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58 i quaderni del cineforum 60 20 ANNI DI CINEFORUM CLAUDIO ZITO L’IRAN CHE CAMBIA

ANNI DI CINEFORUM 5860...reperimento (il web aiuta molto ma non basta), poiché sarebbero indispensabili soprattutto per conoscere il cinema persiano di prima della rivoluzione, mai

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58 i quaderni del cineforum 6020 ANNI DI CINEFORUM

Claudio Zito

L’IRAN CHE CAMBIA

L’IRAN CHE CAMBIAClaudio Zito

CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIACINEFORUM DEL CIRCOLO

marzo - aprile 2018

Prima della rivoluzione

Quella iraniana è una cinematografia relativamente tardiva. Il primo film, muto, viene prodotto nel 1930, oltre trent’anni dopo i Lumière, mentre in Occidente c’è già il sonoro. Ancora negli anni 50, quando le aspettative demo-cratiche del popolo vengono soffocate dal golpe che depone Mossadeq, l’industria filmica è a uno stadio primitivo. Inizia però a svilupparsi con rapidità e a diventare una palestra imprescindibile per i cineasti che, influenzati dalle due principali scuole europee – Neorealismo italiano e Nouvelle Vague francese – realizzeranno negli anni 60 i primi lavori con una certa rilevanza artistica.Un aspetto che può averne favorito la fioritura è la possibilità, per lo spettatore dell’epoca, di contemplare opere pro-venienti da tutto il mondo. Se gli occidentali hanno accesso ai film di Hollywood, a quelli europei, a qualche giappone-se e a qualche sovietico, in Iran si possono ammirare, oltre ai citati, film indiani ed egiziani. Il cinema italiano è il più distribuito dopo quello americano. La censura non è particolarmente cattiva (lo diverrà in prossimità della rivoluzio-ne del 1979), blocca solo un film ogni tanto. Lo spettatore persiano, da sempre interessato al cinema - sin dai tempi in cui la produzione era esclusivamente estera - fa tesoro di queste visio-ni eterogenee.Negli anni ‘60 escono autentici capolavori, per lo più ignoti a noi italia-ni. La prima Nouvelle Vague iraniana è però in fase di riscoperta in que-sti anni; e i nuovi registi si richiamano a quella, forse più che all’epoca gloriosa degli anni ‘90 e dintorni. Il due volte premio Oscar Asghar Farhadi, ne Il cliente, cita un film di quegli anni, La vacca (1969) di Dariu-sh Mehrjui, ideale anello di congiunzione tra il cinema pre e post rivo-

introduZione

Una scena tratta dal film La vacca, di Dariush Mehrjui

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luzionario se è vero (ma qualcuno dice sia leggenda) che la Guida Suprema della rivoluzione ayatollah Khomeini lo indica come modello ideale, da perseguire, per i nuovi registi che non vogliano essere messi al bando; le “regole d’ingaggio” dopo il 1979 – niente capi femminili scoperti, niente momenti di intimità tra uomo e donna, niente politica ecc. – si fanno decisamente più rigide.

Sotto il velo della religione

Come mai, dunque, assorbito il trauma dell’invasione irachena e prodotte le ovvie pellicole patriottiche a supporto dello sforzo bellico difensivo, dalla metà degli anni ‘80 la cinematografia nazionale si fa più pregevole che mai, fino a sconfinare e inondare i festival mondiali?Buona parte del merito va attribuito a un’istituzione pubblica, fondata per volontà della moglie dello scià Farah Diba e saggiamente mantenuta in vita dalle autorità islamiche: il Kanun, sigla che sta per 'Istituto per lo sviluppo intellettuale del bambino e dell’adolescente'. Sotto l’egida dell’istituto vengono prodotti film sul tema dell'infanzia, senza nulla di peccaminoso. La produzione statale li protegge dai rischi degli insuccessi di mercato, permettendo ai registi di sperimentare. Caso vuole che la fondazione della sezione cinema sia affidata, nel 1969, a un ventinovenne inesperto che diverrà la personalità più prestigiosa della storia del cinema del suo paese, nonché uno dei massimi cineasti contemporanei: Abbas Kiarostami. Quasi tutti i più importanti cineasti del paese realizzano, almeno una volta, film prodotti da Kanun. Oltre alla presenza dei bambini, altra peculiarità tematica è la riflessione sul set cinematografico come dispositi-

vo falsificatore della verità – la quale si presta a molteplici punti di vista – ma anche come cata-lizzatore di passioni, di desiderio di emancipa-zione sociale. Dunque, un discorso non solo in-tellettualistico, che per profondità si distacca sia dalle intuizioni pirandelliane, sia dai freddi gio-chi di specchi del coevo cinema post-moderno occidentale. Ma anche, al solito, un espediente per scansare la mannaia censoria. Gli autori sembrano dire: quello che vedete è tutto finto, vi sveliamo apertamente l'artificio, voi non po-tete accusarci di fare critica della società.A cavallo tra gli anni ‘80 e i ‘90 i film iraniani cominciano a invadere i festival di tutto il mon-do. La fioritura artistica trova poi un corrispet-tivo politico nelle aperture condotte dalla pre-sidenza di Mohammad Khatami (1997-2005), fautore del 'dialogo tra i popoli', prima del giro di vite intervenuto con Mahmoud Ahmadi-nejad (2005-2013). I riconoscimenti più presti-giosi sono la Palma d'oro a Cannes 1997 per Il sapore della ciliegia e il Leone d'oro a Venezia 2000 per Il cerchio. Quest'ultimo, sul tema dei diritti delle donne, inaugura una fase di cinema politico che creerà problemi al suo autore Jafar Panahi - arrestato nell'ambito delle proteste per la rielezione di Ahmadinejad e interdetto alla professione-, come ad altri colleghi.

la conSacrazione degli oScar

Oggi resta poco di quella straordinaria stagio-ne. Kiarostami è morto, un grande alfiere come Mohsen Makhmalbaf è di fatto in esilio insie-me alla sua famiglia di cineasti, Panahi riesce a fare un film ogni tanto in clandestinità, le pelli-

A lato: Mohammad Khata-mi, fautore del ‘dialogo fra i popoli’;sotto: Mahmoud Ahma-dinejad, conservatore e reazionario presidente iraniano dal 2005 al 2013.

