8x8 -- 2014, i racconti della prima serata

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    8x8 2014

    18 febbraio |prima serata

    @Le Mura, Roma

    Pierpaolo Campana

    Gianluca Cataldo

    Leonardo Gatta

    Alessandro Melia

    Elisabetta Rossi

    Cecilia Samor

    Daniele Sartini

    Andrea Venanzoni

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    8x8 Un concorso letterario dove si sente la voce

    Oblique Studio 2014

    I partecipanti alla serata del 18 febbraio 2014:Pierpaolo Campana,Maleviente;Gianluca Cataldo, Habeas corpus;Leonardo Gatta, Ouco;Alessandro Melia, Un faro rosso;Elisabetta Rossi, Linchiostro doro;Cecilia Samor, Controllo periodico;Daniele Sartini,Nino;Andrea Venanzoni, Derive.

    Uno speciale ringraziamento alla casa editrice Elliot, madrina della serata, e aigiurati Raffaella De Santis, Loretta Santini e Guilherme von Zastrow Motta.

    I caratteri usati per il testo sono lAdobe Caslon Pro e il Rockwell.Oblique Studio | via Arezzo 18 Roma | www.oblique.it | [email protected]

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    Pierpaolo Campana

    Maleviente

    Il ronzio della la che dal grosso cancello di ferro arrivava alla por-ta di casa and avanti no a sera. Le donne, conccate dentro iloro fazzoletti scuri come pali nel fango, garrivano nel ato spessodel meriggio sgranando parole raggrinzite sotto un sole vecchio disecoli:A sc ndo nu vosche streme, a sc ndo nu vosche streme, a sc ndonu vosche streme1.Non sapevo cosa fosse quella litania che colavada bocche guaste, irte di cocci di denti neri, e che, scrosciando suivetri della stanza, per tutto il giorno mi grandin orrendamente

    nelle orecchie. Male viente, a sc ndo nu vosche streme, ancora oggiquel rumore mi gorgoglia nella schiena come acqua strozzata in untombino. A sc asc male viente ndonu vosche, ripeteva con lesue ciarle senza smettere un secondo anche lei, quella donna natadalla terra, magra come una carota. Stetti per ore a sentire i suoirantoli favolosi di vecchia asina morente, a spezzarmi le unghie suifragili orli di senso che il suo delirio mi strappava continuamentedalle dita. Scindonu voschema leviente, gracchiava, maleviente! ma-leviente!, mentre nel cortile il cane inseguiva un paio di galline e ilvento spazzava le impronte sghembe nella terra.

    Se ne and allalba con un grosso soffi o arrugginito, come di tromba

    dai tasti rotti. Il brutto per venne dopo, quando fu chiaro che non eramorta una volta per sempre, ma solo la prima di innumerevoli altre.

    1. Vattene in un bosco lontano. Parte di uno scongiuro lucano contro la malattiarivolto al male viente, il vento cattivo, simbolo di oscure forze ritenute responsabilidel male.

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    Pierpaolo Campana

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    *

    Di tonni non ne prendeva da un pezzo, ma i suoi santi non avevamai smesso di masticarli a ogni alba che lo sorprendeva in mare.E non la smetteva di sciorinare nomi di santi, mio padre, nem-meno il giorno che and a morire. Era venuto a svegliarmi moltopresto, mentre la notte ancora scorticava il paese con la frusta neradellostro, per portarmi a pescare con lui e zio Turi. La sua mano

    mi azzann una spalla, strappandomi senza preavviso ne sentopersino adesso il feroce fastidio alla glassa erbosa del mio sonnodi bambino. Quando aprii gli occhi, attraverso la nebbia dei sogniche evaporavano mi parve di scorgere una gura ossuta, incastratanelle pupille di mio padre come lombra di unagave secca fra gliscogli. Mi salut, pieg la testa e gocciol via fra le ciglia scure.Quella fu la seconda volta che vidi mia nonna morire.

    Verso mezzogiorno Turi ebbe un sobbalzo. Se ne stava fermoa poppa con il timone in mano e un nastro rosso annodato inbocca e allimprovviso, puntando il dito arcuato verso mio padre,guardaBeppeguarda!, disse tutto dun ato. Lui, spaventato, si

    piant in bocca il nome di santa Cecilia, che gli mor mezzo ingola e mezzo fra i denti. Poi si volt e vide la lama dello spadasbatacchiare violentemente sul anco della barca, proprio sottola croce penzolante del suo rosario. Turi abbracci il timone contutta la forza che aveva in corpo, guaiolando come un gatto a cuistrappavano i baffi , e mio padre con un balzo uncin lo scalmo,mentre le sue urla si fracassavano contro lo strepito dei remi pre-cipitati in acqua. E con la faccia e le mani affogate dentro le reti,nel ventre marcio della barca, mentre intorno luniverso interomi sembrava ruggire di odio per noi come fossimo sullorlo diuna qualche invisibile Gibilterra, io mi sentii il cuore rimbalzare

    fra stomaco e polmoni per poi schiantarsi spaccato fra le costole;e mai pi fui sicuro come in quel momento che nel petto mi sisbriciolasse una montagna.

    La barca si muoveva ancora quando se ne accorse.Madonnasanta! e mo?Che c?

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    Turi, Turi, tu lhai visto, non lho fatto apposta, per non caderein mare lho fatto, non volevo farlo, non ci voglio andare allinfer-no! non ci voglio andare!

    Turi voleva dirgli che no, non cera da preoccuparsi, i santi ca-piscono, ma mio padre si era gi tuffato dietro al rosario, che gliera caduto di mano nel trambusto, ed era sparito nellacqua nera eancora schiumante, sotto lo sguardo immobile del fratello.

    La mamma non voleva farmelo vedere in quel modo, stecchito sulmaterasso come un garofano secco, ma, appena si allontan, en-trai nella stanza buia in cui sbuffavano un paio di candele esauste,mi arrampicai sulla sedia dove lei annodava i suoi nastri damoreroncolando mazzi di avemarie e bestemmie, e lasciai scivolare losguardo sopra zio Turi. Se ne stava oscio e bianco sulle lenzuolabollite dal sudore e sbavava sangue guardando sso sso il soffi ttocon gli occhi spalancati. Non sembrava lo stesso uomo che qual-che giorno prima avevo visto baciare la mamma. Dopo un istante,accucciata nei suoi occhi tubercolotici, vidi mia nonna piegare la

    testa e morire di nuovo. Corsi dalla mamma a dirglielo, ma leinon volle credermi o forse, come al solito, nemmeno mi ascolt.Scoprii allora che anche nei suoi occhi si agitava la nonna e ancorauna volta la vidi morire, un mese dopo mio padre, appena un paiodi giorni prima di mia madre.

    *

    In capo a qualche anno avevo ammazzato tutto il paese.Ma perch tutti quanti?La voce si scrost ruvida come lo strappo di un velcro dalla gola

    di Angelina.E poi, che signicano quelle parole strane che dicevi nel sonno?Uno sbuffo di vento rimbalz sui vetri della nestra accostata

    e, agitando le tende ancora chiuse, smosse per un momento la pe-nombra ammassata fra i mobili della stanza.

    Quali?

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    Erano parole strane, qualcosa comeAngelina aggrott le sopracciglia e vidi uno sforzo colossale

    stravolgerle la faccia. Poi, tastando alla cieca nellacqua scura deiricordi, faticosamente le riusc di stanare parole gone di nulla,che, come rospi riversi, galleggiavano nella fanghiglia della suamemoria.

    Leviente asc nuvo stre, no, aspetta ecco, s, malenteascinu vos trema!

    Avrei volentieri ricompensato il suo impegno eroico correggen-dola, ma quella discussione aveva iniziato a pesarmi e volevo soloche nisse.

