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1391 5.1.4. I valori simbolici « Da prima non volle credervi. Ma un nuvolo di favolesche sollevato dall’incendio fin al di sopra della mon- tagna di Monte Caprino venne poi a cadere e a posarsi sulle aiole del nostro giardino e mio padre allora comprese veramente, a quel nero pulviscolo, la verità della cosa. Disperato, a furia, senza cappello in testa, risalì le coste del monte, ne attraversò la cima e si affacciò alla colma. Laggiù in basso, sull’orlo del lago, sotto un cielo divinamente azzurro, l’Esposizione finiva di bruciare cre- pitando, e già di tra le fiamme si vedevano apparire i monconi carbonizzati delle sue strutture più robuste. Ritto sul declivio, appoggiato al fusto di un pinastro mio padre piangeva come un bambino davanti alla sua opera distrutta. Una densa nube s’alzava dal rogo crepitante e voltava verso il monte il suo enorme pennac- chio. Io era riescito a raggiungerlo e m’ero seduto accanto a lui. Con tutte e due le mani premute contro la faccia egli singhiozzava. Poi quando mi vide si lasciò andar a sedere accanto a me e per la prima volta in vita sua, piegò il capo sulla mia spalla, piangendo più forte» 1 . Carlo Linati Il principio dell’incendio visto dal lago. Istantanea Ritter(Como). Fotografia, 8 luglio 1899 (in “ Como e l’Esposizione Voltiana. Rivista settimanale illustrata”, n. 9, Tipografia Cooperativa Comense, Como, 15 luglio 1899, p.65). 1 Linati C., “ Passeggiate lariane”, Bologna, 1999, p. 141 – 142. Siamo debitori dello spunto per questa citazione a Riccardo Borzat- ta, che qui ringraziamo. L’autore introduce così l’episodio: « Un incendio improvviso aveva distrutta la prima Esposizione Voltiana del 1899 e mio padre che n’era stato l’architetto ideatore e che attorno a quella ingegnosa fantasia di tela e di stucco aveva lavorato per mesi con infinito amore, seppe le notizia da alcuni contadini che tornavano da Como dov’erano stati spettatori del tragico fat- to». L’“ architetto ideatore” fu al secolo l’ing. Eugenio Linati (1836 – 1929).

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1391 5.1.4. I valori simbolici «Da prima non volle credervi. Ma un nuvolo di favolesche sollevato dall’incendio fin al di sopra della mon-tagna di Monte Caprino venne poi a cadere e a posarsi sulle aiole del nostro giardino e mio padre allora comprese veramente, a quel nero pulviscolo, la verità della cosa. Disperato, a furia, senza cappello in testa, risalì le coste del monte, ne attraversò la cima e si affacciò alla colma. Laggiù in basso, sull’orlo del lago, sotto un cielo divinamente azzurro, l’Esposizione finiva di bruciare cre-pitando, e già di tra le fiamme si vedevano apparire i monconi carbonizzati delle sue strutture più robuste. Ritto sul declivio, appoggiato al fusto di un pinastro mio padre piangeva come un bambino davanti alla sua opera distrutta. Una densa nube s’alzava dal rogo crepitante e voltava verso il monte il suo enorme pennac-chio. Io era riescito a raggiungerlo e m’ero seduto accanto a lui. Con tutte e due le mani premute contro la faccia egli singhiozzava. Poi quando mi vide si lasciò andar a sedere accanto a me e per la prima volta in vita sua, piegò il capo sulla mia spalla, piangendo più forte»1.

Carlo Linati

Il principio dell’incendio visto dal lago. Istantanea Ritter(Como). Fotografia, 8 luglio 1899 (in “Como e l’Esposizione Voltiana. Rivista settimanale illustrata”, n. 9,

Tipografia Cooperativa Comense, Como, 15 luglio 1899, p.65).

1 Linati C., “Passeggiate lariane”, Bologna, 1999, p. 141 – 142. Siamo debitori dello spunto per questa citazione a Riccardo Borzat-ta, che qui ringraziamo. L’autore introduce così l’episodio: «Un incendio improvviso aveva distrutta la prima Esposizione Voltiana del 1899 e mio padre che n’era stato l’architetto ideatore e che attorno a quella ingegnosa fantasia di tela e di stucco aveva lavorato per mesi con infinito amore, seppe le notizia da alcuni contadini che tornavano da Como dov’erano stati spettatori del tragico fat-to». L’“ architetto ideatore” fu al secolo l’ing. Eugenio Linati (1836 – 1929).

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1392 Abbiamo voluto aprire questo capitolo con il racconto carico di pathos di un evento che ebbe vasta eco all’epoca2 e conserva tutt’oggi nell’immaginario collettivo una forte carica simbolica: innanzitutto il raccon-to, per dire il tempo dilatato in vista della finale agnizione, poi l’immediatezza di un’istantanea impressionan-te di quel racconto, la colonna di fumo si alza nel cielo e si specchia nelle acque, le possibilità del primo e della seconda inscritte nel medesimo teatro naturale in cui si sono svolte le vicende millenarie della città. Dai crinali dei monti al lago è sempre un concetto di esposizione ad essere operante, ad aggiungere un senso ulteriore all’architettura della città, laddove la costruzione dell’uomo si è data al paesaggio, alla palpabilità della luce esaltata dalle “caratteristiche di trasparenza, di luminosità, di «cielo rovesciato»”3 della superficie del lago “che si contrappone, replicandole, a nuvole e opalescenze atmosferiche”4, alla duplicazione nello specchio lacustre della stessa immagine architettonica5, delle rive e dei versanti delle montagne6. Ogni accadimento, comprendendo anche tutto ciò che non si è materializzato nella costruzione fisica del pa-esaggio ovvero ha perso il proprio statuto di consistenza reale nel volgere dei secoli, si è sedimentato nell’universo simbolico della comunità, e considerata la vastità del tema per un discorso condotto sul filo del-la memoria, con amnesie e riscoperte − l’universo simbolico varia nel tempo, si dilata e si contrae e di nuovo torna a nominare i luoghi della storia quotidiana come della histoire événementielle − per un discorso, dice-vamo, che volesse portare la lente sull’arazzo delle res gestae rimandiamo per un saggio ai contributi mono-grafici di approfondimento storico7, limitandoci qui a introdurre il lavoro compiuto nel cartografare i valori simbolici di cui si dà traccia nel paesaggio contemporaneo. Questo campo d’indagine è esplicitamente suggerito, sulla scorta della Convenzione europea del Paesaggio, nel documento regionale “Modalità per la pianificazione comunale”8 e in particolare nell’allegato “Contenu-ti paesaggistici del Pgt”: “ Com’è noto, la Convenzione europea attribuisce molta importanza alla percezio-ne sociale del paesaggio. Sul piano operativo, ciò comporta di introdurre tra i criteri di valutazione anche la dimensione percettiva e simbolica che le diverse componenti del paesaggio assumono per le popolazioni di-rettamente interessate, sia a livello locale, sia entro un ambito più vasto”9. Per marcare i confini della ricerca, è possibile inoltre fare riferimento alle “Linee guida per l’esame paesisti-co dei progetti”10, le cui indicazioni, ancorché specifiche per “ la valutazione della «sensibilità paesistica» dei siti in funzione dell’esame paesistico dei progetti”11, “sono utilmente applicabili […], garantendo coe-renza e continuità tra fase di impostazione e fase di gestione del Pgt”12.

2 Era il secolo in cui Gustave Flaubert scriveva nel suo “Dictionnaire des idée reçues”: “ ESPOSIZIONE: Motivo di delirio del XIX secolo”. Il tema è ritornato di grande attualità in vista dell’Expo milanese del 2015 e si offre quale presa per addentrarsi in un discorso sulla rappresentazione simbolica nel campo dell’architettura e della città; tra gli svariati contributi, si veda il Forum Expo 2015 “Ar-chitettura e identità urbane” pubblicato sulla rivista AL – Mensile di informazione degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Con-servatori Lombardi, n. 5, maggio 2010. 3 Alberto Longatti, “ Como e il Lario: un rapporto d’immagine”, in AA.VV., “ Como e il suo territorio”, a cura di Rumi G. et al., Mi-lano, 1995, p. 279. 4 Ibid. 5 In occasione delle esondazioni del lago anche la Città murata e i suoi monumenti godono di questo privilegio, divenuto nel tempo un tòpos dell’iconografia dedicata alla città. 6 Quasi da poter leggere a margine dell’interpretazione che ha data Franco Purini della Casa del Fascio di Giuseppe Terragni, che ne ha spiegate le origini come “metafora dell’isolato romano, metafora del suo stesso isolamento, metafora della casa a corte coma-sca”, la riproposizione del medesimo meccanismo, posto come è l’edificio sul margine storico della Città murata e proponendosi quindi come sua immagine specchiata. Vedi Purini F., “L’architettura didattica”, Reggio Calabria, 1981, reprinted in Ferrario L. e Pastore D. “Giuseppe Terragni. La Casa del Fascio” Roma, 1982, p. 11. 7 Nella Parte III del Piano delle regole si trovano dei contributi dedicati alla Como romana, alla Como medievale e dell’età moderna, e alla Como eclettica e razionalista. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla vasta bibliografia esistente. Per richiamare un altro celebre fatto di cronaca, protagonista il fuoco, si veda il contributo di Alberto Longatti intitolato “Tra Ecclettismo e Razionalismo”, che nel capitolo “Restauro o rifacimento?” tratteggia la vicenda del restauro della cupola del Duomo dopo il disastroso incendio della notte del 27 settembre 1935. 8 Dgr. 29 dicembre 2005, n° 8/1681, recante “Modalità per la pianificazione comunale (Lr. 12/2005 art. 7)", Allegato A: Contenuti paesaggistici del Pgt, in Burl, 2° suppl. straord. al n. 4 del 26 gennaio 2006. 9 Ivi, pp. 19 – 20. 10 Dgr. 8 novembre 2002, n° 7/11045, recante “Linee guida per l’esame paesistico dei progetti”, in Burl, 21 novembre 2002, 2° sup-plemento straordinario al n° 47. 11 Ivi, p. 19. 12 Ibid.

