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Bimestrale dellʼUAAR n. 3/2010 (69) 2,80 ISSN 1129-566X BAU BAU ... CIP CIP ... CIAO CIAO UAAR – Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti Bimestrale – Poste Italiane s.p.a. – Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Firenze n. 3/2010 (69)

3 n BimestraledellʼUAAR n.3/2010(69) 2,80

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Bimestrale dellʼUAARn. 3/2010 (69)€ 2,80

ISSN 1129-566X

BAU BAU ... CIP CIP ... CIAO CIAO

UAAR – Unione degli Atei e degli Agnostici RazionalistiBimes

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2 n. 3/2010 (69)

“LʼATEO” È IN VENDITA ANCHENELLE SEGUENTI LIBRERIE

FeltrinelliAncona: Corso Garibaldi 35Bari: Via Melo da Bari 119Bologna: Piazza Ravegnana 1Brescia: Via Mazzini 20Ferrara: Via Garibaldi 28-30Firenze: Via de’ Cerretani 30-32/RGenova: Via XX Settembre 231-233/RMilano: Via Foscolo 1; Via Paolo Sar-

pi 15; Corso Buenos Aires 33; ViaManzoni 12

Modena: Via Cesare Battisti 17Napoli: Via Santa Caterina a Chiaia 2Padova: Via San Francesco 7Palermo: Via Maqueda 395/399Pescara: Corso Umberto I 5-7Pisa: Corso Italia 50Roma: Via V. Emanuele Orlando 81;

Largo di Torre Argentina 5/ASiena: Banchi di Sopra 52Torino: Piazza Castello 19Venezia: Centro “Le Barche” di

Mestre, Piazza XXVII Ottobre 1

RinascitaEmpoli (Firenze): Via Ridolfi 53Roma: Largo Agosta 36; Via delleBotteghe Oscure 2

Altre librerieCampi Bisenzio (Firenze): Edicola-

Libreria c/o Centro commerciale“I Gigli”, Via S. Quirico 165

Catania: Libreria Gramigna, ViaS. Anna 19

Cossato (Biella): La Stampa Edico-la, Via Mazzini 77

Firenze: Libreriacafé “La Cité”,Borgo San Frediano 20r; LibreriaCuculia, Via dei Serragli 1-3r

Genova: Assolibro, Via San Luca58/R; Libreria Buenos Aires, Cor-so Buenos Aires 5/R; Libreria Fi-nisterre, Piazza Truogoli di SantaBrigida 25

Lecce: Libreria Icaro, Via Liborio Ro-mano 23; Libreria Officine Cultu-rali, Via Palmieri/Falconieri

Livorno: Libreria Gaia Scienza, ViaDi Franco 2

Martano (Lecce): Atahualpa, ViaSalvatore Tronchese 32

Napoli: Libreria-Caffè “Lontano dadove”, Via Vincenzo Bellini 3

Ragusa: Società dei Libertari, ViaG.B. Odierna

Reggio Emilia: Libreria del Teatro,Via Crispi 6

Roma: Libreria “Odradek”, Via deiBanchi Vecchi 57; Antica LibreriaCroce, Corso Vittorio Emanuele II156/158

Scandicci (Firenze): Centrolibro,Piazza Togliatti 41

Vicenza: Libreria Librarsi, Contra’delle Morette 4

Vittorio Veneto (Treviso): LibreriaFenice s.a.s., Viale della Vittoria 79

Viterbo: Libreria dei Salici, Via Cai-roli 35

L’ATEO n. 3/2010 (69)ISSN 1129-566X

EDITOREUAAR – Via Ostiense 89

00154 RomaTel. 065757611 – Fax 0657103987

www.uaar.it

DIRETTORE EDITORIALEMaria Turchetto

[email protected]

REDATTORE CAPOBaldo Conti

[email protected]

GRAFICA E IMPAGINAZIONEEdizioni Polistampa

DIRETTORE RESPONSABILEEttore Paris

REGISTRAZIONEdel tribunale di Padovan. 1547 del 5/12/1996

Per le opinioni espressenegli articoli pubblicati,

L’Ateo declina ogni responsabilitàche è solo dei singoli autori.

L’Ateo si dichiara disponibilea regolare eventuali spettanze perla pubblicazione di testi, immagini,o loro parti protetti da copyright,

di cui non sia stato possibilereperire la fonte.

Contributi e articolida sottoporre per la pubblicazione,

vanno inviati per e-mail [email protected]

oppure per posta ordinaria aBaldo Conti

Redazione de L’AteoCasella Postale 755

50123 Firenze CentroTel. Fax: 055711156

Distribuzione alle librerie Feltrinelli:Joo Distribuzione

Via F. Argelati 35 – 20143 Milano

STAMPATOMarzo 2010 – Polistampa s.n.c.Via Livorno 8 – 50142 Firenze

COMITATO DI REDAZIONE

Marco [email protected]

Andrea [email protected]

Francesco D’[email protected]

Alba [email protected]

Federica Turriziani [email protected]

COLLABORATORI

Raffaele [email protected]

Luciano [email protected]

Fabrizio [email protected]

Fabio Milito [email protected]

Carlo [email protected]

In copertina: Maurizio Di Bona (www.thehand.it)Nell’interno vignette di: pag. 3, 29: ENTJ (caosdeterministico.blogspot.com);pag. 4: Enzo Apicella (da Liberazione); pag. 6: Dànilo Mainardi; pag. 16: Fabio “Fifo”Pecorari; pag. 19: Moise; pag. 26: Mauro Biani; pag. 28: Vukic; pag. 31: Gianni Cari-no (da Rainews24); pag. 33: Erkki Alanen (da Riposte Laïque); pag. 35: Danilo Mara-motti (da l’Unità); pag. 36: Sergio Staino (da l’Unità); pag. 38: Roberto Mangosj (dawww.crepapelle.blogspot.com).

L’ARCHIVIO DE “L’ATEO”È ORA ON LINE

Segnaliamo di aver messo adisposizione, liberamente sca-ricabili (www.uaar.it/uaar/ateo/archivio/) dal sito UAAR,i numeri dei primi 10 anni del-la rivista, dal n. 0/1996 (1) aln. 6/2006 (47) più il numero degliIndici (48). I fascicoli sono dispo-nibili in pdf, e sono anche unmodo per ripercorrere la crescitadell’associazione. Ogni numero èdella dimensione di 600 Kb-2Mb, ospitato da un server ester-no, quindi può essere necessariopazientare per il download. Pervisualizzarli occorre aver instal-lato Acrobat Reader o Ghost-script. La collezione completa èancora disponibile, in pochi esem-plari, in formato cartaceo, al co-sto di 100 €, spese postali incluse.

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3n. 3/2010 (69)

EDITORIALE

Visto che a questo numero c’è ancheun “Cip Cip” in copertina, è un po’ dif-ficile non pensare ai passerotti di Rati-sbona sbranati dai coccodrilli in abitotalare che, come vuole il senso co-mune, ora piangono lacrime per la dif-ficile digestione. Così si sta compor-tando la categoria professionale più in-quisita per pedofilia che, selezionata insecoli di violenze perpetrate ai dannidei più deboli, è usa a trincerarsi sottouna corazza di ipocrisia facendo fintadi espiare piangendo lacrime di penti-mento. È un costume ormai rodato cheha un buon ritorno d’immagine pressole folle acquiescenti. Di recente l’hannofatto, o hanno fatto finta di farlo, conGalileo e con i fratelli maggiori ebrei;poi hanno provato anche con Darwin eora tocca al loro ultimo pasto. Non èche il coccodrillo sia muto per quantonon sia ben chiaro che verso faccia; delresto lo dice anche la canzone: “Il coc-codrillo come fa? / non c’è nessuno chelo sa. / Si arrabbia ma non strilla” e cosìc’è chi lo definisce un “grummito”, chiparla di muggiti, suoni gutturali e di unavoce querula per i piccoli, chi di un“canto” dalle frequenze molto basse [1,2]. Invece le voci stentoree dal sogliovaticano si sentono bene mentre invei-scono sì reclamando giuste punizionicontro i reati, ma per i peccati chie-dendo il perdono.

Si dà il caso, infatti, che il relativismocattolico veda la pedofilia non come unreato, ma solo come un peccato, pannisporchi da lavare in famiglia secondo ildettato dell’epistola De Delictis Gra-vioribus del maggio 2001 dello stessoRatzinger. Il tutto all’insegna di quel“rimetti a noi i nostri debiti”, per cui sei debiti dei reati si scontano secondo leleggi dell’uomo, per i peccati il solo tri-bunale autorizzato è quello divino. Equindi sull’onda del “chi è senza pec-cato scagli la prima pietra”, ovvero deltutti colpevoli nessun colpevole, eccoil papa spacciare all’Angelus un «Im-pariamo ad essere intransigenti con ilpeccato, a partire dal nostro, e indul-

genti con le persone». Dunque, vere la-crime di coccodrillo.

Ora, senza appellarsi al “movimento diliberazione del loricato”, i coccodrilli,anche se fossero veramente brutti ecattivi come vuole il senso comune,“piangono” perché, vista la pellacciache si ritrovano, riescono a “sudare”solo dagli occhi ed espellere così i saliin eccesso. Fra l’altro è pur vero che sese ne incontra uno a pancia vuota men-tre si fa il bagno il rischio c’è, ma sullaterraferma sarà il primo a darsela agambe, perché in fondo sono dei timi-doni tanto che ancora in qualche circosono costretti ad esibirsi, si fa per dire,in goffi esercizi. E se qualche leone èriuscito a rendere giustizia alla propriacategoria, non risulta che nessun coc-codrillo sia stato capace di ridimensio-nare alcun intrepido “domatore”. Latradizione cattolica sa quanto si pre-stino bene a interpretare un ruolo ter-rifico sul palcoscenico liturgico, non acaso il Leviatano non è altro che il no-me d’arte del loro antesignano, il dragoper eccellenza, che sotto le più fanta-siose descrizioni ispirerà i più impro-babili miracoli. Così anche da noi lo ri-troviamo più o meno impagliato o più omeno integro, spesso appeso minac-cioso al soffitto, fra le più curiose pre-senze di numerosi edifici religiosi [3].La cosa non è che desti particolare sor-presa visto che il tutto sembra collo-cato fra la fine del Medioevo ed il ‘600,quando le Wunderkammer, le stanzedelle meraviglie, escono dalle chieseper entrare nelle magioni dei vip nonpiù per incutere terrore e pentimento,ma con lo scopo di sbalordire gli ospiticon le collezioni, anzi, con gli occhi dioggi si direbbe con le accozzaglie, deipiù improbabili e singolari motivi distupore e turbamento.

Ora però i coccodrilli veri hanno di-smesso il travestimento da drago e civuole un restyling ai grummiti che rim-bombano dai pulpiti, nelle parrocchie, neiconvitti e nei seminari; sarà per questo

che santa romana chiesa ha dato l’impri-matur all’Institut für Theologische Zoo-logie di Münster (nord Westfalia) per cer-care di sviluppare fra le altre cose «Unapedagogia religiosa che promuova il le-game con la natura e lo spontaneo inte-resse dei bambini per gli animali, dandoloro spazio all’interno di una spiritualitàsignificativa per la persona e adatta allavita di ogni giorno» [4]. Chissà se fra imoniti zoopedagogici del tipo di “nondare cibo agli animali” ci sarà anchequello di “non dare caramelle ai bam-bini”. Intanto cominciamo a ricordare ainostri passerotti che se incontrassero uncoccodrillo in abito talare diano retta aCapitan Uncino quando dice «non sideve mai sorridere a un coccodrillo» e,anche se non sono in coro, invitiamoli aimparare bene il ritornello della canzonedi Peter Pan: «Non dir mai Cosa vuoi /Dove vai, Stai con noi / Lui ti vede semprecome companatico / Lui non è un robot /E scherzar non si può / Non fidarti mai /di un grande coccodrillo llo».

Note

[1] Bernhard Grzimek, Vita degli animali:Moderna enciclopedia del mondo animale.Bramante Ed., Milano 1972, 13 voll.[2] Giuseppe Scortecci,Animali. Come sono,dove vivono, come vivono. Labor, 1955, 5voll.; vol. IV: I Rettili, 1062 pp.[3] Liguria, Rapallo (Genova), Montallegro,santuario di Nostra Signora di Montallegroa Rapallo; Lombardia, Curtatone (Mantova),santuario di Santa Maria Vergine delle Gra-zie Grazie; Ponte Nossa (Bergamo), parroc-chiale di Santa Maria Annunziata o chiesadella Madonna delle Lacrime; Varese (Va-rese), Santa Maria del Monte; Veneto, Ve-rona (Verona), San Michele Extra, santuariodella Regina della Pace o Madonna dellaCampagna; Marche, Macerata (Macerata),S. Maria delle Vergini; Toscana, monasterodi Camaldoli (Arezzo), nella farmacia; Selva(Santa Fiora, Grosseto), Convento della SS.Trinità, XVI sec.; Sicilia, Ragusa Ibla (Ra-gusa), Tesoro della chiesa di S. Giorgio.[4] (http://wxre.splinder.com/post/21627861/teologia+bestiale).

Marco Accorti, [email protected]

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4 n. 3/2010 (69)

EDITORIALE

CU CU!

Sono qui, care scimmie: mi sono nasco-sta a pagina 4. Per farvi uno scherzo?Anche: BAUSETTE! Ma soprattuttoperché ho pensato che, dopo che visiete sorbiti ben 34 editoriali di miopugno, era giusto fare un po’ di rota-zione e cedere di quando in quando l’o-nore della pagina d’apertura agli altri re-dattori. Così avete l’occasione di cono-scerli meglio. Ma per non farvi preoccu-pare o pensar male – che è successo allaTurchetto? Ha litigato? Ha dato dimatto? Ha abbracciato qualche reli-gione? C’è stato un colpo di mano in Re-dazione? – eccomi qua, a tranquilliz-zarvi, a salutarvi, a darvi come al solitodelle bestie … Seguo in questo – oltrealla mia indole dispettosa – un consigliodi Dario Martinelli: nell’articolo che tro-vate nelle pagine seguenti, in cui spiega«perché atei e animalisti sono amici perla pelle», mi esorta appunto a ripren-dere l’abitudine a darvi degli animali,raccomandandomi tuttavia di evitarevezzeggiativi e di apostrofarvi per quel-lo che veramente siete: primati, grandiscimmie, cordati, mammiferi …

Dunque, stimati mammiferi (o per casoqualcuno di voi depone le uova?), riec-coci qua a parlare di umanità e di ani-malità, tema che abbiamo già affron-tato nel n. 2 (62) del 2009 (“Dalla partedegli animali”) con buon successo dipubblico e di critica – come si dice –viste le lettere, le proposte di collabo-razione e le recensioni che abbiamo ri-cevuto. Più precisamente rieccoci a ri-badire quant’è labile il confine tra ledue categorie. Dopo aver parlato, nelnumero citato, della mente degli ani-mali – per mostrare come l’intelligen-

za, lo sviluppo di capacità cognitive su-periori, perfino la “coscienza” non sia-no affatto prerogative esclusive del-l’uomo – ci addentriamo ora in un ter-ritorio ancora più delicato affrontandoil problema del linguaggio. Ecco spie-gato il titolo di copertina – un po’ de-menziale, ve lo concedo – BAU BAU …CIP CIP … CIAO CIAO, che unito aimiei CU CU e BAUSETTE non man-cherà di irritare i lettori più seriosi (macosa avremmo dovuto mettere? “Ele-menti di zoosemiotica”?).

Il tema, in realtà, è molto serio: “par-lano”, gli animali? Certamente comu-nicano, si scambiano segnali – ovvia-mente non solo uditivi. In certi casiquesti segnali – come apprendiamo daicontributi di Dànilo Mainardi, di PieroSagnibene e di Vincenzo Caputo – di-ventano codici, simboli, articolazionicomplesse di simboli astratti che per-mettono di trasmettere informazionimolto ricche e precise. Nemmeno suquesto terreno, dunque, è possibilescavare la trincea della pretesa irridu-cibilità dell’uomo all’animale. Certo lasofisticatissima comunicazione umanarappresenta una peculiarità innegabiledella nostra specie: ma – appunto –una caratteristica specie-specifica, co-me dicono gli zoologi, non certo un’i-neffabile “dono” da poter giocare co-me succedaneo dell’anima immortale.

Ancora più seri sono i problemi etici epratici che conseguono all’abbatti-mento delle barriere erette tra umanitàe animalità, cui sono dedicati altri con-tributi. Per alcuni l’arroganza che hacondotto l’uomo a porsi al di sopra dellanatura e degli animali è la matrice ul-tima delle discriminazioni e delle cru-

deltà perpetrate in seno alla stessaumanità e dunque propugnano un anti-specismo radicale (rinvio, per un’esau-riente definizione di “antispecismo’, al-l’articolo di Marco Lorenzi). Altri riten-gono invece il punto di vista naturalistacompatibile con un sistema di valori co-munque riferito all’uomo. La discus-sione, tra queste posizioni, è aperta econtinueremo a proporla nei prossiminumeri – nessuno, su queste pagine,pretende di avere la verità in tasca.

E per finire permettetemi di aggiungereai tanti versi che ho fatto alcuni ver-sacci: boccacce, intendo, linguacce,BLEAH BLEAH scrivono nei fumetti an-glofoni. Non sono certo rivolti a voi, mieiamatissimi lettori. Sono tutti per il pro-fessor de Mattei. Sì, ce l’ho ancora conlui: perché è ancora là, inamovibile dallapoltrona di vicepresidente del CNR.Mica è stato rimosso, mica si è dimessodopo aver fatto fare una figura barbinaalla ricerca e alla scienza italiana – l’in-tera comunità scientifica internazionalesi è sdegnata per la sua trovata di cele-brare il bicentenario darwiniano con unconvegno creazionista! Non ha chiestoscusa, non è nemmeno rimasto zittonell’attesa che la figuraccia venisse di-menticata … Macché: è ancora lì chestrilla, rimbecca chi lo critica, sgrida gliambienti ecclesiastici che fanno troppeconcessioni all’evoluzionismo e ribadi-sce che il libro della Genesi va preso allalettera. Per questa sua incredibile fac-cia di bronzo gli dedichiamo, anche inquesto numero, la sezione "Vecchi enuovi creazionismi". E ora, cari lettori,buona lettura!

Maria [email protected]

Premio Poesia Scientifica 2010

Il primo premio del Secondo Concor-so Nazionale per la Poesia Scientifica,bandito dal Circolo UAAR di Veneziae dedicato a Charles Darwin, è sta-to attribuito a Nino Zampieri per lapoesia “Una rana”, che qui di seguitopubblichiamo:

Una ranaUna rana del settecentoVisse una vitaInsignificanteIn uno stagno sonnolento,Una vita appunto stagnante.Per ironia della sorteSoltanto dopo la morteEbbe un’esperienza elettrizzante.

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5n. 3/2010 (69)

BAU BAU ... CIP CIP ... CIAO CIAO

Konrad Lorenz, studiando il corteggia-mento di molte specie di anitre, avevanotato che all’interno della parata erapresente un qualcosa che assomigliavaal comportamento del bere, ma l’acquanon veniva più assunta mentre il colloveniva mosso con ostentata lentezza.Inoltre, al termine del movimento, ilbecco estratto dall’acqua producevaun grazioso e appariscente zampillo.Insomma: il bere s’era tramutato nel“rito del bere”, con conseguente cam-biamento di significato. In origine, in-fatti, il comportamento aveva, sempli-cemente e palesemente, la funzione dimandare giù dell’acqua, mentre poi, adavvenuta evoluzione, quel movimentomodificato espressamente serviva percomunicare qualcosa al proprio part-ner. Il processo evolutivo della ritualiz-zazione produceva, questo concluseLorenz, un comportamento stereoti-pato, a scarsissima variabilità, miratoesclusivamente alla comunicazione.

Il comportamento animale è affollatoda comportamenti così. Si pensi, oltreai corteggiamenti, ai combattimenti(dei cervi, dei galli). Ogni parata, inrealtà, è un rito. E, quel che più conta,un rito scritto nei geni, frutto di evolu-zione biologica. La ritualizzazione, inol-tre, non è solo visiva. Ogni canale sen-soriale può esserne coinvolto. Penso,tanto per dire, a quella acustica dei pic-chi, che in vario modo usano il becco eil legno degli alberi. E si capisce bene,ascoltandoli, se stanno lavorando ascavare per tirar fuori larve o per co-struirsi il nido, oppure se, invece, mar-tellano per comunicare qualche infor-mazione. Nel primo caso il suono è di-sordinato e discontinuo (ricorda il traf-ficare dell’artigiano), nel secondo è in-vece ritmica sequenza, variabile solose varia il messaggio (come se fosse ilraffinato suono d’uno xilofono).

Un caso specialissimo, perché un pococi fa uscire dal puro comportamentoistintivo, è quello del cacatua dellepalme (Probosciger aterrimus), unosplendido e grosso pappagallo di co-lore nero con guance nude e rosse del-l’Australia e della Nuova Guinea. Ognimaschio di questa specie corteggia lafemmina in un modo assai particolare:dopo essersi procurato un corto ba-

stone, tenendolo con una zampa, lobatte ritmicamente sul terreno, dinorma dopo essersi messo in posizioneprominente. È pertanto un tam-tamanche il suo e, dato che si tratta diun’abitudine presente in ogni indivi-duo maschio della specie, si ha ragionedi ritenere che si tratti di un codiceistintivo. Ciò non di meno, sia per ledifferenze tra un bastone e l’altro, siaper dove viene percosso, il suono pro-dotto dai vari individui risulta assai va-riabile e riconoscibile. È probabile che,proprio in base a questa variabilità, lefemmine possano esercitare la loroscelta sessuale.

Sempre in tema di comunicazione acu-stica un altro caso, per ciò che c’inte-ressa, assai significativo, è quello deicosiddetti ratti-canguro (genere Diplo-domys), piccoli roditori deserticoli che,per il grande sviluppo degli arti poste-riori e, soprattutto, per l’atteggiamentoe il modo di muoversi, superficialmentesomigliano ai canguri veri. Battendo rit-micamente sul terreno una delle zampeposteriori i ratti-canguro emettono deisegnali che, in codice, comunicano in-formazioni di carattere minaccioso. Piùprecisamente, quei ratti possiedono unben definito territorio e, quando esconodalla tana scavata sottoterra, tambu-rellando informano eventuali ratti pas-santi che è conveniente girare allalarga, altrimenti verranno aggrediti. Èstato fatto, qualche anno fa, un singo-lare esperimento ritrasmettendo (latecnica del playback) registrazioni diquesti suoni emessi da vicini di tana o,in alternativa, da individui compiuta-mente estranei. Si è così potuto dimo-strare che i ratti-canguro sanno perfet-tamente riconoscere, per sottili ma con-crete differenze, i codici dei vicini, i“cari nemici”, da quelli degli estranei,che sarebbero i nemici veri. Si curano,infatti, ben poco del familiare tambu-rellare dei primi, mentre nel secondocaso assumono atteggiamenti allarmatie decisamente aggressivi.

Ho detto, fin qui, di riti e codici perbuona parte istintivi, anche se in veritài ratti-canguro e i cacatua delle palme, auna base “a stretto controllo genetico”,aggiungono un tocco di individualismoe di discernimento tra l’altro funzional-

mente essenziali. Un ulteriore e note-vole passo avanti, a ogni modo, lo sco-priremo affrontando il comportamentodei primati superiori.

“Non sono umani ma non sono nem-meno animali”, scrisse anni fa AdriaanKortlandt, uno scienziato che di grandiscimmie se n’intendeva come pochi.Sia che si tratti di gorilla, scimpanzé ooranghi, è infatti facile intuire la loroparentela con noi umani, se li si os-serva senza pregiudizi. Ce l’attestanola struttura corporea, le movenze, leespressioni facciali. Insomma, quel90% abbondante di DNA che ci acco-muna si fa sentire, eccome. Guardan-doli ci specchiamo in loro leggendo lapiù antica delle storie, quella naturale.E ciò pone quesiti sulla nostra lonta-nissima origine, ci affascina e insiemeci sgomenta.

Mi piace, trattando della nostra “pa-rentela allargata”, ma in special mododel gorilla, fare un tuffo nella leggendaevocando quella sempre attuale diKing Kong, giocata proprio su questaambiguità: fascino e, appunto, sgo-mento. Il primo film della serie, senz’al-tro il più coinvolgente, è del 1933,quando ancora della più grande scim-mia si sapeva ben poco. E quel pocoera quasi sempre errato. Basta pensareche il gorilla fu scoperto dalla scienzaufficiale solo nel 1847 e che il primoesibito in uno zoo fu possibile ammi-rarlo in Inghilterra nel 1855. Alloras’immaginava che i gorilla fossero fe-rocissimi. Un esploratore, Rupert Gar-ner, per osservarne il comportamentofece la pensata, ora inimmaginabile, dicostruire nella foresta una gabbia incui poi si rinchiuse. E loro fuori, stupiti,a osservarlo. Oggi, invece, li si studiafacendosi accettare, con pazienza econ sapienza, come membri aggiunti alloro gruppo. Un’avventura ormai vis-suta da moltissimi etologi, che cihanno lasciato descrizioni dettagliatesulla loro pacifica vita.

Niente di strano, pertanto, che la loroimmagine, dai primi malamente cono-sciuti agli attuali, sia decisamentecambiata. Straordinaria è stata la suaevoluzione nella nostra cultura. E sitratta di un’evoluzione sicuramente

Codici e riti tra natura e culturadi Dànilo Mainardi, Presidente onorario UAAR

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6 n. 3/2010 (69)

BAU BAU ... CIP CIP ... CIAO CIAO

non compiuta, perché tanto ci resta an-cora da scoprire.

Penso a eventi recenti e ciò mi fa sce-gliere, in tema di codici, un esempioquanto mai esplicativo. Possediamo, in-fatti, un documento, brevi sequenze fil-mate, in cui, in una situazione naturale,è possibile studiare l’interazione di ungorilla femmina, Afrodite, con un’eto-loga. Una delle tante che hanno dedi-cato la vita allo studio di questi primatifacendosi accettare alla periferia deiloro gruppi. I gorilla, va a finire, rapida-mente smettono di temerle e interagi-scono con loro. Le sequenze di quel fil-mato, che con i miei studenti ho analiz-zato nel dettaglio, perfino fotogrammaper fotogramma, mostrano Afroditementre se ne sta in piedi sul ramo di unalbero. L’etologa è sotto di lei, sul ter-reno. Forse non lo sapete, ma quelloche è senz’altro il comportamento piùnoto dei maschi, battersi il petto con lemani, viene talora messo in atto anchedai piccoli e dalle femmine. E, infatti,Afrodite lo fa, ma non col minacciosoatteggiamento maschile, spesso prelu-dio di una carica, bensì in modo pacato.Si tratta, tutto sommato, di un messag-gio solo vagamente, o forse nemmenopiù, aggressivo. E l’etologa, coglien-dolo, risponde a modo suo battendo,con lo stesso ritmo, i palmi delle manisulle cosce. Afrodite la guarda incurio-sita, probabilmente divertita e le ri-sponde battendosi ancora il petto. Ini-zia così un dialogo in codice, ma ciò cheè straordinario è che la gorilla, dopo unpo’ di questi scambi, smette di battersi

il petto e quel suono in codice l’ottienebattendo le mani sul tronco dell’albero.Esattamente lo stesso ritmo. Stiamostraordinariamente assistendo allo slit-tamento, frutto di consapevolezza, diun comportamento in origine istintivoche si sta trasformando in una conven-zione, in qualcosa di culturale. Un les-sico nuovo e inventato che in qualchemodo crea un ponte tra due individui didue specie diverse. Diverse sì, perché

questo sono l’uomo e il gorilla, ma chequalcosa di comune, qualcosa di im-portante, pure ce l’hanno.

E questo qualcosa ora sappiamo, al-meno in parte, che cos’è: sono i neu-roni specchio, quelle speciali cellulenervose che consentono al cervello diriconoscere il significato degli atti com-piuti da altri individui. Ebbene, questoè un aspetto, uno dei tanti, che sicura-mente abbiamo in comune col gorilla,oltre che con tante altre specie, e nonè cosa da poco.

Il caso di Afrodite, seppure assai signi-ficativo, rimane pur sempre circoscritto

a un singolo individuo. Ben diverso in-vece è quello degli scimpanzé della ri-serva del fiume Gombe in Tanzania,che hanno, si potrebbe dire, fatto tor-nare di moda il tam-tam. E l’hanno fattonel modo etologicamente più interes-sante. Da ragazzini, leggendo le storiedei cosiddetti pellerossa, oppure Tar-zan l’uomo-scimmia, abbiamo appresotutto sui codici rituali primitivi, che al-lora credevamo esclusivamente umani.Gli indigeni (allora si chiamavano così)ne avevano inventato, in Nordamerica,uno visivo, le nuvolette, calibrando ilfuoco e il fumo, mentre in Africa c’eraquel suono ritmico e, per gli esploratori,minaccioso. Misteriosi tamburi e maninere ritmanti messaggi acustici.

E ora sappiamo che anche i gorilla e gliscimpanzé possono suonare, su basepiù o meno culturale, il tam-tam. Altriprimitivi tamburi, dunque, e altremani. Somiglianze e differenze. Maprima occorre che descriva ciò chefanno gli scimpanzé del Gombe. S’av-vicinano a certi alberi dalla base cavae, usando le mani posteriori (non perniente sono quadrumani), tambureg-giano con ritmo preciso su quegli stru-menti naturali. Lanciano, s’asserisce,informazioni a loro amici lontani. Èmolto probabile che avvisino del loroarrivo; è possibile, inoltre, che colui chetrasmette si faccia, per lo stile perso-nale, riconoscere come individuo.

Differenze rispetto al tam-tam degliumani: questi per tambureggiare co-struiscono arnesi, gli scimpanzé no; gli

� DANILO MAINARDI, Nella mente degli animali, Prefazione diPiero Angela, ISBN 88-6052-042-8, Cairo Editore, Milano 2006,pagine 254, € 16,00.

Un caldo invito a leggere per intero il libro da cui è tratto il te-sto qui riprodotto. Nato da una rubrica televisiva andata in ondaall’interno di Superquark, che mostrava una serie di documen-tari sull’etologia cognitiva, il libro mantiene un approccio allaproblematica della mente animale “caso per caso”: diversi casi,cioè episodi – esperimenti o comportamenti animali documen-tati in natura – vengono raccontati e poi commentati, cercandodi trarne deduzioni il più possibile generali. Ne risulta una let-tura estremamente piacevole, mai e poi mai noiosa – anzi, quasisempre decisamente divertente – ma anche una sorta di le-zione di “metodo analitico”. A parere dell’autore, infatti, «la stra-tegia migliore per affrontare, considerate le conoscenze attuali,una tematica complessa come quella della mente animale, è ve-ramente quella del “caso per caso”».