    E io? Io ci sono nel tuo sogno?Non le feci caso. Seduto sul letto disfatto mi passai una mano

    fra i capelli e sentirmeli radi sulla testa mi diede un senso di nau-sea. Poi la tagliola di un ricordo scatt fra le volute del cervello suc-chiandomi via ogni residuo di attenzione. Il paese, gettato su unpaio di colline, dal treno che partiva mi parve un pugno di rughedi pietra sputacchiato in un burrone da qualche spietato demonio.Un paese dannato di vecchie case piegate su vecchissime strade

    di selciato smosso, eternamente intrappolato nella macina delloscirocco che appiccica sui lampioni, sui muri, sulla gente la mortedel pesce sfatto sulla spiaggia e dei rovi secchi nei dirupi. Quandocapii, era tardi per dispiacersi dellinvolontaria morte che avevosparso nel mondo, ma ero ancora in tempo per regalarmi la sod-disfazione di uccidere consapevolmente. E per anni vomitai il mioodio, per anni il ventocattivosoffi su quellinfernale bollore di salee sangue marcio che straccia le nuvole sopra limpotente boato delmare, che gronda la rabbia di decine di secoli e cuoce langoscia delmondo nel requiem inquieto delle cicale. Eravamo nati dallo stessoventre, avevamo inghiottito lo stesso sale, avevamo nelle vene la

    stessa terra e nei polmoni gli stessi sfregi ulcerati dai refoli di venticocciuti, ma io non ero loro e loro non erano me.Loro? Loro chi?Senza che me ne accorgessi, quellultimo rigurgito di pensiero

    era riuscito ad aprirsi un varco fra le mie labbra.Aldo, a che pensi? Aldo! perch li hai ammazzati?

    Pierpaolo Campana

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    La voce trem un poco mentre le ultime sillabe le si sgonava-no in gola.

    Aldo! E io? Anche me? Hai ammazzato anche me nel tuo stra-maledetto sogno?

    Rimasi immobile mentre Angelina mi afferrava il bavero delpigiama. Sentii le sue nocche grinzose premermi fredde e ferocisulla gola e stringere, stringere nch quegli strilli non smisero difrullarmi scuri nel cranio come corvi spauriti dai lampi dentro una

    gabbia dossa e rancore.

    Maleviente

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    Gianluca Cataldo

    Habeas Corpus

    Un cerchio di luce riessa si appoggia sui palazzi di fronte. Sonogeometrie semplici, scatole e rettangoli ornati da antenne (tan-tissime antenne, quasi una selva cittadina), o scale su un fondaleazzurro opaco, come nota affacciato alla nestra. Si sporge appena,poggiato sui gomiti, mentre una leggera brezza gli rinfresca il torsonudo, segnato. La luna smisurata, pare vantarsi dei suoi crateri,e la sua grandezza solo unillusione data da unellissi. Abbassalo sguardo sui palazzi mentre unautoradio sporca il frinire di un

    grillo, e vede la sua sagoma disegnata sulla facciata di fronte. Sisposta un poco. Dalle nestre al terzo piano proviene una luce,dietro le tende un mobile rosso. Pi gi una ragazza seduta su undavanzale, e lo saluta alzando un bicchiere mentre lascia dondolareil piede sinistro. Lui ricambia, poi torna dentro. Mette su un disco,alza il volume, e si sdraia per terra. Il pavimento freddo gli d unpiccolo brivido, cos si gira su un anco e avvicina un orecchioalla mattonella, per sentire la batteria rimbombare e il ragazzo delpiano di sotto imprecare, alzarsi e colpire con una scopa il tetto.Lo lascia fare per almeno una decina di minuti, poi, quando senteche sta per lasciare la stanza e salire, abbassa di colpo la musica e

    cambia disco. Cos pu gustarsi il piano di Art Tatum al volumeche preferisce. Fissa il tetto.Abita allultimo piano e gli dispiace non avere qualcuno cui urla-

    re di non fare rumore, di abbassare il tono di voce o non camminarecon i tacchi, cos batte il manico della scopa sulla parete alla sua si-nistra, quella che d sullaltra stanza, condando in unapparizione

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    che non si rivela. La sua attivit lo obbliga alla discrezione e, salvosporadici contatti con il tipo del piano di sotto, evita di incontraretroppa gente o di dividere laffi tto con qualcuno. Daltro canto nonne ha bisogno. D un tiro alla sigaretta, mentre con lindice sinistroaccarezza una piccola cicatrice sulladdome, attraversandola lenta-mente per tutta la sua ridicola lunghezza. Appena tre centimetri,non oltre. La pelle ha delle piccole increspature attorno al solco unpo pi bianco, liscissimo, e se va per toccarlo con il mignolo riesce

    quasi a sentire il leggerissimo dislivello. Sa di essere corpo, ma sentedi non dovergli rispetto assoluto.Pensa sia un taglio ben fatto, non c che dire. Ricorda an-

    cora chi glielo aveva fatto, un ragazzo della sua et che lo avevacontattato su internet tramite una casella mail cifrata. Quando sierano visti lui gli aveva spiegato come si sarebbe svolto lincontro.Gli aveva chiesto di fare due chiacchiere, di raccontargli perchlo faceva, come aveva iniziato, e in base alle risposte, poi, avrebbedeciso se accettare o meno. Non aveva voluto sapere come si eraprocurato la cifra necessaria non lo chiedeva mai ma perch. Alui interessava la parola, il verbo.

    Il ragazzo aveva laria impacciata, e continuava a tormentarsile mani stronandole luna con laltra e asciugandone il sudore suipantaloni. Ogni volta comparivano i calzini, di colore diverso, epoi scomparivano, pi gi un paio di scarpe marroni. Si era guar-dato attorno, analizzando con uno sguardo nervoso ma eccitato lamobilia essenziale di quella stanza dalbergo, nch non era andatoverso la nestra.

    Si vede lautostrada da qui. Di spalle sembrava ancora pi esile.Lui gli aveva detto non preoccuparti, abbiamo tutto il tempo

    che vogliamo.Qualche ora dopo il ragazzo parlava concitato, rosso in viso,

    nella solitudine si diventa ciechi e nella cecit si rompe il patto.La cecit ti nasconde il quadro generale, e le intuizioni non sonopi suffi cienti per ricollocarsi nel nuovomondo no, non lo sonopi e il patto che ho rotto lavevo siglato niente meno che conDio, come tutti Il patto di non farmi del male, di lasciare alui il quadro generale e di concentrarmi sui dettagli, sui miei che

    Gianluca Cataldo

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    dicono che colpa mia se non riesco a trovare un lavoro, come dapiccolo dicevano che era colpa mia se non prendevo buoni voti,come se fosse la stessa identica cosa, capisci? la stessa! e allora iomi tagliavo per offrire a loro, a tutti loro, la mia piccola sofferenza,il mio dettaglio nel quadro generale del mio corpo, e stavo meglio,oh se stavo meglio, quando mi tagliavo stavo benissimo, mi sen-tivo invincibile e avrei voluto urlare vedete tutto quello che riescoa sopportare, io che per voi sono un inetto per voi mi tagliavo,

    e pensavo di esserne uscito ma col cacchio che ne sono uscito tutto peggiorato e adesso, semplicemente, la mia emotivit non pi solo mia ma di tutti, e inoltre devo inserire unaltra variabi-le.

    Quale?, aveva chiesto lui.Linnocuit. cos che ti senti, innocuo? cos che sono. Sentirmi mi sento un gigante, ma cho il mu-

    scolo della volont atrozzato guarda, e gli aveva mostrato ilbraccio destro, striato da una decina di microincisioni, bruciaturedi sigarette ed ematomi, e aveva aggiunto dicono sia stato io a

    farlo, ma da solo non ce lavrei mai fatta.Lui aveva ssato il braccio del ragazzo, poi aveva mosso la te-sta in un cenno dassenso e si era alzato. Si era tolto il maglione eaveva slato contemporaneamente anche la maglietta, scoprendoun petto tormentato da piccoli tagli, tutti pi o meno della stessalunghezza, una narrazione di ferite scritta in stanze di piccoli alber-ghi, in casa di ricchi nanzieri pentiti, di grasse adolescenti bulimi-che, di trentenni falliti mantenuti dai genitori. Aveva pensato chela solitudine a volte si sceglie, proprio per spezzare quel lo tenuesospeso tra un possibile fallimento e la noia che racchiude tutto, cheaccerchia ogni cosa. E lui aveva conosciuto bene quella noia, laveva

    vista ogni mattina nel torpore degli occhi che tardavano ad aprir-si. Laveva studiata, intesa profondamente abbandonandosi a essa,mentre di l uno scroscio dacqua segnalava una presenza. Di l.