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1393 Il modo di valutazione simbolico, si legge in queste indicazioni, “non considera tanto le strutture materiali o le modalità di percezione, quanto il valore simbolico che le comunità locali e sovralocali attribuiscono al luogo, ad esempio, in quanto teatro di avvenimenti storici o leggendari, o in quanto oggetto di celebrazioni letterarie, pittoriche o di culto popolare. La valutazione prenderà in considerazione se la capacità di quel luogo di esprimere e rievocare pienamente i valori simbolici associati possa essere compromessa da interventi di trasformazione che, per forma o fun-zione, risultino inadeguati allo spirito del luogo”13. Più specificamente, le chiavi di lettura a livello sovralocale “considerano i valori assegnati a quel luogo non solo e non tanto dalla popolazione insediata quanto da una collettività più ampia. Spesso il grado di noto-rietà risulta un indicatore significativo:

siti collocati in ambiti oggetto di celebrazioni letterarie (ambientazioni sedimentate nella memoria cul-turale, interpretazioni poetiche di paesaggi, diari di viaggio…), o artistiche (pittoriche, fotografiche e cinematografiche…) o storiche (luoghi di celebri battaglie);

siti collocati in ambiti di elevata notorietà e di forte richiamo turistico per le loro qualità paesistiche (ci-tazione in guide turistiche)”14.

Le chiavi di lettura a livello locale “considerano quei luoghi che pur non essendo oggetto di (particolari) ce-lebri citazioni rivestono un ruolo rilevante nella definizione e nella consapevolezza dell’identità locale, pos-sono essere connessi sia a riti religiosi (percorsi processionali, cappelle votive…) sia ad eventi o ad usi civili (luoghi della memoria di avvenimenti locali, luoghi rievocativi di leggende e racconti popolari, luoghi di aggregazione e di riferimento per la popolazione insediata)”15. Su queste basi, una ricognizione capillare estesa all’intero territorio comunale, rispondente al criterio del cen-simento esaustivo dei luoghi di valore simbolico e identitario, si è rivelata “quasi” impossibile, pertanto si of-fre qui un inquadramento e una prima esplorazione di una realtà tanto ricca, stratificata, “di elevata notorietà e di forte richiamo turistico”, per usare l’espressione regionale. Un costante e proficuo scambio con la citta-dinanza potrà contribuire ad aggiornare e integrare nel tempo il censimento, sia con uno sguardo al passato che all’attualità, e questo in modo particolare per il livello locale. Fattivamente, la nostra attenzione si è venuta spostando dai singoli oggetti al quadro generale, quasi che nell’economia di questo lavoro necessitasse in primo luogo fissare le coordinate dell’insieme, la portata sim-bolica espressa dal genius loci, dall’incontro, con i suoi caratteri di unicità, dell’elemento naturale e dell’elemento antropico. Il Piano paesaggistico regionale16, come abbiamo già avuto modo di rilevare, ha individuato uno specifico “ambito di salvaguardia paesaggistica del lago e dello scenario lacuale”17, definito “sulla base della linea degli spartiacque del bacino idrografico e delle condizioni di percezione dei caratteri di unitarietà”18, che hanno acquisito nel tempo anche valore “simbolico e celebrativo a livello sovraregionale”19, suggerendo di indagare proprio il costituirsi nel tempo di questo scenario dal punto di vista delle “sacralizzazioni paesisti-che”20.

13 Dgr. 8 novembre 2002, n° 7/11045, recante “Linee guida per l’esame paesistico dei progetti”, cit., p. 5. 14 Ivi, pp. 5,6. 15 Ivi, p. 6. 16 Il Piano territoriale regionale, che comprende quale sezione specifica il Piano paesaggistico, è stato approvato con Dcr. 19 gennaio 2010, n. 8/951, in Burl, 3° suppl. straord. al n° 6 dell’11 febbraio 2010. 17 Ptr, Piano paesaggistico, Normativa, art. 19 (Tutela e valorizzazione dei laghi lombardi), c. 4.; per l’individuazione cartografica v. Ptr, Piano paesaggistico regionale, tav. D – “Quadro di riferimento della disciplina paesaggistica regionale”; tav. D 1 b – “Quadro di riferimento delle tutele dei laghi insubrici: lago di Como e Lecco”. 18 Ibid. 19 Ptr, Piano paesaggistico, Normativa, art. 19 (Tutela e valorizzazione dei laghi lombardi), c. 10. 20 Vedi Turri E., “Semiologia del paesaggio italiano”, Milano, 1990 (1979), p. XXIV – XXV, nota 17: “Chi scrive premetteva al progetto di una carta sulle «sacralizzazioni paesistiche”, che ha poi rappresentato uno dei supporti fondamentali del Piano paesisti-co – territoriale della Regione Lombardia, quanto segue: «La fruizione del paesaggio come immagine, come realtà vissuta e rappre-sentata, si nutre dell’immaginario collettivo. Esso dà vita a un tessuto di valori che contano, alimenta il filo connettivo che lega l’uomo – abitante al territorio in cui si identifica in quanto individuo e in quanto membro di una collettività. Poiché sono valori rico-nosciuti ed eletti a tale grado attraverso processi culturali, si possono considerare come il risultato di una sacralizzazione del terri-torio, dei suoi siti e dei suoi oggetti, paragonabile a quella che nelle società antiche o primitive, di base religiosa, indicava aree sa-

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1394 Entro questo scenario alla grande scala, dominato dal volo degli idrovolanti21 o dai belvedere come Brunate e il Monte Bisbino22, da cui la vista spazia sui rilievi, sul lago e sulla pianura, ad una scala più ravvicinata, la convalle di Como tra Lario e Baradello23, ha assunto i connotati propri del luogo teatrale, luogo di relazioni più serrate e dai riconoscibili profili delle architetture. E proprio intorno alla metafora del paesaggio inteso come il teatro in cui una comunità vive e si rappresenta, Eugenio Turri ha svolto un’intera narrazione24: “La concezione del paesaggio come teatro sottintende che l’uomo e le società si comportano nei confronti del territorio in cui vivono in duplice modo: come attori che trasformano, in senso ecologico, l’ambiente di vita, imprimendovi il segno della propria azione, e come spet-tatori che sanno guardare e capire il senso del loro operare sul territorio”25, dunque il paesaggio rappresen-ta un’attualità frutto di un progetto e un’azione collettivi e di matura consapevolezza, lontani da un atteg-giamento, che la parola teatro potrebbe adombrare, orientato alla “costruzione di un mondo come scenogra-fia”26, in cui “non ci sarebbe possibilità di scampo per l’uomo, affranto dalla noia mortale che tutte le sce-nografie suscitano, meraviglie di breve durata, estinzione di ogni progettualità, che si esplica invece nel rapporto continuamente rinnovato con la natura e con la storia”27.

cre rispettate (il bosco sacro, la sacra montagna, il grande albero totemico ecc.). Riportata alla società laica di oggi, ai suoi interni meccanismi culturali, la sacralizzazione deriva da processi celebrativi di tipo letterario, scientifico – naturalistico, pittorico, fotogra-fico, narrativo, storico e memoriale di tipo colto o popolare ecc. Riguarda perciò gli elementi tanto della storia naturale quanto del-la storia antropica, specificamente legata alle vicende economico – insediative, politiche, religiose, culturali in senso lato, che si proiettano sul vissuto, lo animano, gli danno un senso, che è poi il senso di identificazione e di appartenenza già richiamato. Questo senso identificativo va considerato come uno dei valori massimi da salvaguardare con la pianificazione paesistico – territoriale…”“ . 21 Vedi Ferrata C., “La fabbricazione del paesaggio dei laghi”, Bellinzona, 2008, pp. 133 – 134. Il tema è così introdotto: “Spostia-moci ora più avanti nel tempo, nei primi decenni del Novecento, e su un altro lago, il lago di Como. Qui si vennero a creare le con-dizioni per un superamento delle esperienze precedenti. Osservati dai «luoghi dello sguardo”, i laghi presentavano le loro labirinti-che forme. Anche se come abbiamo visto dalla fine del Diciannovesimo secolo già ci si poteva avvalere di mezzi meccanici in grado di salire lungo i versanti e raggiungere le sommità, l’osservatore rimaneva vincolato dalle costrizioni della topografia. Ma attorno agli anni Venti si presentò un nuovo tipo di esperienza. Dalle acque del lago di Como avevano iniziato a involarsi gli idrovolanti, futuristici mezzi «anfibi”, mezzi di trasporto e strumenti di piacere e di conoscenza geografica che, innalzandosi dal lago, sorvolava-no le acque offrendo un’inedita veduta. Con il suo idroscalo, già nel 1913 la località lariana si affermò come importante centro a-viatorio”, p. 133. 22 Il documento “Osservatorio paesaggi lombardi” del Ptr – Piano paesaggistico, censisce, insieme ad altre 12 località, Brunate e il Monte Bisbino come belvedere di valenza regionale, definendoli “luoghi significativi e culturalmente consolidati ed attrezzati per la contemplazione di scenari paesaggistici regionali particolarmente suggestivi”. 23 Il limnonimo “Lario” secondo taluni studiosi deriverebbe da una radice preindoeuropea traducibile come “luogo incavato”; l’oronimo “Baradello” potrebbe essere ricondotto al celtico “barrus”, che significa “luogo elevato”. 24 Turri E., “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato”, Venezia, 2003 (1998). L’autore nel presen-tare il proprio metodo di lettura del paesaggio, frutto di un lavoro sul campo di quasi mezzo secolo dedicato al territorio di Caprino Veronese, ha evidenziato la “funzione decisiva” dell’osservazione dall’alto: “Occorre aggiungere che una simile ricerca è nata da una felice circostanza. Il territorio che è stato oggetto dello studio si stende ai piedi di un monte da cui lo si può dominare per intero e che è diventato in certo modo il punto di osservazione privilegiato per assistere allo spettacolo del paesaggio – teatro. In pochi al-tri casi poteva darsi con pienezza la giustificazione di assimilare il paesaggio ad un teatro, anche se i modi di assistere allo spettaco-lo (allestimenti scenografici, cioè opere e interventi sul territorio, recite storiche degli abitanti del passato e del presente) potevano essere molto diversi”, p. 181. 25 Ivi, p. 13. Il passo prosegue: “È evidente che ove mancasse l’uomo che sa guardare e prendere coscienza di sé come presenza e come agente territoriale, non ci sarebbe paesaggio, ma solo natura, bruto spazio biotico, al punto da farci ritenere che tra le due azioni teatrali dell’uomo, l’agire e il guardare, ci appaia come più importante, più squisitamente umana la seconda, con la sua ca-pacità di guidare la prima. Possiamo dire, in altre parole, che è l’uomo che sa emozionarsi di fronte allo spettacolo del mondo, che si esalta al vedere il segno umano dentro la natura, che sente i ritmi di questa e i ritmi dell’umano, è lui che più di altri sa trovare le chiavi giuste per progettare e costruire nel rispetto dell’esistente e nella prospettiva di creare nuovi e migliori futuri”. L’espressione “l’uomo che sa emozionarsi di fronte allo spettacolo del mondo, che si esalta al vedere il segno umano dentro la natura” sembra rie-cheggiare le parole di Adolf Loos dedicate al senso più alto, più pregnante dell’architettura: “Se in un bosco troviamo un tumulo, lun-go sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qual-cuno. Questa è architettura”; v. Loos A., “Parole nel vuoto”, Milano, 1993 (1992), p. 255. 26Turri E., “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato”, cit., p. 12, nota 1. 27 Ibid.

