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Collana “Gli sfogliabili di Palazzo TursiL’Acqua del Bronzino Una storia genovese Genova e l’Ambiente

Acqua del Bronzino

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Collana “Gli sfogliabili di Palazzo Tursi” Genova e l’AmbienteL’Acqua del BronzinoUna storia genovese

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Collana “Gli sfogliabili di Palazzo Tursi”

L’Acqua del BronzinoUna storia genovese

Genova e l’Ambiente

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Collana “Gli sfogliabili di Palazzo Tursi”

L’Acqua del BronzinoUna storia genovese

Genova e l’Ambiente

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Prefazionedel Sindaco di Genova

Ormai è consapevolezza diffusa che l’acqua è il bene comune su cui l’umanità dovrà fare scelte cruciali nei prossimi decenni. Qualcuno dice che i veri conflitti del nostro mondo globalizzato saranno per l’acqua. Ci auguriamo che ciò non accada, ma già oggi la carenza di acqua e le logiche del profitto senza regole risultano tra le prime cause del sottosviluppo e della povertà.

Cosa possiamo fare da semplici cittadini?Intanto riconoscere il valore e l’importanza dell’elemento che ha dato origine a tutti

gli esseri viventi sulla Terra e non ritenerne scontata la disponibilità come rischiamo di fare nella quotidianità dei nostri gesti inconsapevoli e nei nostri comportamenti in-dividuali e collettivi. La disponibilità dell’acqua e la conoscenza delle tecniche efficaci per raccoglierla, trasportarla, conservarla e distribuirla hanno rappresentato, nel corso della storia, un elemento imprescindibile e discriminante nello sviluppo delle comu-nità. È così anche oggi. La comunità che saremo nel futuro dipenderà anche da come sapremo gestire, ammodernare e far evolvere i nostri presidi idrici.

Genova ha una storia esemplare in questo senso.Nella nostra città sono state realizzate infrastrutture straordinarie per rendere di-

sponibile l’acqua a fini domestici e commerciali, artigianali e industriali. Queste opere, alcune delle quali anche sotto il profilo estetico e monumentale possono essere con-siderate veri e propri capolavori, sono la più concreta testimonianza delle conoscenze che i genovesi hanno accumulato nei secoli. Un insieme di saperi e di esperienze che hanno consentito ai giorni nostri di realizzare una rete di captazione e distribuzione in grado di sopperire alle esigenze di una città che vuole svilupparsi garantendo disponi-bilità, qualità e riproducibilità di questa risorsa.

Il Professor Alessandro Leto descrive per noi questa storia con ricchezza docu-mentale e chiarezza espositiva perché ci si accorga che se nulla è più semplice del bere un bicchier d’acqua, come ci tramanda il detto popolare, nulla è più complicato del procurarsi un bicchier d’acqua.

A lui il mio ringraziamento per aver messo a disposizione della città generosamente il suo sapere ed il suo contagioso entusiasmo e averlo trasformato in un gesto di amore e fiducia per il nostro futuro.

Intelligenza e cuore.

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“L’Acqua del Bronzino” è il primo numero della Collana “Gli Sfogliabili di Palazzo Tursi” dedicati a Genova e l’ambiente.

Per un tema così importante abbiamo scelto un nuovo modo ecologico di fruizio-ne: la rete e non la carta.

Il libro in versione digitale sfogliabile è un vero libro fatto di bit e non di atomi, accessibile a tutti, che ognuno può studiare, integrare, arricchire a suo piacimento.

Democratico e risparmioso: perfetto per una città Smart.

Buona lettura.

Marta Vincenzi

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Premessa metodologicadell’autore

L’idea di una Collana di Sfogliabili nasce in seguito alla presa di coscienza dei tanti cambiamenti intervenuti in questi ultimi anni nel rapporto fra i cittadini, le isti-tuzioni e la cultura nei suoi nobili ruoli di mediazione e di ispirazione.

Preso atto quindi che finalmente si torna a valorizzare la funzione formativa del-la cultura, ci si trova però purtroppo di fronte ad una serie di costrizioni di natura economica dettate dalla recente crisi, che costringono le persone a rivedere le loro priorità.

È del tutto evidente perciò che l’acquisto di libri di qualsiasi genere, cominci a pesare sui budget familiari, nonostante il desiderio di sapere e di maturare nuove conoscenze conosca per fortuna una nuova intensa stagione.

Questo è il contesto in cui matura il Progetto Multimediale degli “Sfogliabili di Palazzo Tursi”, per consentire a chi lo desidera di approfondire temi di stretta attualità e di vicinanza con la propria vita quotidiana.

Non è un caso quindi che tale iniziativa nasca a Genova (nella speranza che possa essere di stimolo ad altre analoghe iniziative altrove), la città che per definizione ha fatto della parsimonia, della sobrietà e del risparmio motivo di vanto nel mondo.

I volumi di questa Collana sono infatti disponibili gratuitamente, basta scaricarli dal sito web del Comune di Genova con un semplice click: in questo modo poi ci si potrà relazionare sia passivamente come semplici lettori, che o dinamicamente inviando al Team di Gestione della Collana le proprie note ed osservazioni in meri-to, per tenere costantemente aggiornate le singole pubblicazioni, che saranno così tributarie dell’aiuto di un numero crescente di persone.

Due aspetti specifici caratterizzano gli “Sfogliabili di Palazzo Tursi”.Il primo è che tutti i Volumi sono dedicati al rapporto fra Genova, i genovesi e

l’ambiente, inteso qui nella sua accezione tradizionale come “ciò che circonda”.Il secondo è che, proprio per la sua stessa natura di pubblicazione aperta, i diritti

d’Autore saranno ceduti a titolo gratuito e diverranno perciò fruibili gratuitamente, contribuendo a realizzare una piattaforma culturale condivisa che incoraggia le mo-difiche, i suggerimenti e le integrazioni di tutti coloro, genovesi e non, che vorranno partecipare a questa nuova forma di “Agorà” del Terzo Millennio. Inoltre, e questo è un aspetto che rende per ora unico questo Progetto, al libro in formato e book viene associato un Cortometraggio dallo stesso titolo affinché, in omaggio al detto

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“un’immagine vale più di tante parole” la vista appagante delle bellezze, dei segreti di Genova e del suo intenso rapporto con l’Acqua, possano risultare ulteriormente d’aiuto in questo viaggio nella consapevolezza.

È una chiamata in causa che tocca tutti ed il successo di questa iniziativa si misu-rerà anche sulla mobilitazione e sulla partecipazione che sarà in grado di suscitare.

Un modo quindi per passare dal ruolo di Cittadini Passivi a quello, ben più impe-gnativo, ma straordinariamente appagante, di Cittadini Attivi.

Alessandro Leto

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Indice

Prefazione del Sindaco di GenovaPremessa metodolica dell’Autore1. Acqua ...............................................................................................................................112. Genova ............................................................................................................................213. Genova e l’acqua ............................................................................................................314. L’acqua a Genova ...........................................................................................................395. L’acqua del Bronzino ....................................................................................................53

Bibliografia ............................................................................................................................59Link suggeriti .........................................................................................................................61Ringraziamenti ......................................................................................................................63Biografia dell’autore .............................................................................................................65Team di revisione ed aggiornamento ................................................................................67

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H2O, ovvero la forza della semplicità: 2 atomi di idrogeno ed 1 di ossigeno com-binati fra loro per formare una molecola d’acqua, che è la fonte della vita sul nostro pianeta. La Terra si distingue dagli altri pianeti del sistema solare, proprio per la presenza di immense masse di Acqua che ricoprono circa due terzi della sua superfi-cie, al punto che le immagini satellitari lo indicano come il “Pianeta Azzurro”.

Vale la pena allora riassumere l’impor-tanza della sua presenza sul nostro pianeta, in Italia ed in Liguria, perché questa pre-ziosa risorsa viene condivisa da tutte le forme di vita.

L’Acqua copre per circa il 70% la su-

perficie della Terra, ma la maggior parte di essa (circa il 97%) è quella salata dei mari e degli oceani: solo il 3% residuo è Acqua Dolce, ma di questa la metà è in forma solida, contenuta nei ghiacciai eterni. È chiaro quindi come ci si trovi innanzi ad un “Bene Finito”, ad una risorsa che nel linguaggio degli economisti viene definita come una “Risorsa Esauribile”.

Non solo, per definizione non è distri-buita in maniera omogenea sulla terra: nel tempo, con l’alternarsi di periodi di siccità con periodi di vere e proprie inondazioni, e nello spazio, con l’alternanza di aree de-sertiche e di aree allagate.

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Acqua

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L’Uomo e L’AcquaÈ indubbio che il progresso sociale ed

il radicamento dei primi insediamenti pre-sero forma in prossimità di aree in cui l’ac-qua era presente in abbondanza.

Le prime civiltà non svilupparono a sufficienza le conoscenze necessarie a con-vogliare l’acqua lontano, e quindi furono soggette a successive fasi di migrazione ogni qualvolta i livelli delle acque dispo-nibili in precedenza calavano rendendone più difficile l’accesso diretto. Ma in seguito, l’uomo (Homo sapiens sapiens) riuscì in una delle conquiste più importanti in asso-luto del genere umano: il controllo dell’ac-qua e dei suoi relativi flussi.

Ogni civiltà si prodigò quindi nel dare risposte proprie alle diverse, quanto com-plesse problematiche legate ad inondazio-ni, siccità e trasporto delle acque.

Se dapprima si cominciò con l’utiliz-zo della acque “dolci” superficiali, ebbene man mano che le esigenze delle comunità si facevano più complesse, si cominciaro-no ad utilizzare anche le acque sotterranee.

Ed in questo contesto si è andata af-finando anche la capacità di approvvigio-narsi selettivamente solo di acqua potabile, oppure, quando in mancanza dei requisiti di idro-potabilità, di rendere utilizzabile quella di miglior qualità.

Il consolidamento delle civiltà cosidette stanziali arriva poi con l’agricoltura, la qua-le contribuisce in maniera determinante ad uno dei punti di svolta dell’evoluzione umana, proprio grazie alle maggiori cono-scenze acquisite nella gestione delle acque.

Quando l’Acqua è potabile?A scapito della propria salute, l’essere

umano ha sperimentato in prima persona il pericolo della non potabilità dell’acqua. Inizialmente ha proceduto per tentativi, comprendendo empiricamente quali fos-sero quelle da bere e quelle da scartare, magari anche solo per brevi periodi, quel-li necessari ad esempio allo smaltimento delle sostanze tossiche rilasciate dalla car-cassa di un animale morto poco sopra il punto di presa dell’acqua stessa. Poi ha iniziato ad utilizzare sistemi di depurazio-ne via via sempre più efficienti ed effica-ci, ed in tempi recenti (almeno a partire dall’ultimo secolo) ha stabilito una serie di norme condivise a livello internazionale, funzionali a garantire il consumo umano delle acque in termini di potabilità ed igie-ne.

Disporre di forme di organizzazio-ne razionale nella gestione delle acque, è stato da sempre uno degli incipit dei governanti, pressochè urbi et orbi, e con l’evoluzione stessa di queste forme di or-ganizzazione, si è progressivamente affi-nato anche il concetto di potabiltà.

Così, nel tempo, oltre ai tradizionali ed intuitivi requisiti atti a garantire potabile una determinata acqua, come ad esempio limpidezza, assenza di cattivo odore, di contaminazione da metalli noti (frequen-ti furono in antichità gli avvelenamenti da piombo) ed alghe, se ne associarono successivamente anche altri, progressiva-mente sempre più sofisticati.

A partire dal XVIII secolo si comin-ciano ad elaborare le prime basi scienti-fiche per la determinazione dei criteri di

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potabilità, che raggiungono agli inizi del Novecento una considerevole maturazio-ne, anche alla luce dei progressi relativi effettuati dalla chimica, dalla biologia (poi microbiologia) e dalla fisica.

In Italia, nello specifico, negli anni immediatamente successivi il termine del secondo conflitto mondiale si assiste ad una vera e propria trasformazione socio economica del paese, alla quale corri-sponde un incremento dell’attenzione su tutti i fattori di rischio, incluso ovviamen-te ogni riferimento al ruolo dell’acqua, sia negli agglomerati urbani sottoposti a forti stimoli di crescita per l’urbainizza-zione forzata registratasi in prossimità del boom industriale, che nelle aree a forte vocazione industriale. È del 1950 infatti, l’inchiesta sullo stato dell’approvvigiona-mento idrico del paese promossa dall’Al-to Commissario per l’Igiene e la Sanità Pubblica.