    Non pi di tre centimetri per uno di profondit, aveva detto,ma sapeva benissimo che era inutile sottolinearlo, perch per i suoiclienti i due estremi non esistevano neanche, al pi erano incidenti

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    dovuti a unimprovvisa emolia o a un gesto inconsulto, ma maicercati, perch negli estremi non c espiazione. Per i suoi clienticontava solo la creazione di quel piccolo simbolo, una virgola sulpetto di uno sconosciuto, e un momento di condivisione profondo.Spesso piangevano, qualcuno non riusciva e rivolgeva la lamettacontro di s, per punirsi dellosceno pensiero che la salvezza potes-se essere tanto vicina.

    Ricordava ancora quando a sfregiarsi la carne era lui stesso, la

    ricerca dello spazio vergine alla lama, del piacere intenso che dla riappropriazione del proprio corpo. Allinizio si nascondeva, sisegnava sui glutei per non farsi scoprire, poi aveva cominciato adisinteressarsene avvinto dallegotismo del martirio. E da ultimola clandestinit. Aveva cos smesso di sentirsi incatenato al propriocorpo, e aveva cominciato a offrirlo agli altri.

    Prima di andarsene, il ragazzo gli aveva chiesto il nome. Lui avevarisposto ovviamente non posso dirtelo, ma se vuoi puoi chiamar-mi Legione.

    Perch siete in molti, immagino, aveva detto sorridendo ilragazzo.Gi, pi di quanti pensi.

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    Leonardo Gatta

    Ofiuco

    A quel tempo erano tanti coloro che conoscevamo per errore. Mispiace dare la colpa alle pareti delluniversit, che talvolta ripiega-vano su s stesse, precludendoci a poco a poco la fuga dal discorsoprincipale, come certe camere di tortura praghesi. Ma era cos.

    I pi parlavano di musica e contrabbando, intenti a stuzzicarsilombra sul volto, la barba ispida dun mese e qualche giorno. Siinterrompevano ogni tanto per grattarsi la nuca con la punta delledita, non che la cosa mi dispiacesse, ma quasi provavo invidia per

    la loro dimestichezza nellattraversare di corsa il ponte di Moukla-ouma, le sue assi di legno sconnesse che traballavano a ritmo disinfonie diffi cili da canticchiare.

    In quei momenti, le scale che portavano al terzo piano del-la facolt sembrano lunghissime, per non dire innite. Allora,il nome di un autore ci veniva rovesciato letteralmente addosso,secchiate di inchiostro per intrattenere il tempo, gocce come pa-role e parole come specchi di propagande feroci per difendere lepaciche intuizioni di questo o quel passo geniale, censurato cosingiustamente Sembrava si trattasse del sangue del loro sangue.Sapevano dipingerne il quadro biograco molto meglio di alcuni

    uffi ci stampa editoriali. Tavolta, le lodi si tramutavano in criticheaspre ma affettuose: il dito nella piaga, sempre pi a fondo, votatoalla sapienza allincirca possibile. Ed era naturale che professasserodi conoscere le inuenze dellopera in questione, e lo facevano almodo di come si farebbe con un romanzo di cui si letto solo ilprimo capitolo. Perlomeno cos pareva a me, ed era per questo che

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    non riuscivo ad accettarne no in fondo lopinione, per quantocondivisibile fosse.

    Tu invece, completamente dallaltra parte del ponte, muovevisu e gi il becco, e senza accorgertene commettevi lerrore di ri-spondere, dacch si sentivano legittimati a consegnarci volantinisgualciti come scontrini, di cui ci spiegavano in breve i contenuti,e inne ci chiedevano di confermare la partecipazione ad una seriedi incontri collettivi, con una rma qui.

    Colpevoli, stringevamo le bretelle dello zaino quasi ci aggrap-passimo ad una fune sottilissima. Ciondolavamo un po a destrao un po a sinistra. Un fatto di pura inutilit e circostanza. Fattoche, per, loro interpretavano come un nostro essere pi o menodaccordo su tutto, naturalmente (prima bugia).

    Stavamo al gioco, insomma. E ricordo che tu, mentre li ascol-tavi, non potevi fare a meno di mangiarti le unghie, viziate dallan-sia e qualche volta, solo qualche volta, capitava che ci capissimoqualcosa di quellinsieme verbale dallaccento romano, o napoleta-no, o bresciano, o toscano e in generale tanto rumore per nulla. Per-ch avevamo altri problemi, problemi pi grossi di quei riferimenti

    sbiaditi a una politica insensibile, che ormai noi due davamo perpersa, in maniera quasi siologica. Forse pi disperati che super-ciali. E proprio non capivano che gi proiettavamo lo sguardo versola rampa delle scale, quindi verso il piano terra (unica via duscita).

    Scusa, avremmo il treno da prendere, alla stazione. Quantevolte glielo abbiamo detto, Virginia?

    Una volta rmai, solo una, e cos, tanto per rmare. Ma nontu, che ti vergognavi del tuo cognome del tutto privo di lettereminuscole.

    Poi, una la interminabile di studenti poneva ne a questa speciedi rito. Loro tutti entravano nellaula quattro, gi colma di bustiin posizione da battaglia, e io ridiscendevo le scale correndo, e lozaino mi batteva le spalle come una scimmia impazzita, provo-candomi un prurito indomabile sulla schiena. Lodore di chiusospeziava la discesa; perdevo i libri che cadevano verso il soffi tto che

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    spesso sembrava sul punto di cedere, o di colare come la cera du-na candela dallespressione malinconica. Non cerano mai nestreaperte, e a pensarci adesso mi pare unassurdit.

    Allora uscivo in strada, saltando quella lezione per sempre. Os-sia, tornavo alla realt. E tu mi seguivi con passo lento, cosa chemi faceva imbestialire, e continuavi a mangiarti le unghie, lo so.

    Poi, generalmente, siccome ero solito scalciare sassolini per ri-prendere una delle mie tante azioni continuamente interrotte ma

    volte ad alimentare la trottola del caos, ti sentivo rimproverarmiqualcosa come ti sporcherai tutto e falla nita; che fosse statadavvero una colpa, avrei smesso, giuro.

    Ma i tuoi rimproveri (te lo devo dire mia cara) erano proprioinammissibili, per il semplice fatto che tu per prima dimenticavilimmondizia tra le gambe, i chicchi di caff e le scartoffi e tra lepieghe della gonna. E quando te lo si faceva notare, spacciavi talimacchie per semi di briciole, o ancor peggio per ori nascenti.

    E io, che desideravo tanto scriverci qualcosa sopra, oggi ti ten-do la mano, Virginia: un tronco dalbero orizzontale, galleggiante,in bilico tra la mia dissoluzione personale e il Grande Nulla, alber-

    go delle tue notti, e di stagioni impoverite.Oggi come ieri ti tendo la mano per vederti ballare senza musi-ca alcuna, come giusto tu

    Una fesseria (seconda bugia)

    sapevi fare.