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1395 La lettura del paesaggio diventa allora “un atto ricco di significati , e non è un caso che i paesaggi più vissuti e meglio difesi nelle loro specificità sono quelli degli uomini che meglio sanno dare un significato non sola-mente funzionale, ma anche simbolico e referenziale al loro agire”28. Seguiamo dunque, secondo un percorso tra i tanti possibili, il costruirsi di questo teatro di lago, città e monti dall’età moderna (sec. XVI) alla prima metà del ‘900 attraverso un catalogo per immagini, una breve raccol-ta di interpretazioni d’autore trascelte in un ricco ventaglio29, e commentate da chi più ha indagato il nostro paesaggio, atte a mostrare a parere di chi scrive, tanto più che una restituzione didascalica, senza per questo difettare di perspicuità, il volto del genius loci nel suo divenire storico30. In questa raccolta ritorna infatti più volte la vista della città dal lago, “la più rappresentata nell’iconografia storica”31, che oltre a registrare la novità, come pure prefigurazioni del futuro, quasi a ritmare delle fasi cicli-che32, ferma la città e il suo intorno tra acque e cielo in una dimensione di alterità33, gravitanti – si direbbe – in un ordine simbolico. Vero e forse ineguagliato iconema34 della “piccola capitale lariana”35 fu ed è il Museo di Paolo Giovio36, presto scomparso dall’amena riva del Borgo Vico37 e pure destinato a durare e a diffondere la propria fama lontano dalle sponde del Lario: pensato e voluto dal grande umanista come una sorta di opera totale, dove

28 Turri E., “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato”, cit., p. 167. 29 Sull’argomento vedi Cani F., “Costruzione di un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Nove-cento”, Como, 1993. L’arco temporale individuato, dal XVI secolo al ‘900, è dettato anche dalla disponibilità di rappresentazioni i-conografiche, come rilevata dall’autore dello studio: “Le immagini della città e del territorio stentano ad emergere dai documenti figurativi disponibili all’indagine. Fino all’inizio del XIV secolo non si trova, per il territorio di Como, allo stato attuale della docu-mentazione, una sola immagine che possa essere con sicurezza ricondotta all’intenzione di raffigurare la realtà urbana o territoria-le”, p. 15. 30 Christian Norberg Schulz ha scritto nel suo studio più noto “Genius loci. Paesaggio ambiente architettura”: “ Lo scopo esistenziale dell’edificare (l’architettura) è dunque quello di trasformare un sito in un luogo, ossia di scoprire i significati potenzialmente presen-ti nell’ambiente dato a priori. La struttura di un luogo non è una condizione fissa, eterna; di regola i luoghi mutano e a volte anche rapidamente. Questo non significa tuttavia che il genius loci debba necessariamente cambiare o andare perduto. Dimostreremo in seguito come l’avere luogo presuppone che i luoghi conservino la loro identità per un certo lasso di tempo. La stabilitas loci è una condizione necessaria alla vita umana. Come è dunque compatibile questa stabilità, con la dinamica del mutamento? Va detto in-nanzitutto che ogni luogo dovrebbe avere la «capacità” di ricevere «contenuti” diversi, naturalmente entro certi limiti. Un luogo a-datto ad un solo scopo particolare diventerebbe ben presto inutile. Inoltre è evidente che un luogo può essere «interpretato” in diver-si modi. Proteggere e conservare il genius loci significa infatti concretizzarne l’essenza in contesti storici sempre nuovi. Si può anche dire che la storia di un luogo dovrebbe essere la sua «autorealizzazione”. Ciò che all’inizio era presente come possibilità, viene di-svelato dall’azione umana, illuminato e «preservato” in opere di architettura che sono contemporaneamente «vecchie e nuove”. Un luogo comprende dunque proprietà dotate di un grado variabile di invariabilità”; vedi Norberg Schultz C., “Genius loci. Paesaggio ambiente architettura”, Milano, 1981, p. 18 31 Pandakovic D., “Il paesaggio della città”, in AA.VV., “ Como e la sua storia. L’immagine storica”, a cura di Cani F., Monizza G., Como, 1993, p. 64. 32 Vedi Turri E., “Il paesaggio: il tempo e lo spazio, la storia e la geografia”, in “Opinioni sul paesaggio”, Dispensa del corso per esperti in materia di tutela ambientale Lr. 18/1997 a cura dell’Ordine degli architetti della Provincia di Como, 2000, p. 24 : “Questo duplice atteggiamento dell’agire e del riguardare sembra che si proponga non solo momentaneamente a livello individuale ma an-che storicamente per le società nel loro insieme. In altre parole le società operano, agiscono, trasformano il loro territorio, ma non cessano mai di considerare i risultati del proprio agire, condizione indispensabile per adeguare le loro azioni al procedere storico. Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che nella storia delle società ci sono le fasi delle grandi trasformazioni e le fasi della lettura, della riflessione, delle pause che fanno scoprire eccessi od errori”. 33 La vista dal lago opera il ribaltamento dell’ordine usuale della percezione e trasforma la terraferma in “alterità e orizzonte”, come ci ricorda Claudio Ferrata nel racconto dello sviluppo della navigazione a vapore sui laghi insubrici nei primi decenni dell’800: “Se […] come abbiamo visto, la contemplazione delle acque dalle rive avvenne attraverso l’adozione di specifici dispositivi urbanistici quali passeggiate, quai, giardini, ecc., un precoce inizio della navigazione a vapore mise a disposizione i mezzi tecnici per valorizza-re le acque lacustri. […] Visto dalle sponde, il lago costituiva una sorta di alterità territoriale che partecipava alla definizione dell’orizzonte. Ma, invertendo la dinamica dello sguardo, la riva si trasformava in spettacolo. Le sue sistemazioni, i suoi giardini, i villaggi che si affacciano sulle acque, attraverso lo sguardo dei viaggiatori, divennero oggetto di interesse e di percezione estetica. In un gioco di rimandi, il turista osservava la riva dalla quale era salpato e la terraferma diventava alterità e orizzonte. In questo senso si può affermare che il battello divenne una vera e propria macchina creatrice di paesaggio”. Vedi Ferrata C., “La fabbrica-zione del paesaggio dei laghi”, cit., pp. 117 – 119. 34 Riprendiamo il concetto di iconema dallo studio citato di Eugenio Turri, “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al terri-torio rappresentato”. L’autore così delinea il senso e l’operatività del concetto di iconema: “Nel campo della ricerca di una semioti-ca del paesaggio, a cui si allaccia di necessità una visione come questa, si può arrivare, tra l’altro, ad avvertire la necessità di inda-

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Quadro prospettico del Museo Gioviano (in Gianoncelli M., “L’Antico Museo di Paolo Giovio in Borgovico”, cit., p.19).