Di fronte alla pluralità delle possibili definizioni di “mente” – a pro-posito della mente umana, ricorda Mainardi nell’Introduzione,«si può parlare di una mente logica, una mente creatrice, unamente sociale, una mente emotiva e affettiva […], una mente mo-

rale e una collettiva» – una sorta di minimo comune denomina-tore viene individuato in quella “palestra” o “teatro” che per-mette di attuare una sorta di duplicazione del mondo: «quelloesterno e quello che ogni animale provvisto di mente racchiudedentro di sé». Il concetto viene introdotto nel primo episodio, cheillustra uno dei più classici esperimenti sul comportamento ani-male, quello del cibo nascosto. Il primo protagonista è un gatto,messo alla prova da un ricercatore; poi arrivano cince e ghiandaie,che nascondono scorte di cibo per i tempi grami e che devono evi-dentemente formare “mappe mentali” per poterlo ritrovare. In-contriamo poi elefanti e scimpanzé che si guardano allo specchio,dimostrando consapevolezza di sé; animali sognatori, animali cal-colatori; vengono considerati vari casi di comunicazione animalee l’uso di strumenti e tecniche; per arrivare a trarre, alla fine, al-cune conclusioni generali non solo in termini di conoscenza, maanche di responsabilità che acquisire certe conoscenze comporta.

Il libro contiene 45 disegni di animali dell’autore: Danilo Mai-nardi è, infatti, bravissimo a raffigurare gli animali con pochis-simi ed essenziali tratti di penna.

Maria [email protected]

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umani usano gli arti anteriori, gli scim-panzé i posteriori. Penso inoltre che,più che probabilmente, molte diffe-renze siano nascoste nei contenutiinformativi, ma di questi sappiamo an-cora troppo poco. Notevole, invece, è ilfatto che, sicuramente, sia il tam-tamdegli africani umani (dubito che esistaancora, al di là del folklore a uso dei tu-risti) sia quello degli scimpanzé rap-presentano casi di ritualizzazione acu-stica compiutamente culturale.

Il caso degli scimpanzé è senz’altro, tratutti, il più interessante perché si ri-

trova nel loro tam-tam un suggestivoparallelismo tra la comunicazione ani-male e quella umana primitiva. Quellafatta di colpi battuti, di nuvolette difumo. Nella nostra specie il rito acu-stico, a ogni modo, presto si evolve in-globando parole. Il che mi consenteun’osservazione maligna (di cui chiedoumilmente scusa). Ricordo, infatti, alproposito, due esempi negativi: nellearene si tortura il toro mentre ritual-mente si urla olè; negli stadi, invece, siinsulta l’arbitro col rituale “scemo –scemo”. L’evoluzione culturale umana,purtroppo, anche di questi scherzi

gioca. Gli scimpanzé, potrei conclu-dere, fortunatamente non ci sono an-cora arrivati. C’è chi pensa che nonsiano abbastanza intelligenti.

(Il testo è tratto da Danilo Mainardi,Nella mente degli animali, Cairo Edi-tore, Milano 2006, pagine 254).

Dànilo Mainardi, etologo, ecologo e divul-gatore scientifico, è Professore emerito diEcologia Comportamentale all’Università“Ca’ Foscari” di Venezia. È uno dei Presi-denti Onorari dell’UAAR.

Lingua cheta, e fatti parlantidi Piero Sagnibene, [email protected]

(1) Fu Aristotele il primo naturalista adannotare che le api, al ritorno nell’al-veare, compiono una singolare “danza”.Osservazioni su questa “danza” furonoriportate da Giovanni Rucellai (1475-1525), ma solo nella seconda metà delsecolo scorso, Karl von Frisch e MartinLindauer scoprirono che la “danza” è,in realtà, un vero e proprio linguaggio.

Questo fatto riapriva la polemica co-minciata nel 1871, quando CharlesDarwin pubblicò The Descent of Man.In quel lavoro Darwin chiarì le que-stioni della collocazione tassonomicadell’uomo, delle sue filiazioni evolutivee delle sue parentele; la tesi darwi-niana ricollocava l’uomo nella naturaassieme agli altri viventi, affermandoche la comparsa di Homo sapiens risa-liva ad un’epoca abbastanza recente,quando il ramo evolutivo, da cui essodiscende aveva cominciato a divergereda quello delle altre scimmie antropo-morfe. Anche l’uomo quindi, cosìcom’era avvenuto per tutte le altre spe-cie, derivava da una lunghissima storiaevolutiva che risale ai primi viventi.

L’idea che la specie umana è un ramo col-laterale dell’ordine dei Primati, discen-dente da antenati simili allo scimpanzé,demoliva uno dei presupposti fondanti ditutte le culture umane, cioè l’unicità del-l’uomo rispetto al mondo circostante. L’e-voluzionismo darwiniano destituiva difondamento l’idea, religiosa quanto filo-sofica, che l’universo e la natura viventeavessero un contenuto teleologico in fun-

zione dell’uomo poichéanche l’uomo era un ri-sultato delle innumere-voli trasmutazioni cheavevano interessato unasequenza sterminata di spe-cie, fino all’origine dei mammi-feri, ed indietro nel tempo, dei rettili,degli anfibi, dei pesci e, prima, ancoraprima, di altre specie sconosciute di ani-mali invertebrati, fino a quelli unicellularie fino agli organismi che si formaronodalla materia inerte. Il darwinismo deter-minò un modo nuovo di leggere ed inter-pretare la storia della vita che non la-sciava spazio alcuno alle suggestioni edalle credenze che da sempre erano stateil centro del pensiero umano.

La vecchia cultura si oppose a lungo allenuove teorie biologiche ma, alla fine, do-vette arrendersi all’evidenza; ma non sirassegnò e ripiegò su una strategia piùduttile per continuare comunque a pen-sare l’uomo come essere speciale. Percent’anni regnò l’idea che la specie uma-na, anche se non era più il centro staticodella creazione, fosse comunque il com-pimento ed il culmine necessario dell’e-voluzione. Questa concezione presecorpo in una miriade di versioni, sia lai-che sia religiose, al di là di tutte le diver-genze di dettaglio, e così l’antropocen-trismo segnò in forme nuove e sottili losviluppo del pensiero evoluzionistico. Apresidio di questa concezione fu posto illinguaggio simbolico, ritenuto spartiac-que invalicabile ed inespugnabile trauomo e mondo animale ed assunto co-

me la facoltà che affermava la “superio-rità” e la “diversità” dell’uomo, quasi ilsegno di un “destino”metastorico. L’uo-mo fu definito come “animale simbo-lico” (Cassirer), in opposizione alle altrespecie, fino al punto da identificare l’es-senza dell’uomo stesso col suo linguag-gio (Wittgenstein).

(2) I moderni etologi fanno risalire la for-mazione dei linguaggi, in generale, al-l’instaurarsi della socialità ed al ruolopreponderante di questa nello stimolareil bisogno di comunicazione. Un lin-guaggio, secondo una definizione diEdward O. Wilson, è in generale una co-municazione che provoca una qualcherisposta in chi la riceve. Nel mondo ani-male le modalità di emissione di tali co-municazioni possono essere varie ecomplesse: sonore, chimiche, gestuali,posturali, tattili, ecc., tuttavia, dal pun-to di vista strutturale, si riconosconosolo due tipologie di linguaggio. Una siavvale della trasmissione di segnali e unsegnale è un messaggio che trasmetteun’emozione, un messaggio immediatonon dilazionato nel tempo e nello spa-zio. Si pensi ad esempio al segnale dipericolo che si diffonde in un banco dipesci all’avvicinarsi di un predatore.

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L’altro tipo di linguaggio si avvale in-vece di simboli, detti anche segni. Unsegno trasmette invece una cogni-zione. Questa può riferirsi al presente oanche al passato o al futuro, può rife-rirsi a cose presenti o anche lontane, acose astratte o oggetti del pensiero.L’uso di simboli richiede una ideazionee una trasduzione di ciò che si vuole co-municare ed un analogo processo in-verso in chi riceve il messaggio, vale adire che il linguaggio simbolico ri-chiede una corrispondenza biunivoca econdivisa tra segni e contenuti. Perquesta ragione il linguaggio simbolicoè, per sua natura, convenzionale e sifonda su di una sorta di “patto socialesemantico”. Ad esempio, il rapportotra il suono di una parola e la cosa chequella parola indica è del tutto arbitra-rio e richiede che coloro che la utiliz-zano si siano messi d’accordo nell’as-segnare a quel determinato suono lacorrispondenza ad un determinato og-getto o concetto. A differenza del lin-guaggio a segnali, che può essere uti-lizzato anche tra specie diverse, il lin-guaggio simbolico è un linguaggiointra-specifico perché è posto al servi-zio di una funzione che è la socialità,cioè il livello più evoluto di coopera-zione biologica nella quale si attua ladivisione del lavoro.

(3) Von Frisch e Lindauer hanno dimo-strato non soltanto che la “danza”delle api è un linguaggio, ma che sitratta proprio di un linguaggio simbo-lico, strutturato in coreogrammi e mor-femi, e biunivoco. Inoltre Lindauer di-mostrò che tramite questo linguaggiole api, durante la sciamatura, “discu-tono” sulle qualità dei vari siti in cuiimpiantare il nuovo alveare. La preci-sione di questo linguaggio è tale cheLindauer riusciva ad identificare tutti isiti considerati dalle api ed a prece-derle sul luogo prescelto. Thomas See-ley e Kirk Visscher hanno ripetuto, rie-laborato e ricontrollato le osservazionidi Lindauer, impiegando dieci anni distudi, girando centinaia di ore divideo, sviluppando modelli matema-tici, ideando esperimenti ed etichet-tando, una per una, ben 4000 api.Hanno così confermato che, quando ègiunto il momento, un certo numero diapi esploratrici si sparpaglia per il ter-ritorio. Al ritorno ognuna di esse rife-risce l’esito della sua missione insce-nando una danza analoga, ma nonidentica, a quella utilizzata per indi-care la localizzazione delle fonti dicibo. L’intensità della danza è propor-zionale all’adeguatezza del possibile

nuovo alveare. Tuttavia, il giudizio diuna singola ape esploratrice non fatesto, tanto più che siti differenti pos-sono aver suscitato altrettanto inte-resse sulle diverse esploratrici. Iniziacosì una sorta di consesso di api dan-zanti che invitano le altre esploratrici avisitare il “loro” sito. La decisione è inforse fino a quando almeno 15 apiesploratrici non concordano sul risul-tato. A quel punto, la decisione èpresa, e anche se altre esploratrici ar-rivano proponendo siti “meravigliosi”,non riescono a mutare la destinazione.E poco dopo uno sciame di migliaia diapi si mette in moto verso il nuovo al-veare. Il fatto che l’ape condivida al-cune proprietà del linguaggio simbo-lico umano, e cioè che essa ha saltatoil confine che divide l’uomo dall’interaanimalità in quanto manipola simbolie non segnali, suscitò ancora ostilità,opposizioni, reazioni e scetticismo.

La scoperta di von Frisch era un’inte-grazione definitiva della lezione darwi-niana, e la prodigiosa facoltà dell’uomodi comunicare coi simboli, di parlaredel passato, del futuro, di cose assentio astratte, non era più una sua esclusi-vità, dato che l’ape, nel buio dell’al-veare, può “parlare” di un cibo che hascoperto in precedenza e che non èpresente in quel momento, può “par-lare” di ciò che dovranno fare, dopo, lesue compagne per raggiungere il luogoindicato, descrivere con esattezza ladistanza e lo sforzo di volo richiesto perraggiungere la fonte di nettare; ed inol-tre, l’ape ha la facoltà di riferirsi ad og-getti e concetti immaginari, dimisurareil tempo, gli angoli e le distanze su diun piano ideale, di calcolare il moto delsole nel tempo; cioè utilizza quei primielementi conoscitivi da cui cominciò adevolversi la scienza umana. Ed ancora,essa traspone queste conoscenze su diun altro piano ideale allineato alla di-rettrice di gravità e le traduce in lin-guaggio, è capace cioè di socializzareinformazioni cognitive tramite unasimbologia di movimenti.

Theodosius Dobzhansky, uno dei fon-datori della teoria sintetica, rimarcòl’importanza della scoperta, facendonotare che il linguaggio simbolico si èpresentato non una ma almeno duevolte nel corso dell’evoluzione, nell’apee nell’uomo, sebbene queste due spe-cie siano filogeneticamente lontanis-sime e che quindi esso non era una fa-coltà esclusivamente umana. Von Fri-sch e Lindauer compirono un lavoroestremamente meticoloso, durato più

di due decenni, e che perciò offrì benpochi spunti alle obiezioni. Alcuniesperimenti condotti da Gould (vedi inseguito) liquidarono ogni obiezione re-sidua rispetto alla effettiva funzione dicomunicazione della “danza”. In se-guito Michelsen, “parlando” con le apitramite un minuscolo robot, dimostròdefinitivamente la biunivocità del lorolinguaggio. Tramite il piccolo automaa sagoma di ape, Michelsen dà delleinformazioni tramite una simulazionedella danza; queste vengono accettatedalle api che difatti si recano sul postoindicato dalla danza simulata. Per laprima volta nella storia Michelsen èriuscito a comunicare con un insetto.

Fu così che l’antropocentrismo perse ilsuo principale argomento e anche qual-che importante corollario. Ad esempio,la facoltà dell’uomo di esprimere un lin-guaggio simbolico veniva fatta derivaredalla enorme complessificazione del suocervello, nel quale lavorano più di 100miliardi di neuroni; ma lo psichismo del-l’ape trova supporto in un cervello conmeno di un milione di neuroni cerebralie ciò lascia pensare che non è nel po-tenziamento della struttura anatomicache va ricercata l’origine del linguaggiosimbolico. Lamarck avrebbe detto “lafunzione crea l’organo” e possiamo pen-sare che, evolutivamente parlando insenso darwiniano, sia stata invece lastruttura anatomica ad essere stimolatae “potenziata” per assolvere ad unafunzione che diveniva via via più com-plessa. Questa funzione è proprio la so-cialità, e l’ape e l’uomo, cioè le due solespecie che possiedono un linguaggiosimbolico, sono, al tempo stesso, quelleche hanno sviluppato le due forme piùalte di socialità.

(4) L’evoluzione psicosociale dell’uomoè stata possibile grazie al linguaggiosimbolico che consente di trasmettereai nuovi individui le conoscenze acqui-site dalle generazioni precedenti, iviinclusi i modelli di comportamento ne-cessari alla vita sociale. Ciò avvienedurante il periodo che va dalla nascitafino all’età riproduttiva e che nell’uomoè di moltissimo più lungo rispetto allealtre specie animali. Questo tempoviene utilizzato per formare il costumesociale nel nuovo individuo e per fargliacquisire quelle abilità con le quali puòpartecipare al lavoro cooperativo; in talmodo viene costruita l’idoneità sociale.

Diversamente, per le api non possiamoparlare di qualcosa di analogo. L’apepossiede socialità, conoscenze ed abi-

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lità tecnica di specie impresse nel suogenoma. Chauvin dice che il modo piùesatto di pensare ad una colonia di in-setti sociali, è pensarla come una sortadi super-organismo, coordinato e resocoerente da linguaggi chimici, gestualied istintivi, e ciò vale anche per le api.

Indubbiamente i comportamenti delleapi, le loro abilità, l’ordinata succes-sione dei ruoli a seconda della classedi età, sono catene di atti riflessi che sirealizzano uno dopo l’altro, in se-quenza generalmente costante per laspecie. Si tratta di complicati automa-tismi ereditari che prendono il nome diistinti, la cui estrinsecazione dai tratticromosomici che li contengono codifi-cati è, il più delle volte, attivata da fe-romoni. Nelle api sono state riscon-trate solo tracce vaghe di apprendi-mento. Anche il loro linguaggio simbo-lico è geneticamente ereditario.

La società delle api è di tipo familiaresemplice (genitrice + figli), e non com-posta da più generazioni conviventi,come nel caso di altri animali, uomocompreso. A differenza dell’uomo at-tuale, le società degli Insetti non si sonoevolute dalla gregarietà e dall’instau-rarsi di gerarchie che producono van-taggi diversi (o anche svantaggi) a se-conda del ruolo di ciascun individuo, so-prattutto per quanto riguarda la divi-sione del lavoro. Esse si sono formate,nel corso di un milione di secoli di con-tinua evoluzione, a partire dalle cosid-dette cure parentali, o rapporti tra geni-tori e figli, instaurandosi nell’antichis-simo ordine degli Isotteri (Térmiti) ed inquello, relativamente più recente, degliImenotteri (Formiche, Vespe ed Api).

Vi è una differenza importante tra legeneriche aggregazioni di insetti e lesocietà. Le aggregazioni sono dovutealla convergenza verso un comune bi-sogno. Nelle aggregazioni talvolta gliindividui cominciano a svelare unacerta interattrazione, e pertanto si parladi gregarietà, che può essere sempliceoppure di tipo coordinato. Nel primocaso, gli individui, pur mantenendosi incontatto per effetto di interattrazione,manifestano indipendenza di movimen-ti; nel secondo caso, gli individui com-piono azioni coordinate, come accade,ad esempio, nello spostamento in mas-sa di un’orda di cavallette.

Il carattere distintivo determinante trasocietà ed altre forme di convivenza, èla divisione del lavoro, spesso perve-nuta ad un alto grado di raffinatezza

funzionale con la comparsa degli sterilio frigidi. Questi sono individui deri-vanti da entrambi i sessi (nelle Térmiti)o dalle sole femmine (negli Imenotterisociali) inibiti nella loro attività ripro-duttiva e divenuti insuperabili lavora-tori, e perciò i veri protagonisti dellacomunità. Un comportamento, dive-nuto istintivo nel corso dell’evoluzione,la trofallassi, è di fondamentale impor-tanza nelle società più evolute di in-setti. Si tratta dello scambio di ali-mento che è poi una vera e propria re-distribuzione del cibo fra tutti gli indi-vidui dello stesso nido. L’interazione ela cooperazione tra i membri della co-lonia fa sì che non accada mai, non puòaccadere, che un singolo individuopossa patire la fame o morirne. Anchein condizioni di scarsissima disponibi-lità di cibo, la redistribuzione dell’ali-mento è sempre egualitaria ed, in or-dine di importanza, vengono nutriteprima le larve, senza alcuna restri-zione, poi i riproduttori, ed infine ciòche resta viene ripartito tra le operaie.

In effetti, è l’istinto altruistico che ga-rantisce la sopravvivenza della colonia.Le sole eccezioni, nelle api, sono quelledella soppressione delle altre regine daparte della titolare, misura indispensa-bile per la coesione della colonia, e delcomportamento dei fuchi, unità non la-vorative ma esclusivamente riprodut-tive, nutriti dal lavoro delle operaie edalquanto antisociali, forse proprio per-ché apolidi, e che perciò vengono espul-si o soppressi una volta che hanno as-solto il loro compito.

Il linguaggio simbolico delle api trovala sua origine nell’ambito del lavorocooperativo delle operaie e trova la suaragion d’essere nella socializzazionedella conoscenza di una fonte di cibo,di acqua o di propoli, come mezzo perottenere economia di tempo di lavoro,conseguendo la massima efficienza perapprovvigionare la colonia (utlizzo que-sto linguaggio con non poche perples-sità, mutuandole dai concetti umani diconoscenza, socialità e cooperazione,ma il solo paragone possibile per le apiè proprio quello con l’uomo). Le diffe-renze tra le società di questi due orga-nismi sembrano essere a vantaggiodelle api. Ognuna delle loro azioni hasenso solo in quanto è rivolta al benes-sere della colonia; negli uomini, il piùdelle volte, accade l’opposto.

(5) Per tutti gli autori, i livelli superioridello psichismo animale sono caratte-rizzati dalla comparsa del comporta-

mento simbolico, o, in altre parole, dalriconoscimento delle immagini, o me-glio ancora dalla utilizzazione di talisimboli. L’intelligenza viene valutatacon la capacità di affrontare e risolvereproblemi nuovi. Carel van Schaik ha re-centemente dimostrato e documentatoil formarsi dell’intelligenza animale e diforme di comunicazione tra i babbuinidi Sumatra in relazione allo sviluppodella loro socialità. Dunque è proprio lasocialità a produrre forme più elevatedi intelligenza e di linguaggio e di ciò,almeno per quanto riguarda il linguag-gio, si trova conferma nelle api. Forseuna forma di conoscenza trasmessa pervia genetica, com’è nelle api, presentauna forte resistenza all’apprendimentoindividuale ed allo sviluppo di un’intel-ligenza individuale. Wilson pensa che imessaggi delle api non possono esseremanipolati per dare nuove classi d’in-formazioni; la tesi è fondata, ma discu-tibile, in quanto ciò escluderebbe apriori la possibilità di ulteriore evolu-zione del linguaggio delle api. Non ab-biamo elementi sufficienti per abboz-zare almeno un’ipotesi sulla storia diquesto linguaggio; ciò che sappiamo èche da più di centomila anni le api sonoorganismi di straordinario successobiologico, anche grazie alla formidabileutilità del loro linguaggio.

(6) Dalla funzionalità di questo lin-guaggio dipendono anche fatti decisiviper l’esistenza dell’uomo sul nostropianeta. Ad esempio, il National Re-search Council (NRC) degli USA ha cal-colato che il numero di api domesticheè calato negli ultimi anni almeno del30%, mettendo in difficoltà le coltureche per il 90% sono impollinate dalleapi e che producono un giro di affari,nei soli Stati Uniti, tra i 10 e i 20 miliar-di di dollari l’anno. Le Grandi Pianure egli immensi campi di grano e di maisdel Midwest, sono a rischio perché leapi, ormai troppo poche, non riesconoad impollinare tutte le piante coltivate.La diminuzione della popolazione diapi, sottolinea il NRC, è un cambia-mento che ha la capacità di alterare ra-dicalmente l’ecosistema terrestre, contutte le conseguenze che ne derivanoper l’alimentazione umana.

Piero Sagnibene, entomologo, idrobiologo,ecotossicologo, ha studiato il fiume Volturno(il secondo fiume studiato in Italia dopo l’A-dige) per quattro anni applicando un suometodo per la determinazione della qualitàbiologica delle acque; il libro, Progetto Vol-turno, è del WWF.

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Secondo un racconto di Denis Diderot(1713-1784) (2002, 1769), il cardinaleMelchior de Polignac (1661-1742), col-pito dallo sguardo umanissimo di unorango [1] in esposizione nei giardinidel re di Francia, avrebbe esclamatocon l’ardore di un missionario: “parla eio ti battezzo”. La frase del Polignacnon esprime tanto l’impossibile tenta-tivo di “convertire un primate” (cheforse sarebbe piaciuto agli attuali so-stenitori dei diritti degli animali), ma èsoprattutto traccia di un esorcismo chetrova origine nella cultura cartesiana eilluminista del Settecento. La distanzatra uomo e animale è marcata, in que-sta visione dualistica della natura, pro-prio dall’impossibilità, anatomica e co-gnitiva, del linguaggio. A quasi tre se-coli dagli scongiuri dell’eminente Poli-gnac, si può ancora affermare che il lin-guaggio di Homo sapiens rappresenti“il nostro Rubicone e nessuna bestiabruta ardirà attraversarlo”, come af-fermò il linguista Friedrich Max Müller(1823-1900) (citato in Corballis 2008).Infatti, nonostante un filone di ricercaetologica intrapreso fin dai primi delNovecento, a tutt’oggi non sono statiscoperti chiari equivalenti animali dellinguaggio umano (cfr. Deacon 1992,2001). Questo è caratterizzato da una“referenzialità simbolica” per cui ilsegno (gesto) o la parola significanoqualcosa non in quanto “indicano” o ri-chiamano alla mente quel “qualcosa”per associazione, ma in quanto lo sim-bolizzano. Se si vede o si ascolta uncane, questo fatto evoca nella mente ilconcetto di cane, che a sua volta evocala parola “cane”. Se, al contrario, siascolta la parola “cane”, ciò evoca nel-la mente il concetto di cane e chi haascoltato può immaginare l’aspetto e illatrato di un cane, cioè dell’oggetto làfuori: per avere la qualifica di parola,un segnale deve quindi possedere que-sto tipo di referenzialità simbolica (cfr.Maynard Smith & Szathmáry 2001).Un’altra fondamentale proprietà dellinguaggio umano è la “ricorsione” percui, attraverso la combinazione diunità discrete (parole), si possono pro-durre un numero praticamente infinitodi frasi grammaticalmente corrette(Mithen 2007). Pur non essendo chiaro

se siano usate “parole” e con qualefrequenza ciò accada, ci sono peròdelle caratteristiche della comunica-zione animale che sembrano “allu-dere” al linguaggio umano: queste ap-parenti somiglianze possono fornirequalche indicazione per comprendernele basi evolutive?

Un esempio molto noto di linguaggioanimale è la “danza” che le api ese-guono per comunicare alle consorellela direzione e la distanza di una fontedi nettare. Una componente della dan-za è una sorta di “scodinzolamento” incui l’angolo fra la posizione del corpo ela verticale rappresentata dal sole in-dica la direzione di volo; l’altra compo-nente è costituita dall’intensità deimovimenti dell’addome, che indica ladistanza dall’alveare. Come il linguag-gio umano, anche la comunicazionedelle api mostra una certa referenzia-lità ed è inoltre in grado di fornireinformazioni su eventi dislocati nellospazio, se non nel tempo. Tuttavia,queste prestazioni sono limitate a unambito di informazioni molto partico-lare e ristretto: ciò che riguarda il cibo.Inoltre, né la danza delle api né nes-sun altro tipo di comunicazione ani-male a tutt’oggi ha mostrato il feno-meno della ricorsione, tipico del lin-guaggio umano. In ogni caso, questocomportamento denota che anche unsistema nervoso semplice come quellodell’ape è capace di comunicazione re-ferenziale (Deacon 1992).

Un caso che ha fatto molto discuterenegli ultimi anni si riferisce al cercopi-teco verde, una scimmia africana i cuirichiami di allarme sono considerati daalcuni etologi cognitivi l’equivalentedelle parole umane. Verso la metàdegli anni ’80 Seyfarth & Cheney(1993) riferirono che i cercopitechi ver-di producevano richiami d’allarme chesembravano rappresentare nomi dipredatori distinti. Le loro osservazionisuggerivano che venivano effettiva-mente prodotti richiami differenti perallertare gli altri membri del brancodella presenza di aquile, leopardi oserpenti [2]. In risposta all’ascolto diuno dei richiami, gli altri membri del

branco fuggivano dagli alberi (aquila),si arrampicavano sugli alberi (leo-pardo), oppure si ergevano per scru-tare i cespugli circostanti (serpente): idistinti richiami sembravano perciò ri-ferirsi a tipi distinti di predatori. Setale ipotesi fosse risultata corretta, al-lora i cercopitechi dovevano essere ingrado di rispondere in modo appro-priato ai richiami (“parole”) anchesenza nessuna informazione conte-stuale. Nello stesso modo in cui noisappiamo di dover fuggire da un edifi-cio se qualcuno grida “al fuoco!”, lescimmie dovrebbero sapere quale rea-zione di fuga scegliere quando odonoi gridi di allarme per i leopardi, leaquile e i serpenti. A tale scopo, Sey-farth e Cheney registrarono i gridi diallarme emessi nei contesti giusti e lifecero ascoltare a cercopitechi in na-tura, filmandone le reazioni. Gli ani-mali risposero ai richiami registraticome se fosse stato individuato unvero predatore e gli autori concluseropertanto che i richiami di allarme deicercopitechi sono usati per indicare unreferente e quindi funzionano come al-cune delle nostre parole. In realtà,come ha giustamente osservato Hau-ser (2002), più che alle parole, i grididei cercopitechi possono essere para-gonati al pianto: entrambi i richiamisono referenziali, poiché comunicanouna particolare situazione emotiva, nelprimo caso in riferimento a una situa-zione di pericolo, nel secondo a una si-tuazione che richiede conforto. In que-sti casi, diversamente dalle parole, co-noscendo le proprietà acustiche si puòdeterminare con precisione lo statoemozionale di chi grida. Al contrario,se un uomo grida “aquila” ciò po-trebbe voler dire che ha appena indi-viduato un’aquila librata in cielo o cheprevede di vederne una, indipenden-temente dal fatto che la cosa lo entu-siasmi, lo spaventi o gli sia del tuttoindifferente. L’attuale comprensionedella comunicazione animale suggeri-sce quindi che le parole umane e i ri-chiami degli animali si basano su stru-menti mentali del tutto diversi: i ri-chiami indicano oggetti presenti qui eora, in riferimento a un preciso statoemotivo, mentre le parole possono ri-

Parla e ti battezzo:il linguaggio negli animali e nell’uomodi Vincenzo Caputo, [email protected]

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ferirsi anche a cose appartenenti allontano passato o al più remoto futuro.

Anche il tentativo di insegnare a pri-mati superiori linguaggi simbolicisemplificati (sia il linguaggio ameri-cano dei segni, sia l’uso di lessi-grammi) ha evidenziato le difficoltà diapprendimento apparentemente in-superabili nel passaggio dalle asso-ciazioni condizionate a quelle simbo-liche (Deacon 2001). In effetti, l’inse-gnamento del linguaggio dei segniagli scimpanzé sembrava inizialmenteindicare una notevole competenza lin-guistica di questi primati. Tuttavia,verifiche successive basate sull’e-same al rallentatore di filmati eseguitidurante le sessioni di addestramento,rivelavano che la maggior parte deisegni formulati dalla scimmia eranosuggeriti inconsciamente dai suoistessi insegnanti e che l’animale nonfaceva altro che imitarli nell’intento diottenere un premio. Altrettanto con-troversi sono risultati i test in cui si in-segnava a degli scimpanzé a disporredei lessigrammi secondo un ordineprescritto, in modo da formare “frasi”e ottenere premi: gli scimpanzé impa-rarono tutti a maneggiare una certaquantità di simboli, svelando un’im-pressionante capacità cognitiva. Marimane tutt’altro che chiaro se in qual-cuno di questi casi d’uso dei simbolici fosse una reale comprensione deisimboli stessi. Ed è proprio “la diffe-renza fondamentale fra l’usare i sim-boli e il comprenderli a costituire la di-scontinuità fra gli animali e gli umani,e ciò che porta alla manifesta ed enor-me distanza fra le richieste automati-che delle scimmie addestrate al lin-guaggio e ai voli concettuali degliumani” (Budiansky 2007).