    Pi spesso girovagavamo da soli, ai bordi del ume quando cera unume, o tra i vicoli pi stretti e deserti del centro storico, incespican-do in ciottoli scivolosi e mendaci di cui immaginavamo risvolti su ri-

    svolti su risvolti dimenticati: cavalli, per esempio, carrozze, o incontrifurtivi tra uomini daffari e puttane, tra un panettiere e un pugile e

    E successe che rovesciammo un vaso di petunie, che cadde a terraandando in mille pezzi; ed era un segno, il simbolo allusivo a certestoviglie chiassose dun passato arbitrario ed esclusivo, a litigi tra

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    coniugi e dirimpettai con cui non avremmo mai avuto nulla da spar-tire, ma a cui, in fondo ci sarebbe piaciuto (almeno) assistere. Misembra che bussammo al vetro duna nestra socchiusa, soltanto perpoter scappare, ridendo come matti, e peregrinare lo spazio indeci-frabile di un androne nobiliare in cerca duna voce che mai ci rispose.Chiss se loro sapevano che

    volevamo solamente un posto dove stare, niente di pi (terza bugia)

    E sfumano gli angoli del ricordo, sallentano.Solo una nota, ancor trema

    Senza accanirci, n disperarci troppo per una mia convalescenza, unapausa dallo star bene che gi allora piantava oscure radici allinternodel mio corpo (Dio solo sa come io abbia fatto a non accorgermene).

    Si spegne

    Risorge, eppure:

    Ricordi quella volta in cui discutemmo dei segni zodiacali? Io s.Ti informavo, come suggeritomi dal mio professore di scienze dellescuole superiori, che lintero oroscopo era stato falsato dai burocrati(chiamiamoli cos): LOuco, Virginia. C anche lOuco da met-tere in conto, e tu mi dicevi di lasciar perdere, vista e consideratalimpresa impossibile di scardinare le relazioni consolidate dello zo-diaco. Mi dicevi: Vallo a dire a vecchiette del calibro della signoraRosalba. Vedrai che cosa ti risponde, tra un colpo di tosse e laltro.

    Tinterrompevi, ma solo per un attimo Poi, non venire a pia-gnucolare da me, e cos dicendo, lo facevi sembrare un compito piarduo che cimentarsi in una rivoluzione politica.

    Trema, ebbene

    Leonardo Gatta

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    Mi dai di te, e lasciai perdere.

    Si spegne.

    Inne, il ricordo si spegne.

    Ofiuco

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    Alessandro Melia

    Un faro rosso

    Vidi mio fratello dal terrazzo. Si stava facendo spalmare la crema so-lare da una donna. La spiaggia era quasi vuota, nonostante la giornatacalda. Sul mare piatto si rifrangeva la luce del sole mentre il bagninosotto lombrellone teneva le braccia incrociate. Cercai di capire chifosse la donna, non mi sembrava di conoscerla, ma ero troppo di-stante. Tornai in casa, mi tolsi la maglietta, presi un paio di vecchieciabatte, mi bagnai la testa, misi in tasca il mio mazzo di chiavi e scesi.

    Allentrata dello stabilimento feci un cenno di saluto al proprie-

    tario e mi diressi verso la riva. Mio fratello era sdraiato su un lettinomentre la donna gli stava massaggiando la schiena. Indossava un bi-kini nero, la pancia era piatta, si intravedevano gli addominali. Notaicome le unghie delle mani fossero colorate di un verde smeraldo.

    Ciao Enrico, dissi.E tu che ci fai qui?Oggi il mio turno.Ti sbagli. Questa domenica tocca a me, disse, tirandosi su con

    il corpo.E la settimana scorsa pure?Era un mese che non venivo.

    Ho bisogno di riposarmi, dissi.Bene, prenditi un lettino e rilassati. Ma la casa mi serve, nonlo vedi?

    La donna mi guard. Adesso era passata a massaggiare le cosce.Girai la testa e osservai il faro che si vedeva in lontananza. Avevoprogrammato mezzora di camminata per arrivarci. Poi avrei fatto

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    una nuotata e il pomeriggio sarei rimasto in casa a dormire. Oraavrei dovuto cambiare i miei piani.

    In quellistante mi suon il cellulare. Era Sara, la moglie dimio fratello. Disse che aveva le contrazioni e che non riusciva aparlare con Enrico. Disse che cos aveva chiamato unambulanzache sarebbe arrivata a breve. Disse di cercare quel bastardo di miofratello, che spariva sempre nei momenti pi importanti. Disseche lavrebbe richiamato appena avesse saputo in quale ospedale

    la ricoveravano.

    Non ci posso credere. Riesce a rompere pure oggi che non lavoro.Ha le contrazioni, dissi.Non la conosci. Sara si lamenta e basta. Le piace fare la vittima.Chiamala subito o vado da lei.Cos le dici pure che sto con una prostituta?La donna non disse una parola.Forza, chiamala, dissi.Enrico allung la mano dentro lo zaino e prese il cellulare. Quindi

    si gir verso la donna portandosi lindice al naso. Io guardai di nuovo ilfaro. Era bianco e rosso. Non ricordavo il rosso. Il bianco cera semprestato. Quello s. Ma il rosso, doveva essere una novit. O forse nonci avevo mai fatto caso. Mi chiesi quandera lultima volta che avevoguardato quel faro. In effetti era passato molto tempo. Un faro rosso.

    Va bene, arrivo.Enrico si alz dal lettino. La donna rest seduta.Dove la stanno portando?, chiesi.Al San Pietro. Il bambino potrebbe nascere a momenti.Allora vengo anchio.No, ora resti qui. Volevi riposarti? E poi sei in buona compa-

    gnia. Lei si chiama Irina. Parla poco litaliano ma capisce tutto. Leho dato cinquecento euro.Non un problema mio, dissi.S che lo . Hai voluto che me ne andassi e ora qualcuno dovr

    riportarla in citt. E poi smettila di fare tante storie che ti pu faresolo bene.

    Alessandro Melia

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    Enrico raccolse lo zaino e prese Irina per un braccio.Mi raccomando, trattamelo bene.La donna fece un rumore secco con la bocca.Non dissi nulla. Guardai mio fratello inlarsi la maglietta, rac-

    cogliere le scarpe e imboccare il vialetto verso luscita.

    Cosa vuoi fare?, mi chiese la donna.

    Lidea di camminare con lei mi irritava.Facciamo un bagno e andiamo a casa, dissi.Lacqua del mare era fredda. La donna con veloci bracciate si

    allontan dalla riva. Sembrava saper nuotare molto bene. In pocotempo raggiunse la boa che delimitava laccesso delle imbarcazionialla spiaggia. Nuotava un po a dorso e un po a rana. Restai a guar-darla in un punto dove si toccava. Quando si avvicin mi chiese sefossi sposato. Dissi di no.

    Hai una compagna?No.Tuo fratello avr un glio?

    S. Andiamo via.

    La presenza di una prostituta nella casa in cui una volta abitavanomio padre e mia madre mi infastidiva. Cercai di non pensarci e an-dai in cucina per preparare qualcosa da mangiare. Il frigo era vuoto.

    Nella credenza c del tonno, disse lei.E tu come lo sai?Sono gi stata qui.Mi portai una mano alla bocca come per trattenere le parole.

    Andai verso la porta ma la donna mi sbarr la strada. Fece scivola-

    re lentamente la sua mano lungo il mio corpo. Sentii quelle unghiecolor smeraldo sorarmi la pelle. Fui scosso da un brivido. Provaia staccarmi, ma la donna mi strinse ancora pi forte. La sua linguainizi a percorrermi il collo. Stava succedendo veramente.

    Solo molte ore dopo, mentre la donna si stava facendo la doc-cia, riuscii di nuovo a formulare dei pensieri. Restai sdraiato ad

    Un faro rosso

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    assaporarli uno ad uno. Prima di tutto mi sembr di aver parteci-pato a qualcosa di cui tutti parlavano. Era molto diverso dallideache mi ero fatto in tutti quegli anni. In termini di piacere sico,quello fu il punto pi alto. Ero libero dalle tensioni e dai cerimo-niali. Mi sentivo come un estraneo. Poi mi venne in mente miofratello. Tradire Sara con una prostituta era una cosa da disprez-zare, ma ora che avevo provato anchio quelle sensazioni, quasi necapivo la debolezza.

