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Oxford Library Oxford Library - Silvana Cincotti e Livio Secco – venerdì 29 maggio 2020 – N.10
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Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web
29 15 05 15 2020
A singolar tenzone Qualcuno vuole un pomander?
Ancora un passo, Bellori e Caravaggio Rahotep e Nofret
10
A singolar tenzone!
Siamo in Italia, a Firenze, in un
momento imprecisato tra l’anno 1410
e il 1415.
Due uomini, uno si chiama Donato di
Niccolò di Betto Bardi, meglio noto
come Donatello e l’altro, Filippo
Brunelleschi, stanno passeggiando e
chiacchierando del mestiere dell’arte.
Sono entrambi artisti.
Donatello si dedica alla scultura con
grande successo mentre Filippo
Brunelleschi è un celebre architetto. Il
primo aveva da poco terminato di
scolpire un Crocifisso ligneo e
secondo la testimonianza scritta da
Giorgio Vasari, aveva deciso di
chiedere all’amico Filippo un parere,
un giudizio sull’opera.
Fu così che quando Brunelleschi vide
il Crocifisso realizzato da Donatello,
opera di grande realismo, gli disse
che bello ero bello, ma sembrava
avesse messo “un contadino in
croce!”.
Il corpo del Cristo di Donatello è
vivo, presente, muscoli forti e sotto
certi aspetti privo della solennità,
della bellezza e dell’eleganza nelle
proporzioni che ci si aspetterebbe da
un soggetto sacro di tale altezza.
Troppo naturale, troppo vero. Il corpo
sofferente è composto in modo
energico, senza concessione alla
convenienza estetica: l'agonia è
sottolineata dai lineamenti contratti,
la bocca dischiusa, la composizione
sgraziata.
Il giudizio, racconta sempre il Vasari,
non piacque a Donatello che,
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Crocifisso Donatello, 1407 - 1408 ca., legno policromo,
168 cm, Basilica di Santa Croce, Firenze
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stizzitosi, sfidò Brunelleschi a fare di
meglio; che ci provasse lui a
realizzare un Crocifisso perfetto e
migliore del suo!
Fu così che l’architetto, creatore della
magnifica e stupefacente cupola di
Santa Maria del Fiore, si mise
all’opera: realizzò anch’egli un Cristo
e quando decise che era giunto il
momento chiamò l’amico per
mostrargli il lavoro.
Donatello giunse, probabilmente
impegnato a fare la spesa, perché
quando vide l’opera realizzata
dall’amico gli caddero le uova che
aveva in mano e infatti il Crocifisso
di Brunelleschi, che potete ammirare
a Firenze nella splendida Chiesa di
Santa Maria Novella, è
soprannominato il “Crocifisso
dell’ova”.
L'opera è un attento studio
dell'anatomia, potremmo dire uno
studio di nudo, manca infatti il
perizoma che veniva aggiunto a parte
con un tessuto, opera essenziale negli
elementi, ispirata al mondo antico.
Misura e proporzione matematica: le
braccia aperte misurano quanto
l'altezza della figura, il naso è in asse
con il baricentro dell'ombelico. Di
belle proporzioni flessuose, degno il
volto, sensibile l’aspetto di un Cristo
che sembra aver esalato davanti a noi
l’ultimo respiro, scivolando in un
sonno sereno.
Se invece siamo a Firenze, nella
Chiesa di Santa Croce, possiamo
ammirare il Crocifisso di Donatello, il
“Cristo contadino”.
Crocifisso Filippo Brunelleschi, 1410 - 1415 ca., legno
policromo, 170 cm, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze
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Non sappiamo se questo racconto del
Vasari sia vero o no, ma certamente è
degno di essere conosciuto. Dentro
c’è molto del Cinquecento, il
confronto tra i due crocifissi è
esemplare per dimostrare le
differenze tra due dei padri del
Rinascimento che, nonostante la
comunanza di intenti, avevano
concezioni personali del fare artistico
molto diverse. Da una parte l’arte si fa intellettuale e
idealizzata, dall’altra abbiamo
Donatello che crea con forza
drammatica e realistica.
E da lontano vediamo già camminare
su queste strade Leonardo e
Michelangelo.
Ubicazione del Crocefisso di
Brunelleschi: cappella Gondi in
Santa Maria Novella, Firenze.
Primo piano del Crocefisso di
Donatello, nel transetto sinistro dietro
alle grate della Cappella di San
Ludovico in Santa Croce, Firenze.
Pomander di artista italiano sconosciuto, in argento, XVII secolo. 6,4 x 2,9 cm. Donato al
Metropolitan Museum of Art di New York dalla signora Arthur Curtis James nel 1920.