In definitiva, la diversità fra comuni-cazione umana e animale emersa daglistudi etologici rende difficile tracciarele origini evolutive delle parole facen-dole risalire a un precursore animale.La maggioranza degli autori sembrainvece ipotizzare che il linguaggio sisia originato dopo il distacco della di-ramazione ominide dagli altri primati(Hauser 2002, Mithen 2007) e che co-stituisca un istinto, una dotazione spe-cie specifica innata che sarebbe rin-tracciabile soltanto nell’uomo (cfr.Pinker 2007). Idee sull’evoluzione dellinguaggio umano ce ne sono parec-chie; così tante che nel 1866 la Societéde Linguistique di Parigi dispose chenon avrebbe più accettato memoriesull’argomento a causa dell’eccessiva

fantasia e arbitrarietà delle teorie pro-poste. Sembra però opportuno fare uncenno alle ipotesi sull’origine del lin-guaggio formulate recentemente eche prevedono una fase prelinguisticadominata dalla comunicazione mimicaintenzionale, il cui obiettivo è la rap-presentazione di un evento (cfr. Do-nald 2004, Corballis 2008). Tale capa-cità, assente nei primati antropomorfi,si sarebbe evoluta nei primi ominidi eavrebbe svolto un ruolo cruciale anchenelle fasi successive dell’evoluzioneumana: prova ne sia il fatto che,tutt’oggi, la mimica rappresenta unaforma di comunicazione universale, in-dipendente da etnie e culture (Eibl-Eibesfeldt 2001) [3]. Il linguaggio veroe proprio sarebbe sorto, secondo l’in-terpretazione dello psicologo evolutivoRobin Dunbar (1998), per svolgere lastessa funzione del grooming: come lescimmie si spulciano a vicenda permantenere la coesione del gruppo,così il linguaggio si sarebbe sviluppatofra gli esseri umani come strumento diprevenzione e risoluzione dei conflittiche avrebbero potuto comprometterela coesione della comunità. Questasvolta cognitiva si sarebbe verificataquando le dimensioni delle comunitàominidi erano cresciute al punto che ilgrooming non poteva più essere l’u-nico mezzo di espressione dei legamisociali fra i membri del gruppo. Dun-bar ha anche osservato che, fra i pri-mati, le dimensioni del gruppo sonocorrelate positivamente al quozienteneocorticale (QN), cioè il rapporto franeocorteccia e il resto dell’encefalo.Gli umani hanno un QN molto più ele-vato (4.1) rispetto ai primati antropo-morfi, dove QN varia fra 2.1 (gibboni) a3.2 (scimpanzé) [4]. È dunque sugge-stivo ipotizzare che l’acquisizione dellinguaggio possa essere stata unaconseguenza delle accresciute dimen-sioni dell’encefalo, che avrebbero in-direttamente favorito questa svoltafondamentale nella comunicazione.Questa si sarebbe realizzata in Homoerectus [5] (circa 2 milioni di anni fa), ilprimo ominide ad aver nettamente su-perato la gamma di variazione del quo-ziente di encefalizzazione delle scim-mie antropomorfe. La comparsa evo-lutiva di H. erectus rappresenterebbequindi una vera e propria linea di de-marcazione cognitiva (Donald 2004),attestata inoltre dalla “rivoluzione tec-nologica” della cultura acheuleana(Lewin 1996). La recente scoperta nelgenoma di Homo neanderthalensis del-la stessa variante del “gene del lin-guaggio” FOXP2 [6] presente in H. sa-

piens, suggerisce che essa fosse giàpresente nel progenitore comune diquesti ominidi, avvalorando perciò l’i-potesi che anche H. erectus fosse dota-to di capacità linguistiche (cfr. Krauseet al. 2007).

Un importante lascito di Darwin è laconsapevolezza che noi umani siamoinestricabilmente (=filogeneticamente)legati agli altri animali. Questo datoscientifico ci rende “meno soli” nell’u-niverso, anche se la nostra peculiaritàcognitiva esalta innegabilmente la di-stinzione di Homo sapiens entro ilmondo animale. Una variante del dua-lismo cartesiano sembra perciò resi-stere (umano vs animale), malgrado leingegnose indagini di quegli etologi epsicologi evolutivi che tentano di col-mare l’abisso cognitivo che ci separadagli altri animali. Pinker (2007) ha giu-stamente fatto rilevare che gli sforzi diquesti ricercatori sono destinati a unoscontato fallimento.

L’altra eredità darwiniana che haprofondamente inciso sulla nostra vi-sione della natura è il “gradualismo”,cioè l’idea secondo la quale l’evolu-zione si verificherebbe secondo un co-stante e continuo passaggio tra formedi vita impercettibilmente diverse: perDarwin infatti le specie non esistono,se non come costrutti metafisici dellamente umana (cfr. Caputo 2009). Inrealtà, le ricerche svolte nel corso delNovecento hanno chiaramente dimo-strato che le specie sono “prodotti”reali della natura e il meccanismo chele crea è la cladogenesi o speciazione,che Darwin non aveva pienamentecompreso (cfr. Mayr 1990). Ed è pro-prio la speciazione che, generando inperpetuo discontinuità fra gli organi-smi, tende a saturare quelle opportu-nità ecologiche che il divenire del Pia-neta offre costantemente alla vita. Seil cambiamento evolutivo si verificasse,come Darwin pensava, esclusivamentesecondo la modalità del gradualismo fi-letico, che può solo modificare unastessa linea di discendenza, la vitaprima o poi perirebbe sotto i colpi spie-tati dell’estinzione.

Questa visione gradualistica del pro-cesso evolutivo, enfatizzando la conti-nuità uomo-animale (cfr. Rachels 1996),ha inoltre fornito all’attuale movimentoanimalista un potente argomento a fa-vore dei “diritti animali”. I più accesisostenitori della filosofia animalistahanno introdotto il termine “specismo”per stigmatizzare la discriminazione

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nei confronti dei “non-umani”, sottoli-neando che questa attitudine discri-minatoria è simile al razzismo e al ses-sismo (cfr. Rachels 1996). Secondo unodei massimi esponenti del movimentodi “liberazione animale”, così come ilrazzista attribuisce maggior peso agliinteressi della sua etnia e il sessista aquella del suo sesso, “lo specista per-mette che gli interessi della sua spe-cie prevalgano su interessi superiori dimembri di altre specie” (Singer 2003).L’animalismo più avanzato si è poi de-dicato al cosiddetto “Progetto GrandeScimmia”, esposto in un libro che esor-disce col seguente proclama “Noi chie-diamo che la comunità degli eguali siaestesa a includere tutti i grandi antro-poidi: esseri umani, scimpanzé, gorillae oranghi” (citato in Castignone 1997;cfr. anche Marks 2003). Non c’è chinon veda in questo vero e proprio fa-natismo zoofilo la forma più estrema diantropomorfismo. Attribuendo, infatti,diritti agli animali ed elevandoli di con-seguenza a membri della comunitàmorale, li vincoleremmo a obblighi chenon possono né comprendere né tantomeno ottemperare [7]. Perseverandoin questa assurda pretesa, si arrive-rebbe al paradosso per cui una volpedovrebbe rispettare il diritto alla vitadel pollo e intere specie sarebberocondannate ipso facto all’estinzione inquanto creature istintivamente crimi-nali (Scruton 2007, 2008)!

In realtà, pur nella piena consapevo-lezza del vincolo filogenetico che ciunisce agli altri animali, mi sembrapura cecità ideologica non voler ve-dere le incommensurabili differenzecognitive che ci separano da essi,come lucidamente sostenuto dal piùgrande biologo evolutivo del Nove-cento, Ernst Mayr (1904-2005): “cer-tamente, da un punto di vista zoolo-gico, l’uomo è un animale, ma un ani-male unico, che differisce da tutti glialtri per così tanti aspetti fondamen-tali da giustificare una scienza sepa-rata specificamente dedita al suo stu-dio (…) un sistema di valori riferito al-l’uomo e un’etica antropocentrica. Inquesto senso una forma profonda-mente modificata di antropocentrismocontinua a essere legittima” (Mayr1990, pag. 384).

(L’articolo è una parte, parzialmentemodificata, del saggioMente e coscien-za negli animali: un excursus etologico,apparso in “Naturalmente. Fatti e tra-me delle Scienze”, n. 3, 2009).

Note

[1] Anche la regina Vittoria d’Inghilterraavrebbe notato, circa un secolo dopo, l’a-spetto “dolorosamente e sgradevolmenteumano” dell’orango (Desmond & Moore 1992).[2] Nei primati non umani è stato indivi-duato un territorio corticale, localizzato nelgiro frontale inferiore e quindi corrispon-dente all’area di Broca, che si attiva durantela produzione di segnali di comunicazione(Taglialatela et al. 2008; cfr. anche Fisher &Marcus 2006).[3] Nelle attuali popolazioni culturalmentearretrate (paragonabili a quelle paleolitiche)l’uso del linguaggio è particolarmente riccoentro il contesto sociale, mentre è assai li-mitato in ambiti quali la tecnologia, il com-mercio e l’artigianato, dove la comunica-zione mimica continua a essere più impor-tante (Dunbar 1998).[4] Lo sproporzionato sviluppo del prosen-cefalo e della neocorteccia negli ominidiavrebbe portato secondo Deacon (2001) a fe-nomeni di spiazzamento, cioè di riorganiz-zazione del cablaggio assonale, in cui il col-legamento fra corteccia prefrontale e troncoencefalico sarebbe alla base del fine con-trollo volontario su laringe e dinamica re-spiratoria necessario per la fonazione.[5] Gli erectus africani sono attribuiti allaspecie ergaster da un crescente numero dipaleoantropologi (cfr. Tattersal 2008).[6] Questo gene regolatore, localizzato sulcromosoma 7 della nostra specie, quandomutato, determina una disprassia verbaledello sviluppo, cioè difetti che vanno dallapronuncia delle parole all’elaborazione dellagrammatica (Richmond & Perrella 2007).[7] Mi sembra utile riportare qui la distin-zione fra agenti e pazienti morali fornita daHauser (2007): “l’individuo comprende e ri-spetta i diritti degli altri e si assume la re-sponsabilità delle proprie azioni? Se la ri-sposta è si, allora l’individuo è un agentemorale. Se la risposta è no … allora è un pa-ziente morale; gli agenti morali sono in qual-che modo responsabili dei pazienti morali”.

Bibliografia

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Vincenzo Caputo si occupa di ricerche sugenetica ed evoluzione dei Vertebrati e in-segna Anatomia Comparata e Biologia Evo-lutiva all’Università Politecnica delle Mar-che (Ancona).

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L’ultima volta è stata nel n. 2/2009(62), fatalmente chiamato “Dalla partedegli animali”. Dopo di che il nostro di-rettore Maria Turchetto ha ceduto allepressioni del sondaggio (i cui risultatifurono pubblicati nel numero succes-sivo) e ha smesso di chiamarci con ap-pellativi riferiti a specie animali nonumane (di vari ordini e famiglie), o di-rettamente al regno di nostra apparte-nenza (“cari animaletti”). Una ragionedi questa rinuncia, accennata proprioin quell’editoriale, riguardava lo scarsogradimento, da parte dei lettori, di ap-pellativi troppo familiari o infantili. Ac-canto a questo, il sondaggio eviden-ziava il dato ambivalente di una rivistaritenuta talvolta troppo seriosa e intel-lettuale, talvolta troppo leggera e iro-nica. Infine, il direttore aggiungeva lasua interpretazione – che confermereiindirettamente attraverso l’interazionecon amici e colleghi che si dichiaranolaici e/o atei – che alle lettrici e ai let-tori de L’Ateo non andasse del tutto agenio essere accostati ad “animali”, ri-nunciando così, sebbene temporanea-mente e per scherzo, alla faticosa-mente acquisita dignità umana.

La mia intenzione, invece, è dimostrarenon solo la legittimità di principio, maproprio la pertinenza di fatto di questinomignoli in un contesto ateo, con lasperanza di render conto di una forteaffinità etico-ideologica condivisa daateismo e animalismo (nonostante, aconti fatti, se lo dicano poco e tra lerighe). La tesi è: animalismo e ateismo,pur non sinonimi, sono reciprocamenteinclusivi, dovendo lottare per cause dianaloghe origini e complementari so-luzioni. Farei anche un distinguo, tranomignoli legittimi ideologicamente elogicamente, ed altri legittimi solo insenso ideologico, ai quali, a mettere ipunti sulle “i”, ci si potrebbe opporreper pura inaccuratezza tassonomica.Mi riferisco, ovvero, a termini come“coniglietti” o il recente “piantine”.Ma andiamo per ordine.

Se fosse vero che a infastidire in quegliappellativi è il tono “da giardino d’in-fanzia”, allora possiamo subito accor-darci nell’utilizzare, d’ora in poi, for-

mule come “cari primati”, “gentiligrandi scimmie”, “egregi eucarioti”,“illustrissimi cordati”, “stimati mam-miferi” e “amati animali”. Non si ricor-rerebbe all’infantile e al pleonastica-mente tenero, e non ci sarebbe con-traddittorio, essendo, queste, tutte co-se che noi esseri umani siamo vera-mente. Ma, naturalmente, non ci credoneanche per un attimo che sia quellala reale motivazione del dissenso di al-cuni lettori. Anzi, chiederei cortese-mente al nostro direttore di provareper qualche numero a esordire in unodei modi elencati, aspettando, con ci-nese pazienza, che i veri motivi del di-sagio vengano stanati.

Le stesse espressioni tornerebbero utilinell’altro importante dato emerso dalsondaggio. Ovvero: il tono di certi scrittide L’Ateo sarebbe un po’ troppo ironico.Perfetto, quindi: è ironico “coniglietti”,ma non è ironico “cordati” (come le ve-rità scientifiche non sono né ironiche néseriose). Non va bene “scimmiotti”, mava bene “grandi scimmie”. Nuovamen-te, dunque, caro direttore, usi purequalcuna delle espressioni elencate e simetta in attesa. Vedremo se finalmentequalcuno ammetterà che il problemareale è un altro.

Il problema reale è che, storicamente, apochi esseri umani piace essere acco-stati ad altri animali, o all’idea di ani-malità tutta. È uno dei primi dilemmiche faccio presente ai miei studenti deicorsi di Zoosemiotica. Entro in classe e lichiamo “animali!”. Poi chiedo loro comesi sentono. In genere, non benissimo.Un altro giochetto consiste nel chiedereloro di dirmi le prime cinque specie ani-mali che vengono in mente. Risultato:cani a go-go, tantissimi gatti, curiosa ab-bondanza di grandi felini (leoni e tigri …e secondo me c’è da riflettere su questo)e varie altre scelte dettate – sospetto –da inclinazioni e gusti personali. Mai –ripeto: mai – uno che includa l’Homo sa-piens nella selezione.

Se pensate che questo fatto sia nor-male, allora spiegatemi perché ai violi-nisti cui si chieda di elencare 5 stru-menti musicali, l’occorrenza “violino”

appaia quasi nel 100% dei casi; a untennista cui si chieda di elencare 5sport viene subito in mente “tennis”,ecc. Ovvero: sembra quasi istintivo nu-trire senso di appartenenza a un datoinsieme, eppure quando l’insieme sichiama “Regno Animale” c’è una forteresistenza all’affiliazione. Da cosa de-riva questa cronica incapacità nel sen-tirci “animali” al di fuori del discorsoscientifico (tenendo presente che per-sino al suo interno vi siano occasional-mente questioni)? Perché “sentirci ani-mali” va bene durante il Darwin Day,ma non nel senso comune?

Ricordo il buon Paolo Valenti, nelle edi-zioni storiche di 90° Minuto. Esordivasempre con “Amici sportivi, buona-sera”. Diceva “sportivi”, non “calcio-fili”. Gli saranno mai arrivate lettere diprotesta? Mi chiedo anche se, duranteun convegno nel quale ebbi il piaceredi conoscerlo, Ennio Morricone si siaoffeso quando un collega lo definì “unodei più grandi artisti dei nostri tempi”.Per la miseria, è un musicista! Anzi, uncompositore! Oh, dannata superficia-lità! E che dire di quell’otorinolarin-goiatra che osai chiamare semplice-mente “dottore”?

Eppure, non è esattamente questa su-perficialità che infastidisce, almenonon in questo momento storico. Alcunecategorie, per quanto generiche, civanno ancora bene. Va bene definirsiper nome, per cognome, per cittadi-nanza, nazionalità, etnia (per questomi riferivo alla storia: un tempo ancheetnie e nazionalità erano faccende de-licate) e su fino alla specie. Fin lì nonesiste un problema di micro- e macro-insiemi. È quando si oltrepassa la so-glia dell’umanità che sono cavoli.

Per qualche motivo, il salto che possocompiere da Italiano ad Europeo è unsalto sostanzialmente irrilevante ai finidella mia identità. Viceversa, se il saltoè da essere umano a Primate, sembrache abbia perso tutto (alla faccia di chidiceva che condividiamo il 98-99% delpatrimonio genetico con gli scim-panzé). Il bello è che ho perso poco oniente: posso ancora mangiare, respi-

L’importanza di essere scimmiette:perché atei e animalisti sono amici per la pelledi Dario Martinelli, [email protected]

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rare, muovermi, dormire, provare emo-zioni, ragionare, godere del sesso e dimolti altri piaceri della vita. Meglio: laquestione è del tutto irrilevante, vistoche per definizione un insieme ha tuttele caratteristiche (più altre) di ogni suosotto-insieme. L’essere semplicementesportivi non ha privato gli spettatori di90° Minuto di nessuna delle loro carat-teristiche specifiche di calciofili.

Noi siamo esseri umani né più né menodi quanto non siamo mammiferi o ver-tebrati. Qualunque anello superioredella nostra tassonomia è qualcosa chesiamo. Non c’è né ironia né minaccia diidentità in questo. È scienza, punto ebasta. E allora la domanda rispunta:perché ce la prendiamo? Perché, aconti fatti, solo un animalista non se laprende? Chi ci ha messo in testa que-sta idea d’essere, come disse qual-cuno, degli “animal plus”, o addiritturadi non essere animali del tutto?

Ai tanti che stanno pensando “è statala religione!”, bisognerebbe precisareche prima di essa (notoriamente piùbrava a copiare che a ideare, in quantoa precetti filosofici), c’era almeno Ari-stotele. Nella Politica, Aristotele arti-cola questa Scala Naturae che vuole gliesseri umani maschi e liberi in una po-sizione di vertice, seguiti dalle donne,dagli schiavi e, appunto, dagli altri ani-mali. Pari pari quello che poi le religioni,almeno le principali, hanno integratonel loro paradigma. Non solo per quelloche riguarda gli animali non umani (ba-sterebbe pensare alla condizione fem-minile), ma certo con particolare acca-nimento verso questi, ridotti – secondola bibbia – a subire il “dominio” e la“soggezione” degli esseri umani, e adaverne “timore” e “spavento” (Genesi,1:26, 1:28 e 9:2 … e, credo, altrove).

È un imprinting che c’è rimasto, a pre-scindere dal nostro rapporto con la re-ligione. Abbiamo rielaborato il nostroantropocentrismo in molteplici salse,ma non abbiamo mai rinunciato al fon-damento (fondamento?, dogma!) chel’essere umano fosse o un animalemolto-ma-molto speciale (di una spe-cialità qualitativamente differentedalle altre specie), o un qualcosa di ni-tidamente altro, un regno a sé. L’im-patto di Darwin (che, ricordiamocelo,non fu ostacolato solo dalla chiesa) èstato naturalmente capitale, ma non èancora riuscito a cancellare questo as-sunto nella maggior parte di noi, tantoche – spesso e volentieri – ci abbando-niamo a grossolane confusioni sul reale

contenuto delle teorie dell’evoluzione(o del lavoro di Darwin stesso: alzi lamano chi ha letto The Descent of Mane/o The Expression of Emotions in Manand Animals, dove si trova un biocen-trismo che non dispiacerebbe a Singero Regan). Esempio tipico di questaconfusione è la percezione dell’essereumano come discendente dallo scim-panzé e non – come sarebbe corretto –discendente da un progenitore comuneallo scimpanzé. Non è differenza mar-ginale, perché essere nipoti di una spe-cie, piuttosto che cugini, implica giàuna posizione privilegiata nell’evolu-zione, piuttosto che una parallela, econtribuisce alla (erronea) percezionedella scala evolutiva come di una pira-mide il cui vertice è trionfalmente oc-cupato dall’Homo sapiens, contrappo-sta alla metafora, più accurata, di unalbero che si dirama in mille modi,senza che un ramo assuma posizionedominante rispetto agli altri.

Ora. Sono centinaia (davvero centi-naia) le implicazioni scientifiche e filo-sofiche di un atteggiamento antropo-centrista. Si va dalla legittimazionemorale delle discriminazioni alla per-cezione distorta dei fatti scientifici.Dalla costruzione di una cosmologiafatta di (pochi) centri e (tante) perife-rie (per dirla con Galtung), alla giustifi-cazione di diverse e sistematiche vio-lenze. Dalla negazione metodologicadei pluralismi all’idea di un mondo “di-segnato intelligentemente” (e a favoredi un’unica specie). Fino, inevitabil-mente, all’uso sistematico del dogmae dell’ignoranza come strumenti di po-tere e controllo delle idee (che fa tantoBerlusconi … ma questo è un altro– tristissimo – problema).

È qui che emerge la necessità di un su-peramento radicale dell’antropocentri-smo come esigenza fortissimamentecomune ai movimenti animalista edateo. Si tratta della stessa battaglia.Stessi nemici, stessi presupposti, stes-si esiti sperati. Atei e animalisti po-trebbero e dovrebbero andare assiemea cena e pianificare campagne e stra-tegie comuni. E sarebbe carino se, perl’occasione, gli atei non ordinasserocarne o pesce (se la motivazione dellaviolenza verso altre specie non fossesufficiente, che almeno boicottino lacultura del “sacrificio agli dei”, per cui– nelle occasioni importanti o celebra-tive – si deve mangiar carne).

Il principale punto all’ordine del giornosarebbe proprio di matrice evoluzioni-

stica e progressista (due aggettivi ingenere applicabili a entrambi i movi-menti). Ripensare gli animali è neces-sario perché si conforma ad un precisodestino storico, quello cioè di allargareil centro e di includere sempre più pe-riferia. Chi siamo noi? E chi sono glialtri? Oggi, noi siamo molti più indivi-dui di un secolo fa (grazie soprattuttoalla laicizzazione delle interazioni so-ciali). Noi siamo anche le donne, i non-occidentali, gli omosessuali, le personecon deficit mentale. Ieri eravamo moltimeno e domani saremo altri ancora,compresi altri animali. Esistono già,per esempio in Spagna e Nuova Ze-landa, leggi che garantiscono ai pri-

La zoosemiotica è un’area di ricercaavviata nei primi anni sessanta delXX secolo dal semiologo unghereseThomas Sebeok. Si occupa delleforme di comunicazione e significa-zione delle specie animali, sia a li-vello intraspecifico sia interspecifico.Un caso particolare di semiosi inter-specifica è quella tra l’animaleumano ed altre specie. Quest’area,denominata “Zoosemiotica antropo-logica” o semplicemente “Antrozoo-semiotica”, include anche lo studiodei vari modi in cui l’animale nonumano diventa per quello umano“segno”, “rappresentazione”, “unitàculturale”. In questo senso, si occupaanche di tassonomia, miti, stereotipi,etica, ed altre forme di significazione.

Riferimenti bibliografici

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mati superiori (scimpanzé, gorilla,oranghi, gibboni e bonobo) il fonda-mentale diritto a non subire invasionifisiche, a meno che non siano esclusi-vamente rivolte al benessere del sog-getto in questione. Sembra poco, per-ché riguarda solo gli animali più similia noi. In realtà è la rivoluzione, perchéil punto è che abbiamo spostato lagrande muraglia più in là. Proprioquella muraglia che la chiesa, da Ari-stotele, ha sorretto spietatamente at-traverso secoli di pensiero filosofico epersino scientifico (si veda Descartes).

Oggi le cose cominciano veramente acambiare. Stiamo veramente mutandoquella geografia binaria che vuole gliesseri umani “dentro” e tutti-tutti-ma-proprio-tutti gli altri animali “fuori”.Alcuni animali sono ora “di qua”. Nonè più “umani e altri animali”, ora è“grandi scimmie e altri animali”. Do-podomani sarà “mammiferi e altri ani-mali”. E così via. I segnali sono chia-rissimi. Poi, certo, qualcuno sorrideràal pensiero che i neozelandesi hanno

un essere umano ogni trenta pecore,per cui sembra ovvio che le bestie ab-biano più voce in capitolo. Fra qualcheanno, tuttavia, ci piaccia o no, saràquesta la normalità e arretrati – dalpunto di vista civile – verranno consi-derati i Paesi che a questa normalitàresisteranno, così come oggi sono ar-retrati quelli che sostengono una cul-tura omofoba, la negazione delle pariopportunità e tutte quelle altre formedi arretratezza che, direttamente o in-direttamente, sono state proprio crea-te (o alimentate, o al limite non conte-state) dalla chiesa. Non è un caso cheesistano movimenti denominati eco-femminismo e femminismo animalista.Le donne (sempre un po’ più avanti dinoi maschietti) si sono accorte che iloro problemi civili rispetto ad una so-cietà maschilista erano e sono virtual-mente gli stessi degli animali nonumani rispetto ad una società specista.

Possiamo fingere che il problema nonesista e continuare ad applicare al di-scorso comune (e, ripeto, persino a

quello scientifico) l’abituale sistema divalori antropocentrico. Andrà bene an-cora per qualche anno, forse decennio.Poi, però, verremo svegliati bruscamen-te, e senza complimenti, e sarà moltopiù faticoso adattarsi. Faremo la stessamagra figura dei geocentrici, dei ma-schilisti, dei razzisti. Non è una pro-spettiva allettante. Meglio sarebbe li-berarsi dell’antropocentrismo ora chepare ancora “puro” e “innocente”. In-somma, colleghi vertebrati, a ciascunoil suo Giuda. Lasciamo ai credenti l’I-scariota: noi teniamoci l’Eucariota, “do-minio” di tutti i “regni” del vivente,sperando che il suo tradimento portialla definitiva crocifissione del nostro,sempre più anacronistico (anche perchéintrinsecamente religioso), specismo.

Dario Martinelli è docente di Semiotica e Mu-sicologia all’Università di Helsinki (Finlan-dia). I suoi principali ambiti di ricerca sono laZoosemiotica e la Zoomusicologia, argo-menti che ha trattato in varie monografie edinsegnato in diverse università europee.

Le mille e una faccia del nemicodi Luca Alessandro Borchi, [email protected]

“L’angoscia della posizione eretta” [1].“Questa espressione di Franz Kafka– o, forse, sarebbe meglio dire del-l’umano-insetto Gregor Samsa – c’in-terroga sul luogo che pensiamo di oc-cupare nell’ambito della natura, sul-l’assiologia che da tale credenza derivae sugli effetti materiali che ha provo-cato. L’interrogativo che essa sottendeè innanzitutto topologico poiché, met-tendo in discussione il valore adatta-tivo che attribuiamo a questa caratte-ristica anatomica – che in molti riten-gono la causa del nostro livello di en-cefalizzazione e della nostra destrezzamanuale, cioè di quella serie di carat-teri spesso chiamati in causa per so-stenere la nostra differenza dal restodel vivente – apre lo spazio per una ra-dicale dislocazione dell’umano. In altritermini, quello che Kafka sembra dirciè che il proprio dell’umano è anche an-goscioso – ciò che ci ha permesso di so-pravvivere come specie (la stazioneeretta, l’encefalizzazione, il pollice op-ponibile) è anche ciò che ci fa sopra-

vivere, cioè vivere sopra la natura,completamente alienati da essa. La po-stura eretta, con ciò che ne consegue,ci permette di guardare la natura dal-l’alto, di dominarla e manipolarla, me-tamorfizzando un animale mancante inanimale mancato. È quello che Adornodefinisce “Il trionfo e il fallimento dellacultura” [2], l’origine, al contempo, del-le realizzazioni della nostra specie edel disastro etico, sociale ed ambien-tale in cui ci ha condotti” [3].

Iniziò, probabilmente, quando l’altroda noi, prese a spaventarci e con lospavento la problematica della possi-bile soluzione ci tolse il sonno. In se-guito il problema, causa dell’“inson-nia”, non venne più affrontato ad “ar-mi pari”, ma assunse via via le formedi una difesa-offesa fatta di strumentitecnici sempre più sofisticati e mici-diali, fino al raggiungimento della tota-le addomesticazione-schiavizzazione,al ridicolizzarli in ambito circense, allacaccia come attività ludico-sportiva, al-

l’insensata tortura dei laboratori bio-medici, alla catena di montaggio-mat-tatoio, all’allevamento intensivo e almassacro su scala industriale. Non è, enon vuole essere questa storica sintesi,una di quelle operazioni-provocazioneimpiantate su un sensazionalismo dimaniera, mirante a suscitare facili ri-gurgiti di pietà o di commiserazione,bensì, una stringata introduzione al-l’orrore quotidiano che esercitiamo, inquanto esseri umani, responsabili di-retti, complici o distratti, di una vio-lenza atroce e spietata, in gran partegratuita.

Colgo d’impulso, dai libri e carte acca-tastati sulla scrivania, una riflessionedi Michel Montaigne sulla presunzioneumana: “L’uomo è la più perniciosa efragile di tutte le creature e, tuttavia,anche la più arrogante (…) È possibileimmaginare qualcosa di più ridicoloche il definirsi da parte di questa crea-tura miserabile e meschina, che non ènemmeno padrona di se stessa, il si-

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gnore e padrone dell’universo?” [4] econclude: “È evidente che se noi ci po-niamo al di sopra degli altri animali eci isoliamo dalla loro natura e dal loroconsorzio, ciò non è dettato da una cor-retta valutazione della nostra situa-zione, ma da folle orgoglio e ostina-zione” [5]. Nel 1917 Freud, affrontandol’argomento della supremazia umana,scriveva: “L’uomo, nel corso della suaevoluzione civile, si eresse a signoredelle altre creature del mondo animale.Non contento di un tale predominio,cominciò a porre un abisso fra il loro eil proprio essere. Disconobbe ad essela ragione e si attribuì un’anima im-mortale, appellandosi a un’altra originedivina che gli consentiva di spezzare isuoi legami col mondo animale” [6].Spezzare i legami con il mondo animaleequivalse a spezzare un legame connoi stessi e ad alienarsi, sistematica-mente, da tutto quello che era natura,e quindi, anche da noi, che della naturasiamo, né più né meno, una delle innu-merevoli forme.