    Fu proprio in quel momento che avvertii la vibrazione del cel-lulare. Era un messaggio di Enrico.

    . . . .: .

    Fuori era buio. Dalle persiane ltrava la luce del faro. Il fascio illu-minava a intervalli regolari la parete di fronte al letto. Attaccata al

    muro cera una vecchia foto in bianco e nero che ritraeva un uomoseduto in un bar intento a leggere. Da piccolo era affezionato aquellimmagine. Laveva scattata mio padre durante un viaggioin Francia. Ricordavo di aver passato interi pomeriggi a ssarla.Quelluomo l, da solo, mi trasmetteva un senso di libert. Ora,disteso sul letto, continuavo a guardarla mentre appariva e spariva.

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    Alessandro Melia

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    Elisabetta Rossi

    Linchiostro doro

    Agosti, do la si missa la cravatta?Ce lha zio Agostino.Ma come? Se s morto.E infatti glielabbiamo messa ai funerali che dicevi che la sua

    era brutta.L vero me nero scordata, me nero.Mi chiamo Agostino, Agostino Del Prete, e questa con cui sto

    parlando e che ha la faccia dentro il mio armadio mia madre Gi-

    nevra. Viviamo a Rupelunga, un paesino di cento anime. S, cento.Li ho contati tutti io, i rupelungani, ch il sindaco Franco CalabroQuinto, a dicembre scorso, ha voluto fare il censimento e siccomenon si da della tecnologia mi ha chiesto di contare.

    In realt, io a matematica sono una schiappa, nella vita vogliofare lo scrittore, mica lo scienziato. Per, siccome alle elementarile addizioni mi riuscivano bene, ho accettato.

    Chiamarmi come zio Agostino mi ha sempre reso orgogliosoma adesso che lui passato a miglior vita, non lo sono pi tanto. complicato portare il nome di un morto, i suoi amici non fan-no che ripetermi Agosti sta lontano dai treni. Non capir mai

    come possano essere convinti che io, siccome mi chiamo come zio,se salgo su un treno faccio la sua ne.Zio Agostino lavorava nelle ferrovie, controllava i biglietti della

    gente, ma ha rischiato spesso il licenziamento perch se incontravaqualcuno senza biglietto si dispiaceva e non gli faceva la multa.Aveva il cuore buono, zio. nito sottoterra proprio per questo.

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    Una mattina vide su una carrozza una donna che soffriva il mal ditreno. Non so come una possa soffrire il mal di treno, ma tant chese ne stava vicino una porta a pregare.

    Signora, che l capitato?Cho paura. E se il treno si sfascia? Fa bodibon bodibon, di

    continuo.Ma no, signora. Rupelunga prendi e vaifa solo treni sicuri.Ehhh lei lo dice perch ci lavora.

    Al che zio Agostino, per dimostrare la bont delle sue parole,mise mano alla maniglia.Guardi qua, lo vede che non si apre neanche seE forz lapertura. Sfortuna volle che quella fosse lunica uscita

    difettosa del convoglio e cos, prima ancora di nire la frase, laporta si apr e lui se ne vol via.

    E mo che te mitti?Mamma ha ricominciato a parlare e a frugare tra le mie cose.

    preoccupata di non trovare nulla di adatto da farmi indossare allafesta di questa sera. Una festa tutta per me. In paese non si parladaltro. A quanto pare, ho vinto il concorso letterario Linchiostro

    doro per aver saputo, cito a memoria ch lho letta tipo mille voltela lettera che gli organizzatori mi hanno spedito, per aver saputoraccontare con grande maestria larte di fare la pasta in casa.

    Quasi, quasi chiedo a zio Gennaro, dice mamma con quellasua aria assorta, di quando rimugina sulle cose.

    Io alzo le spalle mentre guardo la lettera della vittoria. Labbiamoincorniciata e appesa sulla scrivania. Devo dire che mi fa un certoeffetto e non vedo lora di ricevere i complimenti di tutti. Mi sentoimportante, uno che conta, uno che riuscito a concludere qualcosa.

    Allora, Agosti? Me rispunni o no?Va bene, mamma, e chiedi a zio Gennaro.

    Contenta che le abbia nalmente dato il mio benestare, mam-ma esce dalla camera ravvivandosi i capelli.Dalla nestra, la vedo allontanarsi, con il suo passo lento e pe-

    sante, gi per la campagna cotta di sole.

    Elisabetta Rossi

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    Sono venuti tutti i compaesani alla festa. In giardino, ci sono fe-stoni ovunque e tavolate con centritavola di verdure. C persinola banda che suona inni alla gioia. Io, per darmi pi tono, ho pet-tinato i capelli indietro consumando lintero tubetto di gel, ch hosempre una testa ribelle e scura.

    Mamma ha la stessa faccia soddisfatta di quando le ho detto chemi avrebbero premiato con una fornitura di pasta valida per tipo unanno. Pap, invece, ha lespressione entusiasta delle vincite a bocce

    contro zio Gennaro. C anche il sindaco Franco Calabro Quinto. Aquanto pare, questo mio riconoscimento, motivo di grande orgoglioper il paese.

    Rupelunga, risaputo, non ha mai vinto niente a differenza diRupecorta che conna con noi. Tra Rupelunga e Rupecorta cuna rivalit secolare, quindi il fatto che ora i rupelungani possanosfoggiare un titolo letterario culturale di notevole prestigio unevento storico.

    Brindamo ad Agostino, forza!, grida pap, agitando il suobicchiere di vino.

    Tutti bevono e ridono. Zio Gennaro, con aria solenne, guarda i

    presenti, uno alla volta, richiamando la loro attenzione.Tocca faglie na statua, dice e poi, facendo locchiolino, ag-giunge: Sindaco, ce dica qualcosa. No, perch secondo me da facoi soldi pubblici.

    I rupelungani applaudono e mamma e pap si commuovono. Ilpostino Bruno Tortorello urla:

    Agosti, si no mitologico!Io aspetto la risposta del sindaco Franco Calabro Quinto. Lo

    chiamo sempre per nome e cognome perch una cosa a cui tienetanto, anche a quel Quinto, che, a detta sua, gli d unaura dieternit. Non so cosa signichi, ma tant.

    Franco Calabro Quinto si accarezza i baffetti neri. Ha la boccaincastrata in una specie di ghigno appagato.E sia!Mamma si soffi a il naso e pap, al massimo della gioia, corre

    dalla banda, mette un braccio intorno alle spalle del trombettiere ed il via allinno italiano.

    Linchiostro doro

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    Tutti noi, che ci sentiamo fortemente nazionalisti, scattiamo inpiedi e, mano sul cuore, cantiamo in coro Fratelli dItalia.

    Il giorno nuovo arrivato. I resti della festa sono ancora in giardino.Non stato tolto nulla. Siamo, noi Del Prete, impegnati a prepara-re le valigie per la prossima partenza. La premiazione dellInchiostrodoro si terr, infatti, a Roma domani e siccome Roma dista un po da

    Rupelunga, abbiamo pensato di partire con largo anticipo. Mammacammina da una stanza allaltra a recuperare i panni e poi li inla nellevaligie. Io e pap volevamo portare un solo bagaglio ma lei ha bocciatolidea ch il mio vestito buono non poteva essere mischiato al restodelle cose. Quindi un trolley, quello pi grosso per giunta, occupatodal mio completo: giacca, pantaloni, camicia e cravatta di zio Gennaro.

    Agosti, pettinate che me sembri no zingaro, me sembri, miurla mamma mentre chiude le valigie e le d, via via, a pap perfargliele caricare in macchina.

    Io, che sto in piedi nella mia camera come un carciofo, prendola spazzola e, davanti allo specchio del com, sistemo i capelli, che

    sono una specie di cespuglio, alla bene e meglio.Da fuori, sento arrivare la banda e tutti i rupelungani. Cantanodi nuovo linno italiano. Vogliono salutarmi degnamente.

