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da Storia moderna dell’arte in Italia. Manifesti polemiche documenti di Paola Barocchi Storia dell’arte Einaudi 1

59247711 Storia Dell Arte Contemporanea in Italia Manifesti Poleche Documenti

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da Storia moderna dell’arte in Italia.Manifesti polemichedocumenti

di Paola Barocchi

Storia dell’arte Einaudi 1

Edizione di riferimento:Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia.Manifesti polemiche documenti, vol. III, t. 2. Tra Neo-realismo ed anni novanta. 1945-1990, Einaudi, Tori-no 1992

Storia dell’arte Einaudi 2

Indice

A. Martini - Scultura lingua morta (1945) 5

B. Zevi - Architettura organica (1945) 13

G. Michelucci - Ricostruire (1945) 19

L. Fontana - Manifesto bianco (1946) 24

L. Venturi - Linguaggio attuale della pittura (1947) 28

«Forma» (1947) 30

Primo manifesto dello spazialismo (1948) 34

L. Fontana - Proposta di un regolamento 37

R. Longhi - Proposte per una critica d’arte (1950) 40

G. Dorfles - Manifesto del M.A.C. (1951) 50

G.C.Argan Genesi del razionalismo (1953) 55

U. Eco L’opera aperta (1958) 59

P. Manzoni Libera dimensione (1960) 64

U. Eco L’Informale come opera aperta (1961) 67

B. Zevi - Sul «superamento» dell’architettura organica e della ricerca spaziale (1961-62) 73

Storia dell’arte Einaudi 3

G. Dorfles - Nuovi riti e nuovi miti (1965) 81

U. Eco - Teoria della comunicazione e arti visuali (1966) 92

G. Celant - Arte povera (1968) 104

G. Paolini - Note di lavoro (1973) 114

G. Celant - Un’arte critica (1983) 116

G. Celant - Un’arte iconoclasta (1984) 127

Indice

Storia dell’arte Einaudi 4

ARTURO MARTINI

Scultura lingua morta*1

Ripetizione della statua2.

Quando un’arte si esprime in una natura monocromae per mezzo di atteggiamenti del corpo umano, è facilecapire quali e quante possibilità di atteggiamenti nuovipossano ancora rimanere dopo tanti secoli.

Perciò il tormento dello scultore non sta nel realizzareun’opera abbandonandosi all’ispirazione diretta, manella grande fatica di evitare il già fatto.

In pittura, nell’assurda ipotesi che fosse imposto persecoli un soggetto, questa indigenza sarebbe sempresuperata attraverso nuovi accordi di colore3.

Ma nella statua cosa può essere rimasto di non ten-tato e non risolto? Quante volte, guidato dal mioprofondo, ho creduto di aver scoperto una soluzionenuova, accorgendomi poi che l’avevano trovata diecisecoli prima!

Oggi, per un artista che partecipi al suo tempo, è piúviva una natura morta, ispirata da un avanzo di verdu-ra, che tutti i miti esaltati nel tempo antico4.

Ma la scultura è l’eterna ripetizione della statua. Nonpuò rinnovare la mitologia antica nella nuova mitologiadel cavolo e del carciofo; vive nel rimpianto di un pas-sato felice, e malgrado il tramonto degli dei, s’illude diuna grandezza spenta5.

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La scultura è sempre vissuta di vita parassitaria; ade-rendo come un rampicante alla superficie di un’imma-gine e assumendone la forma, ha finito per credere quel-la forma la sua propria essenza6...

Linguaggio.

Il senso plastico crea un volume; il volume espri-mendosi diventa forma: la forma prende forma da un’al-tra forma. Questo dovrebbe essere il verbo della scul-tura.

La parola plastico in sé non vuol dir niente; ma poi-ché appartiene all’uso, tentiamone la consistenza. Pla-stico, dice il vocabolario, è ciò che ha facoltà di plasmareo di essere plasmato.

Nel linguaggio delle arti però questa voce ha assun-to tale senso ed ampiezza da diventare parola astratta,quasi sempre usata a sproposito al pari di poesia: di soli-to in scultura viene adoperata per indicare una inter-pretazione di grande formato7.

Anche le forme non esistono come possibilità creati-ve, perché devono conformarsi a proporzioni stabilite oannullare in esse la loro esistenza.

Parole note volumi non sono che materiali, mezzi chel’artista di volta in volta tramuta in valori essenziali.

In pittura un colore diventa valore creativo quandosi fa tono8. Nella scultura invece, per difetto di libertà,tutto rimane alle origini: la forma resta un volume, cioèquantità amorfa, semplice creta9.

La sovranità di un’arte deriva unicamente dal com-pleto possesso dei mezzi creativi; e per mezzi creativinon s’intenda l’abilità dell’artista o i suoi strumenti dilavoro, ma il valore intrinseco di un particolare lin-guaggio.

Ne risulta evidente la schiavitú della scultura.

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Cosí, dell’attribuita importanza alla celebrata formanon rimane che un vocabolo per indicare certe fasi delmestiere: forma per conformazione, forma in gesso,forma per configurazione, forma granitica ecc.

Volume poi viene interpretato come voluminoso,peso come ponderoso; tanto da far credere che la moledell’elefante sia traguardo di grande scultura.

Sensibilità.

... Costruzione e sensibilità non sono mai andated’accordo: la prima possiede, l’altra non si mostra chein superficie. Anche la famosa sensibilità dei primitivinon regge la costruzione, né mai superò, nell’umiliazio-ne a Dio, il piano della preghiera.

La scultura, ultima fra le arti a subire il contagio,sembra vittima destinata a patirne le fatali conseguen-ze; ossigeno da moribondi, la sensibilità appare ormaicome la sua risorsa estrema10. In arte qualsiasi senti-mento deve essere dato e non sentito: chi sente trema enon farà mai centro.

La scultura antica, anche quando ha fermato i senti-menti, ha sempre sdegnato la sensibilità. Quello che gliscultori moderni chiamano con questo nome e preten-dono di riscontrare nelle opere antiche, non è che l’a-spetto creato dalle corrosioni patine screpolature o rot-ture del tempo.

Tre modi di sensibilità (fra molti altri che tralascio,benché non siano meno pericolosi) nella scultura con-temporanea: fare indefinito, tipo flou in fotografia perdare il vago11; a croste, tipo rustico, per creare atmosfe-ra; e il frammento: banalissimo trucco che mira a riscuo-tere gratitudine per il mistero delle parti mancanti.

Insomma, la sensibilità in scultura o vive nell’amoredella carta vetrata che la consumi, o nel terrore che la

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carta vetrata le tolga tutto, livellando qualche asperità.Quanto al frammento fabbricato, è una pietosa impo-tenza; come gli amanti che non combinano perché c’èsempre di mezzo una gamba o un braccio che non sannodove mettere.

Ne dirò un altro: il malfatto. Ma per questo bastanole parole di Baudelaire: Con un’arte siffatta, qualsiasidilettante può passare per artista12.

Quando vedo gli scultori correre in fonderia e affan-narsi a cercare sulla cera il tocco sensibile nella loro sta-tua, oppure urlare perché non trovano quella tal graf-fiatura o quella caccola cosí importante, mi viene subi-to in mente quanto sia fragile e provvisoria la loro crea-zione.

L’opera d’arte vera è come il mare: non può cambiarcolore per una pisciata.

Malgrado l’importanza che le dànno gli scultori dioggi, la sensibilità è un fatto senza consistenza, una spe-cie di coraggio della paura del balbuziente. Nel miglio-re dei casi resta un desiderio che suda e fatica come acca-de nello sforzo di qualsiasi stitichezza.

Quando parlo d’arte, io intendo la sua ossatura, comeun architetto vero quando parla della sua costruzione:futili gli aggeggi e destinati a perire.

L’arte è un fatto assoluto e completo in sé, dal fondoalla superficie e fino alla schiuma, che può esserne la sen-sibilità. Parlare solo di sensibilità in un’opera d’artesignifica ridurre questo mare alla schiuma ed ai malin-conici resti di naufragi che galleggiano alla superficie.

Lo scultore è come un albero: le foglie sono la suasensibilità; né l’albero si occupa di questa esistenza fra-gile e passeggiera che il tempo farà cadere inesorabil-mente.

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Critica.

... Eppure bastano poche domande per denunciare lascultura come uno dei massimi esempi di vita apparen-te che si siano imposti all’umanità in virtú della tradi-zione.

Perché, se pittura e scultura sono due mondi di parigrandezza, questa è schiava del passato mentre quella èin continuo divenire?

Perché la prima ha trovato il suo volgare mentre l’al-tra parla ancora greco e latino?

Perché, in mezzo a tanta rivolta, la scultura non si èancora svegliata dal sonno dei secoli e dorme indistur-bata nella sufficienza del suo piedestallo?

Perché, in mezzo ad esigenze nuove, non fa che ripe-tersi come una stoviglia su vecchi stampi fatti per gene-razioni sepolte?

Perché non avverte l’indifferenza generale?Perché si ostina a fabbricar sembianze senza capire

che ogni immagine, anche se sublimata, non è che alter-na vicenda di un linguaggio che alla fine scompare peraltre necessità o per esaurimento?

Perché la pittura ha fatto opera immortale di unpomo, perché tutte le arti trovano nuovi innesti di vita,mentre la scultura non può?

L’aspetto della scultura è squallido e triste come quel-lo di un seme posato sul marmo, cioè fuori di ogni pos-sibilità di vita13.

Arte dei ciechi.

Chi, una trentina d’anni fa, chiamasse la sculturaarte dei ciechi, se io o altri, non ricordo; ma il nomeormai corre nei libri.

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Escludendo finalmente la vista, stanca e ingombra ditutte le simpatie e le incrostazioni delle opere antiche,sentivo la promessa di un rinnovamento.

Il tatto ha una sua veggenza, pensavo, e mi guideràin un mondo di primordiali possibilità. Passando daun’isola decrepita a un’altra nuovissima, la mia inquie-tudine troverà quello che da sempre cercavo.

Mi riapparvero allora alla luce, quasi riemerse dalfango, le forme che la scultura aveva sepolte per rivelarlesolo il giorno in cui, finite le costrizioni pratiche, potes-se disporle, oltre la statua e i suoi attributi, per un libe-ro canto.

L’arte non è interpretazione, ma trasformazione.Quando si dice che un’arte ha trovato se stessa, si

afferma il suo avvenuto passaggio da una dimensione aun’altra, cioè da un piano nativo a un piano creativo. Achi pretendesse di veder realizzato nelle statue antiche,in virtú della loro bellezza, fattura od incanto, questopassaggio, rispondo che si tratta di una dimensione diordine simpatico, mentre io intendo una dimensione diordine costruttivo, cioè tra veggenza e chiaroveggenzaequidistante come simpatia e possesso.

Anche il linguaggio si trasforma: il rumore si fasuono, la parola cambia senso, il colore diventa tono; inscultura il volume dovrebbe mutarsi in forma.

In breve, sentimento bellezza o carattere sono perl’arte vera imbonimenti; il fatto eterno è la sua sostan-za.

Anche solo stringendo la creta, uno scultore autenti-co può dare scultura; ma finché, con la stessa prepoten-za di facoltà native, deve modellare una statua, essa lotrascinerà sempre a negare l’atto essenziale.

Se l’arte dei ciechi è la verità, sia data libertà a que-st’arte: pure forme e l’anima che è in ogni luogo o cosa;né piú si confonda con la vita apparente di una statua,la vera vita della scultura14.

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* A. Martini, Scultura lingua morta, Emiliana, Venezia 1945, secon-do l’edizione Verona 1948, pp. 19-22, 34-37, 39-41, 48-50.

1 In una lettera a Giovanni Scheiwiller del 28 febbraio 1945 Mar-tini scriveva: «Sto scrivendo un piccolo libretto sulla scultura. Saran-no 50 pagine. Chi l’ha letto ha detto che è una specie di rivelazione,sono dei discorsi di come vedo io la scultura dal primo giorno ad oggi.Gino Scarpa, non so se lo ricordi, quello che era redattore capo all’Am-brosiano, fu molto impressionato. Ad ogni modo è talmente coraggio-so da essere certamente un successo editoriale. Se vuoi pubblicarlo tu,mi scrivi, altrimenti mi farò editore io stesso, perché mi preme che escasubito a scanso di incidenti di bombe o altro scombussolamento», inA. Martini, Le lettere 1909-1947, Firenze 1967, p. 440. Scheiwilleraccettò subito la proposta (ibid., p. 441, nota 1).

2 In questo paragrafo Martini tiene ad evidenziare le difficoltàdella scultura, che soffre della sua stessa tradizione.

3 Cfr. la lettera di Martini a Silvio Branzi del 9 aprile 1945: «Sic-come il suo compito era di darmi torto, non vorrei che nella fretta sifosse sbagliato perché ha finito per darmi ragione. Lei scrive: «In pit-tura anche nell’ipotesi che per secoli venga imposto un solo soggetto,il colore darebbe modo coi suoi accordi di evitare sempre le ripetizio-ni. Ecco, sempre no, ma per secoli, secoli e secoli certamente; ma infine dovrebbe pur venire il giorno in cui anche qui tutte le situazionisi presentino esaurite come nella scultura ecc. ecc.». Ma, caro Branzi,ho detto per un’ipotesi; ma non è cosí, perché la pittura è un fatto uni-versale e quindi eterno, mentre con la sua affermazione di esaurimen-to per uno stesso soggetto e di valore relativo, come sono le passionicoi loro attributi, dopo secoli, secoli e secoli deve necessariamenteesaurirei come lei dice, e quindi io non le ho chiesto altro all’infuori diquesta sua approvazione. E solo per questo esaurimento la scultura nonè un fatto universale, ma episodico» (ibid., p. 442).

4 Martini si allinea agli interrogativi dei pittori (cfr. Mafai, in P. Baroc-chi, Storia moderna dell’arte in Italia, III, Torino 1991, pp. 400 sgg.).

5 Cioè «esaurita» (cfr. nota 3).6 Immagine assai suggestiva, in relazione anche alla problematica

della scultura astratta. Cfr. la lettera di Arturo Martini a Giorgio Fer-rari del 22 agosto 1945: «Bisogna vedere se la scultura per diventarearte deve essere astrazione o se rimanendo un oggetto ha servito neltempo ed è finita dopo aver compiuto il suo naturale ciclo», in Marti-ni, Le lettere cit., p. 459.

7 L’accostamento di «plastico» a «poesia» allude felicemente all’in-flazione di questi termini in clima crociano.

8 Secondo gli insegnamenti di Lionello Venturi; cfr. L. Venturi, Laposizione dell’Italia nelle arti figurative, in «Nuova Antologia», CCLX

(1915), pp. 213-25.

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9 Sulle resistenze della scultura cfr. ancora la citata lettera di Mar-tini a Giorgio Ferrari del 22 agosto 1945: «Credo che la scultura siaun duplicato della pittura, solidificato per resistere alle intemperiedato che una volta le funzioni si svolgevano all’aperto... e se la scultu-ra si stacca muore per mancanza di vitalità propria... Perché la scultu-ra ha bisogno di un corpo e della bellezza, mentre per le altre arti nonsono che semplici pretesti? In scultura la deformazione è insopporta-bile, nelle altre arti qualunque bruttezza può essere stupenda, basta siaesaltata nell’essenza della sua arte», in Martini, Le lettere cit., p. 459.

10 Cfr. la citata lettera di Arturo Martini a Silvio Branzi del 9 apri-le 1945: «La sensibilità è un fenomeno che riguarda la carta vetrata,tanto è vero che questa è il suo terrore» (ibid., pp. 442 sgg.).

11 Cfr. ancora la lettera di Arturo Martini a Giorgio Ferrari del 22agosto 1945: «Oggi è tale l’inconsistenza della scultura che tutti gli arti-sti, appena fatta, ricorrono alla fotografia per fermare le ombre e tuttipossono illuminarla diversamente e quindi falsarla. Ogni artista desi-dera morendo di dare alla sua opera una eternità di fermezza e questotutte arti lo possono, mentre per la scultura ogni dilettante può ren-derla irriconoscibile mediante le piú strane illuminazioni» (ibid., p.459).

12 Cfr. G. Comisso, in Martini, Le lettere cit., p. VI: «Con lui anda-vo nei pomeriggi a camminare per le campagne; egli declamava Rim-baud e Baudelaire...»

13 In una lettera a Giorgio Ferrari del settembre 1945 Arturo Mar-tini scrive: «Sí, forse una speranza c’è, che distrutta la statuaria comeidolo ne nasca un’altra come essenza, ma questa probabilità... mi fa piúpaura di quella di prima, dovendo abbandonare la vita per entrare nel-l’astrazione. L’astrazione in arte è una bestemmia come tutte le pro-babilità che vivono sulla supposizione, fuori dei confronti, l’astrazio-ne è un comodo rifugio senza senso né sesso, buona alla mistica ma nonall’arte, che è un fatto vivo e fisico, frutto di innesti come il figlio, emai di un pensiero» (ibid., p. 463).

14 Queste parole accorate sono accompagnate dallo stesso travaglionell’epistolario; cfr. la lettera del 15 settembre a Giorgio Ferrari, dovesi legge: «Io non sono lo scultore, ma sono uno scultore che ha credu-to esser tale, invece come tutti non sono stato che uno statuario»(ibid., p. 466).

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BRUNO ZEVI

Architettura organica*

Io vi porto una nuova Dichiarazione d’Indipendenza...Un’architettura organica significa né piú né meno unasocietà organica. Gli ideali organici in architettura rifiuta-no le regole imposte dall’estetismo esterno o dal puro gusto,come la gente cui apparterrà questa architettura rifiuterà leimposizioni alla vita che sono in disaccordo con la natura eil carattere dell’uomo... Troppo spesso nella storia la bellezzaè stata contro il buon senso. Io credo che sia giunta l’ora incui la bellezza deve avere un senso... In questa èra moder-na, l’arte, la scienza e la religione si incontreranno, diver-ranno la stessa cosa, e tale unità sarà raggiunta attraverso unprocesso in cui l’architettura organica sarà al centro.

Queste sono alcune apocalittiche frasi del messaggioche Frank Lloyd Wright portò nel 1939 agli architettiinglesi1... Ma intanto, che cosa vuol dire organico, e par-ticolarmente quale è il significato dell’architettura orga-nica?...

L’uso della parola organico applicato all’architetturadata da lungo tempo2 e ha dato luogo a molta confusio-ne. Bisogna subito dissipare due equivoci: quello natu-ralistico e quello biologico.

1) L’equivoco naturalistico. A forza di dire che bisogna guardare alla natura c’è

il pericolo di fraintendere e di credere che bisogni imi-tare la natura. Dato che, come vedremo, coloro che

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sostengono un’architettura organica guardano princi-palmente ai templi egiziani e alle cattedrali gotiche, taleequivoco è ancora piú facile, poiché la decorazione egi-ziana e gotica è spesso naturalistica. Behrendt3, che puremette in guardia contro tale interpretazione, continua-mente si riferisce all’architettura di Wright con dei«come»: «come una pianta» l’edificio sorge dalla terraalla luce; i tetti sporgenti ricordano l’«essenza dellepiante tradotte in termini architettonici»; le forme dellevarie finestre e il loro diverso accoppiamento rievocanola disposizione delle «foglie»; il rapporto tra il corpodella casa e i vari dettagli, «il tronco che man mano chesi innalza piú in alto da terra si fa piú libero e piú leg-gero, mentre i particolari dell’albero divengono piú ela-borati e piú tenui». Questo compiacersi di associazioniesteriori, se è legittimo per un critico fin tanto che glipermette una maggior vicinanza all’oggetto poetico, hadato all’architettura organica l’alone di un romanticismonaturalistico, di un contenutistico e meccanico «ritornoalla natura», che nell’uso che facciamo della parola inqueste pagine è totalmente respinto. Tutto il peggioreromanticume inglese del secolo scorso si è ubriacato diquesti ricordi naturalistici appiccicati all’esterno dei cot-tages. Anche Wright non è stato immune dall’equivoconaturalistico nella sua architettura, non solo nella deco-razione, ma nei blocchi di pietra tra i mattoni (permeglio legare l’edificio alla terra) della Casa Williams aRiver Forest, Ill. (1895) o nelle famose colonne a fungodella S. C. Johnson, in cui è evidente un certo compia-cimento per la reminiscenza degli alberi4.

2) L’equivoco biologico. Esso è molto piú grave del primo in quanto piú di una

persona intelligente ci crede. Da quando Vasari affermòche per comunicare gli essenziali valori spirituali, l’ar-chitettura deve apparire organica come un corpoumano5, e da quando Michelangelo disse che chi non

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conosce a fondo l’anatomia del corpo umano non potràmai comprendere l’architettura6, fino a Geoffrey Scotte a Arnold Whittick7, una lunga serie di critici, special-mente tedeschi ed inglesi, ha fatto delle metafore concui diciamo che una torre «si innalza» e che una colon-na «si contrae», o che una facciata è «movimentata» eun’altra «calma e distesa» un sistema estetico. «L’artedell’architettura è la trascrizione degli stati del corponelle forme da costruire». «È condizione necessaria diquesto godimento dell’architettura che in essa vi sia ilritratto di abituali sollecitazioni del corpo umano, unarievocazione del mondo della vita organica attraverso l’i-dentificazione immediata o il ricordo dell’esperienzafisica» – sono assiomi dei due autori citati. Partendo datale equivoco è possibile trovare una corrispondenzaarchitettonica per tutti i casi contemplati dalla psicolo-gia moderna e, forma per forma (come vedemmo hannofatto i russi), si può del piacere estetico fare un piacerebiologico e sessuale. D’altra parte si può osservare chel’uomo reagisce alle forme organiche e a quelle inorga-niche con uguale intensità; semmai alle seconde conintensità maggiore dato che è píú facile impossessarsidell’idea di un cerchio e di una sfera che della mul-tiformità di quasi-cerchi e di quasi-sfere che si incon-trano nel mondo organico. Nei limiti in cui una formaorganica, un albero, può dirsi bello, cosí può dirsi bellauna forma geometrica...

Cosí come è, l’equivoco biologico dell’architetturaorganica può al massimo costituire una delle categorie dimetafore. Per quello che ci riguarda è il contrario di ciòche noi intendiamo.

L’equivoco biologico è stato alla base dell’espressio-nismo. In esso le case hanno cercato di rappresentaresentimenti, stati d’animo o il contenuto stesso dell’edi-ficio; fu infatti un fenomeno della decadenza8. Può esse-re vero che si vada ad una partita di calcio per supera-

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re un nostro senso di debolezza fisica attraverso il pia-cere che si prova di fronte alla forza dei giocatori; chesi ammirino le cose belle per un senso di inferiorità; chesi gioisca del ritmo, dell’ordine, della fluenza di unasinfonia o di una architettura perché realizzano quelloche nella nostra vita quotidiana è solo allo stato di aspi-razione. Ma il concetto di architettura organica quiespresso non ha nulla a che fare con quelle associazioniesteriori, in cui il fattore vitale, il protagonista è l’edi-ficio e l’uomo è solo lo spettatore con le sue psicologi-che reminiscenze corporali.

L’attenzione che l’architettura organica, contraria-mente a quella accademica, stilistica, presta all’uomo ealla vita va ben oltre la riproduzione diretta o indirettadelle sensazioni fisiche umane. Se l’architettura organi-ca è movimentata e dinamica, per esempio, diversa-mente da quella classica (antica e moderna), non è per-ché le sue pareti siano ricoperte a mo’ dell’«Art Nou-veau»9 di un linearismo nervoso che suscita il ricordo delmovimento nell’osservatore. Non è neanche perché lasua composizione figurativa sia tale che l’occhio si devemuovere per apprenderla10...; ma perché segue nei suoispazi i fondamentali, reali movimenti dell’uomo nellacasa, perché è funzionale – non astrattamente utilitaria– nel senso integrale della parola11. Si è ancora troppoabituati a vedere una casa come una pittura, e spessoanche i migliori critici sanno meglio analizzare separa-tamente una pianta, una sezione e un elevato di un edi-ficio, che la sua struttura completa. È alla struttura,intesa non come sola tecnica, ma come complesso delleattività umane che vi si svolgono, che l’architetturaorganica presta la sua attenzione. Organica in quanto neisuoi spazi ricerca la felicità materiale e psicologica e spi-rituale dell’uomo, nell’ambiente isolato, nella casa, nellacittà. Organico è quindi un attributo che ha alla baseun’idea sociale, non un’idea figurativa; in altre parole,

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che va riferito a un’architettura che vuole essere, primache umanistica, umana12.

* B. Zevi, Verso un’architettura organica, Torino 1945, pp. 63, 71-75.1 Nel corso di alcune conferenze tenute da Wright all’Istituto Reale

degli Architetti Britannici di Londra nel maggio 1939; cfr. F. Wright,An Organic Architecture, London 1939, tradotto in Italia a cura di A.Gatto e G. Veronesi, Milano 1945, pp. 43 sg. Per spiegare la sua«Dichiarazione di indipendenza» Wright afferma: «Parlando seria-mente, e per tornare alla natura dell’idea che difendo e alla «Dichia-razione di indipendenza» possiamo domandarci: indipendenza da checosa? Lasciate che mi ripeta: indipendenza da ogni imposizione ester-na, da qualunque parte venga; indipendenza da ogni classicismo – vec-chio o nuovo – e da ogni devozione ai «classici»; indipendenza da ogni«standard» commerciale o accademico che mette in croce la vita».

2 Almeno dal Lodoli (cfr. A. Memmo, Elementi dell’architetturalodoliana, Roma 1786, p. 60) che sosteneva «che si avesse da osservarla ragione e non il solo capriccio anche in quell’altro genere di archi-tettura, ch’egli con termine suo originario chiamava organica e che èrelativa ad ogni sorta di arredi. Diceva che spettava alle spalliere dellesedie ed al deretano la forma del sedere delle medesime».

3 Cfr. B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, Torino 1950, pp. 332sg.: «Tra i maggiori storici del movimento moderno Walter CurtBebrendt era stato il solo a dare un fondamentale valore alla parolaorganico in architettura. Egli ricordava come fosse stata usata dalBurckhardt osservando che, del resto, già il Vasari alludeva a qualco-sa di simile quando lodava l’edifizio della Farnesina... Il Behrendt opi-nava che in un solo caso nella storia l’organico e il formale si sono unitinella stessa opera d’arte, nel tempio dorico».

4 L’edificio della amministrazione della Società S. C. Johnson aRacine (Wis.) è del 1936-39.

5 Cfr. Vasari, Dell’Architettura, in Le Vite, I, Firenze 1568, p. 30:«È di necessità che si distribuischino per lo edificio le stanze ch’abbi-no le lor corrispondenze di porte, finestre, camini, scale segrete, anti-camere, destri, scrittoi, senza che vi si vegga errori; come saria una salagrande, un portico picciolo e le stanze minori; le quali, per esser mem-bra dell’edificio, è di necessità ch’elle siano, come i corpi umani, egual-mente ordinate e distribuite secondo le qualità e varietà delle fabriche,come tempii tondi [in] otto facce, in sei facce, in croce e quadri, e gliordini varii secondo chi et i gradi in che si trova chi le fa fabricare, per-ciò che, quando son disegnati da mano che abbia giudicio con bella

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maniera, mostrano l’eccellenza dell’artefice e l’animo dell’auttor dellafabrica». Ovviamente per Vasari resta prevalente la rispondenza tra leesigenze del committente e l’articolazione dell’architetto.

6 Cfr. la famosa lettera di Michelangelo al Cardinal Rodolfo Pio daCarpi del 1560: «Quando una pianta à diverse parti, tucte quelle chesono a un modo di qualità e quantità ànno a essere adorne di un mede-simo modo o di una medesima maniera; e similmente i lor riscontri. Maquando la pianta muta del tutto forma, è non solamente lecito manecessario, mutare del tucto ancora gli adornamenti, e similmente i lorriscontri: e e’ mezzi sempre sono liberi come vogliono; sí come il naso,che è nel mezzo del viso, non è obrigato né all’uno né a l’altro ochio,ma l’una mana è bene obrigata a essere come l’altra, e l’uno ochio comel’altro, per rispecto degli lati e de’ riscontri. E però è cosa certa che lemembra dell’architettura dipendono dalle membra dell’uomo. Chi nonè stato o non è buon maestro di figure e massimo di notomia, non sene può intendere», in Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma diG. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze 1983, V, p. 123.

7 Zevi fa riferimento a G. Scott, L’architettura dell’umanesimo,Bari 1939 e a A. Whittick, Erich Mendelsohn, London 1940.

8 In tal modo si spiegano le affermazioni dell’autore della mono-grafia su Mendelsohn. Cfr. anche Zevi, Storia dell’architettura moder-na cit., p. 342.

9 Esemplificata con un rinvio a Victor Horta o a Henry van deVelde (ibid.).

10 Cfr. ibid., p. 343: «Il razionalistico edificio del Bauhaus richie-de tale movimento, non diversamente dai dormitori di Aalto o dallaCasa della Cascata».

11 E, in questo senso, «travalica gli orizzonti figurativi del razio-nalismo del 1920-1930» (ibid., p. 343.

12 Con tale esigenza Zevi si ricollega a Persico e alla sua scoperta diWright (cfr. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia cit., p. 299).Giustamente M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985,Torino 1986, p. 12 commenta: «Zevi esordisce con un volume Versoun’architettura organica (1945) scritto come «manifesto» non solo di unascelta storiografica ma anche di un principio di azione: la fondazionedell’Apao e della rivista «Metron» è conseguente delle riflessioni depo-sitate in quel volume, le cui linee metodologiche saranno esplicitate piútardi in Saper vedere l’architettura pubblicato a Torino nel 1948».

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GIOVANNI MICHELUCCI

Ricostruire *1

Alla nostra generazione tocca ora in sorte il compitodi cominciare a ricostruire. Si vorrebbe esser convinti chele è chiaro quanto poco questa impresa – onorevole egigantesca – abbia a che fare con i suoi meriti e le sue pos-sibilità e come non sia stata determinata da un suo spon-taneo e diffuso bisogno di realizzare un nuovo, coscien-te, contenuto spirituale, ma che è una situazione di fattoprovocata da una sua anteriore deficienza. La ricostru-zione si è parata improvvisamente davanti con una suasevera necessità e improrogabilità che non ha alcun rap-porto con il grado di capacità degli uomini a compierla.

Si pone perciò un quesito fondamentale: tentare distabilire anzitutto questo rapporto, questa dipendenza,col ritrovare o creare la nuova capacità che l’impresarichiede e conciliare quest’ultima con le reali esigenzedel nostro tempo.

Quel che è da ricostruire non sono soltanto case ecittà, ma se anche solo queste fossero da rifare, ciò nonlimiterebbe il problema al loro caso particolare. L’im-pegno che incombe oggi è di ricostruire qualcosa di cuile case e le città saranno una coerente espressione, cioèun ambiente civile nuovo, richiesto non solo dal desi-derio e dal disagio di molti, ma dal fallimento sempre piúpalese e sempre piú clamoroso dell’antico2.

Non bisogna perciò dimenticare che, nonostantetutto, noi siamo ancora uomini del vecchio mondo,

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ancora legati ai suoi schemi mentali, e occorre provve-derci di una buona dose di coraggio per rintuzzare ilnostro orgoglio e la nostra vanità di pretendere dicostruire cosí come siamo un mondo nuovo, che soloancora confusamente è in noi e che ciascuno immaginadiversamente anche se sempre lo creda migliore. Unacosciente e dignitosa umiltà che ci permetta di chieder-ci se siamo pari al compito che ci aspetta potrà essere ilsolo legittimo punto di partenza per ogni ricostruzione;occorre dubitare umilmente della propria capacità a con-ciliare la causa occasionale e particolare che ci spingeall’opera con il fine che ci attrae. Occorre riconoscerenon solo che la nuova società, la nuova città, cioè lenuove case come le nuove leggi, potranno essere costrui-te soltanto dall’uomo nuovo, perché l’uomo crea solocose che gli somigliano, ma che questo uomo nuovodovremo trarlo necessariamente e unicamente da entronoi stessi3.

Soltanto se riusciremo a trasformarci in nuovi citta-dini potrà sorgere la nuova città e sarà tanto nuova etanto migliore quanto nuovi e migliori saremo. Tuttaviase non possiamo dire che siamo già tali, d’altra partesiamo tali in potenza un po’ tutti, da quelli che semprehanno avvertito un disagio nelle condizioni sociali, eco-nomiche, spirituali e d’ambiente e desiderato un rinno-vamento, a quelli che han sopportato tutto ciò con indif-ferenza e disinteresse come cosa a loro estranea, perchéné gli uni né gli altri han trovato, cercandola o no, unarispondenza tra se stessi, uomini, e l’ambiente scarsa-mente, o solo apparentemente umano.