Oggi sono in vigore norme che con-feriscono al consumatore la certezza di poter bere acqua dichiarata potabile senza correre alcun rischio, in virtù di una serie di controlli capillari effettuti con caden-za costante e ravvicinata, che includono pure una crescente sensibilità per le sin-gole, specifiche caratteristiche organolet-tiche tipiche di ogni acqua.

Cenni chimici e biologiciL’insieme di tutti gli ambienti in cui a

vario titolo l’Acqua si trova presente nei differenti stati, si chiama “Idrosfera”. Ma si trova pure in quantità rilevanti nel sotto-suolo, ed anche se in proporzioni ridotte, nell’atmosfera, dove è chiamata a svolgere

una funzione fondamentale nel manteni-mento del clima che consente la vita nel nostro pianeta in tutte le sue forme.

Da essa dipendono tutti i tipi di vita, organici come inorganici e la sua straordi-naria capacità di solvente universale, con-sente di scogliere un numero di sostanze superiore a quello di qualsiasi altro liquido. Possiede un elevato calore specifico, ossia richiede molto tempo e temperature ele-vate prima di scaldarsi ed impiega molto tempo prima di disperdere il calore accu-mulato. È presente allo stato liquido, gas-soso e solido e le sue proprie-tà rimango-no inalterate lungo tutto il suo ciclo.

Ed è importante ricordare, che esiste comunque una perdita d’ acqua sul nostro pianeta, che potremmo definire fisiologi-ca, per effetto della sua naturale dispersio-ne nello spazio, in prossimità della parte superiore dell’atmosfera.

Una menzione particolare merita poi a questo riguardo, la vita letteralmente “magmatica” che scorre in profondità, ma non troppo, sotto di noi. A partire da 30 km circa sotto la superficie della crosta terrestre infatti, pur in presenza di tempe-rature oscillanti intorno ai 1.000° e di roc-ce fuse, permangono notevoli quantità di acqua imprigionate nei minerali che com-pongono il Mantello. Attraverso eruzioni vulcaniche, geyser e bocche idrotermali (o fumarole), l’acqua stessa viene succes-sivamente liberata sotto forma di vapore acqueo.

E’ curioso notare poi, che gli stessi vul-cani simboli del fuoco e per questo consi-derati antitetici all’acqua, in origine erano in gran parte sommersi, e contribuirono

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in maniera determinante alla trasforma-zione del pianeta, vista la natura sottoma-rina delle loro eruzioni.

L’origine dell’AcquaLa sua presenza sul nostro pianeta è di

duplice natura, esogena ed endogena.Nel primo caso si fa riferimento ai

Ghiacci Spaziali, ovvero combinazioni di ossigeno ed idrogeno presenti nel cosmo. A seguito di bombardamento meteorico poi, steroidi composti anche di ghiaccio spazia-le, importarono sulla terra al momento del loro impatto enormi masse di acqua.

Nel secondo caso invece, si fa riferimen-to al ruolo del “Brodo Primordiale” (sulla cui importanza non si nutrono più dubbi), nella nascita delle prime sostanze organiche, cioè quelle che fanno parte degli organismi viventi. Questa sostanza, nota anche come “Brodo Prebiotico”, era molto concentra-ta e si creò in seguito alla composizione dell’Atmosfera Primordiale, formatasi a sua volta quando in corrispondenza del conso-lidamento della cresta terrestre, attraverso fessure e spaccature, fuoriuscirono gas vo-latili generatisi nelle viscere della Terra che si miscelarono con le altre sostanze presenti che formavano una sorta di “mantello” sul nostro pianeta.

Nelle concentrazioni di Acqua primor-diali, le sostanze organiche si combinarono insieme con i sali inorganici al riparo dalle forti radiazioni ultraviolette che penetrava-no un’atmosfera non ancora spessa a suffi-cienza. Così, lentamente, attraverso nume-rosi passaggi, l’Acqua ha fatto da levatrice alla Vita, che si è articolata nella odierna, vasta serie di biomi presenti in natura.

La Memoria Biologica dell’Acqua e le sue straordinarie facoltà

Fra le sue proprietà più importanti, funzionali anche all’approfondimento di studi e ricerche molto diverse fra loro, vi è la capacità di conservare tracce eviden-ti del passato. Gli studi dello scienziato giapponese Masaru Emoto (1), hanno di-mostrato come i singoli cristalli di Acqua abbiano un loro passaporto biologico che consente di identificarne chiaramen-te la provenienza. L’acqua poi, dimostra di saper interagire agli stimoli esterni, rispondendo con armonia alle sollecita-zioni della musica classica ed in maniera scomposta alla cacofonia dei rumori di-sarmonici, come nel caso della musica heavy metal.

Studi approfonditi sono tuttora in corso per scoprire le informazioni che l’Acqua conserva in relazione alle sue prodigiose capacità ed ai messaggi che può veicolare, favorendo così nuove sti-molanti quanto utili scoperte.

E’ inoltre sorprendente notare come ogni molecola d’acqua sia legata a quel-la successiva da forze elettriche chiamate “legami a ponte di idrogeno”. Senza di essi, non avverrebbero i processi biochi-mici alla base della vita. Questa facoltà le consente di rompere i propri legami a ponte, ad ogni passaggio di forma da li-quida, a solida, a gassosa, mantenendo inalterate le proprietà caratteristiche e ri-lasciando energia.

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Aman Iman“Aman Iman”, ovvero “l’Acqua è vita”:

così dicono i Tuareg, i gelosi custodi delle secolari tradizioni del deserto del Sahara che da sempre vivono il loro rapporto con l’Acqua con la consapevolezza della sua in-tima relazione con la vita.

Oggi, finalmente, anche alle nostre la-titudini cominciamo a renderci conto della impellente necessità di considerare questo prezioso elemento nella pienezza del suo straordinario valore biologico.

Questa ragione ci porterà a maturare in un futuro che speriamo sia il più prossi-mo possibile, una nuova consapevolezza che ci renda coscienti della rarità e della difficoltà che ci deriva non solo dall’acces-so all’Acqua, ma anche dalla necessità di orientare verso un nuovo corso le politi-che di consumo che per troppo tempo, so-prattutto nei paesi più avanzati, sono state improntate ad un utilizzo avventato delle risorse idriche.

Troppo a lungo infatti, i nostri sistemi economici e le nostre consuetudini socia-li, hanno avvallato una spreco costante e continuo dell’Acqua, senza monitorare adeguatamente la dimensione del consu-mo che oggi si manifesta in tutta la sua potenziale ed incontrollabile pericolosità, quando associata alle prospettive di svi-luppo di un pianeta che nel 2030 si stima supererà gli 8 miliardi di abitanti.

Anche perché i cambiamenti antropici cui è sottoposto il ciclo dell’acqua, asso-ciati ai cambiamenti climatici, potrebbero causare danni permanenti a molte delle forme di vita sulla terra, almeno così come noi le abbiamo conosciute fino ad oggi.

La grande Sfidadel Consumo Consapevole

Quando in presenza di una “Risorsa Esauribile”, coloro che ne hanno bisogno per mantenersi in vita sono costretti ad assumere un atteggiamento responsabile: questo è il senso della pratica del Consu-mo Consapevole. Una regola di vita, col-lettiva ed individuale, capace di ispirare le nostre consuetudini sociali ed economi-che in funzione di un utilizzo dell’Acqua adeguato e proporzionato alla Capacità di Carico della Terra, che è un sistema chiuso e quindi presenta equilibri molto delicati che non possono essere compro-messi.

Ma i presupposti di questa consapevo-lezza si devono estendere pure al suo ruo-lo geopolitico ed alle conseguenze relative alle diverse contese fra stati e comunità, che proprio sull’accesso all’acqua contano per consolidare le rispettive prospettive di sviluppo.

E queste contese, è bene ricordarlo, sono presenti pressoché ovunque sul pia-neta: vi sono quelle americane fra USA e Messico, quelle asiatiche fra Pakistan ed India, quelle africane sul corso di Niger e Nilo, fino alle più tormentate come quel-la annosa, tristemente conosciuta anche come “Idro-Jihad” fra Israele, ANP (Au-torità Nazionale Palestinese) e Giordania.

La forza incessante e continua del messaggio veicolato dalle pratiche del “Consumo Consapevole”, è lì a dimostra-re come non sia più tempo di indugiare sui vecchi ritmi e sulle consuetudini su-perate espresse da modelli di crescita eco-

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nomica che stimavano come una prospet-tiva remota, l’esaurimento delle risorse idriche. Oggi sappiamo che non è così e che per garantire la continuità della nostre conquiste sociali e la prosperità delle no-stre stesse economie, abbiamo bisogno di correggere la rotta lungo la quale si sono impropriamente indirizzate le nostre vite nel corso degli ultimi decenni.

Questo processo richiederà tempo e si articolerà lungo percorsi a tratti difficili, ma non c’è alternativa: solo orientandoci verso nuove direttrici di sviluppo potre-mo garantire alle generazioni che verran-no ragionevoli possibilità di vivere il rap-porto con l’Acqua con attenzione, magari con parsimonia, ma non nei termini di emergenza quotidiana come invece sono costretti a fare già oggi gli oltre 2 miliar-di di persone che vivono con difficoltà estrema l’accesso all’Acqua.

Ma quanta acqua ci serve?I numeri in questo caso sono molto,

ma molto più eloquenti delle parole: per produrre infatti i seguenti beni ed alimenti, occorrono:• 1 automobile di media cilindrata 380.000 lt• 1 kg di riso non meno di 200 lt• 1 kg di carta 50 lt ca• 1 kg di carne bovina in California 500 lt ca• 1 kg di grano 500 lt ca

Negli ultimi anni si sono registrati incoraggianti successi nella diffusione di dati, fatti e circostanze che hanno agevo-lato la comprensione dei limiti raggiunti

dai sistemi correnti di crescita economi-ca, che sono solo parte della più alta ed importante dimensione dello Sviluppo Umano, non dimentichiamolo.

In questo, alcuni indici e parametri sono stati di particolare aiuto, come quel-lo della ”Impronta Ecologica”, che calco-la l’impatto che ogni prodotto costruito, od ogni servizio erogato genera sul no-stro pianeta.

La sfida futura è proprio quella di co-minciare ad associare al prezzo economi-co di ogni bene, anche il costo sociale ed ambientale necessario alla sua produzione.

“Gutta cava Lapidem”: è la stessa for-za inarrestabile dell’acqua, che ci ricorda come si possano modificare, goccia dopo goccia è il caso di dirlo, pur se nel lungo periodo, le nostre abitudini di consumo più radicate.

L’Idrografia in ItaliaLa nostra Penisola, che si estende in

lunghezza per un totale di circa 1.300 chilometri, è suddivisa in tre diverse aree omogenee: una continentale confinante a nord con la catena alpina, una peninsulare che si allunga nel Mediterraneo fino a circa 150 chilometri dalle coste dell’ Africa, ed infine una insulare che include Sardegna e Sicilia, le due maggiori isole del Mediter-raneo. I confini territoriali sono lunghi in tutto 1.800 km circa e contano su uno sviluppo costiero di 7.500 km. È chiaro quindi come questo scenario caratterizzi anche un diverso rapporto fra il territorio e l’Acqua, a seconda della diverse regioni.

I fiumi italiani, rispetto a quelli delle altre regioni europee, sono più brevi per

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la presenza degli Appennini che dividono le acque in due versanti opposti, ma sono numerosi. Ciò è dovuto alla relativa ab-bondanza delle piogge di cui fruisce l’Ita-lia in generale ed anche alla presenza della Catena Alpina che alimenta il complesso idrografico settentrionale, attraverso un generoso sistema di ghiacciai. È ovvio poi che la loro importanza in termini di portata e lunghezza, risenta anche delle caratteristiche del suolo, come pendenza e permeabilità.

Per evidenti ragioni i fiumi di mag-giore portata sono ubicati nella regione alpina e subalpina, mentre lungo il resto della penisola invece, in funzione della presenza dei rilievi appenninici e del con-temporaneo, diverso declivio dei due ver-santi, i corsi d’acqua sui versanti adriatico e jonico percorrono brevi valli trasversali

e, tranne il Reno, non superano mai i 200 km in lunghezza ed una decina appena superano i 100 km.

Sul versante tirrenico per contro, sono mediamente più lunghi perché i contraf-forti appenninici e la fascia sub-appenni-nica sono più ampi, e perché per il primo tratto seguono valli longitudinali corren-do poi trasversali rispetto all’asse della ca-tena, nella zona sub-appenninica.