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cole iraniane non circolano più come un tempo nelle rassegne di mezzo mondo.Dalla ormai solida industria nazionale è emersa però la sorprendente figura di Asghar Farhadi. Con le sue sceneg-giature dense e intricate, Farhadi ha conquistato ben due premi Oscar - i primi nella storia del cinema iraniano – con Una separazione (2012) e Il Cliente (2016). Altro merito è l'aver portato alla ribalta internazionale lo stesso tipo di cinema, incentrato sul ceto medio urbano, che riscuote successo in patria.

FilmograFia minima Consigliata

Venti film, non necessariamente i migliori: anzi alcuni capolavori restano esclusi a favore di altri, meno eccezionali, ma più indicati per una panoramica ampia e pienamente rappresentativa. Includo alcuni inediti, non sempre di facile reperimento (il web aiuta molto ma non basta), poiché sarebbero indispensabili soprattutto per conoscere il cinema persiano di prima della rivoluzione, mai distribuito da noi. Per approfondimenti rimando al mio blog: www.cinemairanianoblog.blogspot.it

La casa è nera (Forough Farrokhzad, 1964, inedito)Mattone e specchio (Ebrahim Golestan, 1965, inedito)La vacca (Dariush Mehrjui,1969, inedito)Gheisar (Masoud Kimiai, 1969, inedito)Il corridore (Amir Naderi, 1984)Dov’è la casa del mio amico (Abbas Kiarostami, 1987)Bashù il piccolo straniero (Bahran Beizai, 1989)Close-Up (Abbas Kiarostami, 1989)E la vita continua (Abbas Kiarostami, 1992)Salaam cinema (Mohsen Makhmalbaf, 1995)

Pane e Fiore (Mohsen Makhamalbaf, 1996)Il sapore della ciliegia (Abbas Kiarostami, 1997)La mela (Samira Makhmalbaf, 1998)I colori del paradiso (Majid Majidi, 1999, inedito)Il cerchio (Jafar Panahi, 2000)Oro rosso (Jafar Panahi, 2003)Turtles Can Fly (Bahman Fhobadi, 2004, inedito)About Elly (Asghar Farhadi, 2009) Una separazione (Asghar Farhadi, 2011)Il cliente (Asghar Farhadi, 2016)

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Il regista Mohsen Makhmalbaf deve scegliere gli attori del suo prossimo film dal titolo Salaam Cinema, e a questo scopo pubblica un annuncio sul giornale. Tra i numerosi candidati, si pre-senta anche un quarantenne che risulta essere un ex poliziotto. Dopo un po’ Makhmalbaf lo riconosce: i due si erano incontrati venti anni prima quando Makhmalbaf, che militava nell’oppo-sizione al regime dello Scià, aveva organizzato insieme ad altri un attentato ed aveva accoltellato il poliziotto di guardia per sottrargli la pistola. Allora il regista, invece di offrirgli una parte, gli propone di ricostruire in un film quell’evento drammatico. Ognuno di loro sceglierà un giovane interprete per il proprio personaggio, attraverso il quale fornire una versione dei fatti. L’ex poliziotto è molto reticente, c’è di mezzo il ricordo di una ragazza che lui vedeva passare ogni giorno davanti alla sua postazione e di cui si era innamorato. Alla fine però i due giovani vengono scelti e anzi, a poco a poco, è la loro storia a prendere il sopravvento: quello che fa il poliziotto è interessato solo a salvare una piantina di rose, mentre quello che fa il regista vorrebbe salvare l’umanità e non se la sente di accoltellare il rivale. Alla ragazza che ricopre il ruolo di quella di venti anni prima, entrambi offrono pane e fiore.

PANE E FIORENūn wa guldūn

sinossi

la CritiCa

Pane e fiore è uno dei più espliciti tra i tanti film della Nouvelle Vague iraniana dedicati al cinema, che è qui è visto come strumento dalle grandi potenzialità: è in grado di evocare il passato, talvolta in maniera nostalgica, come nel caso del vecchio sarto che rimpiange i vecchi film americani (ma non lo scià), più spesso in modo critico; può spersonalizzare uomini e donne, visto che i personaggi del film hanno un alter ego e non sono chiamati col proprio nome, ma identificati con il ruolo che ricoprono; può affrontare questioni di importanza capitale anche attraverso uno stile stridente e ammaliante, come nella scena in cui gli attori recitano in maniera buffa, o senza badare alla coerenza di spazio e tempo (anche inteso come meteo!); può giocare a stordire lo spettatore coi tipici espedienti metacinematografici volti a confondere i livelli di realtà e di rappresentazione. Inevitabile che al pubblico occidentale salti in mente Pirandello, ma Makhmalbaf trova spunto piuttosto nella tradizione delle arti del suo Paese: nella struttura a incastro della letteratura, nell’iterazione ossessiva dei temi nelle composizioni musicali e delle parole nella cultura orale, e in particolare nel poeta mistico Mevlana Rumi, citato più volte dal regista nelle interviste, che scrive ciò che segue:

“La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendo riflessa la pro-pria immagine, credette di possedere l’intera verità”.

Dunque lo stesso evento può essere visto da molteplici punti di vista e ogni osservatore può darne una propria interpretazione. Allo stesso modo, la medesima scena può essere girata con stili differenti: per gran parte del film gli attori sono inquadrati a lungo senza stacchi, ma nel finale il montaggio si fa più frequente.

Regia Moshen Makhmalbaf Anno 1996 Paese di produzione Iran Durata 78’

Soggetto Mohsen Makhmalbaf Sceneggiatura Mohsen Makhmalbaf Fotografia Mahmoud Kalari Montaggio Mohsen Makhmalbaf

Scenografia Reza Alaghemand Musiche Majid EntezamiInterpreti Mirhadi Tayebi, Ali Bakhshi Jozam, Ammar Tafti, Maryam Mohammad-Amini,

Moharram Zeinalzadeh, Fariba Faghiri, Maryam Faghiri, Lotfollah Gheshlaghi, Mohsen Makhmalbaf, Hana Makhmalbaf

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Come ormai sappiamo, però, spesso le suggestioni metacinematografiche del cinema iraniano non sono autorefe-renziali. In questo caso, forniscono l’occasione per un messaggio pacifista che prende le mosse da un’esperienza autobiografica. È autentica la vicenda narrata nel film, Makhmalbaf è stato realmente autore del gesto efferato che viene narrato (e che gli è costato quattro anni di prigione), ma ora è convinto che per salvare il mondo (ma anche la propria famiglia – per riagganciarci al tema ricorrente del film - e se stessi) non sia necessaria la violenza, bensì l’altruismo, simboleggiato dal pane e dal fiore. Non c’è però soltanto l’autobiografia; emerge anche un raffronto generazionale. Makhmalbaf è cresciuto in un epoca in cui la violenza tra le truppe dello scià e le forze rivoluzionarie imperversava, i cittadini ne erano assuefatti. I giovani degli anni novanta, invece, non sono più in grado di brandire un coltello, sono pronti per una nuova epo-ca di pace. Nel film si respira infatti quel clima che avrebbe portato alla presidenza dell’Iran, nel 1997, il riformista Khatami, fautore del dialogo con l’Occidente, in contrapposizione allo scontro di civiltà più volte teorizzato dalla controparte.