gare ulteriormente sulla percezione. In relazione a ciò, ad esempio, sono stato indotto a introdurre la nozione di iconema, che verrà meglio chiarita in uno dei successivi capitoli del libro. Iconema come unità elementare di percezione, come segno all’interno di un insieme organico di segni, come sineddoche, come parte che esprime il tutto, o che lo esprime con una funzione gerarchica prima-ria, sia in quanto elemento che meglio d’altri incarna il genius loci di un territorio sia in quanto riferimento visivo di forte carica semantica del rapporto culturale che una società stabilisce con il proprio territorio”, p. 19; “Nel suo operare la percezione coglie prioritariamente certe immagini, le fissa, le memorizza, ne fa delle immagini portanti dell’intera visione. Queste immagini di cui si compone il paesaggio sono gli iconemi, di cui si è parlato più volte in queste pagine. Iconemi sono in tal senso le unità elementari della percezione: le immagini che rappresentano il tutto, che ne esprimono la peculiarità, ne rappresentano gli elementi più caratte-ristici, più identificativi. Iconema è un segno – nel senso sopraddetto – che, in quanto elaborato e selezionato dal meccanismo per-cettivo, assume valore simbolico e funzionale (il symbolon, frammento rappresentativo del tutto, secondo il significato originario) nella visione del percettore”, p. 170; e ancora “L’iconema […] può essere generico, ripetitivo, leitmotiv caratteristico di un territorio, e può essere elemento proprio, irripetibile, assumendo un ruolo centrale o periferico nel territorio stesso. Ad esempio, iconema pro-prio, irripetibile è la piazza del Duomo a Milano, iconema generico, ripetibile, è la grande cascina delle campagne della Lombardia o la piazza dei paesi che costellano la stessa regione. Ma importante in tal senso è la scala territoriale che si considera”, p. 174. 35 Rumi G., “Como: chiusura e vastità”, in AA.VV., “ Como e il suo territorio”, a cura di Rumi G. et al., Milano, 1995, p. 8.; l’espressione “tradotta” da un altro milanese, Carlo Porta, suona “regia zittaa di missoltitt”. 36 Paolo Giovio (Como 1483 – Firenze 1552), Vescovo di Nocera, erudito, storico, medico, poeta. 37 La villa, che deriva il suo nome dalla grande sala decorata da un dipinto delle Muse e di Apollo, recanti gli strumenti musicali e le altre insegne loro attribuite, ebbe vita breve: edificato a partire dal 1537 e compiuto nel 1543, già al volgere del secolo versava in cat-tive condizioni per via delle ripetute esondazioni del lago, tanto da indurre gli eredi alla vendita nel 1613 a Giov. Battista Vicedomini. L’anno seguente l’acquistò l’Abate Marco Gallio, nipote del Cardinale Tolomeo Gallio, che ne decise la completa demolizione, es-sendo alquanto rovinato, e nel luogo del giardino gioviano iniziò nel 1615 l’edificazione della villa da lui denominata “Gallia”. Que-ste notizie sono state reperite nella monografia di Matteo Gianoncelli, “L’Antico Museo di Paolo Giovio in Borgovico”, Como, 1977. Le stesse raffigurazioni del Museo sono in qualche modo legate alla sua distruzione, come ha rilevato Fabio Cani: “Il vertice di que-ste creazioni – documentazioni erudite è rappresentato dalle vedute del Museo gioviano, di cui non si conosce una sola veduta ripre-sa dal vero ma ben tre ricostruzioni (ed altre certo dovettero esisterne) eseguite subito dopo la sua distruzione, quasi che il suo valo-re di simbolo potesse essere riconosciuto solo dopo la sparizione della sua consistenza fisica”, vedi in Cani F., “Costruzione di un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Novecento”, cit., p. 47.

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1397 l’architettura e il paesaggio giocano il proprio ruolo entro l’ambiziosa messa in scena di un’intera epoca at-traverso i suoi volti38, frutto dell’arte, e la voce del suo privilegiato testimone, il Museo è il primo palco di proscenio di questo teatro39, impresa volta a rinnovare40 la memoria di Caio Plinio Cecilio Secondo41 e l’eccellenza de “La lunata cittade al Lario amica”42. Nella “Musei Ioviani Descriptio”43, l’edificio viene così presentato dal suo ideatore: “La villa è di fronte alla città e sporge come una penisola sulla superficie sottostante del lago di Como che si espande tutto intorno: si protende verso nord con la sua fronte quadrata, e verso l’alto lago con i suoi fianchi diritti, su una costa sabbiosa e incontaminata, e perciò estremamente salubre, costruita proprio sulle rovine della villa di Plinio […] Giù nelle acque profonde, quando il lago, distendendo dolcemente la superficie vitrea, è calmo e tra-sparente, si vedono marmi squadrati, tronchi enormi di colonne, piramidi consunte che prima decoravano l’ingresso del molo falcato, davanti al porto […] Da questa stanza [la sala denominata Museo] si vede quasi tutta la città. Si vedono anche le parti del lago rivolte a nord, con le loro splendide insenature; le coste ver-deggianti, piene di ulivi e di alloro, i colli dove la vite cresce rigogliosa, i monti che danno inizio alle Alpi,

38 “La parte migliore del tesoro artistico del Museo gioviano era costituita dai ritratti degli uomini illustri; per essi infatti il Museo era stato ideato e realizzato. Già abbiamo accennato alla ricca collezione di ritratti che il Giovio aveva raccolto durante la sua per-manenza a Roma, collezione ch’egli continuò anche dopo la costruzione del Museo sollecitando incessantemente ritratti di perso-naggi illustri dalla vasta cerchia delle sue conoscenze e amicizie, come risulta dalle sue lettere”; per avere un’idea del loro numero si consideri che “Nel 1552, vivente ancora Paolo Giovio, il Granduca di Toscana, Cosimo I de’ Medici, mandò a Como Cristoforo dell’Altissimo a copiare dal Museo gioviano i ritratti di molti personaggi illustri «per formare in Palazzo una galleria, che, ampliata in seguito, diventò celebre con il nome di Galleria degli Uffizzi” [cit. Fossati Francesco]. L’Altissimo fermatosi a Como sino all’ottobre del 1556, ritrasse oltre 280 copie «fra Pontefici, Imperatori, Re ed altri Principi, Capitani d’eserciti, uomini di lettere, ed insomma, per alcuna cagione illustri e famosi “ [cit. Vasari Giorgio]”, vedi in Gianoncelli M., “L’Antico Museo di Paolo Giovio in Borgovico”, cit., pp. 27, 49. 39 Una realizzazione quindi “ […] nello spirito propriamente rinascimentale, che sente l’opera architettonica come allestimento tea-trale per la recita dell’uomo nella natura”, vedi Turri E., “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresenta-to”, cit., p. 14. 40 Scrive a riguardo Matteo Gianoncelli: “La fortuna di possedere un immobile in riva al lago, in una delle più suggestive località del Borgo Vico, già caro alla memoria di Plinio Cecilio Secondo, è probabile ch’abbia contribuito a dare forma concreta a un recondi-to desiderio del Giovio di erigere un edificio, che fosse per lui un’oasi di riposo e nel contempo un sacrario di ricordi letterari e arti-stici, dedicandolo a Plinio medesimo e alle Muse col nome suggestivo di Museo. Pure determinante nella realizzazione di tale pro-getto pare sia stata la circostanza, sopra accennata, che in quel luogo, secondo Paolo Giovio, fosse già esistita una villa di Plinio, poiché tale motivo è ribadito nella descrizione del Museo ch’egli ha premesso agli Elogia veris clarorum virorum immaginibus ap-posita (Venezia 1546). A tale proposito si potrebbe rilevare che forse il Giovio, parlando di Villa Pliniana, non abbia inteso alludere a una villa di Plinio nel senso di proprietà, ma solamente alla Villa celebrata da Plinio, così come nel passo sopra ricordato del La-rius ad Franciscum Sfondratum avrebbe accennato al platano di Plinio in quanto venne dal medesimo cantato, e questo non per la poca attendibilità della supposizione gioviana che ivi realmente sia esistita una villa di Plinio (supposizione che se anche non suffra-gata da sicure prove e comunemente non accettata, potrebbe sempre però essere proposta come ipotesi), ma per il fatto che il Giovio fa riferimento a notizie contenute nelle lettere di Plinio relative, non a una villa di proprietà di Plinio, ma di Caninio Rufo, quali il ricordo del «Platanon” e l’accenno all’ «euripus viridis et gemmeus” ”, vedi in Gianoncelli M., “L’Antico Museo di Paolo Giovio in Borgovico”, cit., pp. 6 – 7. 41 Caio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane (Como 61 o 62 d.C. – 112 o 113); ci rimangono le descrizioni delle sue ville sul La-rio: “Parecchie ville ho su le sponde di questo lago, ma due particolarmente mi piacciono e in pari tempo mi danno da fare. Una costruita su le rocce come si usa a Baia, guarda sul lago; l’altra, pure all’uso di Baia, è proprio sulla riva. Perciò io soglio dare a quella il nome di “Tragedia”, a questa il nome di “Commedia”, perché quella è come si reggesse su coturni, questa su socchi. Hanno ciascuna una sua propria bellezza, e l’una e l’altra riescono più gradite al proprietario per la loro stessa diversità. Questa gode il lago più da presso, quella con vista più ampia; questa abbraccia la molle curva di una sola insenatura, quella ne separa due dalla vetta altissima su cui sorge; in questa per lungo tratto su la riva si stende diritto un viale, in quella si svolge con molli curve una spa-ziosissima terrazza; quella non sente le onde, questa le spezza, da quella puoi vedere dall’alto i pescatori, da questa puoi pescare tu stesso, gettando l’amo dalla camera da letto, e quasi anche dal letto, come da una barchetta” (da “Lettere ai famigliari” libro IX, 7, “Lettera a Romano”, traduzione di Guido Vitali, Bologna, 1958 – 59; cfr. anche le lettere al libro I, 3, e al libro II, 8). Da tale descri-zione si desume che i resti rinvenuti presso Lenno appartenessero alla “Commedia”, e che la “Tragedia” fosse situata sulla collina del Balbianello. La nota riprende quella di Ignazio Vigoni al testo “Il lago di Como descritto e illustrato nell’Ottocento da anonimo au-tore”, Milano, 1983, p. 108. 42 Castone della Torre di Rezzonico, “Opere”, tomo II . 43 Vedi nota n. 40.