L’Idrografia in LiguriaQuella ligure è una terra antica che,

soprattutto nella fascia rivierasca che va da Finale Ligure alla Francia, costitui-sce un’area di notevole interesse paleo-antropologico: vi sono state rinvenute infatti, tracce di insediamenti umani che risalgono al Paleolitico (grotta dei Balzi

Il Bisagno e il Ponte Carrega

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Rossi, zona delle Arene Candide, grotta della Basura a Toirano) e che, insieme con i ritrovamenti nel Finalese relativi all’era neolitica, offrono la più preziosa docu-mentazione di tutta l’Italia nordocciden-tale dell’epoca.

È una regione la nostra, il cui am-biente naturale presentava sin dall’origine una straordinaria varietà di specie vegeta-li, ed è tra le aree d’Italia che sono state maggiormente trasformate dall’uomo, in parte anche per la limitata estensione del territorio, che in nessun punto supera la distanza di 30 km dal mare. Le condizioni climatiche della regione poi, sono fuori dalla norma rispetto allo standard settentrionale, almeno nei 330 km del tratto costiero. Questo è dovuto al Mar Ligure, già molto profondo anche a breve distanza dal litorale, che eser-cita una costante azione mitigatrice sul clima, a sua volta protetto dai rilievi ap-penninici che formano una barriera fisica contro i freddi venti del nord.

La forma stessa di questa regione lun-ga e stretta non consente la formazione di veri e propri fiumi, si può parlare infatti solo di brevi torrenti, a volte impetuosi e capaci di pericolose esondazioni in occa-sione delle piene primaverili, o autunnali e quasi asciutti d’estate.

Di un certo rilievo sono però alcuni importanti affluenti e subaffluenti del Po, il cui corso interessa soprattutto al-tre regioni, come Bormida, affluente del Tanaro, Trebbia (115 km) e Scrivia (90 km).

Infine, presso Ventimiglia sfocia la

Roia (59 km), il cui corso però si svolge quasi interamente in Francia. Sufficiente è anche il flusso delle precipitazioni, che si at-testa su una media di oltre 1.000 mm all’an-no nel Ponente, contro un massimo di 800 mm a Levante.

Se, come abbiamo visto, i corsi d’ac-qua liguri sono soprattutto a carattere torrentizio, i laghi rappresentano invece un’importante risorsa per l’autosufficien-za idrica della regione e costituiscono an-che un importante habitat per le nume-rose biodiversità tipiche delle rispettive zone. Quelli più importanti sono: Bru-gneto, Busalletta, Giacopiane, Gorzente, Osiglia, delle Lame, Ortiglieto e della Val di Noci. Una menzione particolare la me-rita il Lago del Brugneto, non solo perché il più grande come superficie, ma anche perché è la più importante riserva idrica della città di Genova ed in parte anche di Piacenza.

Si tratta di un bacino artificiale la cui costruzione cominciò nel 1959 ad ope-ra dell’allora Azienda Municipalizzata Gas e Acqua di Genova, a sbarramento dell’omonimo torrente Brugneto, af-fluente del fiume Trebbia. Si trova a 777 metri di altitudine sul livello del mare, ha una lunghezza di 3 km ed una larghezza massima di circa 200 m, con una circon-ferenza totale di 13,5 km e può contare su una capienza massima di 25,13 milioni di metri cubi d’acqua.

Ed i genovesi lo considerano senza in-dugio la loro “Banca dell’Acqua”.

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(1) Masaru Emoto, Yokohama, Giappone, 1943, studioso dell’acqua

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Genova è più di una città, e potrebbe essere definita oggi, all’alba di una nuova era che speriamo sia quella della conci-liazione fra l’uomo e l’ambiente, in tanti modi diversi.

È una stratificazione di storie diffe-renti fuse in unicum, che da luogo ad un modo di essere nel mondo. E forse val la pena presentarla così a chi viene da fuori, ma anche di farla riscoprire a quei geno-vesi che sono soliti conoscerne solo una parte.

Allora, forse, può tornare utile guar-darla con occhi nuovi, indagandola maga-ri con lo sguardo dell’altro. Di chi capisce subito quindi che, in fin dei conti, la leg-genda legata al suo nome pare avere fon-damento: si narra infatti, che a fondarla fu Giano, il Dio bifronte, proprio per la ca-ratteristica di avere un lato che guarda al mare, ed uno che guarda ai monti. Anche se poi, in virtù di quella inquietudine che la caratterizza da sempre, nel corso dei se-coli ha cambiato il suo nome, da Genua come in età ligure e romana, a Ianua, cioè “porta” in epoca basso-medievale.

La città

È la sesta per numero di abitanti del pa-ese e la terza nel nord.

Portatrice disinvolta, ma consapevole, di una storia straordinaria scolpita da

grandi individualità che però hanno quasi sempre saputo servire anche gli interessi allargati della propria comunità, è stata de-scritta efficacemente innumerevoli volte.

Ma credo valga la pena citare le felici parole del Petrarca, che seppe cogliere e trasmettere concisamente il suo spirito:

“...Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre,superba per uomini e per mura,

il cui solo aspetto la indica signora del mare ...”

È unica, con quella sua peculiare capa-cità di rivelarsi gradualmente, prima allo sguardo, poi al tatto, sulla pelle ed infine all’olfatto. Apparentemente uguale ed im-mutabile, eppure sempre diversa, come le facce dei marittimi che sbarcano (tut-ti simili fra loro per professione, eppure ognuno così diverso dagli altri per origine e storie di vita) e poco dopo si reimbar-cano, sicuri che tanto, prima o poi, tor-neranno.

Chi viene da nord, dalla grande pianu-ra, quella che in inverno ti nasconde di-spettosa il sole sotto il suo manto grigio, non fa in tempo ad abituarsi alle curve tortuose dell’Appennino che già si trova in quota, scollina e d’improvviso vede il mare, spesso illuminato dal sole.

Genova

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Ma non è un mare qualsiasi quello ge-novese: è una vera e propria porta d’ac-qua, che introduce subito alla dimensione delle profondità del mondo marino, così come induce subito al confronto con altri mondi, quelli del sud, che si preannuncia-no anch’essi all’olfatto e, talvolta, anche alla vista e che hanno lasciato traccia di sé nell’intercalare di un dialetto inclusivo.

È un mare aperto che porta con se sbalzi d’umore e venti antichi che soffia-no da tutte le direzioni, a volte brezze, altre tempeste: così carichi di umanità, energia e misteri. Un mare maschio che sa farsi dolce, ma d’improvviso si rivela insidioso, così diverso da quello rassicu-rante e materno del Tirreno centrale e

dell’Adriatico. E lì subito, appare Genova, lunga,

stretta e schiva, ma al contempo così aristocraticamente essenziale, con i suoi colori vivaci e la sua sobria, sinuosa ele-ganza: come una bellezza mistica adagiata sulla riva di un invitante mare ammantato di eterno.

Chi viene dal mare invece, vede prima le vette dell’Appennino e poi scorge, sot-to la tutela minacciosa della costellazione degli antichi forti, quella città che tutti co-loro che vengono da sud ben conoscono come la porta d’Europa. Che tutti rispet-tano da secoli per quella sua caratteristica tutta genovese di comprendere al volo la natura di chi ne tocca il suolo.

Veduta del Giolfi (sec. XVIII)

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Chi la conosce bene poi, sa che pro-prio le montagne che si stagliano alle sue spalle, così inospitali, custodiscono quel-le risorse che, nel corso dei secoli, hanno consentito a Genova di trarre con con-tinuità sostentamento e risorse, in primis l’acqua ovviamente.

Oggi, è vero, Genova la puoi vedere anche dall’alto, ma nonostante il cambia-mento di prospettiva il suo fascino è pre-servato e rimane immutato, e cominci a percepirlo anche se voli fra le nuvole che, quando si diradano, ti offrono una lunga promenade di immagini che la abbrac-ciano, scorrendo dalla baia di Nervi, fin quasi a Voltri.

Spirito e carattereInsomma, giungere a Genova non

è cosa scontata, è sempre un’esperienza corporale e corposa, anche estetica, non ci giungi per caso e se proprio ci pas-si attraversandola in senso latitudinale, lo sguardo si volge a sud istintivamente, perché il richiamo dell’anima è intuitiva-mente sensibile al fascino della bellezza: e Genova, diciamolo, è tremendamente seducente.

Non solo e non tanto per il suo fa-scino intrinseco e per il suo ruolo nella storia, ma anche perché il capoluogo li-gure rappresenta al meglio l’espressione concreta dell’Homo Faber, colui che fa, che costruisce il suo futuro contribuen-

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do contestualmente a quello della sua comunità, progettandolo in maniera ardi-ta, trasformando faticosamente il sogno in realtà al prezzo di un duro lavoro. Sia esso il sottrarre ai ripidi pendii le terrazze (1) utili all’agricoltura, o sia il convogliare acque fresche, ma lontane fin giù in cen-tro a servire una città che nel corso dei secoli ha conosciuto una crescita, urbani-stica e demografica, a tratti anche tumul-tuosa, ovunque si trova traccia del lavoro dell’uomo che è stato capace di esprimere in comunità ciò che da solo non sarebbe mai riuscito a realizzare.

Sempre con la finalità di trasformare l’esistente in utili strumenti atti a rendere meno difficile la dura vita quotidiana dei genovesi in un contesto tendenzialmen-te inospitale. E con la consapevolezza che, quando le sfide si fanno epocali, si è capaci di una motivata e diffusa mobi-litazione funzionale al reperimento delle risorse, anche finanziarie, necessarie a do-tare la città delle infrastrutture di cui ha bisogno. A conforto di questa opinione, è sufficiente recuperare i dati tecnici e le previsioni di impegno finanziario relativi alla realizzazione, pur in epoche diverse, dei tre acquedotti storici genovesi, senza dimenticare ovviamente quello “Marino”, che si rivelò di fondamentale importanza per la pulizia, la disinfezione ed il decoro urbano della Superba.

Uno spirito indomito quindi, quel-lo genovese, che ha forgiato un’au-tentica capacità di coniugare il bello all’essenziale.

Un tratto questo, che rivediamo an-che nel rapporto fra i genovesi e l’acqua,

perché ogni singolo presidio idrico fun-zionale alla sua erogazione in città infat-ti, più che scenografico, doveva essere essenziale ed utile. Niente spazio ai fasti quindi, ma solo a quello che oggi non esi-tiamo a definire un vero e proprio stile di sobria eleganza che nel tempo è divenuta un’attitudine ed un biglietto da visita di Genova e dei genovesi nel mondo.

Una città solidale Ma sempre senza perdere quel tratto

caratteristico di coesione sociale, quell’at-titudine che oggi potremmo definire insieme popolare e popolana, che ha consentito ad esempio, contestualmente all’edificazione di sontuose quanto sicure residenze per le nobili famiglie a partire dal XVI secolo in poi, di non dimenticare le esigenze della popolazione più umile.

La distinzione in classi sociali fu infat-ti sempre presente nella storia genovese e trovò proprio nella distribuzione idri-ca una sua ulteriore esplicitazione, posto che solo ai privilegiati era concesso l’uso esclusivo di un proprio bronzino. Ma ciò non impedì la decisione di dotare i “quar-tieri” più semplici di lavatoi pubblici, in-torno ai quali si sono poi sviluppati feno-meni di urbanizzazione e di aggregazione sociale degni di nota. Addirittura, una fra le immagini più caratteristiche di Geno-va resta quella colta dall’obiettivo del fa-moso fotografo Alfred Noack (2) che nel 1880 circa immortalò i Truogoli di Santa Brigida, sovrastati da quella folta schiera di panni stesi ad asciugare che sembrava-no tante vele tese al vento fra i tetti dei caruggi della città antica.

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A riprova di ciò è bene ricordare lo sviluppo che in città ebbero le Diane, vere e proprie canalizzazioni presenti nelle abi-tazioni che raccoglievano l’acqua piovana dai tetti convogliandola in apposite cister-ne. Erano sì ad uso privato, ma il loro in-sieme formava una vera e propria sub rete idrica, di straordinaria utilità in occasione degli inevitabili, quanto ricorrenti perio-di di siccità che la città ha conosciuto nel corso della sua lunga storia. Ancora oggi, nelle campagne genovesi si possono am-mirare diane tuttora funzionanti.

Questo ha consentito a Genova di mostrarsi bella, anzi radiosa in tutto il suo splendore, grazie alla capacità di mante-nere quel verde lussureggiante che la con-traddistingueva arrivando dal mare.