    Alla vista di tanto entusiasmo, il cuore batte forte, il sudore, su-dore di emozione, mi bagna la fronte e i quattro peli sulle guance,che io chiamo barbetta.

    Un grosso respiro, unaggiustata al collo della polo e bagno di folla.Saluto con un cenno della mano, sorridendo. Mamma, frattan-

    to, mi alza i calzoni da dietro e mi stringe la cinghia.Si troppo secco, te li stai a perde.Arrossisco, faccio per salire in macchina quando il campanello

    di una bicicletta fa azzittire tutti quanti. Bruno, lunico a mancarealla riunione, arriva in giardino trafelato e mi consegna una busta. de quelli dellInchiostro doro!Io rigiro la lettera tra le mani. Apro la busta e leggo il contenu-

    to. Mi ci vuole un po prima di avere il coraggio di parlare ma allane rendo partecipe Rupelunga di quanto ho appena saputo.

    Elisabetta Rossi

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    , . , . .

    Inutile dire che nessuno ata. Al trombettiere cade pure la trombain una buca.

    Io inlo la lettera in tasca e torno in casa.Domani, sicuro, vado al comune e mi cambio nome, tipo mi

    faccio chiamare Alberto. Zio Agostino, evidente, aveva e portauna gran sga.

    Linchiostro doro

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    Cecilia Samor

    Controllo periodico

    Lo scolapasta appeso sul lavandino cade dopo il segnale acusticoe spezzo lo stuzzicadenti che ho appena usato e sdo quel gancio.Nessuna risposta.

    Ho qualcosa da dirti, giorni feriali lisci come lolio. Il camice il mio cappotto fuori luogo. La calvizie e il mio cranio convivono.Sono il medico, listinto. Vuoi sapere quante sono le pazienti coicapelli ricci. S, l c il calendario. Dici che sei una persona. Era-vamo in tre. Voglio dimenticare ogni evento negativo e sentirmi

    pi vivo. Vuoi sapere che successo. Di punto in bianco tutto haavuto un altro senso, archivio agende, i bambini citofonano, nonho niente, uno scherzo telefonico. Ho lalito cattivo, controbattolo stesso perch sono vanitoso, e tu fai ricorso. Sono cos, infedele.Nascondo lamaro inodore della mia condizione. Non devo cam-biare il mio stile di vita. Vado a lavoro coi mezzi pubblici anche seguido, la mia segretaria no. Voglio dirle che mi hai lasciato anchese ti ho lasciata io. Mi hai regalato un libro, parla di un uomoche ha concluso la sua rispettabile carriera per iniziare a viaggiarema poi ha perso tutto. Vuole sapere se poteva andargli meglio. in crisi, ma ha rimpianti senza lacrime. Avevi programmato tutto

    senza di me. Una serata diversa. Stavo leggendo un altro libro maho iniziato subito a leggere il tuo. Non ci hai fatto caso. Non haiscritto una riga sulla prima pagina, neanche sulla seconda, lhaifatto scivolare sul tavolo senza guardarmi in faccia. Volevi che in-dovinassi il titolo. Dopo ci siamo visti un altro paio di volte, mihai presentato le tue due gemelle. Una lavevo gi incrociata a un

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    Cecilia Samor

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    bivio e non ti ho detto dellaltra, lamante dello spioncino dellaporta delle mille domande, alternate a esplosioni di reticenza ri-guardo alla sorte dei miei pantaloni preferiti. La prima cosa cheho fatto quando ci siamo salutati e hai iniziato a farti i fatti tuoi stata cercare un paio di pantaloni uguali a quelli, perch non lhofatto prima? Sono passate alcune settimane, il tempo di trovare leparole. Hai reagito come una persona adulta, quindi non rimar-remo amici perch non ti interessa. Ero abituato a considerare i

    tuoi gusti e i miei insieme, ecco il segreto per non sapere nientedi lei. Non dormo, non ho mai dormito, i miei risvegli sono sco-perte scientiche, controlli periodici, scansioni fronte retro dellamia carta di identit, la patente al volante non avrebbe la stessafortuna dellauto. Morire da sonnambulo. Esco e vado a correre.Tre strati di magliette leggere come il t che bevo a questora buia.Non conto i passi, non conto i chilometri, ascolto la musica dellescarpe per le scale, sul marciapiede, sullattraversamento pedona-le, costeggiando il parco. Ma inciampo in una massiccia radicedi pino e poi saltello no alla panchina. Resto due minuti qui epoi proseguo il percorso. Mentre libero il calzino dagli aghi non

    sono pi solo, un altro sportivo col atone. Tutti i volti celestiguardano la mia caviglia sinistra. Lui beve un po dacqua, uniscele mani e alza le braccia pi in alto che pu, pancia infuori, pettoinfuori, streccia di nuovo le ginocchia e riparte. Dice che lei lhalasciato, non ci posso credere, dico che mi dispiace e che anche iosono stato lasciato, annuisce, forse non mi crede, lei lo accusava dilavorare troppo, chiedo se lei lavora, s, anche parecchio, dice cheforse lei lo accusava di altro, chiedo di cosa. Alza le spalle e stringele labbra sollevando di poco il mento. Tira su col naso. Messaggioricevuto. Dice che non guida pi perch se la vede sempre davantie non vuole essere tamponato. Adesso si dice tamponato. Dice che

    meglio inciampare come capitato a me, dico che non gli augurodi inciampare, se vuoi vieni nel mio studio, qui, sono un medico,ed ecco lo sguardo che ho io quando lei mi chiede dove sono stato,ecco la dilatazione strizzata che riduce il suo campo visivo, si voltae se ne va in conitto con un cordiale e breve silenzio. Metto sulpiatto il nuovo calzino, la caviglia quasi nuova, la lagna della parola

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    isola che tende un agguato alla parola isola con la complicit dellamia voce, i volti celesti si sottraggono al mio gioco e ricomincio acorrere. E se ora, improvvisamente, mi venisse sonno e decidessidi tornare a casa a piedi? sempre meglio correre, spedire il pre-sente allimperfetto e al passato remoto e ricevere libri in regalo.Mi fermo di nuovo perch devo vomitare. Mi piego in avanti emi appoggio a un altro albero, un clacson, fari, freni, la portierasi chiude, fertilizzo. Il rumore del petardo e della pistola non si

    distinguono in lontananza. Si sgretola lacida muffa della mia con-dizione. Il gancio cade a terra. Lui sterza, accelera e scappa col mioportafogli, mi sveglier quando sar giorno e avr dormito grazieal furto di un tossicodipendente automunito, che mi aveva logica-mente mentito e poi seguito, perch sono solo, solo, solo.

    Stasera esco senza portafogli, non inciampo, non vengo picchiatoo derubato, non riesco a liberarmi di questa acidit di stomaco. Vo-mito nel mio bagno. Stasera esco e non vomito nemmeno. Staseranon esco. Stanotte non sono uscito. Una nuova paziente senza ca-pelli ricci si toglie il rossetto con un fazzoletto, soffi a il naso mentresi accomoda. Deve avere due vite.

    Controllo periodico

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    Daniele Sartini

    Nino

    Qualcuno mi sta tirando verso il basso, sento la sua mano, manon ho paura. Non la prima volta che capita, uguale a quandosono nato e la vita mi ha trascinato fuori dalla placenta per il solocapriccio di guardarmi in faccia: stessa sensazione, viaggio inver-so. Non voglio andare in ospedale, che mi ci portano a fare, nonvoglio morire nel freddo di una corsia mentre gli altri si affannanoper colpa di una pallottola. Lasciatemi sul pavimento a riposarementre penso alla prima volta che sono stato qui.