Curiosità

L’assistente alla regia, che vediamo più volte, è il protagonista del film di Makhmalbaf Il ciclista. Da allora diventa un saltuario collaboratore del regista, che lo fa comparire anche in altri film, come Salaam Cinema.

La guardia non è la stessa che aveva ferito Makhmalbaf: si tratta di un attore.

Il film è conosciuto anche con il titolo Un istante di innocenza.

Fonte: Cinema Iraniano blog

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il regista

Makhmalbaf [makhmalbàf], Mohsen - Regista, sceneggiatore e montatore cinematografico iraniano (n. Teheran 1957). Ha esordito dietro la macchina da presa con Tubeh-i nusūh (Pentimento definitivo,1982), seguito da Isti̔āza (Rifugiarsi in Dio, 1984), Du chashm-i bī sū (Due occhi senza luce, 1984) e Bāykot (Il boicottaggio, 1985). Ha poi ottenuto l’at-tenzione della critica internazionale con Dastfurūsh (L’ambulante, 1987) e Bāysikalrān (Il ciclista, 1989), opere in cui è emersa la modernità di un cinema a tratti legato alla tradizione del suo paese ma che, al tempo stesso, ha sperimentato nuovi percorsi stilistici e narrativi. Tra gli altri film si ricordano: Salām sinamā (Salaam cinema, 1995), Gabbeh (1995), Nūn wa guldūn (Pane e fiore, 1996), Sukūt (Il silenzio, 1998), Safar-i Qandahār (Viaggio a Kandahar, 2001), Sex & philosophy (2005), Scream of the ants (2006), The chair (2006), The man who came with the snow (2009). Sua figlia Samira (n. Teheran 1980) ha diretto, su sceneggiature scritte dal padre, Sīb (La mela, 1998) e Takht-i sīāh (Lavagne, 2000). Anche gli altri figli Maysam (n. 1981) e Hana (n. 1988) si sono accostati al cinema.

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Un’automobile bianca attraversa un paesaggio di periferia urbana fatto di colline polverose. Al volante c’è un uomo sui cinquant’anni, il signor Badii, che ha deciso di uccidersi e sta cercando qualcuno disponibile a coprire di terra la tomba che si è scavato, o a riaccompagnarlo a casa, nell’i-potesi di un ripensamento. Badii incontra varie persone: un giovane soldato curdo che si spaventa e scappa; un seminarista afgano che cerca di dissuaderlo ma poi desiste. Infine, un anziano che lavora al museo di storia naturale lo segue più a lungo, gli ricorda le bellezze della vita, il sapore delle ciliege, la luna, la pioggia, ma alla fine accetta di aiutarlo e si danno appuntamento per la mattina dopo.

IL SAPORE DELLA CILIEGIATa’m e guilass

sinossi

la CritiCa

Regia Abbas KiarostamiAnno 1997 Paese di produzione Iran Durata 95’

Soggetto Abbas Kiarostami Sceneggiatura Abbas Kiarostami Fotografia Homayoun Payvar Montaggio Abbas KiarostamiScenografia Homayoun Payvar Musiche Jahangir Mirshekari

Interpreti Homayon Ershadi, Abdolrahman Bagheri, Afshin Khorshid Bakhtiari, Safar Ali Moradi, Mir Hossein Noori, Ahmad Ansari

Atipico road movie al contrario, acuta riflessione filosofica per immagini, punto di arrivo dello stile che ha reso celebre un artista geniale.

un frutto dalla lenta maturazione Abbas Kiarostami ha appena completato la sceneggiatura del quarto capitolo della trilogia di Koker, ma non la filmerà mai: una ciliegia, che è nella testa dell’autore da circa otto anni, a fatica sta cominciando a maturare. Anche perché indeciso sul finale, nel 1996 il regista sceglie come titolo provvisorio Viaggio verso l’alba, poi trasformato ne L’eclisse. Un serio incidente d’auto gli fa interrompere la lavorazione; infine la pellicola su cui è impressionata la sequenza dell’epilogo brucia, diventando inutilizzabile. Viene sostituita con materiale girato da un membro della troupe.Con il titolo definitivo Il sapore della ciliegia il film, che doveva essere presentato alla Mostra di Venezia del 1996, arriva in concorso a Cannes 1997 - edizione del cinquantenario - solo all’ultimo momento, fuori catalogo, ma tor-na a casa con il bottino pieno: l’albero della ciliegia è una Palma d’oro, prima e unica per il cinema iraniano. Poco importa l’ex-aequo con “L’anguilla” di Imamura.

una Storia SemPlice...Autunno. Un uomo di mezza età, alla guida di una Range Rover 4x4, si aggira misteriosamente per le colline intor-no a Teheran. Cosa cerca? Persone da caricare in macchina, per una proposta. Dopo qualche rifiuto, sale un giova-ne soldato curdo, a cui infine il protagonista rivela di chiamarsi Badii, di volersi suicidare e di cercare qualcuno che, dietro lauto compenso, si rechi alla fossa in cui sarà sdraiato e, dopo aver accertato il decesso, lo ricopra di terra. Il ragazzo scappa terrorizzato. Successivamente un seminarista afgano rifiuta, poi un imbalsamatore turco-azero cerca di fargli cambiare idea, ma in ultimo accetta. Infine vediamo Badii nella fossa, ma non ne conosceremo con certezza il destino. L’epilogo ci mostra il protagonista ‘redivivo’ e la troupe sorridente, in primavera.