Forse per impressionare i potenti con la magnificenza dei suoi giardini, così par-ticolari anche per via di quel loro tratto sofisticato ed esotico, ma di certo pure per appagare quel senso di fiera autono-mia che i genovesi seppero custodire ge-losamente nel loro animo, tramandandolo di generazione in generazione.

Sui mari del mondo(con l’acqua dell’Appennino)

Questa attenzione per l’acqua, come la radicata consapevolezza della sua vitale importanza, diverrà fin da subito anche tratto caratterizzante dei numerosi nego-ziati della lunga stagione delle conquiste della Superba nel Mediterraneo. Infatti, fra le prime imposizioni cui erano sogget-te le popolazioni appena conquistate dalla potente flotta genovese, vi era la disponi-bilità di una chiesa sì, ma anche di pozzi

idonei per capacità e durata a rifornire la sua flotta.

I comandanti genovesi, fin dai tem-pi della galere, erano ben consci infatti dell’importanza dello stivaggio di acqua potabile a bordo delle loro imbarcazio-ni, perché il rischio della disidratazione dell’equipaggio era non meno pericoloso di quello della battaglia con il nemico.

Non è un caso quindi che in tutte le città portuali, ieri come oggi e a Genova in primis, le prime fontane sorsero pro-prio in prossimità dei moli. La più antica fonte al molo nella Superba pare sia sta-ta la “Fontanella” (3). Ed è curioso notare come l’acqua dell’entroterra genovese, già in quei tempi remoti, fosse oggetto di un vero e proprio fenomeno di glo-balizzazione ante litteram perché, carica-ta inizialmente in grandi botti di legno e poi successivamente in apposite casse in metallo, proseguiva il suo viaggio lungo le tratte itineranti delle imbarcazioni, fino alle destinazioni più remote, allungando così a dismisura il tragitto dell’acqua della Superba.

Acque Bianche ed Acque Nere a Genova

Siamo così presi dall’elencare le tante diverse virtù dell’acqua ed a ma-gnificare le reti che la veicolano, che spesso tendiamo a dimenticare un’al-tra parte delle infrastrutture idriche, che forse rappresenta una delle più importanti conquiste del genere uma-no negli ultimi secoli.

Bianche sono le acque limpide,

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cristalline, potabili che presiedono alle tradizionali funzioni biologiche che scandiscono il ritmo delle nostre con-suetudini sociali.

Quando dilavano via, vengono convogliate in apposite reti che pre-vedono anche, nei casi più virtuosi, il loro riciclo. Tali reti, è ovvio, sono ben separate da quelle in cui scorrono le acque nere, perché in caso di confu-sione fra le due, le conseguenze sareb-bero molto gravi.

Questa attenta distinzione fra Ac-que Bianche e Nere era ben presente anche nell’antichità, basta pensare al prezioso contributo fornito a questo riguardo da Ippocrate (V sec. A.C.) (4), che rivelò grande interesse per l’am-biente quale causa di malattie ed infe-zioni, e che era solito dividere le acque in “curanti e malefiche”.

Giova ricordare fra l’altro, che tra i diversi utilizzi della Acque Bianche, spicca quello dell’acqua ad uso cura-tivo.

Alla civiltà romana si riconosce il merito di aver elevato il bagno al ran-go di cura, non solo estetica, per di-verse patologie.

Ancora oggi, con il termine SPA (Salus per Aqua, o Sanitas per Aquam), indichiamo centri specifici in cui la stessa acqua gioca un ruolo attivo e dinamico nel benessere delle persone.

Per amor di verità però, questi acronimi non sembrano direttamente

riconducibili all’epoca dei fasti della Roma Imperiale, ma sembrano piut-tosto essere una sorta di locuzione retrodatata.

Le condotte di scarico, un tempo con malcelato fastidio si chiamavano fogne, poi sono state definite condot-te per le “acque nere”, mentre oggi, in omaggio al lessico tecnicista in voga, vengono definite reti per la gestione delle acque reflue urbane.

Quest’ultima definizione, decisa-mente più chic delle precedenti, non cambia però la sostanza delle cose e soprattutto non modifica la sua fun-zione fondamentale per la società, che appare progressivamente sempre più evoluta e sana nella misura in cui riesce a separare con efficienza il cir-cuito delle acque che alimentano la vita (quelle bianche), da quelle che al-lontanano i nostri rifiuti, sociali e cor-porali (quelle nere).

Insomma, non si può parlare di in-frastrutture idrauliche, senza menzio-nare l’importanza capitale rappresen-tata dalla gestione delle acque reflue urbane.

Ne erano ben coscienti anche nell’antichità, basta pensare ai resti an-cora oggi ben visibili lasciatici in ere-dità dalla cultura greca.

Ma sono stati i romani i primi a dedicare crescente attenzione al pro-blema, edificando imponenti reti per il deflusso delle acque, come ad esem-

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pio la Cloaca Maxima risalente al VII secolo a.c., vero e proprio collettore fognario, utile per altro anche al risa-namento di alcune zone paludose in-torno a Roma.

Tale opera è ancora oggi inserita nel sistema fognario primario della Capitale, e questo da solo rende l’idea della straordinaria capacità progettua-le dei romani, che potevano contare su una fitta rete di cloache minori, a loro volta collegate con gabinetti pubblici.

Come altre infrastrutture di diver-so tipo, anche quelle idriche conobbe-ro un rapido declino contestualmente al collasso dell’Impero Romano d’Oc-cidente (476 d.c.) e pressoché lungo tutto il medioevo non si registraro-no miglioramenti degni di nota, con l’eccezione delle strutture di alcuni Monasteri (soprattutto di Monaci Ci-stercensi), che erano dotate di sistemi di riutilizzo della acque reflue a fini agricoli.

Solo col Rinascimento si inaugurò una nuova, felice stagione di ricostru-zione e/o di realizzazione ex novo di infrastrutture idriche, sia ad uso pota-bile che di smaltimento.

Risalgono poi rispettivamente al 1596 l’invenzione del “Water Closed” da parte di Sir John Harrington of Kelston, che funzionava con “accu-mulo di acqua dedicata”(5), ed al XVIII secolo l’introduzione dalla Cina della carta igienica.

Ecco quindi che elementi di novità, cominciarono ad affermarsi nell’ambi-to della progettazione delle nuove aree urbane, come della dotazione delle re-sidenze destinate all’alta società.

Ma in questo specifico ambito, il punto di svolta è rappresentato dall’av-vento della Rivoluzione Industriale, alla quale corrisponde un inur-bamento forzato che costringe i governanti a fare i conti con la necessità di trattare e ge-stire le acque reflue per evitare copiose epidemie, le cui cause erano finalmen-te divenute razionalmente comprensi-bili, grazie agli studi di Luis Pasteur il Padre della Microbiologia, che proprio riferendosi alla veicolazione da parte dell’acqua della maggior parte delle in-fezioni e delle patologie allora dilaganti, ebbe a coniare la famosa frase “bevia-mo il 90% delle nostre malattie”.

Contestualmente, si procedette ai primi trattamenti di potabilizzazione, attraverso sedimentazione e filtrazione a sabbia o a carboni attivi, e deodora-zione con cloro ed ozono.

Le successive conquiste tecnologi-che hanno poi consentito di raggiunge-re un livello omogeneo di trattamenti in molte parti del mondo, che sostanzial-mente si riferisce sempre alla modalità standard che prevede il deflusso della acque reflue da trattare lungo due linee parallele, una dedicata alla frazione li-quida e l’altra al trattamento dei fanghi.

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Man mano poi che le esigenze del-la società si affinavano ed aumentava l’attenzione per la tutela della salute, le normative cominciarono a recepire standard sempre più elevati e rispon-denti in termini di sicurezza per la collettività. Per questo ad esempio, le stesse acque che erano dichiarate po-tabili secondo i criteri dettati dalle leg-gi di vent’anni fa, oggi non lo sono più e quindi, in funzione della crescente selettività dei parametri adottati, nuovi e più idonei processi di potabilizzazio-ne si sono resi necessari.

A Genova in particolare, la situa-zione generale è decisamente in li-nea con i parametri più esigenti.

Come ricorda Giorgio Temporelli(6), “la gestione integrata del ciclo idrico prevede, oltre ai sistemi di captazione, potabilizzazione e trasporto delle ac-que da destinarsi al consumo umano, anche un adeguato sistema di raccol-ta e trattamento delle acque di rifiu-to. La peculiare conformazione geo-grafica di Genova ha reso necessaria la costruzione di un numero ele-vato di depuratori, ben otto impianti di dimensioni medio grandi che, da po-nente a levante, sono situati a: Voltri, Pegli, Sestri Ponente, Valpolcevera, Darsena, Punta Vagno/Volpara, Stur-la, Quinto.

Al fine di monitorare e prevede-re tutti i fenomeni che possono aver

influenza sulle portate agli impianti, l’intero sistema di rilancio dei liquami è posto sotto costante telecontrollo. La lunghezza della rete è pari a circa 1.200 chilometri, la maggior parte del-la quale è mista e funziona a gravità; tuttavia il superamento di alcuni disli-velli dovuti alla naturale conformazio-ne della città ha richiesto l’attivazione di cinquantacinque stazioni di solleva-mento munite di condotte in pressio-ne. Se oggi è consentita la balneazione nelle acque della maggior parte delle coste genovesi lo si deve soprattutto all’opera di questi impianti.”

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(1) Le terrazze sono esse stesse opere degne di particolare menzione, rappresentando al contem-po l’ingegno dei genovesi e la loro caparbietà nello strappare alla natura pendii anche molto scoscesi, altrimenti impossibili da utilizzare a fini economici. Non solo addolciscono i versanti appenninici fron-te mare, impedendo all’acqua che vi scorre sopra di fuggire via troppo velocemente prima di aver ottemperato alla sua funzione fondamentale di irri-gazione del terreno. Ma sono anche dotate di canali trasversali che raccolgono l’acqua in eccesso, con-vogliandola in apposite canalette o piccoli rivi, utili ad esempio quali abbeveratoi per gli animali. Ed infine, grazie alla loro struttura portante basata sui tradizionali muretti a secco, consentono alla stessa acqua di essere filtrata lungo la sua discesa a valle.

(2) August Alfred Noack (Dresda, 25 maggio 1833 - Genova, 21 novembre 1895) è stato uno dei pionieri della fotografia.

(3) Francesco Mantelli, Giorgio Temporelli, “L’Acqua nella Storia”, Franco Angeli Editore, Collana Fondazione AMGA, Milano, Italy, 2007

(4) Ippocrate, (Kos 460 a.C. circa – Larissa, 377 a.C.) è considerato il “padre” della medicina

(5) L.Cogorno, M.Mazzucchelli, M.E. Ruggiero “Genova e l’Acqua”, San Giorgio Editrice, Geno-va, 2004

(6) Giorgio Temporelli, laureato in fisica, divul-gatore scientifico, esperto in acque destinate all’ali-mentazione e trattamenti di potabilizzazione

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Per chi viene dal mare, Genova è l’approdo verso l’acqua dolce corrente; per chi viene da terra Genova è la porta sull’infinito del mare, sulla libertà.

Due modi di essere dell’acqua, due modi dell’uomo di vivere l’acqua.

È una città di frontiera quindi la Su-perba, luogo d’incontro lungo un esile striscia di terra, e di due declinazioni di-verse della presenza dell’acqua sulla terra.

Nel corso della sua lunga storia sui mari, le navi, genovesi e non, sapevano di poter contare su un sicuro approvvi-gionamento idrico, veicolato attraverso le varie “prese” dislocate in città, grazie ad un sistema razionale di infrastrutture per certi versi unico. E che ha accompagna-to la storia della città, scandendo con la sua evoluzione le fasi di espansione ter-ritoriale e di evoluzione socio-politica di una città che ha conservato, secolo dopo secolo, la sua peculiare capacità di farsi protagonista dei processi di cambiamento nella storia della Penisola, in Europa, nel Mediterraneo.

Crescita e modernizzazione delle città sono tratti distintivi dell’epoca contem-poranea nelle società industriali: il formi-dabile aumento dei consumi idrici ne è un inevitabile aspetto.

Ed è curioso come, giocando (col dovuto rispetto) con la storia, si trovino

tracce di questa dualità tutta genovese, anche nella competizione fra i due ac-quedotti storici della città, nel corso del primo Novecento, Nicolay e De Ferrari Galliera, senza dimenticare poi l’arrivo del terzo, cioè l’AMGA, che svolse con il tempo e con ammirevole lungimiranza infrastrutturale, un ruolo di crescente im-portanza.