    Diciannove anni.Sono passati diciannove anni da quel ventiquattro dicembre

    millenovecentonovantatr. Era una serata troppo fredda per leabitudini della nostra citt. Dentro il caos del supermercato, si ag-girava una donna. Ancora oggi, di lei, non si conoscono il volto,labbigliamento, la statura, il colore dei capelli. Niente di niente.Si sa solo che era incinta.

    Inizi a nevicare quella sera, esattamente mezzora prima dellachiusura, Margherita se lo ricorda: mi ha raccontato di essersi vol-

    tata verso la vetrata e di aver visto i occhi bianchi illuminarsi nellospazio racchiuso tra le luci dei lampioni e lasfalto del parcheggio. neve, grid cercando il consenso del cliente che, invece, le

    restitu unocchiataccia per farle capire di sbrigarsi con il conto. Lavigilia di Natale con la neve: era lideale, pens mentre ricomincia passare gli articoli sotto il laser del lettore ottico.

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    Santo era il Natale ma non solo. Laddetto alle pulizie si chia-mava allo stesso modo: Santo, un uomo rinsecchito originario diPalermo.

    Era passato un quarto dora dalla chiusura delle casse, quandoSanto apr la porta del bagno delle donne.

    Minchia.La sua esclamazione corse per il corridoio, salt il banco dei ge-

    lati e si sparpagli dentro il supermercato ormai vuoto. Margherita

    dice che in quel momento la lodiffusione stesse trasmettendo Laleva calcistica della classe 68di De Gregori che sinterruppe a metritornello, subito dopo aver supplicato Nino di non aver paura.

    Correte, presto, nel bagno delle donne.Arrivarono nellordine: il direttore, quattro cassiere, il pesciven-

    dolo, il ragazzo che metteva a posto le cassette della frutta e duemagazzinieri. Si accalcarono tutti nello spazio angusto dei bagni.

    Perch strilli?Il direttore non fece in tempo a terminare la domanda che gli si

    strozz in gola lultima parola.Santo aveva ancora i guanti gialli inlati sulle mani ma anzich

    stringere lo struscino, teneva tra le braccia un neonato con il cordoneombelicale che oscillava, verso il pavimento, come un pendolo.Rimasero tutti fermi per alcuni secondi, immobili come statue

    di marmo.Era qui, in terra, ho aperto e lho trovato che si muoveva tra il

    suo sangue e il piscio di qualcun altro. Forza, adesso, prendetelo.Un miscuglio di pelle, sangue e pianto si divincolava tra le sue

    mani.Nessuno si fece avanti poi un respiro affannato divenne parole.Dallo a me.Margherita era stata lultima ad arrivare, colpa della mole che

    la rallentava.Si era fatta largo per vedere meglio.Dallo a me.Lo disse una seconda volta e allung le braccia verso Santo

    che, dopo averle passato il neonato, cadde seduto sul water, quasisvenuto.

    Daniele Sartini

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    Lo terr io, disse Margherita mentre gi lo cullava e pensavaa un nome.

    La lodiffusione ripart allimprovviso.Il direttore bestemmi contro la musica, alla faccia della san-

    tissima vigilia.Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non mica da

    questi particolariNino, lo chiamer Nino, disse Margherita con il camice blu

    che le tirava in vita, macchiato di sangue.

    Manca pi di unora alla chiusura del supermercato, ho parcheg-giato lauto con il muso a ridosso della vetrata, lo faccio spesso. Daqui vedo tutto: la la alle casse, il banco del pesce, quello dei gelatino allangolo dei cereali. Reclino leggermente il seggiolino, inloil cd di Annie Lennox nello stereo e aspetto.

    sabato, gente che sgomita tra gli scaffali: troppa umanit.Margherita attraversa la corsia dei dentifrici e trattiene il re-

    spiro per nascondere il punto vita pronunciato sotto il camice blu:

    odia le pieghe di grasso che si formano tra i bottoni.Margherita ha quarantanove anni, molte paure e qualche chilodi troppo.

    Ha gli occhi sinceri, gli stessi di quando era bambina; il resto,invece, cresciuto pi del dovuto, anche lei lo dice.

    Margherita sarebbe una moglie perfetta, peccato che non abbiaun marito.

    Margherita fa la cassiera, come altre sette donne che lavorano qui.Sinla tra i carrelli che attendono in coda, si siede poi il nu-

    mero uno, sopra la sua testa, sillumina: la cassa aperta, tira unsospiro di sollievo.

    Sono le venti e quarantacinque: due ombre attraversano il par-cheggio e si dirigono verso lingresso. Mi raddrizzo sul seggiolino.I soliti ritardatari dellultimo minuto. Adesso entrano e Margheritafa quellespressione di disapprovazione che le gona le guance, pen-so. Quando varcano la porta dingresso, vedo i passamontagna checoprono le loro teste e le pistole che vibrano nellaria; questione di

    Nino

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    secondi poi le mani si alzano, il terrore serpeggia sui volti e qualcu-no si butta a terra. Non posso sentire le urla, le immagino. Non houn cellulare per chiamare aiuto. Le armi si agitano nellaria, ancorapi nervose.

    Uno dei due si avvicina alla cassa di Margherita e le spiana lapistola davanti agli occhi. Lei trattiene il respiro come quandoprova a nascondere il punto vita stavolta, per, il terrore le calpestail viso. Sento un morso tra il cuore e lo stomaco, apro la portiera,

    le note di Love Song For a Vampirescappano fuori dallauto e min-seguono mentre corro veloce come non ho mai fatto prima.

    Fotocellula: le porte automatiche del supermercato si aprono.Ho appena diciannove anni ma coraggio a suffi cienza per sca-

    gliarmi contro un rapinatore.Ci rotoliamo a terra tra le urla della gente, non so come ma lo

    disarmo.Gli tengo la pistola puntata contro.Figlio di puttana alzati.

    Non sparare, ripete lui ma, sotto il passamontagna, ride. Noncapisco il perch.Porter per sempre i suoi occhi impressi nella mente: lunica

    cosa che ho visto del suo viso.Margherita grida forte ed cos che ricordo che i rapinatori

    sono due.

    Non ho sentito dolore, la pallottola non mi ha fatto male, passatada parte a parte forandomi un polmone e unarteria, credo. Sonocrollato a terra mentre i rapinatori gi scappavano. Le teste sopra

    di me alitavano frasi incomprensibili. Il direttore, Santo, le cassie-re, cerano tutti. Cera Margherita che continuava a ripetermi diresistere, che lambulanza stava arrivando.

    Le dicevo di s ma sentivo che stavo morendo.Nato e morto dentro un supermercato. Il destino davvero un

    gran bastardo, ho pensato.

    Daniele Sartini

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    Nino non aver paura canta De Gregori come diciannove anni fa,ed io scuoto la testa per tranquillizzare anche lui perch paura no,proprio non ne ho. Sono sereno, come se fossi a casa.

    Mamma, ho detto senza aggiungere altro.Non lavevo mai chiamata cos, per me sempre stata Margherita.Lambulanza non arrivata in tempo.Margherita mi ha stretto forte al petto generoso, nalmente il

    nostro abbraccio.

    Il suo camice blu si macchiato di sangue mentre ha iniziato anevicare: davvero una gran bella notte. Anche per morire.

    Nino

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    Andrea Vananzoni

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    A Piazzale Prenestino c un albergo che affaccia sulle rimessedellAlta velocit. Qua per non ci sono state le barricate No tav.Perch ai tossici, alle trans, al lumpenproletariat che bivacca tracataste di marciume e tubi non gliene frega proprio niente. Nonsanno manco se arriveranno a domani, guriamoci.

    Dentro a sto alberghetto schifoso, settimo piano di una palazzac-cio rovinoso e con lintonaco cadente, c una portiera nigeriana chepuzza di cipolle e di Vergine Maria.

    Snocciola ossi di oliva. Recita preghiere. Sputacchia catarro etabacco.Ondeggia come fosse imbambolata, dicendoci che la stanza che

    cerchiamo sta in fondo al tunnel. Ci immergiamo nel lucore, e cela sentiamo ciabattare dietro.