Oggi noi ci troviamo nella condizione di non saperequale sarà la società futura né, in conseguenza, la suarispondenza urbanistica, la forma costruttiva in cuipotranno realizzarsi le sue esigenze nuove, perché ildisagio o l’indifferenza per l’antica e l’aspirazione a unmutamento non implicano se non una personale e limi-

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tata visione della nuova, e non possiamo perciò che par-tire da un desiderio, senza permetterci il lusso di lavo-rare con sicurezza, senza dubbi e fatiche alla sua realiz-zazione. La società futura sarà certamente organizzatain un determinato modo, ma quel che conta tener pre-sente è che questo non ha possibilità, in nessuna manie-ra, di esser prefissato, a meno di non cader nell’erroredi chi ha sempre immaginato soluzioni di convivenzasociale in base a uno schema egoistico e limitato, piúfalso che utopistico in quanto accettava la precedenzadell’organizzazione sulla vita: altrettanto è indispensa-bile fare nel campo della realizzazione urbanistica.

Pur non potendo fissarci a un modello, bisogna tenerpresente che dobbiamo operare con la consapevolezzache il nostro lavoro o sarà un mezzo alla formazione diun mondo nuovo o un errore gravido di conseguenzefatali per tutti.

A quest’opera di conciliazione tra la nostra attualecapacità, fatta piú che altro di desiderio e spogliata d’o-gni orgoglio, e il compito che siamo costretti ad attua-re; a quest’opera di rinnovamento di noi stessi e del-l’ambiente in cui viviamo, s’informano le pagine cheseguono e che seguiranno. La città nuova, da partenostra, non è una promessa o un impegno che mai sareb-be possibile fare o prendere, ma un invito a tutti quelliche finora si son sentiti indifferenti o stranieri in unmondo che da secoli ha vissuto e rischia di continuare avivere secondo schemi falsi o invecchiati, in gran parteartificiosi, e in un ambiente architettonico che rispec-chia questi schemi.

Ci rivolgiamo a tutti quelli che hanno dentro di sé unqualsiasi stimolo a un miglioramento e che non dimen-ticano il principio che l’opera di ciascuno può essere vali-da se fatta consapevolmente a beneficio di tutti e chequando abbiano riconosciuto il beneficio che qualcosapuò dare allo spirito sentano di dover fare in modo che

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ne possano godere anche gli altri, sotto pena di render-lo sterile anche per loro stessi, senza tuttavia scambia-re un istinto sociale e il riconoscimento di una collabo-razione effettiva tra gli uomini con un male inteso amoreper il prossimo che porta a un falso sentire e a una fit-tizia gerarchia di buoni e non buoni, di beneficati ebenefattori.

Convinti che questa superiore esigenza di socialitàdebba informare l’attività dell’individuo in ogni campo,e sensibili particolarmente ai suoi riflessi nel campo edi-lizio, noi cercheremo, attraverso l’incontro di ogni piúvaria tendenza, di contribuire a una loro chiarificazio-ne, quanto ce lo permetterà il nostro gusto e la nostracapacità d’intendere e nella misura in cui ci riuscirà diessere obiettivi4.

* G. Michelucci, premessa a «La Nuova Città», I, n. 1-2, dicem-bre 1945 - gennaio 1946, pp. 1-3.

1 Con questo articolo Michelucci dà l’avvio ad una nuova rivista fio-rentina, nella quale persegue quegli onesti obbiettivi di una fruttuosasocialità, già espressi nel corso della guerra. Si ricordi, ad esempio, loscritto Funzione sociale dell’urbanistica, in «Critica fascista» del 1gennaio 1942 (ripubblicato in Giovanni Michelucci, a cura di F. Borsi,Firenze 1966, pp. 263-66).

2 Nel sopra citato articolo del 1942 Michelucci aveva scritto: «Noicrediamo che ogni problema architettonico sia legato da una biunivo-ca corrispondenza con ogni problema urbanistico e che quindi ogni solu-zione di quest’ultimo debba preludere e concepire la conseguente solu-zione architettonica. L’Architettura però, come espressione a sé, puòè vero essere manifestazione e simbolo di un certo periodo politico, inquanto espressione stilistica di un tempo, ma non può essere elemen-to ordinatore, espressione di un ordine sociale, in quanto appuntorisolve in sé problemi limitati ad una visuale, ad un volume, ad unambiente: casa, strada, piazza. L’Urbanistica invece è la disposizionepiú alta e la soluzione a priori per la quale una città, a parte il valoreartistico e architettonico dei singoli elementi, case o palazzi, assume undeterminato carattere e una determinata distribuzione sociale».

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3 Il «vecchio» e il «nuovo» sono per Michelucci legati a una nuovavisione urbanistica che superi le suddivisioni delle classi. Cfr. ancorail citato articolo del 1942 a p. 264: «Chi faccia una rapida indagine sugliesempi piú cospicui e recenti può facilmente rendersi conto che si è par-titi quasi dovunque con un concetto errato e si sono, con l’intento dicreare ordine, generate invece perniciose divisioni... Le città vengono...ad essere suddivise urbanisticamente per classi con un risultato social-mente negativo. Se le moderne città debbono essere, nella perfezionedel loro organismo, l’esempio limpido e chiaro del cammino livellato-re della civiltà, ecco che si è fatto tutto il contrario: si è accentuato, inquesto insigne capolavoro della società umana, quella differenziazioneper ceti che tutte le ideologie sociali moderne tendono invece ad abo-lire».

4 Un’aspirazione alla quale Michelucci è rimasto fedele; lo puòdocumentare una sua lettera di congedo dalla scuola fiorentina, quan-do nel 1949 decise di trasferirsi alla Facoltà di ingegneria di Bologna;cfr. Giovanni Michelucci cit., pp. 286-93, dove tra l’altro (alle pp. 291sg.) si legge: «Le qualità «artistiche» dell’allievo che si dedica all’ar-chitettura, si rilevano se ci sono (e non si possono iniettare) soltantocome raggiunta maturità di tutta una preparazione tecnica, sociale, eco-nomica, spirituale, che deve aiutare anche la comprensione di ciascunperiodo storico, non solo dei templi e dei palazzi, ma di case, ospeda-li, stabilimenti industriali, agricoli ecc. Soltanto un indirizzo di questogenere può aiutare a quel controllo economico a cui ho accennato e chemi sembra indispensabile: controllo inteso nel senso piú vasto e profon-do del termine ai fini del raggiungimento di una forma responsabile cheassume l’architetto, operando oggi non tanto per i singoli di eccezio-ne, quanto per la media proprietà e per gli enti. Perché in verità, pocointeressano ad una nazione povera le «opere d’arte» rappresentate daquelle ville favolose, sulle quali si cerca di attrarre l’attenzione gene-rale: poco interessano ai fini di una ricostruzione o costruzione inquanto non dànno alcun contributo tecnico alla soluzione economicadi un problema urgente e fondamentale di popolazioni appunto comela nostra, che povera di mezzi, di case, di comodità, ha bisogno di unminimo decente indispensabile per la sua vita; e poco interessano ancheai fini della bellezza, perché nulla è piú pietoso di quelle «villette» cheambiziosamente si vestono di qualche forma riflessa e che è ormai accet-tata dal «gusto» corrente e aggiornato».

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LUCIO FONTANA1

Manifesto bianco*

... Da che furono scoperte le forme d’arte conosciu-te, in distinti momenti della storia, si compie un pro-cesso analitico in ogni arte. Ogni arte ebbe il suo siste-ma in ordinamento indipendente. Si conobbero e svi-lupparono tutte le possibilità, si espresse tutto quello chesi poteva esprimere. Identiche condizioni dello spiritosi esprimevano con la musica, l’architettura e la poesia.L’uomo divideva le sue energie in manifestazioni diver-se rispondendo a questa necessità di conoscere.

L’idealismo venne applicato quando l’esistenza nonpoté essere espressa in modo concreto. I meccanismidella natura venivano ignorati. Si conoscevano i processidell’intelligenza. Tutto risiedeva nelle possibilità proprieall’intelligenza. La ricerca consisté in confusi esperi-menti che molto di rado raggiungevano una verità. L’ar-te plastica consisté in rappresentazioni ideali delle formeconosciute, in immagini alle quali si attribuiva ideal-mente una realtà. Lo spettatore immaginava un ogget-to dietro l’altro, immaginava la differenza fra i musco-li e le vesti rappresentate. Oggi la conoscenza speri-mentale sostituisce la conoscenza immaginativa. Abbia-mo coscienza di un mondo che esiste e si esprime da sestesso e che non può esser modificato dalle nostre idee.Necessitiamo di un’arte valida per se stessa. Nella qualenon intervenga l’idea che di essa ci siamo fatti. Il mate-

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rialismo stabilito in tutte le coscienze esige un’arte inpossesso di valori propri, lontana dalle rappresentazio-ni che oggi costituiscono una farsa. Noi, uomini di que-sto secolo, forgiati da questo materialismo siamo dive-nuti insensibili dinanzi alla rappresentazione delle formeconosciute e all’esposizione di esperienze costantemen-te ripetute. Si concepí l’astrazione alla quale si arrivòprogressivamente attraverso la deformazione.

Però questo nuovo stato di cose non corrisponde alleesigenze dell’uomo attuale.

Si richiede un cambiamento nell’essenza e nellaforma. Si richiede il superamento della pittura, dellascultura, della poesia e della musica. È necessaria un’ar-te maggiore in accordo con le esigenze dello spiritonuovo...2.

Il subcosciente, magnifico ricettacolo dove alloggia-no tutte le immagini che l’intelligenza percepisce, adot-ta l’essenza e le forme di queste immagini, alloggia lenozioni riguardanti la natura dell’uomo. Cosí, nel tra-sformarsi il mondo oggettivo, si trasforma ciò che ilsubcosciente assimila, la qual cosa produce modifica-zioni nella forma di concezione dell’uomo.

L’eredità storica ricevuta dagli stadi anteriori dellaciviltà e l’adattamento alle nuove condizioni di vita ope-rano mediante questa funzione del subcosciente. Il sub-cosciente modella l’individuo, lo integra e lo trasforma.Gli dà l’ordinamento che riceve dal mondo e che l’in-dividuo adotta. Tutte le concezioni artistiche sono dovu-te al subcosciente. La plastica si sviluppò in base alleforme della natura. Le manifestazioni del subcoscientesi sono adattate pienamente a quelle in quanto dovutealla concezione idealistica dell’esistenza. La coscienzamaterialistica, ossia la necessità di cose chiaramente pro-vabili, esige che le forme d’arte sorgano direttamentedall’individuo, soppresso qualunque adattamento alle

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forme naturali. Un’arte basata su forme create dal sub-cosciente, equilibrate dalla ragione, costituisce una realeespressione dell’essere e una sintesi del momento stori-co. La posizione degli artisti razionalisti è falsa. Nel lorosforzo per sovrapporre la ragione e negare la funzionedel subcosciente ottengono solamente che la sua pre-senza sia meno visibile. In ognuna delle loro opere notia-mo che questa facoltà ha funzionato.

La ragione non crea. Nella creazione delle forme, lasua funzione è subordinata a quella del subcosciente. Intutte le attività l’uomo funziona con la totalità delle suefacoltà. Il libero sviluppo di tutte queste è una condi-zione fondamentale nella creazione e nell’interpretazio-ne della nuova arte. L’analisi e la sintesi, la meditazio-ne e la spontaneità, la costruzione e la sensazione sonovalori che concorrono alla sua integrazione in un’unitàfunzionale. E il suo sviluppo attraverso l’esperienza èl’unico cammino che conduce ad una manifestazionecompleta dell’essere3.

La società sopprime la separazione fra le sue forze ela integra in una sola forza maggiore. La scienza moder-na si basa sulla unificazione progressiva dei suoi ele-menti. L’umanità riunisce i suoi valori e le sue cono-scenze. È un movimento radicato nella storia da varisecoli di sviluppo. Da questo nuovo stato di coscienzasorge un’arte integrale, nella quale l’essere funziona e simanifesta in tutta la sua totalità. Passati vari millennidi sviluppo artistico analitico, giunge il momento dellasintesi. Prima la separazione fu necessaria. Oggi costi-tuisce una disintegrazione dell’unità concepita.

Concepiamo la sintesi come una somma di elementifisici: colore4, suono, movimento, tempo, spazio, laquale integri una unità fisico-psichica. Colore, l’ele-mento dello spazio, suono, l’elemento del tempo, ilmovimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio,

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sono le forme fondamentali dell’arte nuova, che contie-ne le quattro dimensioni dell’esistenza. Tempo e spazio.

La nuova arte richiede la funzione di tutte le energie del-l’uomo, nella creazione e nell’interpretazione. L’essere simanifesta integralmente, con la pienezza della sua vitalità.

* L. Fontana, Manifesto bianco, versione italiana del testo redattoa Buenos Aires nel 1946 da Fontana e allievi, in L. Fontana, Concettispaziali, a cura di P. Fossati, Torino 1970, pp. 118 sg., 124-26.

1 Già ben noto in Italia per aver partecipato alle mostre del Milio-ne e aver suscitato interventi, tra gli altri, di Persico (1934 e 1935, inTutte le opere, Milano 1964, I, pp. 188-92) e di Argan (Lucio Fontana,1939, in Studi e note cit., pp. 211-16) che notava: «Fontana libera com-piutamente l’immagine artistica dalla condizione empirica dello spazio:ciò che, se da un lato può indubbiamente condurre alle facili applica-zioni decorative, dall’altro crea una condizione essenziale al determi-narsi di una scultura non solo esteriormente monumentale o approssi-mativamente pittorica».

2 Cfr. P. Fossati, L’immagine sospesa, Torino 1971, p. 177: «Lapreoccupazione di Fontana... è di veder volatizzare, in una serie di rela-zioni che sono logiche e dimostrative, ma incapaci di trasferirla inte-gralmente, quella «sostanza» o pulsione o fantasma su cui avrà mododi insistere nel piú tardo Manifesto bianco, e che non è solo una risor-sa linguistica di tipo psicanalitico, ma un bisogno di totalità e globa-lità. Tale «sostanza» necessita non di razionalizzazione o spiegazione,ma di esser recuperata ed usata come attività, come prassi ed uso. Lospostamento di talune matrici d’avanguardia, pure evidenti in Fonta-na, si determina proprio alla luce di questa preoccupazione, che portaad una reinvenzione nel gesto e nella durata fisica la sostanza di cui siè discorso, senza emblematizzarla psicologicamente e senza congelarlanormativarnente».

3 Cfr. P. Fossati, in Fontana, Concetti spaziali cit., p. 8: «Ciò cuisarà da badare... è la consapevolezza del modo con cui si muove Fon-tana e come quest’ultima sia il risultato di un preciso processo di espe-rienza e di acquisizione».

4 Cfr. Argan, Lucio Fontana, p. 212: «Il colore non è un fenomen-to di superficie, una determinazione o una variazione tonale del chia-roscuro inerente alla solidità materiale della cosa scolpita, ma è il prin-cipio plastico, spaziale, della scultura di Fontana».

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LIONELLO VENTURI

Linguaggio attuale della pittura*

... Un altro pregiudizio riguarda il cubismo, e in gene-re quella che si chiama, con termine assai discusso, «arteastratta»1. Di fronte a una pittura che non rappresentiné una mela, né un albero, né una figura umana, il vici-no di casa s’impenna, non capisce «che cosa» rappre-senti, fiuta il trucco, si offende e protesta. Bisogna spie-gargli che un’architettura esprime l’animo dell’architet-to in modo chiaro e persuasivo senza ricorrere né a melené ad alberi né a figure umane. Una pittura cubista vagiudicata come una architettura in pittura, che può esse-re arte o no a seconda della qualità individuale dell’ar-tista, ma alla quale nulla si deve chiedere se non di esse-re un’architettura ideale. E un’architettura è sí astrattadalla natura fisica esteriore, ma è concreta in quantoesprime la natura intima dell’uomo, il suo modo di sen-tire e d’immaginare2.

Alla fine del periodo fra le due guerre l’esperienzacubista sembrava affatto dimenticata. Il ritorno allanatura prima e il surrealismo poi avevano distratto glianimi dai problemi della forma, che il cubismo avevaposti. Perché il cubismo non era stato inventato perépater le bourgeois, ma per il bisogno di scoprire nuoviprincipi di struttura pittorica.

Da quando è finita la seconda guerra mondiale cisono giovani artisti che non hanno prestato l’orecchio aisoliti inviti del ritorno alla natura, ma hanno trovato

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realtà nuove per mezzo di forme astratte o pseudoa-stratte. E questi giovani sono numerosi in Francia comein Belgio, in Italia come in Inghilterra. In America sonolegione. I Romani hanno potuto accorgersene proprio inquesti giorni guardando nella Galleria del Secolo alcu-ne opere di Guttuso e di Turcato, di Monachesi e diCorpora3. Non sono i soli, per fortuna. Si tratta anchein Italia di accordarsi su un linguaggio comune, in cuiciascuna personalità metta il suo accento individuale.Costituire un linguaggio pittorico comune, ecco il pro-blema essenziale del gusto odierno4.

* L. Venturi, Linguaggio attuale della pittura (gennaio 1947), in L.Venturi, Arte moderna, Roma 1956, pp. 247 sg.

1 Cfr. L. Venturi, Considerazioni sull’arte astratta, in «Domus»,xviii, gennaio 1946, pp. 34-36.

2 Si confrontino ancora le affermazioni nell’articolo di «Domus» del1946 (alla nota precedente). Il critico sembra inserirsi nel dibattito ita-liano, sia pur mantenendo il proprio distacco idealistico.

3 Realisti e astrattisti ancora solidali sulla scia del «Fronte nuovodelle arti»; cfr. ibid.

4 Raccomandazione accolta soprattutto dagli astrattisti di «Forma».

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«Forma»*1

Noi ci proclamiamo «formalisti» e «marxisti», con-vinti che i termini marxismo e formalismo non siano«inconciliabili», specialmente oggi che gli elementi pro-gressivi della nostra società debbono mantenere unaposizione «rivoluzionaria» e «avanguardistica» e nonadagiarsi nell’equivoco di un realismo spento e confor-mista che nelle sue piú recenti esperienze in pittura e inscultura ha dimostrato quale strada limitata ed angustaesso sia2.

La necessità di portare l’arte italiana sul piano del-l’attuale linguaggio europeo ci costringe ad una chiarapresa di posizione contro ogni sciocca e prevenuta ambi-zione nazionalistica e contro la provincia pettegola e inu-tile quale è la cultura italiana odierna.

Perciò affermiamo che:

1. In arte esiste soltanto la realtà tradizionale e inven-tiva della forma pura.

2. Riconosciamo nel formalismo l’unico mezzo per sot-trarci ad influenze decadenti, psicologiche, espres-sionistiche.

3. Il quadro, la scultura, presentano come mezzi diespressione: il colore, il disegno, le masse plastiche,e come fine un’armonia di forme pure.

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4. La forma è mezzo e fine; il quadro deve poter servi-re anche come complemento decorativo di una pare-te nuda, la scultura anche come arredamento di unastanza – il fine dell’opera d’arte è l’utilità, la bellez-za armoniosa, la non pesantezza.

5. Nel nostro lavoro adoperiamo le forme della realtàoggettiva come mezzi per giungere a forme astratteoggettive, ci interessa la forma del limone, e non illimone.

Noi rinneghiamo:

1. Ogni esperienza tendente ad inserire nella libera crea-zione d’arte fatti umani attraverso deformazioni, psi-cologismi e altre trovate; l’umano si determina attra-verso la forma creata dall’uomo-artista e non da suepreoccupazioni aposterioristiche di contatto con glialtri uomini. La nostra umanità si attua attraverso ilfatto vita e non attraverso il fatto arte.

2. La creazione artistica che si pone come punto di par-tenza la natura intesa sentimentalmente3.

3. Tutto ciò che non ci interessa ai fini del nostro lavo-ro. Ogni nostra affermazione trae origine dalla neces-sità di dividere gli artisti in due categorie: quelli checi interessano, e sono positivi4, quelli che non ci inte-ressano, e sono negativi.

4. Il casuale, l’apparente, l’approssimativo, il sensibili-smo, la falsa emotività, gli psicologismi, come ele-menti spurî che pregiudicano la libera creazione.

ACCARDI, ATTARDI, CONSAGRA, DORAZIO, GUERRINI,PERILLI, SANFILIPPO, TURCATO.

Roma, 15 marzo 1947.

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* Forma. Manifesto del gruppo romano, del 15 marzo 1947, in Sau-vage, Pittura italiana del dopoguerra, cit., pp. 248 sg.

1 È il nome della rivista, sulla quale fu pubblicato il manifesto delgruppo omonimo. Cfr. De Marchis, L’arte in Italia dopo la seconda guer-ra mondiale cit., p. 565: «Si tratta di un gruppo abbastanza composi-to, in parte di artisti siciliani [Accardi e Sanfilippo] venuti sul conti-nente dopo la Liberazione e in parte di artisti romani, il cui punto incomune è l’appartenenza alla stessa generazione, infatti sono tutti ven-tenni o appena piú che ventenni, con l’eccezione di Turcato; altropunto in comune è la messe di informazioni di cui dispongono: a quel-le neocubiste della mostra francese a Roma si sommano quelle delSalon Réalités Nouvelles tenutosi a Parigi alla fine del 1946, quelle pro-venienti da Milano... il contatto con Guttuso, nonché il magistero diVenturi».

2 Evidente censura nei confronti del «Fronte nuovo delle arti»(cfr. qui p. 53). Nello stesso numero di «Forma» Piero Dorazio affer-ma: «La polemica viene impostata sulla socialità dell’arte, sul realismo,sulla pittura progressiva e sulla pittura nozionaria. L’equivoco fra pit-tura e animosità sociale, fra società vecchia e nuova pittura, si delineòchiarissimo, nessuno tuttavia si chiese quale sarebbe stata la forma equali i mezzi che avrebbero espresso una società nuova. L’esigenza diuna forma di viva attualità che inserisse la pittura italiana nel filonedella grande arte europea, si fece sempre piú urgente, finché noi nonla denunciammo come solida base per il nostro lavoro» (in Sauvage, Pit-tura italiana del dopoguerra cit., p. 113).

3 G. Turcato nello stesso numero di «Forma», scrive: «La realtà peressere espressa ha bisogno di uno stile, il quale stile cambia secondo leepoche; e l’astrazione è la conquista piú certa di questa epoca. Ed ilprocesso potrebbe essere questo: partire da una precisa padronanza diuno stile astratto per esprimere la realtà contingente (Per realismo nonintendere verismo). Perciò non parliamo piú di neo-realismo, che è statoun errore necessario ed utile, ma un errore. E parliamo invece di stile.Trovato lo stile di un’epoca, appare risolto anche il problema dellarealtà e cioè della leggibilità dell’opera d’arte».

4 L’affermazione sottintende una viva esigenza di informazione edi aggiornamento europeo, che fu in parte agevolato dal ritorno di Lio-nello Venturi. Cfr. De Marchis, L’arte in Italia dopo la seconda guerramondiale cit., p. 565 e G. C. Argan, Lionello Venturi e gli artisti, in Lio-nello Venturi e l’avanguardia italiana, a cura di C. F. Teodoro, Mode-na 1991, p. 14: «Era stato il primo a parlare d’arte moderna da unacattedra universitaria, ma il suo motivato e fermamente voluto inter-vento nella politica dell’arte italiana cominciò soltanto quando tornòin Italia dopo la liberazione di Roma. In quel decennio d’esilio aveva

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approfondito, con ricerche archivistiche e filologiche, la storia del-l’Impressionismo, specialmente dell’opera di Cézanne. E s’era decisa-mente impegnato nella lotta antifascista: denunciò, tra i primi, i ser-vizi segreti italiani per l’assassinio di Carlo e Nello Rosselli. Purtrop-po i fatti gli davano e ancor piú gli avrebbero in futuro dato ragione:all’immoralità politica delle guerre d’Etiopia e di Spagna si accompa-gnarono l’inasprimento dello sciovinismo, la repressione brutale, lacrescente diffidenza verso ogni forma di cultura avanzata, l’incrimi-nazione dell’arte come degenerata e dell’architettura razionalista comesovversiva. Tutto poi peggiorò con l’alleanza tra fascismo e nazismo:quasi fossero coscienti della loro vergogna, nelle cose peggiori i nazistiesigevano la complicità dei loro alleati: fu cosí che in Italia la persecu-zione degli ebrei e l’avversione per l’arte moderna, già effetto della seni-le imbecillità del regime, divennero pericolosa minaccia d’incrimina-zione. Il comportamento della maggior parte degli artisti italiani, inquel frangente, fu dignitoso e spesso coraggioso: indubbiamente negliultimi anni del fascismo si fece in Italia un’arte ch’era di denuncia e,talvolta, di esplicita lotta contro il regime. Lealmente lo riconobbe Ven-turi quando, dopo circa quindici anni di esilio, poté rientrare in Italia.

Non avanzò rivendicazioni di sorta, non accampò diritti, si prescris-se pesanti doveri e vi adempí finché visse. Era alto il suo prestigio cul-turale e morale presso le nazioni che stavano vincendo la guerra: lo miseal servizio di una cultura italiana dissociata e depressa che aveva perdu-to il contatto col mondo civile. Venturi se ne fece garante».

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Primo manifesto dello spazialismo*

L’opera d’arte è distrutta dal tempo.Quando, poi, nel rogo finale dell’universo, anche il

tempo e lo spazio non esisteranno piú, non resteràmemoria dei monumenti innalzati dall’uomo, sebbenenon un solo capello della sua fronte si sarà perduto.

Ma non intendiamo abolire l’arte del passato o fer-mare la vita: vogliamo che il quadro esca dalla sua cor-nice e la scultura dalla sua campana di vetro. Una espres-sione d’arte aerea di un minuto è come se durasse unmillennio, nell’eternità.

A tal fine, con le risorse della tecnica moderna, fare-mo apparire nel cielo:

forme artificiali,arcobaleni di meraviglia,scritte luminose1.

Se, dapprima, chiuso nelle sue torri, l’artista rappre-sentò se stesso e il suo stupore e il paesaggio lo videattraverso i vetri, e, poi disceso dai castelli nelle città,abbattendo le mura e mescolandosi agli altri uominivide da vicino gli alberi e gli oggetti, oggi, noi, artistispaziali, siamo evasi dalle nostre città, abbiamo spezza-to il nostro involucro, la nostra corteccia fisica e cisiamo guardati dall’alto, fotografando la Terra dai razziin volo.

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Con ciò non esaltiamo il primato della nostra mentesu questo mondo, ma vogliamo ricuperare il nostro verovolto, la nostra vera immagine: un mutamento atteso datutta la creazione, ansiosamente2.

Lo spirito diffonda la sua luce, nella libertà che ci è statadata.

LUCIO FONTANA, GIORGIO KAISSERLIAN, BENIAMINOJOPPOLO, MILENA MILANI, ANTONINO TULLIER.

Milano, 18 marzo 1948.

* Primo manifesto dello spazialismo, 18 marzo 1948, in Fontana,Concetti spaziali cit., pp. 127 sg.

1 Affermazioni che possono ricordare lontane istanze futuristiche,notate del resto anche nella «simultaneità», ad esempio, delle tavolet-te graffite del 1935 (cfr. Fossati, L’immagine sospesa cit., p. 171).

2 Predomina anche nella metafora l’aspirazione a sperimentare.Cfr. Fossati, in Fontana, Concetti spaziali cit., pp. 8 sg.: «Sarà facilenotare come in questi scritti non compare mai la tentazione di fonda-re... una poetica; ma di proporre la chiarificazione delle conseguenzedi un’esperienza: e basti confrontare il testo del Manifesto bianco del’46 con quello del Manifesto tecnico del ’51. Questo e altri confrontimostrano che Fontana non mirava, com’è stato osservato, a determi-nare un corpo dottrinario, «che si possa solo assumere pacificamente,in processi graduali di comprensione razionale», ma un’avventura e unrischio, «una provocazione alla stasi, un invito a inventare situazioniumane, possibilità, stupori». Stupori, vale a dire una mobilità psicolo-gica che è il risultato dell’ambito (continuo a citare Del Guercio) stes-so sociale, psicologico e visivo d’una realtà cosí fortemente segnata dallapresenza di quella particolare avventura. In questi manifesti sarà pos-sibile scoprire in tutta la sua portata un’altra venatura, e per nulla peri-ferica, dell’esperienza di Fontana: la tecnica, la macchina. Anche a taleriguardo il legame di Fontana con le avanguardie storiche, e principa-le il futurismo, è evidente e cosciente: ma, anche qui, vale l’osserva-zione fatta per il surrealismo, e cioè come l’antica matrice sia del tuttodiversa nella funzione e significato che Fontana assegna al mito-realtàdella macchina e a quello della tecnica. C’è, intanto, un deciso problemadi annettere al polo meccanico il polo manuale, artigianale, libera-

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mente determinato senza finalizzazioni prestabilite: sono due dimen-sioni di fattualità e di libera espansione umana che Fontana mira nona separare o a integrare forzosamente, ma a far scattare in un piú ampiosenso di vitalità, che non rinuncia neppure al proprio vigore fisiologi-co, biologico quando se ne presenti l’occasione. L’intenzionalità crea-trice, cui Fontana mira, vuole condurre, cioè, ad annettere alla capa-cità e alla libertà umane una dimensione scientifica, “intesa a sua voltacome ampliamento di libertà”».

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Proposta di un regolamento*

Movimento Spaziale

PREMESSA

Nel 1946 Lucio Fontana, residente a Buenos Aires,fonda il «Movimento Spaziale», firmando con un grup-po di suoi allievi il primo manifesto detto «ManifestoBlanco», in lingua spagnola. Rientrato in Italia, nell’a-prile del 1947 Fontana invita artisti, letterati ed archi-tetti ad iniziare uno scambio di idee, in riunioni tenutea Milano nello studio degli arch. Rogers, Peressutti eBelgioioso, alla Galleria del Naviglio e nello studio diGiampiero Giani. Nel maggio di quello stesso annoviene compilato il primo Manifesto italiano e nel marzodel 1948 il secondo Manifesto italiano. Il 5 febbraio1949 Lucio Fontana allestisce per la prima volta in Ita-lia e nel mondo un «ambiente spaziale con forme spa-ziali ed illuminazione a luce nera», alla Galleria delNaviglio.

La seguente proposta di Regolamento precisa quan-to segue:

1. Si riconosce Lucio Fontana iniziatore e fondatoredel Movimento Spaziale nel mondo.

2. Il Movimento Spaziale si propone di raggiungere unaforma d’arte con mezzi nuovi che la tecnica mette adisposizione degli artisti.

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3. Aderiscono al Movimento Spaziale artisti e letteratiche sentono l’evoluzione del mezzo nell’arte, per ilbisogno di esprimersi in un modo diverso da quellousato sino ad oggi.

4. La grande rivoluzione degli Spaziali sta nell’evolu-zione del mezzo nell’arte1.

5. Pittori, scultori, letterati aderenti al Movimento Spa-ziale si chiamano «Artisti Spaziali».

6. Gli Artisti Spaziali hanno a disposizione i mezzinuovi, come la radio, la televisione, la luce nera, ilradar e tutti quei mezzi che l’intelligenza umanapotrà ancora scoprire.

7. L’invenzione concepita dall’Artista Spaziale vieneproiettata nello «spazio».

8. L’Artista Spaziale non impone piú allo spettatore untema figurativo, ma lo pone nella condizione di crear-selo da sé, attraverso la sua fantasia e le emozioni chericeve.

9. Nell’umanità è in formazione una nuova coscienza,tanto che non occorre piú rappresentare un uomo,una casa, o la natura, ma creare con la propria fan-tasia le sensazioni spaziali2.

La presente proposta sarà distribuita a tutti gli Arti-sti Spaziali che attualmente fanno parte del Movi-mento.

LUCIO FONTANA, MILENA MILANI, GIAMPIERO GIANI,BENIAMINO JOPPOLO, ROBERTO CRIPPA, CARLO CAR-DAZZO.

Milano, 2 aprile 1950.

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* In Fontana, Concetti spaziali cit., pp. 131 sg. dove Fossati anno-ta: «Non si tratta di un manifesto vero e proprio, ma di una circolaredattiloscritta, distribuita tra gli aderenti al movimento a modo di bozzadi regolamento vincolante gli artisti medesimi. Datato: 2 aprile 1950,porta la firma di Fontana, M. Milani, Giani, Joppolo, R. Crippa, Car-dazzo».