Per centinaia di migliaia di anni i nostriantenati sono stati raccoglitori di ciboche fondavano la loro sussistenza sullacaccia, sulla pesca e su tutto ciò che cre-sceva spontaneamente. La storia delladomesticazione degli animali viene tra-dizionalmente associata con quelladella coltivazione-domesticazione dellepiante durante la “rivoluzione agricola”,sbandierata come il fattore determi-nante della marcia trionfale della nostraspecie dall’età della pietra alla civiltà.Nelle società di cacciatori-raccoglitorispesso esisteva un senso di comunanzatra gli umani e gli animali, che si riflet-teva nel totemismo e nei miti che raffi-guravano animali o chimere, esseri inparte animali e in parte uomini, comecreatori o progenitori della specieumana. Quando gli animali furono ad-domesticati, i pastori e gli agricoltoriadottarono forme di separazione, di ra-zionalizzazione e negazione per distan-ziarsi emotivamente dai loro prigionieri.Il principale meccanismo usato per az-zerare il coinvolgimento emotivo, fu il ri-corso al concetto secondo il quale essi(gli uomini) erano una specie separatae moralmente superiore a quella deglialtri animali, vale a dire quell’atteggia-mento, citato poc’anzi, indicato daFreud. Il rapporto tra gli umani e gli altriesseri iniziò così ad avvicinarsi a quelloodierno: dominazione, controllo e mani-polazione; un rapporto che vede l’uomoprendere decisioni sulla vita e sullamorte di quelli che sono diventati i“suoi” animali: “dipendenti della fami-

glia di un patriarca, il cui status è quellodi persone giuridicamente inferiori, sog-gette all’autorità del loro padroneumano” [7]. Lo storico Keith Thomas ri-tiene che la domesticazione degli ani-mali generò un atteggiamento più au-toritario, dal momento che “il dominioumano sulle creature inferiori forniscelo schema ideale sulla base del quale fu-rono stabilite molte intese politiche esociali” [8]. Jim Mason è del parere cherendendo intensivo lo sfruttamentodegli animali, “i fondamenti della nostrasocietà hanno introdotto crudeltà, di-stacco e un grado di violenza e brutalitàsocialmente accettate sin nel profondodella nostra cultura” [9]. Comunque,una volta istituzionalizzato e accettatolo sfruttamento degli animali comeparte dell’ordine naturale delle cose, siapriva la porta a un trattamento ana-logo per gli altri esseri umani, e conse-guentemente ad atrocità come la schia-vitù e agli inelencabili genocidi, nella di-versità dei colori (politici) di chi li per-petrava e dei colori (della pelle o delDNA) di chi ne era vittima.

Non vorrei soffermarmi sui dettagliinenarrabili delle sevizie esercitatesugli animali, che inizia dall’addome-sticazione forzata e prosegue, senzasoluzione di continuità, fino alla ma-cellazione industriale, ma sul dato chene svela la contaminata filiera, di comeda questa iniziale pratica di padronalecarcerazione possa discendere per in-tero, l’umana ideologia del dominio.Addomesticazione, sperimentazioneanimale, catena di montaggio indu-striale e mattatoio sono in effetti lepremesse per la nascita dell’altro nefa-sto approdo, la camera a gas, cioè quel-l’altro sistema di smontaggio indu-strializzato dei corpi di esseri ritenutiinferiori (cioè in tutto e per tutto equi-parabili agli animali).

Nella sua autobiografia La mia vita e lamia opera, del 1922, Henry Ford rivelache l’idea della catena di montaggio glivenne in mente quando, da giovane,visitò un mattatoio di Chicago. Fordscrive: “Credo che fosse la prima lineadi trasporto mai installata. L’idea mivenne naturalmente guardando il car-rello sopraelevato che veniva utilizzatonelle industrie della carne di Chicagoper la lavorazione del manzo” [10].Questo processo, che solleva gli ani-mali su catene e li spinge di stazionein stazione fino a concluderne il ciclosotto forma di tagli di carne, introdusseun nuovo elemento nella nostra mo-derna civiltà industriale, la neutraliz-

zazione dell’atto di uccidere e un gradodi distacco fino ad allora sconosciuto.“Per la prima volta, le macchine veni-vano usate per velocizzare il processodi uccisione di massa, lasciando al-l’uomo il ruolo di mero complice, obbli-gato a conformarsi al ritmo e alle esi-genze richieste dalla stessa catena dimontaggio” [11]. Restava ormai un pic-colo passo tra l’uccisione industrializ-zata dei mattatoi americani e lo ster-minio di massa organizzato dalla Ger-mania nazista.Non è un caso che Adorno dichiarasseche Auschwitz ebbe inizio al matta-

toio, nel momento in cui la gentepensò: “Sono soltanto animali” [12].Boria Sax a proposito, scrive: “I nazisticostringevano coloro che stavano peruccidere a spogliarsi completamente ea raggrupparsi insieme, la qual cosanon è un comportamento consueto pergli esseri umani. La nudità dunque al-lude all’identità animale delle vittimee, con l’assembramento, suggeriscel’immagine di una mandria di muccheo di pecore. Una sorta di disumanizza-zione che rendeva più facile spararealle vittime o ucciderle con il gas” [13].

Insomma, procedendo per sintesi, ladomesticazione-schiavitù degli animaliha costituito un modello e una fonte diispirazione per la schiavitù umana,come la macellazione industriale di bo-vini, suini, ovini e altri animali ha spia-nato la strada, almeno indirettamente,alla Soluzione Finale hitleriana. Nellastoria della nostra ascesa al dominiocome specie padrona, la persecuzionedegli animali ha fornito l’esempio e ilpresupposto della persecuzione tra gliuomini; ecco il motivo per cui, qual-cuno, arriva ad affermare, che se non

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sei consapevolmente e di fatto “ani-malista e antispecista” non puoi maiessere un autentico rivoluzionario, poi-ché la tua umana rivoluzione sociale,di lì a poco, riproporrà, come una coa-zione a ripetere, lo stesso processo sto-ricamente già percorso. Tale presa diposizione non è ascrivibile solo insenso etico e morale, ma si rivela qualesostanziale e radicale critica politica.Chiunque lotti per l’uguaglianza dei di-ritti dei più deboli, non può, nel modopiù assoluto, non tenere presente i piùdeboli di tutti: gli animali: essi nonhanno voce, non possono difendere sestessi né gli altri, sono in completabalìa dell’umano arbitrio che, nei loroconfronti, è compagno-padrone affet-tivo in relazione alle specie dei cosid-detti “animali d’affezione” (cani egatti), e con le altre specie (diciamo dareddito), invece, veste il ruolo che nerivela l’occultato aguzzino; ora carne-fice o complice, ora indifferente e sordoalle loro urla di dolore.

L’animale veste per antonomasia, gliabiti del nemico che, dall’antropocen-trica organizzazione sociale, rinforzataa sua volta dalla Genesi biblica, ha tra-sposto dalla primigenia faccia diversa-nemico (l’animale) a un’infinita serie difacce diverse e nemiche, in un conte-stuale ampliarsi razziale, sessista eclassista. Questa nostra congrega, on-nivora e dissipatoria nella sua deca-dente apoteosi, celebra, con ingessatapartecipazione, l’estremo risultato rag-giunto dalla “filosofia del cadavere”,attraverso la necrofila quotidianità diuna guerra contro tutti nell’effige ge-nealogica de le mille e una faccia delnemico. Obbiettivo al quale l’umanoconsorzio si protese, in un tentativo difuga dalla non accettazione della pro-pria relatività esistenziale e da un na-scosto senso d’impotenza rispetto alproprio divenire e all’altro da sé nonassimilabile; poi, illusoriamente risolto,con la premiale arbitraria attribuzionedi una megalomane superiorità dapoter sentenziare sui vinti (sospinto inquesto dal proprio inconfessabile ter-rore), la più crudele delle condanne: ilcarcere e la morte.

A compendio, o meglio, a ulteriorechiarimento del pensiero sopra tra-scritto, esiste di Merleau-Ponty, unariassuntiva illuminante espressione,che va, dall’originaria scissione allaconseguente dicotomia: “Il banale èmale perché accetta di ripetere acriti-camente il gesto arcaico che ha inau-gurato la riflessione della metafisica,

quel taglio immedicabile ed autorepli-cantesi, che ci ha tagliato fuori dallanatura, quel taglio che prolifera e at-traversa il nostro corpo tagliandolo inanima e carne, la nostra specie ta-gliandola in razze, la nostra società ta-gliandola in generi e classi. Quel taglioche ha trasformato la “carne delmondo” in mondo della carne” [14].

Lo scrittore Isaac Singer (sopravvis-suto all’olocausto nazista), insignitocon il Nobel della letteratura nel 1978,sentenziò la condizione di predominioche l’umana specie compie sulle altrespecie viventi, con l’inappellabile sen-tenza: “Nei confronti degli altri esseriviventi, tutti gli uomini sono nazisti”.Uno sterminio e una sofferenza chenon trova e non può trovare le paroleper raccontarsi, a noi che, accecati dal-l’antropocentrismo, nella più assolutanormalità uccidiamo o “lasciamo” uc-cidere 131 milioni di animali al giorno(conteggio che esclude i pesci, chevengono quantificati a peso), cioè l’e-quivalente di un Auschwitz ogni ora.

Hitler, dal canto suo, aveva dichiarato:“Colui che non ha potere, non ha dirittodi vivere”. In nessun luogo, come nelnostro mondo, che a tutt’oggi è per-corso da brividi al ricordo di quel geno-cidio, milioni di animali, molti dei qualigiovanissimi e tutti innocenti, sono tra-sportati verso i centri di uccisione peressere macellati e finire sulle nostre ta-vole. Eppure è difficile, se non arduocomprendere perché continuiamo inquesto quotidiano sterminio, invece dicondividere con essi l’esistere e il dive-nire che a loro, indissolubilmente cilega. E “Qui viene a situarsi, come ilmodo più radicale di pensare la fini-tezza che noi condividiamo con gli ani-mali, la mortalità che appartiene alla fi-nitezza della vita, all’esperienza dellacompassione, alla possibilità di con-dividere la possibilità di questa im-potenza, la possibilità di questa impos-sibilità, l’angoscia di questa vulnerabi-lità e la vulnerabilità di questa ango-scia” [15]. È incontrovertibile, che avolte i filosofi sono, senza saperlo, deipoeti, ed è altrettanto vero che i poetimolto spesso, senza saperlo, sono deifilosofi. È pur vero che i poeti (più deifilosofi) possono essere “incapaci” divivere il mondo, ma di capire il mondocom’è sì; anzi di capirlo fin troppo sinoa suicidarsi oppure lasciare che altri li“suicidano”: ed è dall’invito di un poetacome Allen Ginsberg che parto, il qualeci suggerì di “Allargare l’area della co-scienza” [16], e ad un altro come Leo-

nard Cohen che mi fermo, attingendodallo stesso, un futuribile e auspicabilesguardo affinché l’invito precedente sirealizzi, ricordandomi e ricordando che“C’è una crepa in ogni cosa, è da lì cheentra la luce” [17].

Note

[1] Franz Kafka in una lettera alla fidanzataFelice, citata da Elias Canetti in RosaLuxemburg,Un po’ di compassione, Adelphi2007, p. 39.[2] Theodor W. Adorno, Dialettica negativa,Einaudi,Torino 2004, p. 329.[3] Introduzione letteralmente ripresa da Imargini dei diritti degli animali, di MassimoFilippi in “Liberazioni” rivista online n. 8,Milano, marzo 2009.[4] Citato in Colin Spencer, The Heretic’sFeast: A History of Vegetarianism, London,Fourth Estate, 1990, p. 189.[5] Citato in Matt Cortumill, A Vieu to aDeath in the Morning: Hunting and NatureThough History, Cambridge, MA, HarvardUniversity Press, 1993, p. 88.[6] Sigmund Freud, Una difficoltà della psi-coanalisi, in Opere, Vol. 8, Boringhieri, To-rino 1978, p. 660.[7] Citato in Serpell,“Working” p. 43.[8] Keith Thomas, L’uomo e la natura. Dallosfruttamento all’estetica dell’ambiente, Ei-naudi, Torino 1994.[9] Jim Mason, “All Heaven in Rage” inLaura A. Moretti (a cura di), All Heaven in aRage on the Eating of Animals, Chico, CA,MBK Publishing, 1999, p. 19.[10] Winthrop D. Jordan, Il fardello del-l’uomo bianco: origini del razzismo negliStati Uniti, Vallecchi, Firenze 1976.[11] Orlando Patterson, Slavery and SocialDeath: A Comparative Study, Cambridge,MA, Harvard University Press, 1982, p. 59.[12] Theodor W. Adorno, citato in CharlesPatterson, Un’eterna Treblinka. Il massacrodegli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti,Roma 2003, p. 78.[13] Ivi, p. 119.[14] Espressione ripresa da Maurice Merleau-Ponty.[15] Jacques Derrida, L’animale che dunquesono, Jaca Book, Milano 2006, p. 67, citatonell’articoloNot InMyName di Massimo Fi-lippi in “Liberazioni” rivista online, n. 9, Mi-lano, luglio 2009.[16] Allen Ginsberg, Jukebox All’idrogeno“Il messaggio è: Allargate l’area della co-scienza”, Fernanda Pivano (a cura di), OscarMondadori, Milano 1971, sottotitolo di co-pertina.[17] Leonard Cohen, Le spezie della terra,Minimum Fax, Roma 2010.

Luca Alessandro Borchi, scrittore. Autoredi tre libri di poesia, di un saggio e di un bre-vissimo pamphlet. Ha svolto attività di in-segnante e di operatore teatrale in variescuole di diverso ordine e grado.

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Il dibattito etico sui diritti degli animalie quello sull’aborto condividono unastrana sorte: di essere da sempre fu-nestati dallo stesso problema e di averbisogno dello stesso approccio razio-nale per giungere ad una soluzionecondivisa. Il problema che accomuna idibattiti è la palese inadeguatezzadelle argomentazioni addotte dalleparti che si contrappongono nel dibat-tito pubblico, incapaci di andare al dilà di slogan strillati tanto più fortequanto meno sono ragionati. Gli antia-bortisti sostengono che l’aborto equi-vale ad un omicidio dato che la per-sona umana è “sacra” fin dal concepi-mento. Dal mero incontro tra uno sper-matozoo e un ovocita umano si avreb-be la creazione di una “persona” chein quanto umana è “sacra” e dunqueda difendere a qualunque costo. In unaprospettiva antiabortista cristiana l’im-moralità dell’aborto è dunque assoluta,implicita nella stessa idea che si possasopprimere una vita umana a qualun-que stadio, per qualunque motivo. Se-guono le solite accuse di omicidio perle donne che abortiscono e per i mediciche praticano interruzioni di gravi-danza oltre che di eugenetica nazistain caso di aborto di feti portatori di pa-tologie congenite.

Nel dibatto pubblico i fautori della li-ceità dell’aborto spesso rispondono aqueste accuse con argomentazionifrancamente deboli, non decisive e checomunque non affrontano la questioneetica di fondo sollevata dagli abortisti.Argomentare, infatti, che l’aborto le-gale è il minore dei mali perché si mi-nimizzano i rischi per la salute delledonne o che queste ultime hanno il di-ritto di gestire liberamente il loro corpoe dunque anche la gravidanza e la suainterruzione, è pienamente legittimosolo dopo aver argomentato persuasi-vamente che lo status morale dell’em-brione e del feto è fondamentalmentediverso da quello del neonato o dell’a-dulto. Altrimenti è fin troppo facilecontrobattere che tanto varrebbe lega-lizzare l’omicidio o quantomeno l’in-fanticidio purché sia compiuto nelmodo più “pulito” possibile e che l’as-sassino abbia un concreto interesse al-l’omicidio. In mancanza di tale argo-mentazione – e dunque se un feto

avesse uno status morale equivalentead un neonato – sarebbe legittimo do-mandarsi perché una madre dovrebbepoter abortire per vivere una vita liberadagli oneri della maternità mentre nondovrebbe poter uccidere il proprio fi-glio nella culla, se questa volontà do-vesse maturare dopo il parto. La que-stione non si risolve con unilaterali pro-clamazioni di libertà soggettiva seprima non si risolve il problema dell’e-ventuale rilevanza morale di un sog-getto la cui sfera d’interessi sarebbedanneggiata dalla realizzazione di talelibertà, dato che in ogni sistema so-ciale civile non esistono libertà asso-lute al di fuori della sfera prettamenteindividuale, ma solo libertà limitate dalrispetto degli interessi e dei diritti diogni altro consociato.

Gli animali non-umani

Molto simile è lo svolgimento del dibat-tito, per altro molto meno sentito dall’o-pinione pubblica, sui diritti degli animalinon-umani e sulle questioni diretta-mente connesse come la vivisezione, ilconsumo di carne, la caccia, ecc. Pur-troppo anche in questo caso le argo-mentazioni che vengono generalmenteavanzate nel dibattito pubblico tradi-scono una generale mancanza di cogni-zione di causa e mostrano quanto di-stanti dall’approccio razionale siano imetodi argomentativi comunementeusati anche in tema di bioetica. Le po-sizioni “animaliste” tendono ad usarel’emotività condivisa solo da una piccolaparte delle persone, quelle in grado dimanifestare un’innata empatia non solointraspecifica, ovvero verso gli altrimembri della propria specie, ma ancheinterspecifica, ovvero verso gli individuidi altre specie. Tale approccio è desti-nato all’insuccesso perché una signifi-cativa empatia interspecifica è preroga-tiva solo di una minoranza di persone.Si badi, non mi riferisco alla diffusa av-versione all’inutile sofferenza degli altri,non-umani inclusi, o al forte sentimentodi affetto che alcuni provano verso ilproprio “animale da compagnia” (siaesso il proprio coniuge o il propriogatto). Mi riferisco a quella innata pre-disposizione a percepire sul piano emo-tivo e razionale le sorti di umani e non-umani in maniera equivalente.

Al contrario le posizioni speciste [1],siano esse di matrice umanista o dimatrice religiosa, muovono da posi-zioni antropocentriche basate princi-palmente sull’eccezionalismo umano osulla fallacia naturalistica. Le prime so-stengono un primato ontologico del-l’essere umano basato su alcune suecaratteristiche dimenticando che que-ste ultime non sono proprie solo degliesseri umani, che non tutti gli esseriumani le possiedono (cfr. l’argomentodei casi marginali) e che, comunque,esse non sono rilevanti nell’attribuireil diritto alla considerazione morale. Lafallacia naturalistica invece eleva alrango di legge morale la mera consta-tazione fattuale della supremazia uma-na sulla natura, confondendo come alsolito il piano prescrittivo con quello de-scrittivo secondo l’adagio “siccome èsempre stato così, allora è giusto così”.

Tutte le posizioni speciste sono acco-munate dalla sostanziale negazionedella rilevanza etica dei non-umani,della possibilità di attribuire loro dei di-ritti o di porre i loro interessi sullo stes-so piano di quelli degli umani. La que-stione che tutte le posizioni contrap-poste fin qui menzionate eludono è lafondamentale necessità di stabilire cri-teri razionali per determinare qualisiano i soggetti portatori di interessimoralmente rilevanti, e quali siano in-vece gli oggetti, in quanto tali privi diinteressi e dotati solo di rilevanza me-ramente strumentale per i primi. Sitratta, in altre parole, di determinare iconfini della rilevanza morale e i criterirazionali per tracciarli [2].

Ritengo che secondo una visione ra-zionale, laica e priva di pregiudizi il cri-terio discriminante che consente di di-stinguere i soggetti moralmente rile-vanti da enti solo strumentalmente ri-levanti, ancorché dotati di una vita bio-logica, non possa che essere la sen-zienza, o capacità senziente, ovvero lacapacità di percepire o provare sensa-zioni soggettivamente, in maniera co-sciente [3]. La rilevanza etica della di-stinzione tra soggetti senzienti ed entiprivi di questa caratteristica è assolu-tamente cruciale in quanto consente distabilire, senza ricorrere all’arbitrarietào all’irrazionalità religiosa, se feti, em-

Senzienza, antispecismo e abortodi Marco Lorenzi, [email protected]

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brioni, animali non umani e magari lepiante debbano essere inclusi o menoall’interno dei confini della rilevanzamorale.

Necessità e sufficienza della capacitàsenziente

Che la capacità senziente sia condi-zione necessaria alla rilevanza moralediventa chiara se si prova ad immagi-nare di “mettersi nei panni” di unqualsiasi oggetto non cosciente: quelloche si troverebbe è semplicemente ilvuoto, l’inesistenza di un qualunque io,assente in ogni essere privo di sen-zienza e dunque del tutto indifferenteal trattamento che gli riserviamo. Unavita senza una coscienza è incapace disoffrire o provare piacere e quindi dipercepire positivamente o negativa-mente qualunque cosa ad essa accada.Ne consegue che questa vita non puòavere degli interessi di alcun genere inquanto qualunque azione compiutaverso di essa, non potendo essere per-cepita come positiva o negativa, comebene o male, è per essa irrilevante.

In assenza totale d’interessi è evidenteche non abbia senso attribuire dirittidato che questi ultimi presuppongonocome condizione necessaria l’esistenzain capo ad un soggetto di interessi datutelare tramite lo strumento del di-ritto stesso. Come dice Paola Cavalierine La questione animale “… se, nel mo-mento in cui prendiamo in considera-zione in che modo un dato essere è af-fetto dalle nostre azioni, ci accorgiamoche tale essere non può curarsi di ciòche facciamo, perché dovremmo porrelimiti al nostro comportamento [neisuoi confronti]?” [4]. Siccome l’etica sifonda proprio sulla fondamentale di-stinzione tra "bene" e "male", è ovvioche un ente incapace di qualunquepercezione consapevole, neppure lapiù semplice come quella, appunto, diun generico "bene" o "male", non puòche rimanere fuori dai confini dellaconsiderazione morale.

Ma la senzienza è anche condizionesufficiente all’inclusione nella sferadella rilevanza morale. Una volta ac-quisita la consapevolezza che esisteun bene e un male per ogni Altro-da-me cosciente, e dunque non unica-mente per il proprio Io, non solo cessadi essere giustificabile l’egoismo pre-morale, ma diventa evidente l’inaccet-tabilità di ogni arbitraria limitazionedella considerazione morale solo ad al-cune categorie di Altri-da-me. Com’è

evidentemente arbitrario e dunqueinaccettabile negare i diritti fonda-mentali ai neri, alle donne o agli stra-nieri, allo stesso modo è inaccettabilenegarli ai non-umani (o ai feti) sen-zienti poiché tutti condividono lastessa caratteristica che ha reso ne-cessaria la nascita della morale, ov-vero la senzienza stessa.

Diritti ai carciofi?

Le attuali conoscenze in campo biolo-gico non consentono di ritenere che lepiante posseggano una qualche formadi coscienza essendo totalmente privedi qualunque organo che sia parago-nabile strutturalmente o funzional-mente ad un sistema nervoso centralee le tesi di chi riteneva che le piantefossero sensibili al punto di averegusti musicali sono state scientifica-mente confutate da tempo. È dunqueevidente che nessun appartenente alregno vegetale possa essere inclusonella categoria dei soggetti moral-mente rilevanti con buona pace dei“difensori dei diritti dei carciofi” checriticano i vegetariani di incoerenzaperché “uccidono insalate”, mentreloro fanno uccidere ogni anno 55 mi-liardi di animali nei macelli.

Un discorso analogo può essere fattoper lo zigote e l’embrione umano es-sendo lo sviluppo del sistema nervosocentrale in stadi troppo primitivi perpoter generare una coscienza [5]. Seb-bene lo stadio di sviluppo fetale a par-tire dal quale il dolore può essere per-cepito sia controverso appare altamen-te improbabile che questo possa avve-nire prima della 29° settimana di ge-stazione [6]. Inoltre la presenza dellecomponenti emotive e cognitive deldolore che potrebbero essere elementiessenziali per la sua percezione co-sciente è difficilmente accertabile in unfeto di qualunque età [7].

In una prospettiva senzientista, dun-que, il problema del diritto del nasci-turo a non essere abortito può risol-versi attribuendo tale diritto solo ai fetigiunti ad un livello di sviluppo neuro-logico sufficiente a rendere ragione-volmente probabile il possesso dellacapacità di nocicezione [8]. Ritengoche raggiunto tale stadio il feto debbaessere considerato pienamente titolaredi un inalienabile diritto a non esserefatto soffrire se non nel suo interesse(chirurgia prenatale in caso d’impossi-bilità di anestesia fetale) e a non es-sere abortito a meno che non venga ac-

certata la presenza di patologie che im-pedirebbero una ragionevole qualità divita dopo la nascita. Il dogma della“sacralità” della vita umana in ognistadio deve dunque essere rifiutato inquanto privo di basi razionali e fondatosu principi religiosi che non possonoentrare negli ordinamenti degli Statilaici. Parallelamente anche il principiodella libertà assoluta della donna do-vrebbe essere rifiutato in quanto nontiene conto dell’emergere della capa-cità senziente – e dunque di una sog-gettività degna di considerazione mo-rale nel feto – a partire da un certo sta-dio di sviluppo neurologico. L’approc-cio senzientista consente anche di de-finire se gli animali non umani siano omeno moralmente rilevanti e, dunque,se siano giustificabili i trattamenti che

l’umanità riserva loro (vivisezione, ma-cellazione, caccia, ecc.). Sebbene siaad oggi impossibile tracciare una lineanetta che divida gli animali non-umanidotati di capacità senziente e quali no,non vi sono dubbi che almeno alcunespecie siano senzienti. Come minimotutti i mammiferi e senz’altro una buo-na parte dei vertebrati percepiscono ildolore in maniera cosciente, posse-dendo le strutture cerebrali necessa-rie. Sebbene nessuno possa provare inprima persona la sofferenza di unmaiale al macello, di una gallina ova-iola chiusa in una minuscola gabbiaper tutta la vita, o di una cavia du-rante un esperimento biomedico, nonè ragionevole dubitare che il dolorepercepito sia paragonabile a quellopercepito dagli umani, dato che essosvolge per tutti gli animali, umani enon, la stessa funzione biologica. Pertutti gli animali senzienti il dolore ser-ve a fornire un intenso stimolo nega-tivo per indurli ad evitare un datocomportamento nocivo. In questo sen-so il dolore è per tutti il male per an-tonomasia.

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Non è dunque razionalmente giustifi-cabile la sistematica negazione della ri-levanza etica dei non-umani, necessa-ria a legittimare pratiche come l’alle-vamento e l’uccisione di animali perl’alimentazione umana, gli esperimentibiomedici su modelli animali a prescin-dere dalla loro presunta e discussa uti-lità e i numerosi altri vergognosi trat-tamenti riservati a chi non appartienealla nostra specie. È invece doverosoattribuire a gran parte degli animali deidiritti fondamentali inalienabili ed in-violabili, anche in presenza d’interessiumani opposti o, in una prospettivautilitarista, considerare il peso degli in-teressi dei non-umani equivalente aquello degli stessi interessi umani.

L’approccio utilitarista e quello deon-tologico all’etica possono convergerenel ritenere il paradigma specista in-sostenibile, come ben argomentatodai filosofi Peter Singer e Tom Regan.Nonostante questo lo specismo delleprincipali religioni monoteiste ha tro-vato il pieno appoggio dell’umanismoateo che è stato finora incapace di li-berarsi di questo pregiudizio anti-ra-zionale. Sarebbe ora che ogni ateo ra-zionalista prendesse coscienza di que-sta drammatica contraddizione co-

minciando dal realizzare che quellacarne che troneggia spesso nel mezzodel suo piatto è in realtà un pezzo diun cadavere di un essere senziente eche la scelta vegetariana, assodatascientificamente la sua salubrità [9],non è una stranezza masochistica, maè diretta conseguenza di una moraleintellettualmente onesta, laica e ra-zionale.

Note

[1] Secondo Peter Singer lo specismo è il “…pregiudizio o atteggiamento di prevenzionea favore degli interessi dei membri della pro-pria specie contro quelli dei membri di altrespecie”. Liberazione animale, 1991, Monda-dori ed. (p. 22).[2] Abbiamo già argomentato più diffusa-mente su queste pagine (cfr. Per un’eticaatea e antispecista, “L’Ateo” n. 2/ 2009)circa l’esigenza imprescindibile di usare larazionalità come criterio fondante d’ogni di-battito etico, pena l’inevitabile incomponi-bilità delle opinioni divergenti.[3] Sebbene non necessariamente in ma-niera autocosciente. La capacità di ragio-nare sul proprio io inteso come ente sepa-rato dalle sensazioni che lo attraversano –ovvero l’autocoscienza – implica capacitàcognitive superiori, ma non necessarie aifini della considerazione morale.

[4] P. Cavalieri, La questione animale, BollatiBoringhieri, 1999, pp. 47-48.[5] Indubbiamente ogni feto è in potenza unuomo adulto e dunque ha la potenzialità didiventare senziente. Tuttavia i diritti si at-tribuiscono sulla base delle caratteristichesoggettive in atto, non quelle che un sog-getto potrebbe avere se si realizzano deter-minate condizioni: un ragazzo di 17 anni èin potenza un maggiorenne, ma non perquesto ha il diritto di voto prima del compi-mento del 18° anno.[6] Lee S.J. et al., Fetal pain, A systematicmultidisciplinary review of the evidence,JAMA 2005; 294: 947-954.[7] Martin H. Johnson, Essential reproduc-tion, Wiley-Blackwell, pp. 215-216.[8] Livello di sviluppo neurologico sufficientea rendere ragionevolmente probabile il pos-sesso delle capacità di percepire il dolore.[9] Vedi, per esempio, la posizione ufficialedell’American Dietetic Association, J. Am.Diet Assoc. 2009; 109: 1266-1282: “It is theposition of the American Dietetic Associationthat appropriately planned vegetarian diets,including total vegetarian or vegan diets, arehealthful, nutritionally adequate, and mayprovide health benefits in the prevention andtreatment of certain diseases”.

Marco Lorenzi, imprenditore, si occupa di di-ritti animali, alimentazione vegetariana evivisezione da 15 anni.

Non gli manca che la parola. Meno maledi Marco Accorti, [email protected]

Sarà perché il freddo ai piedi mi hasempre creato disagio, fatto sta cheogni volta che sento parlare del mondovegetale in termini d’insensibilità, d’e-straneità dagli organismi animali e dialtre inferiorità evolutive, risento quelcerto disagio. Già perché quel “testafredda e piedi caldi” che ogni invernocontadini, giardinieri e vivaisti invo-cano per la sopravvivenza delle loropiante vale anche per me pur non es-sendo ancora un vegetale. Non è chesia un ambientalista o abbia aspirazionimistico-olistiche, sono solo un natura-lista che scelse questa strada fin dall’a-dolescenza affascinato dai fringuelli diDarwin e da quelle sue pagine sulmondo verde – cinquant’anni fa cristal-lizzato nell’immobilismo del lontanoregno vegetale – in cui erano magi-stralmente descritti i rapporti fra fiori einsetti o altri animali, ma soprattutto

dall’importanza delle radici, soprattuttodegli apici radicali, nella loro “vita di re-lazione” come si legge in conclusionedel suo “Il potere di movimento dellepiante”: «È appena esagerato il dire chela punta radicolare così dotata e chepossiede il potere di dirigere le parti vi-cine, agisce come il cervello di un ani-male inferiore; quest’organo infatti,posto alla parte anteriore del corpo, ri-ceve le impressioni degli organi dei sensie dirige i diversi movimenti» [1].

Ma ricordo che mi colpì anche l’usodella parola “sensibilità” confinata nonpiù solo a fenomeni abiotici, ma estesaalla sessualità: «Sarebbe difficile tro-vare in natura un fatto più sorpren-dente della sensibilità degli elementisessuali alle influenze esterne, o delladelicatezza delle loro reciproche affi-nità. […] Queste piante diventano più

o meno autosterili allorché vengono as-soggettate a cambiamenti anche leg-geri di condizione» [2]. Che poi le radicipotessero essere assimilate ad un“cervello” che gestiva e organizzava lavita vegetativa mi appariva una provo-cazione sicuramente stimolante, ma aquei tempi difficilmente digeribile. Infin dei conti i “movimenti” delle pianteerano noti da sempre, ma il non poterindividuare degli organi di senso, un si-stema nervoso o i muscoli, portava aspiegarli come derivati da una sorta di«meccanicismo o da una facoltà moltodiversa da quella per cui gli animalisfuggono alla luce […] fintantoché neivegetabili non si troveranno degli or-gani simili a quelli degli animali e chein essi non sia provato un sentimento didolore non si potrà ad essi applicare lamedesima idea di sensibilità». In-somma, la convinzione dominante è

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che mancando il sistema nervoso ognirisposta può essere solo meccanica [3].

