro. Al quinto scalino si accorse

che qualcosa era cambiato. Il giovane era scomparso. La delusionestranamente si accompagnò alla sfida. Sapeva in fondo che sarebbesuccesso. Lo sapeva da almeno due giorni. Stesso registro, stessaritmica, o meglio la stessa assenza di ritmo, le stesse battute, gli stessiaccordi. Il ragazzo non aveva cambiato nemmeno una nota della suasuonata. Era chiaro che aveva trovato la composizione più adatta allavita e al frastuono della stazione sulla Settantaduesima. Non potevafare di più. Avrebbe cercato una nuova sfida. Arthur Blake occupò un posto sulla solita banchina e per qualche

tempo riuscì a cancellare tutto quello che lo circondava e che era statoparte della vita del ragazzo. “Dove può essere andato?” si chiese. Cosa stava cercando, dove

l’avrebbe trovato. Forse sulla Sesta Avenue, subito dopo il Radio CityMusic Hall. Là avrebbe potuto suonate quello che della Subwayrimaneva in superficie: il tremore, il rumore sordo, i vapori di scaricodalle grate di metallo sulla strada, mescolati al profumo di hot dog ecarne stufata dalle bancarelle all’incrocio, proprio sotto quell’interminabilefila di edifici giganteschi che trasformavano l’Avenue in un lungocanyon scavato tra i grattacieli. La Sesta Avenue era uno dei miracoli diNew York. Ne era persuaso, non era convinto invece che lui fosse

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andato proprio là. Le vibrazioni, i rumori sordi, i fumi e il profumo delcibo da strada non gli sarebbero bastati, lo sentiva. Tornò a concentrarsisu New York. “Come cercare la magia nella magia,” pensò. CentralPark forse. La fontana dell’Angelo delle Acque, i Reservoires, la BoatHouse, le mongolfiere. I pattinatori, i ciclisti, i danzatori, i musicisti, ipittori. Appunto, troppo di tutto a Central Park. Sorrise al pensieroche il ragazzo sarebbe anche potuto scendere nel parco ma solo perarrivare allo Strawberry Field per portare il suo omaggio a JohnLennon, a quella stele sempre ricoperta di fiori che ricordava a tutticome la magia della sua musica fosse più forte della sua morte. “Manhattan è un’isola,” si disse a voce alta. Il mare, il golfo, il

porto, due fiumi. Forse era diretto a Manhattan Beach, una piccolastriscia di sabbia tra le rocce; ma in fondo avrebbe potuto essere unaqualunque spiaggia. Forse l’avrebbe trovato a Coney Island tra il maree le giostre imperdibili del parco di divertimenti. Pensò a RockawayPark e alle spiagge sulla riva dell’oceano. Ma avrebbe potuto esserequalunque oceano. Su un pontile del Riverside Park, forse, quello sulmolo 45 che guardava l’Hudson: investito dal rumore del vento, dallosciabordare delle acque tra i suoi piloni, dallo scalpiccio dei sandali sulcemento, dal rumore del traffico sulla vicina West End, proprio davantialle vicine rive del New Jersey. No, non gli sarebbe bastato, la suamusica si sarebbe persa troppo in là, pensò, troppo a ovest, troppolontana dall’isola. Doveva essere un posto dove tutto sarebbe statovicino e unico. Il ragazzo avrebbe cercato un posto dove potersi stordire alla vista

di Manhattan. Sorrise, questo posto esisteva, lo sapeva, lo aveva sempresaputo. Bisognava attraversare l’East River.

12 giugno 2016. 17:30 LST.Quartiere di Dumbo, BrooklynPebble Beach sull’East River

Si sistemò tra due rocce, toccò con le mani la superficie liscia e

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bagnata di quegli enormi ciottoli, si tolse le scarpe, si slacciò la cravatta.Si guardò intorno. Sopra di lui le arcate del Manhattan Bridge, pocolontano a sud il maestoso profilo del ponte di Brooklyn. Si tolse lecalze e affondò i piedi sul bagnasciuga delle fredde acque dell’EastRiver. Sentì il profumo delle alghe, mescolato a quello che arrivavadell’odore del mare. Di fronte a lui, dall’altra parte del fiume, il profilodelle torri della Lower Manhattan, il verde dei giardini lungo laRoosevelt Drive e l’interminabile fila di pontili che si aggrappavanoalle rive. A sud, un fanale verde vicino alle banchine del South StreetSeaport e uno rosso vicino alla riva di Brooklyn, indicavano alle navi ilcanale di uscita verso il golfo. Un gabbiano si posò sulle rocce vicino alui. Un traghetto poco lontano segnalò con due colpi di sirena, chestava per accostare a sinistra di una nave da crociera che risaliva lacorrente. Sentì il rumore del traffico sul ponte, le grida dei gabbiani, ilrumore della risacca sul ciottolato della riva; le sirene dei vaporetti; ilfischiare del vento; il rumore del treno della linea N che lasciava l’isolaper fermarsi alla stazione di Fulton Street; il vociare di una scolarescache giocava sull’erba bagnata del parco proprio dietro di lui; i clickmetallici dell’irrigatore a battente che spruzzava il prato; il rumoredell’acqua che scintillando si posava sull’erba; il suono di una girandolabagnata piantata sul prato; lo sbattere al vento della bandiera al cancellod’ingresso; l’applauso degli invitati al bacio dei neosposi alla fine dellacerimonia celebrata proprio sul ciottolato; il suono della sirena diun’ambulanza che correva sulla vicina Plymouth Street. Era curioso e soddisfatto. Poco lontano da lui un giovane musicista,

che non avrebbe mai avuto tra i suoi allievi e che non avrebbe maivoluto esserlo, si stava mettendo in ginocchio sul bagnasciugaimpugnando un violino malandato che contrappesi, laccature etrattamenti sconosciuti riuscivano a far vibrare in un timbro che soloun Nicolò Amati in mani sapienti poteva regalare a pochi fortunatispettatori. Quel ragazzo stava ascoltando i rumori che lo circondavano. Li

avrebbe trasformati in suoni che avrebbero raccontato della vita diogni giorno, della vita di tutti. Lui era pronto a suonarli in unimprobabile movimento di pochi minuti. Forse non si rendeva conto

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di essere al posto giusto. Gli bastava sapere che valeva la pena diprovarci, non gli interessava sapere che quello era l’unico posto in cui,in un solo colpo d’arco, avrebbe potuto suonare… tutti i suoni delmondo, proprio lì, a Peeble Beach, tra le acque, i venti, i ponti e leenergie che tenevano sempre acceso un posto chiamato New YorkCity.

Michael Arthur Blake, direttore artistico della Juilliard, e critico inincognito di RollingStone, quasi smise di respirare in attesa del primomovimento, in attesa di scoprire, sopra quelle impossibili note, il suo-no… della meraviglia.

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ROBERTO DE ROSA si è laureato in Scienze Politi-che e in seguito, combinando lavoro e studio, si èlaureato in Medicina e specializzato in Ortopedia.Al momento è medico ospedaliero ortopedico. Nel2014 ha collaborato alla stesura del libro Le Avven-ture di Basti della madre Giuseppina De Rosa, postnovantenne. Nel 2016 ha pubblicato il libro DalVecchio Mulino a Ground Zero. Vincitore più voltedei premi letterari “Cesare Pavese” e “Cronin”.

Contatti: via Giovanni XXIII, 9/10 - 31040 Cessalto (TV)E-mail: [email protected]

Cell.: 333 2709464

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LA ROSA NELLA TARDA POESIA LATINATesto e traduzione di Gianfranco Brini

C’è un fiore che ha impregnato ed impregna la nostra cultura: la rosa. È ilfiore dei reperti fossili di oltre quaranta milioni di anni fa. È il fiore chenel terzo millennio avanti Cristo splendeva sui giardini terrazzati diBabilonia. È il fiore delle fiabe. È il fiore che ha ispirato poeti, commossopittori, che ha declinato le note di molti musicisti e cantautori, che hadato splendore ai tappeti di Isfahan e di Kirman. La rosa è il fiore. Anticoe moderno. Entra ed esce dal mito, colora le leggende, si fa storia. Ma nondisdegna la cronaca. È il fiore della pace e della guerra. È il fiore dell’amoree della passione, quando si fa di color porpora. Ma è anche il fiore dell’in-nocenza, quando in corolla semplice mostra il suo candore virginale.Lungo la lunga stagione poetica latina il tema delle rose è presente con

continuità come ricordo e sogno, rimbalza fra mito e simbolo. I compo-nimenti poetici la celebrano nella sua fioritura, nei suoi colori, nella suaorigine, nel suo profumo, nella sua caducità. Siamo nel terzo secolo dopoCristo. Circa 1700 anni fa. Ascoltiamone un frammento. L’autore è ilpoeta latino Floro1.

Sono tornate infine le rose.Talento della dolce primavera.Un giorno mostra i boccioli dei fiori,l’altro in grosso groppo le gonfie cuspidi,il terzo ormai corolle;la quarta luce del giorno,dissipa tutto il suo splendore.Muoiono oggi, se non le cogli stamane.

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Saggistica

1 Venerunt aliquando rosae. Pro veris amoeni / Ingenium! Una dies ostendit spiculaflorum, / Altera pyramidas nodo maiore tumentes, / Tertia iam calathos; totum luxquarta peregit / Floris opus. Pereunt hodie, nisi mane legantur.

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Penso che questo frammento nella sua cristallina modernità avrebbefatto innamorare Salvatore Quasimodo. Come quest’altro di cui non si conosce l’Autore. È del IV secolo d.C.2

Che rose ho visto sbocciare stamani. Nascevano appena e già l’età era diversa.La prima portava grappoli di boccioli ,l’altra alzava vesti di porpora dal concavo ventre,la terza esplodeva il cerchio del suo calice,la quarta nel contempo mostrava nudo il suo germe,e mentre una sollevava il capo,l’altra scioglieva il suo groppo …….Quando ancora il pudore di vergineesalava dal loro manto.Cogli al mattino le rose,non lasciarle appassire.La vergine invecchia presto.

Un altro anonimo poeta3 del IV secolo d.C. ci introduce al mito sul-l’origine delle rose.

O sorrise amore,oppure è l’Aurora,dai capelli di porpora,che l’ha tratta dal pettine.O forse Venere si è impigliata

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SAGGISTICA

2 … quales ego mane rosas procedere vidi! / Nascebantur adhuc neque erat paromnibus aetas. / Prima papillatos ducebat <tecta> corymbos, / Altera puniceos apicesumbone levabat, / Tertia iam totum calathi patefecerat orbem, / Quarta simul nutuitnudato germine floris. / Dum levatuna caput dumque explicat altera nodum, / Acdum virgineus pudor exsinuatur amictu, / Ne pereant, lege mane rosas: <cito> virgosenescit.