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...Per un’oPera comPleSSa. domande e riSPoSte Per caPirci di Più

Perché un film sul suicidio?Abbas Kiarostami dice in più occasioni di essersi ispirato all’opera poetica di Omar Khayyam e a un aforisma di E. M. Cioran: “Se non ci fosse la possibilità del suicidio, mi sarei già suicidato da tanto tempo”. Ma è probabile che a monte ci siano anche ragioni autobiografiche, per esempio la lunga malattia mortale che colpisce suo padre.Con quali scelte stilistiche viene affrontato il tema?Il primo dispositivo drammaturgico è quello della dilazione. Non vediamo subito i titoli di testa, non conosciamo, se non col tempo, la voce, il modello dell’auto, il nome, l’intento del protagonista (si vedano le analisi cronometri-che, che hanno fatto scuola, di Marco Dalla Gassa nella monografia “Abbas Kiarostami” del 2000); non sapremo mai il mestiere dell’uomo, la situazione familiare, il motivo del suo proposito e né se sarà compiuto. L’autore punta a generare curiosità in chi osserva, a fargli porre quesiti e anche immaginare soluzioni, ad affrontare il film con la testa e non con i sentimenti, senza immedesimazione nel protagonista.Badii e i suoi compagni di questo strano viaggio non compaiono insieme nelle stesse inquadrature, hanno tra loro un rapporto distaccato. E quando parlano, è come se si rivolgessero allo spettatore.L’automobile viaggia avanti e indietro per gli stessi luoghi, spesso scompare dietro le colline come se venisse inter-rata. Rimandano a immagini di morte o sepoltura tanti elementi del panorama naturale e artificiale: corvi, sabbia (che in una sequenza sommerge Badii), temporale, scavatrici, uccelli imbalsamati, solo per elencarne alcuni. L’au-

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tunno è la stagione del declino, i colori nettamente dominanti, giallo e ocra, sono nella tradizione persiana simboli della speranza smarrita e della depressione.Lo schermo nero prima del finale, che dura un minuto circa, costringe chi guarda a confrontarsi per lunghi attimi con il nulla, col buio di chi chiude gli occhi per morire.Che funzione hanno i tre passeggeri?Il protagonista è un persiano, senza apparenti difficoltà economiche. I tre interlocutori principali, che rappre-sentano anche tre età diverse dell’uomo dalla più giovane alla più avanzata (ma anche il figlio, il fratello, il padre), appartengono tutti a minoranze etniche (curiosità: l’imbalsamatore arriva da Mianeh, località di cui è originaria la famiglia di Jafar Panahi) e dichiarano di avere insufficiente denaro per i loro differenti scopi. Kiarostami vuol dirci che una condizione di relativo privilegio sociale non rende immuni dalle più gravi depressioni.Il giovane soldato e l’anziano imbalsamatore (impiegato al museo di scienze naturali) simboleggiano inoltre la paura di ciò che ci attende e la saggezza maturata con le esperienze di vita vissuta (“Vuoi rinunciare al sapore della ciliegia?”, da cui il titolo). L’incontro intermedio è, come dichiarato dal regista, strumentale a restituire un punto di vista religioso, per assecondare gli ayatollah e sperare in un nulla osta censorio. Peccato che i dialoghi platonici che accompagnano l’evoluzione del film conducano alla conclusione che cotanta saggezza, religiosa o laica che sia, è del tutto inadeguata a capire e a consolare chi il male di vivere ha incontrato. Un’ulteriore interpretazione (dal “Castoro” di Marco Della Nave) vuole i tre uomini come possibili fantasmi nella mente del protagonista; ma questo contraddirebbe l’impianto realistico, per quanto per nulla scevro di sovra-

strutture filosofiche e religiose, che caratterizza l’opera omnia dell’autore. Quest’ultimo li identifica invece con “i tre ordini del mondo indo-europeo: il guerriero, il prete, l’uomo comune”.Perché Badii vuole suicidarsi?L’unica risposta giusta a questa domanda è: non si sa. E neanche è impor-tante. Ciò che interessa all’autore è che lo spettatore rifletta su una decisione già presa, si interroghi sull’opportunità del suicidio e su cosa comporti e rappresenti.Se però vogliamo divertirci a trovare comunque una motivazione, possiamo raccogliere qualche indizio. La presenza spropositata di militari e i dialoghi sulle guerre possono rinviare a un episodio accaduto al protagonista nel periodo che egli definisce come il più felice della sua vita: il servizio di leva. Oppure l’accenno ai rapporti ferali con le persone care e la ricorrenza, pur saltuaria, del tema in episodi per lo più minori della filmografia del regista (Il rapporto, Lumière and Company, il successivo Copia conforme) possono far pen-sare a una delusione sentimentale (da cui anche l’assenza di figure femminili rilevanti nel film).Che senso ha l’epilogo?Dopo gli attimi di schermo nero, il film si chiude con una controversa se-quenza, che Kiarostami stesso era molto indeciso se inserire o meno; un post scriptum volutamente ben separato, non integrato nella trama. La sequenza si contrappone in maniera netta al punto a cui si era arrivati: è primavera, c’è luce, domina il verde speranza, Badii fuma tranquillo, c’è l’unico commento musicale di tutto il film (“St. James Infirmary” di Louis Armstrong). Viene mostrato il backstage del film - con tanto di troupe inquadrata - girato con videocamera a bassa definizione.Questo finale risponde ad almeno tre esigenze: mette a dura prova eventuali certezze dello spettatore, rappresenta un ritorno alla vita (i soldati sfogliano fiori!), una resurrezione, svela il dispositivo filmico. Quest’ultimo aspetto, tipico dell’autore e del cinema iraniano, può servire anche ad ammansire i severi censori in patria, palesando la finzione di tutto ciò che è stato mostra-to. Tale valenza esiste, ma non è da sopravvalutare, come talvolta viene fatto.Come è stata scelta la location?Il film è girato su strade fatte tracciare ad hoc (come già nella Trilogia) e che rivedremo nell’incipit di 10 on Ten (dove Kiarostami sottolinea quanto