Eppure certi tropismi del mondo vege-tale, come l’accrescimento direzionatoin relazione agli stimoli, non sembratroppo lontano dai tattismi, quel muo-versi dei batteri e delle alghe unicellu-lari sì libero da vincoli radicali, ma certonon molto diverso, né dai tigmotattismidi quegli artropodi che, come lo scara-faggio, costeggiano sempre i muri op-pure il nostro muoversi al buio cercandocon una mano riferimenti stabili. Avevavoglia Darwin a prefigurare un cervelloverde, ma questo mi sembrava un po’troppo così come mi sembrava un ec-cesso fabulistico quello del Fabre chevoleva le piante sorelle degli animali [4].Fu così che mancando di un polliceverde e abituato fin da piccolo a ma-neggiare il mondo animale con cuiavevo sviluppato affinità, collocai ilmondo vegetale ai margini di una pa-rentela meno stretta, diciamo di se-condo grado. Se discendevo più o menodirettamente, allora si diceva così, dallescimmie, be’ le piante erano solo cugine.

Negli ultimi anni però quelle provoca-zioni di Darwin hanno preso sempre piùcorpo fino a quando la “CommissioneFederale di etica per l’ingegneria Gene-tica” svizzera ha sancito nel settembredel 2008 che «Le piante hanno una di-gnità e un valore morale». Troppo per laPontificia Academia Pro Vita che, scon-volta, si è precipitata a ribadire come iltermine “dignità” applicato a tutte lecreature, “Würde der Kreatur” – quindianimali, piante e perfino cose inanimate– non possa riguardare le entità non-personali in quanto non posseggono di-gnità in senso proprio. Questo perché«La dignità è inseparabile dall’esserepersona e l’essere persona è inseparabiledalla dignità» visto che «nelle fediebraica, cristiana e musulmana questasacralità della dignità si spiega con il ca-rattere di persona creata a “immaginedi Dio”» [5]. Il tutto naturalmente pergiustificare una qualche presunta di-gnità ad un ovulo fecondato.

Ma la cosa non è tutta lì, perché già dal2005, magari in modo molto new age,circolavano ipotesi fantasiose come la“predilezione” delle viti per la musicadi Mozart a cui avrebbero risposto conuna maggior produzione d’uva, feno-meno di cui si sarebbe occupata l’Uni-versità di Siena senza però arrivare adalcuna conclusione. Oggi però l’inda-gine riparte per una verifica dell’Uni-versità di Firenze, ma questa volta sotto

una prospettiva diversa. In un recenteconvegno internazionale sulla neuro-biologia vegetale tenuto a Firenze al-l’Accademia dei Georgofili, StefanoMancuso direttore del Linv, laboratoriodi neurobiologia vegetale del polo uni-versitario di Sesto Fiorentino, ha dimo-strato che l’apparato radicale è unasorta di centrale sensoriale che mette lapianta in relazione con l’ambiente cir-costante: un “cervello” vero e proprio.

Sembra intervengano meccanismi piùo meno assimilabili a quelli che cono-sciamo per il regno animale avendo in-dividuato cellule in grado di compor-tarsi come i nostri neuroni; inoltre re-centemente nel suo laboratorio è statoaccertato che il ruolo di sensore del cal-cio nei neuroni animali svolto da unaproteina, la Sinaptotagmina, nelle pian-te è a carico di un suo omologo vege-tale. Insomma Mancuso parlando di si-napsi, di neurotrasmettitori, di comuni-cazione e di memoria nelle piante in-frange una barriera culturale che nonpermette più di affermare con la con-sueta certezza, fino a ieri più o menocondivisa da tutti, che «un sasso o unapianta non possono né soffrire né esserecoscienti e quindi neppure avere degliinteressi o una volontà di qualunque ge-nere» né «spaccare in due una pietra otagliare il ramo di un albero è un attoche non comporta alcuna sofferenza pernessuno né la frustrazione di nessun in-teresse» [6]. Per ora questa convinzionerimane per il sasso e la pietra, ma per lepiante siamo costretti a fermarci per ri-flettere. Riflettere se la nostra conce-zione di sensazione, dolore, sensibilità,consapevolezza, nostre concezioni cheabbiamo esteso al mondo animale, sial’unica chiave di lettura lecita e non siasolo una proiezione, una sorta di omo-logazione evangelica che tende a ri-condurre tutto alla nostra unica dimen-sione umana. In fin dei conti siamo con-sapevoli di quanto siamo ingombrantie quanto la nostra “intelligenza”, cheamiamo pensare creativa, abbia nelcorso della storia trasformato se nondegradato il pianeta a nostra immaginee somiglianza per compensare l’inca-pacità adattative del nostro organismo.

Adesso vien fuori la possibile esistenzadi un altro “cervello” che prefigura unaforma di “intelligenza” da parte di unmondo fino a ieri ritenuto inerte che in-vece avrebbe armonizzato meglio dinoi la sua esistenza adattandosi in ma-niera relazionale con gli elementi bio-tici e abiotici con cui ha dovuto fare iconti. Ma gli schiaffi alle nostre “cer-

tezze” non si fermano qui. Mancuso,con la sua équipe e con numerosi altriprestigiosi collaboratori sparsi nelmondo, sta travalicando anche quelleche erano considerate esclusive di-mensioni della fantascienza: arrivano iplantoidi, ibridi pianta-robot; dei robotfitomorfi che andranno a fare compa-gnia a quelli di derivazione animale eagli androidi [7].

Non è ovviamente possibile rimanereindifferenti davanti a queste prospet-tive. Da sempre vaneggiamo alteritàintelligenti in altri mondi o irreali comequelli prefigurati dalle religioni o pos-sibili se non probabili, ma altrettantoirraggiungibili perché dispersi fra legalassie. Le religioni, anche le più vi-sionarie, si sono sempre limitate a ri-durre tutto a nostra somiglianza, nona caso nella Genesi si parla sempre divertebrati o comunque di animali:«riempite la terra; soggiogatela e domi-nate sui pesci del mare e sugli uccellidel cielo e su ogni essere vivente chestriscia sulla terra» e nell’Ecclesiaste(libro di Qohelet): «La sorte degli uo-mini e quella delle bestie è la stessa;come muoiono queste muoiono quelli;c’è un soffio vitale per tutti. Non esistesuperiorità dell’uomo rispetto alle be-stie, perché tutto è vanità». Non si no-mina mai il mondo verde anche se –come dimostrò poi Newton – tuttosembra gravitare intorno ad una mela.

Dallo spazio o dai laboratori siamo in-vece sempre stati disposti a vederciarrivare qualunque altra forma di vitao di “intelligenza” finora ignota,anche vegetale: gli omini verdi con leantenne, i baccelloni de “L’invasionedegli ultracorpi” [8] da cui sbucanoreplicanti umani incapaci di emozionio quei terrifici trifidi, “fitoidi” errantinient’altro che velenosi e vendicativicarciofoni per di più sì senzienti [9].Alla fine gli angeli e i cherubini sonorimasti nel mondo immaginario a farcompagnia ai sette nani, mentre glialieni verdi, che abbiamo sempre fan-tasticato lontani, ci sono davvero:erano qui prima di noi e sono ancoraaccanto a noi. Ci guardano, ci ascol-tano, magari si domandano anchequanto la deriva evolutiva abbia in-voluto l’uomo in una complicazioneorganica e culturale di dubbie pro-spettive.

Un’umanità che vive una vita tanto ar-tificiale da non accorgersi che la secondlife non è quella che si svolge in rete,ma quella quotidiana popolata da

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piante e da animali ormai tanto mani-polati da aver perso le caratteristicheoriginali essendo state mutuate dallenostre; un’umanità, ridotta ad una sen-sibilità autoreferenziale se non auti-stica, che nel cercare di dare un sensoall’esistenza l’ha sacralizzata in una di-mensione trascendente, incapace que-sta volta di guardare il dito invece dellaluna, perché in realtà – non so chi l’ab-bia detto – la risposta è semplice: il finedella vita è la vita e la fine, la morte.Siamo di fronte alla prospettiva di do-verci porre il problema di cosa vogliadire veramente essere senzienti e senon basti più superare le gerarchiedello specismo per cominciare a pen-sare ad un interclassismo sistematicoda rivedere completamente. Ma non sisa come.

Mi viene da pensare che forse siamo ar-rivati in vista dei limiti della nostra ci-viltà e come ogni volta è sempre acca-duto a fronte del progresso, o megliodello sviluppo della cultura, avverrà an-cora una volta un’implosione. E la scom-parsa. Chissà questa volta da dove si ri-comincerà. Questo però non è pane perme, ma per i filosofi. Quanto a me,quando sgranocchierò un sedano o sfo-glierò un carciofo, se mai mi affiorassequel tormentone del “non gli manca chela parola”, rivendico ancora il diritto diconcludere con un “meno male”.

Note

[1] Charles Darwin, Il potere di movimentodelle piante, Unione Tipografico-Editrice,Napoli-Roma-Milano 1884, 407 pp.

[2] Charles Darwin,Gli effetti della feconda-zione incrociata e propria nel regno vegetale(traduzione italiana col consenso dell’auto-re, per cura di G. Canestrini e di P.A. Saccar-do), UTET 1878, 228 pp.[3] Pellegrino Bertani, Nuovo Dizionario diBotanica, Erede Pazzoni, Mantova 1818, 3voll., vol. III pp. 217.[4] Jean-Henri Fabre, La pianta: lezioni sullabotanica, Sonzogno, Milano 1924, 310 pp., ill.[5] (www.academiavita.org/template.jsp?sez=Pubblicazioni&pag=testo/nat_dig/seifert/seifert&lang=italiano).[6] Marco Lorenzi, Per un’etica atea e anti-specista, L’Ateo 2/2009 (62), p. 19.[7] Alessandra Viola, Plantoidi su Marte(www.wired.it/magazine/archivio/2009/10/storie/plantoidi-su-marte.aspx).[8] L’invasione degli Ultracorpi, 1956, direttoda Don Siegel.[9] J. Wyndham, L’orrenda invasione, Uranian. 3, Arnoldo Mondadori, 1952, 149 pp.

Aggiungi il gatto in tavola?di Francesco D’Alpa, [email protected]

L’inopportuna descrizione del migliormodo per preparare e cucinare il gatto èstata recentemente il casus belli di unainopinata quanto fugace polemica gior-nalistico-televisiva sull’utilizzo culinariodi alcune specie animali. L’improvvidoBeppe Bigazzi aveva, infatti, ricordatoin diretta televisiva (a “La prova delcuoco”, del 10 febbraio 2010) come dal-le sue parti (nella Val d’Arno degli anniTrenta e Quaranta, a febbraio) si cuci-nava tradizionalmente il gatto (al postodel coniglio), come tale usanza fosse rie-mersa per necessità durante il periodobellico e come la carne di gatto sia in ef-fetti “molto più buona di tanti altri ani-mali”. Che ciò rappresentasse un chiaroinvito a cibarsi dell’amato felino (piut-tosto che una semplice nota storica) èdubbio, ma la sensibilità degli animali-sti ne è stata comunque offesa. Qualeanimale da compagnia e da affetto, è in-dubbio che il gatto goda infatti nella no-stra società di considerazione e privi-legi, così come cani, uccellini, criceti evari altri. Ma qual è il fondamento di ta-le rispetto, quale l’origine del turba-mento a cibarsene? Si tratta d’amoreper l’animale in sé, o di una forma raffi-nata di antropomorfizzazione della na-tura? Pretendiamo rispetto per l’ani-male o, più egoisticamente, solo per inostri sentimenti? E perché ci cibiamoinvece di conigli ed agnelli, che ci fannotanta tenerezza?

Vero è che secondo la legge sul randa-gismo (n. 281 del 1991) “lo Stato pro-muove e disciplina la tutela degli ani-mali di affezione, condanna gli atti dicrudeltà contro di essi, i maltrattamentied il loro abbandono, al fine di favorirela corretta convivenza tra uomo e ani-male e di tutelare la salute pubblica el’ambiente”, ma questo vuol dire chenon sia lecito mangiare il gatto o altroanimale da affezione morto? E che nonsia possibile ucciderli a scopo alimen-tare senza maltrattamento e crudeltà?Ed infatti l’art. 544-bis del Codice Pe-nale sancisce che “chiunque, per cru-deltà o senza necessità, cagiona la mor-te di un animale è punito con la reclu-sione da tre mesi a diciotto mesi”. Mase uno il gatto lo mangia proprio per ne-cessità? Come non ricordare il pasto an-tropomorfo dei sopravvissuti ad unasciagura aerea sulle Ande, qualche de-cennio orsono, il cui comportamentosconcertò, ma poi a mente fredda ven-ne ritenuto giustificato in base allaestrema necessità?

Tanto per non creare equivoci, sia benchiaro che non intendo schierarmi con-tro cani e gatti, ma semmai rivendicarepari dignità di trattamento per altrianimali verso i quali non siamo egual-mente rispettosi, ad esempio i bovini, isuini ed il pollame: allevati ed uccisi inmodo “disumano”; o anche gli animali

da spettacolo (tori da arena, cavalli dacorsa) maltrattati gratuitamente e conferocia aguzzina. Il comune senso dipietà per questi animali sembra, in-fatti, del tutto obnubilato allorché ci siingozza di panini all’hamburger, su-blime trasformazione di un essere vi-vente in informe massa proteica. In talsenso, la sollevazione contro Bigazzi econtro la sua ricetta “storica”, ricono-sciamolo, sa molto di ipocrisia.

Ma torniamo alla legge del 1991 che in-tende “favorire la corretta convivenzatra uomo e animale”. Questo è il puntonodale: qual è la corretta convivenza frauomo ed animale? Come chiunque puòconstatare, nella società umana, asso-lutamente onnivora, cibarsi di carneanimale turba una ristretta minoranza.Anzi, altri popoli hanno usanze ancorapiù radicali delle nostre occidentali enon rispettano la vita di quasi nessunanimale opportunamente mangiabile (siracconta, ad esempio, che i cinesi man-giano tutto quello che nuota meno lebarche, tutto quello che vola meno gliaerei, tutto quello che cammina menogli esseri umani). Dalle nostre parti in-vece si è da tempo consolidato un ri-spetto per alcuni animali che abbiamoin qualche modo adottato; anche se,contraddittoriamente, mangiamo il co-niglio comprato al supermercato men-tre ci sconcerta pensare altrettanto del

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nostro coniglietto da compagnia. E chedire dei poveri cervi, dalla carne preli-batissima? Si tratta evidentemente diuna questione di scelta; ma in base ache cosa? All’intelligenza? In tal casopolpi e maiali sono senza dubbio intelli-genti. Alla simpatia? Che dire degliagnellini per i quali ogni Pasqua equi-vale ad un quasi genocidio?

Riconosciamolo; per lo più siamo vit-time di un’ipocrisia culturale, di un raz-zismo di specie, che decide arbitraria-mente quale essere vivente vada ri-spettato e fino a che punto. Ed ognicultura ha inversamente i suoi tabù,anche di segno assolutamente oppo-sto. Dunque noi europei siamo di-sprezzati dagli indiani perché man-giamo la mucca e dai musulmani per-ché mangiamo il maiale; mentre noi di-sprezziamo i cinesi perché mangianovolentieri cani e gatti; e così via. Nondovremmo disprezzare noi stessi per-ché mangiamo comunque così tantevarietà di animali?

Ma proviamo anche a considerare le ar-gomentazioni di chi non vede nulla dimale nel mangiare cani e gatti. Perchédovremmo rispettare a tal punto unanimale che per istinto tormenta a suavolta i topi, gli uccelli ed ogni altro pic-colo animale che cattura, anche se nonintende cibarsene? Perché dovremmoavere così tanto rispetto per esseri così“irrazionali” e crudeli? Forse non c’èuna soluzione a questo quesito; o al-meno io non so proporne una inattac-cabile. Si può, tuttavia, per lo meno ac-cennare alla storia di questo dibattito,che mescola senso pratico ed ideologie.

La nascita del sentimento modernoverso la natura, inteso anche come no-stalgia per un mondo dal quale la ci-viltà si allontanava sempre di più, risalead un periodo compreso fra il XV ed ilXVIII secolo. Alla logica dello sfrutta-mento senza regole della terra e deisuoi beni, ritenuti sulla scia del dettatodi Genesi del tutto assoggettati ed as-soggettabili dall’uomo (giacché il mon-do sarebbe stato creato proprio per ilbene del solo uomo) si oppone infatti,gradualmente, una ridefinizione del po-sto occupato dall’uomo entro la “scalanaturale”. Da qui deriva un nuovo sen-tire nei confronti degli animali, dellepiante e del paesaggio, che genera cre-scenti dubbi ed inquietudini sulla mo-ralità della logica predatoria. Se la sto-ria umana ha avuto come elemento fon-damentale l’affermazione di questo pri-mato dell’uomo, ciò è dovuto, infatti,

anche a come l’uomo stesso ha razio-nalizzato un estremo antropocentri-smo: a cominciare proprio dal testo bi-blico e dalla filosofia greca.

Nella predicazione cristiana, ancoraagli inizi dell’epoca moderna, ogni spe-cie animale era intravista proprio infunzione di una particolare utilità perl’uomo, dall’aiuto nel lavoro all’essereservito in tavola. Ed ancora ai primi delSettecento, in Occidente, all’animalenon veniva riconosciuto alcun diritto,al punto che gli si poteva dare qualun-que destino o morte fossero richiestidalla nostra necessità di cibo o perfinodal nostro diletto; atteggiamento deltutto contrario a quanto esibito neglistessi secoli da quei popoli orientaliche invece predicavano (con sconcertodei nostri esploratori) il rispetto dellavita animale. Se nel mondo occidentalealmeno alcuni animali venivano desti-nati invece ad uno scopo morale oestetico, ciò lo era non in funzione diessi stessi, ma sempre entro l‘otticaumana di un loro utilizzo.

La storia dell’alimentazione riflette pie-namente questi mutamenti di atteg-giamento. L’uomo è onnivoro per anto-nomasia e dunque avvezzo da semprea cibarsi di tutto quanto trova comme-stibile, in particolare di ogni altro es-sere vivente; e ciò costituisce un at-teggiamento naturale, probabilmenteineludibile, anche se mitigatosi dopo lanascita dell’agricoltura. Ma nel corsodella civilizzazione molte specie sonotuttavia uscite dall’elenco delle specieedibili, in particolare gli animali dacompagnia e d’affetto.

Il cristianesimo ha in questo importantiresponsabilità (per lo meno a causadella sua centralità, per molti secoli, nelpensiero occidentale). La razionalizza-zione del predominio incondizionatodell’uomo sulla natura si fonda, infatti,in gran parte sui libri sacri. All’opposto,l’estetica della natura è combattuta alungo dal cristianesimo, in quanto ri-chiama troppo da vicino i culti paganidelle fonti, dei fiumi, dei campi, dei bo-schi. La tardiva presa di coscienza deipericoli prima dello sfruttamento in-condizionato e poi dell’inquinamentodell’ambiente è frutto proprio di tale at-teggiamento, che ha comunque ampiofondamento anche in altre religioni. Seoggi alla logica dello sfruttamento si vasostituendo (almeno si spera) una lo-gica della responsabilità e del rispetto,ancora per l’uomo del Sei-Settecentoconoscere la natura significava poterla

meglio dominarla e sfruttarla; e si con-siderava progresso ciò che distingue ilcivilizzato dal “selvaggio”. Tutto dun-que appariva lecito a beneficio del-l’uomo, anche in campo alimentare; ela natura ne risultava paradossalmentequasi esaltata. Così nel 1634, il poetaThomas Carew, scriveva: “La pernice,l’allodola e il fagiano / volavano alla tuacasa come a un’Arca. / E il bue di buongrado veniva / al macello assieme all’a-gnello; / e ogni bestia colà si recava /per fare offerta di sé”.

Se nel mondo odierno esiste (o do-vrebbe esistere) una remora all’inflig-gere trattamenti dolorosi e la morte allealtre specie viventi, non altrettanto sipuò dire della disponibilità al cibarsidelle carni di quegli stessi animali chenon ci sentiremmo personalmente diuccidere (dunque la nostra etica è as-solutamente incoerente). Questa inibi-zione non esisteva nel pensiero greco,come poi non comparve in quello cri-stiano, nel quale l’uomo ha uno statutoontologico del tutto peculiare. Nonsolo, in questa logica, l’alimentarsi conaltre specie animali rappresenta unpieno diritto dell’uomo, ma il modostesso di alimentarsi certifica tale di-ritto: infatti l’uomo, a differenza deglianimali “bruti”, cuoce le carni e le man-gia senza imitare il loro disgustosomodo di cibarsi.

Uno dei connotati dell’animalismo at-tuale è l’accostare alcune specie ani-mali all’uomo, cosa del tutto oppostaalla “presunzione” (tanto aborrita daglispiriti candidi dei secoli passati) di av-vicinare l’uomo agli altri animali (per lasimilarità delle funzioni corporee, dellasessualità, ecc.). Nell’Inghilterra delSei-Settecento, ad esempio, il mescola-mento delle categorie umana ed ani-male (a partire dall’accoppiamento ses-suale, fino al semplice travestimentoteatrale) era visto come un atto ne-fando; da qui i divieti di familiaritàstretta con gli animali da compagnia:che infatti, secondo il galateo, non do-vevano sedere a tavola, e quindi furonoallontanati progressivamente daglispazi domestici, esclusi pochi fra loro.

L’uomo civilizzato, inurbato, perse cosìgradualmente la familiarità di semprecon gli animali (e con la natura stessa,nelle sue svariate articolazioni) e ciòprobabilmente contribuisce oggi ad ac-crescere il distacco emozionale fra luie le altre specie viventi, eccetto quelleche gli offrono compagnia ed affetto,anch’esse quasi separate, proprio per

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BAU BAU ... CIP CIP ... CIAO CIAO

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tale motivo, dal restante mondo ani-male. Di conseguenza della bestia sel-vatica si può ancora far tutto (ancheperché la macellazione è delegata adaltri), mentre la domestica è protetta ecoccolata. E tanto più viene ignorata labestia, quanto più le sue carni sonoservite dopo un trattamento che ne na-sconda la natura e provenienza. In de-finitiva, l’uomo moderno che proteggeil proprio animaletto preferito lo rendein un certo senso anch’esso “cosa”,giocattolo, al di là delle sue caratteri-stiche specifiche. L‘animalismo puroha invece ben altri obiettivi e ben altracoscienza; predica più ampio rispettoper il nostro fratello animale, visto perquello che è; e per fortuna sembra increscita costante. Ma nonostante ciò,l’utilizzo alimentare dei viventi, speciecontro specie, appare ben lungi dal-l’essere risolvibile.

«Il soggetto a destra lo conoscete già, è il vostro amatogatto ed abita in città come voi. Quello a sinistra si chiamainvece coniglio, però probabilmente non lo avete mai vistoperché prevalentemente non abita in città, ma ha prefe-rito risiedere in periferia, all’interno di capannoni in confor-tevoli gabbiette, insieme a tanti altri suoi simili.Come vedete i due soggetti sonomolto diversi: lo sconosciuto

coniglio ha quelle brutte orecchie lunghe equel viso così allungato che lo rendono unanimale davvero antiestetico ed inutile,

buono solo per essere mangiato;mentre il gatto ha delle orecchie così proporzionate ed unviso così arrotondato che è davvero “vergognoso”, “scan-

daloso” e “indecente” che qualcuno anche solo dichiari chesi possa mangiare.

Ma ripensandoci, forse il coniglio lo conoscete: è quella cosache viene uccisa, fatta a pezzi e imbustata per voi, ragazzi dalcuore tanto animalista, così che possiate poi comprarla per nu-trire il vostro amato gattino».

Avvocati di cause persedi Brunella Danesi, [email protected]

(PAOLO CASINI,Darwin e la disputa sulla crea-zione, ISBN 9788815131393, Il Mulino(http://www.mulino.it/), Collana: Saggi, Bo-logna, 2009, pagine 176, € 16,00).

Darwin, quando a ventuno anni s’im-barcò sul Beagle, oltre ad avere una so-lida preparazione scientifica, posse-deva radicate convinzioni finaliste eteiste, in questo imprintato – comemolti suoi contemporanei inglesi – dal-l’approfondita conoscenza delle operedi William Paley e in particolare di Na-tural Theology. La prima rivoluzionescientifica si era lasciata alle spalle,anche se con fatica, le astratte specu-lazioni metafisiche, le segrete corri-spondenze fra macrocosmo e microco-smo. Grazie a Newton era stato intro-dotto il concetto di un dio demiurgo,un programmatore accorto che hacreato un universo funzionante comeun grande orologio controllato da Dio,suo orologiaio. Gli studiosi stavano len-tamente imparando a fare a meno dellamagia. Nel secolo successivo molti,specialmente in terra francese, ave-vano messo in dubbio l’idea di unacreazione provvidenziale e proprio per

contrastare queste posizioni materiali-ste e blasfeme, William Paley aveva ri-preso la metafora dell’orologio esten-dendola alle opere della natura, chetutte manifestano la saggezza dell’ar-tefice; per l’arcidiacono, convinto utili-tarista, le opere umane sono il prodottodi un disegno intelligente che “garan-tisce la massima felicità per il maggiornumero”. Le argomentazioni di Paleyavevano formato generazioni di stu-denti di Cambridge – dove la lettura diNatural Theology era da anni obbliga-toria per superare gli esami – per cui lametafora dell’orologio rappresentavalo sfondo al cui interno si muoveva lamaggior parte degli studiosi dell’Otto-cento inglese.

Casini ci parla in particolare dei duemaestri di Darwin a Cambridge che piùcontribuirono alla sua formazione epi-stemologica, Whewell e Herschel. Il mi-neralogista ed epistemologo WilliamWhewell aveva identificato le tappe delragionamento induttivo, ma aveva an-che discusso i concetti di causalità e fi-nalità, affermando, sulla scia di Kant,che si tratta di a priori che stanno alla

base dei ragionamenti scientifici, argo-mento che il padre dell’evoluzione terràben presente, quando criticherà il con-cetto di causa finale; per parte sua, il fi-sico e astronomo John Herschel avevachiarito in Preliminary discourse on thestudy of Natural Philosophy (1831) i rap-porti fra osservazione e teorizzazione,affermando che è necessario procederedal semplice al complesso, dai casi par-ticolari a quelli generali. Il “lungo ragio-namento” con cui lo scienziato esporrà,dimostrerà e difenderà la sua teoria inOn the origin of species mostra comeDarwin avesse fatto propri questi inse-gnamenti. Nel 1844, mentre Darwin eraimpegnato nella minuziosa raccolta difatti a conferma della sua teoria, fu pub-blicato anonimo Vestiges of the naturalhistory of the creation, che innescòun’accesa polemica sulla creazione; ilsaggio, pur sostenendo la tesi di un fiatiniziale, eliminava i reiterati atti creativitanto cari agli esegeti biblici e soprat-tutto considerava l’uomo – disceso daquadrumani – come un tardo epifeno-meno dell’evoluzione. Credenti di varieconfessioni e la maggior parte degliscienziati reagirono con veemenza all’o-

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pera che però fu accolta con grande fa-vore di pubblico. Il reverendo AdamSedgwick, che aveva insegnato aDarwin i primi rudimenti di geologia, fuparticolarmente duro: se il libro fossevero, vane sarebbero le fatiche della so-bria induzione; la religione sarebbe unabugia, la legge umana pura follia e per-fida ingiustizia; la morale un chiaro diluna… (da una lettera di Sedgwick a unamico).Vestiges era scritto in modo pia-no e accattivante Chambers (questo ilnome dell’anonimo autore) era a cono-scenza di molte scoperte recenti nelcampo della geologia, paleontologia edembriologia, anche se in modo ingenuoe approssimato, per cui scienziati dichiara fama come Agassiz, Lyell, Owen,Brewster, Herschel e lo stesso ThomasHuxley, al tempo convinto fissista, po-terono facilmente liquidare il testo co-me un coacervo di sciocchezze. In par-ticolare, il futuro “mastino di Darwin”nel 1854 definì priva di qualunque va-lore esplicativo la terminologia del sag-gio che ripeteva, utilizzando un lin-guaggio pseudoscientifico, lo scenariocreazionistico e criticò pesantemente lavaga nozione di “leggi naturali” createall’inizio da Dio, giacché “non sarebbein nessun senso intelligibile, una spie-gazione della creazione … ma signifi-cherebbe semplicemente, di fatto, unmiracolo sistematico”.

La pubblicazione di Vestiges rappre-sentò forse una delle concause checontribuì a far procrastinare l’uscitaallo scoperto di Darwin; questi non vo-leva essere confuso con un dilettantepasticcione. Nelle argomentazioni dalui riportate nel compendio scritto nel1844, tuttavia, si nota un certo paralle-lismo con lo schema di Chambers,anche se il suo concetto di selezione gliconsente di disegnare un dispiega-mento delle specie guidato da fattoridel tutto naturali, in cui non trovanospazio forze misteriose o leggi divine.Le cause finali, le “vergini sterili” diBacone, sono completamente esclusedalle argomentazioni presenti nell’Ori-gine e il dio orologiaio di Paley è statoabbandonato a favore delle “leggi pre-cise” della selezione naturale. L’imma-gine di Dio resta forse sullo sfondo, sel’affermazione “(…) There is grandeurin this view of life, with its severalpowers, having been originallybreathed by the Creator into a fewforms or into one (…)”, presente dallaseconda edizione dell’Origine, è sin-cera e non dettata dalla preoccupa-zione delle reazioni delle chiese e deisemplici credenti. Per lo scienziato in-

glese la sofferenza, le guerre, le mortinon sono comunque imputabili a un’in-telligenza provvidenziale, Dio gli ap-pare impenetrabile e assente e nonpuò comunque aver voce in un’inda-gine scientifica.