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Dal Medioevo fino al XVIII secolo
ebbe grande diffusione, nell’alta
società europea, uno strano
contenitore per profumo, realizzato
generalmente in metallo, traforato
come un merletto allo scopo di lasciar
traspirare la piacevole fragranza in
esso contenuta: il pomander.
Il suo nome significa mela d’ambra e
per il suo contenuto spesso si
sceglieva tra benzoino, storace,
gomma arabica, laudano, radice di
iris, muschio, zibetto, ambra grigia,
noce moscata, chiodi di garofano,
cannella, lavanda, olio essenziale di
rosa, aloe, canfora, dragoncello,
rosmarino e nardo.
I grandi profumieri del Rinascimento
erano spagnoli o italiani.
I primi avevano ereditato la loro
scienza dal mondo arabo, i secondi
approfittarono della ricchezza della
penisola e del gusto dell’aristocrazia
e della borghesia per creare profumi.
Qualcuno vuole un pomander ?
Pomander, tedesco, del XVI secolo, in argento e argento dorato. Il pomander si apre per
rivelare sei segmenti cavi fissati a un gambo centrale inciso e dorato.
Il coperchio scorrevole di ogni scomparto è etichettato Canel (cannella), Negelren (garofano)
Muskat (noce moscata), Schlag (un composto di ambra grigia, muschio e civet; era
considerato un rimedio per malattie come l’ictus), Bernstein (ambra), Rosamarin (rosmarino).
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Bisogna infatti precisare che nel
corso dei secoli si era sviluppata una
certa ostilità nei confronti dei bagni:
si pensava che l’acqua fosse un
veicolo di contagio e così ci si lavava
sempre meno. Diventava quindi
necessario profumarsi; gli aromi
presero il posto dell’igiene per
nascondere la sporcizia e vincere i
cattivi odori.
Quando Caterina de’ Medici andò in
Francia per sposare il futuro re Enrico
II, portò con sé dall’Italia il suo
profumiere, René Le Florentin che
aprì la sua bottega sul Pont au
Change e divenne presto famoso per i
suoi profumi e le sue pozioni.
La giovane de’ Medici, orfana di
Lorenzo duca d’Urbino e nipote di
Papa Clemente VII, aveva solo
quattordici anni quando entrò in
Marsiglia per convolare a nozze, con
un fastoso seguito di dame, damigelle
d’onore, paggi, guardie pontificie e
una piccola corte di gentiluomini,
giungendo finalmente nel cortile del
palazzo reale in una splendida
giornata d’inizio autunno.
Pomander, argento parzialmente dorato,
Niello. Italia, 1350 ca.
Victoria & Albert Museum.
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La nobiltà francese, accorsa per
assistere all’avvenimento, non
nascose la delusione nel constatare
che la futura moglie del duca
d’Orléans, piccola, il mento sfuggente
e gli occhi porcini, di una timidezza
imbarazzante, non era certo
ambasciatrice della bellezza toscana
tanto decantata dai poeti.
Enrico d’Orléans invece viene
ricordato dalle cronache come “(…)
bello, di statura media e ben
proporzionato nelle membra, con il
viso lungo, il naso ben formato, gli
occhi piacenti e pieni di una dolce
attrattiva”, un marito ideale per la
giovane Caterina se il ragazzo, quasi
quindicenne, non avesse già per
amante Diana de Poitiers.
La vita e le avventure di René le
Florentin, maestro profumiere alla
corte parigina, si dipanano in eguale
misura tra storia e leggenda. I frati del
convento di Santa Maria Novella in
Firenze, giunti in Francia al seguito di
Caterina, asserivano, spesso
contraddicendosi, che Renato Bianco
fosse un trovatello allevato nel loro
convento con mansioni di garzone.
Verso i dodici anni era stato
assegnato al servizio di un vecchio
frate alchimista che gli aveva
insegnato i segreti della distillazione
delle erbe. Le invidie, i rancori e le
antipatie personali facevano variare
anche di molto, nei racconti dei frati,
le vicende del giovane che, alla morte
del suo maestro (qualcuno affermava
che la vita del vecchio monaco fosse
stata stroncata dalla mano dello stesso
Renato), si ritrovò con un bagaglio di
conoscenze superiore a qualsiasi altro
monaco del convento.
Ambizioso e bramoso di raggiungere
il successo con le essenze odorose
che ormai preparava con somma
Il matrimonio di Caterina de' Medici ed
Enrico di Valois; affresco del Vasari.
Un ritratto della regina Caterina
de’ Medici (1519-1589), opera di
Santi di Tito (1536-1603).