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gli piacciano quei luoghi). All’autore interessava mostrare anche i grattaceli della metropoli in espansione sullo sfondo. Con il figlio Bahman, Abbas filma i sopralluoghi e mostra il girato al cast prima delle riprese, per spiegare meglio le sue intenzioni di messa in scena.Chi è l’attore protagonista?Homayoun Ershadi. Classe 1947, architetto, poi antiquario, nel 1996 è un attore semi-amatoriale con un paio di particine alle spalle. Grazie a questo film, a cinquant’anni diventa professionista a tutti gli effetti. È ancora in atti-vità.Che precedenti e che lasciti del film possiamo individuare? Per certi versi Il sapore della ciliegia è un unicum nella storia del cinema, anche se con diversi film si possono trovare affinità parziali. Facciamo solo due esempi. È curioso che un film con tema principale l’avvicinamento alla morte l’abbia girato l’altro vincitore di Cannes ‘97, Shoehi Imamura: La ballata di Narayama. Se guardiamo invece ai mec-canismi drammaturgici e allo stile, un’opera successiva somigliante è Locke di Steven Knight.Il sapore della ciliegia e il suo trionfo cannense sono inizialmente del tutto ignorati in Iran (se non per lo scandalo di un bacio casto di Catherine Deneuve al regista...). Ma in tempi brevi, grazie alle aperture culturali del governo Khatami, il film può circolare in patria senza particolari criticità.L’assistente alla regia Hassan Yektapanah realizzerà, in proprio, alcuni film di tutto rispetto, come il debutto Djo-meh.Ci sono altre domande?

Fonte: Cinema Iraniano blog

il registaKiārostamī [-mì], Abbās - Regista e sceneggiatore cinematografico iraniano (Teheran 1940 - Parigi 2016). Tra i più im-portanti cineasti contemporanei, ha esordito negli anni Settanta, diventando noto in Europa nel 1987 con Dov’è la casa del mio amico? I film di K., raro esempio di coerenza stilistica, rigore e libertà creativa, sono fondati su un sentimento morale dello sguardo, che indaga paesaggi esteriori e interiori (riferiti cioè alla verità antropologica e a quella psicologica) di personaggi semplici, ascoltati nella loro realtà quotidiana e nel difficile contesto dell’Iran contemporaneo; ma anche su un’acuta consapevolezza del dispositivo filmico e dei processi di finzione da esso messi in atto, con una tensione meta-linguistica mai gratuita e sempre emozionante. Tra le sue opere: Nimā-i nazdīk (Close-up, 1990), Tam-i gilās (Il sapore della ciliegia, 1997), Ten (2002).

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Vita e opereNel 1969 ha fondato la sezione per il cinema dell’Istituto per lo sviluppo intellettuale di bambini e adolescenti, che ben presto è diventato un centro di studio e di ricerca per la nuova cinematografia iraniana. All’inizio degli anni Settanta è stato autore di alcuni cortometraggi, prima di esordire nel lungometraggio con Musāfir (Il viaggiatore, 1974). Ha poi diretto Guzarish (Il rapporto, 1977) e il documentario Awwalihā (Gli alunni della prima classe, 1984). Con Khāne-i dūst kugiāst? (Dov’è la casa del mio amico?, 1987) si è fatto conoscere dalla critica internazionale al festival del cinema di Locarno. Lo stile semidocumentaristico, la commistione tra reale e fantastico, la particolare attenzione al sonoro e, dal punto di vista tematico, all’universo infantile e adolescenziale, hanno caratterizzato i successivi Mashq-i shab (Compiti a casa, 1989), il già citato Nimā-i nazdīk, Zindigī idāmi dārad (E la vita continua, 1990), Zīr-i dirakhtān-i zeytun (Sotto gli ulivi, 1994), con cui è diventato noto presso il pubblico europeo. Il suo stile raggiunge una particolare capacità espressiva nel già ricordato Tam-i gilās, premiato a Cannes con la Palma d’oro. Con Bād mā-rā khāhad burd (Il vento ci porterà via, 1999) ha otte-nuto il Gran premio speciale della giuria al festival di Venezia. Nel 2000, per raccontare la piaga dell’Aids, si è recato in Uganda a girare ABC Africa (2001); nel 2002, con Ten, ha dato prova del suo talento innovativo; del 2005 è Ticket e del 2010 Copie conforme, dei quali ha curato la regia e la sceneggiatura. Nel 2012 ha presentato al Festival di Cannes Like someone in love.

Simin vuole lasciare l’Iran con il marito Nader e la figlia Termeh. Nader, però, si rifiuta di lasciare il padre malato di Alzheimer e questa decisione convince Simil a chiedere il divorzio e a tornare a vivere con i suoi genitori. Termeh sceglie invece di rimanere col padre, il quale ingaggia una giovane donna, Razieh, che si prenda cura del padre malato. Tuttavia, la nuova domestica non solo è incinta, ma lavora all’insaputa del marito. Un drammatico evento porterà tutti i pro-tagonisti di fronte al giudice, scatenando una dura lotta di classe e irreparabili conflitti familiari.

UNA SEPARAZIONEJodaeiye Nader az Simin

sinossi

la CritiCa

Come già in About Elly, è difficile stabilire chi abbia ragione, se la donna che accusa o l’uomo che si difende, in un rimpallo di responsabilità che coinvolge i rispettivi coniugi ma anche la figlia adolescente di Nader. E sarà proprio lei a svelare le ipocrisie, le falsità e i compromessi dietro cui tutti si nascondono, offrendoci il ritratto di un Paese dove il rispetto della legge non aiuta mai a risolvere davvero i problemi.Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 16 febbraio 2011

Borghesia chiacchierona, un passo avanti rispetto al solito Iran neorealista. Il regista di About Elly, Orso d’argento nel 2009, punta all’oro con questa storia che comincia con un divorzio (negato) e finisce in un tribunale penale. In mezzo: una domestica incinta, un padre con l’Alzheimer, un marito irascibile, una gravidanza nascosta sotto la palandrana. Cose da sapere: prima di cambiare un vecchio con il pigiama zuppo, una donna deve telefonare alla polizia coranica e chiedere il permesso. La figlia, già velata a sei anni e piuttosto furba: ‘Non lo dirò a papà’.Mariarosa Mancuso, Il Foglio, 16 febbraio 2011