3 Aut hoc risit Amor aut hoc de pectine traxit / Purpeureis Aurora comis, autsentibus haesit / Cypris et hic spinis insedit sanguis acutis!

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fra i rovi e lìfra le spine aguzze è sbocciato il suo sangue?

Sul punto torna un altro poeta di origine africana: Draconzio4. È suo,probabilmente giunto a noi in un frammento, un piccolo carme sul-l’origine delle rose.

Ecco: Venere diletta sfugge dalle bramedi Marte. A piedi nudi i prati in fiore pressa.Improvvisa spunta una sacrilega spinafra le molli erbe e incide del piede la pianta.Cola il sangue e la spina si veste di rosso.Confessa la sua colpa, ma con il perdonoaccoglie un dono, la fragranza.Nel giallo dei campi le distese rosseggianodi prugnoli. Tutte. Ma solo la rosa,uguale alle stelle, riscatta le sue spine.A chi giova, Dea di Cipro, che Tu fuggadall’impetuoso Marte, se poi il tuo piedesuda di porpora e sangue?Signora di Citera, con il rossore delle tue goteTu intendi punire i delitti? Copricon un rubino fiammante la bruciante spina?Sì. È giusto che la Dea abbia sofferto. Così è l’essenza divina degli amori.Perché? Le ferite si vendicano con leggiadri doni.

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LA ROSA

4 Icitur alma Venus, dum Martis vitat amores / Et pedibus nudis florea prata premit:/ sacrilega placidas irrepsit spina per herbas / Et tenero plantas vulnere mox lacerat. /Funditur inde cruor, vestitur spina rubore; / Quae scelus admisit, munus odoris habet. /Sanguine cuncta rubent croceos dumeta per agros, / Et sancit vepres astra imitata rosa. /Quid prodest, Cypris, Martem fugisse cruentum, / Cum tibi puniceo sanguine plantamadet? / Sanguinea Cytherea genis, sic crimina punis, / Uracem ut spinam flammeagemma tegat? / Sic decuit doluisse deam, sic numen amorum, / Vindicet ut blandisvulnera muneribis?

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Il più amato dei fiori non poteva che nascere da Venere. Correva la deaa piedi nudi sulla terra a Cipro. Correva tra i rovi. I rovi portanospine. Stille di sangue si insinuano tra il fogliame. Così nasce il fiore.Sul punto un altro poeta sempre del IV secolo, Tiberiano5 ci soccorre:

Poi il bosco profumavaDel fiato delle viole.Immersa fra i fiori della primavera,fra la grazia di queste gemme,regina di tutte le essenzefulgida fra tutte le tinte,lei primeggialei come Venerela rosa.

Venere e la rosa diventano un tutt’uno. L’una ambasciatrice dell’altra.Ma il mito non si ferma e con lui la poesia. Torniamo indietro di unsecolo. Reposiano6 è un poeta del terzo secolo. Con chi potevaintrecciare amore Venere, già sposa del grezzo e deforme Vulcano, senon con il Dio della forza e della guerra? Se non con Marte? Ilpoemetto si intitola “L’incontro fra Venere e Marte”. Sono presenti letre Grazie, dispensatrici di bellezza e gioia, che si rivolgono al poeta,forse timoroso, ma di sicuro maldestro in amore.

Perché fanciullo dalle mosse ritrosenon intrecci i gigli?

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SAGGISTICA

5 Tum nemus flagrabat omne violarum spiritu. / Inter ista dona veris gemmeasquegratias / Omnium regina odorum vel colorum lucifer / Auriflora praeminebat formaDionis, rosa.

6 … Cur, saeve puer, non lilia nectis? / Tu lectum consterne rosis, tu serta parato /Et roseis crinem nodis subnecte decenter. / Haec modo purpureum decerpens polliceflorem / Cum delibato suspiria ducat odore; / At tibi blanda manus <parilem> subpectore condat; / Tu, ne purpureis laedat te spina roseti, / Destricti teneras foliis con-stringe papillas.

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Prepara tu i giaciglicon una coltre di rose.Tu, una ghirlanda hai finito,stringila in un nodo compitosulla chioma fitta di rose.Ora lei spiccata dal suo polliceruba la rosa di porpora,ne sugge il respiro profumato.Poi con la mano tenerala pone sul petto dell’amato.Un’altra rosa, una rosa uguale.E tu, perché la spinadel sanguineo roseto non ti ledaracchiudi con foglie acconcei teneri boccioli.

Quanti versi sono giunti a noi come figli di nessuno. Solo l’amore li hasalvati, con la trascrizione degli studiosi e qualche volta con la tradizioneorale. Come nel caso di un poemetto che ha due versi che si ripetonocome in un ritornello:

Cras amet qui numquam amavitQuiquam amavit, cras amet Domani ami chi non ebbe amore,chiunque ebbe amore, si innamori domani

È la “Veglia di Venere”7

Nuova primavera, primavera intrisa di canti!In primavera è nato il mondo,in primavera si annodano gli amori,

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LA ROSA

7 Pervigilium Veneris: Ver novum, ver iam canorum, vere natus orbis est, / Vereconcordant amores, vere nubunt alites, / Et nemus comam resolvit de maritisimbribus, / Cras amorum copulatrix inter umbras arborum / Inplicat casas virentes

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in primavera vanno a nozze gli uccelli,ed il bosco libera la sua chioma alle feconde piogge.Domani chi seconda gli amoriall’ombra degli alberiintreccia verdeggianti riparicon tralci piegati di mirto.……………………………………….Domani ami, chi non ebbe amore.chiunque ebbe amore, si innamori domani.

La primavera tinge di rosse gemme la stagione.Lei stessa sollecita all’alito del favonio i petalia liberare il loro turgore in amorose corolle.È lei che rilascia con le brezze notturne I freschi cristalli della lucente rugiada.Ecco brillano come lacrime trepide.Il loro peso le rende cadenti.La goccia in minuscola sfera si arresta tremula sull’orlo.La rugiada stessa stillata dalle stellenel sereno silenzio delle notti stamani scioglie i virginei senidalle vesti intrise di umido liquore.

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SAGGISTICA

de flagello myrteo: / …………………………………………………… / Cras amet quinumquam amavit / Quique amavit cras amet / Ipsa gemmis purpurantem pingitannum floridis, / Ipsa surgentes papillas de Flavoni spiritu / Urget in notospenates,ipsa roris lucidi, / Noctis aura quem relinquit, spargit umentis aquas, / En micantlacrimae trementes de caduco pondere: / Gutta praeceps orbe parvo sustinet casussuos / En pudorem florulentae prodiderunt purpureae: / Umor ille, quem serenisastra rorant noctibus, / Mane virgineas papillas solvit umenti peplo, / Ipsa iussit manetuudae virgines nubant rosae: / Facta Cypridis de cruore deque Amoris osculis /Deque gemmis deque flammis deque solis purpuris / Cras ruborem, qui latebat vestetectus ignea, / Unico marita nodo non pudebit solvere. / Cras amet qui numquamamavit / Quique amavit cras amet.

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È lei che in questo primo mattino imponeche le rose, virginee e fresche , vadano sposebagnate dal sangue di Venere, di baci d’Amore,di gemme, di lampi, di purpureo sole.Domani non avrà vergogna di sbocciare,di mostrare sposa, in un unico nodo amoroso,il rossore nascosto sotto fiammeggiante veste.

Domani ami, chi non ebbe amore,chiunque ebbe amore, si innamori domani.

La sequenza degli anonimi del quarto secolo continua. De rosis na-scentibus8 è il nome con cui è giunto a noi questo frammento poetico.La nascita delle rose sembra combinato come un contrasto fra dueamanti intrinsecamente dotato di impatto scenico.

Era primavera ed il nuovo giorno,nel mattino color di croco,alitava con leggere carezzee piccoli morsi di frescura.La brezza frizzante precedeva i destrieri dell’Aurora e stimolavail preludio della calura pomeridiana.Erravo per ordinate aiuole

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LA ROSA

8 Ver erat, e blando mordentia frigora sensu / Spirabat croceomane revecta dies. /Strictior Eoos praecesserat aura iugales, / Estiferum suadens anticipare diem. /Errabam riguis per quadrua conpita in hortis, / Maturo cupiens me vegetare die. /Vidi concretas per gramina flexa pruinas / Pendere aut holerum stare cacuminibus, /Caulibus et patulis teretes concludere guttas / … / Vidi Paestano gaudere rosariacultu. / Exoriente nova roscida Lucifero. / Rara pruinosis canebat gemma frutectis, /Ad primi radios interitura die. / Ambigeres raperetne rosis Aurora ruborem / Andaret, et flores tingueret orta dies. / Ros unus, color unus, et unum mane duorum: /Sideris et floris nam domina una Venus. / Forsan et unus odor: sed celsior ille perauras / Difflatur, spirat proximus iste magis. / Communis Paphiaea dea sideris et deafloris / Praecipit unius muricis esse habitum: / Momentum intererat, quo se nascentia

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nei giardini e per sentieri intricatidesiderosa di ristorarmi nella pienezza del giorno. Ho visto la brinanei suoi cristalli di gelopendere dai fusti erbaceio stare dritta sulle punte della verzura.O gocce tonde di rugiadagiocare sulle larghe foglie delle verze.Ho visto roseti ben curati a Paestum,al nuovo sorgere di Luciferororidi di rugiada. Qua e là,come gemme imbiancavanogli arbusti spinosi, destinate a sciogliersi ai primi raggi del giorno.Eri dubbioso se l’aurorarubasse il rossore alle rose.O se ne facesse dono in magica tinta,un solo umore, un solo colore,uno solo il mattino per tutti e due.Infatti una sola è la padrona:Venere, per l’astro e per il fiore.Forse, forse è unico il profumo,ma troppo alto nel cielosi effonde quello dell’astro,

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SAGGISTICA

florum / Gemina conparibus dividerent spatiis. / Haec viret augusto foliorum tectagalero, / Hanc tenui folio purpura rubra notat, / Haec aperit primi fastigia celsaobelisci, / Mucronem absolvens purpurei capitis. / Vertice conlectos illa exsinuabatamictus, / Iam meditans foliis se numerare suis. / Nec mora: ridentis calathi patefecithonorem, / Prodens inclusi semina densa croci. / Haec, modo quae toto rutilaveratigne comarum, / Pallida canlapsis deseritur foliis. / Mirabar celerem fugitiva aetaterapinam, / Et, dum nascuntur, consenuisse rosas, / Ecce et defluxit rutili coma Punicafloris, / Dum loquor, et tellus tecta rubore micat. / Tot species tantosque ortus

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LA ROSA

spira assai vicina la fragranza del fiore. Venere dea della stella ed insiemeDea anche del fiore,veste di porpora l’astro e la rosa.Era il momento in cui la nascita della rosasi impossessava degli spazi.Questa vira al verdecon un piccolo cespuglio di foglie.Quella la tinge appena di rosso porpora.Questa, aperto appena il culmine,scioglie la rutilante corolla.Quella dissolve i sigilli sul capo,già meditando di contare i petali.Nessun indugio: rende nitidola preziosità del calice ridentee svela i fitti gialli pistilli.Questa, che campeggia in assolutoall’incendio delle chiome e dei petalinuda resta sola e sfiorita.Ero preso dallo sconcerto.Per la rapida rapina del tempo fuggitivo e che,mentre stanno per nasceregià si consumano le rose.

variosque novatus / Una dies aperit, conficit ipsa dies. / Conquerimur, Natura, brevisquod gratia florum: / Ostentata oculis ilico dona rapis. / Quam longa una dies, aetastam longa rosarum, / Qua pubescentes iuncta senecta premit. / Quam modo nascentemrutilus conspexit Eoos, / Hanc rediens sero vespere vidit anum. / Sed bene, quod,paucis licet imperitura diebus, / Succedens aevum prorogat ipse suum. / Conlige,virgo, rosas dum flos novus et nova pubes, / Et memor esto aevum sic properaretuum.