Sull’abito c’è un pomander.
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maestria, era riuscito a farsi ricevere
dalla giovanissima Caterina de’
Medici la quale, irretita dai profumi e
dalla sua eloquenza, lo ammise al
proprio seguito come profumiere di
fiducia. Le sue opere si sono perse
lungo i secoli, ma è rimasta la
leggenda dell’uomo, un italiano alla
corte di Francia, che con i profumi
mutò una società e pose le basi della
moderna profumeria.
Così la moda dei prodotti profumati
iniziò ad espandersi rapidamente. Le
pelli più fini di Sicilia, di Sardegna o
di Spagna venivano conciate e
profumate.
Non c’è da stupirsi se l’Italia divenne
la terra di elezione della profumeria:
qui si producevano polveri alla
violetta, all’iris, alla rosa muschiata e
al giacinto per pulire e profumare le
capigliature, acque cosmetiche alla
cannella, alla canfora, al limone e alla
camomilla, acque profumate al
muschio, al giglio, all’ambra, ai fior
d’arancio e risciacqui profumati allo
zenzero, ai chiodi di garofano e al
rosmarino per profumare l’alito. Olii
ed unguenti alla rosa, arancio, limone
completavano la panoplia aromatica
dell’epoca.
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Lo studio della storia dell’arte non
può prescindere dall’analisi di alcuni
fondamentali autori che
rappresentano la principale porta
d’accesso alla conoscenza dell’arte
italiana, dal Medioevo al Barocco.
Tra questi, i nomi di maggiore rilievo
sono quelli di Filippo Baldinucci, il
celebre Giorgio Vasari, Giulio
Mancini, Giovanni Baglione e
Giovan Pietro Bellori. Quest’ultimo è
uno dei biografi più importanti per
conoscere e approfondire la storia
dell’arte italiana di epoca barocca.
Nel 1672 Bellori diede alle stampe Le
vite de' pittori, scultori et architetti
moderni, a continuazione ideale del
lavoro di Giorgio Vasari. Nella prima
edizione l’opera conteneva le
biografie di nove pittori (Annibale e
Agostino Carracci, Barocci,
Caravaggio, Rubens, Van Dyck,
Domenichino, Lanfranco e Poussin),
due scultori (François Duquesnoy e
Alessandro Algardi) e un architetto
(Domenico Fontana).
Come Vasari, Bellori riteneva il
disegno l'elemento fondamentale
della preparazione artistica, sia per la
scultura che per la pittura.
Insieme al disegno l’artista doveva
padroneggiare la prudenza, compiere
cioè una serie di scelte e di prove
prima di valutare un risultato finale.
Il traguardo della bellezza veniva
raggiunto solo attraverso una serie di
tappe ponderate grazie alle quali
l'artista, ispirato dalla natura, avrebbe
trovato il suo percorso verso l'opera
finale.
Bellori nella sua vita ricoprì
importanti incarichi, fu curatore ed
antiquario delle collezioni di papa
Clemente X e nel 1671, divenne
segretario dell'Accademia di San
Luca ed infine bibliotecario ed
antiquario della regina Cristina di
Svezia.
Giovanni Pietro Bellori fu dunque
uno dei biografi di Caravaggio e
grazie alla lettura delle sue pagine
veniamo a sapere che
un’Incoronazione di spine venne
eseguita per uno dei maggiori
committenti di Caravaggio, Vincenzo
Giustiniani, annotata all’interno della
Collezioni Giustiniani nel 1638.
La sua datazione è controversa:
secondo alcuni sarebbe una delle
ultime opere di Caravaggio, mentre
Ancora un passo,
Bellori e Caravaggio
Incoronazione di spine, Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1603,
olio su tela, 127×165 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna
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secondo altri sarebbe più vicino,
stilisticamente, alle commissioni per
la Cappella Cerasi.
Al centro della tela è raffigurata
l’incoronazione di Cristo per mano di
due uomini che si accaniscono a
calcargli sul capo, aiutandosi con
bastoni, la corona di spine.
La parte sinistra della tela è occupata
da un uomo in armatura che osserva
la scena senza tuttavia parteciparvi
direttamente, quasi fosse uno
spettatore.
Caravaggio lo utilizza per mettere
alla prova bagliori di luce, giochi di
contrasti, lamiere nere e punti di
grigio.
Il Cristo, figura maestosa e dignitosa,
attende che si compia il volere del
Padre, chinando il capo, forse una
delle figure virili più intensamente
delicate di tutta la storia dell’arte.