1 Cfr. pp. 34 sgg. 2 Cfr. pp. 34 sgg.

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ROBERTO LONGHI

Proposte per una critica d’arte*

Si ascrive di solito a pregio, o almeno a distinto carat-tere, della cultura italiana l’accordo che esisterebbe franoi circa la perfetta identità di critica e di storia arti-stica. E sarebbe certo un punto importante se l’accordoesistesse, preventivamente, anche su quel che storia ecritica, cosí conglomerate, abbiano ad essere. Ma dubi-to che sia cosí.

Per un esempio. In una storia della critica d’artescritta recentemente da un italiano1, si è pensato di farconsistere il compito principale nella dichiarazione e, tal-volta, ammetto, nella confutazione, di quella parte delledottrine filosofiche che, d’epoca in epoca, avrebbe, perdir cosí, autorizzato il relativo giudizio critico sull’ope-ra d’arte2.

C’è però da domandarsi se, per questa strada, lamigliore critica abbia ad incontrarsi spesso. Le dottrineprocedono in assenza delle opere, o tutt’al piú sbircian-dole di lontano, la critica soltanto in presenza. Il loroconvegno è perciò difficile e tutto a vantaggio delleparti astrattive che subito correranno a sforbiciare, adamputare le facoltà piú immediate e sensibili; tanto chei critici piú diretti han preferito quasi sempre tenersi abuona distanza da quelle «nevi eterne del pensiero»come le chiamava, con uno dei suoi motti piú brillanti,il Thibaudet3. E sarà vero che la critica dovrà pure sboc-care al kantiano «giudizio subbiettivo con pretesa di

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validità universale»; purché si soggiunga, però, che visbocca per superfluità logica; quando già il suo percor-so si è rivelato piuttosto illuminazione acerrima, tere-brante, che non giudizio di esistenza: ove non sia quel-lo soluto nella stessa bontà del discorso e presunto giànella scelta dell’opera da illuminare.

Cosí quella storia della critica d’arte, a rifarla since-ra, potrebbe alla fine convertirsi in una storia di eva-sioni, riuscite o no, dalle chiuse dottrinali4. E come nonsarebbe se l’arte stessa ha dovuto faticare per sopravvi-vere ai principî che, lungo tanti secoli, ricusarono allacreazione figurativa una pur discreta autonomia? C’èbisogno di rifar la storia delle arti «servili»? Chi diceche anche Socrate non ne abbia qualche colpa con l’ac-cenno al vasaio?5. Sopprimer l’arte è certo piú difficile,tanto essa adorna ed accarezza quasi ogni assetto socia-le, ma la filosofia, quando riuscí a passare in istituzio-ne, non mancò di provarsi anche in questo6. Meno dif-ficile invece impedire la critica; almeno in quei riflessipratici, e pure di gran portata, che si traducono in curae sollecitudine per la stessa sopravvivenza fisica delleopere d’arte7. Catastrofi storiche alla fine del mondoantico non bastano, per esempio, a spiegare perché lesculture di Fidia sian lasciate a sbriciolarsi al gelo per piúdi due millenni fino alla rapina di Lord Elgin, che fufinalmente un atto critico rilevante dopo il piú anticotentativo del nostro Morosini8. E se vi fu anche un solocapraio greco che, in quel lungo tratto, lamentasse l’a-gonia di quei marmi, quel capraio fu certamente in nuceun buon critico d’arte. Ma c’è stato? Fuor d’episodio,vi ha una parte di colpa anche quell’antica condanna pla-tonica che, ove mai si fosse tradotta in sanzione, già aigarzoni di Fidia non restava che chiuder bottega edattendere ad altro9. E ci furono tempi anche piú severi,chi pensi alle leggi che nella teocrazia bizantina ordina-rono lo spezzamento delle immagini libere e non con-

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cessero che le piú legate. Lotta per le immagini chedivampò piú volte anche in Occidente, con o senza edit-ti visibili. Il congedo illimitato, anzi definitivo, propo-sto da Hegel per l’arte figurativa nella conclusione diuna Estetica troppo ideale10, ne è uno degli aspetti piúnoti; altri ne abbiamo avuto sotto gli occhi anche ieri,altri ne abbiamo oggi e preferiamo non rammentarli.

Ripeto che, nella ostinata sopravvivenza dell’arte, lacritica, come immediata risposta dell’uomo all’uomo, cisarà stata sempre, anch’essa; ma intendo che non abbiaspesso avuto agio di esplicarsi in attività specifica, inopera d’inchiostro. Dove cercarla allora, se non è ormaida sperare dalla vicinanza di universali filosofici quasisempre ostili? A parte il lamento del supposto capraioellenico, la ricerca va fatta «à bâtons rompus» fin dal-l’antico nei piú vari riflessi della polis: dai noti brevet-ti di gloria e di chiara fama concessi anche ad artisti figu-rativi, all’accertata esistenza di conoscitori, amatori,collezionisti, e cose simili. Ed è ricerca da tornar utilein ogni epoca11. Recentemente, per colmare l’assenzaitaliana dalla buona critica accanto all’impressionismo,proponevo, senz’ombra d’ironia12, di rammentare alme-no il gesto della signora Giulia Ramelli che nel 1865,ancora durando il coro d’insulti all’Olympia di Manet,ne chiedeva per lettera il prezzo al pittore. Per tornareall’antico. È significante che, volendo parlare degli arti-sti figurativi, Plinio sia costretto a includerli in una sua«Storia naturale», come utenti di materiali naturalisti-ci. E, del resto, anche nei tanti autori greci e romani dacui desume, sento che la buona critica si nasconde piut-tosto entro la vicenda semantica dei vocaboli, che inaltro. I trapassi di parola da arti diverse, «tonon, armo-ghè» e simili, la dicon piú lunga che i soliti rilievi di pro-gresso nella eterna «mimesi». Su tutto spicca la famosadefinizione «de lineis» tratta certo, e di presenza sensi-bile, da qualche opera di Parrasio: «Ambire enim se

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ipsa debet extremitas et sic desinere ut promittat aliapost se ostendatque etiam quae occultat»13. Definizionetanto aderente che la moderna storia della critica14 cre-dette di scoprirla soltanto nell’Aretino che si era limi-tato a trascriverla letteralmente; per dirla schietta, aplagiarla15...

Dato, e non concesso, che la migliore critica d’artesia la diretta e riuscita espressione (e in quanto taleanch’essa inevitabilmente «letteraria») dei sentimentisollecitati da un dipinto, dove trovare il punto di con-senso possibile sul nuovo risultato cosí ottenuto? Ma sel’arte stessa è storicamente condizionata, come non losarebbe la critica che la specchia, la specula? E di que-sto le si dovrebbe far carico? Qui è anzi il punto per bat-tere in breccia quegli ultimi relitti metafisici che sono iprincipî del capolavoro assoluto e del suo splendido iso-lamento. L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano grecoalla Volta Sistina, è sempre un capolavoro squisitamen-te «relativo». L’opera non sta mai da sola, è sempre unrapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’al-tra opera d’arte. Un’opera sola al mondo, non sarebbeneppure intesa come produzione umana, ma guardatacon reverenza o con orrore, come magia, come tabú,come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo. Es’è già troppo sofferto del mito degli artisti divini, e divi-nissimi; invece che semplicemente umani.

È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dànecessità alla risposta critica. Risposta che non involgesoltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera emondo, socialità, economia, religione, politica equant’altro occorra. Qui è il fondo sodo di un nuovoantiromanticismo illuminato, semantico, terebrante,analitico, empirico o quel che volete, purché non vogliasvagare. L’opera d’arte è una liberazione, ma perché èuna lacerazione di tessuti proprî ed alieni. Strappando-si, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può

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cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che biso-gna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca alsuo pieno intendimento.

Ed è in questa ricerca poligenetica dell’opera, comefatto aperto, che la critica coincide con la storia, fossepur quella d’un minuto fa16. Risorge la ricerca del-l’«ambiente»? Può darsi, ma non sarà piú nel sensogrossamente deterministico e parziale dei tempi di Ippo-lito Taine. Gli artisti crescevano allora (diceva il Coc-teau) come buone cipolle da un determinato suolo,buono e favorevole anch’esso. Ma se si ripercorre daallora il progresso nell’intendere quasi ad infinitum latrama dei rapporti, si trova che anche qui il maggiormerito dell’arricchimento spetta soprattutto ai prosato-ri o poeti (non importa come chiamarli). Per un esem-pio: la costruzione quasi molecolare del destino terrestredel pittore Elstir nel poema (o romanzo storico) di Prou-st può servire di eccellente modello al critico (dunqueallo storico) dell’arte per meglio intrecciare ad infinitumle cosiddette «biografie spirituali» dei suoi protagonisti,in una vera e propria «recherche du temps perdu». E chidice che quell’esempio non abbia già fruttificato?...

O, mi si consenta, vagando in una zona piú antica ein apparenza meno ricuperabile, di rileggere questaatmosfera del gotico morente in Lombardia: «Il gustopiú antico, eppur duro a morire, la singolare poetica«che i Melanesi accampa» ancora verso il 1460 ed oltre,sembrano il trionfo di una lussuosa follia profana. «Quase sfogia et triumpha cum recami de perle». Si fannoperfino ritratti ai cani delle mute ducali («retrato d’uncane giamato Bareta»). Tutto il cosmo pare volersi ridur-re, depresso, entro la breve doga dorata di una carta datarocco. Negli affreschi dei castelli la sollecitudine del-l’ordinatore è che «si vegga la sua Signoria mangia inoro». Sulle pareti, duchi e famigli, addobbati nei capo-lavori di moda degli «zibelari» lombardi, cavalcano in

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un sogno di profanità fulgida e assurda. Ai loro piedi iprati si tramutano per incanto in bordi di alto liccio: iboschi dei feudi lontani si decalcano in un firmamentoormai tutto percorso dalle peripezie geroglifiche dellecostellazioni araldiche famigliari; al di là delle Prealpi,brune come di cuoio impresso, coronate da manieri inpastiglia, il cielo a rombi bianchi e morelli scricchiolacome le vetrate dell’oratorio di Corte nell’ossatura dipeltro. Ogni veduta, ogni atto, si rinserrano bendati dalfasto greve e vacillante di un orizzonte privato»17.

Si pensi ciò che si vuole di questo tentativo per farconvenire, dai documenti rianimati, fatti d’arte, gesti dimoda e di costume, una certa aristocratica insolenza, unlusso sfrenato, una larvata miscredenza; tutto ciò,insomma, che, in quel dato momento e luogo, potevaaffluire in un aspetto decadente, bacato; ma non si dicache qui si tratti di una divagazione subiettiva, irrelati-va, non pertinente. L’illuminazione vi è strettamentestoricizzata, parola per parola: si potrebbe provarlo.

Sta dunque il fatto che, chi si cimenti nella restitu-zione del «tempo» di questa o di quella opera d’arte,vicina o remota che sia, trova alla fine che il metodo perricomporre la indicibile molteplicità degli accenni piúportanti non è né potrebbe essere in essenza diverso daquello, anch’esso «critico», del romanzo storico: meto-do evocativo, polisenso, «trame ténue de tremblantspréparatifs». L’impegno assunto dal Manzoni nel 1822:«Io faccio quel che posso per penetrarmi dello spirito deltempo che debbo descrivere, per vivere in esso»18, èbuono anche per noi e ci stringe a concludere che nellaripresa parlata del fatto piú profondo e in apparenzameno motivabile dell’uomo com’è il produrre artistico,composto, non già di azioni e reazioni palmari, ma disempre diverse «condizioni libere», di occasioni impre-vedibili e velate, non è alla fine da pretendere piú chea una verisimiglianza non contradicevole, mai ad una

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certezza spietata e documentata che, del resto, è dub-bio se abbia veramente luogo in alcuna storia e persinoin quella della scienza.

Questi i pregi di una critica d’arte che voglia, «deipso iure», convertirsi in istoria. Altro non ci è datorichiedere. Opere «storicamente condizionate» e criti-ca «storicamente condizionata» chiedono e rispondonoperennemente come specchi successivi che, di tempo intempo, l’umanità trasmette del suo sussistere piúprofondo.

* R. Longhi, Proposte per una critica d’arte, in «Paragone», I (1950),n. 1, pp. 5-7,15-18 e Opere complete, XIII, Firenze 1985, pp. 9-11, 17-19.

1 La Storia della critica d’arte di Lionello Venturi, pubblicata ininglese a New York nel 1936, poi in francese a Bruxelles nel 1938 e initaliano a Firenze nel 1945 e nel 1948.

2 Cfr. diversamente N. Ponente, in L. Venturi, Storia della criticad’arte, Torino 1964, p. 14: «Per quello che riguardava l’identificazio-ne di storia e critica, il Venturi si rifaceva direttamente alle premessecrociane, secondo le quali l’interpretazione storica e la critica esteticacoincidevano, e affermava che la storia della critica d’arte “consistevanell’illustrazione dei rapporti tra arte e gusto in ciascun artista, dell’a-zione dell’arte sul gusto e delle reazioni del gusto sull’arte”. Appare evi-dente che, con queste formulazioni e con la necessità dichiarata del-l’esperienza artistica Lionello Venturi si portava al di là dei postulaticrociani».

3 Il giudizio longhiano parte dalla ben diversa esigenza di una sto-ria strettamente aderente alle testimonianze figurative e alla loro com-plessa fortuna.

4 E avrebbe quindi un percorso assai accidentato, antiscolastico eantidottrinale.

5 Platone, Repubblica, IV, 421a. Cfr. invece L. Venturi, Storia dellacritica d’arte, Firenze 1948, p. 55: «Modello per i cenni storici dei trat-tati d’arte dovette essere l’abbozzo di storia della filosofia greca cheAristotele premise alla Metafisica, dove il riconoscimento a Socrate diaver ritrovato l’universale e la definizione corrisponde alla soddisfa-zione per la perfezione raggiunta da Lisippo nella scultura e da Apellenella pittura».

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6 Da qui la profonda divergenza tra storia dell’estetica e storia del-l’arte.

7 I problemi di «buon governo» del patrimonio artistico sono, sindall’editoriale, oggetto di viva attenzione da parte di «Paragone».

8 La capacità di intendere e valutare viene cosí compiaciutamenteesemplata anche in casi limite.

9 Si noti il divertimento con cui Longhi traduce i paludati riferi-menti accademici in momenti piú concreti.

10 Cfr. invece Venturi, Storia della critica d’arte cit., p. 306: «Unicocompito dell’artista [per Hegel] è l’espressione dell’ideale. Circa poi lescienze o la filosofia, egli conserva l’opinione che il loro scopo è ugua-le a quello dell’arte e insiste sulla profondità del pensiero nel ricono-scere la verità rispetto alla superficialità apparente dell’arte».

11 L’orizzonte di indagine si allarga, libero da vincoli pseudofiloso-fici, e accoglie le esperienze piú varie.

12 Cfr. R. Longhi, L’impressionismo e il gusto degli Italiani, prefa-zione a J. Rewald, Storia dell’impressionismo, Firenze 1949, in Operecomplete, XIV, Firenze 1984, pp. 3 sg.: «E non dimentico una certasignora italiana, Giulia Ramelli, abitante a Versailles, rue Saint Julien2, che nel 1865, dopo il vasto coro di insulti alla Olympia di Manet,ne chiedeva il prezzo al pittore. Anche questa è buona critica in atto».

13 Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 68.14 Cfr. S. Ortolani, Pietro Aretino e Michelangiolo, in «L’Arte», XXV

(1922), pp. 15-26.15 Cfr. la lettera di Pietro Aretino a Michelangelo del 16 settembre

1537, in Lettere sull’arte di Pietro Aretino, a cura di E. Camesasca, Mila-no 1957-60, I, p. 64: «Ne le man vostre vive occulta l’idea di una nuovanatura, onde la difficultà de le linee estreme (somma scienza nella sot-tilità de la pittura) vi è sí facile che conchiudete ne l’estremità dei corpiil fine de l’arte, cosa che l’arte propria confessa esser impossibile di con-durre a perfezione, percioché l’estremo (come sapete) dee circondarese medesimo». La fonte pliniana del testo dell’Aretino è stata indivi-duata da G. Becatti, Plinio e l’Aretino, in «Arte figurativa», II (1946),pp. 3 sgg.

16 Cfr. diversamente Venturi, Storia della critica d’arte cit., pp. 493sg.: «Quando si dice che l’opera d’arte trascende il suo tempo, si vuoldire che la sua creatività appartiene all’uomo, senza distinzione ditempo e di luogo, a quel qualsiasi uomo che sente e immagina. Eppu-re l’immaginazione non si esaurisce nella creatività, ma partecipa ade-rendo o ribellandosi alla vita della propria epoca. Perciò l’arte trascendela storia e nello stesso tempo partecipa alla storia. Anzi non è possibi-le distinguere criticamente la creatività di un artista, senza conoscerecompletamente le sue condizioni storiche. E a questa conoscenza con-tribuiscono sia il metodo di formulare gli ideali tipici dell’umanità, quali

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lo Hegel immaginò, sia quello della storia della cultura, del genere diBurckhardt e del Dvorák».

17 Cfr. Me pinxit. La restituzione di un trittico d’arte cremonese circail 1460 (Bonifacio Bembo), in «Pinacotheca», II (1928) e Opere completecit., IV, Firenze 1968, pp. 59 sg.: «Non si crede di sforzare troppo lamisura estetica di questi brani di privatissima cronaca ducale [degliZavattari], dicendo ch’essi restano unici a rispecchiare per l’occhio ilsenso che si esprime nei tanti curiosi documenti milanesi dell’epoca e,in primis, dal celebre programma scritto per gli affreschi che decora-rono un tempo il castello di Pavia. «Item, il Duca di Barri, D. Ludo-vico... Guglielmotto da Malpaga, con li cani tratti da naturale... Itemel Duca Philippo... Item el Signore ad tavola solo cum Hieronimo deBecharia che gli daghi bevere lo sescalco et quello porta el piattello etse faci che sua Signoria mangia in oro... Item [citato nell’inventario del-l’arciritrattista Zanetto Bugatto e mescolato fra quelli dei signori diMilano] un retracto del cane giamato Bareta». Uno stesso ardore,insomma, di omaggio veristico nei riguardi della piú stretta cerchia dicorte, a comprendere i bipedi e quadrupedi piú eccellenti, ed anche,com’è da rilevare per altre testimonianze, la stessa contiguità con gliargomenti mitici». Cfr. ancora Il tramonto della pittura medievale nel-l’Italia del Nord, lezioni tenute da Longhi nell’anno accademico 1935-36 e pubblicate in Opere complete, VI, Firenze 1973, pp. 139 sg.: «Hogià detto come la scelta di questa leggenda «cortese» [degli Zavattari]a decorare un edificio sacro sia cosa assolutamente eccezionale, e per-ciò tanto piú significativa nell’arte di questi tempi; e non solo di essi.Nessun dubbio che essa dichiari come meglio non si potrebbe la inva-dente profanità cara all’arte lombarda d’allora: la religione come svagodi corte, o poco piú. Nel caso particolare, era un vanto genealogico cheveniva ostentato da un edificio sacro; ripetendo cioè la storia delle pro-prie origini dinastiche e regali dal volere della regina longobarda. In checosa poi dovesse risultare il complesso di queste figurazioni è già pre-vedibile: in una rappresentazione straricca della vita di corte lombar-da... al tempo dell’ultimo dominio visconteo: feste, sposalizi, funebriregi, banchetti, partite di caccia, scampagnate, spedizioni militari, gliorefici di corte... Una cronaca di lusso e di mondanità insuperabile: unaostentazione di ogni particolare ricchezza. «Qua se sfogia et triomphacum recami de perle», dice un cronista lombardo del lusso dei tempi;e ancora nel 1471 il programma scritto per gli affreschi del castello diPavia, dove si ordina che i cani siano ritratti dal naturale e che nellasala della Torre si veda «el signore [Francesco Sforza] solo cum Hie-ronimo de Becharia che gli daghi bevere lo sescalco et quello porta elpiatello, et se faci che sua Signoria mangia in oro et che li siano cor-tesani et zentillomini intorno» sembra davvero una trascrizione dagliaffreschi degli Zavattari».

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18 Cfr. A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, Milano 1986,I, p. 271: «J’ose me flatter (j’ai appris cette phrase de mon tailleur àParis), j’ose me flatter du moins d’éviter le reproche d’imitateur: à ceteffet je fais ce que je peux pour me pénétrer de l’esprit du temps quej’ai à décrire, pour y vivre: il était si original, que ce sera bien ma faute,si cette qualité ne se communique pas à la description. Quant à la mar-che des événements, et à l’intrigue, je crois que le meilleur moyen dene pas faire comme les autres est de s’attacher à considérer dans la réa-lité la manière d’agir des hommes, et de la considérer surtout dans cequ’elle a d’opposé à l’esprit romanesque. Dans tous les romans que j’ailus, il me semble de voir un travail pour établir des rapports intéres-sans et inattendus entre les différens personnages, pour les ramener surla scène de compagnie, pour trouver des événemens qui influent à lafois et en différentes manières sur la destinée de tous, enfin une unitéartificielle que l’on ne trouve pas dans la vie réelle. Je sais que cetteunité fait plaisir au lecteur, mais je pense que c’est à cause d’uneancienne habitude; je sais qu’elle passe pour un mérite dans quelquesouvrages qui en ont un bien réel et du premier ordre, mais je suis d’a-vis qu’un jour ce sera un objet de critique: et qu’on citera cette maniè-re de nouer les événemens, comme un exemple de l’empire que le cou-tume exerce sur les esprits les plus libres et les plus élevés, ou des sacri-fices que l’on fait au goût établi» (lettera del 29 maggio 1822 a Clau-de Fauriel).

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GILLO DORFLES

Manifesto del M.A.C.*1

Una distinzione tra i due aggettivi: astratto e concre-to, apparentemente contrastanti e antitetici, ma spessousati negli ultimi anni a indicare uno stesso genere dipittura, merita forse d’esser fatta, anche per veder dichiarire alcuni concetti che di giorno in giorno vannofacendosi piú complessi e quindi piú confusi2. Oggi poiche l’arte astratto-concreta è diventata di dominio pub-blico, ha varcato i limiti angusti dei cenacoli, si staaffermando nelle manifestazioni artistiche piú genericheed ufficiali3, è sempre piú importante tentar di preci-sarne l’esatta posizione. Ancora una ventina d’anni fa,quest’arte era apprezzata e considerata solo da pochispecialisti, da pochi iniziati, e le paratie stagne che divi-devano un gruppo dall’altro (costruttivisti svizzeri,prounisti russi, neoplasticisti olandesi ecc.4) parevanopiú rigide di quanto oggi non risultino. Fu l’epoca delleprime opere di Van Doesburg, di Vantongerloo, diMondrian5, di Kandinskij. Ma accanto a tali artisti cheormai possiamo definire come appartenenti alla corren-te concretista (ossia a quella corrente che non cercavadi creare delle opere d’arte togliendo lo spunto o il pre-testo dal mondo esterno e astraendone una successivaimmagine pittorica, ma che anzi andava alla ricerca diforme pure, primordiali, da porre alla base del dipintosenza che la loro possibile analogia con alcunché dinaturalistico avesse la minima importanza; che quindi

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mirava a creare un’arte concreta in cui i nuovi «ogget-ti» pittorici non fossero astrazione di oggetti già noti)6

s’andavano sviluppando altresí le note correnti astrat-tiste; tra le quali possiamo senz’altro includere: cubi-smo, futurismo, e certa sottospecie di surrealismo astrat-to. L’errore quindi di molti critici e di molti trattatistifu quello di mescolare e confondere i due gruppi, fon-damentalmente distinti e anzi inizialmente contrastan-ti, di astrattisti e concretisti, cercando spesso di ricon-durre al cubismo il vanto d’essere stato il primo embrio-ne di pittura astratta7.

Cerchiamo ora di svelare come avvenga la nascitad’una di codeste opere concrete, di cui tanto si è ragio-nato, quasi sempre osservandole e criticandole dal difuori; mai cercando di penetrarne l’intimo meccanismoformativo.

Per molti artisti moderni un modulo grafico – primaancora che un’immagine cromatica – è il primus movensdella creazione pittorica; modulo che può svilupparsi daun ghirigoro, da un segno elementare, che può derivareda un impulso dinamico non perfettamente cosciente erazionalizzato. Ma, piú spesso, è invece la ricerca pre-cisa e lucida d’una determinata forma a guidare la mati-ta o il pennello: forma che parte da alcunché di già espe-rimentato o che a quello tende, sia che la mano tracciun segno preso a prestito a un elemento reale (ma nonperò copia d’oggetto naturalistico), sia che si valga dialcuni schemi formali sempre ricorrenti e che, a mioavviso, si possono considerare come i progenitori d’ogniespressione grafica, conscia od inconscia. Avremo cosí:la voluta, la lemniscate, la S, la «greca», o forme piúcomplesse e imprecisabili; potremo veder affiorare laforma ameboide d’una cellula, gli aspetti di strane strut-ture organiche o minerali. Potremo assistere cioè allaproiezione di archètipi formativi, restati a lungo inuti-lizzati e che oggi riappaiono, diventando i generatori di

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nuovi spunti plastici. E alla stessa stregua potremo con-statare come spesso, in molti lavori concreti, venganousate semplici e schiette figure geometriche: quadrati,losanghe, triangoli; sono le prime pietre costruttive d’unedificio architettonico che è fissato nei suoi elementimorfologici invece che nella sua fase terminale già orga-nizzata e pianificata. Oppure ancora possono apparirealtri segni, utilizzati già innumerevoli volte lungo il cam-mino di tutta quanta l’arte, cosí detta decorativa, e cheora riappaiono, non piú sotto il mero aspetto ornamen-tale, accompagnatorio, del pretesto decorativo, dell’at-tributo artigiano, ma con maggior validità perché ven-gono a costituire il centro formativo dell’intera operad’arte8.

Sono dunque codesti i nuovi «protagonisti» di que-st’arte d’oggi, che – stanca delle ormai viete figurazio-ni naturalistiche – non ha affatto annullato il compitofigurativo che spetta alla pittura e alla plastica, ma l’hasoltanto rinnovato e dilatato, riproducendo quanto dal-l’intimo vengono sviluppando sulla tela le forze creatri-ci dell’artista.

In questo senso e in questa direzione hanno lavora-to negli ultimi anni gli artisti raggruppati intorno algruppo del movimento arte concreta (M.A.C.) e questa cisembra essere la premessa a una esatta comprensionedelle opere esposte in questa mostra.

Aprile 1951.

* G. Dorfles, Manifesto del M.A.C., aprile 1951, in Sauvage, Pit-tura italiana del dopoguerra cit., pp. 235 sg.

1 Il M.A.C. (Movimento dell’Arte Concreta) era stato promosso aMilano nel 1948 da Atanasio Soldati, Bruno Munari, Giovanni Mon-net e Gillo Dorfles, il quale in occasione della mostra Arte astratta e con-creta in Italia organizzata dall’Art Club alla Galleria Nazionale d’Arte

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Moderna di Roma nel 1951 redasse questo manifesto. Cfr. anche G.Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi, Milano 1961, p. 107: «Certol’importanza del movimento, al suo sorgere, fu indiscutibile perchécostituiva la prima autentica volontà di giungere ad una forma d’artela cui ragion d’essere fosse avulsa da ogni riferimento naturalistico emirasse all’individuazione di forme pure. Fu questa stessa urgenza agiustificare, negli anni attorno al 1948, una ripresa di intenti concre-tisti anche nel nostro paese... con l’intenzione appunto di opporsi aldilagare di espressioni ambigue, in gran parte di derivazione postcubi-sta, che erano venute proliferando nell’immediato dopoguerra col ria-prirsi delle frontiere fisiche ed ideologiche tra l’Italia e la Francia. Men-tre, infatti, in Italia ancora ferveva la lotta tra i realisti sociali e gli anti-chi pittori accademici... il M.A.C. stava a dimostrare una ricerca dipurezza formale e di nuovo internazionalismo ideologico».

2 Cfr. qui L. Venturi, pp. 43 sgg. Vedi anche G. Dorfles, L’arteastratta nei due mondi, in «Prospetti», 1955, n. 13, p. 111: «Lo stessotermine «astratto», di cui cosí di frequente si fa uso... è quanto maiarbitrario; l’arte – dovremmo ormai esserne convinti – fu sempre«astratta» se con questo s’intende che «astrae» dalle forme del mondoesterno un’immagine personale e specifica creata dal singolo artista;certo solo in periodi limitatissimi – e non certo i piú favorevoli all’ar-te – si poté parlare d’un’arte che non fosse astratta e che fosse total-mente naturalistica; lo stesso «realismo» di cui tanto si vantano e com-piacciono i pittori socialisti è spesso una «astrazione ideologica» di unarealtà piú politica che naturalistica».

3 Lo conferma appunto la stessa mostra Arte astratta e concreta inItalia, tenuta nel 1951 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna diRoma, con la partecipazione di Dorfles e Argan.

4 I piú importanti movimenti astratti europei del secondo decenniodel secolo XX.

5 Van Doesburg, Mondrian e Vantongerloo firmarono il manifestodel Neoplatonismo nel 1918.

6 Cfr. ancora Dorfles, L’arte astratta nei due mondi cit., pp. 111 sg.:«Se con il termine “astratto” vogliamo indicare una pittura e una scul-tura “non figurativa” (o non oggettiva per valerci d’una nomenclaturamolto in uso nei paesi anglo-sassoni), allora potremo davvero sostene-re che un’arte che non voglia rifarsi menomamente agli oggetti delmondo esterno, ma che sia una pura costruzione di forma-colore,“inventata” dall’artista, forse non si dette mai prima della nostraepoca».

7 Cfr. L. Venturi, Considerazioni sull’arte astratta, in «Domus»,xviii, gennaio 1946, pp. 34-36.

8 Cfr. ancora Dorfles, L’arte astratta nei due mondi cit., p. 112:«Cosa portò a tal genere di arte? Con tutta probabilità l’avvento della

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fotografia e degli altri metodi meccanici di riproduzione e allo stessotempo l’«usura» a cui era andato incontro il lato rappresentativo di pit-tura e scultura. Sempre di piú anziché a «rappresentare» l’arte moder-na mirò a «presentare», sempre piú... l’arte si venne identificando conuna forma particolare di simbologia presentativa staccandosi dalla sim-bologia discorsiva. Simbologia di un sentimento... le cui immagini, pro-prio per la loro non discorsività, si traducono in una forma-coloredivelta da ogni naturalismo e da ogni aneddotica».

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GIULIO CARLO ARGAN

Genesi del razionalismo*

...La larghissima diffusione del razionalismo archi-tettonico in Europa è forse l’ultimo episodio della lottadelle forze avanzate per un ideale di libertà, ormai insi-diato dalla reazione trionfante. Questo, e non altro, è ilsenso del movimento italiano per l’architettura moder-na: che ha avuto il suo centro a Milano, ad opera di unardimentoso gruppo di uomini, dei quali basterà dire cherappresentarono, negli anni oscuri del fascismo, lacoscienza europea della cultura italiana, e la sua piúavanzata punta di avanguardia. E basti ricordare l’apo-stolato di Edoardo Persico1; l’ardente polemica artisti-ca e sociale che Giuseppe Pagano2 pagò con la vita in uncampo di sterminio tedesco; la ricerca formale, lucida etormentosa insieme, di Giuseppe Terragni3.

È possibile parlare, come spesso si ode, di un defini-tivo superamento del razionalismo architettonico? Evi-dentemente le rigide formulazioni della prima polemicarazionalista, allo stesso modo del rigoroso geometrismodelle forme, si sono dimostrate insufficienti a contene-re e risolvere i problemi che l’esperienza stessa del razio-nalismo ha posto. Le architetture del finlandese Aalto4,come del resto le opere americane di Gropius5 e i piúrecenti sviluppi artistici dei maggiori esponenti del razio-nalismo, sono la prova di quale sia stato lo sviluppodelle premesse razionaliste. Aalto segna certamente l’i-nizio di una nuova strada, che riunisce le esperienze

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razionaliste ed organiche, la lezione di Gropius e quel-la di Wright. Il suo problema consiste nel ricollegare laforma costruttiva, non piú ad un ambiente a priori geo-metrico, ma specifico, fatto veramente di acque e dimonti, di luce e di atmosfera; e nel ricercare con quel-l’ambiente relazioni interne, nella qualità e nella strut-tura dei materiali: fino ad ammettere, per questa via, ilricordo di tradizioni se non nazionali, popolari ed indi-gene6. Il sanatorio a Paimio, con i suoi grandi braccidivaricati secondo l’incidenza del sole, i suoi piani a col-tello, il nitore delle sue superfici e la chiarezza delle suearticolazioni, la sua calma ed altissima luminosità, ècerto tra le piú perfette opere d’arte prodotte dall’ar-chitettura moderna; né piú si inserisce, ma esiste nellospazio, e a questo termine vuoto, a questa mera ipotesiconcettuale, conferisce un senso pieno di esistenza, per-ché è l’edificio che dà forma allo spazio, ne designa lastruttura, ne rivela la sostanza luminosa, lo spiega, nonpiú come legge del mondo, ma come mondo in essere7.