La storia dell’acqua a Genova e dei genovesi con l’acqua è antica, e ricor-da anche la propensione di un popolo a saper progettare il futuro in maniera in-clusiva, con ruoli e responsabilità ben distribuiti, pur in una realtà sociale come quella genovese, che nel tempo non si è mai sottratta alla divisione per censo della propria popolazione. In altre parole, ap-pare chiaro come l’analisi della storia della gestione delle reti idriche genovesi abbia messo in evidenza una radicata capacità di partecipazione da parte di tutta la po-polazione, sia nelle fasi di progettazione, che di costruzione ed infine di gestione e manutenzione degli acquedotti e delle loro rispettive strutture di supporto ed alimentazione.

La stessa inevitabile conflittualità fra le esigenze di coloro che vivevano nelle aree interessate dal passaggio degli acquedot-ti, e quelle delle istituzioni cittadine che dovevano in qualche misura far valere il

Genova e l’acqua

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principio della ragion di stato su un bene vitale per la stessa città, ricorda come in passato vi sia stata una forte vocazione al dialogo. Da una parte capacità di ascolto, dall’altra disponibilità al sacrificio indivi-duale, spesso compensato, per il bene su-premo della comunità intesa però come somma dei singoli e dei loro diritti.

A questo proposito val la pena ricor-dare la controversia del 1822-1825 fra la gente di Struppa ed il Comune di Geno-va che, su progetto dell’architetto Carlo Barabino proponeva la costruzione di una derivazione per raccogliere le acque del Rio Torbido incanalandole in un nuo-vo, apposito condotto da costruire sulla sponda sinistra dell’omonima valle, per ragioni di stabilità. Gli abitanti di Strup-pa ritardarono con la loro opposizione l’avvio dei lavori, ma convennero suc-cessivamente con il Comune di Genova sull’importanza dell’opera, ed ottenne-ro in cambio l’apertura di due bronzini pubblici, presso i quali venne murata una targa quale memento della concessione effettuata.

Che si trattasse o meno di una preco-ce sindrome NIMBY (Not In My Back Yard), o di una contesa altrettanto ante litteram sulle “grandi opere”, ebbene le autorità di Genova e gli abitanti di Strup-pa, furono capaci di trovare un’equa, pa-cifica e condivisa soluzione al problema.

Inizialmente, come ovvio, l’acquedot-to funzionava per captazione delle acque cosiddette libere (erano ancora lontani i tempi degli invasi artificiali), e si scelse la Val Bisagno quale area di approvvigiona-mento, perché più vicina alla città rispetto

alla Val Polcevera. Anche se fin dall’inizio, ci si dovette confrontare con le rilevanti difficoltà di carattere morfologico di que-sta vallata, la quale cambia frequentemen-te il suo orientamento rispetto alla linea della costa seguita invece dalla città nel corso del suo sviluppo urbanistico.

Il rapporto di Genova con l’acqua è peculiare, basato com’è su una distribu-zione molto particolare, su unità di misu-re autoctone e su principi complessi, che val la pena di menzionare.

Le PreseLe prese, ovvero l’avvio del lungo

viaggio effettuato dall’acqua per giungere a destinazione in città, erano i punti, scelti con grande accuratezza, in cui i torrenti presentavano particolari caratteristiche di idoneità per l’afflusso e la continuità delle correnti. In prossimità dei punti scelti, si creava un piccolo sbarramento in pietra per agevolare la direzione dell’acqua il cui corso veniva deviato verso il cana-le dell’acquedotto, al quale accedeva at-traverso una sorta di filtro preliminare,

Una presa sul Torrente Bisagno

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spesso realizzato con una grata in ferro capace di trattenere i corpi estranei più voluminosi.

A quel punto l’acqua stessa veniva rac-colta in una vasca detta di “regolazione e compensazione” e di seguito immessa nella rete dell’acquedotto. Lungo il tra-gitto poi, un susseguirsi di filtri, garantiva una progressiva rimozione delle impurità.

Ovviamente, le modifiche del corso degli acquedotti genovesi hanno moltipli-cato le prese, anche se alcune di esse sono rimaste in servizio per secoli, pur modifi-cando radicalmente la propria fisionomia iniziale, come nel caso di una fra le più antiche di esse, quella sul fossato del San Pantaleo (1).

Ponti-Canale e Ponti-SifoneÈ di tutta evidenza come il tortuo-

so viaggio dell’acqua verso la città abbia costretto i costruttori degli acquedotti genovesi al ricorso a ponti, veri e propri ponti-canale, per superare declivi, valli e vallecole che ne impedivano con la loro stessa presenza lo scorrimento lineare. Se in epoca medievale il percorso delle reti idriche cercava di seguire armoniosamen-te la conformazione del territorio, limi-tandosi alla costruzione di piccole opere, col passare del tempo ed il miglioramento delle tecniche di ingegneria rese via via disponibili dal progresso, i ponti presero forme più imponenti proprio per accor-ciare il percorso verso la città. Risalgono addirittura al 1303 il Ponte Canale di San Pantaleo (alto 25 metri) ed al 1355 quello

Sifone Geirato

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di Sant’Antonino (alto ben 37 metri).Affascinante a questo riguardo è la

stratificazione delle esperienze costrutti-ve, ben visibile nel susseguirsi delle tecni-che di costruzione che si sono succedute per rendere utilizzabili queste strutture anche in funzione dell’adeguamento degli acquedotti che sono nati e si sono succes-sivamente integrati fra loro nel corso dei secoli (3).• Ma la natura scoscesa e ripida di certe valli dell’immediato entroterra genovese,

così come l’impellente necessità di trasfe-rire nuovi e crescenti volumi d’acqua da fonti di adduzione alternative, richiesero ai progettisti uno sforzo maggiore per trasportare l’acqua in città. Ed in prossi-mità di alcuni punti che potremmo defi-nire nevralgici, come la valle del Geirato e quella del Veilino nei pressi di Staglieno, per giungere dall’altra parte dell’avvalla-mento, era necessario ricorrere ai Ponti-

Sifone. Ancora oggi la tecnica tradizionale consiste nel raccogliere l’acqua in apposite vasche sulla parte alta della collina all’im-bocco dell’avvallamento da superare, con-vogliarla in tubi che corrono in discesa e, per effetto della stessa pressione dell’acqua lì contenuta, spingerla in salita sul versante opposto, fino ad un’altra vasca di conteni-mento. Una tecnica complessa, soprattutto nei secoli passati, che richiedeva la deter-minazione del diametro dei tubi, la costru-zione e l’approvvigionamento degli stessi,

nonché il punto preciso in cui posiziona-re la camera di carico e quella di arrivo, o di raccolta. Per venire a capo di una sfi-da del genere, ancora oggi complessa ed un tempo certamente ardita, è necessario impostare un’equazione idraulica basata sui dati del canale (sezione del condotto, sezione bagnata, pendenza) e dei sifoni stessi (diametro interno, lunghezza effetti-va, differenza di quota tra l’imbocco e lo

Ponte canale dell’acquedotto storico sul rio Torbido

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sbocco del tratto sifonato(3). Un banale er-rore di calcolo avrebbe compromesso la continuità del flusso di acqua, inficiando così l’intero tracciato della rete idrica. A questo proposito, val la pena ricordare un gustoso aneddoto che vide contrapposti il fisico genovese G.B. Baliano e Galileo Galilei. Il primo scrisse all’illustre scien-ziato toscano chie-dendogli consiglio per il perfezionamento di Sifone appena co-struito che non funzionava, ma non per-suaso dalla risposta proseguì per la sua strada.

È interessante notare poi, come, in aree del mondo dove l’uso dei metalli (soprattutto il piombo) non era disponi-bile (specialmente in Asia), la tecnica di costruzione dei Ponti Sifone ricorse a manufatti in pietra, utilizzando blocchi sapientemente lavorati.

Le Gallerie Il percorso che convogliava l’acqua

dalla Val Bisagno fino in città, era però soggetto a frane e smottamenti e quindi, per ovviare all’intorbidamento eccessivo

dell’acqua e soprattutto per evitare le in-terruzioni indotte dalla compromissione di alcune strutture sopraelevate, si deci-se di ricorrere alla costruzione di gallerie lungo le quali far transitare le condotte.

Le gallerie più importanti furono rea-lizzate a partire dagli inizi del XIX secolo, ed alcune di esse furono ragguardevoli per l’epoca: quella di Gambonia (1878) misurava ben 500 mt e fu usata durante il Secondo Conflitto Mondiale anche come rifugio anti-aero, quella di Ruinà (Rovina-ta) (1830) 148 mt, e quella di Gava (1848) 157 mt.

Bronzini, Troglietti e SpandentiIl bronzino discendeva dai brochii,

che avevano in precedenza la stessa fun-zione, era composto tradizionalmente da un tubo di ottone fuso del diametro 12,38 mm (circa la 20a parte del palmo genove-se), era impiombato nel marmo e veniva murato sulle pareti dei canali dell’acque-dotto. È stata per secoli l’unità di misu-ra dell’acqua a Genova e corrispondeva circa ad un oncia d’acqua. Ecco perché ancora oggi il suo nome viene spontane-amente associato dai genovesi all’eroga-zione dell’acqua pubblica. Con apposito Decreto del 1741, i bronzini furono nu-merati con una targa marmorea, a partire dalla presa di Schienadasino fino al porto.

• I bronzini sversavano ininterrotta-mente l’acqua in un troglietto, che è una vasca di 30-40 cm, profonda circa 40 cm, che ripartivano a loro volta l’acqua e da cui partivano piccoli canali, inizialmente in terracotta e poi in piombo, che scen-devano nelle strade di pertinenza fino ad

Sbocco di una Galleria

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appositi contenitori o, nel caso delle abi-tazioni dei signori, fino ai tetti dei palazzi, dove venivano raccolte in una altro tro-glietto.

• A loro volta i troglietti posti sui tet-ti della case erano dotati di un apposito spandente, ovverosia uno strumento uti-le, in caso di eccedenza nell’afflusso di acqua, a raccogliere l’acqua inutilizzata in idonee cisterne, a volte per riutilizzarla nei periodi di siccità, altre volte per riven-derla.

(1) F. Podestà, “L’Acquedotto di Genova”, Ge-nova, 1879

(2) L. Rosselli, “L’Acquedotto storico di “Geno-va”, Nuova Editrice Genovese, Genova, 2009 pag 54 nota 1 “La struttura più antica del Ponte sul Rio Figallo a Preli, è formata da un’arco in mattoni, a differenza dei ponti della stessa epoca che erano formati da un arco in pietra squadrata. Il suddetto arco in mattoni è sostenuto da un secondo arco in pietra ben visibile, costruito a seguito degli amplia-menti successivi.

(3) cfr “Verifiche idrauliche sull’Acquedotto sto-rico di Genova”, di M. Pittaluga e G. Temporelli, pag 564, nr. 12 Dicembre 2009 Rivista Tecnico Scientifica“Ingegneria Ambientale”, Cipa Editore, Milano

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L’acqua a Genova

Ma com’è arrivata l’acqua “dolce” a Genova?

Domanda intrigante questa, che sot-tende ad una risposta articolata, con la cronaca che lungo i secoli via via si fa sto-ria e parla da sè, raccontando gesta epiche di un’ingegneria ardita capace di proget-tare strutture che hanno conservato nei secoli la propria efficienza.

Una storia appassionante, ricca di aneddoti, di particolari curiosi, di sofisti-cate intuizioni e di duro lavoro, che alme-no ogni tanto dovrebbe stimolarci nella curiosità, per capire come sia possibile che ogni qualvolta apriamo il rubinetto ed approfittiamo dello scorrere dell’acqua che ne sgorga, questo “miracolo” si ripeta instancabilmente, senza tempo, per con-sentirci la nostra quotidiana simbiosi con la fonte della vita. Degli inizi di questa straordinaria esperienza storica, resta una testimonianza che fa capolino fra i rovi, lungo i corsi d’acqua e nei centri abitati, e che oggi è stata in parte recuperata, dan-do vita ad un percorso pedonale lungo circa 28 km, in uno scenario affascinante che porta i tratti superstiti di questa inge-gnosa via d’acqua che si è stratificata nel tempo, giù fin quasi al centro cittadino.

Si tratta dell’Acquedotto Storico: la sua presenza in città è già un racconto in sé e per sé, che evoca storie di impegno

civico, di grande lavoro e di ingegno, che hanno goduto dell’apporto di architetti e di ingegneri di grande valore, come ad esempio Claudio Storace, Matteo Vin-zoni, Carlo Barabino.