Farhadi sarebbe diventato il secondo eroe dell’opposizione, ovvero nemico del regime: da una parte per avere riunito unanimi consensi attorno al proprio magnifico film, dall’altra per aver alzato la voce in favore di Panahi, di tutti gli artisti e della loro ‘libertà di espressione’. [...] Asghar Farhadi, già premiato con l’Orso d’argento nel 2009 con About Elly, ha portato in concorso un film dalla storia solo apparentemente ‘privata’. [...] Problemi interni ed esterni complicano una situazione già delicata, mentre il film arriva a vibrare come un Segreti e bugie all’iraniana. Conflitto di classe incluso. Se umani pregi e virtù sono universali, gli evidenti ostacoli rimandano alle ferite di un Paese imprigionante e prigioniero. Il valore della pellicola è il medesimo di quelle di tanti film-maker sotto regime (anche nell’Italia fascista) capaci di esprimere il dissenso utilizzando con sapienza il linguaggio dell’arte, specie metaforico e simbolico. Ma anche, come in questo caso, narrando una storia qualunque dei loro/nostri tempi: personaggi e sfondo sono curati al punto tale da trasformare il contorno socio-politico del film nel cuore dell’at-tenzione mondiale.Anna Maria Pasetti, Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2011

Regia Asghar FarhadiAnno 2011 Paese di produzione Iran Durata 123’

Sceneggiatura Asghar Farhadi Fotografia Mahmoud Kalari Montaggio Hayedeh SafiyariScenografia Keyvan Moghadam Musiche Sattar Oraki

Arredamento Keyvan Moghadam Costumi Keyvan MoghadamInterpreti : Leila Hatami, Peyman Moadi, Shahab Hosseini, Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Babak Karimi, Ali-Asghar

Shahbazi, Shirin Yazdanbakhsh, Kimia Hosseini, Merila Zarei

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Immaginate un giallo girato come un film neorealista. Un film in cui prima o poi tutti mentono almeno una volta, in tutti i modi possibili (per omis-sione, per convenien-za, per necessità, per pietà). E soprattutto mentono in ogni pos-sibile combinazione: al marito, alla moglie, al giudice, al figlio, ai ge-nitori, in qualche caso anche a se stessi. Maga-

ri senza accorgersene. Adesso immaginate che questo film, in cui (quasi) tutto è sotto i nostri occhi ma l’essenziale avviene nelle coscienze dei personaggi, venga da uno dei paesi più segreti del mondo: l’Iran. [...] Dopo tanti film bellissimi e cifrati, osannati all’estero ma proibiti in patria, non avremmo mai sperato che da Teheran arrivasse qualcuno capace di unire gusti e pubblici tanto diversi. Se Asghar Farhadi, il regista di Una separazione, riesce nell’impresa è perché lascia parlare ‘le cose’, come una volta si diceva dei film neorealisti. Ovvero quell’insieme di conflitti, vistosi o invisibili, che sono al centro della vita sociale. Conflitti fra i sessi, le classi, le generazioni. E fra la diversa cultura di chi ha mezzi e educazione, e di chi non ha né gli uni né l’altra ma ha la religione come unica guida. [...] Usando le immagini non per cullarci o stordirci ma per accendere la nostra immaginazione, come sa fare solo il grande cinema. Con tale esattezza d’accenti che perfino la severissima censura iraniana non ha trovato niente da dire. Anche perché nessuno è davvero innocente, né del tutto colpevole. Anzi, la tensione morale che anima comunque tutti i personaggi del film, a confronto col cinismo conclamato del nostro liberissimo Occidente, fa perfino un po’ impressione.Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 21 ottobre 2011

Un film di grande umanità, di mirabile scrittura e quindi di altissima godibilità. Insomma un film ‘divertente’ nel senso più alto del termine, a condizione di essere spettatori adulti, capaci di divertirsi non solo a suon di rutti e flatulenze varie, ma osservando sullo schermo il dipanarsi dell’umana commedia. Non è facile, lo sappiamo: perché molti di voi, e non senza motivo, quando leggono ‘cinema iraniano’ pensano immediatamente a film - diciamo cosi - rarefatti, ad assenza di dialoghi, a lunghi viaggi in auto senza meta, a gonfiore di piedi e di altre meno nobili parti del corpo. Fuor di metafora: il cinema iraniano vanta artisti nobilissimi ma di fruizione difficile, come Kiarostami e il povero Panahi, che a causa del suo cinema civilmente impegnato è tuttora agli arresti domiciliari. Ma Asghar Farhadi, il regista di Una separazione, fa un cinema completamente diverso. Chi di voi ha trovato il coraggio, un paio d’anni fa, di vedere A proposito di Elly lo sa. Farhadi è prima di tutto un enorme sceneggiatore. [...] Una separazione mantiene ciò che promette: parla di un divorzio, ovvero di un evento sociale e sentimentale che in un paese islami-co assume connotazioni particolarmente drammatiche. [...] Un simile tour de force sociale e cinematografico non reggerebbe senza una squadra di attori formidabili.Alberto Crespi, L’Unità, 21 ottobre 2011

Ha un primo, grande merito il film del regista iraniano Asghar Farhadi, trionfatore all’ultimo Festival di Berlino: qualunque spettatore, vedendolo, non può esimersi dal praticare un po’ di sana palestra cognitiva. Per poco più di due ore, Asghar Farhadi ti obbliga infatti a cambiare continuamente il punto di vista a partire dal quale osservi le cose. Ti induce ad adottare lo sguardo dell’altro. [...] Cinema come esercizio di pluralismo prospettico, come an-tidoto all’integralismo. Ma anche come parabola sulla difficoltà/impossibilità di giudicare. Perché un altro grande pregio del film è che riesce a farci capire e condividere le ragioni di tutti i personaggi. Che sono quasi sempre ragio-ni inconciliabili e incompatibili, ma comprensibili. Di chi è la colpa di quel che abbiamo visto succedere? Chi ha la responsabilità - sia pure preterintenzionale - dell’aborto involontario della donna che il marito aveva assunto come badante del vecchio padre dopo la separazione dalla moglie? Tutti e nessuno, perché nel film di Asghar Farhadi

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la colpa circola e si sposta, come in una ‘congiura degli innocenti’ in cui tutti sono convinti di saper bene chi è il colpevole, ma in un universo in cui le interpretazioni configgono, le versioni cozzano e la verità - se c’è - è sempre altrove. Costruito su alcune grandi ellissi narrative che sottraggono allo spettatore la visione diretta dei fatti più ‘controversi’, Una separazione è un film molto diverso da quelli a cui il cinema iraniano ci aveva abituato negli ultimi anni: non ha infatti né il realismo poetico di Abbas Kiarostami né la radicalità politica di Yafar Panahi (il cineasta imprigionato dal regime di Teheran).” Gianni Canova, Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2011