Ma questo non è tanto il superamento quanto l’ulti-mo sviluppo del razionalismo architettonico, la libera-zione da una formula ch’era servita come difesa controil falso naturalismo, la conquista di una positiva e tota-le capacità di conoscenza: poiché, come ogni razionali-smo, il razionalismo architettonico non si giustifica senon in un fine di conoscenza, della piú ampia e com-prensiva conoscenza8.

Piú che uno stile d’architettura, il razionalismo èstato un grande ideale umano, l’ideale di una possibilesalvezza della società per mezzo della creatività dell’ar-te9: di quella creatività che non è un dono d’istinto con-cesso agli uomini da una qualche provvidenziale poten-za, ma il carattere di ogni autentica, vitale civiltà.

Distruggendo dalla radice i miti sociali, il timore e lasoggezione dell’uomo verso l’uomo, quell’architettura hadistrutto i miti naturalistici, l’antico timore e la pavida

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soggezione dell’uomo verso i fenomeni della natura; e haliberato quelle forze creative che, come espressione diciviltà, appartengono piuttosto al gruppo che all’indivi-duo. La volontà di potenza, l’istinto di distruzionehanno potuto, purtroppo, prevalere sugli ideali umani-tari in cui si inquadrava lo sforzo degli architetti moder-ni; e quella dell’architettura non fu, forse, che una bat-taglia vinta in una guerra perduta.

Ma nella crisi che, dopo l’ultima guerra, incombesull’architettura come su ogni altra attività creativa,nulla è tanto pericoloso quanto il ricostruire dei miti, esiano pure dei miti naturalistici10: come la loro distru-zione seguí fatalmente alla distruzione dei miti sociali,cosí a una loro eventuale rinascita seguirebbe fatalmen-te la rinascita dei miti sociali. E questa sarebbe la fine,non soltanto del razionalismo architettonico, ma di ognirazionalismo; di quello stesso prestigio della ragioneumana che, dall’Illuminismo in poi, costituisce il fon-damento e il supremo obbiettivo della civiltà.

23 gennaio 1953

* G. C. Argan, L’architettura moderna, in «Quaderni ACI», 1953,n. 10, pp. 49 sg.

1 Cfr. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia cit., pp. 285 sgg.,299 sgg.

2 Cfr. ibid., pp. 283 sg.3 Cfr. ibid., pp. 138, 153.4 Cfr. B. Zevi, Storia dell’architettura moderna cit., pp. 289 sg.:

«Caratteristica prima di Aalto, a paragone dei maestri della secondagenerazione, è proprio l’assenza di formule compositive, di tono apo-dittico e di «principî» teorici. Ciò risponde, del resto, a una diversitàdi situazione storica: gli uomini del razionalismo per ritrovarsi, per crea-re un movimento, per imporsi definitivamente contro il tradizionali-smo, dovevano maturare rigide formulazioni, elaborare se non un cli-ché, almeno un limitato vocabolario figurativo e insistervi con disci-

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plina... Alvar Aalto non propose dunque teorie, ma stimolò un’integralerevisione del pensiero funzionalista».

5 Ibid., pp. 480 sg.: «Walter Gropius e Mies Van der Rohe giunse-ro tardi negli Stati Uniti, dopo che l’ondata nazista li aveva costrettiall’emigrazione... Al creatore [Gropius] del piú importante centrodidattico d’Europa va il merito di aver fondato negli Stati Uniti, nellasua piú antica e importante università, la prima scuola di architetturamoderna. Ma il rapporto Gropius-America è stato bilaterale e recipro-co».

6 Cfr. ibid., pp. 290 sg.: «Quali elementi Aalto portava nell’equa-zione dell’architettura moderna che la generazione razionalista nonavesse inserito, almeno allo stesso grado? I piú evidenti caratteri distin-tivi che si possono trarre... sono: una maggior modestia... una maggiorpreoccupazione tecnologica... una maggior attenzione per la vita del-l’uomo,... una maggior solerzia nei particolari... un’aderenza ai processidi produzione industriale... una libertà dal dizionario cubista,... unanuova coscienza degli spazi interni».

7 Cfr. ibid., pp. 294 sg.: «Se passiamo al sanatorio di Paimio, vedia-mo che Aalto non ha soltanto studiato i percorsi utili, il funzionamentomeccanico di un ospedale, l’orientamento migliore degli ambienti, masi è anche preoccupato del benessere psicologico dei malati... Aalto ela-borò una sfumata modulazione di colori, tale che i malati ne riceveva-no un conforto sconosciuto in tanti ospedali freddi, moralmente depri-menti coi loro soffitti bianchi e abbaglianti, ospedali razionali magari,ma razionali solo dal punto di vista tecnico ed economicamente utili-tario».

8 Cfr. ibid., p. 295: «[Aalto] è un ingegnere come i razionalisti einoltre un chimico capace di sfruttare al massimo le virtualità insite nellegno; ma la sua indagine funzionalista è diretta non soltanto alle strut-ture e alla disposizione degli ambienti, sibbene anche ai problemi psi-cologici, ai problemi di vita vissuta».

9 Partendo da una esperienza prevalentemente pittorica, Arganinterpreta parallelamente l’astrazione razionale degli architetti (cfr.Venturi, qui pp. 43 sgg.)

10 Cfr. qui pp. 13 sgg.

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UMBERTO ECO

L’opera aperta*

Nel corso della presente comunicazione si intendonoadditare alcuni fenomeni d’arte che possono appariresingolarmente difformi dalla tradizionale nozione di«opera d’arte» valida nel mondo occidentale contem-poraneo; e tali da prospettare un nuovo modo di inten-dere il rapporto con l’opera e la sua fruizione da partedi un pubblico. Si tratterà poi di vedere quale muta-mento della sensibilità estetica (o addirittura della sen-sibilità culturale in genere) fenomeni simili comportinoe in quale misura possano venire agevolmente definitidalle categorie estetiche attualmente in uso. Si avvertealtresí che gli esempi via via addotti non intenderannodescrivere la natura «essenziale» delle opere citate, magli intenti con cui esse sono state prodotte. Si discuteràinsomma su delle poetiche, senza dare giudizi estetici1.

Generalmente nella nozione di «opera d’arte» sonoimpliciti due aspetti: a) l’autore pone capo ad un ogget-to compiuto e definito, secondo una intenzione ben pre-cisa, nell’aspirazione ad una fruizione che lo reinterpreticosí come l’autore lo ha pensato e voluto; b) tuttavial’oggetto viene fruito da una pluralità di fruitori cia-scuno dei quali porterà nell’atto di fruizione le propriecaratteristiche psicologiche e fisiologiche, la propria for-mazione ambientale e culturale, quelle specificazionidella sensibilità che le contingenze immediate e la situa-zione storica comportano; quindi, per onesto e totale che

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sia l’impegno di fedeltà all’opera da fruirsi, ogni frui-zione sarà inevitabilmente personale e renderà l’opera inuno dei suoi aspetti possibili. L’autore di solito nonignora questa condizione della situazionalità di ognifruizione, ma produce l’opera come «apertura» a que-ste possibilità, apertura che tuttavia orienti le possibi-lità medesime nel senso di provocarle come risposte dif-ferenti ma consone ad uno stimolo in sé definito. Il sal-vare questa dialettica di «definitezza» e «apertura» cipare essenziale ad una nozione di arte come fatto comu-nicativo e dialogo interpersonale...

Il fatto singolare che ha suggerito la presente comu-nicazione è dato invece dalla apparizione, in questi ulti-mi tempi, ed in settori differenti, di opere la cui «inde-finitezza», la cui apertura il fruitore può realizzare sottol’aspetto produttivo. Si tratta cioè di opere che si pre-sentano al fruitore non completamente prodotte o ulti-mate, per cui la fruizione consiste nel completamentoproduttivo dell’opera; completamento produttivo in cuisi esaurisce anche l’atto stesso dell’interpretazione, per-ché il modo del completamento manifesta la visione par-ticolare che dell’opera ha il fruitore.

Un primo esempio da citare ci pare la recente costru-zione della Facoltà di Architettura dell’Università diCaracas; questa scuola di architettura è stata definita«una scuola da inventare ogni giorno»2 e costituisce unnotevole esempio di architettura in movimento. Le auledi questa scuola sono costruite mediante pannelli mobi-li in modo che professori e allievi, a seconda del pro-blema architettonico e urbanistico in discussione, sicostruiscono un ambiente di studio acconcio, modifi-cando la disposizione e la fisionomia estetica del locale.Anche qui il modo di ideazione della scuola ha deter-minato il campo delle possibilità formative, rendendopossibile solo una certa serie di elaborazioni sulla basedi una struttura data permanentemente: ma in effetti

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l’opera non si presenta piú come forma definita unavolta per tutte, ma come un «campo di formatività».

Un esempio del tutto diverso (ma che suggerisceosservazioni analoghe), ci è dato da alcune recenti pro-duzioni della musica post-weberniana...

Gli interrogativi teorici posti da tali fenomeni sonomolti, e coinvolgono questioni di estetica, filosofia, ana-lisi del costume, sociologia. Le risposte esulano dai limi-ti puramente constatativi della presente comunicazione.Si possono tuttavia azzardare alcune osservazioni a tito-lo puramente orientativo.

Anzitutto nel quadro della sensibilità corrente que-sta progressiva tendenza all’apertura dell’opera si accom-pagna ad un analogo evolversi della logica e delle scien-ze, che hanno sostituito i moduli univoci con moduliplurivalenti. Le logiche a piú valori, la pluralità dellespiegazioni geometriche, la relatività delle misure spazio-temporali, la stessa ricerca psico-fenomenologica delleambiguità percettive come momento positivo della cono-scenza, tutti questi fenomeni fanno da sfondo chiarifi-catore al desiderio di «opere a piú esiti» che sostitui-scono, anche nel campo della comunicazione artistica, latendenza all’univocità con quella tendenza alla possibi-lità che è tipica della cultura contemporanea.

In secondo luogo mentre certi esperimenti di operaaperta ad una fruizione vaga esprimevano ancora una sen-sibilità di tipo decadente ed un desiderio di fare dell’artestrumento di comunicazione teoreticamente privilegia-ta, gli ultimi esempi di opere aperte ad un complementoproduttivo esprimono un radicale evolversi della sensi-bilità estetica. Gli esempi di architettura in movimentomanifestano un nuovo senso del rapporto tra opera efruitore, una integrazione attiva tra produzione e con-sumo, un superamento del rapporto puramente teoreti-co di presentazione-contemplazione in un processo attivoin cui convergono motivi intellettuali ed emotivi, teo-

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retici e pratici. Fenomeni di arredamento ormai in serie(lampade e poltrone capaci di assumere forme e angola-ture diverse, librerie variamente ricomponibili, ecc.)offrono l’esempio di un disegno industriale che è un con-tinuo invito alla formatività ed all’adeguamento pro-grediente dell’ambiente alle nostre esigenze di utilità edi esteticità. In tale quadro anche fenomeni come quel-li musicali, da tempo legati al rapporto presentazione-con-templazione tipico della sala da concerto, richiedono orauna fruizione attiva, una co-formazione, che nel con-tempo si risolve in una educazione del gusto, un rinno-vamento della sensibilità percettiva. Se uno dei motividella diseducazione-estetica del pubblico (e quindi dellafrattura tra arte militante e gusto corrente) è dato dalsenso dell’inerzia stilistica, dal fatto che il fruitore è por-tato a godere solo quegli stimoli che soddisfano il suosenso delle probabilità formali (in modo da apprezzaresolo melodie uguali a quelle già sentite, linee e rapportitra i piú ovvi, storie dal finale abitudinariamente«lieto»), si dovrà consentire che l’opera aperta di nuovotipo può anche costituire, in circostanze sociologica-mente favorevoli, un contributo alla educazione esteti-ca del pubblico comune.

* U. Eco, Il problema dell’opera aperta, comunicazione al XII Con-gresso Internazionale di Filosofia, Venezia 1958, in U. Eco, La defini-zione dell’arte, Milano 1968, pp. 163-70.

1 Grazie ad una intensa esperienza filosofica Eco si offre comemediatore tra la cultura figurativa italiana e le diverse tendenze stra-niere. Cfr. G. Dorfles, Ultime tendenze dell’arte d’oggi cit., p. 120: «Ilconcetto di opera «aperta», d’opera in «divenire» è... di estrema attua-lità, sia che lo si applichi alla rapidità d’esecuzione e alla estempora-neità di fattura propria dell’informale, che alla necessità di completa-mento, vuoi fruitivo, vuoi addirittura manipolativo».

2 Cfr. B. Zevi, Facoltà di architettura a Caracas, Scuola da inventareogni giorno, in Cronache di architettura, Bari 1971, III, pp. 25 sgg.:

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«Carlos Raul Villanueva, autore dell’edificio, si è prefisso due obbiet-tivi: non cristallizzare le funzioni didattiche e favorire l’integrazionetra le arti figurative. Per raggiungere il primo scopo, ha creato un edi-ficio flessibile negli spazi interni, liberamente suddivisibili e collegabilia seconda delle mutevoli esigenze dell’insegnamento: la scuola divienecosí il primo oggetto dell’impegno compositivo di studenti e docenti,poiché le sue cavità vanno continuamente «ragionate» e «inventate»da coloro che ne fruiscono. Questo stimolo all’educazione sperimenta-le è prolungato fino ai temi decorativi: all’ingresso di un laboratorio,ad esempio, troviamo una parete tutta bucata in cui si inseriscono, coneffetti sempre cangianti, cilindri di legno; gli allievi, divertendosi,apprendono i valori della profondità, degli incastri, delle plurime solu-zioni di luce, delle diverse grane dei materiali.

Per ciò che riguarda l’integrazione tra le arti, Villanueva ha chia-mato a collaborare scultori e pittori, dicendo loro: «I leoni non deb-bono stare solo nei giardini zoologici, e cosí i quadri e le sculture nonvanno relegati nei musei. Il milieu naturale delle opere d’arte sono lepiazze, i giardini, gli edifici pubblici, le fabbriche, gli aeroporti, tuttii luoghi dove l’uomo vive in forme associate». Li ha convinti: il colo-re è profuso ovunque, specie nel blocco alto, e l’apporto plastico spri-giona da ogni modanatura. Risultato senza dubbio positivo: pittori escultori non hanno ecceduto, arricchendo a posteriori con decorazionii nitidi prismi edilizi; ma, inserendosi nel processo compositivo sin dal-l’inizio, l’hanno animato con il loro misurato contributo.

Finalmente un’autentica scuola di architettura, dove l’apprenderenon è passivo e l’insegnamento può, in larga misura, esplicarsi speri-mentalmente nell’ambito dello stesso edificio in cui viene impartito».

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PIERO MANZONI

Libera dimensione*

Il verificarsi di nuove condizioni, il proporsi di nuoviproblemi, comportano, colla necessità di nuove soluzio-ni, nuovi metodi, nuove misure: non ci si stacca dallaterra correndo o saltando; occorrono le ali; le modifica-zioni non bastano: la trasformazione dev’essere inte-grale.

Per questo io non riesco a capire i pittori che, purdicendosi interessati ai problemi moderni, si pongono atutt’oggi di fronte al quadro come se questo fosse unasuperficie da riempire di colori e di forme, secondo ungusto piú o meno apprezzabile, piú o meno orecchiato.Tracciano un segno, indietreggiano, guardano il lorooperato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poibalzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno,un altro colore della tavolozza, e continuano in questaginnastica finché non hanno riempito il quadro, coper-ta la tela: il quadro è finito: una superficie d’illimitatepossibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cuisono forzati e compressi colori innaturali, significatiartificiali. Perché invece non vuotare questo recipiente?perché non liberare questa superficie? Perché non cer-care di scoprire il significato illimitato di uno spaziototale, di una luce pura ed assoluta?

Alludere, esprimere, rappresentare, sono oggi pro-blemi inesistenti (e di questo ho già scritto alcuni annifa), sia che si tratti di rappresentazione di un oggetto,

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di un fatto, di una idea, di un fenomeno dinamico o no:un quadro vale solo in quanto è essere totale: non biso-gna dir nulla: essere soltanto; due colori intonati o duetonalità di uno stesso colore sono già un rapporto estra-neo al significato della superficie, unica, illimitata, asso-lutamente dinamica: l’infinibilità è rigorosamente mono-croma, o meglio ancora di nessun colore (e in fondo unamonocromia, mancando ogni rapporto di colore, nondiventa anch’essa incolore?)1.

La problematica artistica che si avvale della compo-sizione, della forma perde qui ogni valore: nello spaziototale forma, colore, dimensioni non hanno senso; l’ar-tista ha conquistato la sua integrale libertà: la materiapura diventa pura energia; gli ostacoli dello spazio, leschiavitú del vizio soggettivo sono rotti: tutta la pro-blematica artistica è superata.

Non si tratta di formare, non si tratta di articolarmessaggi (né si può ricorrere a interventi estranei, qualimacchinosità parascientifiche, intimismi da psicanalisi,composizioni da grafica, fantasie etnografiche ecc.:...ogni disciplina ha in sé i suoi elementi di soluzione);non sono forse espressione, fantasismo, astrazione,vuote finzioni? Non c’è nulla da dire: c’è solo da esse-re, c’è solo da vivere2.

* P. Manzoni, Libera dimensione, in «Azimuth», II (1960), pp. 16 sg.1 Cfr. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi cit., pp. 115 sg.: «Il

principio unitario che sarebbe alla base del nuovo indirizzo [della pit-tura monocroma] è quello di cercare «quegli elementi della formativitàche costituiscono il dipinto come struttura dinamica». Mentre, cioè,nel tachismo il colore e la linea avevano ancora il valore di mezziespressivi, come tramiti di un impulso soggettivo del sentimento, nellanuova corrente concretista si tende ad una obiettivazione dei mezzi for-mativi».

2 Cfr. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60, Roma 1966, pp. 147 sg.:«Manzoni non dipinge e non scolpisce, non fa neanche un’«opera d’ar-

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te»: semplicemente vive e si lascia vivere. Si sente catturato nel mondodella vita ma anche nel mondo della forma: sperimenta (pirandelliana-mente) l’impossibile coesistenza di questi due blocchi opposti. La coa-gulazione delle sue idee non produce un oggetto, ma appunto unaidea». Tra le altre la piú nota risale al ’61: «Nel ’61 ho prodotto e insca-tolato – afferma lo stesso artista – 90 scatole di “merda d’artista” (gr.30 ciascuna) conservata al naturale (made in Italy)». Vedi anche G.Celant, Arte dall’Italia, Milano 1988, p. 79: «La distribuzione dei suoirifiuti organici, come valori quotabili in oro, aggiunge un altro contri-buto al suo rapporto di identificazione dell’arte con se stesso. L’indi-vidualità del (suo) corpo acquista valore di merce e valore d’arte, un’e-quazione concretizzata pienamente dalla società dei consumi. Assicu-rata l’identità del “vero” corpo dell’artefatto e dell’artefice, Manzoni,nella ricerca di un’autonomia totale, si ciba di sé. In un rovesciamen-to naturalistico mangia il suo corpo e divora la sua arte».

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UMBERTO ECO

L’Informale come opera aperta*

Parlare di una poetica dell’Informale come tipicadella pittura contemporanea implica una generalizza-zione: «Informale», da categoria critica diventa quali-ficazione di una tendenza generale della cultura di unperiodo, cosí da comprendere insieme figure comeWols o Bryen, i tachistes veri e propri, i maestri del-l’action-painting, l’art brut, l’art autre, eccetera. A taletitolo la categoria di informale rientra sotto la defini-zione piú vasta di poetica dell’opera aperta, su cui si ègià richiamato l’attenzione a varie ripresel. Opera aper-ta come proposta di un «campo» di possibilità inter-pretative, come configurazione di stimoli dotati di unasostanziale indeterminatezza, cosí che il fruitore siaindotto a una serie di «letture» sempre variabili; strut-tura, infine, come «costellazione» di elementi che siprestano a diverse relazioni reciproche. In tal sensol’informale in pittura si collega alle strutture musicaliaperte della musica post-weberniana e a quella poesia«novissima» che di informale ha già accettato, perammissione dei suoi rappresentanti, la definizione... Diqui la funzione di un’arte aperta quale metafora epi-stemologica: in un mondo in cui la discontinuità deifenomeni ha messo in crisi la possibilità di una imma-gine unitaria e definitiva, essa suggerisce un modo divedere ciò in cui si vive, e vedendolo accettarlo, inte-grarlo alla propria sensibilità. Un’opera aperta affron-

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ta appieno il compito di darci una immagine delladiscontinuità: non la racconta, la è. Mediando la astrat-ta categoria della metodologia scientifica e la viva mate-ria della nostra sensibilità, essa appare quasi una sortadi schema trascendentale che ci permette di capirenuovi aspetti del mondo...

Apertura e informazione.

La teoria dell’informazione, nelle sue formulazioni alivello matematico (non nelle sue applicazioni pratichealla tecnica cibernetica)2, ci parla di una differenza radi-cale tra «significato» e «informazione». Il significato diun messaggio (ed è messaggio comunicativo anche laconfigurazione pittorica che comunica appunto nonriferimenti semantici ma una data somma di relazioniformali percepibili tra i suoi elementi) si stabilisce inproporzione all’ordine, alla convenzionalità e quindialla «ridondanza» della struttura. Tanto piú il signifi-cato è chiaro e inequivocabile quanto piú mi attengo aregole di probabilità, a leggi organizzative prefissate –e reiterate attraverso la ripetizione degli elementi pre-vedibili. Di converso, quanto piú la struttura si faimprobabile, ambigua, imprevedibile, disordinata,tanto piú aumenta l’informazione. Informazione intesaquindi come possibilità informativa, incoatività di ordi-ni possibili.

In certe condizioni di comunicazione va perseguito ilsignificato, l’ordine, l’ovvietà: è il caso della comunica-zione a uso pratico, dalla lettera al simbolo visivo disegnalazione stradale, che mirano ad essere compresiunivocamente senza possibilità di fraintendimenti einterpretazioni personali. In altri casi invece è da per-seguirsi il valore informazione, la ricchezza non ridottadei significati possibili. È questo il caso della comuni-

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cazione artistica e dell’effetto estetico – che una ricer-ca in chiave di informazione aiuta a spiegare senza peral-tro fondare definitivamente3...

Un esempio di comunicazione ridondante secondomoduli classici, che si presta singolarmente a un discor-so in termini di informazione, ci è dato da un mosaico.In un mosaico ciascuna tessera può essere valutata comeuna unità di informazione, un bit, e l’informazione tota-le ci è data dalla somma delle unità singole. Ora i rap-porti che si stabiliscono tra le singole tessere di unmosaico tradizionale (prendiamo a esempio Il corteo del-l’Imperatrice Teodora a San Vitale in Ravenna) non sonoaffatto casuali e obbediscono a precise regole di proba-bilità. Prima tra tutte la convenzione figurativa per cuiil fatto pittorico deve riprodurre il corpo umano e lanatura reale, convenzione implicita, talmente basata suinostri schemi percettivi abituali che induce immediata-mente l’occhio a collegare le singole tessere secondo lelinee di delimitazione dei corpi, mentre dal canto lorole tessere che delimitano i contorni sono caratterizzateda una unità cromatica. Le tessere non accennano allapresenza di un corpo; attraverso una distribuzione alta-mente ridondante, per via di ripetizioni a catena, insi-stono su un determinato contorno, senza possibilità diequivoco. Se un segnale nero rappresenta la pupilla, unaserie di altri segnali acconciamente disposti, richiaman-do la presenza delle ciglia e delle palpebre, reitera lacomunicazione in questione e induce a identificare,senza alcuna ambiguità, la presenza dell’occhio. Chepoi gli occhi siano due, simmetricamente, rappresentaun altro elemento di ridondanza; né l’osservazione paiaperegrina, perché nel disegno di un pittore modernotalora può bastare un solo occhio per suggerire un voltovisto frontalmente; che qui gli occhi siano sempre erigorosamente due significa che si assumono e si seguo-no determinate convenzioni figurative; le quali, in ter-

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mini di teoria dell’informazione, altro non sono cheleggi di probabilità all’interno di un sistema dato.

Abbiamo dunque qui un messaggio figurativo dota-to di un significato univoco e di una quota di informa-zione limitata.

Prendiamo ora un foglio di carta bianca, pieghiamo-lo in metà e spruzziamo su una delle metà una serie dimacchioline di inchiostro. La configurazione che nerisulterà sarà altamente casuale, del tutto disordinata.Ripieghiamo ora il foglio in modo che la superficie dellametà macchiata venga a coincidere con la superficiedella metà ancora bianca. Riaperto il foglio ci trovere-mo di fronte a una configurazione che ha già ricevutoun certo ordine attraverso la forma piú semplice didisposizione secondo leggi di probabilità, secondo laforma piú elementare di ridondanza, che è la ripetizio-ne simmetrica degli elementi. Ora l’occhio, che pure sitrova davanti a una configurazione altamente ambigua,possiede dei punti di riferimento, sia pure tra i piúovvii: trova delle indicazioni di direzione, dei suggeri-menti di rapporti. È ancora libero, molto, molto piú chenon di fronte al mosaico ravennate, e tuttavia è indot-to a riconoscere alcune figure piuttosto che non altre.Sono figure dissimili, nel cui riconoscimento egli con-voglia le sue tendenze inconscie, e la varietà delle rispo-ste possibili è segno della libertà, dell’ambiguità, dellapotenza di informazione propria della configurazioneproposta. Tuttavia esistono alcune direzioni interpreta-tive, tanto che lo psicologo che propone il test a un sog-getto, si sentirà disorientato e preoccupato se la rispo-sta del paziente sarà molto al di fuori di un campo dirisposte probabili.

Quelle unità di informazione che erano le tessere diun mosaico o le macchioline d’inchiostro, diventino orai minuscoli pezzi di pietrisco che, distribuiti uniforme-mente, portati a un punto di grande coesione e pressa-

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ti con forza da un rullo compressore, costituiscono quel-la pavimentazione stradale chiamata «macadam». Chiguardi un fondo stradale di tal genere coglie la compre-senza di innumerevoli elementi distribuiti pressoché sta-tisticamente; nessun ordine probabile regge il loroassembramento; la configurazione è apertissima e allimite possiede il massimo di informazione possibile,poiché si è in grado di collegare con linee ideali qualsiasielemento ad un altro senza che nessun suggerimento cicostringa in senso diverso. Ma qui ci troviamo nellastessa situazione del rumore bianco di cui sopra: il mas-simo di equiprobabilità statistica nella distribuzione,invece di aumentare le possibilità di informazione, lenega. Cioè, le mantiene su di un piano matematico, male nega sul piano di un rapporto comunicativo. L’occhionon trova piú indicazioni d’ordine.

Anche qui la possibilità di una comunicazione tantopiú ricca quanto piú aperta risiede nel delicato equilibriodi un minimo d’ordine consentibile con un massimo didisordine. Questo equilibrio segna la soglia tra l’indi-stinto di tutte le possibilità e il campo di possibilità.

Questo è dunque il problema di una pittura che accet-ti la ricchezza delle ambiguità, la fecondità dell’informe,la sfida dell’indeterminato. Che voglia offrire all’occhiola piú libera delle avventure e tuttavia costituire comun-que un fatto comunicativo, la comunicazione del massi-mo rumore, tuttavia contrassegnato da una intenzioneche lo qualifichi come segnale. Altrimenti tanto varreb-be per l’occhio ispezionare liberamente fondi stradali emacchie sui muri senza dover trasportare nel riquadrodi una tela queste libere possibilità di messaggio che lanatura e il caso mettono a nostra disposizione. Badiamobene che la sola intenzione vale a contrassegnare ilrumore come segnale: la sola trasposizione di una tela disacco nell’ambito di un quadro vale a contrassegnare lamateria bruta come artefatto.

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* U. Eco, L’Informale come opera aperta, in «Il Verri», V (1961), n.3, pp. 98, 107, 110-11, 116-19.

1 Cfr. in particolare i nostri articoli L’opera in movimento e lacoscienza dell’epoca, in «Incontri Musicali», 1959, n. 3 (ripreso inSaggi Italiani 1960, Milano 1960) e L’œuvre ouverte et la poétique del’indétermination, in «NRF», luglio e agosto 1960 [N. d. A.]

2 Per i chiarimenti che seguono ci riferiamo in particolare a S.Goldman, Information Theory, Prentice Hall, New York 1953; H. Rei-chenbach, The Direction of Time, Un. of California Press, 1956; R.Shannon e W. Weaver, The Mathematical Theory of Communication,Illinois Un. Press, 1949; W. Weaver, La matematica dell’informazione,in Controllo automatico, Milano 1956. Per una accentuazione del valo-re «significato» rispetto a quello «informazione», cfr. N. Wiener, LaCibernetica, Milano 1956 e Introduzione alla cibernetica, Torino 1958.Per una introduzione all’uso estetico di tali concetti cfr. Dorfles, Entro-pia e relazionalità del linguaggio letterario, in «Aut Aut», n. 18 e Il dive-nire delle arti, Torino 1959, pp. 92 sgg. Per una impostazione piúapprofondita del problema come viene accennato nel presente artico-lo, cfr. il nostro Apertura e informazione nella struttura musicale, in«Incontri Musicali», 1960, n. 4 [N. d. A.].

3 Cfr. M. Tafuri, Storia della architettura italiana cit., p. 116: «Il rin-novato interesse per la semiologia e per la linguistica ha... a suo fondoun’interpretazione del materiale formale come plesso disponibile direlazioni: la teoria dell’informazione, divulgata da Umberto Eco, offreper suo conto un sostegno alla poetica dell’aleatorio, dell’«opera aper-ta», del magma lasciato in perenne attesa di completamenti operati daifruitori. Per un’arte che ha smarrito significati e che per significatiaggrovigliati non è in grado di proporre organizzazioni privilegiate, lavague neoavanguardista apparirà un approdo in certo modo rassicu-rante. La polemica nei confronti dell’opera, inoltre, rimette in gioco unarelazione del tutto fossilizzata tra ideologia e scrittura; ne emerge,dominante, il tema della lingua depurata da scorie sovrastrutturali;anche se non facile appare la scelta fra i due versanti degli “apocalitti-ci” e degli “integrati”».

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BRUNO ZEVI

Sul «superamento» dell’architettura organica e dellaricerca spaziale*

Fra le «tesi» proposte ad un congresso di studenti-architetti ve n’è una intitolata «L’inutile ricerca del lin-guaggio» in cui si legge: Dopo le degenerazioni neo-liber-tarie e neo-accademiche, il mito del linguaggio è crollatoanche per coloro che credevano nell’architettura organica enelle illimitate possibilità di una ricerca spaziale. È un’af-fermazione sbrigativa e d’effetto, che non può passaresotto silenzio. Noi abbiamo creduto e continuiamo a cre-dere nell’architettura organica e nella ricerca spaziale1;è auspicabile che i giovani, prima di rifiutare, ne inten-dano i motivi storici che, per chiarezza, elencheremo innove punti:

1. Intorno al 1930, e palesemente un decennio dopo,l’architettura razionalista entrò in crisi. Il fenomenovenne accanitamente negato, fino a due o tre anni orsono, in omaggio ad una velleitaria «continuità». Pertale cecità caparbia, anziché maturare il passaggiodai programmi degli anni ’30 a quelli attuali, si è dis-sipata l’eredità razionalista chiudendo la partita nelcaos e nell’alienazione2.

2. «Edilizia spontanea», «preesistenze ambientali», neo-liberty e neo-storicismo furono e sono le manifesta-zioni di una malattia cancerosa la cui esatta diagno-si è stata intenzionalmente ignorata. Dilagano le

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inquietudini gratuite, gli arbitri formalistici; dominanon l’informale, ma semplicemente l’informe. Ormaitutti parlano del razionalismo con supremo distaccoe disprezzo; ma si pretende di superarlo tornando alvezzo artigianale, agli archetti e alle volticine di mat-toni, alla sofisticata atmosfera paesana dei nuoviquartieri residenziali, alle «citazioni» stilistiche. Cioènon si supera affatto il razionalismo; lo si sfascia tor-nando ad una fase nebulosa e retrograda, ad un licen-zioso eclettismo pre-razionalista3.