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1398 ricchi di boschi e di pascoli, ma dove i carri possono transitare. Ovunque ci si volge balza agli occhi un a-spetto della regione inatteso e piacevole, che appaga lo sguardo e non è mai stucchevole”44. Ecco dunque apparire nella tavola a corredo del manoscritto della gioviana Descrizione del Lario45, la minia-tura dell’edificio con la didascalìa “Museum Iovianum”, proteso appunto come una penisola entro le acque del lago, con il promontorio di Geno di fronte, alla destra la città e più lontana la corsa dei rilievi con il coro-namento finale del Castel Baradello. Vediamo come Giovio descrive la città e la convalle a quell’altezza storica, prima tappa di quel racconto del-la morfologia del territorio lariano ripresa dalle acque del lago, percorse in barca: “Quattro monti delimitano una pianura di forma quadrangolare, nella quale, come si può scorgere dall’alto, la città si adagia, assu-mendo una forma assai simile a quella del gambero di fiume. Essa, infatti, con due borghi simili a due chele, Coloniola e Vico, abbraccia il Lario, che vi penetra in un golfo dalla forma di mezzaluna. Dalla parte oppo-sta un sobborgo, che si protende per circa quattro stadi verso sud – est, assume la forma di una coda che si curva leggermente e si distende. Ma dove le strettoie formate dall’incontro dei monti bloccano il cammino, vi sono grandi porte merlate di pietra quadrata a sbarrare gli accessi, e altrettante rocche, poste in posizio-ne strategica sulla sommità, sorvegliano le strade militari. Ad est appare Castel Nuovo, quasi andato in ro-vina per lo sgretolamento ormai completo della roccia su cui è edificato.

Carta del Lario dal manoscrit-to del Larius di Paolo Giovio (particolare; l’originale è con-servato presso la Biblioteca Nazionale Braidense, AE XIV, 16; l’immagine è tratta da Gio-vio P., “La descrizione del Lario”, cit., p. IV).

44 Giovio P. , “La descrizione del Lario”, Milano, 2007 (1559), p. XVII . 45 Il testo vide la luce nel 1537, a pronta soddisfazione della richiesta di una dettagliata relazione sul territorio del lago di Como, a-vanzata dall’amico Francesco Sfondrati, cremonese d’origine, investito nel medesimo anno dall’imperatore Carlo V dei diritti feudali sulla costa orientale del Lario. Nella prima edizione del testo, postuma (Venezia, 1559), fu adottato il titolo di “Descriptio Larii La-cus”, mentre i manoscritti superstiti recano i titoli “Corographia Larii Lacus”, “Larius”, “Larii Lacus”.

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1399 A sud si scorge il Baradello, opera di re Liutprando, rocca famosa poiché fu il carcere dei signori Torriani, sul giogo più alto della via rocciosa che porta in Svizzera. A ovest si trova il castello Carnasino, la cui alta torre è oggi ridotta, a quanto si vede, a colombaia di una villa privata. A nord il Lario, che qui finisce il suo corso, e che perciò si allarga verso la città, come se per effetto della sua vastità i monti fossero stati allonta-nati, viene accolto proprio nella parte della città che si stende ai piedi di tali monti. Entro questo recinto formato dalla cerchia dei monti si estendono, intorno alla città, per alcuni stadi, dei campi, coronati da mes-si eccellenti o resi piacevoli da prati verdeggianti, o fiorenti di giardini deliziosi, e tutti questi offrono graditi spazi per coloro che passeggiano, per i piaceri dell’ozio, per l’ippodromo, per le passeggiate a cavallo. An-che i monti, con le loro vette di modesta altezza, e con la dorsale che degrada fino a confondersi con il pia-no, monti che si possono percorrere in carrozza fino alla cima, dalla costa soleggiata, sono coltivati con vi-gneti e alberi da frutto e ornati da frequenti ville e chiese, mirabilmente riempiono, senza saziarli, gli occhi di quanti li guardano. […] A sinistra per chi salpi da Borgo Vico, dove una volta si trovava il platano om-brosissimo di Plinio celebrato nelle sue lettere (in memoria di lui, e in onore delle Muse e di Apollo edifi-chiamo il nostro Museo, che potrà valersi di una vista gradevolissima), alle pendici del monte Olimpino, che è opposto al porto, si incontrano cinque ville: la Grumello, la Sucota, la Ceresaia, la Tavernola e la Geren-ziana, pressoché equidistanti l’una rispetto all’altra”46. Vero è che “la raffigurazione – nota Fabio Cani – si presenti – ai nostri occhi moderni – tutt’altro che reali-stica. Che il disegno sia stato eseguito sotto la diretta responsabilità del Giovio, il quale cura la realizzazio-ne del manoscritto, non è da mettere in dubbio […]. Quindi imprecisioni e distorsioni non vanno attribuite a ipotetica sciatteria del disegnatore, ma a scelte precise, magari inconsapevoli, dell’autore del testo. In primo luogo colpisce l’approssimazione con cui è delineata la città di Como: un ammasso di edifici disposto a mezzaluna, contornato da una cinta muraria e interrotto al centro da un amplissimo porto. [Tuttavia] si deve rilevare che i tratti non sono affatto casuali: lo dimostra la ricerca di verosimiglianza del Borgo di Porta Torre, completato all’estrema propaggine meridionale dal disegno del portone medioevale che si apriva sul-la strada verso Milano. L’attenzione si direbbe portata a quegli elementi antropici che articolano il territo-rio, e tra questi in particolare alle fortificazioni; tra gli elementi «costruiti» più precisamente individuati so-no, oltre al già citato portone, il Baradello, il castello Carnasino, quello di Musso (perfettamente delineato in miniatura), quello di Monte Barro e il ponte fortificato di Lecco. In questo contesto la città di Como costi-tuisce un elemento di scarso interesse, in quanto estranea al territorio, ad esclusione del porto, che è l’infrastruttura fondamentale per il rapporto tra città e lago”47. Sulla scorta di queste osservazioni, posta attenzione sia alla puntuale descrizione testuale della forma urbis48 come del “recinto formato dalla cerchia dei monti”49 con il Baradello “sul giogo più alto”50, altrettanti ico-

46 Giovio P. , “La descrizione del Lario”, cit., pp. 10 – 12, 17. 47 Cani F., “Costruzione di un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Novecento”, Como, 1993, pp. 22 – 23. Nella nota relativa al passo trascritto, Cani puntualizza: “La precisione della raffigurazione del porto è provata dalla presenza delle due costruzioni a lato dell’ingresso e soprattutto di quella occidentale, la casa delle guardie, distrutta all’inizio dell’Ottocento, ma nota per l’incisione del Mantelli dell’inizio del XIX secolo”. 48 La forma urbis descritta dal Giovio era il risultato del secolare processo di formazione del manufatto urbano a partire dall’epoca romana. L’impianto della Novum Comum di Cesare, tuttora ravvisabile in quello della Città murata, era secondo tradizione impostato sul Decumanus e il Cardo Maximus, con al centro il foro e vicino ad esso il tempio dedicato a Giove. Intorno alle mura cittadine, per un raggio di circa mille passi, si estendeva una zona destinata ai servizi specialistici (quali il brolium, l’arena, le terme, il mercato ecc.) e agli edifici riservati agli abitanti non cittadini (accolae). La fascia adiacente alle mura venne probabilmente predisposta in sincroni-smo con l’impianto stesso della città e pertanto sulla base degli stessi moduli di questa. Sempre nell’ambito dei mille passus erano presenti i borghi di Vico e Coloniola, che crescendo nel tempo e saldandosi al corpo quadrato della città, le conferiranno la forma tipi-ca del granchio e l’appellativo di “urbs cancrina” (cfr. Venosto Lucati, Lo sviluppo della città di Como dalle origini ai nostri giorni, in Economia Lariana, n. 4, aprile 1964, p. 4). Il termine Vico, che si riscontra nelle vicinanze di antiche colonie romane, indicherebbe il luogo di stanziamento delle popolazioni indigene romanizzate e potrebbe risalire alla prima colonizzazione romana, ad opera di Strobone nell’89 a.C.. Coloniola, ricorderebbe la piccola colonia romana fondata da C. Scipione nel 77 a.C. È significativo che en-trambi i borghi risultino cinti da mura fino al XII secolo (cfr. Matteo Gianoncelli, Como e la sua convalle, Comune di Como, Como 1975, pp. 30 – 34). Attorno all’anno Mille, si sviluppò rapidamente lungo la via per Milano un nuovo borgo, detto variamente di Porta Torre, di Milano o di S. Bartolomeo. Questa appendice, prolungata sino alle falde del Baradello, mutò la forma della città da quella di “granchio” in quella di “gambero”. L’età comunale vide la città completamente distrutta dai Milanesi al termine di un’aspra guerra durata dieci anni (1118 – 1127). Prontamente venne ricostruita sulla base delle antiche strutture romane e dotata di nuove mura pro-lungate sino al lago. La Città murata manterrà nei secoli successivi, l’assetto ormai consolidatosi da oltre un millennio.