Lentissimo, noioso, poco appassionante, piagnucoloso dramma social-familiare iraniano. È la storia, sommersa da particolari irrilevanti, di una separazione coniugale di fatto, anche se legalmente respinta dal giudice. Qualche lampo poetico non salva il film vincitore dell’ultimo Orso d’oro a Berlino. A certificare l’abissale divario tra critica e pubblico.Massimo Bertarelli, Il Giornale, 21 ottobre 2011

il regista

Farhadi, Asghar. - Regista cinematografico iraniano (n. Ispahan 1972). For-matosi presso l’Istituto del Giovane Cinema Iraniano e l’Università di Teheran, già durante gli studi si è distinto alla regia dirigendo serie TV quali A tale of city. Negli anni Duemila ha esordito nel cinema, riscuotendo crescenti riconoscimenti con la sceneggiatura di Low heights (2001) e la regia dei successivi Dancing in the dust (2003, premio della critica al Festival di Mosca), Beautiful city (2004), Fireworks Wednesday (2006, vincitore del Festival internazionale di Locarno) e About Elly (2009, Orso d’argento al Festival di Berlino). Nel 2011 ha diretto A separation: Orso d’oro al Festival di Berlino (2011) e nel 2012 miglior film straniero ai BAFTA, César Awards, Golden Globe Awards, vincitore del Premio Oscar e miglior film straniero al David di Donatello; nel 2013 ha diretto Le passé in concorso al Festival di Cannes e nel 2016 Forushande, di cui è stato anche sceneggiatore e che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes e il premio Oscar come miglior film straniero.

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Un taxi si aggira per le vivaci e colorate strade di Teheran. Diversi passeggeri si alternano a bordo dell’auto e ognuno di loro, intervistato dall’autista che è il regista stesso, esprime candidamente il proprio punto di vista e racconta di sé. La fotocamera fissata sul cruscotto cattura così lo spirito della società iraniana raccontandolo in un viaggio divertente quanto drammatico...

TAXI TEHERANTaxi

sinossi

la CritiCa

Regia Jafar Panahi Anno 2015 Paese di produzione Iran Durata 82’ Soggetto Jafar Panahi Interpreti Jafar Panahif

E tre. Da quando il tribunale iraniano lo ha condannato a non fare il regista per almeno vent’anni, sono ormai tre i film che Jafar Panahi ha realizzato in clandestinità. La novità [...] è che stavolta il grande regista iraniano è uscito di casa. Anzi si è concesso un lungo giro nelle strade di Teheran alla guida di un taxi [...] . Ma il bello è che quest’im-presa apparentemente ‘tardo-neorealista’ - riprendere da un’auto in movimento tutto ciò che la censura di Stato impedisce di mostrare - diventa una riflessione vivacissima e traboccante di idee sui meccanismi della censura e i di-spositivi di messa in scena. Realizzata da un cineasta che è anche protagonista di questo docu-fiction così sapiente che tutto sembra incredibilmente vero ma tutto è probabilmente ricostruito con attori non professionisti (e senza nome nei titoli, per non metterli nei guai) e con palpitante spontaneità. Protagonista o meglio spettatore, proprio come noi, dello spettacolo incessante che si svolge dietro il parabrezza, nelle strade della capitale. Ma soprattutto dentro il taxi di Panahi, su cui salgono personaggi che potrebbero nutrire un romanzo anche se hanno solo poche scene a disposizione. [...] la figura più memorabile è ancora una volta quella di una ragazzina, nel film la (vera?) nipote del regista, che essendo una cineasta in erba permette al regista di porsi una serie di interrogativi morali elementari quanto inquietanti. Come si riconosce, ammesso che sia possibile, un ‘cattivo’? Come si ferma, e come si rappresenta il male? Perché certi film sono ‘indistribuibili’, come sentenzia la nipote saputella, pur mostrando ciò che si vede tutti i giorni? Nei battibecchi tra zio e nipote, e nelle scene che lei stessa riprende dal vero con la sua telecamerina, soffrendo perché sa che non le potrà mostrare (che attrice!), sta il cuore di questo film dall’andatura scanzonata che però non smette di porre domande scomode. E gela il sangue con un finale impassibile affidato a un piano sequenza degno di Antonioni. Anche in piena era digitale insomma si può fare un film che riflette sulle immagini (sul loro potere, e sul Potere in generale) fino a dare le vertigini, con mezzi semplicissimi. Malgrado ciò che il film denuncia, è una buona notizia.Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 21 agosto 2015

L’idea alla base di Taxi Teheran è di una semplicità sconcertante [...]. Che si tratti di un «film» e non di un «docu-mentario» lo veniamo a sapere quasi subito, quando un simpatico pusher di dvd riconosce il regista alla guida [...] e smaschera i due clienti che sono appena scesi - a Teheran il taxi è un’istituzione collettiva - come attori [...]. Ma anche lo spacciatore di film proibiti è un attore che recita una parte, anche se molto credibile e realistica, ed ecco che la distinzione film/documentario, vero/falso perde il suo significato e Taxi Teheran diventa un film che riflette su se stesso, sulla propria natura e su quella della messa in scena. Tutti i clienti/personaggi che chiedono un passag-gio al taxi guidato da Panahi interpretano un «ruolo», cioè recitano, ma nello stesso tempo danno vita a una delle tante facce dell’Iran, sono cioè realistici (se non proprio veri) e molto credibili. [...] Ne esce un film che interroga

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lo spettatore, per niente limitata dalla ristrettezza dei mezzi e dalle costrizioni della censura, e che non può che terminare sul nero di un futuro, dove la repressione è sempre in agguato [...] ma l’intelligenza e la passione sono sempre sveglissime.Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 25 agosto 2015

Torna in mente una questione abbastanza imbarazzante. Possibile che la censura imposta agli artisti dai regimi dittatoriali, come è ancora oggi quello di Teheran, risulti in una certa maniera - anche se è difficile ammetterlo, anzi quasi indicibile - stimolante, produttiva, feconda, addirittura portatrice di ispirazione? [...] Lo stesso Panahi, che nel film è proprio lui con la sua riconoscibile e riconosciuta identità, guida un’auto pubblica in giro per le con-gestionate strade e superstrade della capitale iraniana, facendo una quantità di incontri con gente comune (che lo riconosce e lo ammira) e gli racconta i fatti suoi, lo coinvolge, gli chiede consigli e pareri. Una girandola di piccola vera umanità che, con il sorriso anche quando la fatica di vivere è evidente, dà la misura piena di un paese e di un popolo stracarico non solo di storia e cultura ma anche di potenzialità che non aspettano altro che di potersi esprimere pienamente.Paolo D’Agostini, La Repubblica, 25 agosto 2015