3. Al momento della crisi del razionalismo si dava, sullascena internazionale, una sola alternativa concreta:quella offerta dalle convergenti ricerche di Wright,della scuola organica americana4, di Aalto5, degliurbanistici inglesi e, in parte, dei neo-empirici scan-dinavi6. Un movimento che non dettava regole oschemi figurativi, puntando sui contenuti e non sulleforme; si opponeva al mito della tecnica puramostrando, specie in Inghilterra, un profondo impe-gno sociale; e risolveva in senso progressivo quelle esi-genze poste dal consumo e dall’esaurimento del razio-nalismo che, troppo a lungo represse e inibite, sfo-ciarono poi in senso reazionario, intimistico e strac-co, appunto nelle cervellotiche teorie dell’edilizia ver-nacolare, dell’ambientamento, dello storicismo e nelneo-liberty.

4. Proponendo all’Europa l’alternativa dell’architetturaorganica, insistemmo nel precisare che non si tratta-va di un’operazione meccanica, di mutare Le Corbu-sier o Gropius con Wright o con Aalto. Il problemaera di fondo, investiva le strutture. Ma poiché nonbastava postulare il rinnovamento dei contenuti peroffrire una soluzione architettonica, additavamo l’u-nica strada atta ad esprimere la nuova ricerca reali-stica. Non a caso i russi, nel 1937, prima di inabis-sarsi nel monumentalismo, invitarono Wright ad illu-

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strare la sua alternativa7. Se l’avessero compresa, seavessero saputo tradurla nei termini della pianifica-zione sovietica, avrebbero evitato un trentennio diorrori contro i quali soltanto ora cominciano ad insor-gere con remore e a fatica.

5. In Europa l’architettura organica fu intesa e mistifi-cata come wrightismo, individualismo, naturalismo,impressionismo; non si tenne nemmeno conto delfatto che il genio di Wright era sorto dal razionali-smo della Scuola di Chicago. Di chi la colpa? Fran-camente: della sovrana pigrizia intellettuale e mora-le degli architetti europei. Quanti di loro hannoaffrontato il lieve onere di attraversare l’Oceano perstudiare la produzione wrightiana, per meditarla, percapire in che modo poteva essere utile a risolvere icompiti, tutti diversi, che si ponevano in Europa?Non credo siano piú di dieci, compresi i migliori8.

6. Quando Wright morí, scrivemmo che il campo eraaperto alla filologia9. La frase fu interpretata comesintomo di squilibrato dolore per la scomparsa di unodei massimi artisti della storia architettonica. Non erasolo questo. Sentivamo che, mancando la sua fontecreativa, il problema dell’architettura organica veni-va rinviato sine die. Piú volte nel passato si verifica-rono fenomeni simili, e basti ricordare le ereditànegate di L. B. Alberti, di Michelangelo o di Borro-mini; si persero tanti anni prima di riscoprirle. L’iradi constatare che ci si avviava a perdere anche noitanti anni dettò quelle parole.

7. L’involuzione politica e culturale ha reso piú tardi,almeno in parte, inattuale il problema dell’architet-tura organica. Invece di promuovere un positivo svi-luppo post-razionalista, profondamente legato e fede-le ai presupposti del 1920-30, bisognava correre airipari difendendo la linea razionalista. È avvenutaperciò una strana inversione di personaggi: chi pro-

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pugnava la «continuità» si abbandonava a registrare,con sadico compiacimento, tutte le fasi della putre-fazione razionalista; noi, che vedevamo nel movi-mento organico il naturale esito del razionalismo, lodifendevamo per impedire un ritorno a posizioni pre-razionaliste10.

8. Con questo non cessiamo affatto di credere nell’ar-chitettura organica. Hans Scharoun ci interessa assaipiú dell’ultimo Gropius11. Le Corbusier «informale»di Ronchamp è, senza confronto, piú significativo diMies classicista12. In questa rivista diamo larga, forseeccessiva, risonanza alle ipotesi, ai tentativi, alleprove di coloro che, specie tra i giovani, ricercano unlinguaggio piú aderente alle realtà. Il tema dell’ar-chitettura organica deve rimanere aperto. Ci sonovoluti quindici anni per far capire che il razionalismoera esaurito; ci vorranno altri dieci anni per far inten-dere che l’architettura organica non è il wrightismodi maniera. Certo, se scoppia la conflagrazionenucleare, ogni discorso è inutile; ma in caso contra-rio, dopo il caos e l’alienazione, si cercherà un nuovoorientamento, e allora Wright sarà «scoperto» e final-mente gli architetti europei sapranno applicarne iprincipî e i metodi nei loro programmi sociali. Lostesso accadrà in America, perché anche lí oggi Wri-ght è dimenticato a favore di nauseabonde orgie for-malistiche. Nella Bay Region i giovani rinunciano aWright ed imitano Maybeck13: il ridicolo si aggiungeall’autoevirazione.

9. Sulla questione della «ricerca spaziale» si può esserebrevi. Lo spazio è la sede in cui si concretano e rap-presentano i contenuti dell’architettura. Cessare dicredere nella ricerca spaziale equivale a cessare di cre-dere nell’architettura. Il che è legittimo, ma solo perseguire l’esempio di Danilo Dolci14 o di coloro cheritengono perduta ogni possibilità di recupero pro-

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fessionale prima di un integrale rinnovamento dellestrutture politiche e sociali. Se si opera in architet-tura, non basta scegliere i contenuti; bisogna impe-gnarsi ad esprimerli spazialmente. Tanto piú che glistessi contenuti progressivi cessano di essere taliquando sono espressi in modo reazionario: l’espe-rienza sovietica, di nuovo, costituisce un monito perchi crede che sia sufficiente una coscienza politica perdivenire architetti15.

La ricerca del linguaggio è dunque inutile, comesostengono gli studenti, se per linguaggio s’intenda ilformalismo astratto, fine a se stesso, sganciato dallaconfigurazione creativa e socialmente impegnata deiprogrammi edilizi. Gli studenti hanno ragione quandoaffermano che il linguaggio diviene un «feticcio» se l’ar-chitetto non ha niente da dire. Ma devono aggiungereche costituisce il compito piú serio e urgente una voltache l’architetto, operate le sue scelte, intervienecostruendo.

Attaccare la critica «figurativa» va oggi di moda,suscita gli applausi di svogliate platee, dà la sensazionedi essere realistici, compensa la mancanza di sensibilitào di intelligenza. A ben vedere, è un altro sintomo diirresponsabilità, di pigrizia qualunquistica e di aliena-zione. Per chi sa leggere l’architettura, le forme denun-ciano con esattezza, senza equivoci e senza demagogia,i contenuti sociali16.

* B. Zevi, Sul «superamento» dell’architettura organica e della ricer-ca spaziale, in «Architettura», VII (1961-62), pp. 506 sg. e in B. Zevi,Editoriali di architettura, Torino 1979, pp. 258-61.

1 Cfr. qui pp. 13 sgg.2 Cfr. G. K. König, Il consumo del razionalismo italiano, in «Archi-

tettura», VII (1961-62), pp. 484 sg.: «Se ci limitiamo ad un esame sin-

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tattico delle opere, bisogna riconoscere che la «grammatica» dell’Uni-versità Bocconi non è dissimile da quella della Stazione di Firenze, eche sia lo Stadio Berta di Firenze che la Casa del Fascio di Como rifiu-tano certi elementi linguistici che invece accomunano tra loro Muzioe Lancia, Portaluppi e Del Debbio. Mi riferisco naturalmente alleopere datate attorno al 1930 poiché in seguito... la confusione fu taleche da un lato Figini e Pollini fecero se non gli archi almeno le colon-ne, e dall’altro persino Coppedè indossò il camice razionalista conver-tendosi – diceva lui – allo stile liscio».

3 Cfr. ibid.: «Come gli alti funzionari romani sostituirono la palan-drana giolittiana con l’orbace fascista, ma sotto sotto rimasero quelloche erano, cosí il linguaggio piacentiniano combinava la palandranaaccademica con l’orbace razionalista, rimanendo in sostanza quello cheera: l’espressione di quella Italia tanto benestante, quanto ignorante,che andava via via accentuando il suo distacco culturale dal resto delmondo».

4 Cfr. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia cit., p. 299 e quipp. 13 sgg.

5 Cfr. Zevi, Storia dell’architettura moderna cit., pp. 289 sg.: «Il mag-gior architetto della nuova generazione europea, e il piú tipico, è natoin Finlandia nel 1898. Non ha scritto libri... Caratteristica prima diAalto, a paragone dei maestri della seconda generazione, è proprio l’as-senza di formule compositive, di tono apodittico e di «principî» teo-rici. Ciò risponde del resto ad una diversità di situazione storica; gliuomini del razionalismo per ritrovarsi, per creare un movimento, perimporsi definitivamente contro il tradizionalismo, dovevano maturarerigide formulazioni... La terza generazione di architetti moderni è natainvece nel clima del funzionalismo e si è naturalmente proposta di libe-rarsi dai suoi dogmi».

6 Cfr. ibid., pp. 343 sgg.7 Wright fu invitato a Mosca per un convegno internazionale di

architetti e tenne un discorso coraggioso e franco, invitando i russi apiú convincenti iniziative; cfr. ad esempio: «I nostri grattacieli? Checosa sono mai? Un trionfo dell’ingegneria, ma la disfatta dell’archi-tettura. Scheletri d’acciaio nascosti da sottili facciate di pietra, fissateall’ossatura metallica, affascinanti immagini che imitano le torri feu-dali; ma come architettura, falsi quanto l’economia civica che consentídi costruirli in congestionate aree urbane. Ho veduto un disperanteriflesso di tale falsità nel vostro stesso Palazzo del Lavoro. Questopalazzo, che per ora è soltanto allo stadio di progetto, spero, è validoesclusivamente se lo consideriamo una versione moderna di San Gior-gio che uccide il Drago, vale a dire, Lenin che toglie la vita a un grat-tacielo capitalistico. E altrove fra voi io scorgo il nostro antico nemi-co: la mania di grandezza... Temo di vedere l’Unione Sovietica cade-

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re negli stessi errori commessi dall’America...», in F. L. Wright, Io el’architettura, Milano 1955, III, pp. 828 sg.

8 Cfr. Zevi, Storia dell’architettura moderna cit., pp. 457 sgg.9 Cfr. Id., La scomparsa di F. L. Wright (1959), in Cronache di archi-

tettura cit., III, p. 295: «Di lui vivo abbiamo scritto continuamenteesaltandone, di fronte ad ogni nuovo edificio, il genio e il profetico mes-saggio; tuttavia una commemorazione è impossibile poiché non riguar-derebbe lui, ma noi stessi mutilati dalla sua scomparsa, paralizzati dauna realtà che appare inverosimile, agghiacciati al pensiero di un mondoe di una civiltà architettonica che cessano di essere alimentati dalla suafede, dal suo coragggio, dalla sua arte. Non ci consola nemmeno l’illu-sione di poter proseguire la sua opera diffondendone le idee e i prin-cipî. Tra Wright e la nostra generazione vi fu comprensione, infinitoaffetto, intesa profonda e immediata, ma non vi può essere genuinacontinuità».

10 Cfr. König, Il consumo del razionalismo italiano cit., p. 482:«Conseguenza diretta di questa voluta sinteticità del linguaggio formalerazionalista fu la sua facilità di imitazione da parte dei meno prepara-ti. Mai «stile» fu cosí rapidamente copiato e assimilato. Se prendiamoun manuale per allievi geometri del 1938 – il Corsetti ad esempio – vitroviamo progetti di Frette, Lancia e persino Sartoris e Diulgheroff conle loro assonometrie colorate».

11 Cfr. Zevi, Storia dell’architettura moderna cit., pp. 164, 193, 470.12 Cfr. Id., Le Corbusier: la registrazione veritiera, in Editoriali di

architettura cit., pp. 38 sg.: «La rottura [delle ricerche razionalistiche]avviene a Ronchamp in forma, ancor oggi, clamorosa oltre ogni limi-te. Sprigiona un empito espressionista, ma è al di là e al di qua, delladenuncia e della protesta. Scultura e scenografia, inconscio e irrazio-nalità precipitati in un masso cosí sconvolgente da rendere illecita ladistinzione tra arte e istrionismo. Lungo l’involucro e nel cavo, subli-mi fraseggi lirici s’intrecciano con offensive trascuratezze e brutture,la cui presenza è insostituibile proprio perché questa è architettura delgesto e della materia – l’unica testimonianza pertinente di architettu-ra informale. Senza preludi e senza futuro. Dopo la seconda guerramondiale, prima dell’atomizzazione del mondo, durante intervalli diannientamento, lo spazio diviene indicibile nel capolavoro dell’archi-tettura alienata».

13 Cfr. Zevi, Storia dell’architettura moderna cit., pp. 348 sg.14 Alle battaglie sociali di Dolci Zevi ha dedicato un articolo:

Danilo Dolci: la pianificazione dal basso, in Editoriali di architetturacit., pp. 303-9.

15 Sulla edilizia russa cfr. Zevi, Storia dell’architettura moderna cit.,pp. 179 sgg.

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16 A differenza di quanto può avvenire per le altre arti, dovel’«ambiguità» ha un ruolo ben diverso. Sul ruolo di Bruno Zevi cfr. P.Portoghesi, Tendenze delle nuove generazioni di architetti, in «Comu-nità», XVII (1963), pp. 44 sgg.: «La presenza di Zevi è tuttavia evi-dentissima nei riflessi che la sua azione culturale ha esercitato sull’in-tero arco della cultura architettonica italiana, dandole quell’aperturaproblematica verso la reintegrazione dei valori umani ed ereditari everso l’adesione alla conduzione morale dell’uomo contemporaneo chesono tra i suoi aspetti piú vitali. Dell’ipotesi di una architettura orga-nica, come scuola regionale, naufragata, per l’inadeguatezza di una clas-se dirigente immatura, nella gratuità d’uno stile subito tramontato, èrimasto nella coscienza degli architetti delle nuove generazioni il rifiu-to per una prospettiva accomodante e accademica della modernità checonfondesse la ragione storica concreta, evidenziata dal pensiero scien-tifico contemporaneo, con la ragione astratta e illuministica di certocostruttivismo. D’altronde Zevi, inserito totalmente nelle strutturedella vita civile italiana, porta avanti un tipo di polemica antiburocra-tica e antiufficiale che ha le sue radici nella Resistenza e ripropone nelsuo carattere individualistico e nella sua ispirazione civile e democra-tica le contraddizioni e l’efficacia di intervento, connessi con un atteg-giamento che rivela una formazione idealistica su cui però ha sedi-mentato successivamente l’influenza di un ascolto partecipe verso levicende del pensiero europeo del dopoguerra».

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GILLO DORFLES

Nuovi riti e nuovi miti*

Dopo anni e anni in cui la pittura (e non solo la pit-tura; per la musica le cose vanno ancor peggio) è vissu-ta, si può ben dire, scissa in due grandi tronchi noncomunicanti e tra loro incombaciabili: la pittura per ilpopolino, o per il grosso borghese, per coloro che di artenon sanno e non capiscono nulla, e la pittura per quel-la scarsa élite intellettuale capace di apprezzarla e di sti-marla; dopo anni, dunque, noi ci troviamo ad una svol-ta, forse decisiva; una svolta in cui degli elementi figu-rali (che siano bottigliette di gazose, o francobolli, uccel-li impagliati, o strumenti meccanici, rottami d’automo-bili o lampadine elettriche, poco conta) riescono a susci-tare un interesse di carattere «estetico» anche a degliartisti appartenenti alla categoria «highbrow».

Quella che in un suo antico e geniale articolo JohnMcHale ebbe a definire la «Expendable Icon»1, l’iconasmerciabile, consumabile; e quella «expendability» dicui Banham ebbe piú volte ad occuparsi, appunto nelconsiderarne la effimericità, la estrema mutevolezza, ela qualità di «consumo»2, mi sembra la vera caratteri-stica significante di questi prodotti.

Infatti, già nel mio volume Le oscillazioni, circa unadecina d’anni or sono – e si era proprio agli inizi dellavoga del «pop» negli Stati Uniti – avevo tentato dirichiamare l’attenzione del pubblico sull’importanza delfenomeno che riguardava non soltanto la pittura e la

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scultura, ma alcune forme affini di solito ignorate dai«trattatisti», dai critici, dagli estetologhi, quali il car-tone animato, il fumetto, il «cartoon», e tutte quelleespressioni grafiche e visive di cui già da anni si vale-vano, soprattutto in America (ma anche in Europa, e informa ancor piú deteriore come insegnano i famigerati«romanzi a fumetti» fotografici di taluni nostri setti-manali ad alta tiratura) alcuni artisti per le masse. M’eraparso, infatti, già da allora, che in taluni di tali fumetti– sia nel loro aspetto grafico pittorico, che in quello dicerto dialogo gergale – apparissero degli elementi parti-colarmente pregnanti, incisivi, efficaci e capaci diimpressionare vivamente tanto il pubblico infantile chequello adulto, e non solo quello piú ingenuo delle classipopolari3.

L’interesse per questi prodotti d’arte per le massenon doveva tardare del resto a farsi strada, soprattuttoin America, anche tra i saggisti e i critici e, infatti, negliultimi dieci anni sono apparse numerose pubblicazioni,alle quali non posso che rimandare il lettore, che svi-scerano a fondo l’aspetto soprattutto sociologico maanche estetico ed etico di questo genere di prodotti.

In questo capitolo non è però mia intenzione di esa-minare né l’aspetto storico, né quello critico dell’artemoderna, ma soltanto di valermi di essa – anzi d’una pic-cola parte di essa – in quanto rientri nelle categorie deiconsumi e delle comunicazioni di massa e degli elemen-ti mitopoietici della nostra cultura. È per questa ragio-ne che non mi sembra possibile – e non sarebbe nem-meno utile – esaminare altri aspetti dell’arte moderna(musica post-seriale, pittura neoastratta, ecc.) che rien-trano decisamente in forme di arte d’élite. La «pop-art»,invece – anche se, come vedremo, è spesso altrettantod’élite, altrettanto «highbrow», delle forme dianzi men-zionate – ha il merito o il privilegio d’essere entrata acontatto – attraverso alcuni dei suoi elementi costituti-

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vi – col mondo di tutti, d’aver tentato almeno di rifar-si, di lasciarsi influenzare da questo mondo, e per que-sto va considerata, nonostante ogni sua pecca, con uncerto rispetto. (Non dimenticherò del resto una frase cheebbe a dirmi una persona totalmente digiuna di proble-mi artistici, dopo aver visitato l’ultima Biennale: «oravedo dappertutto delle opere d’arte “pop”»). Nulla dimeglio e anche di piú scontato; un tempo i vecchi signo-ri dai collettoni inamidati e dalla canna col manico dora-to vedevano nel piú banale dei tramonti autunnali unqualche paesaggio dei macchiaioli (e molto spesso face-vano un grosso torto al paesaggio reale), oggi i pronipo-ti di quegli stessi signori si avvedono, improvvisamen-te, che certe macchinette, certe bottigliette, certi flip-per, certe macchine da caffè, in mezzo alle quali per anniavevano vissuto ignorandole, sono o possono divenire«elementi plastico-cromatici», capaci di «ispirare» un’o-pera d’arte – sia pure di «pop-art». L’arte (non dovreb-be essere una novità) serve anche a imparare a vedere ilmondo; negli ultimi decenni l’arte – rifugiandosi nell’a-strazione dal reale quotidiano – aveva permesso di impa-rare a vedere un «nuovo paesaggio», che era quello delmicro e macrocosmo, del microscopico e del telescopi-co, le nuove forme dei bacteri e delle galassie, dei nucleicellulari e degli infusori, delle formazioni cristalline edelle sospensioni colloidali4.

Oggi la «pop-art» può forse insegnarci a vedere quelpoco o molto di buono – o comunque di interessante –che s’annida in taluni prodotti meccanici e industriali dicui ci serviamo constantemente e che fino a ieri aveva-mo ignorato, da un punto di vista estetico e sociale5.

Se il mondo del juke-box e del flipper, delle pin-up edei rotocalchi, degli urlatori e dei campioni sportivi, èun mondo acre ed ingrato, un mondo dove spesso l’uo-mo rischia di spersonalizzarsi e di abbrutirsi, ciò non

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toglie che esso sia molto piú il «nostro» mondo di quel-lo di molti salotti intellettuali da un lato o di quello dellestalle alpine, dei pergolati campestri, o dei salotti neo-capitalistici, e meriti, quindi, di costituire il sostrato dinuove immagini visuali, di «nuove iconi» per il nostrouniverso artistico6.

Prendiamo dunque a considerare come primo passoalcune opere d’arte visuale che rientrano nel nostro set-tore, quelle, piú precisamente, a cui ormai generalmen-te viene riservato il nome di «pop-art»: le opere degliartisti autentici (o ritenuti tali) e non gli oggetti e le figu-razioni che tali oggetti hanno ispirato.

La maggior parte del pubblico e della critica è anco-ra combattuto tra difesa e vilipendio di queste opere: amoltissimi critici sembra quanto mai oltraggioso e con-troproducente che queste opere non si valgano piú delletradizionali tele e dei tradizionali pennelli, che ricorra-no ad oggetti già posti in commercio e che li utilizzinonel loro aspetto piú pacchiano, ingrato, o che costrui-scano addirittura dei simulacri di oggetti, imitati inmaterie plastiche o – peggio ancora – dei simulacri didisegni popolari (fumetti e persino autentici «quadri»)imitati, ricopiati, ingranditi e perciò resi sciatti e osses-sivi nel loro squallore. In altre parole, come risulta dauna recente inchiesta di «Kunstwerk»7, i detrattori della«pop-art» figurativa giudicano che questa non debbaessere assolutamente accettata mentre dall’altro latodella barricata si trovano coloro che sono pronti ad esta-siarsi8 dinnanzi all’abilità di artisti come Lichtenstein,apprezzandone, altresí, la «materia pittorica», la tecni-ca compositiva, ecc.9. È facile comprendere come anchein questo caso si possa incorrere nell’equivoco di confon-dere i valori, che chiameremo tradizionali, presenti inmolti di questi artisti (come in Rauschenberg, in Johns)10

con quelli di altri artisti (Oldenburg, Lichtenstein,Warhol) nei quali i valori sono di un altro tipo; ossia non

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si appuntano sopra l’elemento pittorico vero e proprio(impasto di colore, materia, contrasti cromatici) quantosull’elemento di denuncia e di biasimo11. Oltretutto èdifficile dire se le opere di un Oldenburg (autore di untubetto di dentifricio gigantesco e squallido in materiaplastica)12 o di un Wesselman (autore, ad esempio, d’ungigantesco collage dove un’automobile e un albero inmateriali plastici giganteggiano sulla parete, e di un altrodove una donna immersa nel bagno di schiuma è cir-condata da asciugamani, tendine, radioline che tra-smettono i loro insulsi programmi) siano «importanti»per l’elemento inventivo e denunciatorio piuttosto cheper quello tradizionalmente «pittorico».

L’errore in questi casi è indubbiamente di non avercompreso come il lato oltraggioso e irritante di una com-posizione come quelle di Wesselman e di Oldenburg (ilsuo tubetto da dentifricio, la sua «macchina fantasma distoffa cucita», la sua camicia-monstre, ecc.) e anche –in senso un po’ diverso – di Jim Dine (quest’ultimoautore di opere che in parte si valgono ancora di ele-menti dipinti e spesso «pittoricisticamente» dipinti, imi-tando in ciò il primo Johns e Rauschenberg, in parte dioggetti trovati e inseriti o anche, disegnati e inseriti adun tempo, nella tela), consista proprio nell’aver sottoli-neato, ingigantito, reso piú evidente e tangibile, l’a-spetto grossolanamente «Kitsch» degli oggetti che cicircondano e di cui ci serviamo usualmente, fino a farlidiventare – per questo solo fatto – carichi d’una certapregnanza che finisce col tramutarsi in «bellezza»13. Enon si dimentichi quanto già Rosenberg ebbe a dire aproposito dei casi in cui il «Kitsch» si trasforma in«buon gusto» o meglio in cui l’opera di cattivo gusto puòfinire per essere fruita secondo i canoni del «buongusto» e viceversa14.

Qualcosa d’analogo, ma di non identico, accade peri fumetti ingranditi di Lichtenstein: non è il fatto che

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siano «dipinti a mano», imitando il retino tipograficocon paziente punteggiatura di colore a olio, che li rendeinteressanti, quanto il fatto d’aver ingrandito, magnifi-cato, resi altamente espressivi, certi aspetti mitici (di ter-rore, di dolore, di brutalità, di passione) esibiti dai con-sueti fumetti, e di aver isolati, inquadrati, montati cosíabilmente alcuni di tali particolari (lacrime che scendo-no lungo la guancia, grinta del gangster, spruzzo dellaboccetta di spray) da fargli assumere un’efficacia addi-rittura paradigmatica ed emblematica15.

Come non accorgersi, infatti, che sono codeste le«nuove iconi» della nostra società, almeno di quellaamericana (ma presto anche di quella russa e giappone-se) e che è codesta iconologia ad aver sostituito le aureo-le dei santi e le bandiere degli eserciti? La famosa ban-diera americana, dipinta «tale e quale» ma «a mano» daJasper Johns, ne è del resto la prova. Questo significa-tivo emblema della grande nazione assume per l’accura-tezza dell’esecuzione (in una versione è addiritturacostruita in triplice rilievo) un peso che non avrebbe sefosse semplicemente stata incollata sulla tela; ma altempo stesso si differenzia nettamente da ogni tentati-vo di «resa naturalistica», realistica, della stessa...16.

E, sia detto incidentalmente – e con riferimentoesclusivamente alla «pop-art» americana, non dunquea quella inglese o francese –, quello stesso «buon gustodel cattivo gusto» che colpisce il visitatore europeoappena sbarcato a New York o a Chicago quando sitrova posto per la prima volta di fronte a edifici comeil Rockefeller Center, o a certi grattacieli di Sullivan (neiquali non può fare a meno di deprecare certe grossola-nità decorative, certe pacchianerie revivalistiche, certogoffo esibizionismo – il patinoir del Rockefeller – ma chetosto si trasforma in spettacolo «grandioso» davverodegno d’ammirazione per il fascino, non solo del colos-sale, ma delle nuove dimensioni spaziali e cromatiche)

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finisce per colpire davanti a molte di queste opere «pop»degli artisti statunitensi; mentre colpisce negativamen-te in quelle degli europei (Spoerri17, ecc.). In altre paro-le possiamo ormai parlare d’un «gusto dell’epoca» eanche d’un «gusto d’una determinata civiltà culturale»,che non si equivalgono e non si corrispondono; non pos-siamo fare a meno di mantenere distinti i diversi metridel gusto con i quali siamo portati a giudicare; e soltan-to con questo mantenerli distinti siamo in grado di giun-gere ad una comprensione del fenomeno artistico chenon sia limitata a considerarlo come un epifenomenotrascurabile o edonistico ma come uno dei piú impor-tanti aspetti d’ogni ciclo culturale18.

* G. Dorfles, Nuovi riti e nuovi miti, Torino 1965, pp. 183-89.1 J. McHale, The Expendable Icon, in «Architectural Design», marzo

1961 [N. d. A.].2 Reyner Banham, critico d’architettura inglese e redattore per

parecchi anni della «Architectural Review», si è occupato tra i primidel problema della pop-art soprattutto in rapporto al disegno indu-striale... Banham tendeva a considerare l’oggetto prodotto industrial-mente per il consumo di massa come equivalente alla pop-art e cioè comealcunché di non precisamente artistico ma avente delle caratteristichedi funzionalità e di edonismo che lo rendono particolarmente appeti-bile presso il consumatore medio. Tale tesi poteva essere solo parzial-mente accettata [N.d.A.].

3 Cfr. anche M. Calvesi, Ricognizione e «reportage» (1963), in Le dueavanguardie, Lerici, Milano 1966, II, p. 288: «L’arte di reportage nonè destinata necessariamente a bruciarsi in immagini al lampo di magne-sio. Piú larghi recuperi di momenti creativi e piú complessi margini dimetodologia operativa le sono concessi. Esemplare, in questo senso, l’o-pera di Lichtenstein. Anche in Lichtenstein gioca una certa crudezzae violenza; ma è una violenza contemplata, non piú espressa da un costi-tuzionale choc dell’immagine; per questo la violenza può alternarsi alsogno; tuttavia è sempre un dato registrato dall’esterno, un incontrosubito, una recezione di immagini già configurate che si proiettano sudi noi nella estrema nudità e immediatezza dei loro momenti anche psi-cologici: immagini a livello «rasoterra» del manifesto, delle scritte pub-

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blicitarie, dei giornali. Per Lichtenstein, del fumetto. Il procedimentooperativo di Lichtenstein si differenzia da quello neodadaistico inquanto non subisce salti dall’immagine all’oggetto, non ipotizza mutua-zioni, non cerca equivalenze tra l’immagine assunta oggettualmente el’immagine oggettuale, esterna. La «nuova figurazione» di Lichtensteinpotrebbe essere definita «ri-figurazione». Questo processo di «ri-figu-razione» non soltanto è intero, totale, ma ha come punto di partenzala «reinvenzione» dell’immagine stessa. Non credo infatti che (eccet-tuato magari qualche caso) i «fumetti» di Lichtenstein siano assoluta-mente ricalcati. Sono fumetti re-inventati e concepiti, per cosí dire, persé, e in assoluto. Queste immagini che seducono l’artista per la lorospontaneità ideografica, nonostante l’apparente fedeltà di riproduzio-ne sono in realtà snaturate da una forte volontà estetica, che si eserci-ta ad un livello tra «simbolico» e puro-visibilistico».

4 Cfr. ibid., pp. 289 sg.: «L’immagine reportagistica, anche per ten-tare di chiarir meglio, concettualmente, il senso di quell’«incontrofrontale» tra oggetto e soggetto... potrebbe definirsi una immagine«transattiva», con riferimento alle teorie transazionali della percezio-ne, per cui la percezione è qualche cosa che agisce «tra» l’oggetto e ilsoggetto, un terzo termine che in ultima analisi non può ridursi né all’a-zione del soggetto né a quella dell’oggetto, né alla semplice somma delledue azioni. Ma la ricostruzione del processo percettivo dell’arte direportage non è, come nei gestaltici, intenzionale e cosciente, astrattanei suoi moduli, anzi non si tratta in nessun modo di una ricostruzio-ne; il possibile parallelismo dell’arte di reportage con le teorie transa-zionali della percezione non è dedotto ma è deducibile; non si pone apriori, ma può spiegarsi a posteriori, come prodotto di quella sostan-ziale e non necessariamente cosciente unità che caratterizza ognimomento storico della cultura nei suoi diversi campi d’indagine. C’èpoi da tener presente che mentre i gestaltici fanno riferimento ad unateoria della percezione come «forma» e struttura costante, l’arte direportage è semmai riconducibile, come dicevamo, ad una percezioneintesa come «azione» strutturalmente indeterminata e variabile».

5 Cfr. A. Boatto, La presenza dell’oggetto, in «Il Verri», 1963, n.12, Dopo l’informale, p. 106: «Appropriarsi di un oggetto o di un affi-che pubblicitario, prenderlo di peso dalla realtà per promuoverlo nelcontesto dell’opera, può sembrare un gesto puramente eccentrico seinvece non testimoniasse di per sé a favore di una ben determinata con-cezione del mondo. La singolarità di un simile gesto postula infatti unmondo anteriore alla coscienza dell’uomo come ad ogni suo atto, ilquale non ha alcun bisogno di venire costituito, bensí di essere sem-plicemente accolto, dal momento che si presenta chiuso e come irrigi-dito entro una propria perfetta autonomia. Ecco che allora con imper-turbabile coerenza un esponente del new-dada o del nouveau réalisme,

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un Rauschemberg, poniamo, se ad una sua composizione... occorre unbicchiere non avrà da ricorrere all’uso dei pennelli e di colori, mapotrà servirsi disinvoltamente di quello che sta sul suo tavolo o che haposto sul ripiano della cucina».