A volte, per avere conferma dell’uni-cità di questa storia bellissima, basta aggi-rarsi nel centro storico con il naso all’insù e riflettere sull’originaria utilità di quelle strutture antiche che nel corso dei seco-li hanno cambiato la loro funzione, ma tradiscono ancora il loro forte legame ancestrale con le vie d’acqua della città, per capire il ruolo straordinario giocato dall’Acquedotto genovese, nel corso della sua mutazione storica stratificata. I por-tici di Sottoripa sono costruiti sulle arca-te dell’acquedotto che portava acqua alle navi ed anche i palazzi di Piazza Corvetto in cui hanno sede rispettivamente l’am-ministrazione provinciale di Genova e la Prefettura, poi la Porta di Vacca, la Fon-tana di Piazza Sarzano, le Mura dell’Ac-quasola ed infine il Campo Pisano, sono pezzi storici di Genova realizzati su strut-ture delle condotte di un tempo.

Molti di noi conoscono solo somma-riamente la storia di Genova e della sua acqua, ed allora vale la pena riassumerla, sia pur se per sommi capi.

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La storia delle reti idriche genovesiGenova e l’acqua sono intimamente

legate, come capita di riscontrare in molte altre città certo, ma si può tranquillamen-te asserire che la presenza di una capillare rete idrica capace di accompagnare il suo sviluppo fin dai primordi, sia stato un elemento determinante nella costruzione della sua identità.

Un’identità certamente forgiata dalla tenacia e dalla caparbietà che risultarono evidenti per secoli, nel tentativo di equi-

librare la crescente richiesta di acqua dei genovesi, che per molto tempo hanno co-nosciuto lunghi periodi di siccità ed han-no avuto con l’acqua un rapporto a tratti penosamente e dolorosamente deficitario.

Un altro elemento che appare caratte-ristico delle reti idriche genovesi, è l’ideale continuità dei diversi tracciati seguiti dagli acquedotti che via via si sono assunti il compito di dissetare la città ed i bastimen-

ti che attraccavano ai suoi moli. Inizial-mente addirittura, lungo alcuni tratti si è proceduto ad una vera e propria stratifi-cazione delle strutture, molto interessan-te anche dal punto di vista storico e che lascia traccia di sé nella sovrapposizione dei canali e dei loro rispettivi sostegni, evidenziando l’evoluzione delle tecniche di costruzione e dei materiali.

L’Acquedotto RomanoDa un punto di vista propriamente

infrastrutturale la prima rete idrica di cui Genova si dotò, fu quella del cosiddetto Acquedotto Romano, la cui costruzione si fa comunemente risalire al 200 a.c. cir-ca. La sua realizzazione cominciò, pare, contestualmente alla ricostruzione del-la città dopo la distruzione operata dai cartaginesi ed era alimentato dalle allora copiose ed abbondanti acque del fiume Feritore, l’odierno Bisagno (1). Un corso

Acquedotto romano (rovine)

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d’acqua, allora ben più capace in termini di portata rispetto ai volumi odierni, che quindi garantiva flussi piuttosto regolari, testimoniati anche dalla presenza lungo il suo corso di alcuni mulini per la macina-zione dei cerali. Particolare interessante è la rispondenza di alcune tracce di calce e sabbia rinvenute in alcuni piloni ed archi, la cui origine anch’essa è stata fatta risalire al tempo dell’acquedotto romano, lungo il percorso che si suppone questa prima rete idrica abbia effettuato per collegare la città alla Val Bisagno.

Il tracciato fu scelto con cura, posto che proprio quella del Bisagno era la zona più piovosa vicino a Genova, e l’opera si rivelò davvero all’avanguardia con i suoi circa 11 km di lunghezza e la pendenza media calcolata approssimativamente in 3,3 mt al km. Il percorso rivela un’attenta pianificazione che ispira lo snodarsi della sua struttura lungo la valle, fino al mare, passando per Montesano, a monte per l’attuale Brignole, poi fino a Piccapietra per superare la collinetta di Sant’Andrea posta a circa 30 mt sul livello del mare, e da lì veicolare l’acqua in quella zona com-presa fra Sarzano e la Ripa (2).

Di questa straordinaria realizzazione restano tuttora tracce lungo la Val Bisa-gno ed in alcune aree metropolitane come in Via delle Ginestre, ed all’interno del Ci-mitero di Staglieno.

L’Acquedotto MedievaleNel corso dell’XI secolo, l’effetto con-

comitante di due fattori di fondamentale importanza, portò all’abbandono della rete idrica realizzata dai romani.

L’espandersi della città verso le alture prospicenti l’area portuale e la necessità di dissetare una popolazione in crescita, portarono così alla costruzione di brevi tracciati di raccordo, che trovarono una soluzione integrata nella realizzazione di un nuovo acquedotto, la cui data di edifi-cazione è incerta.

Alcuni la fanno risalire intorno al 1071, altri la posticipano fino al 1257, attribuen-done la costruzione all’Architetto Marino Boccanegra (3).

Fra i documenti certi, possiamo citare testimonianze scritte che confermano la distribuzione dell’acqua in prossimità di Porta dei Vacca, passando appunto da Ca-stelletto.

Di certo il cambiamento fu sostanziale rispetto a quello precedente, se si pensa che il nuovo tracciato era in grado di raggiun-gere il colle di Castelletto, in corrisponden-za del quale furono rinvenuto infatti anche i mulini più antichi di Genova.

La nuova rete idrica si alimentava da diverse prese. Inizialmente da quelle del Rio Pantaleo e del Rio Casamavari, poi fu prolungata fino al Veilino intorno al XIII secolo, e poi oltre, fino a raggiungere le acque del Rio Campobinello e del Rio Poggetti. Nel corso del XVI secolo poi si registrarono importanti eventi per l’Ac-quedotto genovese: le sue prese giunsero fino a Trensasco, e la portata della rete fu incrementata, grazie all’aumento di sezio-

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ne del canale. Furono realizzati inoltre i ponti-canale di San Pantaleo nel 1303 e di Sant’Antonino nel 1355. In questo modo si poté soddisfare il crescente fabbisogno idrico di una città che aveva bisogno di sostenere l’impatto di una popolazione in crescita, insieme con le ambizioni legate ad un aumento effettivo dell’influenza geno-vese sui mari.

In questo contesto, proprio per sgan-ciare la gestione delle reti idriche cittadine dal contesto ordinario che ormai risultava inidoneo in termini di garanzie, con pron-tezza di intervento e di efficienza, nel 1491 tramite apposito decreto i “Padri del Co-mune” cui era demandata la responsabilità della gestione degli interessi collettivi della comunità, crearono la figura del Magistra-to per le Acque al quale veniva demandata ogni incombenza gestionale relativa all’Ac-quedotto (4).

L’Acquedotto Seicentesco In epoca successiva si rese necessario

un ulteriore incremento della distribuzio-ne di acqua, posto che la penuria di questa risorsa in città continuava e che questo la rendeva vulnerabile, non solo agli assedi dall’esterno, ma anche per effetto delle ri-volte interne minacciate da un popolazio-ne che viveva in case senza cisterne e che quindi era soggetta ai capricci metereolo-gici. La Signoria diede pertanto corpo al progetto a suo tempo presentato dall’Ar-chitetto Giovanni Aicardo.

I lavori cominciarono nel 1623 e furo-no sostenuti anche dai “Padri della Patria”, nella loro funzione di tutori dell’interesse pubblico, poiché si verificarono diversi casi

di sabotaggio da parte delle popolazioni interessate dal nuovo tracciato.

Il nuovo percorso da Trensasco a Ca-vassolo, fu completato nel 1636 e l’ultimo tratto fino a Schienadasino nel 1639, dan-do luogo ad un tracciato di ben 14,892 km(5). La sezione del canale era certamen-te di grande portata, potendo contare su 1 mt di profondità e ben 70 cm circa di larghezza. Furono poi intrapresi lavori di ristrutturazione della parte precedente (Cinquecentesca) dell’Acquedotto, che fu dotata di canali della stessa portata.

Le prese poi erano poste alla confluen-za del Lentro e del Bisagno, ed avevano la peculiarità di raccogliere l’acqua da en-trambi. A Trensasco addirittura, il nuovo Acquedotto si collegò a quello Medieva-le, posizionato più in basso, grazie ad un complesso sistema di mulini.

La realizzazione di quest’opera fu estremamente costosa e determinò l’emis-sione di nuove tasse, sia sui bronzini, che sui mulini. E segna anche il passaggio del-la gestione nelle mani di due Custodi che vengono affiancati da un Commissario, passaggio che avviene grazie ad apposito Decreto datato 8 Aprile 1639.

Per amor di verità bisogna ricordare che il contenzioso nato in occasione di questa realizzazione infrastrutturale e che vedeva contrapposti i proprietari di ben 43 mulini posizionati lungo il corso del Bisagno a valle delle nuove prese, contro le autorità genovesi, portò ad un parzia-le risarcimento del danno: testimonianza questa, di una complessità relazionale già presente all’epoca in materia di conflitto fra interessi pubblici e privati.

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L’Acquedotto Nicolay Questa fu, fra le fonti di approvvi-

gionamento idrico della città di Genova, quella che per prima venne progettata in sinergia con alcune di quelle che oggi definiremmo altre “grandi opere”, costi-tuendo così prima di tutto un esempio di felice lungimiranza progettuale.

La “Compagnia del Nuovo Acque-dotto” si costituì in data 14 giugno 1853 con atto del regio Notaio Michelangelo Cambiaso ed ebbe per oggetto “la raccol-ta delle acque di sorgiva concorrenti nella

grande galleria dei Giovi e la loro condu-zione in Genova”.

Tale coraggiosa iniziativa imprendito-riale prendeva corpo in risposta alla ne-cessità ormai impellente, di dotare la città di un nuovo acquedotto per far fronte, non solo al fabbisogno in aumento di una popolazione in crescita costante, ma pure

alle necessità poste in essere dall’affina-mento delle nuove esigenze igieniche. E, non dimentichiamolo, anche in risposta alle esigenze di natura tecnica ed indu-striale, come ad esempio l’alimentazione delle caldaie delle locomotive a vapore.

Questo fu solo l’atto formale, perché l’avvio dell’operazione industriale av-venne un anno dopo quando il governo piemontese, presieduto da Cavour (che nutriva una mai celata simpatia per il ca-poluogo ligure, pare originata da un suo amore di gioventù sbocciato con una gio-

vane nobildonna quando lui era di stanza a Genova come ufficiale dell’esercito), ratificò con proprio decreto le conven-zioni che concedevano al Cavalier Paolo Antonio Nicolay di derivare le acque pro-venienti dal torrente Scrivia utilizzando la galleria ferroviaria dei Giovi, allora in cor-so di costruzione, fronteggiando così per

Acquedotto Nicolay

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questo, anche una certa rumorosa fronda parlamentare, che si dichiarava contraria al progetto.

Sono anni di tumultuoso sviluppo industriale quelli. Sia nel Regno di Pie-monte e Sardegna, di cui Genova fa parte dopo il Congresso di Vienna del 1815, che nel resto d’Europa. I primi decenni di attività dell’acquedotto sono caratterizzati da molteplici difficoltà: fi-nanziarie, per la mole degli investimenti necessari per posare le condotte che dalla Val Polcevera devono arrivare nel centro di Genova; tecniche, perché occorre ac-quistare dall’estero le grandi condotte in ghisa che nessuno produce localmente; economiche, poiché le opere realizzate in tempi considerevolmente lunghi, tardano a dare il ritorno economico che gli azio-nisti si erano ripromessi. Ma pian piano l’acquedotto si espande dai comuni del-la Val Polcevera fino al centro storico ed alla circonvallazione a monte, che proprio in quegli anni si sviluppa per offrire alla nuova borghesia abitazioni confacenti ai tempi. La Società Anonima si è anche svinco-lata dalla dipendenza di derivare l’acqua tramite la galleria ferroviaria, costruendo una nuova galleria attraverso i Giovi. Du-rante gli anni della Prima guerra mondia-le, a causa anche del diffondersi di gravi malattie infettive (la terribile influenza spagnola, ndr) inizia la costruzione di un impianto di filtrazione e trattamento delle acque provenienti dallo Scrivia.

L’impianto è costruito nel comune di Mignanego, ed è realizzato secondo i più moderni criteri di potabilizzazione allora

in auge. Tra questi ricordiamo un proget-to, mai divenuto realtà, di un impianto di disinfezione a raggi ultravioletti.

Gli anni del secondo dopoguerra vedo-no la società impegnata non solo nell’opera di ricostruzione degli impianti danneggiati dai bombardamenti, ma anche nell’ammo-dernamento di tutte le linee e condotte principali.