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Ecco, mentre parlo, sfiorisceun’altra chioma del rosso fiore,lo stesso giorno schiude ed uccidetante e diverse fogge tante e diverse fioriture nuove.Ci lamentiamo, o natura,che breve è la grazia dei fiori,i doni appena offerti subito si porta via.Quanto è lungo un giornotanto è lunga la vita delle rose,che, ancora adolescenti,la vecchiaia alla porta incalza.E colui che guarda fiammeggiare l’aurora,la stessa rosa appena dischiusa,la stessa trova al suo ritorno anziana,ormai vecchia nel tardo tramonto.Ma è bene così. Perché? Perché se in pochi giorni la rosa muore,un’altra corolla che si aprene protrae il corso della vita.Cogli le rose, fanciulla,Finchè sono nuove e fresche,e ricorda che così trapassa anche la tua stagione.

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SAGGISTICA

GIANFRANCO BRINI (1937), nell'A.M.S.I. dal 1994.Medico di famiglia per 30 anni e medico legale. Lau-rea in lettere a Bergamo nel 2015. Giornalista. È au-tore di tre romanzi (Premio Cesare Pavese 2013 perSaluti e baci da Santo Domingo) e di tre raccolte diracconti.

Contatti: via Pomarolo, 1 - 23801 Calolziocorte(LC), E-mail: [email protected]

cell. 3395975557

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ANGELO CON LE ALI ROTTECarlo Camerani

Mi hanno raccontato una storia. In un paese dell’Africa Nera, una diquelle repubbliche nate dal disfacimento degli imperi coloniali e da in-numerevoli guerre tribali, c’era una famiglia: un papà, una madreincinta e una bimba di tre anni. Sono scappati nella foresta perché isoldati hanno bruciato la loro casa. Hanno vissuto “alla macchia” mala violenza li perseguitava. I soldati sono tornati, mentre la mamma eraa messa e il papà a casa con la bambina. Il papà “è stato arrestato”. Lamamma, in pericolo di morte per sé e per la creatura che aveva ingrembo, è stata aiutata a fuggire. Partenza su una nave: un mese dimare chiusa in un ripostiglio a pane e sardine. Non sapeva dove lanave la portasse: fuggiva senza sapere dove andava. Ora ha trovato unposto, una casa, un sollievo per i bisogni materiali. E il papà? Nessunanotizia. Probabilmente è stato ucciso. Ma …e quella bimba di treanni? Da questa domanda “sono venute” queste parole: “Dalla foresta sento un pianto. Pianto di bimba. Guerra, odio,

violenza, disperazione totale hanno prodotto questo pianto ormai senzapiù lacrime. Tua madre è fuggita per salvare la vita sua e quella cheporta in grembo. Per lei, nel prossimo futuro stenti e sacrifici percontinuare a vivere e a dare vita. E TU? Angelo sacrificato sull’altaredella cattiveria? Sei ancora viva? O sei già un angelo in cielo? Maperché proprio tu? Una innocente bambina nera di tre anni? Dallaforesta sento un pianto: un lamento senza lacrime. Immagino un visinoscavato dalla fame, un vestitino sbrindellato. Quegli occhi grandi chesolo i bambini possono avere, quegli occhi bianchissimi che solo ibambini neri possono avere. Se sei ancora tra noi, per piacere, cammina!Cammina angioletto dalle ali rotte, non fermarti! Continua, ti prego, acamminare nella vita! Se sei già in cielo…prega per il fratellino/sorellinache sta per nascere e per la tua mamma scappata.

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Prose sparse

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E poi sono venute anche queste altre parole:

Angelo nerocon le ali rottecome una farfallaalla fine della vita.

Piantosenza lacrime.Terrore sterminato.Solitudine sconfinata.

Angelo nerocon le ali rotte dove sei?

Angelo nerocon le ali rotteci sei ancora?

Angelo nerocon le ali rotte,le tue ali forsenon son più rotte.

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PROSE SPARSE

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BUNNA, FARANGI?Michele Di Mauro

Le stelle d’equatore fanno capolino da un po’ nella mia piccola stanzaa Makallè. In un angolo, tra polvere e terra, riposa il mio vecchiocomputer, un ferro vecchio da cui non riesco proprio a separarmi.Tutti mi dicono passa al Mac, vedrai! Beh, certo passare al Mac fa fico,ma io sono uno di quelli che percepisce un’anima anche nelle ferraglie.Lui è stato con me ovunque, in Afganistan, Etiopia, Sudan, Mali, Gha-na… insomma come faccio a separarmi da quel ferro vecchio! Sono in Africa da dieci giorni e ogni notte si ripete la stessa storia,

occhi sbarrati e file interminabili di pecore che mi scorrono davantifinché non le conto più… perché non serve! Chiedo pace a unsonnifero, ma la luna mi scruta troppo da vicino e il silenzio miassorda, in balia come sono delle mie angosce. Guardo il mio computerfare amicizia con un millepiedi o un qualcosa che gli somiglia. E cosìdecido di affacciarmi e sbirciare con gli occhi del mio profilo facebook.Dopo aver atteso i canonici venti minuti che servono al mio macininoper svegliarsi e mettersi a lavoro, tra cigolii di chip e sibili stridenti,apro finalmente la finestra sul mondo di là dal Sahara e mi intrufolonelle vite altrui, di notte, furtivo come un ladro, silenzioso e strisciantecome una serpe. Quattro teatranti postano le loro notti insonni, finitesotto i colpi dell’alba che avanza lungo la linea d’orizzonte, tra mare ecielo, mentre loro cercano la vita a tutti i costi. Sorrido! Di colpo lamia attenzione viene rapita da una richiesta d’amicizia. “Desta Gebre-maryam vuole stringere amicizia con te”. Accetto con la velocità concui un bimbo scarterebbe il suo regalo di Natale. «Bunna, farangi?», mi chiede Desta dalla chat. Quelle parole mi catapultano nel baule dei ricordi. Non sono

pronto e mentre cerco di reagire a quella domanda, il mio computerinizia a lampeggiare sempre più velocemente finché si spegne. Torno

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Prose sparse

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alla luce della notte d’Africa. È scarico. Purtroppo qui l’energia elettricascarseggia di notte e devo aspettare di essere in Ospedale domattina.Rimetto a nanna il vecchio. Esco nel patio illuminato a giorno dallaluna. Desta, quanto tempo!, penso. Bunna, farangi? E perché no? Tanto

non si dorme lo stesso!. Così mi trascino silenzioso in cucina. Preparola mia moka piena di rughe, testimonianze degli innumerevoli viaggi,sempre al mio fianco, come il vecchio che giace scarico di là vicino alsuo amico millepiedi. La fragranza del caffè mi tranquillizza. Homesso più acqua del solito. Lo prenderò in una tazza grande, perchémi faccia compagnia a lungo. So già che percorrerò il viale del tempo aritroso questa notte. I miei occhi si perdono oltre il fumo della mia si-garetta, mentre la moka continua a stridere, ma il mio viaggio è già co-minciato.

È mezzanotte a Fiumicino e l’aereo che sta per portarmi in Etiopia perla prima volta conquista la scia luminosa con estrema lentezza, stancogià prima di decollare. Poi improvvisamente si rianima, inizia a correrecome un forsennato e in meno di mezz’ora sono a diecimila metri daterra, direzione sud del mondo. Atterriamo ad Addis Abeba alle primeluci dell’alba. Tra poco meno di un’ora un piccolo, traballante ATR adelica ci poggerà sull’altopiano del Tigray, quasi 800 km a nord-est. Ciaspettano all’ospedale di Makallè. Ci sono file interminabili di ragazzinicardiopatici ad attenderci. C’è da decidere la loro sorte! Non riesco ascrollarmi di dosso il peso di questa responsabilità. Sento l’angosciastringermi la gola e accendo una sigaretta dopo l’altra finché non vedonemmeno più il fumo.Quando arriviamo a Makallè c’è un tizio, un italiano sulla sessantina

che è venuto a prenderci. Ci porta in città, nella casa, dove faremobase. Le strade della periferia hanno un colore paglierino. Il centrodella città invece è lastricato di piccoli mattoni che ricordano vagamentei sanpietrini romani. La maggior parte delle case è un miscuglio dipietre di diversa natura e forma, accatastate una sull’altra per non piùdi un piano. Una strana sostanza consolida il tutto. Fango e paglia, mispiega il nostro autista. Le case sono tutte squadrate, ma senza un con-

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PROSE SPARSE

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torno regolare. La nostra strada è in ricostruzione e per il momentodomina un terriccio color argilla con grosse pietre a bloccare l’accesso.L’autista ci lascia non molto distanti dal nostro alloggio, ma ci sonoduecento metri di polvere da guadare. Saluti. Strette di mano. Si vasulla strada sterrata con le nostre valigie stracolme di beneficienza.Non percorriamo che pochi metri e siamo letteralmente soggiogati dauna nuvola di sabbia e piedi nudi. Uno sciame di ragazzini ci abbranca,ci accarezza, ci osserva.Continuano a ripetere quella parola dal sapore agrodolce: Farangi,

Farangi.«Significa straniero», mi spiega Carolina, il boss della ONG con

cui sono qui. Ogni volta che la ripetono assume sempre più il caratteredell’illusione, della speranza. La speranza che noi Farangi possiamorisolvere i loro problemi e non sto parlando della fame del terzomondo, parlo di una manciata di caramelle, di qualche pennarello epochi fogli di carta per scrivere. Qualche giochino come quelli cheescono dagli ovetti di cioccolata… parlo di un sorriso, di una carezza!Molti di loro si affannano troppo facilmente. Molti di loro li rivedo inambulatorio il giorno seguente. Altri non so se li rivedrò. Il loro cuoreè affetto da una malattia che da noi oramai ha assunto l’odore naftalinicodel passato. Ma andiamo con ordine. Non mischiamo i fogli dei ricordi. Volevo

un caffè. «Bunna, farangi?», mi chiede una bambina con la voce assottigliata

dalla timidezza. Rido goffamente, con l’espressione idiota di chi non ha capito, ma

non vuole tradirsi. «Il Caffè», mi dice Carolina, in maniera sbrigativa, mentre mi

trascina fuori a forza. La bambina con un balzo da gazzella raggiungele altre donne. Il patio della casa è permeato da un gradevole odored’incenso. In un angolo, accovacciata su uno sgabello basso, c’è unaragazza che avrà poco più che vent’anni. Ha gli occhi color petrolio, icapelli ben pettinati, raccolti all’indietro, intrecciati. Una treccinascende lungo la fronte, in avanti, dividendosi in due ad incorniciareuna croce scura, stampata tra le due sopracciglia. Indossa un vestito

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BUNNA, FARANGI?