6 Cfr. ancora ibid., pp. 110 sg.: «Sono gli stessi new-dada e nouveauréalisme ad indicare la prima strada, il primo «come» allorquando siaffronti il compito di assumere il mondo: appropriarsene direttamen-te; esibire puramente la realtà, un suo frammento staccato, un ogget-to empirico, un cappello, una lampada rotta, una bottiglia di Coca-Cola,una scatoletta vuota di corn-flakes. L’oggettività che sta in opposizio-ne alla soggettività trasbordante dell’informale, si rivela in questo casoassoluta fino all’inerzia, tanto da non servirsi di schemi e di trasposi-zioni, ma da spingere il singolo oggetto ad affacciarsi con franchezzafuori della sua cornice consueta. La nozione viene rispettata sino alcalco, all’identificazione».

7 «Das Kunstwerk», XVII (1964), 10 aprile porta i giudizi in granparte negativi o parzialmente positivi di numerosi critici e artisti, trai quali Jouffroi, Jorn, Huelsenbeck, Tapies, Pomodoro, Restany, FranzRoh, George Schmidt, Schmalembach e parecchi altri [N.d.A.].

8 È impossibile dare un elenco neppure parziale della letteratura cri-tica apparsa su questo tema nelle riviste specializzate. Ricorderò tra imoltissimi un articolo di Alan Salomon nel catalogo della XXIV Bien-nale, un numero della rivista «Metro» (Milano 1961) dedicato in granparte agli artisti pop americani... [N. d. A.].

9 Calvesi, Le due avanguardie cit., II, pp. 342 sg .: «La nozione dispazio di Lichtenstein nasce proprio da questa attenzione ai nessi e airaccordi degli oggetti, ai loro rapporti di contiguità e di concrescenza.Ma invece che il puro rilevamento delle cose (immagini, oggetti chesiano) ciò che egli persegue è la modalità della loro proiezione sullasuperficie del quadro. Né è detto che una proiezione debba esserenecessariamente prospettica, o invece semplicemente fisica, cioè allo-ra puro riporto, ricalco di contorni, ciò che appunto abbiamo definitorilevamento topografico. La proiezione di Lichtenstein è «formale»senza essere prospettica».

10 Cfr. Boatto, La presenza dell’oggetto cit., p. 117: «Jasper Johns èstato uno dei primi ad impiegare le immagini convenzionali come puntodi partenza per una nuova pittura figurativa. L’artista ha attinto gli ele-menti del suo vocabolario al vasto repertorio delle immagini sociali, conuna predilezione ironica per quelle a carattere di simbologia ufficiale– dalla bandiera americana con le striscie e le 49 stelle, alle carte geo-grafiche degli U.S.A., ad un bel numero di stemmi, ma anche comics,bersagli concentrici ecc. Il pittore ha ottenuto dei gustosi effetti d’i-ronia attraverso la celebrazione dei miti di una società colta in ciò chequesti possiedono di piú ordinario e maggiormente divulgato. I simboli,

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le immagini vengono degradate ad immagini totalmente banali permezzo di un’operazione del tutto innocua all’apparenza, com’è quelladi riprodurle pedissequamente con qualche minima stortura e minimaaggiunta».

11 Cfr. Calvesi, Le due avanguardie cit., II, p. 338: «E a propositodei «cuscini tattili» di Marinetti e di Oldenburg, che dire invece deicuscini gasati, sospesi a mezz’aria, che componevano l’ultima mostradi Warhol a New York? Piú che altro una trovata, beninteso, come legrandi scatole accatastate e sparpagliate che altre volte Warhol haesposto. Questa volta, comunque, l’insolita variazione «tipologica»sostituisce addirittura al senso dello spazio quello di un vuoto sognan-te. Ma sappiamo che l’invenzione chiave di Warhol è quella del ripor-to, serigrafico, dell’immagine fotografica sulla tela: il puro reportage. Il«vuoto» non è allora che spazio annullato, scavalcato dalla dimensio-ne ubiquitaria dell’immagine».

12 Ibid., p. 335: «Distensivo o inquietante che sia, il contatto conl’opera di Oldenburg non è in alcun caso contemplativo, è tutto atti-vo e l’azione è demandata allo spettatore mediante una continua pro-vocazione sensoriale, visivo-tattile appunto».

13 G. Dorfles, Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Milano 1972, p.12, dove definisce il Kitsch «una categoria che si può considerarecome arte col segno contrario, un quid che ha le caratteristiche estrin-seche dell’arte ma ne è la contraffazione».

14 H. Rosenberg, The Tradition of the New, New York 1961, p. 268:«In the present organisation of society only kitsch can have a social rea-son for being» [N. d. A.].

15 Cfr. note 3 e 4.16 Cfr. Argan, L’arte moderna 1770-1970, Firenze 1970, pp. 669 sg.:

«In Johns il gesto della pittura finisce per riportare a cose di nozionecomune, diventate emblematiche della mentalità media, ed il cui signi-ficato simbolico consiste proprio nel non averne alcuno: per esempiola bandiera americana o la lattina di birra. Se poi, nel «rifarle», si pongauna estrema diligenza e perfino un senso raffinato della qualità pitto-rica, anche questo sta ad indicare l’inutilità della presenza dell’artistain una società pratica e indaffarata: e, semmai, il suo gusto di starci adispetto, come un parassita di cui non le sarà facile disfarsi».

17 Cfr. L. R. Lippard, Pop Art, Milano 1967, pp. 218 sg.: «DanielSpoerri, teorico di notevole immaginazione, ha portato le implicazio-ni dell’arte Pop assai piú avanti di quanto non abbiano fatto gli ame-ricani, anche se le sue opere sembrano in ritardo in rapporto alle sueteorie. È conosciuto in particolare per i suoi «quadri trappola», in cuigli oggetti sistemati a caso (per esempio il ripiano di un tavolo con bic-chieri sporchi e cicche di sigarette nel portacenere) vengono fissati equindi appesi al muro. Si tratta di una estensione del principio del

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«ready-made» o dell’oggetto trovato; soltanto il piano è alterato... manon è sufficiente un’alterazione per permettere un’interpretazionenuova degli oggetti».

18 Cfr. Boatto, La presenza dell’oggetto cit., p. 122: «Si ha l’im-pressione che tutta la produttività, la creatività medesima appartenga-no oggi al mondo artificiale, ai segnali, alle macchine, alle loro accele-rate metamorfosi da strumenti superbi ed efficienti a rottami. Siamocosí costretti a registrare che si è operata una nuova svolta nel corsodella cultura e della sensibilità, nello stesso atteggiamento globale del-l’uomo verso il mondo, cosí che dalla prevaricazione della soggettivitàsull’oggetto come nell’informale, si è passati ad una prevaricazione disegno opposto».

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UMBERTO ECO

Teoria della comunicazione e arti visuali*

C’è un codice delle arti visuali?

... È possibile una lettura in chiave comunicativa deifenomeni visuali del nostro tempo quali pittura astrat-ta, informale, op art, eccetera?

Una obbiezione consueta è quella che un linguista(Nicolas Ruwet) ha a suo tempo rivolto alla nuova musi-ca. Un messaggio, per essere compreso, esige che i suoielementi costitutivi (quelli che nella lingua sarebbero ifonemi) si pongano come un «sistema di differenze»sullo sfondo di una «base di comparazione». Nella musi-ca tonale questo avviene. Nella musica atonale, e meglioancora nella musica elettronica o concreta, questo nonavviene. Non esiste piú, in altre parole, un codice di rife-rimento. Quindi non c’è comunicazione1.

A proposito della pittura, nel corso di una serie di«Entretiens» con Georges Charbonnier, l’arte (che pro-muove al rango di significante un oggetto bruto, e fa diun oggetto di natura un oggetto di cultura) mantiene tut-tavia un rapporto tra i segni di cui si compone e glioggetti originari. Se l’arte fosse pura imitazione, ripro-duzione dell’oggetto ispiratore, non avrebbe piú carat-tere di segno (e non potrebbe essere oggetto di defini-zione strutturale, in analogia coi sistemi linguistici); mase non vi fosse rapporto tra segno e oggetto (un rapportodi tipo iconico: è la teoria del «modello ridotto»), allo-

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ra l’arte sarebbe un fenomeno di ordine puramente lin-guistico (e non avrebbe piú proprietà estetiche, perchél’arte è un sistema di segni a metà strada tra linguaggioe oggetto; nell’arte rimane una relazione sensibile frasegno e oggetti – è questa l’autoriflessività del messag-gio, la sua contestualità, la necessità di leggere come ele-mento del messaggio anche la materia di cui è fatto, ela struttura di questa materia, e la struttura dei segniarticolati tra loro come sistema, e la relazione di omo-logia tra la struttura dei segni e la struttura originariadell’oggetto)2.

E la pittura astratta? Lévi-Strauss risponde: essa è«natura», non «cultura», perché in essa non sussistealcun rapporto tra i segni e il mondo originario. La pit-tura astratta non può essere «letta» in riferimento a uncodice, e quindi non è fenomeno di ordine linguistico.Dunque non comunica, dà solo sensazioni gradevoli.

Qui Lévi-Strauss cade in una catena di equivoci.Ritiene che un atto comunicativo debba aver le carat-teristiche della comunicazione linguistica, e che questasia coestensiva alla trasmissione di significati, e cioè allafunzione semantica del discorso. In piú ritiene che ilcodice cui riferire il messaggio visuale sia uno solo, quel-lo degli oggetti naturali. Ma per un messaggio che nonintenda riferirsi affatto agli oggetti naturali? Lévi-Strauss tiene presente il caso della musica, e – se da unlato afferma che anche la musica seriale ha un suo codi-ce – per altro ricorda che si tratta di codice prosodico,privo di opposizioni significanti, e quindi codice«espressivo» e «non semantico»3.

Non si vede perché un codice non semantico sia soloespressivo (categoria espunta da una teoria della comu-nicazione) e non preveda opposizioni di qualche tipo.Può essere un codice sintattico, come quello dell’archi-tettura: che coordina secondo leggi costruttive preciseelementi di un edificio, fa nascere il ritmo rigoroso del

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medesimo da opposizioni tra elementi, e dalla loro arti-colazione reciproca fa scaturire una struttura, che cicomunica molte cose rispetto all’edificio stesso, alla suafunzione; e ci apre a un sistema di connotazioni, di signi-ficati accessori legati alle strutture sintattiche dell’ope-ra4. In una equazione algebrica ho segni sforniti di signi-ficato preciso, legati da regole sintattiche (un codice)che per un gioco di opposizioni (+ e –, ad esempio) micomunicano una struttura; ma in altri casi una data strut-tura matematica può caricarsi non solo di connotazioniemotive (bellezza della matematica), ma anche di riferi-menti culturali precisi, di significati molteplici, varia-mente interagenti nella mente del ricettore a seconda dicome egli li commisuri a certi codici: si veda «E = mc2».

Stabilito dunque che la nozione di codice e piú vastadi quella di «codice semantico» (e che, dunque, il codi-ce non è solo simboleggiato dal vocabolario, ma anchedalla grammatica, dal manuale di retorica, dal reperto-rio di luoghi stilistici, eccetera), uno dei compiti dellacritica visuale è quello di stabilire sullo sfondo di qualicodici un’opera comunica. Si veda ad esempio la pittu-ra «astratta» degli anni Cinquanta, in quanto si oppo-neva, come riduzione schematica di dati figurativi ini-ziali, a una «pittura concreta» come pura invenzione diforme geometriche5. Nel caso dell’astratto, il quadrocomunicava un’alta quota informativa proprio se com-misurato al codice figurativo cui si opponeva, lascian-dolo intravvedere nello sfondo, un poco come il mac-cheronico del Folengo si opponeva al buon latino peral-tro giocandovi sopra e non negandolo del tutto. Nel casodella pittura «concreta» – e mi pare che il caso si ripro-ponga per l’op art – il codice va probabilmente ricerca-to alle radici della percezione stessa. È il codice gestal-tico, il codice percettivo degli psicologi, in accordo o inopposizione al quale il quadro o l’oggetto diventanocomunicanti6.

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Nel caso dell’informale si trattava invece di un’altainformatività proprio rispetto a due tipi di codice: quel-lo figurativo, negato recisamente, e quello gestaltico-per-cettivo; sullo sfondo di questa duplice opposizione, ilquadro acquistava la sua prima forza d’urto. Ma conl’informale avveniva qualcosa in piú (o meglio, emerge-va violentemente un qualcosa che avveniva peraltroanche nei casi citati prima): all’interno del quadro, men-tre si opponeva ai codici visuali accettati, l’artista ela-borava un proprio codice, «interno all’opera», una strut-tura portante che l’interprete doveva cercare e indivi-duare. È la stessa cosa che avviene in una composizio-ne seriale, che è informale se riferita alla grammaticatonale o dodecafonica, ma nel corpo della quale l’inter-prete avvertito può individuare dei parametri, una serieconduttrice7.

Superamento di un paradosso?

Nascono però qui due grossi problemi: da un latocaratteristica di quasi tutte le opere dell’arte contem-poranea è la fondazione di un codice individuale dell’o-pera che non precede l’opera e non ne costituisce il rife-rimento esterno, ma che è contenuto nell’opera. Dal-l’altro questo codice il piú delle volte non è individua-bile senza un aiuto esterno e quindi senza una enuncia-zione di poetica. In un quadro astratto o concreto l’in-staurazione di un codice originale e inedito passava inseconda linea rispetto all’emergenza ancora evidente delcodice gestaltico di base (in altre parole, si trattava pursempre di angoli, curve, piani, opposizioni di segni geo-metrici, già caricati di connotazioni culturali). In unquadro informale, in una composizione seriale, in certitipi di poesia «nuovissima», l’opera instaura un codice(è anzi una discussione su questo codice, è la poetica di

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se stessa) perché è la fondazione delle regole inedite sucui si regge; ma di converso non può comunicare se nona chi conosca già queste regole. Di qui l’abbondanza diesplicazioni preliminari che l’artista è costretto a daredella sua opera (presentazioni di catalogo, spiegazionidella serie musicale impiegata e dei principî matematicisu cui si regge, note a piè di pagina nella poesia). L’o-pera aspira a tal punto alla propria autonomia dalle con-venzioni vigenti, che fonda un proprio sistema di comu-nicazione: ma non comunica appieno se non appoggian-dosi a sistemi complementari di comunicazione lingui-stica (l’enunciazione della poetica), usati come metalin-guaggio rispetto alla lingua-codice instaurata dall’opera8.

Senonché nell’evoluzione recente della pitturaappaiono alcuni elementi di superamento. Non si dicequi che le tendenze cui accenneremo costituiscano ilmodo unico di risolvere il problema; si dice che ne costi-tuiscono «un» modo, o comunque il tentativo di unmodo possibile. Le varie tendenze post-informali, dallanuova figurazione all’assemblage, la pop art e sue espres-sioni affini, lavorano «di nuovo» sullo sfondo di codiciprecisi e convenzionali. La provocazione, la ricostitu-zione della struttura artistica, si attua sulle basi di strut-ture comunicative che l’artista trova già preformate:l’oggetto, il fumetto, il cartellone, la stoffa imbottita afioroni, la Venere di Botticelli, la placca della CocaCola, la «Creazione» della Sistina, la moda femminile,il tubetto di dentifricio9. Si tratta di elementi di un lin-guaggio che, agli utenti abituali di quei segni, «parla».Gli occhiali di Arman, le bottigliette di Rauschenberg,la bandiera di Johns, sono segni che nell’ambito di codi-ci specifici acquistano significati precisi10.

Anche qui l’artista che li utilizza li fa diventare segnidi un altro linguaggio, li riferisce a un sistema di riferi-menti diversi e in fin dei conti istituisce, nell’opera, unnuovo codice che l’interprete dovrà scoprire – l’inven-

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zione di un codice inedito opera per opera (al massimoserie di opere per serie di opere dello stesso autore)rimane una delle costanti dell’arte contemporanea; mal’istituzione di questo nuovo codice si attua dialettica-mente nei confronti di un sistema di codici preesisten-te e riconoscibile.

Il fumetto di Lichtenstein è segno preciso in riferi-mento al sistema di convenzioni linguistiche del fumet-to, in rapporto ai codici emotivi, etici, ideologici delpubblico dei fumetti; «poi» (ma solo poi) il pittore lopreleva dal contesto originario e lo immette in un nuovocontesto; gli conferisce un’altra rete di significati, lo rife-risce ad altre intenzioni (Calvesi, a esempio, ha visto nelfumetto ingrandito la proposta di una nuova spazia-lità)11. Il pittore – insomma – opera quella che Lévi-Strauss, a proposito del «ready made», chiamava una«fissione semantica». Ma l’operazione che l’artista fa,acquista senso solo se commisurata ai codici di parten-za, offesi e richiamati alla mente, contestati e riconfer-mati. E questo vale per molte operazioni delle ultimecorrenti, in modi diversi, dagli alberi di Schifano12 allefinestre di Festa13, dai divani di Tacchi14 ai compensatidi Ceroli15, dalle strips di Perilli16 ai collages di Guerre-schi, dagli ectoplasmi liturgici di Vacchi alle foto diPistoletto17, dalle architetture di Del Pezzo18 al quoti-diano «autre» di Cremonini, dagli alfabeti di Carmi aglischermi cinematografici di Mauri, e cito alla rinfusa, perabbozzare una tipologia a titolo esemplificativo.

Ed ecco cosí tradotta in termini comunicazionali unasituazione che proprio in questi termini va approfondi-ta: un’atmosfera di maggiore aderenza alle condizionibase della comunicazione, che esperienze precedentiavevano giustamente portato ai limiti estremi della rare-fazione e della sfida. Si vedrà in seguito se si tratta delritorno alle soglie, dimostrate insuperabili, di una dia-

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lettica comunicativa, o solo di un temporaneo ritrarsi perraccogliere le forze e fare un esame critico.

* U. Eco, Teoria della comunicazione e arti visuali, in «Biennale»,1966, n. 60, pp. 7-9.1 Cfr. Eco, La struttura assente cit., pp. 133 sgg.: «Confondere le

leggi della musica tonale con le leggi della musica tout court è un pococome credere, di fronte alla presenza delle cinquantatre carte da giocofrancesi (52 - jolly), che le sole combinazioni possibili tra queste sianoquelle previste dal bridge; che è un sottocodice e permette di giocareinfinite partite diverse, ma che può essere sostituito sempre usufruen-do delle 53 carte, dal poker, nuovo sottocodice che ristruttura gli ele-menti di articolazione costituiti dalle singole carte, permettendo lorodi assumere valore combinatorio diverso e di costituirsi in valori signi-ficanti ai fini della partita... Si rende dunque necessaria una duplicedecisione di metodo: 1. riservare il nome di «lingua» ai codici del lin-guaggio verbale, per i quali appare indiscutibile l’esistenza della dop-pia articolazione; 2. Considerare gli altri sistemi di segni come «codi-ci» e vedere se non esistano codici a piú articolazioni».

2 Cfr. ibid., p. 132: «Già nel corso dei suoi Entretiens con un inter-vistatore della radio, egli aveva svolto una teoria dell’opera d’arte visi-va che annunciava questa presa di posizione, poi esplicitatasi nellaOuverture a Le cru et le cuit: in quella prima sede egli si richiamava auna nozione dell’arte come segno iconico che aveva elaborato nella Pen-sée sauvage, parlando di arte come «modello ridotto» della realtà. L’ar-te è indubbiamente – rilevava Lévi-Strauss – un fatto segnico, ma chesta a metà strada tra il segno linguistico e l’oggetto puro e semplice.L’arte è presa di possesso della natura da parte della cultura; l’arte pro-muove al rango di significante un oggetto bruto, promuove un ogget-to al rango di segno e mostra in esso una struttura che prima era laten-te. Ma l’arte comunica per una certa relazione tra il suo segno e l’og-getto che lo ha ispirato; se questa relazione di iconicità non ci fosse,non saremmo piú di fronte a un’opera d’arte ma a un fatto di ordinelinguistico, arbitrario e convenzionale; e se d’altra parte l’arte fosse unaimitazione totale dell’oggetto, non avrebbe piú carattere di segno».

3 Cfr. nota 1.4 Sul codice architettonico cfr. ibid., p. 192: «Una considerazione

fenomenologica del nostro rapporto con l’oggetto architettonico ci diceanzitutto che comunemente noi fruiamo l’architettura come fatto dicomunicazione, anche senza escluderne la funzionalità».

5 Cfr. qui pp. 50 sgg.

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6 Cfr. ancora nota 1.7 Cfr. ibid., pp. 160 sg.: «Ci si dovrà chiedere se un quadro infor-

male non funzioni come opposizione intenzionale ai codici figurativi eai codici matematico-geometrici che nega, e quindi non vada visto pro-prio come tentativo di portar al massimo l’informazione, sino allesoglie del rumore, le bande di ridondanza consistendo nelle configura-zioni iconiche e geometriche assenti ma evocate per contrapposizione».

8 Cfr. ibid., p. 161: «Avviene cosí che in un’opera informale dob-biamo identificare, al di sopra e al di sotto del livello fisico-tecnico, dellivello semantico e del livello degli universi ideologici connotati, unasorta di livello microfisico, il cui codice l’artista individua nelle strutturedella materia su cui lavora. Non si tratta di mettere in rapporto elementidi supporto materiale, ma di esplorare (come al microscopio) questi ele-menti (il grumo di colore, la disposizione dei grani di sabbia, le sfilac-ciature della tela di sacco, le graffiature su di un muro di gesso) ed indi-viduarvi un sistema di relazioni, e dunque un codice. Questo codiceviene eletto come la guida sul cui modello verranno strutturati il livel-lo fisico tecnico e anche quello semantico: e non nel senso che l’operaproponga delle immagini, e quindi dei significati, ma nel senso che con-figura comunque delle forme (sia pure informi) riconoscibili (altrimen-ti non distingueremmo una macchia di Wols da una superficie di Fau-trier, un «macadam» di Dubuffet da una treccia gestuale di Pollock).Queste forme si costituiscono ad un livello organico, anche se i segninon sono cosí chiaramente codificati e riconoscibili. In ogni caso nel-l’opera informale l’idioletto che lega tutti i livelli esiste, ed è il codicemicrofisico individuato nell’intimo della materia, codice che presiedealle configurazioni a livelli di maggiore macroscopicità, in modo chetutti i possibili livelli dell’opera... si appiattiscono sul livello microfi-sico. Non si ha cioè correlazione di vari sistemi relazionali coordinatida una relazione piú generale e profonda, l’idioletto: ma il sistema direlazioni di un livello (quello microfisico) diventa legge per tutti gli altrilivelli. Questo appiattimento del semantico, del sintattico, del prag-matico, dell’ideologico sul microfisico fa sí che taluni possano inten-dere il messaggio informale come non comunicativo, mentre è sempli-cemente comunicante in misura diversa. E al di là della teorizzazionesemiologica, i messaggi informali hanno indubbiamente comunicatoqualcosa se hanno modificato il nostro modo di vedere la materia, gliaccidenti naturali, la fatiscenza dei materiali, e ci hanno disposti diver-samente nei loro confronti, aiutandoci a conoscere meglio questi acca-dimenti che prima si attribuivano al caso e in cui ora si va cercandoquasi per istinto una intenzione d’arte e dunque una struttura comu-nicativa, un idioletto, un codice».

9 Eco sottolinea acutamente il rapporto antipoetica-poetica.10 Cfr. qui pp. 83 sgg., 88.

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11 Cfr. ancora p. 86-87 nota 3.12 Cfr. Calvesi, Le due avanguardie cit., II, p. 373: «Dalle immagi-

ni, sillabate, dalle scritte pubblicitarie, Schifano... si è esteso ad unatematica assai piú vasta: il suo obiettivo ha dettagliato i molteplici par-ticolari di una realtà scorrente sotto i suoi occhi come, tra le mani, unalbum dalle pagine aperte. Messa a fuoco (senza astratto rigore intel-lettuale, ma secondo un organico processo) e precipitata dalle sue meta-fisiche attese la modalità percettiva dell’immagine, questa ha subitodato fondo alla sua fresca possibilità di prodursi; è esplosa allargando,con la sua tematica, il suo interesse alla vita. La pittura di Schifano ècome un grande reportage, con le sue chiare didascalie: mare, inciden-te, particolare di paesaggio, propaganda, o’ sole mio. Le scritte emble-matiche intitolano ora una realtà che ci incrocia; che si presenta con lastessa tecnica «segnaletica» e topografica, nella sua dislocazione lungoi circuiti di asfalto che segnano il tragitto delle nostre giornate. Si dà,dicevamo, un condizionarsi dei nostri riflessi a questo modo di vita, ecome un isolarsi delle nostre capacità percettive e un polarizzarsi, adesso relativo, delle nostre verifiche concettuali: un incidente è soltan-to un incidente, il mare è solo mare, un albero è solo un albero, l’im-magine vale come la parola».

13 Cfr. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60 cit., pp. 162 sg.: «1963-1964. All’improvviso Festa sembra accorgersi di aver compiuto uncammino rettilineo e molto logico, comprende che gli spazi aperti degliinizi si erano racchiusi nella scansione del fotogramma. E allora comin-cia a proiettare sul piano del quadro un documentario: il primo passoper un regista. Ecco cosí nei fotogrammi duri come infissi entrare lefigure di Michelangiolo, i souvenirs di paesi lontani, le foto porn didonne, la presenza dei cieli. Dopo aver ritrovato lo spazio, Festa appre-sta i materiali per una narrazione completa: quella appunto di oggi.L’immagine è «alienata» (e quindi rimanda alla Metafisica, come hascritto Calvesi) ma rimane terrestre il mistero di questa pellicola chelentamente si impressiona... 1965... Resta anche il senso della «fine-stra» in questi fotogrammi, della finestra aperta sul mondo, incastra-ta sul cielo al di là del mondo. Ovvero questi riquadri successivi sonocome filtri sovrapposti al resto del quadro e a volte influiscono colori-sticamente e a volte figurativamente: introducono lo spazio della memo-ria. Sono infine le necessarie cornici... per un omaggio sarcastico allaop-art».

14 Cfr. ibid., pp. 197 sg.: «Tacchi oscilla tra commedia borghese ecommedia di costume. I suoi «quadri» sono composti di tappezzerie lus-suose, volgari nella loro aggressività, da interno di «buona casa di pes-simo gusto». Sulle tappezzerie nasce il racconto, ripreso dalla storia edalla cronaca, e si modula poi con l’altalenare dell’imbottitura. Il puntod’arrivo a La Primavera allegra. L’opera botticelliana si mescola alle

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immagini della pubblicità; la donna sdraiata che fila entra nel discor-so perché sembra che abbia finito di tessere l’arazzo antico. Le stoffesi alternano, portando la presenza del tempo: sono i diversi campi diun racconto, che evade dalle chiuse dimensioni della tela. Non piú unquadro, ma un oggetto, un quadro che è anche tappezzeria, che è arre-damento. E nei quadri ultimi Tacchi approda al quadro a sportelli;come un armadio figurato».

15 Cfr. ibid., pp. 179 sgg.: «La materia di Ceroli è il legno sfilac-ciato, piú casuale ed umile, piú antico. La figurazione è mediata dallapubblicità, dalla cronaca, dalla storia. Il legno di Ceroli è un signoredecaduto, le sue storie sono parabole («Il mio legno è il legno dell’al-bero, quello che si vende, quello che vai a comprare tu e che porti apiallare per ricavare qualcosa. Non so quanto m’interessi un rapportocon la materia, come c’è in Burri... Uso il legno perché mi piace, ma èsolo un mezzo. Uso i legni di copertura dei vagoni che vengono dal nordperché costano meno. Le mie sono sculture molto cattive, molto sec-che, sono crudeli, sono molto precise anche squallide»). La figurazio-ne non è «autre» rispetto alla tecnica, ma nasce dalla tecnica, propriocome la tecnica si elabora per quella data figurazione». Vedi anche Cal-vesi, Le due avanguardie cit., II, p. 383: «Mitologia del quotidiano o,scusate, proprio il contrario. Un mondo eroico, storico o ancestrale cheviene cosí non dileggiato, ma allineato a quella stessa ironia che un po’allevia, un po’ illustra e un po’ rivela il senso dell’avventura di tuttinel mondo. Se l’accostamento Michelangelo-latrina, quale è involon-tariamente scaturito dalla sistemazione sforzesca della Pietà Rondani-ni, potrebbe (ad averne voglia) irritarci, qui dovrebbero protestaresolo gli sciocchi, o chi eventualmente non passi al mattino in bagno.Né infatti c’è solo il water di Adamo, ma l’orologio, il telefono, l’assodi fiori. Di tanto in tanto, telefoniamo anche guardiamo l’ora per rego-larci la giornata, e c’è chi giuoca a carte. Che la storia, profana o sacra,che Michelangelo e l’arte e i tanti simboli di Roma diventino subito enecessariamente, per chi operi in questa città, parte ironicamente ometafisicamente, o indifferentemente integrante di un certo tipo diricognizione del quotidiano, l’hanno dimostrato Festa, Angeli... Tac-chi... lo stesso Schifano».

16 Cfr. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60 cit., pp. 121 sg.: «Alla finedegli anni Cinquanta Perilli trova la sua via: le scene della memoria,del sogno, della cronaca perfino si inquadrano in zone che ricordanole strips dei fumetti... con un rapporto tra zone disegnate e colorate,con sottile equilibrio tra struttura e capriccio. È «novissima» la lineadi questa pittura: prossima a quanto fanno in letteratura Sanguineti,Pagliarani, Balestrini, Giuliani, Porta... Perilli è cosciente che l’homo-fantasticus è lo stadio piú avanzato dopo l’homo-faber, l’homo-sapiens,l’homo-ludens. Il mondo è visto «sub specie ludi», ma senza dimenti-

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care che il gioco può sfiorare il clima drammatico: senza clamori, scher-za con la vita e con la morte, ride con voce incrinata, gioca un giocorapido con la paura di non fare in tempo a finirlo, racconta bizzarriecarnevalesche con un tono da giorno delle ceneri. Una forma civilissi-ma d’ironia: la riflessione cosciente sulla realtà per scoprirne i puntideboli, una sottolineatura imprevista, un malizioso interrogativo. È l’i-ronia il caustico polo negativo (o positivo?) che vitalizza l’opera diPerilli: sembra un gioco spensierato ma a volte diventa confessioneamara».

17 Ibid., p. 209: «Un’opera di Pistoletto consiste in una lastra diacciaio riflettente su cui sono applicate sagome di carta velina con figu-re umane e oggetti ricavate da un ingrandimento fotografico al natu-rale, ridipinto in alcune parti. «Avvicinare le mie due immagini, quel-la proposta dallo specchio e quella proposta da me»: questa l’intenzio-ne di Pistoletto, e cioè ricostruire una dialettica tra una parte sempreuguale a se stessa e una parte sempre diversa. Pistoletto è molto inte-ressato alla nuova oggettività Pop, ma va anche oltre i dolci inganni deipop autentici, e quest’opera diventa forma-simbolica dell’oggettività nelsuo aspetto basilare che è il rispecchiamento (e Pistoletto ha ancheripreso opere pop come la Cucina di Oldenburg, arrivando a un alluci-nante rispecchiamento del rispecchiamento)». Vedi anche Calvesi, Ledue avanguardie cit., II, p. 366: «Una poetica non distante da quella diSegal è propria dell’italiano Pistoletto: che infatti usa come fissativodell’immagine intesa nella sua labilità e relatività spazio-temporale, unasuperficie di metallo specchiante. Ma per la definizione dell’immaginedi Pistoletto finisce per rendersi necessario, o almeno attivamente inte-grativo, un intervento ancora susseguente: quello della fotografia cheritrae l’immagine specchiata».