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Visitando il Museo Egizio a Il Cairo
uno dei gruppi scultorei che restano
più impressi è, senza dubbio, quello
formato dalla coppia di sposi Rahotep
e Nofret.
Il gruppo è formato da due state
distinte scolpite in un’unica soluzione
in blocchi di pietra calcarea.
La loro impostazione è quella di un
altorilievo perché entrambe le figure
sono assise su un trono con un alto
schienale che ha una funzionalità di
supporto dell’immagine.
Pur risalendo al XXVI secolo a.C. il
gruppo colpisce l’immaginazione del
visitatore per la sua fortissima
espressività che sembra staccarsi
dalla capacità artistica dell’artigiano
che le ha realizzate.
Ci dimentichiamo subito delle tozze
caviglie e dei piedi squadrati tanto
siamo affascinati dai loro visi e dalla
forte luce che emano i loro sguardi.
Le due sculture sono diverse!
Il corpo di Rahotep è piuttosto
spigoloso, ben marcato. Nofret
invece, agevolata da un mantello che
la fascia, risulta più morbida per i
contorni arrotondati che sono anche
tipici dell’anatomia femminile.
La diversità è anche cromatica.
Nofret indossa un mantello bianco
che dà maggior luce alla sua pelle. In
contrasto con i tempi odierni le donne
nobili egizie esibivano molto
volentieri la loro carnagione chiara
che dimostrava il loro stato sociale di
poter stare a casa protette dal sole
escludendo un’attività lavorativa
all’aperto. Rahotep ha la carnagione
scura appunto perché i suoi incarichi
ufficiali di supervisore lo portano a
Rahotep e Nofret
Iniziamo la nostra analisi filologica dalla sposa.
Poiché nel testo è compreso anche un titolo nobiliare che cita la persona del sovrano, appare il
fenomeno della metatesi onorifica, cioè il sostantivo re, scritto con il carice, è anteposto a tutto il
resto ma, leggendo, noi dobbiamo ripristinare l’ordine grammaticale degli elementi:
anche se è scritto
rxt n (ny-)swt nfrt
rechet Conosciuta en dal ni-sut re, nefert Nofret
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visitare le località dove si sviluppano
gli interessi economici della corte.
Si tratta ovviamente di canoni che
nell’arte egizia sono fortemente
espressi in tutte le varie epoche. Alla
nostra attenzione non può sfuggire
che gli alti schienali dei due
troni sono diventati il supporto
epigrafico di alcuni testi dipinti in
geroglifico.
Per la loro posizione si comprende
subito che sono testi didascalici che
identificano per l’eternità la coppia di
sposi defunta.
Il testo è identico su entrambi i lati dell’alto schienale del trono.
Il senso di lettura è per entrambi i lati da destra a sinistra, dall’alto verso il basso. Ci saremmo aspettati
però che il testo a destra del visitatore fosse voltato verso la donna poiché essa rappresenta anche
l’asse di simmetria della statua.
La vicinanza al re era un grande onore che non sempre dipendeva dalla consanguineità con la casa
reale. I più intimi compagni del re, quelli che erano quasi amici personali del monarca, per quanto lo
si potesse essere nell’antico Egitto, dichiaravano orgogliosamente di essere noti al re. Alcuni
conosciuti dal re ricoprivano anche cariche amministrative o religiose, ma il titolo noto al re prendeva
il posto d’onore su molte altre qualifiche. Nofret faceva parte della corte poiché era la sposa del
principe ereditario, figlio del re Snefru (IV dinastia). La traduzione dell’antroponimo Nofret è la bella
derivando dall’aggettivo sostantivato nfr bello, buono, perfetto con la t del genere femminile.
Il testo che identifica il principe Rahotep è su sei colonne divise in due gruppi che si leggono tutte da
destra a sinistra, dall’alto verso il basso.
wr n(y)t p (i)m(y)-r(A) sTt ur Il Grande nit di pe Pe, imi-ra il soprintendente secet delle miniere.
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L’ubicazione di Pe, insieme a Dep, formava l’antichissima città di Per Uadjet che i greci chiamarono
Buto. Sorgeva sul delta del Nilo ed era un’importante sede di culti religiosi e interessi economici. Il
principe è qualificato come Il Grande di Pe con il significato di essere il principale sacerdote di quei
culti. Su questa colonna è anche qualificato come il responsabile di tutta l’attività estrattifera,
d’interesse economico diretto della corona.
(i)m(y)-r(A) mSa xrp tmA imi-ra Il soprintendente mescia dell’esercito,
cherep il comandante tema del drappello (di arcieri)
In questa grafia è interessante notare la parola mSa esercito scritta in modo arcaico e dal Medio Regno
non più usata. Così come cadrà presto in disuso l’ultimo geroglifico, la faretra contenente due archi.