    In fondo al tunnel, dice.Sembra una metafora, ma cha ragione.Labbiamo trovata sta trans che se voleva suicida, una trans

    mora con le gupire e le spalle da nuotatore bulgaro. La facciaistoriata di cicatrici e foruncoli e ormoni sballati.

    S fatta dei taglietti su tutto il corpo. Persino su quei rigon-

    amenti bitorzoluti che dovrebbero rappresentare, penso, i seni.Taglietti piccoli, insignicanti quasi.Stretto nella mano, una mano grande da uomo, un coltello da

    cucina col sangue rappreso incrostato tutto sopra.A quel punto, appena lo scintillio del coltello riverberato dalla

    lampada alogena ha reso chiaro che quello proprio un coltello, i

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    paramedici channo detto che compito nostro. Noi, senza scom-porci pi di tanto, abbiamo replicato ai paramedici che compitoloro. Non ce devono prova.

    La portiera ridacchia. Chiss quante ne vede ogni sera; il trionfodel buco, scenate damore tra papponi e puttane, ragionieri in bot-ta, lacci emostatici, eroina e preservativi, c una Roma dentro stialberghetti da poco prezzo che rimasta ferma agli anni Settanta.

    Poi squilla un cellulare, nella stanza, una suoneria dance stra-

    sputtanata. della trans.Risponde e quasi per incanto smette di isterizzarsi. tipo ildanzato, o qualcosa del genere; noi sentiamo solo smozziconi diconversazione, la vocina metallica del tizio e poi lei che cincischia,arrischiando una improbabile voce civettuola e femminile ma cheinvece suona come uno spurgo basso. Ci dice, ci garantisce colmassimo della solennit di cui capace che non si sarebbe piammazzata. Ci offre del whisky. Decliniamo.

    I paramedici e lo psichiatra, un tizio tarchiato col collo taurinoe una montatura di occhiali cafonissima, si guardano tra loro colsorriso burocratico tipico della sanit di frontiera.

    Non ci faccio manco pi caso. Mi rinserro nelle spalle, bor-botto sempre qualcosa che nemmeno io so cosa sia, forse solo ungorgoglio di noia e stanchezza, sento la radio cicalare elettroni-camente richiamando lattenzione su una rapina e su un conittoa fuoco e poi su uno scippo e poi ancora su una sospetta rissa disudamericani.

    Ogni notte qui blu. Blu ed accelerata. I sorrisi sono falsi, didenti ciancicati e nerastri, le gengive scavate, gli occhi liquidi.

    Siamo alla deriva, come tutti, nel usso di luci, di neon, di mar-ciapiedi sporchi, di casermoni in cemento armato e strade senzane.

    C una direttrice, intessuta di lampioncini sfarfallanti arancio,che se la segui ti porta oltre il Raccordo anulare, verso i Castelliromani, e quando sfrecci, quando fendi la notte ululando la tuanecessit di fare presto e chai i piedi puntati in avanti e cerchidi pensare al niente, perch il pensiero di arrivare a destinazione pure peggio di quello di schiantarsi contro qualche massetto di

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    Derive

    roccia o contro un camion che fa inversione allincrocio per ade-scare puttane, quando stai l o fumi o sorridi, sorridi al nulla, allospecchietto retrovisore e cerchi di capire se hai la faccia contrattain qualche buffa smora.

    Sto col braccio fuori dal nestrino, sento il gelo della notteschizzarmi tra i capelli e lungo i lineamenti. Potrebbe essere piace-vole ma solo un modo per non prendere sonno.

    Alla ne la Prenestina la fendi tutta, a memoria praticamente.

    Svolti, giri, freni di colpo lasciando due striscioni anneriti sulla-sfalto con laureola dello scarrocciamento, curvi, e guardi i volti suimarciapiedi, immigrati, marchettari, spacciatori, tossici, ragazziniche si fanno le canne in attesa di potersi evolvere in ketch, gianniz-zeri rumeni vestiti come Umberto Smaila a Colpo Grossopresidianolingresso di night club per avventurosi, cinesi a capannelli giocanoa dadi e a dama e si accapigliano nei loro mille dialetti, studentifuori corso, coppie al ristorante, frammenti antropologici di esi-stenze in frantumi.

    Tutta sta corsa, poi, per una rissa. Ma niente di che, quattrospintoni, sudamericani e piccoli bangladini, serano spaventati i

    vecchietti del circolo bocciolo; stavano a balla il liscio, come tuttii gioved, qualcuno ancheggiava, qualcuno bisbigliava, qualcunogiocava a carte, e si sono trovati davanti sta marea di gnomi scuri,e i sudamericani certe volte, anzi spesso, tirano fuori le scimitarre.Mica ci pensano due volte. Quelli nel Dna channo proprio il sa-cricio umano.

    A noi tocca un bangladino. Che poi i bangladini so tranquilli,ma proprio tanto. Se li fai incazzare vuol dire che devi essere ilre degli stronzi. I bangladini sono tutti pettinati come ragionieri,sono piccoli, hanno espressioni vacue e spintamente simpatiche,channo tutti gli stessi vestiti addosso e quellaria da persona che

    non sa che cosa cazzo stia facendo.Il bangladino nostro, lo zammammerello, avr venti anni, malet non il mio forte; una volta mero arrischiato a richiedere gliesami auxologici su uno che per me era minorenne sputato e poiera risultato che caveva ventitr anni, da quel giorno, tutti che meridevano dietro, ho deciso di farmi i cazzi miei.

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    Lo dobbiamo portare al fotosegnalamento, dove sta pure il ga-binetto per limmigrazione che un palazzone a vetrate e ferro nelcuore di Tor Sapienza.

    Io non lo so se siete mai stati a Tor Sapienza. La prima vol-ta che ce so stato manco sapevo esistesse. Cerano tipo cinquantacinesi o mongoli, butterati, tarchiati, attraversavano tutti insiemela strada, e la dirigente ha detto famoli passa questi, sembranoincazzosi, eh, cazzo se lo erano.

    Poi tutto attorno, zingari coi carrellini e il fumo verso il cielo,un cielo basso, virato, nerino e screziato di grigio, e ristoranti etnicikirghisi, e puttane e gente che scopava open air.

    Quando sei dentro al palazzo, vieni inghiottito da una calurasporca ed oleosa.

    Stai seduto, ogni tanto ti sgranchisci le gambe, vai alle macchi-nette, al cesso, guardi la notte e lalba e il tramonto e poco ci mancale stagioni da una grata metallica, dentro puzza, tanto. Tre volte asettimana lo disinfestano.

    Ci sono acquari. No, non ci tengono i pesci dentro. Ci tengonoi cristiani. Trans e donne, e dallaltro lato gli uomini.

    Tutta una varia, vasta umanit che gioca, piange, prega, impre-ca, scherza, stringe improbabili amicizie. Alcuni conoscono tuttala procedura e non creano problemi, altri chiusi l dentro scapoc-ciano strepitano prendono a testate il muro e allora bisogna entraredentro di corsa e calmarli. Con le buone o con le cattive.

    Non hanno fatto niente magari, ma bisogna dargli un nome,una identit. Bisogna classicarli. Aspetti. Il tempo si ferma. Dav-vero. Non parlo per metafore. Aspetti che qualcuno ti batta unapacca sulle spalle e ti dica che puoi andartene, che tutto nito.Poi, per grazia ricevuta, lo identicano. Non ha fatto niente. Nonha alias,n misure o provvedimenti di espulsione.

    A quel punto, gli apriamo una porta che praticamente immettesu una scala e la scala gira tutto attorno al palazzone e se ne ni-sce allorizzonte nella notte di Tor Sapienza. Cos osserviamo ilbangladino mentre mesto mesto si incammina senza aver capitoniente di quanto accaduto. Fluttua come un ramoscello in baliadella corrente. Alla deriva. Come noi.