18 Cfr. Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60 cit., pp. 185, 188 sgg.:«Tutta l’opera recente di Del Pezzo è uno sforzo per dimenticare l’o-pera precedente, è un esame di coscienza ammonitore. Del Pezzo si facostruire i suoi finti oggetti-trovati: si progetta perfino la memoria. Daltrionfo-della-morte approda all’idea pura della vita, dal ready-made auna sorta di new-made. È una volontaria purezza che non sa e non vuolerinunciare a nessuna sollecitazione umana, è una metafisica della formapiú che metafisica delle idee (piú Morandi che De Chirico). Si complicainoltre col nuovo rito della Op Art, col nuovo mito della Pop Art. Undoppio gioco tra zona liscia e oggetto, tra geometria e cose, tra enig-ma e soluzione, tra segnaletica e purismo, tra ricordare e ricostruire».«Del Pezzo ricarica la sua Metafisica con lo spirito Dada: la distruzio-ne costruita di Schwitters, il macchinismo di Picabia, le scale colori-stiche di Duchamp. Ma senza pericoli di imitazione. Del Pezzo puòaccettare tutto restando se stesso, proprio perché la sua arte di memo-ria non importa che vada alla recherche del proprio tempo-perduto o del

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tempo-perduto dell’arte o perfino del tempo-perduto del presente,inteso in tal modo come «tempo sprecato». Ci insegna a leggere connuovi codici nel segreto delle avanguardie. Prima di svelare sottofon-di psichici vuole insegnarci a vedere, ad abituare l’occhio alla sostan-za precisa ed essenziale delle cose: il mondo di Del Pezzo non è unagglomerarsi convulso di azioni e reazioni ma una vicenda chiara edistinta su un palcoscenico a tinta unita. Non semplicismo ma contra-zione. Uno spazio «a fette» che procede in modo lamellare (ecco la «fin-zione d’uno spazio prospettico» di cui parlava Dorfles), una sensazio-ne di cose colte nella loro piú semplice organizzazione. Manca il dram-ma? Non ci sono gli scontri e le contese? Ma non si dirà certo che unacittà vista dall’alto (New York dal «caravelle») perda la sua dramma-ticità: soltanto che bisogna intuire le storie chiuse nelle scatole dei grat-tacieli. Ed è questo che interessa a Del Pezzo: vedere le cose dall’altoe quindi scoprirne i ritmi formali, architettonici. Se agli inizi diceva:su questo bersaglio sono stati sparati cento colpi, in questo interno èavvenuto un suicidio, ora dice che il bersaglio è una forma bella cosísenza buchi, che una stanza è una struttura architettonica e i fatti del-l’uomo possono sporcarla relativamente. E infine c’è il gioco. Vedi iquadri puzzle (che ricordano certe scomposizioni di Mari), con il diver-timento che può diventare faticoso, la ricerca che può naufragare nellabirinto. Hic incipit Ludus si intitola un piccolo quadro che vale piúd’un testo di poetica: nello spazio dorato si accampa un labirinto, e alcentro sono agglomerati i giocattoli. In fondo, tutta l’opera di DelPezzo è un «monumento ai giocattoli» (come ne ha dipinti Savinio):ma c’è un’ammonizione dietro questo spregiudicato «lasciatemi diver-tire». Il gioco non è soltanto un fine, un punto d’arrivo dopo il labi-rinto della ricerca, ma è anche un mezzo, uno strumento per districa-re quel labirinto. L’infanzia si può recuperare soltanto con gli strumentidell’infanzia».

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GERMANO CELANT

Arte povera*

Pensare e fissare, percepire e presentare, sentire edesaurire la sensazione in un’immagine, in un’azione, inun oggetto, arte e vita, un procedere per binari paralle-li che aspira al suo punto all’infinito. Da un lato un ope-rare artistico che conduce l’attenzione sulle relazionitra i vari linguaggi, si lega al «diffusionismo» linguisti-co con l’assunzione (sorta di «cleptomania» culturale)delle strutture filmiche, architettoniche, psicologiche eteatrali, segue la storia e si attiene a un programma, dal-l’altro lo svolgersi asistematico del vivere. Nel «vuoto»esistente tra arte e vita, il libero progettarsi dell’uomo,il legarsi, creativo, al ciclo evolutivo della vita (siamoall’osmosi dei due momenti) per una affermazione delpresente e del contingente. Là un’arte complessa, chemantiene in vita la correptio del mondo, col tentativo diconservare «l’uomo ben armato di fronte alla natura»:qui un’arte povera1, impegnata con l’evento mentale ecomportamentistico, con la contingenza, con l’astorico,con la concezione antropologica, l’intenzione di gettarealle ortiche ogni «discorso» univoco e coerente (la coe-renza «apparente» è un dogma che bisogna infrangere),ogni storia e ogni passato, per possedere il «reale» domi-nio del nostro esserci2.

Al presente un’arte «ricca» e involuta perché basatasull’immaginazione scientifica, sulle strutture altamen-te tecniche, sui momenti polisensi, in cui il giudizio

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individuale si contrappone, imitando e mediando ilreale, al reale stesso, con una prevaricazione dell’aspet-to letterario su ciò che realmente si vuole3.

Alla convergenza tra arte ricca e vita, l’arte «pove-ra», un esserci teso all’identificazione, cosciente, reale= reale, azione = azione, pensiero = pensiero, evento =evento, un’arte che predilige l’essenzialità informazio-nale, il comporre teso a spogliare l’immagine della suaambiguità e della convenzione che ha fatto dell’imma-gine la negazione di un concetto. Concetto che riemer-ge ora quale deus ex machina dinnanzi alla macroscopi-ca valorizzazione della rappresentazione e del modusvivendi, per una affermazione della «civiltà dell’intel-letto».

Un’arte che trova nell’anarchia linguistica e visuale,nel continuo nomadismo comportamentistico il suo mas-simo grado di libertà ai fini della creazione, arte comestimolo a verificare continuamente il proprio grado diesistenza (mentale e fisica), come urgenza di un esserciche elimini lo schermo «fantastico» e mimetico din-nanzi agli occhi della comunità degli spettatori, per con-durli dinnanzi alla specificità mentale e fisica di ogniazione umana, quale entità da completare e giudicarsi.

L’arte povera non è infatti un operare illustrativo eteorico, non ha come obiettivo il processo di neo-rappre-sentazione dell’idea, ma è indirizzata a presentare il sensoemergente e il significato fattuale dell’immagine, comeazione cosciente, si presenta lontana da qualsiasi apolo-gia oggettuale e iconica, è un agire libero, quasi intuiti-vo, che relega la mimesi a fatto funzionale e secondario,i nuclei focali risultando l’idea e la legge generale.

Un momento freschissimo che tende alla «decultura»,alla regressione dell’immagine allo stadio preiconografi-co, un inno all’elemento banale e primario, alla naturaintesa secondo le unità democritee e all’uomo come«frammento fisiologico e mentale»4.

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Una continua presentazione del significato fattualeche è un ritorno al medioevo, non soltanto da un puntodi vista tecnico (come ha segnalato puntualmente Mau-rizio Fagiolo in merito alla «tecnica proletaria»), maanche poetico. Un’identificazione uomo-natura, chenon ha piú il fine teologico del narrator-narratum(Edoardo Sanguineti) medievale, ma un intento prag-matico. Una denotazione che è identificazione totaletra «reinvenzione ed invenzione» (Alighiero Boetti).Quasi una riscoperta della tautologia estetica, il mareè acqua, una stanza è un perimetro d’aria, il cotone ècotone, il mondo è un insieme impercepibile di nazio-ni, l’angolo è la convergenza di tre coordinate, il pavi-mento è una porzione di mattonelle, la vita è una seriedi azioni5.

L’idea, l’evento, il fatto e l’azione visualizzati e mate-rializzati sono infatti le focalizzazioni del rapporto disimultaneità tra idea e immagine, conducono solamen-te a un allargamento di esperienza circa quell’idea, quel-l’evento, quel fatto e quell’azione, non divagano conelementi ambigui e polisensi, sono la concretizzazionevisuale di un fatto o di una legge naturali ed umani. Nonimporta se le «cose» che ne risultano sono eseguite inun «particolare» materiale («i materiali sono le maggio-ri afflizioni dell’arte contemporanea», Sol LeWitt) o serispondono a precedenti realizzazioni dell’autore che liha costruiti o di altri autori. L’idea visualizzata e mate-rializzata non contiene un programma, non segue unastoria individuale o sociale, è solamente la presentazio-ne di un termine, non accetta relazioni, non rappresen-ta, ma presenta.

Come ogni cosa fatta, vive nell’orgia del discontinuo,mette al bando lo «studio» del sistema, si presenta comeelemento del conoscere concreto dell’autore. Il suo uni-verso strumentale è finito, si adatta al materiale di cuil’autore, al momento della concezione, dispone, è un

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insieme contingente, non ha a che fare né col passato,né col futuro. È cosí com’è, concluso nel tempo di esse-re presentato o realizzato, esprime una «reale percezio-ne del contingente» (Michelangelo Pistoletto).

La poesia deriva dal fatto che l’oggetto (da objectum,esposto, messo davanti ai nostri occhi) ottenuto nondialoga con le cose, ma parla mediante le cose, esponeil carattere e la vita del suo autore attraverso la sceltache egli opera in un numero limitato di possibili eventie idee...

Inizialmente era lo stimolo a verificare il propriogrado di esistenza, l’apporto del proprio esserci, il ten-tativo di proiettare e recuperare il represso, la necessitàdi costruire oggetti in cui riflettersi e focalizzare il rap-porto osmotico tra pensiero e materia, intuizione ecostruzione, era un procedere per binari paralleli, artee vita, alla ricerca del valore intermedio; oggi è l’esi-genza di identificarsi con l’azione e il processo in corso,la tensione ad attivizzare la dimensione psicofisica delcomportamento fattuale e mentale per sfuggire all’uti-lizzazione del prodotto originato e dell’oggetto creato;siamo cioè al tentativo di uscire dall’integrazione ogget-tuale per sbloccare ogni sperimentazione fattuale dal-l’alienazione all’oggetto e dall’oggetto.

Non piú pensare e fissare, percepire e presentare, sen-tire e bloccare al tempo stesso la sensazione materializ-zandola in un oggetto, che aggiunga energia al sistema,ma agire e togliere energia, mescolarsi alla realtà, attra-verso il proprio corpo e la propria dimensione mentale,sino all’annullamento totale. Ricerca quindi dei rappor-ti vitali e dialettici con la realtà e rifiuto delle ricette edei dettagli rassicuranti che rispondono alle aspettativedel sistema e dell’intellettuale tecnologico, rifiuto del-l’esserci come esporsi in un altro da sé per una comple-ta osmosi tra azione e corpo, pensiero e corpo, energiae individuo, consumo immediato dell’evento critico-

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estetico, direttamente posto fuori consumo, e passaggiodiretto dall’arte povera all’azione povera6.

Gli artisti e i critici oggi sembrano non credere piúnel moralismo dell’oggetto, ma credere nell’estremamoralità del proprio fare e agire, giungono anzi adannullarsi nel fattuale, tanto da soccombere drammati-camente dinnanzi a una realtà piú incalzante e presen-te, la realtà sociale.

Cosí, in noi tutti, la scelta si va spostando verso azio-ni contingenti che si presentano lontane da qualsiasiapologia oggettuale, l’attività critoestetica si traduce inun agire libero ed eversivo, che dissolve la mimesi, e nonammette estensione oggettuale e non si concretizza inpresentazioni addizionali e produttive, ma in atti chepossono risultare soltanto critopolitici. Si sta cioèoptando per un’integrazione sociopolitica del propriofare al fine di eliminare la divisione specialistica e clas-sista che porta alla frantumazione della carica eversivae propulsiva7.

Le azioni diventano contingenti, foniche e scritte,non lasciano tracce utilizzabili o strumentalizzabili, nonpiú un episodio che dura un tempo lungo attraverso unoggetto, ma una storia continua di episodi variati e incontinua trasformazione, un’accelerazione e una dilata-zione della propria prassi operativa che seguono la spin-ta e gli stimoli del «movimento complessivo», un’anar-chia spontaneamente organizzata che rompe con i biso-gni determinati e programmati, che dissolve l’equilibrioper uno spontaneismo che identifica modificatore e azio-ne modificante, senza che questa rientri nel già acquisi-to e acquisibile. Cosí la vita diventa un continuo tableauvivant attraverso cui ognuno suggerisce, non piú «la sin-tesi di quello che si ricorda e che si vede» e una rap-presentazione in materia del proprio pensiero, ma unapossibile strategia socio-culturale, in cui processo ever-sivo e gnoseologico giungano alla frantumazione del

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sistema di dittatura industriale. Oggi infatti che il con-testo quotidiano si è trasformato in «scena», in cui l’in-tellettuale, lo studente e l’operaio «recitano» sradicatie isolati, ancora privi di prensione affettiva sul reale, l’u-nica possibilità di vita sembra risultare il teatro, cioè ilrapporto tra «attore» e la globalità8.

Lo stimolo da prodursi è quindi da dirigersi non versol’alto, ma verso il basso per ottenere una «recitazione»globale direzionata secondo linee spontanee sollecitatedalla collettività stessa; bisogna insomma offrire conti-nuamente alla collettività l’occasione recitativa. Il pro-blema non è piú quello di offrire delle ricette, quali pos-sono risultare gli oggetti estetici, ma di sensibilizzare oagilizzare la sensibilità del pubblico attraverso azioni checonducano a una nuova immensificazione percettiva,realizzata mediante la corporeità e la coscienza.

Osmosi dunque tra le varie forze critopolitiche, ope-rai + studenti + intellettuali, eliminazione del corpo-rativismo, chiaramente e pericolosamente reazionario ereattivo, compresenza di tutte le particolari cariche ever-sive, per un intervento che non sia piú specialistico e/ospecifico, ma che acquisti di volta in volta particolarefunzione nella situazione contingente in cui viene aesplicarsi, nuova destinazione dell’azione eidetico-pra-tica per un’accelerazione dei punti di crisi e di attrito traclasse che «frantuma» e classe che costruisce per distrug-gersi. Tutto questo al fine di creare una nuova classe cheal nomadismo linguistico e gnoseologico accompagni ilnomadismo dell’azione. Niente piú oggetti finalmente,ma fatti e azioni che espongano la propria processualità,e che indichino una nuova metodologia di frantumazio-ne, una metodologia che derivando dall’integrazione fraconoscenza tecnico-linguistica e prassi gnoseologica per-metta l’organizzazione di uno spazio individuale in cuisi abbia l’identificazione totale tra atteggiamento e azio-ne, tra dimensione psicofisica e lavoro9.

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* G. Celant, Arte povera, intervista apparsa in «Il Verri», 1968, n.25, riedita in aa.vv., Arte povera piú azioni povere, Salerno 1969, pp.9-15.

1 Cfr. R. Barilli, in «L’Espresso» del 1977: «Dove povertà signifi-ca ritorno ai principî elementari, siano questi ritrovati in natura (terra,acqua, piante) o in certi apparati tecnologici anch’essi essenziali e pri-mari come ad esempio la luce al neon e la resistenza elettrica resa incan-descente. Povertà si potrebbe dire, come consapevolezza che in prin-cipio c’è l’energia, la vita come flusso e che compito dell’artista è diaiutarle a scorrere piú in fretta», in M. Calvesi, Precedenze dell’arte ita-liana, in Avanguardia di massa, Milano 1978, p. 115.

2 Cfr. R. Barilli, Coincidenza di opposti, in aa.vv., III Biennale inter-nazionale della giovane pittura, Bologna 1970, pp. 10 sg.: «Poteva sem-brare che, approssimativamente, i due poli antitetici si fossero accor-dati nello spartirsi i due ultimi decenni: gli anni ’50 consacrati al«disordine» e all’informe; gli anni ’60, territorio privilegiato dell’«ordi-ne», delle nozioni chiuse, delle esperienze neo-costruttiviste, attraver-so il predominio della Pop e della Op Art. Poteva essere uno schemastoriografico abbastanza tranquillante e sicuro, pur con tutte le debi-te eccezioni e controindicazioni. Quand’ecco che, inaspettata, speratada alcuni, temuta da molti, ricompare verso la fine degli anni ’60 laspinta forte e perturbante dell’informe, attraverso una serie di indirizzivari nella denominazione, ma sostanzialmente convergenti, come l’ar-te «della terra», o «del processo», o del «non-rigido», o dell’«anti-forma». E naturalmente deve figurare in primis tra queste diverse eti-chette la fortunata «arte povera» di Germano Celant, e ancor piú l’at-tiva pattuglia di artisti (seguiti assiduamente anche da Tommaso Trini)su cui l’etichetta si appoggia consistentemente, formando anche un epi-sodio di pronta partecipazione dell’arte italiana all’avanguardia inter-nazionale».

Vedi anche Calvesi, Precedenze dell’arte italiana cit., p. 115: «Diecianni fa, negli ultimi mesi del ’67 il critico italiano Germano Celant teo-rizzava per un gruppo di artisti italiani l’«arte povera», qualcosa cheebbe risonanza internazionale e resta, oggettivamente, tra i capitoli piúdecisivi per gli sviluppi del pensiero e della prassi artistica, ultimo ecome sempre ambiguo, ma ancora incisivo impulso dell’«avanguardia»alle soglie di un terremoto ideologico e politico che doveva ridimen-sionare le ambizioni totalizzanti dell’avanguardia stessa».

3 Cfr. ancora Barilli, Coincidenza di opposti cit., p. 12: «L’ideolo-gia dell’«arte povera», a volergliene trovare una, non può che esserecontro un universo tecnologico e industriale di uomini massificati,monodimensionali; ma non può neppure dimenticare che questo esse-re contro è a sua volta reso possibile dagli sviluppi dell’industrialismoe dalla tecnologia. È, insomma una rivoluzione situata in un’era postin-

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dustriale, attenta a non ripetere il pur generoso errore già commessoda William Morris ai primordi dell’era industriale, di sognare unaimpossibile regressione al medioevo e ai sistemi di produzione artigia-nali».

4 Cfr. Calvesi, Precedenze dell’arte italiana cit., p. 116: «Nel mag-gio del ’67 fu tenuta a Roma nella galleria dell’Attico una mostra chesi intitolava agli «elementi» e riuniva Kounellis, Pascali, Pistoletto,Gilardi, Ceroli, Schifano e Bignardi (cinque dei quali figureranno poinel gruppo dell’arte povera). C’erano tutte o quasi al vero le cose chericorda Barilli: l’acqua e la terra nelle «pozzanghere» e nei «metri cubidi terra» di Pascali, il «fuoco» nella «rosa» di Kounellis, il «flusso»,la luce e l’immagine scorrente nelle strutture di Bignardi e nelle proie-zioni di Schifano, che dava in continuazione alcune sequenze di undocumentario sul Vietnam».

5 Cfr. F. Menna, Un’arte di entusiasmo, in aa.vv., Arte povera piúazioni povere, Salerno 1969, p. 86: «Il materiale che i giovani artistiimpiegano è un materiale povero, sembra attinto dagli scarti, da ciò chela grande macchina industriale non afferra nei suoi ingranaggi e lasciafuori come ritagli. Gli artisti si servono di questi scampoli, ma li com-binano affidandosi alla enorme ricchezza di una immaginazione lascia-ta libera di agire... L’artista ignora i confini, parte per tutte le direzioni,recupera territori lontanissimi, dentro e fuori di sé. Ignora consape-volmente le esperienze sistematiche, procede a salti, quasi dimenti-cando ciò che ha fatto ieri. All’ordine preferisce un giocoso disordine,all’astinenza ascetica preferisce una esuberante vitalità».

6 Cfr. Barilli, Coincidenza di opposti cit., pp. 10 sg.: «Che, attra-verso... vari indirizzi [dell’arte povera] sia stata veramente la voce del-l’informe a manifestarsi è cosa da ribadire e da tenere ben ferma. Pesain genere sulla storiografia dell’arte contemporanea, soprattutto in Ita-lia, un pregiudizio che tende a trascurare il ruolo pur rilevante, per nondire privilegiato, spettante a tutto ciò che riguarda la materia, la fisi-cità, la presenza di motivi vitalistici ed esistenziali. Ora invece non sem-bra che ci sia luogo per i mezzi termini: i feltri cascanti di Bob Mor-ris, i cumuli di cartacce proposti da Oppenheim, i pavimenti sporchidi Merz, i mucchi di terra, le fosse e gli scavi di tanti altri voglionoaggredire e sorprendere per la loro stessa consistenza fisica, «opaca»,come si usa dire a indicare che la luce di un principio formale non rie-sce a penetrare in tanto spessore. Per questa ragione si devono consi-derare insufficienti i tentativi di spiegare l’«arte povera» con i soli pre-cedenti storici del futurismo e del dadaismo: movimenti certo esemplarinel predicare il decondizionamento dell’artista da forme, ordini, com-portamenti convenzionali... Occorre invece congetturare l’innesto, sututta quella linea, di una profonda intuizione della materia, intesaanche e soprattutto come quantità e opacità, quali solo seppero avere

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gli anni informali tra il ’40 e il ’50; intuizione sostanzialmente nuova,di cui fino a quel momento erano andate esenti le piú audaci poetiched’avanguardia, che tutt’al piú l’avevano contornata, delineata da lon-tano, avvistata quasi quasi come coefficiente teorico».

7 Cfr. V. Boarini e P. Bonfiglioli, Ritorno del rimosso, in aa.vv., Artepovera piú azioni povere cit., p. 64: «Celant... aveva messo in rilievo ilcarattere suicida di ogni operazione artistica incapace di liberarsi dellasua separatezza teorica e aveva sottolineato con forza l’esigenza di tro-vare una utilizzazione extraculturale degli strumenti specifici dell’ar-tista, del critico per reperire un’operazione artistica capace di incide-re sulla «realtà» e divenire in qualche modo politica. Menna invece [cfr.nota 6], fermo in una posizione piú tradizionale, insisteva sulla speci-ficità dell’operazione estetica, aprioristicamente distinta: l’arte entre-rebbe in rapporto con la vita intesa in senso esistenziale, secondo unatensione volta a vitalizzare l’esistenza garantendola da ogni forma dioppressione (la quale viene concepita come necessità), anche da quellapan-politica che sarebbe implicita nell’ideologia dei movimenti giova-nili e studenteschi».

8 Cfr. G. Dorfles, Gli incontri di Amalfi, in aa.vv., Arte povera piúazioni povere cit., p. 73: «Un nastro steso tra due rocce solitarie sullemontagne di Amalfi: o una traccia di ciotoli nell’acqua del mare; o ungruppo di balle di fieno ammonticchiate sulla piazza (che diventano hor-tus conclusus o locus solus per i bambini del luogo); sono tutte opera-zioni «povere» (per adottare il termine proposto da Germano Celant)ma che si riallacciano in pieno a quelle operazioni inventate e portatealla loro massima purezza ed efficacia dal buddismo Zen. Quel mododi procedere, di pensare, di operare che consiste spesso nell’incontrodell’assurdo e dell’iniziatico, del giocoso e dell’occulto, dell’impreve-dibile e dell’occasionale... Simili gesti, eventi, artefatti, ripresi poi (mapurtroppo in forma troppo reclamistica ed estrinseca) dal gruppo giap-ponese Gutaj e adottati e adattati in seguito dalle diverse correnti zeni-ste, statunitensi da Kerouac al – soprattutto – Living Theather, nonpotevano non fare la loro comparsa, di rimbalzo, anche da noi».

9 Cfr. Calvesi, Precedenze dell’arte italiana cit., p. 116: «Il conve-gno di Amalfi [1968], la biennale di Rimini e soprattutto a luglio la notamostra di Foligno intitolata Lo spazio dell’immagine, un poco devian-te verso l’accademismo, nel cui catalogo figurava anche Celant con unoscritto su quello che egli chiamava «Im-spazio», mentre il nuovo Maredi Pascali, fatto di vasche di acqua colorata, consentiva (allo scriven-te) di insistere sul motivo degli «elementi» e le «strutture del prima-rio». Il limite ovvio a rileggere quei testi, era proprio una certa eufo-ria e fiducia a sua volta «elementare» nella contestazione del raziona-lismo tecnologico, nonché una indiscriminata apertura verso il fluidoe il vitale. I germi linguistici erano però di singolare importanza, in anti-

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cipo o in simultaneità con i fermenti di una situazione internazionalee ancora latente. Celant (e con lui Trini) ebbero il merito di raccorda-re a queste esperienze il lavoro di artisti come Fabro, Merz, Paolini,Boetti, Prini, Zorio e poi di cercare un collegamento con i punti piúrispondenti della esperienza europea e americana, dal precursore Beuysall’area della «Land Art». Subito dopo la convergenza (per quanto pre-vedibile e prevista) con lo strutturalismo minimalista e lo slittamentodel concettualismo diluirono la proposta e tolsero mordente; mentre lepratiche del «comportamento» e dell’«arte del corpo», alleate con ladocumentazione fotografica e il videotape, rompevano verso una piúdecisa e massiccia compromissione con la precarietà e gli ideologismidelle «culture alternative», dove l’«estetico» cede sempre piú al poli-tico (pubblico e privato) senza che la contaminazione sia esaurita deltutto».

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GIULIO PAOLINI

Note di lavoro*

L’opera preesiste all’intervento dell’artista (che è ilprimo a poterla contemplare)1. La ricerca è tesa versoimmagini assolute, inerenti alla natura stessa della telae all’impiego di una tecnica elementare: colori a tempe-ra, inchiostri, ecc. (la squadratura geometrica dellasuperficie pittorica, la campitura monocroma, il ricalcodi una carta quadrettata, il disegno di una lettera, unascala cromatica)2.

L’enigmaticità degli strumenti obbliga alla loro let-tura come soggetto ineffabile. Il quadro cessa di tra-smettere una immagine e diventa una presenza muta,rappresenta cioè gli elementi stessi con cui si costituisce:una superficie di masonite, un foglio di carta sono rifi-lati in modo da far intravvedere il telaio su cui sono fis-sati. Una successione regolare di colori è presentata ordi-natamente nel «vuoto» di una plastica trasparente, cosíun barattolo di vernice, il rovescio di una tela, ecc.3.

* G. Paolini, Note di lavoro, in «Nac», 1973, n. 3 e in Suspense,breve storia del vuoto in tredici stanze, Firenze 1988, p. 16.

1 Cfr. G. Celant, Giulio Paolini, New York - Paris 1972, in M.Bandini, B. Corà e S. Vertone, Paolini, Ravenna 1985, p. 174: «Guar-dando l’arte come già formata, la conceptual art opera a livello di unsignificato che solo l’arte, come ente preesistente all’intervento, pos-

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siede... Nel 1967 la preoccupazione nell’interrogare l’artefatto sfociain una visione del mondo che si sviluppa da una parte mediante stru-menti fisici come azione sulla realtà e, dall’altra, come critica, tramiteil linguaggio, del contesto dell’arte. Il ricorso esplicito di Paolini all’a-nalisi del linguaggio dell’arte colloca immediatamente il suo lavoro nel-l’ambito dell’artefatto linguistico legato alla conceptual art».

2 Cfr. C. Lonzi, Paolini, catalogo Galleria l’Ariete, Milano 1966,in Bandini, Corà e Vertone, Paolini cit., p. 172: «Nel suo lavoro Pao-lini manifesta un’attitudine dell’intelligenza creativa che non si eser-cita nell’elaborare immagini o forme plastiche, ma nel mettere a nudoi movimenti e i modi che sono alla base del fatto artistico. Lo svolger-si dell’opera appare cosí dettato da scatti di lucidità intellettuale, chesi articolano senza materializzarsi in modulo operativo, ossia senzalasciarsi alle spalle, come un dato acquisito, le ragioni attraverso le qualisi giustifica il meccanismo del dipingere».

3 Cfr., ad esempio, opere come Senza titolo, 1961 e 1962-63, ibid.,figg. 1 e 2.

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GERMANO CELANT

Un’arte critica*1

Malgrado il rapido avvicendarsi sulla scena artisticadi tecniche e di movimenti, di gruppi e di tendenze chesembrano sconvolgerne il percorso e l’andamento criti-co, la situazione dell’arte continua ad apparire domina-ta dall’angoscia di chiarire le ragioni e il senso della suaesistenza, nonché del suo scopo. Gli assiomi del «pri-mato del teorico»2 e del «principio del sensuale»3, svi-luppatisi a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, sonoipotesi su cui per decenni si è portata la discussione alfine di affidarsi a una linea che servisse a elaborare unqualsiasi valore interpretativo. Le polarità si ripetono,per cui invece di parlare di razionale e irrazionale, disegnico e di espressivo, si è stabilito di muoversi attra-verso di essi, cosí da definire una contaminazione eun’osmosi4. E se da una parte la convinzione è ruotatasul fatto che i fondamenti iconologici dell’arte determi-nassero il suo destino, dall’altra la certezza si è affidataalla storia e al suo revival5. In entrambi i casi risultavaperò opportuno, da parte degli stessi artisti, mettere inluce l’insopportabile ritardo critico e storico sui punti dipartenza e sulle direzioni della ricerca. Ne è scaturitauna prefigurazione delle vie di accesso o di provenien-za alla/dalla visione. Le ultime esperienze ne hanno ten-tato un’analisi per aumentare il grado di determinazio-ne e di integrazione dell’arte al vissuto, inteso quale pas-sione e memoria, da cui attingere i micro e i macroco-

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smi della percezione, dipinta e fotografata, scolpita eassemblata.

Tuttavia i tragitti erano già tracciati. La minimal arte la pop art si erano spinte a chiarire i rapporti con lediscipline ottiche ed economiche. Diventarono arteficidi una lenta maturazione che avrebbe permesso le inter-ferenze tra i linguaggi della quotidianità quanto dellaterritorialità, cosí da mettere in discussione la limita-tezza di prospettiva con cui l’arte aveva guardato a sestessa. Tramite le loro conquiste, l’incapacità a espri-mere lo scopo della propria ricerca entrava in crisi e lecondizioni «irragionevoli» dell’action painting e del-l’informale si trasformavano in coscienza teorica. Si ini-ziò a definire l’arte come qualcosa di «concretamente»significante in contrapposizione e in relazione al socia-le, per considerarla quale determinata azione storica,vincolata alle vicende del pensiero estetico ed extrarti-stico. Il punto di vista anni cinquanta secondo cui l’ar-tista era un operatore isolato, quasi «astratto» dal pro-gresso storico, cadeva, e nasceva la premessa di un’artecritica6.

Questa definizione, che è mia intenzione applicare alperiodo dell’arte povera, non accetta i fatti artisticiquali elementi ultimi e impenetrabili, ma presupponeuna visione dell’arte che disvela i suoi presupposti e lesue necessità da cui deriva una coscienza della differen-za tra «modo di apparire» ed «essenza». Le ricerche chesi ispirano alla filosofia e all’esperienza dell’arte come siè venuta sviluppando nel contesto italiano a partire dal1966 ad oggi, attraverso le opere di Michelangelo Pisto-letto7, Jannis Kounellis8, Luciano Fabro9, Alighiero Boet-ti10, Pino Pascali11, Giulio Paolini12, Gilberto Zorio13,Giovanni Anselmo14, Pier Paolo Calzolari15, EmilioPrini16, Mario e Marisa Merz17, prendono infatti a prin-cipio della loro attività la contraddizione tra immaginee struttura sociale, non cercano di conciliarle, ma di

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studiarle nella loro differenza. Il risultato è una «criti-ca» della ricerca artistica, che si fa – di fatto – autocri-tica. L’impulso è verso l’autoliberazione che abbandonidefinitivamente l’apparenza di un fare «neutrale» perorientarlo negli antagonismi sociali. Abolizione quindidi una visione mistica dell’arte, come entità superiore edegemonica, a favore di una concreta critica del sistemainterno ed esterno.

Al fine di elaborare uno schema di riferimento socio-storico che permetta di identificare la rilevanza assuntada questa «arte critica», sarà opportuno ricordare lasituazione convulsa e lacerata, sviluppatasi nel mondoverso la metà degli anni sessanta, in concomitanza dellacrisi dei lavori tradizionali e del tentativo – accompa-gnato da una crescente ribellione – di una loro rifonda-zione. Nel 1967 si profila un nuovo soggetto «critico»che tende a investire il cammino delle mutazioni socia-li: la ripoliticizzazione del continente occidentale. Larichiesta è portata da una nuova generazione che vuoleabolire, forse utopicamente, tutti i gradi di stratifica-zione e di gerarchia. Si sentiva allora la necessità impe-riosa e improrogabile di scatenarsi e di combattere perun’equivalenza tra le cose e gli esseri simili. La richie-sta, prodotta principalmente in Europa, aveva lo scopodi annullare i retaggi morali e ideologici, cosí da creareuna vera «trasformazione culturale». La rivoluzionedelle nuove generazioni verteva dunque su una rivendi-cazione etica dei rapporti sociali e tale sfida si estrinsecòa Parigi quanto a Berlino, a Roma quanto a Torino conl’aperta rivolta della gioventú universitaria. Si trattavadi masse giovanili che, sollecitate da quanto avveniva neipaesi orientali e latino-americani, erano disposte ai limi-ti estremi dell’azione. L’invito, a volte semplicistico eillusorio, era rivolto a scrollarsi di dosso il peso delle tra-dizioni e del passato. Ogni meccanismo venne investi-to «criticamente» cosí da verificarne i difetti di dire-

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zione, la rigidità e la complessità della struttura e del suouso. Fu una grande tempesta che portò a galla quanto sinascondeva nei fondali secolari del «sistema». La criti-ca radicale della società, nei suoi fenomeni industrialipiú avanzati, fece emergere un modello di estremismooperativo, basato principalmente sui valori emarginati epoveri. Questi appartenevano per tradizione alle masse,ancora caratterizzate da un altissimo grado di creativitàe di spontaneità. Ed è a queste che molti artisti si rivol-sero per attingere ispirazione ed energia, con il risulta-to di far esplodere la ragione quanto la fantasia corren-ti; sui loro frammenti si sarebbero rivendicati il rove-sciamento e la trasformazione poetica della cultura quan-to della società. Ed è quanto si tentò intorno al bienniodal 1967 al 1968: la ribellione dei campus e delle cittàindustriali, seppur espressa in forme primitive e disso-ciate, cercò di definire l’inquietudine di una generazio-ne che rifiutava lo sfruttamento e il lavoro per unarichiesta impossibile – ieri quanto oggi – di piacere18.