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tradizionale bianco, contornato da fasce multicolori. Alimenta unbraciere di carbone, poi lascia cadere qualche altro granulo d’incenso.Intorno alla ragazza c’è un tappeto d’erba fresca, appena tagliata. Quae là piccoli mucchi di fiori bianchi, molto profumati. Da una ciotoladebordano i pop corn. La bambina fa il giro dei farangi. La ragazzadagli occhi petrolio che nel frattempo ha un nome, Desta, mette duemanciate di chicchi bianchi su una scodella concava, bucherellata chepoi fa danzare per qualche minuto sul braciere. Carolina mi accompagnain quel rito, spiegandomi ogni gesto. E così vengo a sapere che quelrituale non è solo il loro benvenuto, ma che accompagna spesso le lorogiornate, sottolineando la sacralità dell’ospite, dell’amico, del paren-te… dell’altro. Quel rito scandisce il tempo in maniera differente dallafrenesia del nostro caffè, preso al bar sulla via del lavoro… o peggioquello senz’anima, all’americana, tracannato per strada in una miscelaintrisa di stress e solitudine. Carolina mi parla dell’incenso di Gondar,mentre l’acqua bolle nella jebena, un’anfora di coccio con un collostretto e lungo come quello delle giraffe. Desta polverizza a colpi dimortaio i chicchi appena tostati. Poi, con un gesto delicato, soffiaverso di noi per lasciarci assaporare gli effluvi del caffè appena tostato.L’aria è un arcobaleno di fragranze che si miscelano nella mente di noifarangi, rendendo piacevole l’attesa e intensificando il desiderio diquel sapore. Una spruzzata di gingibil, zenzero, e il profumo del caffèspeziato m’inebria, catturandomi definitivamente. Desta accompagnaogni gesto con un sorriso che mi contagia e per un po’ le mie paureevaporano oltre la coltre d’incenso.«Fingiàn!», mi dice la bambina, mentre mi consegna una piccola

tazzina dai colori sgargianti. Sorride e scorgo una serie di finestrelletra i denti che mi indicano, come gli anelli di un tronco d’albero, i suoisei, sette anni al massimo. Il gusto del caffè è corposo, intenso, ma mai amaro. Quando tutti

hanno bevuto, la bambina raccoglie le tazze, le sciacqua, mentre Destaaggiunge altra acqua nella jebena e prepara il secondo giro, usando glistessi chicchi e gli stessi sorrisi. Carolina mi spiega sorridendo come la tradizione voglia che se ne

faccia anche un terzo, se gli ospiti lo desiderano. Il primo si chiama

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BUNNA, FARANGI?

Awel, il secondo Kale’i ed il terzo Bereka, che vuol dire benedizione.Il tutto dura un’ora almeno. Mi lascio tentare dalla benedizione. Faccioanche il terzo giro. E così quella notte inizio per la prima a contare lepecore d’Africa! Il giorno seguente in ospedale la situazione è peggiore di quello che

mi aspettavo. Ammassi di gente, soprattutto donne e bambini, in uncorridoio, dinanzi al nostro ambulatorio. L’odore della povertà è acre,ma non mi disturba. Non prendo fiato per ore pur di visitare ilnumero più alto possibile di persone, ma mi sento come Don Chi-sciotte… i miei mulini sono là a terra, con gli occhi stanchi di chi hapercorso chilometri di sabbia e pietre perché io poggiassi il mioorecchio sul torace scavato del figlio. Il monitor dell’ecografia ognivolta mi trafigge l’anima con le sue ingiuste verità, con i suoi verdettispietati: cardiopatia reumatica severa. Mai avrei pensato di vederevalvole cardiache accartocciate come fogli scritti male! E spesso nonhanno nemmeno vent’anni. Molti sono oramai inoperabili. La malattiaa quelle latitudini corre come un treno senza controllo, falciandochiunque incroci sulle sue rotaie. Le medicine non sono sempre dispo-nibili. Alcune costano troppo. Altre non servono a nulla. Andrebberooperati, ma non ci sono attrezzature ed io mi sento inerme come uncavaliere senza la sua spada. E m’incazzo… sì, m’incazzo perchénemmeno la parola “arrabbiare” ha il potere di esprimere la miarabbia, la rabbia di non poter fare di più, la rabbia di essere assolutamenteimpotente, la rabbia di appartenere ai colpevoli di questa stragesilenziosa e spietata come un cobra. Così non troviamo di meglio che dare loro una manciata di caramelle,

qualche giochino e una carezza, che hanno il sapore amaro di unpremio di consolazione… e a breve, purtroppo, non avranno più alcunvalore, quando il bambino morirà, magari mentre scorrazza a piedinudi per l’altopiano, giocando con il nostro giochino. In qualche caso particolare riusciamo a mandarli a carico della

ONG ad operarsi in Sudan da Gino Strada, ma sono ancora troppopochi, dannazione!Poco prima che io sprofondi definitivamente in quel pantano di

rabbia e depressione, ecco spuntare una mano a tirarmi fuori. È Desta.

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PROSE SPARSE

Oggi i suoi occhi sono diversi, non hanno più i riflessi del petrolio, masono scuri come il buio dei fondali. Non sorride come ieri. La seguo,mentre si trascina nella stanza a fianco.«Bunna, farangi?».«Grazie, mi ci vuole proprio un bel caffè».Carolina e gli altri sono già in pausa. A terra, in un angolo, è già

tutto pronto, pop corn, incenso, jebena e fingiàn. Desta mi porge ilcaffè ma la sua mano trema e brucia. Il suo cuore emerge freneticooltre il seno. Non finisco la prima tazzina che Desta è già sdraiata sullettino dell’ambulatorio e il responso ecografico è pesante come unmacigno, sgretolando ogni nostra speranza: endocardite su protesivalvolare aortica. Già, perché Desta è già stata operata per sostituire lavalvola aortica due anni fa. Ora deve essere rioperata e in fretta, manon si può a Makallè. L’unica soluzione è riportarla in Sudan. Macome si può fare? La febbre è molto alta e la ragazza è debilitata. Nonci sono aerei prima di qualche giorno. «L’autobus», suggerisce unadelle ragazze dello staff. «Non è possibile, ci vuole un giorno di viaggio per arrivare ad

Addis e poi l’aereo per Khartoum. Impossibile che ce la faccia!»,mastica Carolina con rabbia. Pesa il silenzio che segue! «Gli occhi!», dico, accarezzando la fronte della ragazza. «Cosa?», risponde Katerina.«Vi è mai capitato di essere in mare e osservarne il fondale dalla su-

perficie? Non c’è nemmeno bisogno di immergere il volto in acqua.Accade spesso quando il mare è calmo e limpido. Il mare diventa unsottile velo blu di là dal quale traspare un mosaico di colori su unosfondo buio. Un andirivieni di guizzi che increspano temporaneamentela bonaccia. Una vita sommersa che ci appassiona e ci cattura. A me ècapitato e quando ho visto gli occhi di questi bambini, di questiragazzi, gli occhi di Desta, mi è tornato in mente questa sensazione…questa immagine. Attraverso quegli occhi si può osservare il buio delleloro pene, ma anche i colori, i guizzi, lo scintillio delle loro speranze,speranze che abbiamo il dovere di continuare ad alimentare… asoddisfare. Quando ho visto i loro occhi ho capito perché ho deciso di

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essere un Farangi. Vado io con Desta. Le daremo qualcosa perstabilizzare la febbre e degli antibiotici e poi mi serve… mi serve…tanto, tanto caffè… anzi bunna, come lo chiamano qui, e accenno unsorriso. Le ragazze corrono a prendermi una fingiàn con del caffè. Ridiamo,

nonostante il dramma… e gustiamo il nostro caffè. È come tirare ilfiato prima di immergersi nell’immensità di quel viaggio disperato. Alle nove del mattino seguente siamo su un autobus giallo canarino

sulla cui fiancava campeggia la scritta Salem. Nonostante le medicine,la situazione di Desta rimane fortemente compromessa. Per fortunal’autobus è vuoto per metà. La allungo sui sedili in fondo e lascio chedorma per soffrire meno quel viaggio lungo dodici ore dall’altopianodel Tigray verso Addis Abeba, il nuovo fiore dell’Etiopia. Il paesaggioresta abbastanza costante. Sembra di vedere uno di quei film delpassato, dove su uno sfondo fatto di poche immagini mandate a loop,l’auto si muove in maniera del tutto innaturale. Bevo caffè per evitareche il sonno mi catturi con la costanza del viaggio. La strada si alternatra polvere e catrame. Attraversiamo diverse città, Alamata, Mersa,Dessie, Debre Birhan e una serie infinita di piccoli villaggi con casemulticolori alternate a capanne di paglie e fango. La febbre sembradare tregua a Desta. Il suo respiro ha smesso di correre ed è fresca. Lecontratture del viso hanno lasciato il posto ad un’espressione disperanza. «Chissà cosa sogna?», mi chiedo. Ma in fondo so bene che a quelle

latitudini, una ragazza con una protesi meccanica sogna sempre quelfiglio che non potrà mai avere. La terapia anticoagulante deturpa i feti,non lascia spazio ai sentimentalismi, ma, almeno non potrà mai oscurarei loro sogni. Mi consolo… forse!Butto giù injera a profusione per bloccare la fame. Desta non se la

sente di mangiare, ma almeno ora ha gli occhi aperti e sibila qualcosadi tanto in tanto. L’aereo per Khartoum parte in perfetto orario e alnostro arrivo in Sudan, sono già tutti preallertati. Voliamo in ospedale.Il rischio di un’embolia cerebrale è elevato e il tempo non è un amicofidato. Accompagno Desta fin dentro la sala operatoria e lei mi stringecon forza la mano. I suoi occhi sono tornati a sgorgare petrolio.

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BUNNA, FARANGI?