Queste qualificazioni attestano gli incarichi militari di prestigio del principe ereditario.
sA (ny-)swt n(y) Xt.f ra-Htp sA Il figlio ni-sut del re, chet.ef del corpo suo, ra-hetep Ra-hotep.
Siamo di nuovo in presenza di una metatesi onorifica: il carice (del re) è davanti al codone (figlio).
In questo testo il principe Ra-hotep è dichiarato figlio carnale del re; ecco perché lo definiamo
principe ereditario. L’antroponimo significa Il dio Ra è soddisfatto.
wr mA(w) iwnw waty sH mdH Ams ur Il Grande mau dei Veggenti iunu di Eliopoli,
uaty l’Unico seh del Consiglio,
medeh il Falegname ames dello Scettro Ames.
Il titolo Grande dei Veggenti era la suprema carica clericale della città cultuale di Eliopoli. Il titolo di
Unico del Consiglio qualifica l’importanza politica del principe alla corte del re. L’ultimo titolo è
nuovamente una qualifica sacerdotale essendo Rahotep indicato come l’artefice per la creazione di
uno scettro che faceva parte dei bastoni divini, oggetti di culto anch’essi. Lo Scettro Ames è spesso
associato al simulacro del dio Min.
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Smsw ist waty S p n(y) Hrw scemesu Il Maggiore ist del Palazzo,
uaty l’Unico esch del Distretto di Produzione pe di Pe ni del (santuario) heru di Horus.
Il titolo Maggiore del Palazzo era una prerogativa del funzionario più importante presso il Palazzo
Reale. La qualifica l’Unico del Distretto di Produzione identificava il responsabile amministrativo
delle risorse economiche di una struttura templare importante. In questo caso si trattava del santuario
del dio Horus situato a Pe (Buto) sul Delta.
sA (ny-)swt n(y) Xt.f ra-Htp sA Il figlio ni-sut del re, chet.ef del corpo suo, ra-hetep Ra-hotep.
Questa colonna è in tutto e per tutto identica alla A3.
Una delle cose sorprendenti di questo gruppo
statuario è la vivacità degli occhi. Sembrano
veri. Furono la causa del terrore che
impressionò gli scavatori arabi che, quando
trovarono le sculture, fuggirono a gambe levate
convinti di aver disseppellito due persone vive
e non due statue. La composizione degli occhi
è formata da una lente di quarzo cristallino
levigato con una superficie anteriore convessa
ed una superficie emisferica concava. Questa
lente aderisce su una superficie piatta che aveva funzione di iride normalmente ricoperta di resina. Il
bianco dell’occhio (sclera) era in calcare bianco oppure in quarzo traslucido o marmorizzato; in alcuni
casi conteneva delle impurezze che simulavano i capillari dell’occhio umano.
Rahotep, probabilmente era un figlio di Snefru, ed aveva un fratello maggiore, Nefermaat, e uno
minore, Ranefer. Nessuno di loro successe al padre perché morirono tutti in gioventù. A Snefru
successe un fratellastro di Rahotep che divenne in seguito decisamente più famoso del nostro
protagonista odierno. Il suo nome? Medjedu Khnum-Khufu. Meglio noto con il nome di Cheope.
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Dettaglio dell’occhio sinistro di Nofret.
Oxford Library Per essere vicini a chi ha passioni comuni alle nostre
Pillole di Storia dell’Arte a cura di Silvana Cincotti
Pillole di Egittologia e Filologia Egizia a cura di Livio Secco
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A SINGOLAR TENZONE Siamo in Italia, a Firenze, in un momento imprecisato tra l’anno 1410 e il 1415. Due uomini, uno si chiama Donato di Niccolò di Betto Bardi, meglio noto come Donatello e l’altro, Filippo Brunelleschi, stanno passeggiando e chiacchierando del mestiere dell’arte. QUALCUNO VUOLE UN POMANDER? Dal Medioevo fino al XVIII secolo ebbe grande diffusione, nell’alta società europea, uno strano contenitore per profumo... ANCORA UN PASSO, BELLORI E CARAVAGGIO Lo studio della storia dell’arte non può prescindere dall’analisi di alcuni fondamentali autori che rappresentano la principale porta d’accesso alla conoscenza dell’arte italiana... RAHOTEP E NOFRET Visitando il Museo Egizio a Il Cairo uno dei gruppi scultorei che restano più impressi è, senza dubbio, quello formato dalla coppia di sposi Rahotep e Nofret.