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1400 nemi del paesaggio locale, qui ci preme sottolineare il rapporto più che privilegiato tra la città e il Lario, che “viene accolto”51 dal porto cittadino, enfatizzato nelle sue dimensioni a significare il sistema storico degli at-tracchi e delle darsene, come quella del Vescovo “dei monti e delle acque”, e porta in dono “l’intero paeag-gio”: “Tutto quello che, destando ammirazione, – scrive ancora Giovio – le pendici coltivate dei monti pro-ducono, tutto quanto di utile all’uomo generano i fitti boschi che, più in alto, le sovrastano, tutto quello che gli armenti producono tra i pascoli dei gioghi alpini che sembrano svettare nel cielo, tutte queste cose il La-rio sottostante, come se fosse un buon servitore, le accoglie e, con agevole trasporto, le elargisce alla città, sua padrona. E infine, con lieto volto sorride ai naviganti il lago, ovunque pescoso, e le sue rive sono orlate di oliveti, di vigneti, di macchie d’alloro e di boschetti di agrumi”52. Per avere un’idea della vista della città dal Museo gioviano, possiamo affidarci all’incisione di Jan Jansson inserita nel “Theatrum celebriorum urbium Italiae”, edito ad Amsterdam nel 1657: la patria dei Plinii, come da intitolazione, è ripresa frontalmente ponendo il punto di vista quasi all’altezza delle acque del lago; si trat-ta di “un unicum, proprio in quanto visuale radicalmente differente rispetto al modello codificato della as-sonometria o prospettiva a «volo d’uccello»”53, e “nonostante sia chiaramente basata su schizzi ripresi dal vero (come testimonia la precisa raffigurazione del complesso Duomo – Broletto – Castello) e presenti un’immagine fedele di Como, resta senza seguito fino ad Ottocento inoltrato”54.

Jan Jansson, Comum duorum Pliniorum patria (incisione, da “Theatrum celebriorum urbium Italiae”, Amsterdam 1657 ca.; l’immagine è tratta da Cani F., “Costruzione di un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Nove-cento”, cit., fig. n. 33). La stessa immagine è stata ripresa di lì a poco, sempre in ambiente nordico, da Pieter Sluyter per comporre il frontespizio di uno dei tomi della raccolta “Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae” , dedicata alle ve-stigia e alla storia d’Italia. Si direbbe che non a caso sia stata scelta questa veduta della città, fin dall’epoca romana uno dei principali crocevia55 per chi aveva valicato le Alpi alla volta della penisola, e che la stessa, ripresa appunto da nord e

49 Giovio P. , “La descrizione del Lario”, cit., p. 11 50 Ibid. 51 Ibid. 52 Ivi, p. 10. 53 Cani F., “Costruzione di un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Novecento”, cit., p. 49. 54 Ivi, p. 37. 55 L’importanza strategica della città e della via d’acqua lacustre lungo l’itinerario nord-sud andò vieppiù accrescendosi, tanto che all’epoca di Diocleziano e Massimiano (288-289 d.C.) “[…] sul Lario fu insediata una delle principali flotte imperiali, con tanto di super-ammiraglio, il praefectus classis cum curis civitatis, cui fu demandato il servizio di posta imperiale (cursus publicus), con tutte le attività fiscali, ispettive e di trasporto ad esso collegate, nonché il governo della città (curae civitatis). Per capirne fino in fondo l'importanza si consideri che i funzionari di questo tipo erano solo due in tutto l'impero: uno a Como, l'altro a Ravenna!”; cfr. in Lu-raschi G., “Storia di Como Romana e del suo territorio” in La Provincia di Como, Como 2002, p. 27. Il testo è riportato nella Parte III del Piano delle Regole come pure, sempre del medesimo autore, lo studio specifico “Il praefectus classis cum curis civitatis nel quadro politico e amministrativo del basso impero” e il saggio “Via Regina: inquadramento storico”dedicato all’itinerario via terra.

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1401 separata dall’osservatore dallo specchio lacustre, sia stata inquadrata entro il fornice di una porta sormontata dalla statua allegorica del Lacus Larius, rappresentato secondo il canone classico56 come i grandi fiumi dell’antichità (Nilo, Tevere ecc.) ed elevato quindi al loro rango. Nella figurazione si danno alcune varianti, tra queste, in luogo della cornucopia, troviamo un’anfora cui si appoggia la figura semisdraiata, dalla quale si versa l’acqua raccolta da un vaso dell’abbondanza, perfetta traduzione del passo gioviano dedicato alle acque del lago apportatrici di ricchezza e benessere; possiamo notare inoltre, che il basamento di pietra recante la scritta “LACUS LARIUS”, sorregge la base di una co-lonna classica spezzata, evidente vestigia della grande Como dei Plinii “risplendente di marmo (il suo mar-mo di Musso)”57, trasportato via acqua dall’alto lago per edificare i grandi edifici pubblici della città.

Pieter Sluyter, Veduta allegorica della città di Como (incisione di Jan Goeree, da “Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae”, Pieter van der Aa, Leida 1704; l’immagine è tratta da AA.VV., “Como e la sua

56 “La statua [corrisponde] alla tipologia della divinità fluviale nota dalla statutaria greca e dalle monete romane: una figura ma-schile barbuta, nuda salvo per il drappeggio che [allude] all’acqua corrente, recante (dettaglio fondamentale nell’iconografia clas-sica) la cornucopia, il corno dell’abbondanza che Ercole aveva strappato ad Acheloo”, vedi in Schama S., “Paesaggio e memoria”, Milano, 1998 (1997), p. 285. 57 Luraschi G., “Storia di Como Romana e del suo territorio” in “La Provincia di Como”, Como 2002, p. 16.

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storia. L’immagine storica”, a cura di Cani F. e Monizza G., Como, 1993, p. 46)

Nel complesso l’allestimento, che può ricordare gli archi trionfo e gli apparati scenografici approntati nelle città rinascimentali e barocche per celebrare eventi o visite di ospiti illustri, il gran teatro della città, suggeri-sce qui l’idea di un teatro del paesaggio, con la via d’acqua a far luogo di strada principale – come era nei fatti del resto – degno ingresso al Bel Paese58. Invero, manca ancora un tassello importante nel panorama cittadino fin qui descritto: la cupola a coronamen-to della fabbrica del Duomo, che con la sua facciata gotica e la sua mole già domina il compatto tessuto della Città murata; si tratta dell’iconema che si affermerà nell’immaginario collettivo nei secoli a venire, con il Ca-stel Baradello a far da contrappunto. Per introdurre le immagini successive facciamo dunque un balzo in avanti di tre secoli, l’opera della Catte-drale già compiuta, con la patina dei secoli trascorsi, nel commento di Darko Pandakovic che “legge” l’album fotografico realizzato nel 1910 – 1911 dall’architetto Federico Frigerio con Riccardo Piatti: “Lo stu-pore che trasmette l’album […] induce ad indagare sui diversi temi che il documento storico può comunica-re, a distanza di quasi un secolo dai giorni in cui veniva realizzato […] la città, nelle forme che aveva all’inizio del secolo ventesimo, pulsa in questa lontananza di tempo e, quasi fosse per noi la messa in scena di una produzione cinematografica, notiamo l’acciottolato e le passatoie in pietra davanti alla facciata del Duomo, fin dalla prima fotografia, con quel groviglio di fili elettrici per l’illuminazione cittadina. Acciottola-to che ricompare nel fianco sud, con la pavimentazione tutta in pietra che passa sotto il Broletto (foto 29), per riprendere a ciottoli grossi nella piazza, con passatoie di pietra e binari del tram.

Filippo Juvarra, Prospetto di tamburo, calotta e lanterna (primo progetto). Datato 5 aprile 1731 (in AA.VV., “ Il progetto della cupola del Duomo di Como”, cit., p. 97)

Filippo Juvarra, Prospetto del tamburo, della ca-lotta e della lanterna (secondo progetto). Databi-le al 1732 (in AA.VV., “Il progetto della cupola del Duomo di Como”, cit., p. 109)

58 “La metafora dell’Italia come il «Il Bel Paese / ch’Appenin parte, e ‘l mar circonda e l’Alpe” (dal Sonetto XCVI, In vita di Madon-na Laura di Francesco Petrarca) ha avuto fortuna nei secoli”, vedi in Dal Sasso A. e Pandakovic D., “Saper vedere il paesaggio”, Novara, 2009, p. 11

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1403 Sul fianco sud ancora ciottoli e bel disegno di passatoie (foto 40), ma l’immagine più suggestiva di quella Como di pietra è dalla parte dell’abside (foto 44) dove sulla grande superficie vuota degnamente si elevano i poderosi volumi rinascimentali, comprensibili ed apprezzabili nella loro razionalità e solidi come teoremi, in maniera mai più raggiunta nei successivi adattamenti della piazza, ridotta vieppiù da esigenze funzionali e aiuolette decorative. La Cattedrale, nei marmi bianchi (pietra di Musso, trasportata fin dal XV secolo con i comballi dall’alto lago e non pietra di Moltrasio di cui era costruita l’architettura corrente della città) si staglia sulla superficie piana della “rizada” composta da pietre differenti, di colori e toni diversi: un’ambientazione molto più vicina alla situazione originaria del Duomo, in cui permaneva il carattere mon-tano della città e dell’architettura che anche l’architetto Juvara aveva intuito e sostenuto inizialmente nei progetti per la Cupola: il primo e il secondo progetto esaltavano infatti la materialità litica dell’architettura, interpretando Como quale città alpina, più vicina ai centri montani d’oltralpe”59. Notazione decisiva quest’ultima, sulla costante presenza della pietra sapientemente lavorata e impiegata, per cercare di afferrare quella che doveva essere stata la percezione diffusa della città60 e la sua “atmosfera”, in cui continuava a vivere la memoria dei Plinii e di Benedetto e Paolo Giovio: “Un grande impegno di docu-mentazione – scrive ancora Pandakovic – è dedicato ai podi dei due Plini. La vicenda di come le sculture dei due personaggi pagani dell’antichità classica siano sulla facciata del Duomo è nota. Ma riprendiamo quelle motivazioni con le parole del Frigerio: «Il gesto coraggioso e generoso dei Comaschi di voler esaltati sulla fronte della loro Cattedrale due grandi figure di antichi concittadini è giustificato dal tempo in cui fu matu-rato. Siamo al colmo della fioritura umanistica che indubbiamente rimise in onore tanto paganesimo in tan-te cose dell’arte, sovratutto, in pieno cristianesimo cattolico e col consenso benevolo, talora anche per im-pulso di qualche Pontefice imbevuto di classici studi e indulgente verso il culto della forma, dell’arte portata allora a tanta altezza sugli esempi dell’antichità. Due insigni umanisti avevano in quel tempo, e non solo a Como, fama e autorità: Benedetto e Paolo Giovio, che furono tra i primi che raccogliessero appositamente documenti dell’arte e del pensiero della romanità risorgente in tante opere insigni»61. Frigerio ha profon-damente sentito il fascino dei due antichi comaschi, emblemi di cultura, sintesi dello scibile, emblemi di in-ternazionalità”62. Ritornando agli studi di Juvarra per la cupola, Maria Letizia Casati rileva a margine del primo progetto: “Dal momento che la vicinanza delle montagne consente una visione dall’alto della città e del lago, non si può e-scludere anche una motivazione paesaggistica nella scelta del coronamento ad anelli concentrici, richia-manti il sistema di propagazione del moto ondoso sulla superficie dell’acqua”63. Il motivo suggerisce un’interessante lettura, portando l’attenzione sulla scala degli elementi del paesaggio e dei reciproci rapporti dimensionali.