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Sorride e poco prima di abbandonarsi all’anestetico ha il tempo di sus-surrarmi «Bunna, farangi?»Sono in sala tutta la notte con i colleghi pur non partecipando atti-

vamente all’intervento. La situazione è complessa. Ogni tanto abbandonoil campo di battaglia e mi concedo una sigaretta per spezzare l’ansia.All’arrivo del primo chiarore, dopo una notte di combattimento,Desta arriva in terapia intensiva, dove resta per diversi giorni, strappandometri preziosi alla morte. Desta vince la sua guerra dopo due settimane e passa in riabilitazione,

dove le nostre giornate scorrono immerse in lunghe chiacchierate.Scopro con stupore che ha una discreta base d’inglese che le permettedi farsi capire. Mi racconta che l’ha imparato dopo il primo interventoproprio grazie alla ONG di Carolina. Non abbiamo la possibilità dimettere su una cerimonia come quella in cui la vidi per la prima volta,ma consumiamo diverse tazze di caffè tra racconti e confidenze. Icolleghi le chiedono di non esagerare, ma io non riesco a resistere aisuoi occhi quando mi chiede «Bunna, farangi?» Glielo porto dinascosto, anche se è quello all’americana, brodaglia! Ad ogni sorsofacciamo un’espressione di disgusto, ci guardiamo e scoppiamo aridere come adolescenti. Ma non riusciamo a smettere!È nata a Wukro, sulla strada per Adigrat e Adua, ai confini con la

Dancalia. «È il posto dove puoi trovare il miele più buono della regione…

forse del mondo», mi dice con una punta di orgoglio. «Bunna dabo naw, il caffè è il nostro pane, perché l’Etiopia è la

patria del bunna, del caffè», mi ribadisce ogni volta. «La stessa parolacaffè deriva da qahweh (kaffa), la regione etiope dove furono scopertele prime piante».

L’alba arriva presto all’Equatore, lavando via quella notte di memorie.Desta! Chissà da dove stava chattando? È sparita poco dopo il suorientro dal Sudan. È andata a stare ad Addis da alcuni parenti o almenoquesta è sempre stata la versione di Carolina. Ma da allora, il caffè diMacallè non ha avuto più lo stesso gusto! Ora basta! È ora di andare. Sono qui da diversi giorni per il set up

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PROSE SPARSE

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finale della sala operatoria. Oggi è il gran giorno. Carolina ha decisoche sarò io a compiere il primo intervento cardiochirurgico ai Makalle.Abbiamo lavorato duro, per mesi e negli ultimi giorni è stato un veroinferno, ma ci siamo. Faccio una doccia per placare la mia agitazione eancora un sorso di caffè ed eccomi, mi ritrovo lavato e bardato in salaoperatoria. La paziente che devo operare ha gli stessi occhi di Desta equesto mi rimette in agitazione. È calato il silenzio delle aspettative insala e nemmeno questo mi aiuta. Avverto un senso di oppressione! Laferrista mi porge il bisturi, ma io tremo come una foglia e non oso mo-strare la mano. Un’infermiera mi si avvicina. Ha il viso coperto dallamascherina. È entrata da poco in sala. Non era tra quelle che ho cono-sciuto prima.«Bunna, farangi?», mi sussurra.Le guardo gli occhi. Sgorgano petrolio. Desta è lì a chiedermi di

essere lo stesso farangi che anni prima le ha salvato la vita.«Ikegnelle!, grazie!», rispondo con un sorriso. Poi alzo la mano con un gesto deciso e afferro il bisturi.«Ore 9.15 Incisione cute…»

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BUNNA, FARANGI?

MICHELE DI MAURO, nato nel 1973, specialistain Cardiologia e Cardiochirurgia. AttualmenteDirigente Medico di Cardiochirurgia presso laASL di Chieti. Autore di diversi racconti, pièceteatrali e di due romanzi con i quali ha vinto ilpremio Cesare Pavese AMSI nel 2014, il premiodella critica al premio Charles Bukowski e fina-lista al premio Giovane Holden.

Contatti: Contrada Villa Andreoli 291/A - 66034 Lanciano (Chieti)E-mail: [email protected]

Cell: 328 6687638

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RIMEMBRANZEPierantonio Mecchia

Quante persone ho conosciuto durante la mia professione di chirurgoospedaliero? Certamente qualche centinaio fra colleghi, infermieri epazienti. Della maggior parte di loro non me ne ricordo i nomi e, spesso,neppure le sembianze. Però alcuni, vuoi per i lati positivi o negativi dellaloro personalità, vuoi per particolari caratteristiche fisiche o per lasimpatia od antipatia che ispiravano, mi vengono alla mente nitide equasi reali. Mi accorgo di non fare alcuna fatica a ricordarle, tanto pro-rompono dai miei ricordi come immagini istantanee. E così rivedo voltied episodi anche lontani nel tempo e non necessariamente in ordine cro-nologico. Fra questi, ricordo in particolare quattro figure di donna:Luisa, Giulia, Giuliana ed una giovane prostituta.

“La Luisa”Luisa era la caposala della divisione di chirurgia dove ho lavorato per

molti anni. Si sapeva che, a tale posto di comando, l’aveva volutafortemente il professor Piccione. Era di statura media, rotondetta, oltrela quarantina. Ma ciò che la elevava al di sopra degli altri e la ponevacome su di un piedistallo particolare erano la capacità straordinaria diarruffianarsi il capo ed il caratteristico olezzo che emanava.Quest’ultimo particolare della sua persona era stata la prima cosa che

avevo notato. Infatti quell’alone bianco-giallastro, che demarcava la suadivisa nell’area delle ascelle, prendeva origine un tipico odore di sudorestantio. E quel puzzo nauseabondo si diffondeva all’intorno e ne prean-nunciava l’arrivo, specie quando gesticolava o allargava le braccia comein un batter d’ali d’uccello.“Quando la Luisa batte le ali ammorba l’aere” mi dicevo, cercando

subito di allontanarmi da quella nube tossica in movimento.L’altra caratteristica, di cui mi ricordo bene e che mi aveva creato non

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Prose sparse

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pochi problemi, era la ruffianeria di cui era capace, talora di tipodelatorio. Infatti, ogni parola detta oppure ogni giudizio espresso da mein sua presenza, specie nei riguardi del primario, in meno di ventiquattroreerano portati a conoscenza del professor Piccione. Diverse volte avevoavuto conferma dei miei sospetti: bastava che dicesi una qualsiasi cosache subito il primario ne era informato. E poi io ne pagavo le conse-guenze.Un giorno, ad esempio, il professore chiese il mio parere su di un

particolare caso clinico. Intuii, da alcune sue affermazioni e sottolineature,che egli conoscesse già molto bene il mio pensiero in materia.«Lo chieda alla sua ruffiana ciò che ho detto stamane al riguardo, se

già non glielo ha riferito. Così non mi dovrò ripetere» fu la mia risposta,fra lo scocciato ed il faceto.E da quel giorno i miei rapporti con la Luisa peggiorarono ulteriormente,

tanto da limitarsi ai soli saluti formali. Da allora divenni cauto e cominciai a guardarmi per bene attorno

prima di esternare i miei pensieri e le mie convinzioni.

“La Giulia”Diverso è il ricordo che ho di Giulia, un’infermiera professionale del

reparto di chirurgia maschile e mia coetanea. L’avevo conosciuta il primogiorno del mio arrivo in chirurgia, dove la Giulia rimase diversi anniprima di divenire caposala del pronto soccorso dello stesso ospedale.Avevo già cambiato ospedale quando seppi che Giulia, dopo varie vi-

cissitudini ed eventi tragici, era scomparsa in seguito a complicanzeinsorte dopo un ictus cerebrale.L’ultima volta che la vidi, Giulia giaceva in un letto della neurologia

quasi immobile, con la parola inceppata e sbiascicata, lo sguardo inebetito.E, come se la avessi di fronte ora, ne rivedo gli occhi umidi di lacrimementre cercava di stringere, con l’unica mano ancora capace di farlo, lamia che le accarezzava il volto divenuto così inespressivo. Ma io voglioricordarla com’era quando lavoravamo assieme in chirurgia: energica e,nello stesso tempo, dolce e sempre disponibile a protrarre l’orario dilavoro, senza guardare l’orologio. In quegli anni non l’avevo mai sentitalamentarsi per il lavoro o per gli orari sballati che le richiedevo. Si era di-

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RIMEMBRANZE

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mostrata sempre pronta ad agire ad ogni mio cenno o richiesta, senzaprotestare mai.«Giulia, aggiorniamo le cartelle… Giulia, rivediamo le terapie…

Giulia, andiamo a vedere quel paziente… Giulia…Giulia… » chiedevo elei «Eccomi, dottore» sempre pronta a dire sì.Con il passare del tempo il nostro rapporto era divenuto quasi di

amicizia, certamente cementato dal rispetto e dalla considerazione reci-proche. Nulla lo aveva scalfito, nemmeno quelle malelingue, “radioospedale sparlo”, sempre pronte ad insinuare una possibile relazionesentimentale fra di noi. Invece, fra di noi vi era soltanto un rapportoprofessionale serio e forte, tanto che Giulia si era sempre rifiutata didarmi del tu, anche fuori dal lavoro.Vorrei poter serbare di lei solo l’immagine dei bei tempi e rivivere

quelle intense giornate di lavoro passate fianco a fianco. Desiderereirivedere quelle sue appassionate difese quando qualcuno mi attaccava oil suo viso raggiante di felicità quando invece ricevevo elogi. Voglioricordarla solo così, non sfinita in quel lettino d’ospedale.«Cara e dolce Giulia, perché te ne sei andata così presto! » mi trovai

a sussurrare mentre lacrime dal sapore di sale mi rigavano il volto. Cercai disperatamente di uscire da quello stato di tristezza che mi

stava avvolgendo e perdendo come in un banco di nebbia.E proprio allora mi venne in soccorso un remoto e buffo episodio.

“La Giuliana”Una mattina stavo rientrando nel reparto di chirurgia dopo la seduta

di sala operatoria. Erano circa le tredici. Aperta la porta a vetri che davanel corridoio, proprio di fronte alla guardiola delle infermiere, vidiGiuliana, una corpulenta generica, che se ne stava mollemente seduta agambe divaricate. La divisa, già al limite della tenuta a causa delle formepronunciate della proprietaria, era risalita abbondantemente fino alasciarle in bella vista, si fa per dire, le grasse cosce. Sembrava, inoltre, diintravedere nel mezzo delle stesse, il nero delle mutande. O per lo menocosì mi parve. Feci finta di nulla e passai oltre. Poco dopo incontraiun’infermiera professionale e le raccontai l’accaduto.«Finga di aver visto lei ciò che le ho riferito. Le dica di assumere una

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PROSE SPARSE

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posizione più consona al luogo. Potrebbe entrare qualche estraneo efare poi commenti poco lusinghieri» le dissi.Più tardi, mentre me ne stavo nella cucinetta di reparto a sorbire una

tazzina di caffè, entrò la professionale che a stento tratteneva le risa.«Sa cosa mi ha risposto la Giuliana quando le ho detto che le si

vedevano le mutande e di colore nero? “Mutande? Quali mutande! Io nonne porto mai, e tanto meno di colore nero. È un colore così volgare!”»Tutti e due scoppiammo in una risata fragorosa, quasi convulsa.