La pubblicazione del 1859 suscitòmolte critiche, fraintendimenti e benpochi consensi pieni, anche se, a diffe-renza di Vestiges, non poteva essere li-quidata facilmente. Il suo autore erauna personalità scientifica di tutto ri-spetto, un geologo e un naturalista af-fermato, che portava riscontri speri-mentali difficilmente confutabili; lamaggior parte delle obiezioni da partedegli scienziati professionisti fu con-dotta sulle implicazioni morali, teologi-che e religiose della teoria, in quantosi riteneva inammissibile che la sele-zione naturale agisse senza la guida diun Ente Superiore. Il geologo Sedgwickaccusò il suo vecchio discepolo di averabbandonato “il vero metodo indutti-vista, intraprendendo un’impresapazza (…)”; l’astronomo Herschel si ri-ferì alla selezione naturale come allalegge del pasticcio; l’amico Henslowaffermò che le ipotesi di Darwin lospingevano troppo lontano; il paleon-tologo americano Louis Agassiz for-mulò una condanna senza appello. Lachiesa anglicana espresse forte dis-senso con numerosi interventi del ve-scovo Wilbeforce. Solo Huxley, Car-penter e Gray scrissero recensioni fa-vorevoli, ma anche coloro che accol-sero con favore il libro nutrivano ri-serve: Huxley, per esempio, pur con-vertito al modello evolutivo, criticò ilgradualismo di Darwin e il paragonefra selezione artificiale e naturale,mentre il professore di Storia Naturaleall’Università di Harvard, Asa Gray, disalda fede presbiteriana, reinterpretòla teoria evolutiva in termini teleologicie creazionisti, pur ammettendo che laricostruzione retrospettiva delle causeprossime proposta dall’amico fossepienamente legittima. Charles, addo-lorato, gli rispose: “Riguardo alla que-stione teologica, essa mi crea pena.Sono confuso, non avevo intenzione discrivere come un ateo, ma ammettoche non posso vedere chiaramentecome altri la prova di un disegno (…)Un cane potrebbe ugualmente specu-lare a proposito della mente di New-ton. Lasciamo che ognuno speri ecreda in ciò di cui è capace”. La letterarivela molto buon senso da parte diuno scienziato che cerca di non pene-trare in territori che non sono di suacompetenza, ma il tentativo di vedere

nella trasformazione dei viventi un di-segno divino rimane ancora oggi un’in-variante nella storia delle idee evolu-tive. Anche Charles Lyell, lo spiritoguida di Darwin, che aveva sostenutoper anni l’amico, si trovò su posizionisimili a Gray, soprattutto per quanto ri-guarda le origini dell’uomo, tanto chesostenne che la Creazione “è ancorapiù necessaria che mai”. Su posizionisimili si ritrovò anche lo zoologo SaintGeorge Jackson Mivart, il quale, spe-cialmente dopo la pubblicazione del-l’Origine dell’uomo, si allontanò dalleposizioni darwiniane. Dapprima Mivartsollevò lo spinoso problema della for-mazione di strutture complesse, comel’occhio o l’ala, di cui non è possibilecomprendere l’origine, facendo appelloa trasformazioni lente e graduali, poi-ché i supposti stati intermedi non sa-rebbero stati di alcuna utilità; in se-guito giudicò insoddisfacente anche lateoria della selezione naturale, propo-nendo che una non meglio precisataforza interiore guidi il dispiegarsi dellenuove forme di vita.

Il quadro che Casini fa emergere mettein luce come, nell’età vittoriana, il con-flitto fra evoluzione e creazione fossetutto interno all’ambito delle ricerchecondotte da naturalisti-teologi, mentreoggi ne dovrebbe essere estraneo. Lanostalgia per Verità assolute e univer-sali, però, scatenò sin da subito metafi-siche contrapposte, dalla fumosa con-vinzione in Spencer di un progresso ine-luttabile, al materialismo dogmatico diHaeckel, al mito dell’Oltreuomo di Nietz-sche, sino all’entusiasta visione vaga-mente panteista di Teilhard de Chardin.Nella seconda metà del Novecento, ildesiderio di tornare a confondere am-biti diversi di conoscenza ha ripresoparticolare vigore. Casini traccia letappe attraverso cui si è sviluppato edè cresciuto il movimento dell’Intelli-gent Design (ID), nato negli Usa e poidiffusosi a macchia d’olio anche in Eu-ropa. L’ID, che inizialmente si è mossoin ordine sparso, si è poi organizzatograzie a Phillip E. Johnson, già profes-sore di diritto penale presso l’Univer-sità di Berkeley. In Darwin on trial (Pro-cesso a Darwin) del 1991 Johnson re-dasse un atto d’accusa contro gli scien-ziati evoluzionisti per le loro posizionidogmatiche e materialiste; nel 1996 ilprofessore di legge, il biologo MichaelBehe, il geologo Stephen Meyer e il fi-losofo William Dembsky fondarono ilCenter for the Renewal of Science andCulture, finanziato dal Discovery Insti-tute. Il manifesto programmatico del

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VECCHI E NUOVI CREAZIONISMI

centro è laWedge strategy (“La strate-gia del cuneo”), che ha lo scopo di «in-vertire la dominazione soffocante dellavisione materialista del mondo e di so-stituirla con una scienza che sia in ac-cordo con le convinzioni cristiane e tei-stiche”. Il centro scaglia i suoi rabbiosistrali contro Darwin, Marx e Freud, reidi aver promosso il relativismo etico ela corruzione, di aver negato le regolemorali e il principio di responsabilitàindividuale; il suo scopo è quello di ri-baltare il materialismo e la sua ereditàculturale. Le critiche rivolte agli evolu-zionisti rispecchiano fedelmente quelleindirizzate più di cento anni prima aCharles Darwin, nel palese tentativo diritornare a un passato preevoluzioni-stico, cancellando con un colpo di spu-gna tutti gli studi e le scoperte com-piuti col sostegno di questa teoria digrande valore euristico; a nulla valsel’autorevole intervento di S.J. Gould su“Scientific American” (1992) che stron-cò Darwin on trial, affermando che nonportava alcuna evidenza scientifica asostegno delle sue argomentazioni.

Nel tentativo di dare una parvenza diautorevolezza scientifica al movi-mento, nel 1996 Michael Behe pub-blicò Darwin’s black box: the biochimi-cal Challenge to evolution (La scatolanera di Darwin. La sfida biochimica al-l’evoluzione, 2006). Nel libro Behe af-ferma che nel vivente sono stati sco-perti sistemi che presentano “com-plessità irriducibile”, essendo compo-sti di diverse parti interagenti e ben as-semblate, che contribuiscono alle fun-zioni di base, per cui la rimozione diuna qualsiasi delle parti causa la ces-sazione dell’effettivo funzionamentodel sistema oggetto di esame. Questisistemi, scoperti in particolare in alcuni

meccanismi biochimici, rappresentanouna seria sfida al darwinismo che se-condo Behe non è capace di fornirespiegazioni plausibili facendo ricorso amodifiche lente e graduali; per illu-strare il concetto di complessità irridu-cibile, Behe porta come esempio unatrappola per topi: essa è fatta di di-verse parti che interagiscono – la base,la molla, il blocco e il relativo gancio difermo: tutte queste devono essere pre-senti insieme perché la trappola fun-zioni. Mutatis mutandis, l’obiezione èancora una volta quella che a suotempo aveva portato Mivart a propo-sito dell’occhio umano e cui Darwinaveva replicato nelle successive edi-zioni dell’Origine. Behe porta come“prove” scientifiche i flagelli di moltibatteri, la coagulazione del sangue, leciglia, il sistema immunitario, non te-nendo conto che si tratta di meccani-smi che sono stati scoperti e interpre-tati dalla comunità scientifica propriofacendo appello al modello evolutivo.Secondo Behe, le spiegazioni addottenon sono in grado di spiegare la com-plessità della vita, che non può essereil risultato ultimo di un lunghissimoprocesso, ma è presente all’inizio, inun’ermetica “scatola nera”. L’ecletticofilosofo William Dembsky – che è an-che matematico e teologo – si è impe-gnato a rintracciare i peccati capitaliche hanno portato al materialismo; re-sponsabili di questo disastro culturalesarebbero: Spinoza che criticò le causefinali, Bonaventura da Bagnoregio eTommaso d’Aquino che esclusero l’i-dea di un disegno divino, l’abbandonodei Libri sacri, la rivoluzione scientificache volle far a meno delle cause finali,l’illuminismo ateo e razionalista; il suoimpegno dichiarato è quello di abbat-tere il naturalismo metodologico mate-rialista proprio del metodo scientificoper sostituirlo con il “realismo teisti-co”. A suo avviso, inoltre, il calcolo pro-babilistico, applicato alle sequenze nu-cleotidiche che compongono il DNA di-mostra con certezza l’esistenza di undisegno intelligente. Si tratta di una ri-visitazione aggiornata delle vecchie ar-gomentazioni di Paley o di Mivart, undefinire falso tutto ciò che al momentonon può essere dimostrato vero; si di-scetta di una complessità irriducibile inmodo tautologico, perché si dà perscontato l’esistenza della complessitàche invece si dovrebbe dimostrare. Ipochi scienziati che sono entrati nelmerito di queste affermazioni, hannomesso in luce l’inconsistenza delleprove addotte, mentre i seguaci di IDhanno replicato che la comunità scien-

tifica “ufficiale” si chiude a riccio inquanto vuol difendere i propri privilegidi casta e la sua visione atea e mate-rialista. Come si vede, siamo di frontea un movimento oscurantista che, mal-grado si sia impegnato a ritagliarsispazi di affidabilità in campo scienti-fico, ne è sostanzialmente fuori, ancheperché nessun protocollo di ricerca cre-dibile è stato prodotto dal Center forthe Renewal.

Molti biologi e filosofi, aderenti allachiesa cattolica o anglicana, sono diffi-denti nei confronti di ID, forse perché virintracciano atteggiamenti eretici esono inoltre consapevoli dei rischi sot-tesi al movimento, giacché questa esal-tazione teista potrebbe provocare con-trapposizioni dolorose e nuove forme difanatismo, simili a quelle che reseropossibile la condanna di Galileo. Posi-zioni così estremizzanti, inoltre, pos-sono rendere molto fragili i tentativi diuna “evoluzione teista” che si contrap-ponga all’orologiaio cieco di Dawkins,mentre possono trovare credibilità al-l’interno di alcune chiese, compresaquella cattolica. Nel 1996 il ponteficeaveva cautamente aperto a Darwin:“nuove conoscenze conducono a nonconsiderare più la teoria dell’evoluzionecome una mera ipotesi” (Giovanni PaoloII, Messaggio ai partecipanti all’Assem-blea Plenaria della Pontificia Accademiadelle Scienze, del 22.10.1996), ma nel2005 il cardinale di Vienna Schönbornha dichiarato: “la chiesa cattolica difen-derà la ragione umana proclamando cheil progetto (design) immanente nella na-tura è reale. Le teorie scientifiche chetentano di eliminare la presenza delprogetto (design) in nome del “caso edella necessità” non sono affatto scien-tifiche, ma, come Giovanni Paolo hadetto, sono un’abdicazione all’intelli-genza umana”.

Casini ritiene che i seguaci di ID sianoavvocati di cause perse che sembranoignorare il monito kantiano: “il campodi battaglia di questi contrasti senzafine si chiama metafisica”, mentre lascienza è rassegnata alla fatica di Sisifo.Per questo è ancora di grande attualitàil monito di Albert Camus: “Anche lalotta verso la cima basta a riempire ilcuore di un uomo. Bisogna immaginareSisifo felice”.

Brunella Danesi fa parte della Redazione diNaturalmente ed ha insegnato Scienze Na-turali nella scuola media superiore.

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MAESTRI LAICI

Con il mio intervento [1] intendo met-tere in relazione, in termini problema-tici, due categorie politico-culturali chehanno attraversato la storia del Nove-cento italiano: antifascismo e anticleri-calismo. Lo spunto per elaborare unariflessione su un tema così complesso,e per molti aspetti lacerante, visto l’e-levato numero di credenti tra i militantiantifascisti e l’importante ruolo svoltodai partigiani bianchi e dalla DC nellacostruzione della democrazia, mi è ve-nuto dallo studio di due carteggi cheho iniziato a svolgere nel 2006, in vistadella pubblicazione della mia ricerca suValiani [2]. Mi riferisco all’epistolariotra Valiani e Salvemini e a quello, al-trettanto ricco e denso di stimoli, in-

tervenuto tra lo stesso Valiani e Rossi.Il contenuto dei due carteggi mi ha ri-portato a temi centrali della storia ita-liana, in particolare della prima fasedella Repubblica e mi ha indotto apormi domande forse un po’ scomode.Si può sostenere, senza essere tacciatidi cieco estremismo, che l’anticlericali-smo sia una delle radici dell’Italia de-mocratica e repubblicana? Perché l’an-tifascismo, che è stata certamente laprincipale e più robusta radice dell’Ita-lia democratica e repubblicana, non dirado è stato associato da politici e in-tellettuali non comunisti, o addiritturaanticomunisti, all’anticlericalismo? Sesi riflette con attenzione sugli stretti rap-porti intercorsi tra il regime fascista e la

Chiesa cattolica, sanciti dal concordatodel 1929, inserito nella Costituzione gra-zie al voto decisivo e per certi aspettisorprendente del PCI di Togliatti, noncredo che ci si debba stupire se perso-nalità di primo piano dell’antifascismo,in particolare d’area laico-socialista, chefin dagli anni Venti avevano combattutoMussolini e i suoi alleati dentro e fuoridall’Italia (si pensi alle sofferenze patitein carcere e al confino, ma anche al fuo-riuscitismo politico – non solo in Francia– e alla guerra civile in Spagna), hannoconsiderato per lungo tempo i due con-cetti quasi inscindibili fra di loro.

Pur con i dovuti e non marginali di-stinguo, a causa di una diversa forma-

Valiani, Rossi, Salvemini: antifascismoe anticlericalismo nel secondo dopoguerra.Il fondamento storico di una posizione politico-culturaledi Andrea Ricciardi, [email protected]

La Costituzione, noi e i nostri Maestri

Quali sono gli scopi statutari dell’UAAR? La laicità, la pari op-portunità e legittimità delle diverse concezioni del mondo, lapacifica convivenza di etiche diverse e plurali … non sono altroche un tassello di quella Legge fondamentale che è la nostraCostituzione e che, almeno nella prima parte, principi fonda-mentali e diritti e doveri, rimane sempre attuale, ma scandalo-samente poco applicata, creando quello scarto tra Costituzioneformale e Costituzione materiale che ci piacerebbe contribuirea colmare perseguendo quegli scopi.

In uno storico discorso del 1955 sulla Costituzione, agli studentidell’Università di Milano, così diceva Piero Calamandrei: “La Co-stituzione deve essere considerata non come una legge morta,deve essere considerata, ed è, come un programma politico. LaCostituzione contiene in sé un programma politico concordato,diventato legge, che è obbligo realizzare. […] La Costituzionenon è una macchina che una volta messa in moto va avanti dasé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non simuove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro ilcombustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, lavolontà di mantenere queste promesse, la propria responsabi-lità. […] La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto valequando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfis-sia che gli uomini della mia generazione hanno sentito pervent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. Inquesta Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il no-stro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostregioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere inten-dere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane …”.

Le voci lontane sono i grandi maestri del passato remoto, sonole migliaia di morti del Risorgimento e della Resistenza antifa-

scista, sono umili persone che hanno amato la libertà e per essahanno lottato … sono i maestri di un passato meno lontano, maanche loro messi nel dimenticatoio collettivo che chiamiamo“perdita della memoria storica”, quando non è stravolto da unrevisionismo mistificante; la carta costituzionale è il loro testa-mento che noi abbiamo il dovere di tradurre nella pratica quo-tidiana, nelle relazioni politiche e personali, nel nostro essereattivi e partecipi dell’associazione a cui aderiamo; è anche unantidoto a quel senso di asfissia che ancora rischia di soffocarci,per scarsità d’aria, che è carenza di libertà.

In questa sezione che oggi inauguriamo vorremmo appuntodare un piccolo contributo affinché non si perda quella me-moria storica che ci aiuta a tenere gli occhi aperti e la mentevigile ricordando in particolare alcuni dei maestri antifascistidi “Giustizia e libertà” che hanno lottato contro una dittaturae contro il clericalismo, per un paese più giusto, più libero elaico. Il tempo ha via via cancellato coloro che li hanno cono-sciuti ed ormai è una sparuta minoranza chi ne ha ancora unaviva conoscenza. I giovani poi, ne hanno un‘immagine, sem-pre che l’abbiano, falsata da reintepretazioni spesso stru-mentali.

Vogliamo invece riproporre l’attualità del loro pensiero e dei loroinsegnamenti, primo fra tutti un certo laicismo, parola chiave efilo conduttore della carrellata di personaggi che cominciamoqui a presentare e che proporremo in prossimi numeri della ri-vista. L’auspicio è di offrire uno stimolo per conoscerli meglioleggendo le loro opere o facendo più semplici ricerche di ap-profondimento nella rete.

A cura diAntonietta Dessolis, [email protected]

e Marco Accorti, [email protected]

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MAESTRI LAICI

zione ideologico-culturale e di percorsipolitico-partitici non sovrapponibili,Salvemini, Rossi e Valiani sono dunquetra coloro che hanno vissuto a lungo ilfascismo e il Vaticano come nemicidella libertà indissolubilmente legatitra di loro, dimostrando di consideraregli interessi della Chiesa cattolica e imessaggi delle alte gerarchie ecclesia-stiche essenzialmente incompatibilicon il progresso civile, il rinnovamentopolitico e il consolidamento della de-mocrazia in Italia. Forse solo Valiani, ilpiù giovane dei tre, ha “ammorbidito”nel tempo le sue posizioni perché, alcontrario di Salvemini e Rossi, ha vis-suto un autentico processo di secola-rizzazione della società e della culturache ha modificato il paese e influen-zato la politica attraverso un ridimen-sionamento, seppur parziale, dell’in-fluenza del Vaticano sul governo ita-liano e in particolare sulla DC, il par-tito intorno al quale hanno ruotato tut-te le maggioranze fino al crollo dellacosiddetta Prima Repubblica.

Fin dal 1945, con altri protagonistidella battaglia antifascista, essi hannopensato che l’Italia non sarebbe dav-vero cambiata senza un mutamento ra-dicale dei rapporti tra Stato e Chiesa,fissati da un concordato che aveva rap-presentato un enorme successo sia perMussolini, capace di accrescere note-volmente il consenso al regime, sia peril Vaticano, nemico storico del Risorgi-mento e dell’Italia liberale, dichiarata-mente ostile non solo al socialismo, maanche a ogni dottrina e pensiero chefosse espressione della modernità, co-me la democrazia e la laicità, e a qual-siasi valore che potesse rinnovare ilpaese nel senso di un suo allontana-mento dalla tradizione.

Ostili al conservatorismo, e nel con-tempo molto critici e diffidenti verso ilPCI a causa del suo storico legame conl’URSS, Salvemini, Rossi e Valiani (chepure fu, tra il 1928 e il 1939, un irriduci-bile militante comunista) hanno fattoparte di una fetta politicamente rile-vante – anche se quantitativamente mi-noritaria – dell’Italia postfascista, impe-gnata a lottare per raggiungere unobiettivo ambizioso: determinare unareale e profonda discontinuità con il re-gime, non solo da un punto di vistapolitico-istituzionale, ma anche cultu-rale, socio-economico e amministrativo.Per raggiungere questo fine, Salvemini,Rossi e Valiani s’impegnarono a fondonon solo perché fossero escluse dal go-verno in via definitiva le forze della rea-

zione, che rappresentavano interessieconomici consolidati da molti anni didominio incontrastato, ma anche perrafforzare il polo laico-socialista al finedi creare un’alternativa al partito catto-lico e, nel contempo, limitare l’influenzapolitico-sindacale dei comunisti. L’ideadi promuovere in Italia una terza forzafu sempre una priorità dichiarata da Sal-vemini, Rossi e Valiani, pur con moda-lità diverse a seconda dei ruoli eserci-tati, ma risultò inevitabilmente schiac-ciata dal peso della guerra fredda edella logica dei due blocchi: con il fron-tismo e la frammentazione delle forzesocialiste, la prospettiva della terzaforza si affievolì e, con essa, si allontanòforse la possibilità di fare dell’Italia unademocrazia compiuta e laica.

Dopo la scomparsa di De Gasperi si fe-cero strada nella DC, nonostante la pre-senza di una componente sindacale e lanascita della sinistra di “Base”, forze di-sposte persino ad allearsi con il neofa-scismo, erede dichiarato della RSI, purdi frenare l’apertura a sinistra – a cui sot-tostava un nuovo modello di sviluppoeconomico – e pur di ostacolare il pro-cesso di secolarizzazione della societàcivile e politica. Una posizione retriva, inlinea con gli strali di potenti cardinalicome Siri e Ottaviani, ostili al cambia-mento e devoti alla tradizione. Alla finedegli anni Cinquanta, dopo che con i ri-volgimenti del 1956 si era fatta concretala possibilità di un mutamento del qua-dro politico con l’inserimento del PSI diNenni, Lombardi, De Martino e Santinella maggioranza, non solo all’internodell’area laico-socialista si iniziò a par-lare insistentemente di “clericofasci-smo” e a ipotizzare l’avvento di un nuo-vo fascismo senza Mussolini che, in li-nea con il passato, potesse incontrarel’appoggio del Vaticano e dei vecchi“poteri forti”. In realtà questo timore,acuito dai fatti del luglio 1960 e dall’am-biguo comportamento di Tambroni, erada sempre presente in quei dirigenti del-l’antifascismo che, fin dagli anni Venti,avevano pagato un prezzo personalemolto elevato al regime fascista, che du-rante la Resistenza avevano visto morirenon pochi amici e compagni, che ave-

vano accettato obtorto collo l’inseri-mento dei Patti Lateranensi nella Costi-tuzione e che, nella prima fase dellaguerra fredda, avevano subito violentiattacchi verbali da esponenti del tradi-zionalismo cattolico come Luigi Gedda.

Rossi e Valiani – dopo la scomparsa diSalvemini nel 1957 – furono tra coloroche, all’inizio degli anni Sessanta, si bat-terono con più vigore per allontanarel’inquietante prospettiva di un nuovoregime e, pur non proponendosi comedirigenti politici di primo piano (l’espe-rienza radicale per nessuno dei due rap-presentò un successo), soprattutto at-traverso lo strumento del giornalismod’inchiesta si fecero interpreti di batta-glie difficili contro quello che vennespesso descritto come una sorta di “cle-ricofascismo” strisciante. Anche altrimezzi – gli studi storici e la salvaguardiadella memoria (soprattutto per Valiani)– furono utilizzati da questi “intellet-tuali militanti” per difendere valori che,in realtà, erano stati propri di un’interagenerazione di antifascisti. L’attuazionedella Costituzione repubblicana; l’am-pliamento dei diritti civili, politici e so-ciali; la lotta alla censura e alle discri-minazioni d’ogni genere, alla corruzionee alla speculazione, soprattutto in cam-po edilizio e finanziario; un parziale in-tervento statale in economia contro ilpotere dei monopoli privati; la laicitàdello Stato e il diritto all’istruzione pub-blica. Questi temi furono costantemen-te dibattuti da Rossi, Valiani e Salve-mini in linea con la loro cultura antifa-scista, una cultura dalle radici profonde,che produsse istanze politiche di forteopposizione alla persistente influenzadel Vaticano sulla società italiana e,quindi, orientate ad affermare con loStato laico la democrazia.

Nonostante il quadro politico/istituzio-nale, gli assetti economici, la società e ilclima culturale dell’Italia repubblicana siandassero modificando nel tempo – an-che a causa dell’evoluzione degli equili-bri internazionali e all’inizio della di-stensione con la destalinizzazione – Sal-vemini, Rossi e Valiani, pur usando tonidiversi, nel caso di Salvemini e Rossiestremi, in Valiani via via più sfumati, in-sistettero sempre nel mettere in rela-zione antifascismo e anticlericalismo.Anticlericalismo inteso, senza alcunapossibilità di fraintendimento guardan-do al contenuto di lettere, documenti escritti vari, non come un atteggiamentoirrispettoso nei confronti della fede reli-giosa e dei valori cristiani, bensì comeferma opposizione al potere del Vati-

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cano e alla sua pesante influenza eser-citata sia sul governo e il Parlamento at-traverso la DC, sia sulla società civile permezzo del clero, capillarmente diffuso sututto il territorio nazionale. Salvemini,Rossi e Valiani, dunque, non vedevanotutti i cattolici come nemici della libertà,bensì criticavano le contraddizioni dellaChiesa cattolica a proposito di quellache essi ritenevano essere l’enorme di-stanza tra le sue istanze politico-cultu-rali e i profondi valori della cristianità –ispirati al rispetto, all’uguaglianza e aldialogo – che la Chiesa stessa dichiaravadi voler rappresentare. Dalle colonne diriviste come “Il Mondo” di Pannunzio e“L’Astrolabio” di Parri, essi non cessa-rono da una parte di evidenziare i grandie talvolta ben poco nobili interessi eco-nomici del Vaticano (si pensi solo aquelli nell’edilizia romana, ampiamentedocumentati dalle inchieste de “L’E-spresso”, settimanale su cui Valianiscrisse a partire dal 1955); dall’altra dimettere in luce il suo potere di condizio-namento delle coscienze, spesso eserci-tato in modo non proprio rispettoso neiconfronti di chi esprimeva sensibilità di-verse e chiedeva legittimi spazi di li-bertà all’interno della stessa chiesa diRoma. A riprova di quanto determinateistanze di cambiamento fossero basatesull’attenta osservazione della realtà enon sul pregiudizio ideologico, basti ri-cordare che, almeno fino alla fine deglianni Sessanta, non era infrequente daparte dei vescovi l’uso della scomunica(non soltanto in chiave anticomunista),né la mancata concessione dei sacra-menti per quei fedeli che non vivevanoin linea con dogmi insindacabili, comel’indissolubilità del matrimonio, troppoa lungo sanciti anche dalla legislazioneitaliana.

È importante ribadire che Salvemini,Valiani e Rossi, sia pure quest’ultimocon un diverso approccio metodologicoe una maggiore vis polemica, hannoscritto molto di storia e che i loro rigo-rosi studi non hanno intaccato deter-minate convinzioni ma, al contrario, le

hanno rese più solide. Emblematico è ilcaso di Valiani, che negli anni dellamaturità si allontanò nettamente damolte delle posizioni radicali prece-dentemente assunte ma, nei suoisaggi, continuò a utilizzare categorieanalitiche e terminologie – come “de-stra clericale” – che alludevano a un’al-leanza quasi “oggettiva” e a un’ampiaconcordanza di interessi manifestatisitra Ottocento e Novecento tra le altegerarchie ecclesiastiche e il conserva-torismo politico o, in alcuni casi, la rea-zione. Valiani, fino agli ultimi anni divita, scrisse che il Concordato del feb-braio 1929 non era stato certo l’unicofirmato dal Vaticano con governi illibe-rali e che, nel periodo fra le due guerre,Pio XI si era accordato anche con il to-talitarismo nazista e con altri regimiautoritari dell’Europa orientale. Inoltre,al di là delle sottolineature riguardo al-l’ambigua posizione di Pio XII sullaShoah (a cui Rossi dedicò ancor più at-tenzione), Valiani ricordò sempre comela Spagna di Franco fin dagli anniTrenta fosse stata pienamente soste-nuta dal Vaticano e come, nel 1953, ildittatore iberico avesse firmato persinoun concordato con la Chiesa cattolica.Anche quando divenne anticomunistae sposò con convinzione l’atlantismo,Valiani rimase un antifascista intransi-gente e continuò a criticare tutti coloroche, dietro alla facciata dell’anticomu-nismo cattolico e della lotta per la sal-vaguardia della libertà, durante la se-conda guerra mondiale si erano alleaticon il nazifascismo, come era avvenutoper la Croazia di Ante Pavelic.

Per quanto riguarda le riflessioni delSalvemini storico, basti citare la cor-posa raccolta di opere su Stato e Chiesain Italia. In questi scritti, Salvemini so-stenne a più riprese che la democrazia,essendo un sistema incentrato sulla so-vranità popolare, è necessariamente in-compatibile con il cattolicesimo gerar-chico e autoritario. Prese in esame i dif-ficili rapporti tra Stato italiano e Vati-cano prima dell’avvento del fascismo,

analizzò criticamente le conseguenzedel Concordato. Ma gli attacchi politiciportati alla Chiesa, anche quando fu-rono condotti con estrema durezza, maisi configurarono come un’offesa alla re-ligione sinceramente professata e aicredenti. Dal complesso quadro storicoelaborato, emergeva con chiarezza ilfilo rosso che legava il Salvemini del-l’età liberale – socialista, democratico eanticlericale – al Salvemini antifascista,impegnato a fondo nella costruzionedella Repubblica laica.

A proposito del costante impegno diRossi per affermare la laicità delloStato in linea con il suo antifascismodemocratico radicale, è sufficiente ri-cordare che egli, tra il 1957 e il 1962,diresse la collana “Stato e Chiesa” del-l’editore Parenti, pubblicando unaquindicina di volumi tra cui Il manga-nello e l’aspersorio e La Conciliazione.Pur utilizzando un linguaggio a trattimolto polemico, Rossi produsse ricer-che rigorose con l’obiettivo di dimo-strare come il Vaticano avesse soste-nuto la conservazione e la reazione fa-scista contro la democrazia e il plurali-smo. Era questa la radice del suo anti-clericalismo che, come nel caso di Sal-vemini, non metteva sotto accusa l’in-tima religiosità dei credenti.

Note

[1] Questo scritto è una riduzione (a cura diAntonietta Dessolis, autorizzata dall’autore)dell’intervento elaborato in occasione dellaquarta edizione di “Giellismo e Azionismo.Cantieri Aperti”, convegno organizzato il5-7 maggio 2008 a Torino presso l’Istoreto egià pubblicato in due paragrafi su “Il Pon-te”, dicembre 2008, pp. 76-92.[2] Cfr. A. Ricciardi, Leo Valiani. Gli annidella formazione. Tra socialismo, comunismoe rivoluzione democratica, Milano, Fran-coAngeli, 2007.

Andrea Ricciardi è studioso di Storia con-temporanea all’Università degli Studi di Mi-lano, Facoltà di Scienze Politiche.

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Quanto attuale appare ancora oggi ilpensiero di Gaetano Salvemini che piùdi chiunque altro bene ha rappresen-tato “l’altra Italia”, quella laica e libe-rale, illuminista e occidentale, dove ilrigore morale e la tolleranza, la fedenella libertà e nel laicismo, hanno sem-pre animato il suo impegno di politicoe d’intellettuale. Proprio la sua inte-grità morale e un forte senso di giusti-zia fecero sì che in Salvemini gli idealinon fossero mai disgiunti dalla dirit-tura dei comportamenti così da rifiu-tare sempre ogni sorta di compro-messo nelle battaglie intraprese. Fu inprima linea a battersi per la laicitàdello Stato per arginare la formazionedi uno Stato confessionale – ossia diuno Stato favorevole all’intervento di-retto ed indiretto del potere ecclesia-stico nella vita politica. Le ragioni dellasua posizione si trovano ben argomen-tate in Clericali e laici, dove affermòl’inconciliabilità della politica ufficialedella Chiesa cattolica con una politicacompiutamente democratica. La suaintegrità lo portò già avanti con gli annia diventare un fuoriuscito, cosa di cuisi gloriò definendosi “un ebreo errantedell’antifascismo” andando per il mon-do a denunciare i soprusi della ditta-tura che lo temeva come “bieco disfat-tista e corruttore di cervelli”.