59 Pandakovic D., “Saper vedere nel 1910”, in “ Il Duomo di Como nelle fotografie di Federico Frigerio e Riccardo Piatti 1910”, a cura di Dominioni A., Como, 2004, pp. 19 – 20. Un recente intervento di sistemazione di Piazza Verdi, ci consente oggi di recupera-re in parte la libera visione delle absidi del Duomo (rispetto al quadro storico, nuovo è il cromatismo della pavimentazione in porfido rosso del Trentino). 60 In ordine ai cambiamenti intervenuti, si consideri ad esempio che “la città storica di Como sorta con i tetti in pietra [piode] è oggi caratterizzata da tetti in cotto”, vedi Pandakovic D., “Paesaggio sintesi complessa”, in “Opinioni sul paesaggio”, Dispensa del corso per esperti in materia di tutela ambientale Lr. 18/1997 a cura dell’Ordine degli architetti della Provincia di Como, 2000, p. 20. Sulla città settecentesca, ci ha lasciate alcune note un pastore protestante di Zurigo, venuto a Como per incontrare Alessandro Volta; nel suo diario di viaggio, dell’intorno scrive “Le colline circostanti hanno vigneti nella parte inferiore e più in alto dei pascoli erbosi op-pure fitti castagneti che attirano piacevolemente lo sguardo”; dopo aver lodato il selciato “sul quale le carrozze rotolano senza scos-se, perché nei punti in cui passano le ruote, scavando dei solchi, sono collocate delle lastre di pietra” (le passatoie sopra descritte da Pandakovic), annota “La città non sembra molto popolata: con le sue dimensioni potrebbe ospitare un numero molto maggiore di persone; in certe lunghe vie spesso non si incontra nessuno. Le vie sono tutte tortuose, strette e buie, perché la maggior parte delle case è costruita in pietra nerastra, simile al marmo, che dà un’impressione di mestizia” (si tratta della pietra di Moltrasio); apprezza l’ospedale pubblico “che fa onore alla città” mentre è deluso dal Duomo, “Si tratta di un edificio fatto tutto di pietre quadre, in parte gotico e tetro; eccettuati alcuni lavori di scultura sparsi internamente ed esternamente e molti sepolcri, ha poco di notevole”, vedi in Brevini F., “Voci di Lombardia”, Milano, 2008, p. 70. 61 Frigerio F., “Il Duomo di Como e il Broletto”, Como, 1950, p. 332. 62 Pandakovic D., “Saper vedere nel 1910”, cit., p. 27. 63 AA.VV., “ Il progetto della cupola del Duomo di Como”, a cura di Casati M.L. e Della Torre S., Como, 1996, p. 96.

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1404 Agli inizi dell’Ottocento, la riva del Borgo Vico è il perfetto allestimento di “una civiltà di ville e giardini”64 nel momento del suo massimo splendore, non manca nulla per la serena contemplazione di un paesaggio ec-cezionale, neppure un antichisimo olmo65, degno di autonoma rappresentazione per la maestosità accresciuta dalla cornice naturale e per le reminiscenze classiche, sotto cui sedere e lasciar vagare lo sguardo: “Giunti eravamo frattanto all’antichissimo olmo, – racconta il viaggiatore e scrittore Davide Bertolotti – innanzi alla magnifica Villa Odescalchi, ov’è una gran sala, con ingenti spese adornata. Sotto quell’annosa pianta che sorge ove forse sorgea l’ombrosissimo platano rammentato da Plinio, una mano cortese ha posto un sedile di pietra sul quale ci riposammo. Noi avevamo il borgo di Vico e la lunata Como a diritta, mentre a sinistra si schieravano la villa d’Este, Pizzo, Urio e Carate, ove gira il lago, ed il promontorio di Torno che stenden-dosi vieta allo sguardo di penetrare più oltre. Dirimpetto a noi era la sponda manca del lago, con Blevio e Geno ed il sobborgo di S. Agostino”66.

Peter Birmann o Joseph Rebell, L’Olmo. Passeggio vicino a Como, in alto, Veduta del Borgo di Vico presso Como, in basso (acqua-tinte di Heinrich Adam, Artaria & Comp., Vienna 1808 – 1820 ca.; le immagini sono tratte da AA.VV., “LARIUS. La città ed il lago di Como nelle descrizioni e nelle immagini dall’antichità classica all’età romantica”, a cura di Miglio G. et al., Milano, 1959, LIII 4,5) 64 Rovi A., “Una civiltà di ville e giardini”, in “Storia di Como. Dall’età di Volta all’Epoca Contemporanea (1750 – 1950)”, Como, 2004. Il testo è presentato integralmente anche nella Parte III del Piano delle regole. 65 A sua memoria oggi rimane la denominazione di Villa Olmo, come del Museo gioviano l’omonima via lì presso. 66 Bertolotti D., “Viaggio al Lago di Como”, Milano, 1998 (1821), p. 17.

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1405 Tutto è pronto per un grande avvenimento corale, perché la scena si animi: un’occasione è la visita a Como dell’imperatore Ferdinando I nel 1838, con al seguito l’artista ufficiale di corte Eduard Gurk incaricato di fis-sare i momenti salienti di quel viaggio nel Regno Lombardo Veneto. La stampa celebrativa67 restituisce la festa notturna con ricchezza di particolari: è tutto il grande anfiteatro a partecipare, dalle acque del lago animate dai fuochi artificiali e dalle luminarie delle barche allegoriche alle-stite dalle varie comunità del Lario, a tutto il crinale dei monti acceso dal rincorrersi dei fuochi, alla sagoma del Duomo lumeggiata dai bagliori contro il fondale scuro. Qualche decennio più tardi (1927), sarà ancora l’architettura neoclassica delle ville del Borgo Vico, iconema ormai consolidato, a dettare il tono delle realizzazioni del Tempio Voltiano dell’architetto Federico Frigerio, omaggio di gusto palladiano al grande scienziato nell’anno del centenario della morte, e dello stadio dell’architetto G. Greppi, intitolato al campione di canottaggio ed eroe di guerra Giuseppe Sinigaglia.

Eduard Gurk, litografo Franz Wolf, Festliche Beleuchtung m Comer See, litografia, Vienna 1838.1839 ca (in Cani F., “Costruzione di un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Nove-cento”, cit., fig. n. 64)

Entrambi i progetti sono concepiti secondo misura e rispondono all’afflato del contesto: il Tempio è colloca-to nell’ampia “Rotonda” panoramica terminale del “Passeggio pubblico” ottocentesco, lo stadio, cui viene destinata una vasta porzione del Praa Pasquée, è calibrato tenendo conto sia delle esigenze funzionali quanto, se non soprattutto, degli aspetti percettivi: “Nell’insieme, un’attrezzatura efficiente, – scrive Alberto Longatti – ma destinata ad un pubblico di non grande portata, in rapporto ad una città che non raggiungeva i cin-quantamila abitanti. Ma l’architetto, come osservava giustamente l’anonimo autore di un opuscolo pubbli-cato per l’occasione, dovette affrontare un problema che andava oltre l’idoneità delle strutture: la colloca-zione dello stadio «nel punto più bello di una città in riva al lago, in un anfiteatro di monti verdeggianti, ri-denti di ville e giardini». Occorreva quindi, proseguiva il commentatore «che l’insieme delle nuove costru-zioni non deturpasse questa armonia» e che non avesse dimensioni, specie in altezza, tali da togliere «agli

67 “L’opera di Gurk appartiene alla diffusa tipologia di stampe celebrative, che sembrano in gran parte costruite sul repertorio più abusato di elementi di genere e di fantasia. Al contrario, il pittore di corte è realmente presente in città (dove alloggia in una casa di piazza Roma, secondo la testimonianza della stampa dell’epoca) e le molte barche allegoriche rappresentate sono una registrazione abbastanza fedele di quelle realmente allestite dalle varie comunità del Lario in onore dell’imperatore in visita a Como”, vedi in AA.VV., “ Como e la sua storia. L’immagine storica”, a cura di Cani F. e Monizza G., Como, 1993, p. 348.

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1406 spettatori delle gare polisportive lo spettacolo meraviglioso dei monti, del lago azzurro» ovvero «quello spettacolo incomparabile che i Greci sapevano dare ai loro teatri all’aperto»”68.