Avevamo scoperto che la Giuliana era allergica all’indumento intimoper eccellenza.E questo episodio ne riporta a galla un altro, accaduto molto tempo

prima nel pronto soccorso del primo ospedale nel quale avevo lavoratoall’inizio della mia carriera ospedaliera.

“La giovane prostituta”Sul tardi di una sera d’inverno, mentre ero di guardia in pronto soccorso,

mi portarono una giovane donna, una prostituta. Ma io non lo sapevo.La giovane, come seppi più tardi, era stata scaraventata da un cliente,

durante un diverbio sul tipo di prestazione, nel fuoco del falò di legna ecopertoni di vecchie auto, che le lucciole della notte erano solite accendereper rendersi visibili e per riscaldarsi durante l’attesa. La donna erapressoché nuda. I pochi indumenti che indossava al momento del fattole erano stati tolti dai soccorritori perché infocati. Giaceva prona ed agambe divaricate su di un lettino della sala visita e si lamentava,smoccolando contro tutti. Mi avvicinai e, tenuto ancora all’oscuro sullaprofessione esercitata dalla signora, cercai di ammansirla.«Stia calma. Adesso le farò fare qualche cosa per lenire il dolore. Mi

lasci vedere bene. Devo valutare l’entità delle ustioni e medicare. Abbiaun po’ di pazienza e mi lasci lavorare tranquillo.»«Le raccomando, dottore, faccia tutto per benino e mi dica se potrò

ritornare normale» mi disse con voce flebile ed indicando senza ombradi dubbio quella cosina fra le cosce che tanto è capace di eccitare imaschi. «Faccia tutto per il meglio, dottore. Per favore, ché io conquella ci lavoro e ci campo. »Solo allora capii, davanti a quella vulva martoriata da flittene frammiste

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RIMEMBRANZE

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a pelo bruciacchiato, la professione della paziente.La giovane rimase ricoverata alcuni giorni e spettò proprio a me, il

più giovane fra i colleghi, provvedere alla medicazione giornaliera. Eraalquanto imbarazzante starsene lì, in mezzo a quelle cosce divaricate, elavorare con pinzette asportando il tessuto mortificato dal fuoco enettare il tutto, cercando di procedere con la massima delicatezza ed ac-curatezza. La facciata di quella strana banca, di cui la proprietaria eratanto fiera, doveva riprendere un aspetto piacente e la piena efficienzaed operabilità. La giovane controllava ogni mia mossa e mi sollecitavaad essere dolce nei movimenti, ad avere una cura particolare della sua in-fermità. E tutto questo avveniva fra un lazzo e l’altro dei colleghi piùanziani, che ogni tanto facevano capolino nella stanza di medicazione.Finalmente venne il giorno della dimissione, la fine di un vero incubo

per me. La paziente percorse il corridoio diretta all’uscita, incedendo agambe larghe e strascicando i piedi. Quando fu giunta vicino al gruppettodei medici, si fermò davanti a me e, ignorati gli altri, mi disse sorridendoin modo un po’ malizioso: «Se dovessi trovarti a passare dove di solitolavoro, cercami, dottorino. Quando sarà guarita, la mia passerina saràtutta gratis per te» e, senza attendere risposta, se ne andò.Mi sentii avvampare ed il mio volto divenne di un bel colore peperone

acceso. Mi riuscì solo di balbettare un «Cosa? » mentre i colleghiintonarono un canzonatorio e gogliardico coretto, cadenzando il ritmocon il battere delle mani: «Per lei, dottorino, sarà gratis. Ah! Ah! Ah! »

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PROSE SPARSE

PIERANTONIO MECCHIA, nato nel 1949, socioAMSI dal 2016. Ha esercitato la professione di Chi-rurgo Generale fino al 2007. Ha pubblicato: il ro-manzo Bilancio finale; i thriller Habeas corpus,Nella tana del fennec, La Fondazione; la raccolta dipoesie Rami secchi.

Contatti: via F. Baracca, 2- San Vito al Tagliamento (PN)E-mail: [email protected]

www.facebook.com/pierantonio.mecchia

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Il senso della vita. Antologia dipoesie dialettalia cura di PATRIZIA VALPIANI eGIANFRANCO BRINIEdizioni dell’Ariete, 2017, pagg. 64

“Fra le altre tragedie che abbiamovissuto (…) in questi ultimi anni,c’è stata anche la tragedia della per-dita del dialetto, come uno dei mo-menti più dolorosi della perdita dellarealtà”.

PIER PAOLO PASOLINI

Racconta del “senso della vita” (come recita il titolo) l’antologia di poesiedialettali pubblicata dall’A.M.S.I. per i raffinati tipi dell’Edizioni dell’Ariete(2017), e presentata ufficialmente nel corso dell’ultimo Congresso Nazionaledi Genova. Una riflessione a tutto tondo sui temi dell’esistenza interpretatadalla voce vernacolare, diversa secondo le varie regioni ma tuttavia in gradodi scandire vibrazioni comuni che sono poi le gioie, i dolori e le ansie di ognigiorno. Quindici autori viventi (Elena Cerutti, Ida Marcer, Gino Angelo Torchio,

Enrico Aitini, Gianfranco Brini, Cesare Persiani, Silviano Fiorato, MarcoPescetto, Iosè Peverati, Patrizia Valpiani, Lanfranco Luzi, Simone Bandirali,Silvana Melas, Alfredo Buttafarro, Mario Tamburello) e sette già passati amiglior vita (Franco Cusmano, Giorgio Alberto Finchi, Aldo Spallicci,Alberto Arcioni, Franco Dionigi, Mimmo Metta, Michele Capuano) mettonoa nudo in questa raccolta le loro anime con idiomi differenti e attenta parte-cipazione al miracolo della vita. A curare la silloge – impreziosita dai suggestivi disegni di Marco Giordano

– il presidente dell’A.M.S.I. Patrizia Valpiani ed il consigliere nazionalenonché rappresentante per l’U.M.E.M. Gianfranco Brini, che ha peraltrocollazionato i componimenti degli scomparsi tra i quali spicca Aldo Spallicci,

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Libri nostri

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senatore e primo presidente A.M.S.I. nel 1951, una delle “glorie” della nostraprestigiosa Associazione, e Michele Capuano, medico personale di padrePio. Le regioni ci sono tutte (o quasi), spaziando dal Piemonte, la Lombardia,

la Liguria all’Emilia, dalla Toscana, il Lazio e la Campania alle due isolemaggiori (Sicilia e Sardegna). Da segnalare la traduzione italiana a latere, conle sole eccezioni delle poesie in dialetto napoletano e romanesco, consideratiuniversali, e, dulcis in fundo, del versiliese della Valpiani, già menzionato daGiosué Carducci in “Davanti a San Guido”. In ben tre componimenti inlingua napoletana si cimenta inoltre il lombardo Simone Bandirali il quale sidichiara “affascinato da sempre dalla lingua e dalla cultura napoletana,attraverso la frequentazione appassionata del teatro, della canzone e dellaletteratura”. Dominante il tema del ricordo, a volte struggente, come avviene in

Persiani e nella Valpiani (“Il paese del cuore” e “Pallì, tentene a mente”), cuisovvengono squarci di passato vissuti nei loro paesi d’origine, quasi arafforzare le proprie radici con l’espressione vernacolare. Ma anche il temaeterno della vita e della morte in Marco Pescetto (“A tela du ragno”), che lu-meggia il mito di Atropo, una delle Parche, pronta a recidere il filodell’esistenza. Non mancano poi spunti briosi come in Lanfranco Luzi chescherza su matrimonio e l’uso (a volte improprio) del Viagra (“Il matrimonio”e “La pasticca azzurra”). E infine all’amore, considerato sotto differentipunti di vista, tutti però validi a disegnarne i multicromatici aspetti, sidedicano i poeti isolani (Melas, Buttafarro, Tamburello).Altri e tanti altri esempi potrebbero addursi, ma quel che affiora sempre

in filigrana resta, a mio parere, l’intensa liricità dei nostri autori i qualipercorrono sentieri non sempre agevoli, favoriti però dalla riconoscibile fa-miliarità con la propria madrelingua. Una madrelingua che in molti casiappare fortemente onomatopeica, sicché non parole scritte ma piuttostosuoni evocatori di forti sensazioni divengono alla fine questi versi che siadagiano sulle pagine di un’antologia alla quale auspico ogni successo, perchédi certo più che meritato.

Giuseppe Ruggeri

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LIBRI NOSTRI

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MICHELE LIBUTTIAnimali e uomini ovvero homo ho-mini homo Edizioni Nuova Prhomos, 2016, pagg. 150,Euro 10,00

Il libro è una moderna versione delle favoledi Esopo e Fedro, cioè l’accostamento (quasisempre per vecchi stereotipi) delle caratteri-stiche comportamentali di un animale con ivizi e le virtù degli umani. La tecnica dell’ap-proccio è però moderna e originale: nonfavole, come quelle degli antichi, ma interviste.Il protagonista ha inventato un apparecchio-

interprete dei linguaggi, sia nel senso animale-uomo che viceversa. Assistiamocosì a veri e propri dialoghi, e questo è forse l’aspetto più divertente e vivacedell’opera. Sui temi trattati non ci sono novità per i soliti luoghi comuni (peresempio: sporco come un maiale, feroce come un lupo, ecc.), ma riferimenticostanti alla vita odierna e a personaggi e tipi oggi comuni. Ciò rende lalettura tutt’altro che noiosa. La perla, a mio avviso, è l’introduzionedell’ineffabile Giulio Andreotti nel capitolo riguardante la volpe. L’autore,con questa tredicesima pubblicazione nell’arco di 17 anni, dimostra di unavivacità intellettuale degna di nota. Un esempio di otium (latinamente inteso)senz’altro da imitare per noi medici-scrittori.