Nel carteggio di Andrea Ricciardi (Va-liani, Rossi, Salvemini: Antifascismo eanticlericalismo nel secondo dopoguer-ra) si trova conferma di questo suopensiero che condivise con altri espo-nenti di Giustizia e Libertà. Salveminiha sempre sottolineato la pochezzadella morale sbandierata dai rappre-sentanti delle istituzioni ecclesiasticheche ritenevano di detenere la Veritàuniversale ed eterna, “verità" che gliuomini dovevano cercare perché “con-duce alla felicità”; se poi, per incapa-cità intellettuale o malvagità di animo,non riuscivano a capire per loro contoquali erano gli obiettivi a cui avrebberodovuto tendere per raggiungerla, eradovere degli illuminati dalla Grazia diDio impedire agli uomini di venire tra-viati dalle insidie del maligno. L’illu-stre storico non negava alle autoritàecclesiastiche il diritto di applicare una

qualche sanzione “morale” che esseavessero giudicato opportuna, ma ne-gava loro il diritto a qualunque san-zione “giuridica”: la religione non siimpone agli uomini con la forza o conla legge, ma nasce spontanea neglianimi e si coltiva nel tempo per intimaconvinzione. Potremmo parlare in Sal-vemini, dichiaratamente agnostico, di“religione della libertà”, di una libertàa tutto campo in cui trova un luogod’elezione la figura dell’anarchico Ca-millo Berneri di cui Salvemini fa pro-prio il suo “Credo”: «Che io possa con-tinuare ad amare gli uomini così comesono, deboli e cattivi, come dei bambinie dei malati … che mi liberi dall’ecces-siva pietà, che fa soffrire il prossimo pertimore di far soffrire …» [1]. I contributidi Salvemini al pensiero laico sono dis-seminati in migliaia di pagine dove Li-bertà e Scuola occupano gli spazi pre-dominanti. Qui ci si limita a riportaresolo qualche breve stralcio come invitoall’approfondimento.

Salvemini e la libertà

«Quando un clericale usa la parola li-bertà intende la libertà dei soli clericali(chiamata libertà della chiesa) e non lelibertà di tutti. Domandano le loro li-bertà a noi laicisti in nome dei principinostri, e negano le libertà altrui innome dei principi loro» [2]. «La libertànon è il diritto di far quello che ci paree piace passando sul corpo dei nostrivicini. La libertà tua limita la libertàmia. La libertà mia limita la libertà tua.Nelle società selvagge è il più forte chestabilisce la linea di divisione fra la sualibertà e quella del più debole, e la sta-bilisce dove arriva la sua forza: egli hatutte le libertà e il debole non ha nes-suna libertà. Rivendicare la propria li-bertà è facile. Rispettare la libertà al-trui, questo è difficile. Eppure questaè la libertà».

«La dottrina ufficiale della Chiesa cat-tolica non ha mai accettato la “libertàper tutti”, la Chiesa cattolica ammettesoltanto la “libertà per il bene”, cioèper quello che le autorità della chiesadefiniscono come “bene”. Libertà dicoscienza per tutti, libertà di culto per

tutti, libertà di parola per tutti, libertàdi stampa per tutti, libertà di insegna-mento per tutti: queste “libertà pertutti” sono sempre state condannateda tutti i papi come libertà di male, dierrore, di disordine, di anarchia, di im-moralità. Per la Chiesa la “giusta li-bertà” del cittadino cattolico è parago-nabile a quella che deve avere il caneche è tenuto al guinzaglio. Il cane è li-bero fin dove arriva il guinzaglio».

«Tutti i nostri sogni possono diventarerealtà, se abbiamo il coraggio di inse-guirli». «Chi non è cattolico domandaalla propria coscienza individuale la so-luzione di qualunque problema; puòanche domandare l’opinione delle au-torità della Chiesa, se appartiene aduna chiesa; ma non sente a priori nes-sun dovere di obbedire a quella opi-nione, se essa si troverà in contrastocol punto di vista che la propria co-scienza individuale gli comanderà inultima istanza di accettare. Ben di-versa è la condizione del cattolico: suoobbligo è di obbedire al “magisterodottrinale” del pontefice e dei vescovianche se la sua coscienza individualelo ripugna. Gli è permesso, tutt’al più,di tacere e non contrastare, se nonvuole cadere in peccato».

«Il clericale disputa, insiste, condanna,minaccia con superbia e ferocia, nontanto sui problemi della condotta mo-rale, quanto sulle basi dogmatichedella religione, Fuori di queste non c’è,secondo lui, vita morale. Chi non è cle-ricale non è cattolico, chi non è cri-stiano non è religioso; chi non è reli-gioso è immorale. Perciò chi non è cle-ricale è un essere maligno e pericolosoalla società. Per il clericale esiste solola certezza che, se non accettate i suoidogmi, siete un’anima perduta. Es-sendo sicuro che la sua anima si sal-verà, si occupa di salvare le animedegli altri, presuntuoso, arrogante, in-vadente. Quanto alla scienza, facciapure il suo comodo, finché non arrivaal limitare del dogma; arrivato a quelpunto, alto là».

«Le autorità ecclesiastiche hanno il di-ritto di “consigliare” i fedeli, e magari

Gaetano Salvemini nostro contemporaneodi Antonietta Dessolis, [email protected] Marco Accorti, [email protected]

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condannarli al fuoco eterno, ma nell’al-tra vita. Se avessero la facoltà di im-porre giuridicamente a fedeli e non fe-deli i loro “consigli” e le loro condannein questa vita, i loro consigli divente-rebbero “leggi”. I peccati diventereb-bero delitti».

«Si legge sull’Osservatore romano unarticolo intitolato: “Per la libertà dal-l’errore”. Badiamo bene non libertàdell’errore, ma dall’errore. Solo chi pre-tende di tenere chiusa l’ispirazione di-vina in un taschino, può pretendere diessere sicuramente libero dall’errore, equindi può pretendere di obbligare ipropri simili a liberarsi dall’errore se-condo la ricetta a lui rivelata da un Dioche non erra mai. La certezza dell’in-fallibilità produce intolleranza giuri-dica. La modestia produce il rispettodelle opinioni altrui, cioè dell’errore al-trui, cioè non la libertà dall’errore, mala libertà dell’errore. L’Osservatore ro-mano, beato lui, ha la certezza dell’in-fallibilità. Perciò non ammette la libertàdell’errore. Ammette la sola libertà dal-l’errore; negando la libertà dell’errore,distrugge la libertà. Il clericale doman-da libertà per sé in nome del principioliberale, salvo a sopprimerla negli altri,non appena gli sia possibile, in nomedel principio clericale» [3].

Salvemini e la Scuola

Salvemini si è battuto tutta la vita peruna scuola moderna e laica. Si spese findagli inizi del secolo scorso per unariforma dove venisse superato quell’im-pianto nozionistico e inutilmente elita-rio in cui la confessionalità non era tantoe solo legata ad una forma di religiosità,quanto ad un pedagogismo che propi-nava “verità” e ostacolava la “libertà diimparare”. Lo stesso suo rivendicare il«diritto all’ignoranza» dello studentenasce dalla critica di una cultura del «co-noscere tutto di una cosa e qualche cosadi tutto», ovvero, come sottolinea,niente altro che la definizione di unospecialista, non di una persona colta. Elo sostiene proponendosi proprio comeesempio di competente in storia, maerudito solo di pochi fatti relativi a pochipaesi. Ma una cosa conosce: i sui limiti,la sua ignoranza. «Ora, se la ignoranza èuna nostra condanna inespiabile già nelcampo della “cultura speciale”, immagi-niamoci quanto numerose e quanto im-mense debbano necessariamente es-sere le lacune della nostra “cultura ge-nerale”. Impossibile è “conoscere tuttodi una cosa”. Più impossibile ancora è“conoscere qualche cosa di tutto”».

In chi siede sui banchi «Il valore diun’educazione si misura … da quantola scuola lasci in lui di gusto, di slan-cio, di attitudine a istruirsi con un la-voro indefinitamente continuo». «Lesvariate conoscenze che sono indi-spensabili a chiunque voglia vivereconsapevolmente la vita dei nostrigiorni, gli alunni … le apprenderannoda sé fuori della scuola e dopo lascuola, durante tutta la vita, di manoin mano che se ne presenterà l’occa-sione e la necessità. La scuola nondeve dare all’alunno che il desideriodel sapere, alcuni degli strumenti piùadatti alla conquista di esso, e la disci-plina intellettuale e morale necessariaa bene studiare e bene operare» [4].

Ma c’è un brano drammaticamente at-tuale visto l’ennesimo maleficio perpe-trato ai danni della cultura con la sop-pressione della geografia dai program-mi scolastici.

«Quanti di noi la geografia della peni-sola balcanica l’abbiamo appresa dacima a fondo o l’abbiamo ristudiata sulserio nei mesi passati, via via che se-guivamo sulle carte più o meno parti-colareggiate, pubblicate dai giornali, iprogressi delle truppe della Quadru-plice e le disfatte delle truppe turche!Se le notizie che leggiamo sui giornali,per es., dell’Albania, dovessimo inter-pretarle con le sole informazioni cheimmagazzinammo una volta a scuola,è certo che ci troveremmo assai impac-ciati a cavare da tutto quel groviglio dinomi nuovi un qualunque costrutto.

Vuol dire questo che la scuola sia statainutile? Vuoi dire che la scuola – stan-do sempre all’esempio della geogra-fia – per esserci utile, avrebbe dovutofarci imparare a memoria in preceden-za tutti i nomi di tutta la superficie ter-restre, per tenerli pronti sotto la puntadelle dita e localizzare immediata-mente qualunque guerra o scaramuc-cia e qualunque incidente di qualun-que genere, che possa occorrere giornoper giorno dalla Tripolitania alla Persia,dalla Cina al Marocco?

Sarebbe grave errore pensare così. Lascuola, se è stata ben fatta, ci ha fattocomprendere la importanza del fat-tore geografico nella storia; ci ha in-segnato a leggere le carte geografichee ad interpetrarne immediatamente isimboli convenzionali; ci ha dato al-cune idee fondamentalissime e gene-ralissime sulle distanze, sui climi,sulla forma della superficie terrestre,

sulla distribuzione delle masse conti-nentali, sui regimi politici ed econo-mici, ecc.; e sotto la luce di questeidee generali, le notizie più minute eimpreviste, che giungono a noi giornoper giorno, acquistano significato, co-lore, vita: quasi quasi non ci sononeanche impreviste; le troviamo natu-rali; oppure escludiamo senz’altro chesieno vere; oppure dubitiamo che pos-sano esser vere. La scuola – se è stataben fatta – ci ha date le chiavi peraprire le serrature; ci ha date le bus-sole per dirigerci sul mare dei fatti, eper metterci in guardia contro le af-fermazioni poco attendibili o del tuttomendaci; ci ha dato il senso delle pro-porzioni e della prospettiva; ha pre-parato il nostro pensiero a ricevere viavia i germi, che poi hanno fruttato; haeducato in noi il gusto e la disciplinadello studio; ci ha insegnato il modo diimparare pel’ conto nostro, via via chese ne presentava il bisogno o l’oppor-tunità» [5].

Note

[1] G. Salvemini,Donati e Berneri, «il Mondo»1952, n. 18, p. 9 da Michele Stupia, QuandoSalvemini giocava a scopone con gli anar-chici. La Fiaccola, Noto 1995, 52 pp.; p. 12.[2] G. Salvemini, Memorie di un fuoriuscito,a cura di Gaetano Arfè, Feltrinelli, Milano1960, 190 pp.[3] G. Salvemini, Stato e Chiesa in Italia, Fel-trinelli, Milano 1969.[4] G. Salvemini, A. Galletti, La riforma dellascuola media, Palermo, 1908, in Scritti sullascuola,Operedi G. Salvemini, V, Milano, 1966.[5]G.Salvemini,Problemieducativi e socialidel-l’Italia di oggi. La Voce, Firenze, 1922, 184 pp.

Bibliografia minimadi Gaetano Salvemini

Stato eChiesa in Italia, Feltrinelli, Milano 1969.Clericali e laici, Parenti 1958.Memorie di un fuoriuscito, Feltrinelli 1973.Sulla democrazia, Bollati Boringhieri 2007.Dizionario delle idee/Gaetano Salvemini, acura di Sergio Bucchi, Editori Riuniti 2007.

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CONTRIBUTI

«I più grandi delitti appaiono compatibili conla pietà e con la devozione superstiziosa.Così pure appare scorretto trarre qualsiasinetta conclusione a favore della moralità diun uomo dal fervore o dalla assiduità dellesue pratiche religiose, anche se è in buonafede. Anzi i delitti più terribili alimentano iterrori superstiziosi e il fanatismo religioso»

(D. Hume, Storia naturale della religione)

Per Hume ci sono stati popoli senza re-ligione. Lo attestano la storia e i viag-giatori. Non ci sono stati invece popolicon le stesse credenze religiose. Que-ste sono espressione della geografia edella storia dei popoli. Lo attestanoancora lo studio della storia e i viag-giatori.

La risposta religiosa, politeistica o mo-noteistica, al bisogno di certezze daparte dell’uomo, non è necessaria. Nonhanno avuto bisogno di essa interi po-poli, ma neanche di essa ha avuto bi-sogno e ne ha bisogno il filosofo scet-tico, per il quale la vita umana è unarealtà fragile, in balia delle forze im-mani della natura, degli eventi fortuitie casuali, della morte, delle miserie edelle malattie, per questo piena di an-sie e desiderosa di sicurezze, di certez-ze sul futuro, che non governa, ma il fi-losofo scettico è cosciente di tutto que-sto, per cui non vive di illusioni, di pre-giudizi, non costruisce la sua vita sudeboli e artificiosi aiuti, che possonovenire dalle divinità, ma sulle sue forzemateriali, intellettuali e soprattuttomorali, gode i piaceri della vita con par-simonia e moderazione.

«In generale – scrive Hume – non c’èvita così sicura (perché la felicità nonbisogna nemmeno sognarla) comequella temperante e moderata, chemantiene in tutte le cose la mediocritàe una sorta di insensibilità». E ancora:«Quando splende nell’animo il soledella serenità, questi spettri di unafalsa divinità non appaiono nem-meno». La risposta religiosa, per cuil’uomo attribuisce a divinità l’originedei fenomeni naturali, a lui ostili o fa-vorevoli, per poterseli ingraziare conpreghiere, inni, canti, opere di pietà,ecc., in origine politeistica, poi mono-

teistica, non nasce da un bisogno di ra-zionalità, da un’esigenza razionale dispiegazione degli eventi della vita, mada un bisogno di certezze e di prote-zione. «In ogni nazione che abbia ab-bracciato il politeismo le prime idee re-ligiose non nacquero dalla contempla-zione della natura, ma dall’interesse pergli eventi della vita, dalle speranze e daitimori incessanti che assediano lo spi-rito umano».

Non c’è passaggio progressivo da for-me primitive, irrazionali ed antropo-morfiche di adorazione degli dèi a for-me più evolute, più civili, più razionalie spirituali di un solo dio. I due atteg-giamenti coesistono nell’animo umanoin un eterno “flusso e riflusso”. Il cam-biamento, quando avviene, è appa-rente. Nelle religioni monoteistiche espiritualistiche, resta, anche se camuf-fato, il culto politeistico e antropomor-fico. Si adorano di più “santi e ma-donne” che Dio stesso. Le maggiorilodi e preghiere sono ad essi indiriz-zati; i riti più frequenti e sontuosi sonoad essi rivolti; i doni più belli sono adessi portati, per ingraziarseli.

Scrive Hume «Questi semidei e mez-zani, partecipando maggiormentedella natura umana ed essendole piùfamiliari, divengono oggetti principalidi culto, reintroducendo gradualmentel’idolatria già bandita dalle preghiereardenti e dai panegirici dei mortali ti-morosi e indigenti. Ma poiché questereligioni idolatriche decadono in con-cezioni ogni giorno più grossolane evolgari, uniscono per distruggersi da sée, a causa delle turpi rappresentazioniche si foggiano delle loro divinità, tor-nano a rifluire nel deismo. In questa ri-soluzione alterna dei sentimenti umaniv’è una tendenza così forte a ritornaredi nuovo all’idolatria, che neanche laprecauzione più grande potrà ostaco-larla.

Se ne sono accorti alcuni teisti, soprat-tutto gli ebrei e i musulmani, come sideduce dal fatto che bandirono le artidella scultura e della pittura, non con-cessero che si impiegassero marmi e co-lori a rappresentare nemmeno figure

antropomorfe, temendo che la debo-lezza umana ne generasse idolatria.

L’intelletto infermo degli uomini non sisoddisfa nel concepire la divinità comeun puro spirito di intelligenza perfetta,e tuttavia i terrori naturali li tratten-gono dall’imputarle la minima tracciadi limitazione e di imperfezione.

Gli uomini fluttuano tra questi senti-menti opposti. La loro inferma natura litrascina in basso in basso, da una divi-nità onnipotente e spirituale ad una li-mitata e corporea, e da una divinitàcorporea e limitata ad una statua o aduna rappresentazione visibile. La ten-denza ad elevarsi li solleva in alto, dallastatua o dall’immagine materiale al po-tere invisibile, e dal potere invisibile aduna divinità infinitamente perfetta,creatrice e sovrana».

Teismo e politeismo sono pertantoespressione di una stessa cosa “la fra-gilità umana e il suo bisogno di comefarvi fronte con certezze e protezione”.Essendo universali le due cose, non c’èdistinzione sostanziale tra barbari e ci-vili, tra filosofi e gente del popolo. «An-che i filosofi non sono del tutto esentida questa fragilità naturale, ma spessoattribuiscono ad oggetti inanimati l’or-rore per il vuoto, le simpatie, le antipa-tie, ed altri sentimenti propri della na-tura umana».

Insomma, sembra dire Hume, la distin-zione tra gli uomini, in fatto di reli-gione, non viene dalla quantità di ci-viltà, di cultura o erudizione, ma dacome si risponde alle cose suddette. Ilfilosofo scettico, ma anche popoli esi-stiti, come gente del popolo, rispon-dono nel modo che abbiamo già detto,scegliendo il silenzio, la sospensionedel giudizio, il dubbio di fronte all’e-nigma, all’inspiegabile mistero, anchequando “la fragile ragione umana” op-pone illusioni ad illusioni, superstizionia superstizioni nell’eterna lotta del-l’uomo alla ricerca di certezze e di si-curezze. Cosciente di tutto questo il fi-losofo scettico sceglie le ragioni dellafilosofia, solitarie, piene di dubbi, di in-certezze, ma tranquille.

La filosofia della religione nell’opera di Hume“Storia naturale della religione”di Giuseppe Boscarino, [email protected]

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CONTRIBUTI

Ma allora la conclusione di Hume è in-dividualistica, egoistica, frutto di alte-rigia intellettuale e filosofica? No! C’èchi sfrutta però questo bisogno di cer-tezze, di serenità e di protezione! Que-sti sono le Chiese, i preti, che incorag-giano le idee rozze e depravate deglidèi sino ad ergerli a padroni tirannici ecapricciosi degli uomini. Quanto piùesaltano il ruolo degli dèi nelle vicendeumane tanto più esaltano il loro, comeintermediari nel rapporto con il divino.Questi vanno combattuti e smasche-rati, ma guai ad illudersi di poter estir-pare il bisogno di certezzee di protezione degli uo-mini, di cui la religione èuna possibile risposta.

«I preti, anziché correggeretali idee depravate degliuomini, le alimentano e leincoraggiano. Quanto piùterribile è rappresentata ladivinità, tanto più l’uomodiventa soggetto ai suoiministri. Quanto ignote sa-ranno le sue pretese, tantopiù necessario sarà abban-donare la nostra ragionenaturale e lasciare che esseguidino la nostra mente.Ma bisogna dire che se gliartifizi umani aggravano lanostra infermità e le nostrenaturali follie, queste non debbono laloro origine a tali artifizi. Le loro radicipenetrano più a fondo nello spirito e siinsinuano nelle proprietà essenziali eduniversali della natura umana».

La risposta religiosa allora non è un in-ganno o un artificio dei preti, o dei po-litici, di chi esercita il potere, che puòsfruttarla, ma non generarla, ma è unarisposta ad un bisogno elementare eduniversale dell’animo umano, che,pressato dalla sua fragilità, cerca rifu-gio e protezione nelle divinità, fonte disicure certezze e di immediati aiuti.Anche le religioni più razionali sonopiene di assurdi, di paradossi, anzi illoro grado di assurdità è direttamenteproporzionale alla loro razionalità, poi-ché gli estremi si toccano. Si pensi alla“presenza reale” nella religione catto-lica, un assurdo che non ha eguali intutto il paganesimo e che «in futuropotrà risultare difficile persuadere lagente che qualche bipede implumeabbia abbracciato principi simili». Ep-pure, continua Hume, anche qui nonbisogna farsi illusioni! «C’è da scom-mettere mille contro uno che i popoli fu-turi avranno nel loro credo articoli al-

trettanto assurdi, cui daranno un de-voto ed implicito assenso».

Bisogna infine sgombrare il terreno daun forte pregiudizio religioso, ed è chela religione migliori la moralità dei po-poli. È vero il contrario! La devozionereligiosa cerca protezione, aiuto e fa-vori divini, per i quali servono nonbuone opere, ma preghiere, culti, doni,ecc. «In qualsiasi religione — scriveHume — per quanto sublime sia la suadefinizione esteriore della divinità,molti devoti — forse la maggioranza —

tentano di propiziarsi il divino favorecon la virtù o la moralità, che sole pos-sono essere accette ad un essere per-fetto, ma piuttosto che le futili prati-che, lo zelo intemperante, i rapimentiestatici, la fede in immaginazioni mi-steriose ed assurde». E ancora «Il su-perstizioso non pensa che il modo mi-gliore di servire la divinità consiste nelpromuovere la felicità delle creature;ma escogita più immediati servigi darendere all’essere supremo per liberarsidai terrori superstiziosi che l’ossessio-nano».

La pietà e la superstizione, proprio per-ché nascono da un forte egoistico bi-sogno di certezze e di protezione, nontollerano le diversità, i dubbi e le criti-che, generando così intolleranza e per-secuzione. Scrive Hume: «I più grandidelitti appaiono compatibili con la pietàe con la devozione superstiziosa. Cosìpure appare scorretto trarre qualsiasinetta conclusione a favore della mora-lità di un uomo dal fervore o dalla assi-duità delle sue pratiche religiose, anchese è in buona fede. Anzi, i delitti più ter-ribili alimentano i terrori superstiziosi eil fanatismo religioso».

La religione quindi non implica la mo-ralità e, men che mai quella teistica,non incrementa la tolleranza, dato il bi-sogno di certezza da cui nasce. Nelbrano citato di Hume sembra riecheg-giare la sentenza di Lucrezio «Tantumreligio potuit suadere malorum». Manon solo in questo, tutto il testo diHume riecheggia la cultura democriteaed epicurea (si pensi al tema dell’ori-gine della religione dal sentimento dipaura che alimenta l’animo umano e altema della fragilità della vita umana).Manca nel filosofo scettico di Hume la

fiducia tutta razionale nel-la conoscenza delle cosenaturali, umane e stori-che. Hume ha alle spallele terribili guerre di reli-gione, che hanno insan-guinato l’Europa, e il climaancora molto intollerantedella cultura del suo tem-po. La scepsi appare per-tanto un rifugio tranquilloal clima di incertezza delsuo tempo. Ma non è soloquesto! Guai a ridurre laposizione di Hume ad unsemplice espediente per-sonale!

La preoccupazione diHume è che, come le cer-tezze religiose, anche le

certezze razionali, di qualunque na-tura, possono trasformarsi in dogmi, informe intolleranti, pericolose per la in-columità delle comunità e dell’indivi-duo. Una piccola dose di scetticismo, didubbio anche nelle certezze le più ra-zionali, aiuta gli uomini a vivere megliola loro fragilità e il loro bisogno di cer-tezze. Tutto si riduce alla fine a comefar convivere nello stare insieme degliuomini il loro stato di fragilità con laloro ricerca di serenità o se si vuole difelicità, senza troppe illusioni e dog-matiche certezze.

(Per le citazioni, cfr. D. Hume, Storianaturale della religione, Laterza, 1970).

Giuseppe Boscarino è stato, per circatrent’anni, docente di Storia e Filosofia nei li-cei. Si è dedicato agli studi di Storia dellaScienza e di Filosofia della Scienza. Suoi ar-ticoli sono stati pubblicati a livello interna-zionale, è socio della Società Italiana di Lo-gica e Filosofia delle Scienze e della SocietàItaliana di Storia delle Matematiche. È di-rettore della rivista di epistemologia e filo-sofia della scienzaMondotre-La scuola italica(con sito: www.lascuolaitalica.it).

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� DISCePOLI DI VeRItà, I triangoli rosadi Benedetto XVI. La fobia antigay diJoseph Ratzinger, ISBN 88-7953-151-4,Kaos Edizioni, Milano 2005, pagine192, € 15,00.

A quanto pare “lasciate che i bambinivengano a me” rischia di diventare unpericoloso doppio senso nell’opinionepubblica – naturalmente in quella cre-sciuta a pane e demonio anche percolpa de L’Ateo, quindi stiamo in cam-pana … In realtà, tutti i maggiori quo-tidiani internazionali scrivono molto, epoco a sproposito sull’ennesimo scan-dalo “pedofilia” scoppiato in seno allaChiesa cattolica. Scrivono, ad esempio,che non è la prima volta che l’attualePapa ha taciuto, pur essendo a cono-scenza di casi di reato compiuti da al-cuni prelati statunitensi. Sembra cheanche i suoi predecessori non fosseroda meno, compresi i “santisubito”.

La Chiesa è universale, universale èanche il crimine. Quello che sembrameno ovvio e francamente più immo-rale è il dibattito che si sta aprendo trale gerarchie ecclesiastiche e che –detto fuori dai denti – sembra poco in-teressato alle vittime dei pedofili ingonnella. Che non sia una, anzi l’en-nesima considerazione ateista e india-volata, lo conferma lo sgomento concui le vittime e i loro familiari hannoaccolto la tanto attesa “Lettera agli ir-landesi” del nostro amico BenedettoXVI. Sono forse troppo scossi da tantomale? Credo al contrario che assai piùlucidamente di tutta la pressoché una-nime stampa italiana abbiano capitorealmente quello che il Papa ha scrittoin quella epistola. «Fu anche determi-nante in questo periodo la tendenza,anche da parte di sacerdoti e religiosi,di adottare modi di pensiero e di giudi-zio delle realtà secolari senza suffi-ciente riferimento al Vangelo. Il pro-gramma di rinnovamento proposto dalConcilio Vaticano Secondo fu a voltefrainteso».

Quante volte abbiamo letto e ascoltatodella necessità d’interpretare in modomaggiormente reazionario l’insegna-mento conciliare (già di per sé non par-ticolarmente “illuminista” …)? Tra leproposte dell’ex Santo Inquisitore c’èinfatti quella di selezionare prelati, sa-cerdoti, religiosi in modo più accurato econforme all’insegnamento della Cate-chesi e del Vangelo. Di cosa ci stu-piamo quindi? Sembra addirittura unaproposta di buon senso … Quello cheforse sfugge è che l’attuale Papa un

processo di riscrittura repressiva del-l’organigramma ecclesiale lo aveva giàcominciato, fin da Prefetto per la Con-gregazione. A questo proposito, il libro“I triangoli rosa di Benedetto XVI”(Kaos edizioni, 2005) è di estrema uti-lità. Purtroppo è fuori distribuzione,pur essendo di relativa recente pubbli-cazione: la caccia nelle bancarelle dilibri usati dovrà essere spietata, arma-tevi di pazienza …

Sapevate, infatti – non potete non es-serne a conoscenza – che il PrefettoRatzinger si era distinto per aver spe-dito una gran quantità di lettere di li-cenziamento a religiosi cattolici cheavevano osato “soltanto” dare il bat-tesimo a omosessuali e a lesbiche. Al-cuni insegnanti di teologia morale sisono permessi di pubblicare testi neiquali proponevano un approccio inter-locutorio e “misericordioso” verso cre-denti gay e lesbiche. Addirittura qual-cuno decisamente più ardito parlava dimatrimonio. Licenziati in tronco, ameno di voler firmare rinnegamenti to-tali di quanto precedentemente soste-nuto e/o scritto. L’approccio è semprestato il medesimo: si metteva a cono-scenza il “processato” del suo allonta-namento oggettivo dal Nuovo Catechi-smo del 1992 (supervisionato da Rat-zinger, naturalmente), si spediva insuo cospetto un gruppetto di Superioriad indagare e interrogare lui stesso e isuoi parrocchiani, in seguito si propo-neva di fare “abiura” pubblica firman-do una lettera pre-stampata. Se il rav-vedimento sembrava poco sincero, sipassava dall’indagine delle esterna-zioni pubbliche e degli insegnamenticatechistici a quella dell’anima dell’im-putato: ovvero da ciò che si dice a ciòche si pensa, in perfetto Santa Inquisi-zione style.

Un percorso lineare testardamente,cocciutamente ribadito e rivendicatodall’attuale Papa: ne “I triangoli rosa”troverete i testi più significativi delleepistole, delle disposizioni della Con-gregazione per la Dottrina della Fede,e segnatamente le conseguenze con-crete che – immancabilmente – segui-vano tali pubblicazioni. Non illudeteviche tutto questo non abbia a che ve-dere con lo scandalo pedofilia: per cor-rere ai ripari, già nel 2005, dallo scan-dalo scoppiato negli USA e che avevaportato le diocesi a pagare all’epocacifre di risarcimento di oltre un miliar-do di dollari, il Vaticano emanò un per-secutorio e discriminatorio provvedi-mento basato sul presupposto che pe-

dofilia e omosessualità erano sino-nimi. Di questo ha dato conto il NewYork Times a metà settembre del 2005e ne “I triangoli rosa” sono riportatistralci significativi dell’articolo gior-nalistico.

Dunque torniamo al dubbio che mi haindotto a comprare il libro in que-stione: siamo proprio sicuri che al Va-ticano, ai vescovi progressisti come aquelli reazionari, importi qualcosadelle vittime di pedofilia in odore disantità? Lo scontro che si è apertonelle gerarchie ecclesiastiche vedecontrapposti vescovi progressisti cheindividuano nel celibato la “colpa”degli stupri ai minori compiuti dai reli-giosi e al contrario i reazionari che ri-tengono l’interpretazione “liberale”del Concilio II e la troppa leggerezzanell’interpretazione dottrinaria comecausa di tale dissoluzione morale. Aben vedere le due interpretazioni sonoassai più compatibili di quel che con-fessano. Se la colpa è del celibato, ov-vero del peso di una castità che indur-rebbe i religiosi a seguire impulsi or-monali repressi incontrollabili, checolpa ne ha – in conclusione – il sin-golo prelato peccatore? L’induzione alpeccato è il peccato stesso, e la pedo-filia passa in secondo piano, e con lei iresponsabili.