[...] Panahi, affrontando con levità temi gravi, ottiene un risultato artistico autoriale di assoluta freschezza e auten-ticità. A turno diversi passeggeri salgono e scendono dalla vettura e dall’insieme dei loro discorsi emerge il quadro di un Paese con la sua varia umanità e le sue contraddizioni, ovvero quello che le autorità non vogliono venga raccontato. Il tutto si svolge con naturalezza, ma sornionamente Panahi orchestra le cose in modo che il film si strutturi come una commedia, anche divertente a dispetto dei risvolti amari; mentre di pari passo usa il cinema per far trapelare scomode, indicibili verità su un potere repressivo.Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa, 27 agosto 2015

[...] il film è mirabile metafora della prigionia artistico/intellettuale a cui è costretto Panahi dal 2010: da quell’abi-tacolo si ascolta, osserva ed elabora l’Iran di oggi, contraddittorio e martoriato, perennemente inquieto. In Taxi Teheran lontano dall’essere film pretestuoso e ‘a tema’, si avverte il talento puro e profetico del 55enne autore ira-niano, intatto nonostante la tragedia che sta vivendo. Un triplice salto visivo da un unico punto di vista, una poesia che accarezza l’Arte e la Libertà. [...] Da non perdere.Anna Maria Pasetti, Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2015

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Un regista che si deve inventare tassista per realizzare un film di nascosto. È l’iraniano Jafar Panahi, uno dei cineasti più importanti del suo Paese [...]. Dopo due opere filmate dentro casa, piene di invenzioni dettate dalle circostanze e dalle limitazioni, il regista ha scelto l’automobile, uno dei luoghi topici e più riconoscibili del cinema persiano contemporaneo, un piccolo spazio di libertà che diventa un micromondo. [...] La novità rispetto ai precedenti This Is Not a Film e Closed Curtain [...] è che Panahi è uscito dalla depressione nella quale la privazione della libertà l’aveva spinto e ritrova il sorriso aperto che lo contraddistingue. Attraverso i diversi passeggeri che salgono e scendono, racconta tra ironia e denuncia la situazione dell’Iran. [...] Un film ribelle, pieno di voglia di essere se stesso fin dal suo esistere, dove realtà e finzione si confondono e diventano arte e vita. Una pellicola anomala anche nell’essere priva di titoli di testa e di coda, in quanto senza permesso del ministero della Cultura. Il finale può lasciare sorpreso lo spettatore ma contiene il senso di un lavoro che cerca di osservare e capire, di intervenire nelle cose, di essere empatico e pure rabbioso, di essere insieme pessimista e ottimista, ma mai rassegnato, di stare sul chi va là, pronto a reagire e possibilmente a tirare fuori il meglio delle situazioni.Nicola Falcinella, L’Eco di Bergamo, 27 agosto 2015

Film iraniano, Orso d’oro a Berlino: ovvero bidone in arrivo. Infatti ci si annoia parecchio sull’auto del venerato regista Jafar Panahi, che s’improvvisa tassista per vedere l’effetto che fa. [...] Il regime di Teheran aveva imposto a Panahi di non girare più film per vent’anni. Troppo poco.Massimo Bertarelli, Il Giornale, 27 agosto 2015

Tra le ‘prime’ (dieci addirittura) di questa prima settimana di ritorno in città, una che val la pena di inseguire. Perché è un bel film (ha vinto a Berlino) perché sostenendolo si fa un’opera buona (è una pellicola «contro» filmata no-nostante mille divieti del regime iraniano) perché sostenendola si sostiene il regista, Jafar Panahi, autore civilmente benemerito come pochi altri.Giacomo Ferrari, Libero, 27 agosto 2015

Panahi [pà-], Jafar – Regista iraniano (n. Mianeh 1960). Autore di corto e mediometraggi per la televisione iraniana, è stato assistente del regista A. Kiārostamī. Tra le voci più interessanti e originali del nuovo cinema iraniano, ha puntato lo sguardo sul mondo dell’infanzia e sulla condizione femminile del suo Paese con toni ora drammatici ora lievi, attraverso un sapiente gio-co di intreccio tra cinema-verità e finzione. Un’accesa sensibilità ai temi di critica sociale ha avvicinato P. a posizioni di dissidenza contro il regime ira-niano, motivando nel marzo 2010 il suo arresto, che ha suscitato una dura condanna da parte della comunità internazionale. Della sua produzione oc-corre segnalare: Badkonak-e sefid (Il palloncino bianco, 1995; Caméra d’or a Cannes); Ayneh (Lo specchio, 1997; Pardo d’oro al Festival di Locarno); Dayereh (Il cerchio, 2000; Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia); Talaye sorkh (Oro rosso, 2003); Offside (2006; Gran Premio della giuria al Festival di Berlino); il documentario autobiografico In film nist (2010); This is not a film, 2011), spietata denuncia della condizione di perseguitato politico del regista, che non ha potuto presiedere alla presentazione della pellicola alla 68° edizione della Mostra del cinema di Venezia perché condannato nel dicembre del 2010 a sei anni di carcere e a venti anni di divieto di esercitare la professione e di viaggiare all’estero. Nel 2013 ha girato, in semiclan-destinità e in collaborazione con K. Partovi, la pellicola Parde, presentata in concorso al Festival di Berlino dello stesso anno sotto il titolo di Closed curtain e vincitrice dell’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura; del 2015 la regia del film Taxi, intenso ritratto di una Teheran animata dalla semplice e ineludibile verità del quotidiano, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino dello stesso anno.

il regista

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Indice

p. 3 Introduzione 3 Prima della rivoluzione 4 Sotto il velo della religione 4 La consacrazione degli Oscar 5 Filmografia minima consigliata 6 Pane e fiore 8 Il regista: Mohsen Makhmalbaf 9 Il sapore della ciliegia 12 Il regista: abbas Kiarostami 14 Una separazione 16 Il regista: Asghar Farhadi 17 Taxi Teheran 19 Il regista: Jafar Panahi