Carlo Cappelli

MARIA TERESA PETRINIIl fiume dei sogniEdizioni Nemapress, 2016, pagg. 264, Euro 18,00

Ecco un libro dal sapore antico. Una lunga narrazione; la vita in un paesesardo, vista con occhi di donna. Un bel raccontare, con vivo il piacere difarlo. Non grandi avvenimenti, non colpi di scena o personaggi insoliti e pit-toreschi. La vita, quella semplice e vera degli umili. È con sincera invidia chevaluto la soddisfazione che deve aver provato l’Autrice nella scrittura, perché

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LIBRI NOSTRI

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deve aver filtrato a lungo con il ricordo le sueprime esperienze di medico a contatto conuna realtà tanto dissimile da quella cittadina.Ho avuto analoghe occasioni da ragazzo nellamia terra e so quanto simili ambienti di vitaincidono nel periodo di formazione: luoghi,visi, usi e costumi così differenti dai consuetifiniscono con il segnare in modo indelebile lamemoria e restano impressi come una stagionedell’anima. Riuscire a riprodurli deve esserestato momento di grande esaltazione: far rivivereluoghi e persone; dipingere un grande affresco,venato da una sua misteriosa forza, capace diimprimersi a fondo nel lettore, suscitando au-

tentica emozione. Per chi, come me, non ha mai avuto occasione di conoscere,se non per vaghi accenni, il variopinto mondo sardo, è stata una gran bellalettura, fonte di vera conoscenza, di cui ringrazio la Petrini che si dimostracon questo suo lavoro narratrice di razza, erede della grande tradizione iso-lana.Da notare il sapiente uso del dialetto che si inserisce con naturalezza nel

linguaggio normale, riuscendo a contribuire al colore con accenti di verosi-miglianza che toccano il narrato come sapienti effetti di luce in un quadro giàdi per sé affascinante.

Carlo Cappelli

SALVATORE SISINNIRicordi di una professioneEdizioni Sette Muse, 2017, pagg. 156, Euro 15,00

Da vecchio pensionato, dopo una vita professionale ricca e appagante svoltatutta in ospedale, ho sempre ritenuto uno spreco immenso la perdita del-l’esperienza accumulata in tanti anni, che di botto si traduce in nulla. Moltimedici pensionati continuano a lavorare privatamente, ma non è la stessacosa e certo non li appaga. Non c’è solo da sfruttare l’esperienza tecnica, c’èsoprattutto da trasmettere il senso di questa nostra unica professione.Conoscere come e perché si diventa medici si gioverebbe al massimo del-l’esperienza di un vecchio medico (certo, se il medico si rivela interessato a

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trasmetterla e capace di farlo). Il rapportocon i giovani che intendono intraprendere laprofessione, e ancor più con quelli che sistanno preparando a viverla, dovrebbe passareattraverso questo illuminante contatto. Lodimostra questo libro di Sisinni, alla cui letturaobbligherei questi giovani, con il risultato disapere subito se si è, caratterialmente e spiri-tualmente, idonei alla professione.Mi risulta difficile indicare tutti i pregi di

questa lettura. Saggezz buon senso, generositàinnata, capacità profonda di immedesimarsifraternamente nel vissuto altrui, sono tuttiovviamente presenti, insieme alla semplicità

chiara e convincente di una prosa che ormai ci è nota (vedi “La Serpe”, n.2/2017, pp. 55-57). Non poteva essere diversamente, visto lo scopo del libro,che non è certo quello di stupire per insolite avventure professionali (tant’èche spesso vengono descritti casi comuni o sbagli di medici), né per mirabolanteabilità diagnostica. No. In definitiva Sisinni, nel tirare le somme del suovissuto professionale, sembra concludere che fare il medico è un privilegiounico e irripetibile, un osservatorio umano ricchissimo (ecco perché il medicoscrive), al quale si giunge però soltanto se si affronta la professione con ilgiusto atteggiamento ‘di servizio’ e non per le comuni attrattive del successoeconomico o scientifico. Forse non farà il buon medico la sola famosa‘vocazione professionale’, ma sicuramente nemmeno il solo, anche se notevole,arido tecnicismo.Un grande esempio di onestà intellettuale e professionale, questo dimostrato

da Sisinni con questo libro. Nel caso clinico XI l’autore dice che i medici conil tempo imparano a non commuoversi mai, ma che lui si era commosso,vivendo quell’esperienza. Be’, io mi sono commosso alle semplici parole chedescrivono così bene questo suo stato d’animo. Di questi valori c’è bisognopiù che mai.

Carlo Cappelli

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SILVIANO FIORATOUna vita per la medicinaGallery Edizioni, 2017, pagg. 286

Silviano Fiorato, insignito del premio per ilmedico-scrittore dell’anno 2018, è stato peroltre un decennio membro di spicco dellaCommissione Culturale dell’Ordine dei Me-dici di Genova. In questo 2017 il suo Ordineha ritenuto importante riunire in un volumegli interventi del “maestro” così come chia-mato dai componenti della commissione,perché ha saputo coniugare “senza confinila scienza medica alla letteratura, alla poesiae all’arte.”

Dal 2015 al 2017 Silviano Fiorato ha pubblicato su GENOVA MEDICAben 113 articoli. I suoi racconti spaziano dall’arte alla storia locale, dallamedicina alla letteratura con una visione che tiene conto dei pregi cheun’anima umanistica sa dispensare. Silviano Fiorato è dotato di una scritturaelegante, sobria, precisa e puntuale per cui la fruizione del lettore diventa to-tale.

Gianfranco Brini

ROBERTO DE ROSADal vecchio mulino a Ground ZeroSupernova Edizioni, 2016, pagg. 200, Euro 15,00

Cos’è che commuove in questo libro di De Rosa? Io direi la partecipazione,il coinvolgimento. Non è un’inchiesta giornalistica sull’emigrazione venetadella fine dell’Ottocento, è una grandiosa saga che si apre, addirittura, conun albero genealogico che dai primi del XIX secolo giunge ai nostri giorni.Il libro è bello anche come oggetto. Si vede che tutto è stato curato con

amore, dalla copertina, dove l’immagine di una vecchia contadina campeggia intrasparenza sui grattacieli di Manhattan (i poli estremi di tante vite di migrantiitaliani), fino alla quarta, dove una bellissima foto del letto sassoso e arido di untorrente richiama l’immagine, ricorrente nel testo, del Cellina, il mitico fiumeche apre la narrazione. Niente suggerisce meglio di questa immagine il fondale

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aspro e pittoresco delle terre friulane prossime aTrieste, la lotta contro la siccità, l’immane faticadell’antica agricoltura collinare. Nella foto sifonde il ricordo delle pedalate dei canais, iragazzi, su scassate biciclette e il rumore deiclaps, i sassi appunto, che di tante imprese sonostati muti testimoni.È così che, tra memorie di emigranti e

ricordi di estati passate in quei luoghi, si dipanala narrazione, sempre sospesa e accorata, comela nostalgia che tutto avvolge. Nostalgia deitempi della gioventù, ma pure nostalgia di pae-saggi sempre rievocati, mai dimenticati, purnel frastuono della metropoli, ormai immersiin una vita così lontana da quei sapori, odori e

visioni da sembrar appartenere a un altro pianeta.Davvero illuminante nella sua semplicità la pagina sull’incendio della

stalla di una volta, in parallelo alla devastazione di uno tsunami di oggi. Lasolidarietà del paese ha funzionato in entrambi i casi: allora, la ricostruzionee il fieno donato; oggi, il contributo raccolto per la sconosciuta poveracomunità orientale. Quale migliore dimostrazione che il mondo è davverodiventato un “villaggio globale”?Insomma, questo libro è un altro bellissimo quadro di vita vissuta, come

molti che ci sono stati proposti, tutti con un indiscutibile valore documentarioche onora il nostro Paese.

Carlo Cappelli

FRANCO VILLANei dintorni di ColonoAnanke, 2017, pagg. 92, Euro 12,00

Leggo la poesia di Franco Villa con ammirato stupore. Egli sa condurti inuno spazio suo, fatto di immagini lievi, di profumi delicati, di suoni appenapercepibili che diventano parole a te rivolte, misteriose. La voce della notte,momenti di transizione nell’aria vengono colti e annotati come importantiavvenimenti dell’anima, e forse lo sono davvero. La natura, il gioco silenziosodella vita che si snoda davanti ai suoi occhi, sono come una danza, come

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spirali di fumo che si dissolvono nell’aria,come bagliori di luce incerti, mai minacciosi.Un cerchio magico, un pantico destino av-volge tutto ciò che esiste, dalla luce dellestelle alle infime cose della terra, e tutto sispecchia nell’anima che contempla e ascol-ta.In questo delicato merletto, in questa

trina leggera intessuta con mano sapiente,un punto chiaro, fermo, costante, è la pre-senza della sua donna. Senti che le armonieche l’anima sua sa raccogliere da lei partonoe a lei ritornano, incessantemente, come unrespiro profondo, come onde di un marevasto in cui egli si perde volentieri, e di cuile parole dei versi sono la ritmica risacca.Di questo bellissimo duetto è intessuto

il libro: alla voce di Franco si alternano idisegni di Anna, di classica compostezza, che interpretano molto bene l’aloneprezioso dei versi.Perché, però, questa malinconia? Perché non invece una letizia serena,

raggiante? Ma perché l’uomo è fatto di nulla e di tutto, incomprensibilecreatura destinata all’oblio, e l’anima umana è grande ed effimera costruzione.Il poeta lo sa, lo sente, e non può gioire d’un simile destino. Può soloaccettarlo con un sospiro e un sorriso lieve di saggezza.

Carlo Cappelli

EGIDIO GHILARDOTTIElogio del doloreE. Lui Editore, 2016, pagg. 110, Euro 12,50

Sicuramente se c’è una cosa che tutti vorremmo non entrasse mai nella nostravita, questo è il dolore. Pertanto vi chiederete che senso ha scriverci un libro,e chiamarlo oltretutto “Elogio del dolore”?Comincia così la nota che l’autore fa precedere all’opera. Una grave

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malattia, un tumore, e da lì, tra chemioe radioterapia, è nata quella serie diriflessioni che compongono il libro.Il titolo, ispirato a Elogio della folliadi Erasmo da Rotterdam, non è ironicoe si affida a due considerazioni fon-damentali. Diamo ancora la parola al-l’autore:La prima considerazione riguarda il

valore del dolore, da molti consideratoun elemento importante per una tra-sformazione della nostra vita in sensopositivo. Francamente, personalmente, esottolineo personalmente, nel dolore nonho visto nulla di epico, di trasfigurante,di “meraviglioso”, come spesso ci sentiamoripetere da persone che non hanno maiveramente provato la sofferenza. Io, in-

vece, ho visto la sofferenza come una sorta di imbarcazione che ci traghetta versouna nuova vita, che potrà essere molto simile alla precedente, forse migliore, o forseno, ma che quello che importa che sarà comunque una vita nuova, profondamentetrasformata da questa esperienza, che vale la pena di essere vissuta fino in fondo...L’altro scopo del mio libro è quello di creare un dibattito rivolto ai miei

Colleghi su come affrontiamo questa tematica e sul concetto vero e perseguibile di“umanità” e di “speranza”. La categoria medica non ama parlare di questaesperienza, visto che finora sono stati scritti solo tre libri da medici colpiti da un tu-more.E invece, dice Ghilardotti, bisogna affrontare il problema e colmare le

evidenti carenze che i medici hanno in merito.Intendo inoltre propugnare con passione la necessità di creare dei Gruppi

di ascolto per le persone ed i famigliari che stanno attraversando questaesperienza, in cui ritengo debba partecipare, oltre ad uno psicologo esperto diquesta esperienza, un medico colpito da tale patologia (ed io lo sto facendo inprima persona), in quanto noi rappresentiamo l’anello necessario e mancantenel dialogo fra curanti e curati.Lodevole intento. Come non essere d’accordo?