L’illusione era enorme, tanto da sfociare nel mirag-gio; tuttavia questa destabilizzazione dell’ordine costi-tuito e il malessere che ne derivò contagiarono tutto ilprocesso produttivo e culturale, tra cui l’arte, anch’es-sa toccata dalla «rivolta» della base, cioè degli artisti. Laricerca si trovò dinnanzi alla stessa crisi di coscienza con-creta. Non intendeva piú delegare agli altri – critici ogalleristi, collezionisti o musei – il suo procedere e rifiu-tava la gerarchia delle tecniche e dei materiali. Per seco-li aveva infatti basato i termini del suo discorso su unalogica che stava diventando sempre piú repressiva.Doveva quindi pronunciarsi rispetto ad essa e ripoliti-cizzarsi, se voleva mantenere la sua forza. Le ipotesi perridefinire il proprio ruolo furono diverse. Siccome si cre-deva che il malessere e la crisi della cultura dipendesse-ro sia dal mantenimento delle alleanze con la storia e conil passato sia dall’indifferenza ai desideri e alla precarietà

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della vita, i nuovi avvenimenti artistici ruppero l’ab-braccio soffocante della memoria, cosí da immergersi nelpresente. Ora, quale fosse il valore di questo taglio nonè cosa certa, tuttavia questa coscienza del contingentee dell’esistenziale impresse un carattere «alternativo»,che ebbe ripercussioni sulla mentalità, sul costume esulla condotta pratica dell’arte. Emerse per la primavolta su scala allargata, se non di massa, l’artista-criticoche arrivò a discutere l’intera sfera del suo agire, dellasua filosofia e del suo comportamento.

Cosa si intende con questo? Innanzitutto gli artistiiniziarono ad occuparsi degli effetti prodotti dall’am-biente privato e sociale della loro ricerca, cominciaronoa studiarne la condotta, come parte della loro ricerca. Econ questo modo di vedere e di pensare si definí il modoclassico della concettualizzazione dell’arte. Ma allo stes-so tempo ci si accorse che i rapporti tra la sfera internaed esterna erano una forma specifica dell’individuo-per-sona e dell’ambiente. L’arte povera, e in seguito quellacorporale, presero in considerazione proprio lo statutodi queste forme, intrecciandone i connotati.

Da una parte stava quindi il mondo dell’idea e dellasua «dematerializzazione», cioè il regno della teoriapura, dall’altra il mondo della natura e della persona, conla loro materializzazione delle percezioni sensoriali esensibili. In questo dualismo, che manteneva in vital’impossibilità di una spiegazione totale – tipica dellereligioni metafisiche, tra le quali per secoli si annovera-rono la pittura e la scultura – risiedeva il fine delle ricer-che dell’arte povera, quanto della conceptual art e dellabody art.

Gli avvenimenti artistici del 1967-68 segnano dunqueuno spartiacque storico: il dogma della neutralità è sra-dicato, poiché non è piú possibile separare l’oggetto dal-l’atto estetico, dalla coscienza e dalla partecipazionedelle sue ragioni e delle sue vicende tecniche. L’arte non

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e piú una natura vergine, appare come una forma delsapere e del ricercare, entrambi condizionati dall’ideo-logia e dalla pratica del potere. Sino a quel momento ilsuo valore conoscitivo e politico era stato nullo, proprioperché non si erano discussi e messi alla prova i suoiparadigmi. La discussione nasce allora19.

* G. Celant, Un’arte critica (1983), in G. Celant, Arte dall’Italia,Milano 1988, pp. 99-101.1 Definizione che Celant intende applicare al periodo dell’arte pove-

ra, sottolineandone l’esigenza di consapevolezza storica.2 Cfr. G. Celant, Per una identità italiana (1981), in Arte dall’Italia

cit., p. 33: «I sistemi teorici, forse in ragione della lettura di LudwigWittgenstein e di Louis Althusser, hanno assunto una realtà in se stes-si, in modo che la pratica artistica si è venuta intendendo come pro-duzione del teorico sull’arte. Il concetto e il suo processo di formula-zione sono diventati «contemplabili» e la teoria è risultata pratica pro-duttrice di realtà estetica. I fatti «concettuali» di Vincenzo Agnetti edi Alighiero Boetti non risultano solo un’attività mentale, riferibile almeccanismo di rispecchiamento teorico che duplica la realtà della scrit-tura quanto dell’immagine, ma sono una pratica in quanto teorie perimmagini, che trasformano la realtà linguistica e sociale della materiaprima, l’arte».

3 Cfr. ibid., p. 26: «Il valore culturale dell’«individualità» dei mate-riali è ben compreso sul piano della teoria e dell’informazione. L’edi-ficio della critica non resta in piedi di fronte all’impatto del «perso-nale». Carla Lonzi si dichiara «fuori» e favorisce lo stare con se stes-sa. La tempesta provocata dalla sua uscita altera la fisionomia della crea-tività che, d’ora in poi, dovrà definirsi per sesso». Ma cfr. anche M.Calvesi, Essendo dati: 1. fame, 2. sesso (1977), in Avanguardia di massacit., pp. 11-27.

4 Cfr. Celant, Per una identità italiana cit., p. 27: «Se si considerala relazione alla base di eventi e manifestazioni come «Lo Spazio del-l’Immagine», «Arte Povera», «Fuoco, Immagine, Terra, Acqua», e «Ilteatro delle Mostre», non si può ignorare il comune processo di esteti-cizzazione del reale con cui si cerca di coinvolgere, in un unico«campo», l’ambiente e l’arte, il teatro e la natura. Secondo questa pra-tica totalizzante, l’estetico attraversa la materia di qualsiasi territoriofisico e concettuale e vi produce una tale alterazione che i linguaggi spe-

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cifici si fanno indistinguibili e assieme vanno a formare un’unità sin-tetica, sempre piú indefinibile».

5 Cfr. ibid., p. 39: «Mascherandosi dietro il gioco estroso della pit-tura «liberata» dall’impegno, i protagonisti di quei revival tendono ascostarsi da ogni ricerca intellettualistica per sorprendere lo spettato-re con immagini bizzarre e personali. L’apporto originale delle loroicone rimane però il ricorso di un’esperienza in cui le immagini, tra-sferite su un piano enigmatico, tendono a evitare qualsiasi contatto conla realtà socio-culturale per attestarsi come emulsioni personali e meta-fisiche. La semplificazione delle figure ricostruisce infatti il clima del-l’Arcadia e riduce i conflitti presenti a motivazioni arcaiche. Le fan-tastiche figure mitiche dell’antica Roma, che ricorrono in dipinti e scul-ture dell’onirismo contemporaneo, rivelano profonde correlazioni conl’arte del «ritorno all’ordine», che vede nello stile nostalgico e nelladiscendenza romantica le «fonti creative», per un distacco dagli avve-nimenti politici e dalle guerre. L’origine dell’attuale distacco però nonva attribuita soltanto all’interesse per un vitalismo individuale dell’in-finitamente piccolo oppure al ricorso dell’archeologia storica, poiché sel’enigma regola lo scenario pittorico e scultoreo degli anni ottanta, ciòsi deve a un irrigidimento di quelle concezioni che, dal riduzionismoal dematerialismo della minimal e della conceptual art, dopo aver aper-to con la loro disciplina la strada alla sperimentazione dei linguaggi piúradicali, hanno trasformato questa disciplina in «panteismo delle idee»,che ha spinto l’arte a operare sempre piú nella realtà «trascendente»dei concetti. Si sono cosí dimenticati l’irrazionale e l’emozionale, cosic-ché gli artisti – tentati e sconvolti dalla restrizione dell’assolutismo filo-sofico – hanno cercato di rivalutare la propria individualità e il loro nar-ciso fantastico».

6 Un’«arte povera» che diviene quindi consapevole anche in sensostorico.

7 Cfr. G. Celant, Michelangelo Pistoletto (1983), in Arte dall’Italiacit., p. 137: «Le recenti sculture conferiscono ulteriore chiarezza all’af-fascinante audacia di perdersi e di cercarsi nel buco nero del riflesso.Mostrano personaggi rannicchiati in se stessi o articolati secondo pro-spettive diverse, giganti di una nuova dimensione e di un diverso pia-neta con la cui potenza bisogna confrontarsi e venire a patti. Essi sonofuori portata, quasi appartenessero a un mondo inafferrabile, indub-biamente astrale e sacrale. Sono archi e campate lanciati nello spaziointermedio tra cielo e terra a testimoniare l’indissolubile legame traaffermazioni opposte, costrette energicamente a convivere. Possiedo-no un’efficacia legata a una forza incantatoria che li fa apparire poten-ti interlocutori di un pensiero che viene da lontano».

8 Cfr. G. Celant, Jannis Kounellis (1983), in Arte dall’Italia cit., pp.107 e 118: «Kounellis nel corso del suo lavoro cercherà sempre di tra-

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durre la musica del sogno in ragione di vita e in aspirazione alla storia.La forza che circola nelle sue opere dal 1958 al 1967 rappresenta per-tanto il faticoso tentativo di mantenere raccolto e unito un linguaggiocomune, sconvolto dall’impatto della produzione di massa»; «La visio-ne della situazione artistica agli inizi degli anni ottanta, è apocalittica.Aiutata anche dalle centinaia di bocche spalancate, la cui ripetizionefa pensare alla contemporanea proliferazione di «pittura subumana»,consumata in nome di un’estasi misticosessuale e di una trascendenzaviscerale, questa dichiarazione visiva di Kounellis si può considerare ungrido d’allarme e di ribellione».

9 Cfr. G. Celant, Luciano Fabro (1988), in Arte dall’Italia cit., pp.193, 208: «Non meraviglia che il lavoro di Fabro, basandosi sull’in-dagine metodologica, presenti qualità dinamiche di genesi e di tra-sformazione, dove l’immagine conta quale attributo ed episodio, nonè quindi «soggetto» rispetto alla mobilità e alla tensione, al rimbalzoe al salto del conoscere»; «Il Nu descendant l’escalier riprende il veronaturale dell’arte, ne fa una «datità», trasporta una cognizione visivanel fisico, riporta l’idea del corpo e dei passi sui loro gradini. La dia-lettica di un’arte delle idee, non retinica, come quella di MarchelDuchamp, trova la sua polarità in un’arte che riporta l’idea della con-tinua esperienza della natura che è arte, mera Praxis. Prassi è imita-zione, tanto che riprendendo Duchamp, Luciano Fabro dichiara dirinunciare all’immaginazione. Se ne distacca, come si distaccano iritratti di Caravaggio dai suoi modelli. Quanto importante non è l’ar-te che imita la Storia, ma il metodo e le regole per predisporne e domi-narne gli effetti poetici e visivi. L’«obiettivo» conclude Fabro «è quel-lo di raggiungere la coscienza»; in queste regole di ipotizzazione i gra-dini della coscienza, per cui di volta in volta, solo alla fine, dopo aver-li saliti noi potremo definirli come principî. L’enunciazione delle rego-le serve a procedere su questa coscienza. Non come tecnologia dell’ar-te, ma come indirizzo di coscienza. In questo senso si parla di mate-ria, di segno, di spazio, cose generali e particolari. Non sono principî,ma principî verso».

10 Cfr. G. Celant, Alighiero Boetti (1967), in Arte dall’Italia cit., pp.150 sg.: «Nulla viene inventato. Boetti, ritornando all’esserci, attuainfatti una parallelismo totale tra arte e vita (l’uomo libero). Il suo agiresi concretizza allo stesso modo del creare umano e naturale, procedecon determinati mezzi, verso determinati scopi; il senso non esiste. Ilpericolo è quindi di intendere i suoi lavori come gesti per (qui l’in-venzione sta in agguato) un significato secondario, che differisce daquello fattuale, in quanto intelligibile e non sensibile, come è invece lariinvenzione di Boetti. La lettura deve quindi fermarsi a uno stadiopreiconico, a una classificazione e descrizione delle immagini, a unambito limitato, a una raccolta di dati oggetti (la catasta è l’insieme di

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un tubo + un tubo + un tubo..., i legni sono l’insieme di un quadra-to + quadrato..., bloccati – l’incastro da un quadrato d’acciaio ecc.).Bisogna soffermarsi all’analisi e non pervenire alla sintesi. Sono ele-menti che non rappresentano, ma presentano. Non contengono mai unosfoggio mondano, nascono soltanto dalla coincidenza dell’essenza colfatto. Si pongono come entità tese a deculturizzare la nostra percezio-ne, in cui il passato si sovrappone continuamente al presente, per sot-tolineare soltanto il puro presente. La storia è finita, ricomincia dal-l’inizio, con la coscienza del linguaggio dell’azione, della materia, dellospazio. Per i ciechi tutto è improvviso».

11 Cfr. G. Celant, Pino Pascali (1966), in Arte dall’Italia cit., p. 131«Un artista che ha scelto a bersagli della sua ricerca i valori «ufficia-li», le forme sbagliate della falsa retorica, gli idoli, le memorie e le aspi-razioni di potenza dell’uomo e della collettività contemporanea».

12 Cfr. G. Celant, Giulio Paolini (1983), in Arte dall’Italia cit., pp.142 sgg.: «Sin dall’inizio del suo lavoro, Giulio Paolini ha cercato dielaborare in un corpus completo la sua dottrina, dal teorico al concre-to, sull’arte... Come un Vitruvio contemporaneo è passato a discutereil rapporto tra parete e colonna, tra volume e segno, tra ninfeo e atto-re. Considerata la collocazione, i lavori richiamavano i motivi archeti-pi del fare e dell’abitare, dell’agire e del recitare, secondo un’articola-zione costruttiva come passaggio dall’analisi oggettiva all’insediamen-to partecipato e progressivo dell’accumulo delle colonne e del sipario,dei frammenti e degli attori risucchiati dall’architettura o dal perso-naggio. Inoltre la specularità tra superficie e volume, tra attrice e coro,determinava una percezione diversificata dell’ambiente dell’arte e delteatro, rispetto a come si manifestava attraverso forme specifiche».

13 Cfr. G. Celant, Gilberto Zoro (1987), in Arte dall’Italia cit., p.191: «Siamo sempre in una dimensione di viaggio, prima dei cristallie delle parole, ora delle sculture stesse, tanto che alla fine si «trasfor-mano» in canoa, una forma che ricorda la punta della stella e che avan-za su cammini liquidi, spinta dalla forza delle correnti. I termini sonoancora energetici e chimici, favoriscono l’attraversamento della vita,come delle vite... Tutto questo per dire che il vissuto in immagine nonpuò essere ripreso dalla realtà, tanto che il viaggio continua sempre».

14 Cfr. G. Celant, Giovanni Anselmo (1983), in Arte dall’Italia cit.,p. 155: «Anselmo rivela d’aver raggiunto la capacità di controllarel’accadimento «meraviglioso». Giunto alla maturazione della sua ricer-ca, si immerge nelle immagini della natura, dal corpo umano alla terra,ne ricava momenti di sconcerto, quali la mano spogliata delle sue con-notazioni corporee e resa segno di indicazione, verbo del vedere e sin-tesi dell’intenzionalità umana, e il paesaggio di pietre che si solleva sul-l’orizzonte dell’acqua, simbolizzato dal rettangolo di blu oltremare. L’o-smosi di questi momenti comporta un dialogo tra condizioni terrestri,

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di carattere archetipo e cosmico, in cui lo stato grezzo delle materie edelle energie si «astrae» e dà origine a immagini magiche e misteriose,il cui impatto seduce per condurci verso un incomprensibile, che èmistero naturale, tra corpo umano e crosta terrestre».

15 Cfr. l’intervista con Celant del 1987, in Arte dall’Italia cit., pp.165 sg.: «Il Canto sospeso, 1972, è veramente una fucina, la cui confor-mazione mi è ancora enigmatica, quindi aperta, rivolta verso il futurodel mio lavoro degli anni settanta. Te ne faccio un disegno: una stellacome spinta agli estremi. Su una punta un bambino suona, sulle altreun uomo suona un rumore fisso. Una donna scrive sulla lavagna. Unadonna si benda, la donna si volta e piange. Una donna è sdraiata sulletto. Un uomo parla con una voce di donna nella bocca. Dei pesci sal-tano. L’uomo è bendato, il bambino non vede, la donna è in silenzio,non vede perché piange. L’uomo si alza e comincia a marciare, si metteuna rosa su un piede, prende due caraffe e si mette a camminare in dire-zione di un suono fisso. Terminato il rumore si mette a marciare allacieca. Arriva a una fila di sedie, mette l’acqua sui pesci, continua a mar-ciare. Sale e scende dalle sedie, si addormenta, mentre la donna orinae scrive sulla lavagna «canto sospeso». Per me le persone erano imma-gini: la donna era rosa, la lavagna era nera, il letto era bianco, il rumo-re è fisico ed è immagine. I nomi erano rumori, ma erano scritti. Eraun altro «sognato»».

16 Su Prini cfr. Calvesi, Avanguardia di massa cit., p. 138: «Prini haletto delle frasi stampigliate su frammentarie lastre di piombo, sparseai quattro angoli della sala; valeva il coordinamento, il confronto trala valutazione fisiologica della lastra di piombo, con il suo peso e la suaconsistenza di materia, e quella mentale delle parole stampigliate che,pur facendo parte dell’oggetto, costituivano un’entità assolutamentequalitativa, isolabile; cosí come è isolabile l’idea di struttura in queglioggetti fisici che sono le strutture primarie».

17 Cfr. G. Celant, Mario Merz (1984), in Arte dall’Italia cit., p. 130:«Le immagini di Merz, ponendosi quali espressioni fuori dal tempo edal ricorso, si possono considerare – al pari dei primi igloo – quali nucleiiridescenti di energia, intrisa di tutti gli umori del terreno personale epubblico dell’artista. E siccome le figure di animali e di vegetali sonogaranti di una partecipazione quotidiana alla vita, le sue pitture riman-gono viventi. Sono immagini da fanciullo piú che da etnologo»; Mari-sa Merz (1980), ibid., pp. 168 sg.: «Sbocciata alla metà degli anni ses-santa, l’opera di Marisa è fiorita proprio quando la soglia del pubblicoè stata varcata dal privato, quando la politica ha smesso di vincere eha lasciato lo spazio al dialogo, forse monologo, portato su di sé. Laminaccia veniva infatti dal portare l’immagine ad altro da sé, cioèall’Altro, per cui si è teso a evitarla con la dichiarazione di una consa-povolezza di quanto mi-ti-le-gli è successo, nel corpo e nella vita. Allo-

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ra è apparso chi ha parlato del proprio territorio e dei propri recinti,senza investimenti esterni. Niente fantasmi quindi, ma soggetti».

18 Cfr. Calvesi, Avanguardia di massa cit., p. 68: «Mi venne fatto, aquel momento, di avvertire un riscontro tra il mentalismo e il rigoredel dettato proto-concettuale, che rifiutava la euforia neodada o pop el’intransigenza e il settarismo ideologici delle nuove leve studentesche,e c’era forse una rigida rispondenza di clima, nel modello stesso, ano-malmente collettivizzante, dei «gruppi» di fruizione. Ma in realtàerano le prime avvisaglie, per un’avanguardia ormai condannata al pro-prio mito, di un (impossibile) tentativo di riemersione elitaria, di unconato quasi idealizzante di recupero – in essenzialismi e rarefazionidella ricerca – della funzione e mansione specifica dell’artista; nonché,strettamente connessa, della continuità produttiva (dunque anche mer-cantile) dell’oggetto «compiuto», per quanto rarefatto o minimale.Questo mentalismo era d’altra parte, ormai, una dimensione pressochéobbligante, che poteva e può avere esiti interessanti nei ripiegamenti,pur sempre creativi, dell’atto artistico nel momento critico».

19 Cfr. ancora ibid., pp. 68 sg.: «Ma è solo sull’altro versante, quel-lo dello sconfinamento fisico extra-oggettuale, che si possono coglieredopo il Sessantotto le interferenze, le sincronie e i tallonamenti fra lanuova «avanguardia di massa» e la pur ridimensionata ma ancora, qual-che volta, anticipante avanguardia istituzionale. Avendo questa, infat-ti, perduto l’oggetto ed esaltato il soggetto, e trasferito dal primo alsecondo (ai suoi desideri) le polarità e potenzialità della protesta e delconsumo, si è trovata allineata ormai concretamente ai movimenti gio-vanili, in un rapporto di scavalcamento delle istanze piú rigorose delSessantotto, verso la spettacolarità del Settantasette e le sue propostedi rovesciamento dell’oggetto nel soggetto, ovvero anche dell’oggettopolitico-sociale nel personale, dell’emarginazione nell’esibizionismo edella «disoccupazione» nella festa o in un utopico e generalizzato«tempo libero». Ecco allora il «comportamento», la «body art»; eccoad esempio le singolari convergenze, già rilevate da Flavio Caroli, trail masochismo body-artistico... e le pratiche nichilistiche ed esibizio-nistiche dei punk rockers... ecco ancora le strette interferenze – finoquasi all’identità – tra le avanguardie dei pittori muralisti e «anima-tori», che sommergono di scritte... le mura dei paesi e delle città... edecco infine l’avvicinamento dell’avanguardia figurativa alla condizio-ne, ancora invece largamente vitale, del teatro».

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GERMANO CELANT

Un’arte iconoclasta*

Il mistero della reincarnazione pittorica partecipa inItalia di una continuità storica che si compiace, dal car-raccismo al novecentismo, della rassicurazione fideisti-ca e religiosa nella devozione al divino. Tanto che ilrecente ricorso alla bellezza classica e all’ottimisticaortodossia, isolata nelle sue etnie e nazionalismi, dellatecnica e dell’artigianato, può assumersi come esempiodi perfetto gesuitismo artistico e critico, nonché segna-le di un ritorno allo spirito «aristocratico e individuali-stico dell’oltreuomo», tipico di una cultura di dannati edi purganti. I gesticolanti teorici e i maestri della pittu-ra stilistica e citazionista, senza timore di esibire la loropatetica matrice di cattolicesimo volgare, seguono infat-ti i palpiti della carnalità cromatica e figurale per cerca-re – muovendosi tra le polarità dell’informale e dell’i-conismo, vale a dire tra i risorti aspetti estetico-forma-li e psicologico-culturali di anima e corpo – di ricom-porre il dualismo «controriformista» di caducità e dimagnificenza, di sfacelo e di bellezza, di veglia e disogno. Ma la legittima discendenza dell’antico si tra-sforma, nel loro fare, in fasti processionali di formulestereotipe, desiderose solo di piccoli rinnovamenti, cosída produrre una pittura zibaldone di cose viste e lette,dove conta piú esercitare l’enumerazione delle fonti cheattivare l’inquietudine della storia.

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È come se l’arte si trovasse già fatta, «immanente»e invariata nel passato e nel tutto, e fosse sufficiente perparteciparne, collezionarla e sentirla – ecco la sua rin-novata dimensione ideale – senza insinuare in essa ilsenso della domanda e del dubbio. In simile operazionel’arte rischia di non incontrare altro che se stessa, sireplica e si dissolve in un idealismo senza prospettivastorica né contenuti, dove lo spirito e il dogma, sianoessi di terra o di cielo (e la casistica delle variazioni teo-riche da sinistra a destra si arricchisce velocemente),continuano a preformare l’esistenza. L’esaltazione deiluoghi comuni della storia dell’arte, quanto la mascheralatineggiante dei classici, servono per superare e perdecongestionare l’inconciliabilità laica, quanto per ricon-durre l’arte alla fede in se stessa.

La tendenza è a percorrere il calvario della pittura, aricondurla in clausura e a rivestirla di veli, piuttosto chesollecitarne le scorribande e i piaceri, le inquietudini ele perversità. In tale liberazione dalle tentazioni, l’artesi placa, rende armonica la sua aggressività e rimuove gliscontri, cosicché la storia coincida con la purificazioneascendente delle «figure». Nell’ideale ascetico dell’arti-sta, la risoluzione di tutti i problemi si trova quindinelle sante e beate scene di genere, dove l’assenza dicoscienza diventa impresa monumentale.

Quel che lascia perplessi nell’accettazione di questovuoto è la genericità deterministica di un esistere per-petuo e monotono che vede nella conciliazione e nellacoincidenza tra dogma e stile l’unica soluzione del fare.Cosí nell’ottimismo utopistico di un muoversi metafisi-co, particolare di un dopoguerra, quanto di un dopoca-tastrofe, si dimenticano gli elementi della crisi e delladisintegrazione1.

All’affermazione di un’arte quale strumento di natu-ra immutabile e perfetta, tale cioè da muoversi nelle deli-mitazioni rassicuranti della sacra icona, si contrappone

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un atteggiamento e un procedere iconoclasta che tieneconto dei problemi dell’esistenza reale e si muove inrelazione alla molteplicità dei contesti e dei tempi. Perquesto occorre rifiutare ogni definizione assoluta e man-tenersi sul piano dell’attenzione per riconoscere all’arteuna funzione di mediazione, non di rigida definizione.Quanto conta è allora il carattere indeterminato e laten-te di fare che non si attacca ai suoi dati, ma li discute,li confronta e decostruisce per cercare un’esistenza nelladiscontinuità del comprendere e del comprendersi.

Alla visione univoca questo processo iconoclasta pre-ferisce i molteplici punti di osservazione, mentre allavincolante legge del cromatismo figurale sostituisce lecircostanze diverse in cui colori e materie, costruzioni erappresentazioni vengono ad applicarsi. Cosí all’astrat-ta apparenza del velo, scolpito o dipinto, fa subentrarela concreta singolarità del corpo oggettuale che deter-mina una caduta o un’ascesa non prefigurata nel conte-sto scelto.

Nascono intrecci di situazioni che superano il parti-colarismo del vedere e del percepire tradizionali, quan-to un’esperienza collettiva nella quale ognuno si realiz-za con la realizzazione degli altri. Niente attaccamentoall’elemento minuscolo, tipico di un vedere miope, maapertura a uno sviluppo necessario, capace di mettere incondizione di crescita esperienze storiche. L’apertura alrischio dell’esistere genera inoltre la facoltà di trovarecorrispondenza nella dinamica tra coerenza e incoeren-za, tra sé e mondo, come di lanciarsi nella vertigineambientale per stabilire, con gli altri e per sé, relazionie profili inediti. L’idea è di percorrere l’intera tastierae di conoscere la serie totale degli aspetti del reale, cer-cando di immettervi suoni ed echi di una consapevolezzadel mutevole che acquista peso storico. Assenza quindidi rassicurazioni fideistiche e religiose circa il proprio

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esserci, per appropriarsene di continuo quale dipenden-te dalle cose e dai fatti.

Di fatto si ha l’affermazione della varietà e del rela-tivismo artistici, quanto della meraviglia e della coeren-za dell’incoerenza, dove conta il senso traboccante dellafusione e della metamorfosi con la storia. Ed è in que-sta prospettiva che si continuano a sviluppare le discus-sioni e le critiche sul costante riprodursi di forme dog-matiche e spiritualistiche, mut[u]ate da quella compo-nente religiosa che si ritrova nell’eclettismo, quanto nel-l’estetica bergsoniana e crociana, matrici filosofiche a cuiattingono il neomanierismo, quanto il neoinformale.

Contro la serenità di un mondo calmo e piatto chefagocita e annulla tutti i drammi, si pone invece un pianod’azione sempre mutevole, d’esito incerto e sconosciuto,che considera l’arte un’impresa capace di spostare il cen-tro di gravità del comunicare in tutte le direzioni. Insimile agire è insita la diffidenza nel mantenimento, conla sua rigidezza e immobilità, del sistema dogmatico; siprocede piuttosto per strappi e scossoni, per sovverti-menti e spaccature sempre scomode che servono a met-tere in discussione la legittimazione di un culto monisti-co dell’arte. L’elemento di differenziazione è rappresen-tato dal diniego di affidare al trascendente e alla cittàceleste del dipingere e dello scolpire la soluzione dellecontraddizioni dell’esistere. Ed è contro questo «carat-tere ecclesiale e autoritario del possesso della verità» cheinterviene la critica degli iconoclasti e dei laici, interes-sati a non discriminare il dentro dal fuori per garantireun’osmosi e una cooperazione dialettica tra le parti. Ciòche è in gioco in questa «partitura aperta», che non par-tecipa delle «correnti», è l’induzione a ricercare, non undialetto ma le condizioni di una nuova lingua.

Resta cosí infinita la possibilità di determinare unaprospettiva multipla e di indicare i percorsi che ne per-mettono l’identificazione in ragione del contraddirsi.

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Senza soluzione definitiva, l’opera assume la facoltà dinon rappresentare, ma di esistere, di affermare e dinegare allo stesso tempo l’assoluto e il frammentario,l’interesse singolo e collettivo. Attraverso la turbolenzadi un processo indeterminabile e interminabile passanoallora le parole e i frammenti, il monologo come scam-bio e dialogo, l’interrogazione sui modelli del tempo, latraiettoria del disordine, l’annessione dei territori, iltravolgimento delle resistenze, la collezione dei luoghi,la confusione delle lingue, tutto quanto per il suo ingom-bro ed infrazione non sta nei margini e si sottrae all’in-quadratura2.

* G. Celant, Un’arte iconoclasta (1984), in G. Celant, Arte dall’I-talia cit., pp. 102-5.

1 Cfr. Celant, Per un’identità italiana (1981), in Arte dall’Italia cit.,p. 10: «L’effetto di omogeneizzazione di cui le attuali ricerche soffro-no è conseguenza di un conformismo generalizzato, secondo cui si èridotto lo spazio riservato alle scelte personali e ampliato il territoriodel mediocre e del servile, quanto di un indottrinamento caratteristi-co di una società che, nell’associazione paritetica dei prodotti, tendead abolire dissociazione e discussione. Anche l’arte si associa a questoprocesso e confonde i suoi artefatti con il decoro e il redesign della sto-ria, cosí da disintegrare qualsiasi segno di alterazione e di effervescenza.Anzi, per non correre il rischio di dissociarsi, si dirige verso un’imita-zione passiva del passato che, riciclato mediante la citazione, si fa«contemporaneo», cosí da soddisfare la richiesta del consumatore. Inquesto senso il nuovo si istituisce a copia del moderno e soddisfa il dop-pio ruolo di un oggetto che è «sperimentale», poiché si basa sulla sicu-rezza del modello storico. Il soggetto della vendita è quindi sicuro, simuove tra la tradizione dell’avanguardia e l’avanguardia della tradi-zione». Vedi anche p. 42: «Paradossalmente spazio ideologico e spa-zio epistemologico, a questo momento, combaciano nelle figure, madivergono nella rappresentazione. Il ritratto è quindi duplice: l’arteritrae la storia per paura o la ritrae per riprodursi? Una risposta a untale quesito è stata data da pittori quali Salvo e Carlo Maria Mariani,Sandro Chia e Enzo Cucchi, con un salto nel passato. Intorno al 1980,momento di crisi e di insicurezza economica, quando l’individualismoè diventato l’unica ricerca di identità contro l’«avanguardia di massa»

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(Calvesi), per paura sono ritornati alla figura canonica del «pittore distoria». Una natura classica dell’artista, che si ripropone quale colti-vatore del bello autonomo e tradizionale. Mascherati dietro la spiri-tualità del dipingere, hanno alimentato il ruolo dell’artista esaltando-ne la tecnica del pennello. Pertanto quanto si riflette nei loro quadri èun’abilità di applicare il processo pittorico a qualsiasi soggetto. Quelche conta è commuoversi e commuovere il pubblico con la meravigliadel «ben dipingere». In questa maniera l’artista non partecipa delmomento storico, ma fornisce solo una tecnica e dà prova di abilità, edentrambe per risultare verosimili sono costrette a rifarsi alle immaginie alle figure del passato, riconoscibili dal pubblico dei mass-media quali«vera arte». Ecco allora l’indifferenza della valutazione dei temi edelle narrazioni che possono spaziare dalle allegorie cinquecentesche diuna Artemisia Gentileschi alle parabole surreali di Marc Chagall».

2 I due filoni, delineati da Celant, non mancano di numerosi puntidi contatto.

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