Il decennio 1970-1980 vede la realiz-zazione di nuove grandi opere: la diga sul torrente Busalletta (Lago della Busallet-ta), che ha un invaso di 4.500.000 m3 e un nuovo impianto di filtrazione a Mignane-go, in sostituzione del precedente.

L’Acquedotto Nicolay, proprio perché la sua principale fonte di derivazione era il torrente Scrivia, andava soggetto, du-rante i periodi estivi nei quali la siccità si presentava particolarmente prolungata, alla riduzione programmata della propria erogazione, con penosi, parziali razio-namenti nella distribuzione. Alternando l’uso delle due fonti, torrente e diga, a se-conda della situazione idrica, si raggiun-se un equilibrio di risorse che permise di fronteggiare anche i periodi di maggior difficoltà, come nel 1990, quando a Ge-nova, solo gli utenti del Acquedotto Ni-colay non furono soggetti al razionamen-to idrico.

L’acquedotto De Ferrari Galliera

Sul finire del XIX secolo Genova vis-se un periodo di notevole crescita, sia sot-to il profilo economico per la progressiva affermazione delle proprie industrie ed il conseguente incremento delle attività marittime per l’importazione delle mate-

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rie prime necessarie e l’esportazione dei prodotti finiti, che demografico, per ef-fetto di una forte urbanizzazione indotta anche dalla sua affermazione come città di punta a livello nazionale dell’economia e dei traffici.

È in questo contesto che si prende

atto della crescente difficoltà in termini di approvvigionamento idrico prospettico per il futuro della città, e che contempora-neamente alcuni genovesi cominciano ad interrogarsi sulla natura degli interventi infrastrutturali da realizzare.

In questo ambito, di fronte alla ricor-rente sfida della soddisfazione di nuove esigenze della città, pur se sintetiche e concise, le parole di Niccolò Bruno sul

potenziale deficit idrico della città risulta-no esaustive:

“...prima che una nuova massa d’ac-qua fosse importata a Genova, pel suo approvvigionamento non poteasi calcola-re che su d’una quantità di m.c. 1100 per ora forniti per m.c. 650 dall’Acquedotto Civico e per m.c. 450 dall’Acquedotto della Compagnia Nicolay”(6).

Passando dalle parole ai fatti, lo stesso Ing. Niccolò Bruno, suo fratello Salvato-re anch’egli ingegnere ed il loro collega Stefano Grillo, costituirono il 12 Febbra-io 1880 la società Anonima Acquedot-to De Ferrari Galliera (chiamata così in omaggio alla munificenza di quell’antica famiglia genovese), con l’intento di supe-rare la fase di pericolosa staticità nel re-

Acquedotto De Ferrari Galliera

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perimento di nuove risorse idriche per la Superba.

L’elemento caratteristico di questa ini-ziativa imprenditoriale si riscontrava nel tentativo di superare il principio dell’ap-provvigionamento da acque correnti di superficie, immaginando la costruzione di un grande serbatoio artificiale che potes-se insieme, garantire continuità nei flussi indipendentemente dall’andamento me-teorologico, e fornire energia alle nascenti imprese della val Polcevera.

Un impresa coraggiosa nel concetto e, per i mezzi di allora, quasi titanica nella sua realizzazione pratica.

La scelta del luogo in cui costruire l’invaso cadde sul versante settentrionale dell’Appennino, a circa 680 metri sul livel-lo del mare, presso le sorgenti del torrente Gorzente.

Dal punto di vista tecnico, si poteva garantire un invaso artificiale della capa-cità di 2.400.000 mc circa, capace di ero-gare costantemente (e questo era l’impor-tante) circa 250 litri d’acqua al secondo veicolata attraverso una galleria che col-legasse il versante appenninico padano a quello tirreno, ed infine una produzione idro-elettrica derivante dallo sfruttamen-to di un salto di circa 350 metri in cor-rispondenza di un apposito serbatoio di regolazione, trasportata da una rete di fili elettrici metallici posti a trenta metri di al-tezza su appositi tralicci. Sorsero così tre centrali idro-elettriche dedicate ad altret-tanti grandi fisici italiani, Galvani, Volta e Pacinotti. Questo “avveniristico” utilizzo dell’energia rappresentava in sé un prima-to, certamente a livello nazionale e forse

anche mondiale, perché un solo impianto provvedeva all’erogazione di forza motri-ce ed all’illuminazione, portando l’energia a distanza considerevole ed usando solo un corso d’acqua grazie ad apposite va-sche di regolazione.

L’intera opera costò una cifra immensa per l’epoca, per altro in larga parte corri-sposta da investitori privati: oltre 4 milioni di lire, lievitati poi fino ad oltre 12 in cor-rispondenza dell’aumento della capacità degli impianti che furono sostanzialmente triplicati (tre dighe e tre invasi), al quale si aggiunse poi anche il lago della Lavagnina con una capacità di 1.092.000 mc..

Quest’ultimo impianto era finalizzato sostanzialmente alla produzione di energia elettrica destinata agli abitanti del versante padano della vallata, a titolo di compensa-zione per i mancati flussi di acqua devia-ti in favore di Genova. Si garantì quindi quel necessario e sostanziale supporto in termini di soddisfazione del fabbisogno idrico ai citta-dini genovesi ed alle indu-strie della città, che altrimenti non sarebbe stato possibile.

A fronte dell’innalzamento delle di-ghe e dell’utilizzazione di nuovi alvei poi, corrispose pure l’allargamento dei servizi erogati in altre parti della città, soprattut-to nel Levante e poi addirittura da Nervi fino a Pegli, con una rete che già nel 1927 poteva contare su ben 273 chilometri di lunghezza.

Passate le difficoltà della guerra, negli anni cinquanta cominciò una progressi-va sinergia industriale e distributiva con il concorrente di sempre, l’Acquedotto Ni-colay.

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L’Acquedotto marinoNel 1922, sull’esempio di alcuni pre-

cedenti come quelli di Plymouth, East-bourne e La Havre, il Comune di Genova autorizzò la costruzione di una rete idrica con acqua di mare per l’espletamento di alcuni servizi cittadini di base, sia igienici che tecnici.

Ci si basò sul precedente di Carignano, che da tempo utilizzava l’acqua di mare tratta da un piccola presa posta in corri-spondenza di Via Corsica, per lavare le strade.

Ecco quindi che anche Genova pote-va ora contare sulle proprietà dell’acqua di mare per disinfettare le latrine, pulire le strade ed alimentare le fontane. Fu di fon-damentale importanza anche per miglio-rare le prestazioni dell’impianto fognario della città, che ai tempi era unico e pre-vedeva una sola rete per lo smaltimento delle acque piovane e per lo smaltimento del liquame: nei periodi di siccità infatti, il minor afflusso di acqua piovana diminui-va la velocità di deflusso dei liquami cau-sando incrostazioni ed odori insopporta-bili. Il raccordo con l’acquedotto marino

ovviò a questi inconvenienti. La città fu così divisa in tre aree distinte est, centro ed ovest ognuna dotata di un proprio ser-batoio in cemento ed apposite pompe.

Ogni presa fu posta rispettivamente in Albaro, presso il Molo Giano ed in Via degli Armeni. Anche questo fu un prima-to, perché Genova fu la prima città italia-na a dotarsi di un sistema idrico di acqua non potabile, per l’espletamento dei ser-vizi pubblici di igiene e di decoro urbano.

La progressiva diversificazione dell’uti-lizzo di questa rete andò di pari passo con l’evoluzione dei tempi: ci si alimentò un impianto termale nel 1928, l’ospedale San Martino per ragioni terapeutiche nel 1931, vi si allacciarono alcune famiglie durante la guerra per cucinare, giunse nelle cucine della Caritas per preparare la minestra dei poveri nel 1945, fu utilizzato dalla Net-tezza Urbana per la pulizia delle strade (e per prevenire la formazione di ghiaccio) e fu usato nel diurno di Piazza De Ferrari a partire dal 1966.

Insomma, a parte il fatto che buona parte delle tubature era costruita in Eter-nit (ma a quei tempi non se conoscevano i dannosi effetti collaterali), fu certamen-te molto utile ai genovesi, almeno fino al suo progressivo abbandono collocato fra gli anni ’60 e ’70, e motivato, fra l’altro, dal cambiamento della mobilità, dei costumi sociali ed urbani e dalla disponibilità di nuova acqua dolce generata soprattutto dagli invasi del Brugneto e della Busalletta.

Chiusino dell’acquedotto marino

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L’AMGANella sua funzione di operatore idri-

co, AMGA cominciò ad operare nel 1935, prima infatti si occupava solo del-la distribuzione del gas in città. A par-tire da quella data ricevette in gestione dall’allora Amministrazione comunale gli impianti dell’Acquedotto della Val Noci e, nel corso dei decenni successivi, anche di altri acquedotti minori.

A partire dall’inizio del Novecento, la crescita demografica della città aveva prodotto l’incremento di nuove costru-zioni residenziali sulle alture della cit-tà, rendendo ancora più complessa dal punto di vista tecnico, la distribuzione dell’acqua.

Si individuò quindi nella Valle del torrente Noci, l’area di approvvigiona-mento funzionale alla soddisfazione del crescente fabbisogno idrico dei genove-si, grazie soprattutto all’altitudine alla quale fu costruita la diga omonima, ben 415 mt di altezza sul livello del mare.

Da tale “quota”, si potevano agevol-mente alimentare per gravità i quartieri “alti” della città, senza dover ricorrere a costosi sistemi di innalzamento.

E così l’8 Maggio 1922, il Consi-glio Comunale deliberò la concessione all’AMGA, insieme alle necessarie au-torizzazioni per le opere infrastruttura-li necessarie, il nulla osta per la realiz-zazione del progetto. Si procedette alla costruzione di una diga di sbarramento per realizzare un bacino artificiale di rac-colta, due gallerie-canale per il trasporto dell’acqua fino agli impianti di filtrazione e disinfezione e da qui, a circa 415 mt di altezza, si fece l’impianto di distribu-zione.

Fu poi aggiunta una piccola centrale idroelettrica che sfruttava un salto crea-to appositamente alla congiunzione fra le reti di distribuzione.

Nel 1930 la portata era di 265 litri al secondo e, intuizione innovativa, l’acqua veniva filtrata con sistemi a sabbia som-mersa e depurata prima del suo arrivo nei centri abitati serviti, in modo da po-ter disporre successivamente di eventuali diramazioni senza dover costruire nuove stazioni di depurazione. Nelle abitazioni servite da questa nuova rete si introdusse il sistema di conteggio tariffario a conta-tore, al posto del tradizionale “a bocca tassata”, ed il primo tratto servito (10,7 km di lunghezza) andava da Oregina a Piazza Manin.

La svolta, in termini di capacità e portata, oltreché di impegno finanziario ed infrastrutturale, avvenne negli anni ’50, con l’ormai acquisita consapevolez-za della ricorrente, sopraggiunta insuf-ficienza delle reti disponibili nel soddi-sfare i nuovi accresciuti fabbisogni idrici, anche industriali, della città.

Chiusino Amga

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Si decise di costruire un nuovo gran-de invaso, l’impianto del Brugneto i cui lavori cominciarono nel 1959 e termina-rono nel 1962. Con una capacità di 25 milioni di m3, grazie ad una diga alta 87 mt, nacque così il lago del Brugneto che ancora oggi è la più grande riserva della regione.

Prima di raggiungere l’impianto di potabilizzazione di Prato, l’acqua veniva incanalata in una condotta forzata ed in-viata ad una turbina capace di generare energia elettrica per 35 milioni di kWH/anno.

Sotto la gestione dell’AMGA, passò anche l’Acquedotto Genovese, inau-gurato nel 1913 ed anch’esso capace di distinguersi in termini di innovazione posto che, a differenza delle altre reti cit-tadine, pescava acque di subalveo, garan-tendo una temperatura costante di circa 12 gradi tutto l’anno, mentre le acque delle altre reti idriche registravano oscil-lazioni consistenti di temperatura.

L’acqua di subalveo appariva inoltre sempre limpida e priva sostanzialmente di sostanze contaminanti, sia chimiche che biologiche.

Da AMGA a Mediterranea delle AcqueGenova è sempre stata all’avanguar-

dia nella progettazione, realizzazione e gestione delle reti idriche al servizio della città, ed ha sperimentato forme inedite di totale proprietà e gestione privata degli acquedotti, così come di serena convi-venza fra strutture pubbliche ed imprese private.