Carlo Cappelli

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IN MEMORIAM

ALFREDO CARENINI

Ci ha lasciati il 21 agosto. Era entrato in punta di piedi e si è subitodimostrato un valido narratore e un delicato poeta: ha conseguito nel 2017 ilpremio Serpe d’oro di poesia e due menzioni di merito al premio CesarePavese. Ai familiari i nostri sentimenti di solidarietà.

MARIO BENATTI

Ci ha lasciati il 16 settembre. Poeta schivo, ironico e profondo, sue poesieappaiono nel numero 1/2017 de “La Serpe”. Ai familiari i nostri sentimentidi solidarietà.

* * *

L’anno sta per scadere e l’A.M.S.I. con la sua rivista vive solo grazie allequote associative: non dimentichiamolo.

Per gli autori di narrativa fino ad ora abbiamo usato un metro amichevole,ma per rispetto di tutti ricordiamo di attenersi per i lavori ai parametri dispazio indicati in ogni numero della rivista. Dobbiamo dar modo a tutti diesprimersi. Mentre per la saggistica e per il teatro la lunghezza può esulare daschema fisso, sempre rientrando in un numero limitato ed accettabile dipagine. Fanno eccezione le opere dei vincitori di premi letterari che seguonole coordinate dei singoli regolamenti.

Ricordiamo che avendo optato per mantenere sempre una veste di rivistaletteraria, molte comunicazioni riguardanti la vita associativa pervengono atutti i soci tramite le newsletter, chi non le avesse ricevute o involontariamentecestinate può richiederne l’invio alla segreteria: [email protected] ricordo a tutti di consultare il sito: www.mediciscrittori.it

Ricordiamo che chi volesse inviare un proprio racconto breve da pubblicaresul giornale della Previdenza dell’ENPAM in cui si è aperta la rubrica

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NOTIZIARIO A.M.S.I.

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“penna e fonendo”può farlo inviandolo secondo le modalità espresse nellanewsletter del settembre 2017.

Sulla rivistaM.D. – medicinae doctor (numero 6, settembre 2017) una bella in-tervista sull’A.M.S.I. rilasciata dal direttore editoriale de “La Serpe” CarloCappelli. Articolo di estremo interesse. Per leggerlo: www.passonieditore.it

Al congresso U.M.E.M. di Plovdiv, che era elettivo, ha partecipato in rap-presentanza dell’A.M.S.I. Simone Bandirali. Ha conseguito un risultato digrande prestigio: il nostro segretario è stato infatti eletto alla nuova segreteriadell’U.M.E.M. Al nuovo presidente, il francese Roland Noel e al nuovo se-gretario italiano le nostre congratulazioni vivissime.

* * *

Nel 2018 il nostro concorso letterario sarà di saggistica. Ecco il bando. Par-tecipate e diffondete.

Bando Serpe d’oro 2018PREMIO DI SAGGISTICA “La serpe d’oro” 2018

Diciassettesima edizione

L’A.M.S.I. Associazione Medici Scrittori Italiani indice per l’anno 2018 la di-ciassettesima edizione del Premio “La serpe d’oro” Quest’anno il Premio ri-guarda la saggistica inedita. A tema:

LETTERATURA E MEDICINA, UN ANTICO CONNUBIO. (Sono esclusi saggi a carattere medico-scientifico).

Art. 1- Il Premio è articolato in due sezioni: a) Per tutti i medici e odontoiatriitaliani; b) Per gli amici dei medici iscritti all’A.M.S.I. o che al momentodell’iscrizione al premio lo faranno.

Art. 2 - Si partecipa con un saggio che non superi le dieci cartelle formatoA4, carattere Times New Roman, interlinea 1,5. 60-70 caratteri per riga,40 righe per cartella, giustificato sui lati.

Art. 3 - È previsto un contributo spese di Euro 20,00 da versare sul c/c del-l’Associazione. Cod IBAN: IT55R0335901600100000069173.

Art. 4 - Si segnala che per ragioni evidenti di opportunità, non parteciperannoal Premio i componenti del Consiglio direttivo dell’A.M.S.I.

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NOTIZIARIO A.M.S.I.

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NOTIZIARIO A.M.S.I.

Art. 5 - Gli elaborati dovranno pervenire in plico postale semplice, non rac-comandato.

Art. 6 - Termine ultimo di ricezione sono le ore 24 del giorno 15 marzo 2018.Art. 7- Gli elaborati vanno inviati entro la data sopraindicata al seguente in-dirizzo: Dott. Gianfranco Brini - Premio Letterario di Saggistica. 23081Calolziocorte (Lecco)- Via Pomarolo, 1.

Art. 8 - Gli elaborati dovranno pervenire in quattro copie numerate dall’unoal quattro, ciascuna delle quali deve riportare un breve motto. Tale motto,senza altre indicazioni o contrassegni, deve essere riportato su una bustachiusa contenente un foglio o scheda con nome e cognome dell’autore,indirizzo, recapito telefonico , e-mail se posseduta, ordine provinciale diappartenenza se il partecipante è medico od odontoiatra insieme ad unadichiarazione che l’opera è frutto esclusivo del proprio ingegno.

Art. 9 - I partecipanti che non si atterranno alle disposizioni degli articoli 2,5, 6, 8 saranno esclusi dal Premio.

Art. 10 - La premiazione dei vincitori avverrà nel corso del Congresso annualeA.M.S.I. 2018.

Art. 11 - Il Presidente del Premio e i membri della Giuria sono nominati dalPresidente dell’A.M.S.I.

Art. 12 - I giudizi della Giuria sono insindacabili.Art. 13 - Sono previsti un primo, secondo e terzo premio per le due sezioni.Art. 14 - I saggi premiati saranno pubblicati su un numero della rivista la Serpe.Art. 15 - Le opere restano di proprietà dell’Autore che, con l’atto di partecipazioneal Premio, esplicita senza riserve ed accetta la pubblicazione sulla rivista.

* * *

PREMIO CESARE PAVESE 2017Risultati

Il 26-27 Agosto 2017, a Santo Stefano Belbo (Cn), ha avuto luogo la Premiazionedei vincitori del Premio Letterario “ Cesare Pavese”, giunto alla 34ma edizione.Come di consueto la prima giornata è stata dedicata interamente alla nostra as-sociazione che, per amor del vero, nel 1984 ha dato il via al Premio stesso.

Il Presidente del PremioGIANFRANCO BRINI

Il Presidente dell’A.M.S.I.PATRIZIA VALPIANI

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Purtroppo la nostra Presidente Dott.ssa Patrizia Valpiani, dopo essersiprodigata nella realizzazione della Cerimonia, non ha potuto condividere laemozione e la gioia della Premiazione con i nostri vincitori.Sul palco, presieduto dal Prof. Luigi Gatti, Presidente del Premio, da

Gino Torchio e Simone Bandirali (Tesoriere e Segretario dell’A.M.S.I.), sonostati premiati i nostri soci vincitori:

Narrativa Edita: Antonio Bonelli con FogliePoesia Edita: Efisio Lippi Serra con Gioie e tormentiNarrativa Inedita: Aldo Franzini con ProfumiPoesia Inedita: Marco Pescetto con La tela del ragnoSaggistica Edita: Davide Schiffer con Il gioco della memoria

Hanno conseguito l’attestato di Merito:

Narrativa Edita: Lanfranco Luzi – Giuseppe Ruggeri – Pietro Abbruzzese.Poesia Edita: Domenico Lombardi – Maria Rosa Zanco.Narrativa Inedita: Alfredo Caseri – Angelo Carenini.Poesia Inedita: Angelo Carenini – Franco Villa.

I Vincitori del Premio Cesare Pavese NON-AMSI sono stati:

Premio Narrativa: Alberto Asor Rosa con Amori sospesi (Einaudi)Saggistica edita: Serena Dandini con Avremo sempre Parigi (Rizzoli),

Gian Carlo Ferretti con L’editore Cesare Pavese (Einaudi).

A tutti i nostri Iscritti, vincitori e non, va il meritatissimo giudizio diMerito “per la notevole qualità dei singoli elaborati, che, come sempre, sonoespressione di notevole valore letterario”.

Gino Angelo Torchio

* * *

I Soci sono pregati di versare quanto prima la quota sociale di euro 100per il 2018. Qualsiasi proposta di pubblicazione o recensione rivolta allaDirezione de La Serpe non sarà accettata senza il controllo dell’avvenutoversamento per il 2017.

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Congresso A.M.S.I .P a r t e c i p a n t iC r o n a c aR e l a z i o n e d i a p e r t u r aP r e m i o d i p o e s i a “ L a S e r p e d ’ o r o – N o r aR o s a n i g o ”

A s s e m b l e a d e i s o c i A .M . S . I .

SaggisticaALES SANDRA e LU IG I GASPARRONI , Devo t emo s t r u o s i t à

MASS IMO SCANAR IN I , Ce r v e l l o c o l l e t t i v o es o c i e t à l i q u i d a

GIANFRANCO BRINI , La r o s a n e l l a t a rd a p o e -s i a l a t i n a

Prose sparseCARMINE PATERNOSTRO , S o c r a t e e C r i s t os u l l a v i a d i Emmau s

GIUSEPPE RUGGERI , Una mad r e g e l o s aGIACOMO PISANI , I l s a n t o b o r gh e s eGINO ANGELO TORCHIO, L’A l zh e ime r s a l e i nc a r r o z z a

LAURA GORI , I l n onnoANTONIO BONELL I , L’uomo d i v e t r oSERG IO INVERN IZZ I , A t t o r e o r e g i s t a : u n ap a r t i t a a p ok e r

ROBERTO DE ROSA , Pebb l e B e a c hCARLO CAMERANI , Ange l o c o n l e a l i r o t t e

I N D I C E

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MICHELE DI MAURO, Bunna , f a r ang i ?PIERANTONIO MECCHIA , Rimembranz e

Gli spazi della poesiaMA R Z I O C AVA L L A R O

E N R I C O A I T I N I

IOSÈ PEVERAT I , Pen s i e r a d Nada l

Libri nostri

Notiziario A.M.S.I.

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Finito di stampare nel mese di novembre dell’anno 2017dallo stabilimento Stampitalia srl di Ancarano (Teramo)per conto della Casa editrice Lamusa di Ascoli Piceno