Baldassare Longoni, Il comballo, 1927 (?) (in Cani F., “Costruzione di

un’immagine. Como e il Lario nelle raffigurazioni storiche dal Medioevo al Novecento”, cit., fig. n. 110)

È quindi la volta dell’architettura razionalista ad affacciarsi alla riva: il disegno di Cesare Cattaneo restituisce una sintesi – montaggio del teatro “aggiornato” agli anni ‘30 del ‘900, con le nuove costruzioni e le nuove forme, e rende esplicita la volontà di collocarle e di collocarsi69 nel solco della grande tradizione dei Magistri Comacini e della costruzione storica del paesaggio della convalle, allineando gli iconemi di Porta Torre (an-no 1192) e del santeliano Monumento ai Caduti (anno 1932) a legare ancora una volta acque e terra entro la cornice dei rilievi dominati dalla svettante torre del Castel Baradello. Alessandra Muntoni ha rilevato 70 in merito alla ribadita continuità con i Magistri Comacini, con Sant’Elia: “Cesare Cattaneo lo scriverà più tardi, ma è chiaro che lo ha ben presente negli anni di cui stiamo parlando [1932]: «Infine, un fatto di importanza forse più profonda – scrive Cattaneo nel 1938 – ha attratto su Como l’attenzione nazionale e anche internazionale: la nuova architettura che coi nomi emergenti di Sant’Elia, di Terragni, di Lingeri ha continuato la tradizione costruttiva comacina. Risultato che dovrebbe inorgoglire una città, come di un riconoscimento della sua possibilità di avvenire»71”.

68 Si veda il testo “Tra Eclettismo e Razionalismo”, capitolo IV “La crisi del sistema eclettico”, presentato nella Parte III del Piano delle regole. 69 Il tema suggerisce di ampliare questa trattazione ponendo in relazione i valori espressi nell’arco dei secoli e il milieu culturale e artistico comasco di quegli anni, che dai primi fece discendere la lezione spirituale, esemplata nel numero unico della rivista “Valori primordiali” (1938), per la creazione architettonica e artistica contemporanee. Figura chiave di quella operazione culturale, fu Franco Ciliberti (Laglio, Co 1905 – Como 1946), teosofo e studioso di filosofie orientali; per approfondimenti si vedano anche: “Franco Ci-liberti. Un teosofo tra i razionalisti”, Cernobbio, 2006; Di Salvo M., “Lo spazio armonico”*, Como, 2010 (1987), il titolo * è quello coniato da Alberto Longatti per la mostra “Architettura razionalista e pittura astratta a Como, anni 20 – 40”, tenutasi nella ex Chiesa di San Francesco a Como nel marzo 1978. 70 Muntoni A., “I due progetti di Cesare Cattaneo per i Littoriali del 1934 e del 1935”, in AA.VV., “ Cesare Cattaneo e i Littoriali della Cultura e dell’Arte 1934 e 1935” – “Quaderno dell’Archivio Cattaneo”, n. 4, Cernobbio, 2008, p. 49. 71 C. Cattaneo, Dedicata al “comasco al cento per cento”, Lettere aperte, in “Il Broletto”, n. 25, gennaio 1938, ACC.

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1407 Infine siamo “al colpo di teatro”, all’ardita soluzione progettuale proposta da Giuseppe Terragni per la rico-struzione del quartiere Cortesella, un tentativo di ricomposizione del paesaggio che deve far riflettere sulle gerarchie che lo strutturano e ne determinano l’armonia e l’equilibrio; leggiamo le considerazioni in merito di Giancarlo Consonni e Graziella Tonon: “[…] un altro studio di Terragni (poi non raccolto nella versione definitiva presentata con Cattaneo: una visione a volo d’uccello di piazza Cavour in cui viene saggiata la possibilità di estendere ulteriormente la permeabilità nord – sud, così da porre più direttamente il lago a fondale delle sequenze visive.

Cesare Cattaneo, bozzetto per un manifesto: Città di Como, prestito di 9 milioni, 1932, ACC (in AA.VV., “Cesare Cattaneo e i Littoriali della Cultura e dell’Arte 1934 e 1935” – “Quaderno dell’Archivio Cattaneo”, cit., p.18). Nella nota in alto a destra in colore rosso si legge: “COMO CHE SI RINNOVA _ IL NUOVO OSPEDALE_ LA SISTEMAZIONE DEL COSIA _ IL MERCATO COPERTO _ IL MONUMENTO AI CADUTI _ LA SEDE DEI CANOTTIERI _ LA STRADA AL BARADELLO _ LE CASE OPERAIE”.

La propensione a osare, che sempre preme in Terragni come in Cattaneo, non approda tuttavia agli sbocchi felici che entrambi sanno trovare nel singolo organismo architettonico (peraltro senza mai ripetersi e con una naturalezza che appare istintiva, ma che tale non è). Lì dove è posta, la maxistruttura vuole essere qual-cosa di più: un gesto unico e risolutivo; e insieme sublime. Uno di quegli interventi – un esempio su tutti: la cupola brunnelleschiana – che, nell’istituire un dialogo con l’intero corpo della città storica le fanno fare un salto di qualità. Ma, diversamente dalla Casa del fascio che non ruba la scena al Duomo mentre si avvan-taggia del rapporto con il monumento e con il variegato intorno, in questo progetto per la Cortesella la pe-rentorietà del gesto è pari al suo fallimento. Si fa sentire negativamente la riduzione della complessità del tessuto urbano operata nelle fabbriche basse, tutte adibite ad attività terziarie. Ma ancor più discutibile è l’alterazione del profilo compatto della città murata, prodotta dall’imposizione del corpo est – ovest destina-to ad abitazioni: una ‘trave’ vistosa, poggiata sulla serie dei sette edifici per uffici, che pretende di contende-re al Duomo la funzione di primario cardine urbano senza averne l’autorità. Di fronte al colpo di teatro dei due razionalisti, si può immaginare lo sconcerto degli altri membri della commissione”72.

72 Consonni G. e Tonon G., “Terragni inedito”, Cremona, 2006, p. 126.

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1408

Giuseppe Terragni, Studio per la ricostruzione del quartiere Cortesella, 1937. Veduta a volo d’uccello (in Con-sonni G. e Tonon G., “Terragni inedito”, cit., p. 125)

Alle soglie del presente il volto della città suscita più che sconcerto, disincantate letture, quale più debitrice ad un sentimento di affezione che sfuma i contorni, “la Spina Verde ci ha salvato da una possibile città magmatica; a Como possiamo ancora guardare i profili delle colline e la cupola del Duomo, fulcro della struttura del paesaggio, sintesi dell’idea di città che portiamo dentro nella memoria individuale e mito della memoria collettiva”73, quale più analitica e riflessiva, “rimane la vista della città dal lago, la più rappresen-tata nell’iconografia storica: non è certo più quell’esclusivo dominare della cupola del Duomo; vi sono ora altri volumi incombenti sul fronte del lago, vi è un addensamento che aggredisce i pendii e avvilisce i rap-porti calibrati tra costruire e respirare la natura. Non prevale, come in altre località lariane, il tono della belle époque, degli alberghi eclettici e delle passeggiate a riva, né quello della tecnologia moderna ed effi-ciente di alcuni affacci lacustri svizzeri. La città si specchia nel lago con le sue scelte contradditorie, diverse

73 Tajana C., “La memoria dell’immagine urbana”, in AA.VV., “ Como e la sua storia. L’immagine storica”, a cura di Cani F., Mo-nizza G., Como, 1993, p. 51.

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1409 vie di sviluppo perseguite senza una solida intesa collettiva, la sola che possa dar luogo a una cultura figu-rativa comune che forma e trasforma il paesaggio”74. La “possibilità di avvenire” di Cesare Cattaneo non può che essere ancora una volta cercata nei segni fonda-tivi che hanno generato questo paesaggio e nella serrata dialettica del nuovo, come nella grande stagione arti-stica tra le due guerre75, perché “progettare fuori dai riferimenti che hanno valore sacralizzante […] è ope-rare fuori dalla dimensione tempo, fuori dalla storia”76. «… un altro spettacolo mirabile si può godere dal greppo di Brunate: l’accendersi dei lumi serali sulla città di Como. È una vista entusiasmante. La città, il lago, i monti, il cielo, tutto è sparito, sprofondato nella notte nera: solo vive sulla pianura quell’immensa epopea di lumi. Lumi a distesa, su per le valli, lungo il lago, nel-la città, a miriadi, e qua aggrappolati nelle vie e nelle piazze, là disposti in fila lungo le sponde, qua mar-cianti solitari verso la cima d’un colle, là sperduti nella notte dei monti come i lumini della leggenda…»77

Carlo Linati

74 Pandakovic D., “Il paesaggio della città”, in AA.VV., “ Como e la sua storia. L’immagine storica”, cit., p. 64. 75 È il tema portante dello scritto “Tra Eclettismo e Razionalismo”di Alberto Longatti, , presentato nella Parte III del Piano delle rego-le. 76 Turri E., “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato”, cit., p. 22. Régis Debray scrive della nostra contemporaneità: “Non è che la volontà d’arte e di paesaggio abbia capitolato. Al contrario, è più forte che mai, se si considerano le nostalgie. Ed è proprio lì il punto dolente: serve ormai una volontà meticolosa, per rianimarne i contorni, restaurarne i prestigi, per-ché essi hanno lasciato la prosa del quotidiano e l’istintivo delle pupille”; vedi in Debray R., “Vita e morte dell’immagine. Una sto-ria dello sguardo in Occidente”, Milano, 1999, dal paragrafo il “Il dopo – paesaggio”, p. 165. 77 Linati C., “Sulle orme di Renzo ed altre prose lombarde”, Milano, 1927, p. 190.