Questa capacità di essere sempre, so-

briamente quanto efficacemente, all’avan-guardia nei processi decisionali strategici, ha portato all’inizio del nuovo millennio ad una serie di riflessioni sul ruolo degli acquedotti cittadini, culminata nella deci-sione di fondere insieme le tre principali reti idriche genovesi Genova Acque, Ac-quedotto Nicolay e Acquedotto De Fer-rari Galliera, in un’unica nuova società: Mediterranea delle Acque (oggi parte del gruppo IREN).

La nuova azienda ha associato così alla tradizionale funzione di espletamento dei servizi idrici, anche la non facile in-tegrazione delle reti degli acquedotti che si erano spesso intrecciate e sovrapposte nei loro rispettivi tracciati, nel corso dei secoli.

Un problema, quest’ultimo, decisa-mente gravoso per i genovesi perché la gestione separata in città dell’erogazione dell’acqua attraverso tre diverse reti, ne ha

condizionato in negativo l’equa e raziona-le distribuzione, soprattutto in occasione dei ricorrenti periodi di siccità.

Si è proceduto quindi ad una integra-zione progressiva dell’acqua, oggi nella

Il logo di IREN

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condizione di poter trasferire da una rete all’altra (per volumi considerevoli) in caso di necessità.

Così, Mediterranea delle Acque si è

trovata nella invidiabile posizione di poter contare su infrastrutture decisamente alla avanguardia e su bacini di alimentazione di grande capacità:• 6 invasi• 48 corsi d’acqua• 453 sorgenti• 17 pozzi• Oltre 1.700 km di rete• Immissione media annua in rete di 100 mio/m3

(1) F. Podestà, “Escursioni archeologiche in Val di Bisagno”, Genova, 1878

(2) A. Gaggero, “La costituzione romana nel vecchio acquedotto genovese”, Rivista Municipale del Comune, Genova, 1932

(3) “Rapporto istorico e ragionato sui pubblici acquedotti”, Genova, 1816

(n4) Archivio di Stato, Cod. Div. X 1074, anni 1490-1491

(5) G.V. Mosele, “Cenni storici sull’ acquedotto civico”, Rivista Municipale, Genova, 1938

(6) Niccolò Bruno, Monografia sull’Acquedotto De Ferrari Galliera”, Genova, 1892

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Sia sotto il profilo storico che tecnico, è del tutto evidente come la storia dell’ac-qua a Genova, si sia evoluta, molto più che in altre città, sotto l’egida di una notevole capacità di determinazione strategica, mai venuta meno con il passare delle ere e delle forme di governo, così come di una diffu-sa partecipazione popolare alle diverse fasi di sviluppo che hanno consentito di varare progetti anche molto ambiziosi senza mai dividere in maniera esiziale la città.

Forse è questo quindi il fil rouge che lega in una sorta di continuità ideale, le tan-te diverse fasi attraversate dall’acqua e dalla sua storia nel capoluogo ligure.

Giova ricordare, forse, che questa lun-gimiranza rappresenta pure una sorta di piccolo patrimonio in termini di esempio per il resto della comunità nazionale, che soprattutto su questi temi, non riesce a tro-vare un punto di equilibrio condiviso.

Questo inevitabilmente capita quando

L’acqua del Bronzino

Una fontana Acqua del Bronzino

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la storia volta pagina e si affacciano pe-riodi di transizione complessi, quando si abbandonano le tradizionali griglie di in-terpretazione di un sistema che volge al termine e non si ha ancora confidenza con i nuovi strumenti di interpretazione utili per comprendere ed agire nei modelli sociali in corso di affermazione.

Così si tende a dilatare il presente per paura di affrontare il futuro con il suo ca-rico di responsabilità, ed allora ci si trova di fronte al rischio di misurarsi con idea-lità sfinite, invece che infinite come per definizione dovrebbero essere quelle utili ad ispirare la costruzione di nuovi modelli sociali, in linea con i tempi

Certamente tutti noi, in questo fran-gente di grandi difficoltà sociali ed econo-miche, guardiamo con nostalgia alle sfide vinte nel merito ed alla metodologia con-divisa che in passato hanno reso la nostra città all’avanguardia: la capacità di sceglie-re su argomenti determinanti per il futuro di una comunità, sapendo distinguere gli interessi privati, siano essi dei singoli o delle imprese, da quelli collettivi ed ope-rando scelte capaci di valorizzare i primi senza penalizzare i secondi.

In questo senso credo sia importan-te collocare l’esperienza dell’Acqua del Bronzino, perché, soprattutto da un pun-to di vista culturale aiuta a far percepire un’impresa ormai adulta e diffusa su un territorio ben più grande dei confini cit-tadini, la IREN, ancora come un’azienda cittadina.

Ma soprattutto, consente di riavvici-nare i cittadini all’acqua, come in una sor-ta di viaggio a ritroso capace di trasferirci

in un’altra dimensione, quella dei cittadini consapevoli.

Consapevoli, formati ed informati sul grande valore dell’acqua, che trascende quello semplice, fondamentale e ben noto di natura biologica (ma di cui troppo spes-so ci dimentichiamo), e va oltre ricordan-doci la sua importanza in termini sociali, ambientali e soprattutto di diritti.

Acqua come portatrice di diritti in que-sti tempi confusi, per tornare a dare segnali concreti sulla possibilità di poter incidere sui processi di gestione delle nostre socie-tà, come cittadini attivi quindi e non sem-plici consumatori passivi.

È una ben strana epoca quella in cui ci è dato di vivere: affetti da uno strabismo del-la memoria, siamo portati infatti a dare per scontati diritti ormai felicemente acquisiti alle nostre latitudini, ma ancora un sogno apparentemente irrealizzabile per una va-sta moltitudine di esseri viventi ad altre latitudini (e non necessariamente sempre a sud della nostra): oppure siamo alla ricer-ca di nuove sfide per affermare in termini di diritto inalienabile alcune bizzarrie dei nostri costumi correnti: ma continuiamo a dimenticare l’importanza del diritto alla vita nel senso bio-fisiologico del termine, perché paradossalmente ogni diritto pur faticosamente acquisito con i sacrifici più grandi, è subordinato a quello prioritario di aver accesso alla quantità di acqua neces-saria non solo a sopravvivere, ma a poter vivere con dignità.

Il diritto all’accesso all’acqua dovrebbe trovare spazio in un apposito emendamen-to alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, perché è del tutto evidente che

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tutti gli altri diritti (politici, sociali, religiosi, di razza, etc) sono subordinati al fatto che per goderne bisogna esser vivi e per farlo bisogna avere accesso all’acqua.

Insomma, in corrispondenza della frase “semplice come bere un bicchier d’acqua”, bisognerebbe indicarne un’altra “compli-cato come procurarsi e riempire un bic-chier d’acqua”, perché in effetti nulla è più semplice che dar retta ad uno stimolo fi-siologico come quello di dissetarsi, ma per poterlo fare nella comodità e negli agi della nostre comunità così all’avanguardia sotto il profilo tecnologico, bisogna disporre di infrastrutture che sono il frutto di secoli di investimenti, di puro ingegno e di faticoso lavoro.

Ecco cosa c’è dietro l’Acqua del Bron-zino: un tentativo tutto genovese di ricon-ciliare fra loro le tante anime dell’acqua, anche attraverso il banale sgorgare (in apparenza, come abbiamo visto) da una fontanella, della risorsa più importante del nostro pianeta.

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Aneddoti e Curiosità

Misure dl lunghezzaPiede romano = 0,296 m Passus doppio romano antico (5 piedi) = 1,48 m Stadio attico = 125 passus romani = 185 m Miglio romano antico = 8 stadi = 1480 m 1 braccio bolognese = 0,64 m 1 braccio fiorentino, di due palmi = 0,583 m 1 braccio milanese, di 12 once = 0,595 m 1 braccio veneziano = 0,683 m 1 palmo genovese = 0,248 m 1 canna napoletana, di 10 palmi = 2,646 m 1 canna romana, di 10 palmi = 2,234 m 1 canna siciliana, di 8 palmi = 2,065 m 1 trabucco milanese, di 6 piedi = 2,611 m 1 trabucco torinese, di 6 piedi liprandi = 3,086 m 1 raso torinese = 0,60 m 1 piede bolognese = 0,38 m 1 piede torinese = 0,293 m 1 piede veneziano = 0,348 m

Le Ondo-PompeImpianti meccanici a puleggia in grado

di utilizzare il moto ondoso del mare per alimentare l’acquedotto marino. Furono proposte, fra gli altri, anche dall’Istituto Idrografico della Regia Marina al Comune di Genova nel 1922. Nonostante gli studi dimostrassero il loro affidabile funziona-mento, il Comune non li commissionò mai e rimasero quindi sulla carta.

Per mantenere costante l’idratazione corporea l’uomo dovrebbe bere almeno 2 lt di acqua al giorno.

Si stima che l’intervento antropico su considerevoli masse di acqua, come la costruzione di dighe e la deviazione di imponenti vie d’acqua, abbia causato un rallentamento della rotazione della terra,

che a sua volta ha prodotto un sensibi-le allungamento delle giornate, rispetto a solo mezzo secolo fa.

Curioso è il caso delle Formiche Scor-pione in Sud Africa, che resistono alle piene che dilavano il terreno in occasione delle grandi piogge, unendo le loro zampe e, galleggiando, formano vere e proprie zattere, consentendo loro di approdare là dove il terreno è propizio.

Ogni fiocco di neve ha una simmetria esagonale di base al momento della sua formazione.

L’acqua è l’unica sostanza conosciuta ad essere più leggera allo stato solido, che allo stato liquido.

Il ghiaccio è duro a sufficienza per incidere la roccia , ma è così leggero da galleggiare sull’acqua.

Se il ghiaccio dei poli non galleggiasse, ma affondasse nel mare, il nostro sarebbe un pianeta sommerso.

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Rassegna Giuridica“ Dal vuoto legislativo post referen-dum, a nuove proposte normative in materia”

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Bibliografia

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www.iaea.orgwww.imf.orgwww.alessandroleto.comwww.sierraclub.orgwww.un.orgwww.un.org/esa/sustdev/csdwww.unccd.intwww.un.org/esa/sustdevwww.unep.orgwww.unido.orgwww.watertoday.euwww.worldbank.orgwww.who.orgwww.johannesburgsummit.orgwww.wto.orgwww.warredoc/unistrapg.it

Link suggeriti

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Se questa iniziativa editoriale multimediale ha “visto la luce”, è perché ha potu-to contare sin dall’inizio sull’entusiasmo e sulla determinazione delle numerose persone che inizialmente hanno condiviso il progetto, ne hanno poi compreso lo spirito ed infine si sono messe al lavoro con passione. Il loro contributo, tecnico, scientifico, professionale e soprattutto umano è stato davvero straordi-nario. Così come il loro dinamismo, la loro precisione e la loro rapidità.

Fra gli altri, la Signora Sindaco Marta Vincenzi ed io, desideriamo ringraziare in modo particolare:Francesco Bollorino, Silvano Bonini, Simone Caltabiano, Ernesto Lavatelli, Piero Manuelli, G. B. Pittaluga, Michele Ruvioli, Silvio Sciunnach, Carlo Senesi, lo staff ed il Gabinetto del Sindaco di Genova, lo staff dell’Assessorato all’Am-biente ed alla Città Sostenibile, la DPS Srl., la Fondazione AMGA (Giorgio Temporelli, Michele Pittaluga) e il Gruppo IREN (Paola Verri).

Le foto contenute nella presente pubblicazione sono state gentilmente messe a disposizione dalla Fondazione AMGA.

A titolo personale poi, mi riconosco debitore ancora una volta dell’affetto e dell’incoraggiamento di mia moglie Marta e dei miei figli Giovanni, Niccolò e Maria Sole.

Ed alla nostra Genova, semplicemente:grazie di esistere e di essere così come sei.

L’Autore

Ringraziamenti

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Alessandro Leto, Genova 1965, e’ considerato fra i più autorevoli studiosi di Sviluppo Sostenibile a livello internazionale. Autore di numerose pubblicazioni sull’argomento, di film do-cumentari sul tema del rapporto fra Uomo ed Acqua, ha maturato una signi-ficativa esperienza istituzionale in Italia ed all’estero, ed ha coniato in seguito ad approfonditi studi sull’interazione fra le dinamiche economiche ed ambien-tali, la definizione di “Sviluppo Sostenibile e Responsabile”. E’ noto al grande pubblico anche come Editorialista per diversi quotidiani e periodici europei e commentatore per network televisivi.

Biografia dell’autore

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Coordinamento: Marta Vincenzi, Carlo Senesi e Alessandro Leto

Team Staff:Michele PittalugaGiorgio TemporelliPaola Verri

Team di revisione ed aggiornamento

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