Se al contrario la responsabilità risiedenel relativismo morale che interpretale Scritture e il Catechismo secondodettami liberali, aperti addirittura agliomosessuali – o meglio, ai “pedera-sti” – non possiamo stupirci che laChiesa divenga ben presto luogo di ac-coglienza di pedofili, in fondo nonmolto diversi dai “pederasti” con i qua-li condividono perfino la radice seman-tica (ah, le astuzie della ragione!). Eche fine hanno fatto le bambine vit-time di pedofilia? Sparite per manife-sta incongruenza logica con il suddettoaccostamento illecito: i pedofili dellaChiesa non sono mai eterosessuali, losapevate?

In questo caso, quindi, la pedofilia sitrasforma in omosessualità e miracolo-samente il nostro beneamato Papa di-venta il suo nemico numero uno, datoil curriculum di cui sopra. Quando lapedofilia diventa alibi per altro, le vit-time diventano carnefici e i carneficivittime. Un vero miracolo, non c’è chedire.

Martina [email protected]

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� RINO tRIPODI, Decomposizione diDio. Un racconto e cento apologhi gno-stici tra Kafka e Cioran, ISBN 978-88-89368-28-2, InEdition Editrice (collanaNerissima), Bologna 2008, pagine 104,€ 12,00.

Parlare di Dio e della ricerca del suovolto non sembra più di moda ai giorninostri, eppure mai come in questitempi, in modo diretto o indiretto, ciscontriamo quotidianamente con pro-nunciamenti sul divino o sulla man-canza del divino nella società contem-poranea.

Il libro di Rino Tripodi Decomposizionedi Dio rientra in questo filone di ricercae di possibili risposte. Una serie di rac-conti e apologhi surreali e spesso iro-nici, uniti dal filo conduttore di unviaggio allegorico nel deserto alla ri-cerca di un misterioso santuario, de-scrivono metaforicamente il percorsoche ogni uomo, volente o nolente,compie per giungere a vedere, o ne-gare, il volto di Dio. I pellegrini, guidatidal desiderio del mistero divino, ab-bandonano la città dell’uomo con lesue strade ordinate, i giardini curati, iritmi familiari e sociali regolari, perpercorrere sentieri devastati dallafame e dalle miserie umane, dall’igno-ranza, dalla sporcizia e dalla violenza,oltre a essere internamente laceratidalle proprie debolezze e piccole mi-serie, fino a pervenire alla spaesanteconsapevolezza che il mondo non èfatto per l’essere umano, bensì è a luiindifferente e spesso nemico, cosìcome Dio, tutt’altro che benevolo, èuna maschera di atrocità. Non una, matante sono le ipotesi sull’origine delmale che troviamo in Decomposizionedi Dio e che riprendono le tesi gnosti-che (ma anche di altre religioni): èsuggestiva soprattutto l’idea di unDio-demiurgo malvagio; o se, al con-trario, esiste un Dio buono, egli è im-potente rispetto a una forza crudele edistruttiva che probabilmente è sepa-rata da lui. Tutti gli scrittori, gli arti-sti, i filosofi, si sono posti il problemae, di fronte ad Auschwitz o al doloredi un bambino, non possono accon-tentarsi d’interpretazioni falsamenterassicuranti come quelle cristiane.L’orrore e la sofferenza sono gli sti-moli e gli strumenti filosofici più effi-caci e veri. L’uomo ha un barlume dispazio decisionale rispetto al male?Certo, ma il male è più potente e an-nientante e comunque, se è all’inter-

no del demiurgo, lo è pure dentro cia-scuno di noi. Il buio accerchia l’esi-stenza e la strazia, rendendo fioca ecomunque impercettibile la voce uma-na. In ogni caso, tutto è fragile e pre-cario. Ai fini della comprensione del-l’opera di Tripodi, di notevole spes-sore artistico, filosofico, narrativo estilistico, pur nella scorrevolezza dellostile, e soprattutto per avvicinarsi allaradice gnostica che la pervade, si puòleggere l’interessante prefazione diRaffaele Riccio.

Rino Tripodi vive a Bologna. Inse-gnante di materie letterarie nellescuole medie superiori, scrittore di nar-rativa e saggistica, è anche direttoreresponsabile di www.lucidamente.comstimata rivista on line di cultura edetica civile.

Viviana [email protected]

� VLADIMIRO POLChI, Da Aborto a Za-patero: Un vocabolario laico, ISBN:8842088285, ISBN 13: 9788842088288,Laterza Editore (Collana: I Robinson,Letture), Roma-Bari 2009 (seconda edi-zione), pagine 194, € 15,00.

È un’ottima panoramica sintetica,suddivisa in 63 voci, della situazionedi laicità limitata esistente in Italia.Nella prefazione, Miriam Mafai nota,comunque, che il processo di secola-rizzazione continua, avanza e si al-larga.

La chiesa cattolica è un pericolo per lademocrazia parlamentare poiché agi-sce, sia in pubblico sia dietro le quinte,per far tramutare i propri dogmi inleggi dello Stato con relative carceri emulte per i trasgressori. Agli organielettivi dello Stato “toccherebbe sol-tanto il compito di adottare e confer-mare in ogni legislazione nazionale iprincipi della religione cattolica”. L’au-tore nota nell’Introduzione che il Vati-cano, con le sue reiterate ingerenze,ha ridotto l’Italia allo stato di “Repub-blica a laicità vigilata” portando adesempio la “pillola del giorno dopo”,farmaco da banco in Francia ma, perfavorire il papato, registrato come me-dicinale soggetto a ricetta medica inItalia. Il testo cita l’UAAR in tre punti:alla voce “05. Ateo” è citata per averchiesto alla Presidenza del Consigliodei Ministri un’intesa sulla falsarigadi quelle sottoscritte dalle principali

confessioni religiose, alla voce “15.Concordato dell’84” per averne ri-chiesto l’abrogazione in quanto con-trasta con il principio di eguaglianzasancito dalla Costituzione, alla voce“46. Ora di religione” per il suo pro-getto sull’ora alternativa all’insegna-mento confessionale nelle scuolepubbliche.

La battaglia legale contro i crocifissiappesi in scuole, tribunali e altri edificipubblici vede in evidenza il giudiceLuigi Tosti, giustamente citato perprimo alla voce “21. Crocifisso” per poifinire con riferimenti alla Spagna laici-sta di Zapatero. La truffa dell’8 permille, in base alla quale chi non firma èin pratica come se firmasse per lachiesa cattolica, è citata alla voce “47.Otto per mille”: circa un miliardo dieuro all’anno finisce nelle tasche dellaCEI, pur avendo i cattolici raccolto lefirme di circa l’87% del 40% di chi firmain uno qualunque dei rettangolini rela-tivi a questa scelta. Se la chiesa rice-vesse solo i soldi relativi alle sceltefatte effettivamente a suo favore in-casserebbe la metà. Gli ingenui che fir-mano per lo Stato vedono finire i lorosoldi per restauri di chiese o per le spe-dizioni militari all’estero.

Le voci “26. Evoluzionismo” e “29.Galileo Galilei” ripropongono la seco-lare questione delle intromissioni pa-

pali contro la libera ricerca scientifica:nel 2004 la ministra ciellina Moratti la-sciò costernati scienziati e accademicicancellando dai programmi dellescuole medie le teorie evoluzioniste.Il testo riporta anche voci secondo cuiin Vaticano si vorrebbe erigere a Gali-leo una statua marmorea ad altezzanaturale.

Le censure contro la cinematografia al-ternativa e dissacrante sono trattatealla voce “62. Vilipendio della reli-gione” citando tre esempi di film per-seguitati: “La ricotta” del 1963 di PierPaolo Pasolini, il “Pap’occhio” di RenzoArbore del 1980 e “Totò che visse due

RECENSIONI

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RECENSIONI

volte” di Ciprì e Maresco del 2006. In-teressante è la voce “28. Funerali civili”vista sia come rito laico scelto libera-mente con risvolti oggettivamente an-ticlericali, sia come imposizione discri-minatoria ordinata dalla gerarchia con-tro fedeli morti in odore di ribellionecome nel caso di Piergiorgio Welby.L’autore cita giustamente il caso di cri-minali pluriomicidi non pentiti ammessia funerali religiosi a riprova dell’evidenteincoerenza clericale.

L’argomento dei Registri delle unioni ci-vili è trattato alla voce “44. Omoses-sualità” facendo rilevare la posizione ul-trareazionaria della chiesa, giunta per-fino ad opporsi alla proposta dell’ONUdi depenalizzazione universale dell’o-mosessualità.

Pierino [email protected]

� CARLO tAMAGNONe, Dal nulla al di-venire della pluralità: Il pluralismo on-tofisico tra energia, informazione, com-plessità, caso e necessità, ISBN 978-88-8410-149-5, Editrice Clinamen (Il Difo-ràno 31), Firenze 2009, pagine 500,€ 48,00.

Se negli scritti precedenti Tamagnoneaveva proposto percorsi storici delpensiero ateistico, nel volume che quisi presenta l’autore si cimenta in un’o-pera di decostruzione di ogni metafi-sica che voglia sentenziare in mododefinitivo, predicando l’unità del reale.Già il titolo annuncia, infatti, la lineaintrapresa: lungi dal considerare lamateria come alcunché di esistente, diunitario e di residuale, essa non rap-presenta che una nozione logica concui a lungo si è fatta astrazione – più omeno abusivamente – su entità mate-riali assai eterogenee. L’autore prefe-risce parlare di costituenti hyletici,ossia materiali – le particelle – non ri-ducibili ad un’accezione unica cui sipossa dare il nome di materia; sembrapiù ragionevole ed onesto parlaresemplicemente di particelle, che nellaloro irriducibile pluralità e con la loroesistenza inventano le leggi della pro-pria perpetuazione. Le leggi fisiche ele formulazioni matematiche ad essesottese appaiono così non già comequalcosa di pre-esistente alle parti-celle, bensì come modi attraverso cuiesse si mantengono in essere con suc-cesso. La matematica, lungi dunquedal costituire lo scheletro del reale,

non sarà che costruzione di calcoli concui comprendere la struttura di ciò cheesiste.

La pluralità va colta nel segno del di-venire – e in questo Tamagnone ab-braccia le riflessioni del premio NobelPrigogine – trattando dunque i costi-tuenti fisici dell’universo come entitàche costituiscono un sistema dina-mico, in cui si assiste alla rotturadella simmetria – all’organizzarsidelle particelle in forme complesse –a seguito di perturbazioni di unostato di quiete termodinamica. Fra ipensatori antichi, l’autore trova unpadre putativo in Leucippo, il quale,contro ogni approccio metafisico,aveva affermato la struttura plurali-sta dell’universo.

Il lavoro in questione, oltre che pro-porre un approccio anti-metafisico edanti-unitario alle riflessioni filosofichee fisiche, offre una rassegna criticadello stato delle scienze, con partico-lare attenzione al dibattito sullo statodella matematica e alla scienze fisichedi cui il lettore potrà fare tesoro. Dalnulla al divenire della pluralità non è unlibro divulgativo, ma certo neanche persoli specialisti del settore: l’autore co-niuga in esso chiarezza espositiva eprecisione nella trattazione di nozionifisiche – offrendo inoltre anche un glos-sario – rivolgendosi in tal modo al let-tore che abbia la pazienza di esserecondotto lungo un ragionamento di de-costruzione della metafisica. Ed è pro-prio questo scopo perseguito a rendereinteressante il volume al lettore deL’Ateo.

Federica Turriziani [email protected]

� PIeRINO MARAzzANI, La chiesa chetortura. Dalle origini all’età contempo-ranea. Due millenni di sevizie ecclesia-stiche, Prefazione di Valerio Pocar, Edi-zioni La Fiaccola (Collana Biblioteca li-bertaria n. 23), Ragusa 2009, pagine200, € 14,00.

La letteratura storica, giuridica e anchefilosofico-politica sul tema della torturaè quanto mai vasta, mancava peròun’opera che trattasse con rigore bi-bliografico l’uso e l’abuso che di questabarbara pratica ne ha fatto la chiesacattolica. Si parte dalle basi scritturali,Bibbia e opere dei padri della chiesa,per passare ai decreti conciliari medie-vali e alle direttive papali su questa ma-teria. I concreti casi di torture e puni-

zioni corporali inflitte daecclesiastici e loro strettifautori sicuramente docu-mentati e ammessi anchein testi di fonte cattolicasono centinaia, tanto chesi possono catalogare imetodi usati per seviziarele disgraziate vittime econteggiarne il numero incirca 90 tipi.

Nel testo sono elencati inordine alfabetico da “ac-cecamento monolaterale ascelta della vittima” per fi-nire con “versamento disego ardente sul ventre”.Le sevizie sono suddiviseanche in base al tipo di

vittime: ovviamente quelle principalisono gli eretici seguiti a ruota dagliebrei e dalle persone accusate di stre-goneria. Rilevanti sono le notizie ripor-tate a proposito di crudeltà contro pa-gani, islamici e persone non religiose oanticlericali. Anche i patrioti risorgi-mentali subirono orrendi trattamentispecialmente nel Regno di Napoli, dasempre il più benedetto dai papi, dovesi rifugiò Pio IX, in fuga da Roma tra-vestito da semplice prete nel 1849.

Le sevizie contro persone accusate dipeccati sessuali si rivolsero in primoluogo contro le adultere, per esempioil concilio di Nablus in Palestina nel1120 ordinò contro di esse il taglio delnaso. Nel secolo VI l’imperatore Giu-stiniano ordinò il taglio dei genitalicontro gli omosessuali. Papa GregorioXIII ordinò di frustare pubblicamentealcune cortigiane romane colte in car-rozza, cosa proibitissima. Nel 1664 aVenezia furono torturate alcune mo-

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RECENSIONI

LETTERE

nache del convento di Sant’Annacolte a violare il voto di castità. PapaAlessandro VI puniva personalmentela sua concubina Vannozza dei Catta-nei con una sferza a più corde termi-nante con piccoli pesi di piombo.

L’enorme potere politico, economico esociale di cui il clero ha spesso godutoin vari paesi europei ha provocato fre-quenti ribellioni e scontri con poteri ci-vili motivati non da ragioni religiose: intali occasioni la chiesa ha impiegatoanche metodi efferati. Per esempio Bo-nifacio, duca di Toscana, fu flagellatodavanti all’altare di una chiesa a causadi certi suoi abusi patrimoniali ai dannidel clero. A Padova nel 1258, il Legatopontificio e arcivescovo di Ravenna,monsignor Fontanesi, è pesantementecoinvolto nelle sevizie inferte a 27 pri-gionieri di guerra ghibellini che furonoquasi tutti accecati. Nel testo sono bendocumentati una serie di maltratta-menti inferti in scuole e collegi religiosicattolici anche in epoche recenti: bat-titura con bastoni, canne, verghe, man-ganelli, bacchette, discipline, nerbi,cinghie, righelli, scudisci, docce gelate,ingestione forzata di urine e vomiti, in-ginocchiamento protratto su granaglie,

sulla ghiaia o con un peso in mano, ecc.Comunque è chiaro che si preferivaspaventare l’alunno con terribili de-scrizioni di supplizi infernali piuttostoche percuoterlo.

Nel capitolo VII sono raccolti numerosicasi di sevizie fra preti, frati, monaci,seminaristi e novizi. La regola di SanPaconio prevedeva per il monaco ri-belle e ammonito tre volte, la bastona-tura davanti all’ingresso del mona-stero. Nel 998 l’antipapa Giovanni Fi-lagato fu mutilato di mani, naso, lab-bra, lingua e orecchie per mano deifautori del legittimo papa Gregorio V.Le torture relative al famoso caso della“monaca di Monza” furono comminateper ordine del vicario della curia arci-vescovile di Milano che dispose la mo-derata tortura dello schiacciadita diferro.

Inoltre, nello Stato della chiesa, la tor-tura fu sempre applicata legalmentefino alla sua soppressione nel 1870 edanzi addirittura c’era fino al 1831 unospiazzetto in Via del Corso in cui eracollocato pubblicamente uno stru-mento di tortura per il sollevamento,appesi ad una corda, delle vittime. Un

sonetto del Belli intitolato “Lo spiaz-zetto de la corda al corzo” ci ricordaquesto misfatto clericale. Molti con-cili e vescovi decretarono spavento-se sevizie per i criminali comuni: ilconcilio nazionale di Castiglia del1129 ordina di cavare gli occhi ai fal-sari, nel secolo XVI l’arcivescovo diMilano, G. Arcimboldi, ordina di fla-gellare coloro che tentavano di intro-durre lettere nei monasteri di clau-sura.

In conclusione, il tanto decantato uma-nesimo cristiano esce sminuito da que-sto testo che, con la sua imponente bi-bliografia di circa 500 testi, documentala vera natura violenta del cattolice-simo romano. Perfino il Beccaria fu su-bito scomunicato e il suo libro vietatoper aver osato criticare la tortura: sisalvò solo perché stampò il suo libronella Repubblica di Venezia con lafalsa indicazione che era stato edito inGermania e falsificando perfino il suonome attribuendo l’opera ad un inesi-stente abate.

Alessandro FedeliBollate (Milano)

� Ripubblichiamoci!

Vorrei comunicare il mio dissenso per lanuova impostazione del bimestrale L’A-teo. Una rivista che riusciva a trasmet-tere cultura non solo per le pagine diapprofondimento su temi di nostro in-teresse, ma anche per le informazioni diattualità (anche se non in tempo reale)relative alle molteplici iniziative UAAR alivello nazionale e territoriale, resocontiche ci fornivano un costante aggiorna-mento sui nostri eventi culturali e di mi-litanza associativa. Anni addietro eraanche possibile, attraverso la rubrica“Notizie”, poter essere informati su ini-ziative, non organizzate da noi, in sin-tonia con i nostri temi e le nostre batta-glie. Trovo questa scelta un passo in-dietro, inopportuno e poco lungimi-rante, un ritorno al passato e quasi unasorta di equiparazione ad altre recentipubblicazioni, simili alla nostra ma dacui ci saremmo distinti ancora, oltre cheper gli argomenti trattati e la dinamica

dell’impaginazione, anche per la rac-colta di alcuni dei nostri eventi e diquelli di attualità di nostro interesse,stimolo per programmazioni future.

Personalmente amo la nostra rivista emi è dispiaciuto vedere, in concreto,questa trasformazione (conseguenteanche al parere favorevole, dato dallamaggioranza dei presenti, nella riunionecircoli UAAR 2009) diventata ancorapiù evidente quando ho potuto consta-tare il vuoto lasciato dall’azzeramentodei resoconti di alcune importanti no-stre iniziative, coordinate in tutto il ter-ritorio nazionale, come quella, ormaiconsolidata, dei Darwin Day UAAR;uno spazio non compensato, a mio pa-rere, dall’aumento del numero delle re-censioni di libri, se pur anch’esse inte-ressanti. Un’inversione di rotta questa,in contraddizione, tra l’altro, con l’au-mento esponenziale di iscritti nel 2009che dovrebbe aver portato anche ad unaumento di soci attivi!

Mi rivolgo quindi a te, Redazione, e atutti i lettori perché si ripensi all’even-tualità di ripristinare almeno la sezione“Notizie” nella quale potrebbero con-vergere le varie nostre iniziative edanche altre, di particolare interesse, or-ganizzate da Enti o associazioni a noiaffini. Confidando che una riflessionegenerale porti ad un ripensamento, perun possibile ritorno de L’Ateo a quellapeculiarità che, oltre agli approfondi-menti sulle nostre molteplici sfere diinteresse, buttava anche un occhioverso le iniziative trascorse, un mate-riale pronto da leggere in qualsiasi mo-mento e luogo e non solo (come sem-bra che basti ad alcuni) nel sito nazio-nale, ma immortalato sulle paginedella nostra rivista, indispensabile etangibile archivio della memoria sto-rica del nostro percorso associativo.

Anna Maria [email protected]

(Coordinatrice del Circolo UAAR di Torino)

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38 n. 3/2010 (69)

LETTERE

Cara Anna Maria Pozzi,

La rubrica NOTIZIE, eliminata da tem-po, non conteneva informazioni sulleattività dei Circoli, ma – appunto –brevi notizie di vario genere, curiositàdal mondo, piccoli flash … che appari-vano con due o tre mesi di ritardo. Inpratica, è stata sostituita dalle ULTI-MISSIME presenti sul sitowww.uaar.itmolto più efficaci e tempestive. Credoche nessuno ne abbia sentito la man-canza sulla rivista – quanto meno, nes-suno si è mai lamentato.

Ben più difficile è stato decidere di eli-minare la rubrica DAI CIRCOLI allaquale in realtà ti riferisci. In Redazionene abbiamo discusso molto a lungo –per più di due anni – arrivando alla de-cisione solo quando il sito si è dotatodella sezione CIRCOLI TERRITORIALI,in cui è possibile seguire gran parte delleattività territoriali dell’UAAR, spesso inmodo molto completo nei casi in cui isingoli Circoli si sono dotati di una pro-pria pagina web. Dunque la decisione èstata presa soltanto quando il sito sem-brava offrire, su questo terreno, un ser-vizio decisamente migliore, per tempi-smo e completezza, rispetto a quello for-nito dalla rivista. Certo, il servizio su in-ternet ha ancora molte pecche, ma pro-gressivamente migliora; mentre quellosulla rivista andava già peggiorando,visto che i soci impegnati negli aggior-namenti informatici erano sempre piùrestii a fornirci quelli da stampare …

Detto questo, ti do ragione: rischiamo didiventare una rivista zeppa di filosofia,divulgazione scientifica, ideologia, in-somma teoria che non dà conto dellapratica che caratterizza la nostra asso-ciazione. Di apparire come una manicadi intellettuali, di parolai insensibili allebattaglie concrete e alla militanza asso-ciativa che – come dici tu – è giusto “im-mortalare” sulla carta stampata (cartacanta!) e non semplicemente affidarealla labile, effimera spesso confusa e seg-mentata comunicazione cyberspaziale.

Io credo che questo problema – che èdavvero un problema, non lo nego af-fatto – possa essere risolto con un con-tributo diverso da parte dei Circoli allarivista. Un contributo, se vogliamo, piùimpegnativo: non più le notizie flash, dipoche righe, ma scritti più consistenti ecircostanziati sulle diverse iniziative, so-prattutto su quelle innovative, per do-cumentarle ma anche per dare spunti,linee guida, esempi da imitare ed elabo-rare agli altri Circoli. L’ho chiesto,

quando ho annunciato la soppressionedella rubrica DAI CIRCOLI nell’editorialedel n. 6/2009 (66). Non ho avuto moltoascolto, per ora: forse è presto, forse è ne-cessario uno stimolo più diretto.

Provo dunque innanzitutto con te, caraAnna Maria, chiamandoti in causa inquanto Coordinatrice del Circolo di To-rino. È un pezzo che chiedo – forse nonho usato i canali giusti, ma ora lo chiedoa te esplicitamente – un articolo sull’e-sperienza dell’assistenza laica all’ospe-dale delle Molinette che il vostro Circoloha realizzato e che è davvero pionieri-stica, a mio modo di vedere. Sono que-ste, credo, oggi, le cose da “immorta-lare” – più che gli elenchi dei DarwinDay: piacevoli e direi perfino esaltantialle prime edizioni; pesanti, ripetitivi eaddirittura improponibili per la moleuna volta avvenuta – per fortuna! – lapiena diffusione dell’iniziativa. Faccioaltri esempi. Alcuni Circoli hanno speri-mentato – sull’onda della campagnaATEOBUS – campagne di tipo pubblici-tario: ce le raccontino e le commentino,sarà un contributo prezioso per coloroche vorranno replicare, magari in altreforme, quel tipo di esperienza. Altri Cir-coli hanno alacremente lavorato sull’oraalternativa, altri ancora hanno stabilitoimportanti relazioni con gli Enti localisulla questione del testamento biologicoo delle convivenze o del commiato laico… Raccontate!

Maria [email protected]

� A proposito del povero Sgarbi …quando la testa parte …

Raccomandazione.

Quando una persona istruita, professio-nalmente qualificata nel suo campo,com’è certamente Vittorio Sgarbi, arrivaad esibirsi in pubblico come un buffoneisterico, riducendosi a ostentare pla-tealmente la sua tragica nevrosi, anzi-ché curarsi, non può che essere pieto-samente compatito. Meno lo sono i re-sponsabili delle reti televisive che lousano (e probabilmente pagano profu-matamente) per sfruttare la sua esalta-zione a scopo di discutibile audience,assecondando un certo pubblico non in-teressato agli argomenti ma allo spet-tacolo frivolo, possibilmente con offesee parolacce, quando non addirittura consonori ceffoni, come già accaduto.

Le performances del bavoso sullodatopurtroppo scendono progressivamente

verso un sempre più basso livello diqualità, con toni volgari meschini e de-menziali. Prima o poi assisteremo al-l’irruzione in scena di robusti infermieriper prelevare e sedare il maniaco.

Sarà meglio evitare la presenza di qual-che rappresentante della nostra asso-ciazione quando partecipa un soggettocosì a rischio, poiché non c’è niente daguadagnare da un confronto impossi-bile con un malato nervoso … Se è in-curabile, almeno non lo si esibisca comefenomeno da baraccone di dubbiogusto, in ogni caso non lo si sopporti …

Mario [email protected]

� I crocifissi

Contro l’imbecillità umana anche gli dèilottarono invano. Contro la malvagitàumana anche dio dovette soccombere.È il messaggio più ragionevole che cidovrebbe suggerire il crocifisso: la di-sfatta di dio. Invece quella geniale ca-tegoria di stregoni chiamata preti è riu-scita con la sua raffinata furbizia a mil-lantarla come vittoria di dio. Credoquod assurdum est! Assurdo contro lo-gica, paradossale contro coerenza, in-sensatezza contro razionalità. L’apo-teosi della stregoneria, il trionfo del cle-ricalismo, della menzogna, dell’ipocri-sia. Contro l’imbecillità umana anchegli dèi continuano a lottare invano.

Guido [email protected]

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39n. 3/2010 (69)

COS’È L’UAAR

L’UAAR, Unione degli Atei e degli Agno-stici Razionalisti, è l’unica associazionenazionale che rappresenti le ragioni deicittadini atei e agnostici. È iscritta, con ilnumero 141, all’albo nazionale delle As-sociazioni di Promozione Sociale, istituitopresso il Ministero della Solidarietà So-ciale. L’UAAR è completamente indipen-dente da partiti o da gruppi di pressionedi qualsiasi tipo.

I VALORI DeLL’UAAR

Tra i valori a cui si ispira l’UAAR ci sono:la razionalità; il laicismo; il rispetto dei di-ritti umani; la libertà di coscienza; il prin-cipio di pari opportunità nelle istituzioniper tutti i cittadini, senza distinzioni ba-sate sull’identità di genere, sull’orienta-mento sessuale, sulle concezioni filosofi-che o religiose.

COSA VUOLe L’UAAR

L’associazione persegue tre scopi:• tutelare i diritti civili dei milioni di cit-tadini (in aumento) che non apparten-gono a una religione: la loro è senza dub-bio la visione del mondo più diffusa dopoquella cattolica, ma godono di pochis-sima visibilità e subiscono concrete di-scriminazioni;• difendere e affermare la laicità delloStato: un principio costituzionale messoseriamente a rischio dall’ingerenza ec-clesiastica, che non trova più alcuna op-posizione da parte del mondo politico;• promuovere la valorizzazione sociale eculturale delle concezioni del mondo nonreligiose: non solo gli atei e gli agnosticiper i mezzi di informazione non esistono,ma ormai è necessario far fronte al dila-gare della presenza cattolica sulla stam-pa e sui canali radiotelevisivi, in partico-lare quelli pubblici.

www.uaar.itIl sito internet più completo su ateismoe laicismo.Vuoi essere aggiornato mensilmentesu ciò che fa l’UAAR? Sottoscrivi la

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ISCRIzIONe ALL’UAAR

L’iscrizione è per anno solare (cioèscade il 31 dicembre). Le iscrizioniraccolte dopo l’1 settembre decorre-ranno dall’1 gennaio dell’anno suc-cessivo, salvo i rinnovi o le espliciterichieste di diverso tenore. La quotadi iscrizione comprende anche l’ab-bonamento a L’Ateo. Le quote mi-nime annuali sono (per le modalità dipagamento vedi pag. 40):Socio ordinario: € 25Quota ridotta*: € 17Sostenitore: € 50Benemerito: € 100

* Le quote ridotte sono riservate aglistudenti e ad altri soci che si trovinoin condizioni economiche disagiate.

UAAR

UAAR, Via Ostiense 89, 00154 RomaE-mail [email protected]

Sito Internet www.uaar.itTel. 06.5757611 – Fax 06.57103987

SeGRetARIO

Raffaele CarcanoTel. 331.7507710

[email protected]

PReSIDeNtI ONORARI

Laura Balbo, Carlo Flamigni,Margherita Hack, Dànilo Mainardi,

Piergiorgio Odifreddi, Pietro Omodeo,Floriano Papi, Valerio Pocar,Emilio Rosini, Sergio Staino.

COMItAtO DI COORDINAMeNtO

Anna Bucci (Circoli)[email protected]

Raffaele Carcano (Segretario)[email protected]

Isabella Cazzoli (Tesoriere)[email protected]

Roberto Grèndene (Comunicazioneinterna) [email protected]

Maurizio Mei (Campagne)[email protected]

Adele Orioli (Iniziative legali)[email protected]

Silvano Vergoli (Comunicazione esterna)[email protected]

Giorgio Villella (Eventi)[email protected]

COLLeGIO DeI [email protected]

Massimo [email protected]

Graziano [email protected]

Livio [email protected]

RECAPITO DEI CIRCOLIANCONA (D. Svarca) Tel. 346.7200483

ASCOLI PICENO (A. Mattioli) Tel. 393.1779155BARI (R. La Perna) Tel. 339.5288062

BERGAMO (T. Bruni) Tel. 339.7415298BOLOGNA (R. Grèndene) Tel. 340.7278317

BOLZANO (F. Brami) Tel. 320.6239987BRESCIA (E. Mazzolari) Tel. 030.40864CAGLIARI (S. Incani) Tel. 338.4364047COMO (G. Introzzi) Tel. 393.4225973

COSENZA (F. Saccomanno) Tel. 338.9409495CREMONA (G. Minaglia) Tel. 348.4084821

FIRENZE (B. Conti) Tel. 055.711156FORLÌ-CESENA (D. Zoli) Tel. 329.8542338

GENOVA (S. Vergoli) Tel. 393.7692821GROSSETO (L.G. Calì) Tel. 320.8612806

LECCE (coord. vacante)LIVORNO (R. Leoneschi) Tel. 333.9895601

MILANO (M. Redaelli) Tel. 328.2133787MODENA (E. Matacena) Tel. 059.767268NAPOLI (C. Martorana) Tel. 081.291132PADOVA (M. Ferialdi) Tel. 377.2106765

PALERMO (M. Ernandes) Tel. 091.6687372PARMA (F. Casalini) Tel. 331.1111358PAVIA (M. Ghislandi) Tel. 340.0601150PERUGIA (G. Galieni) Tel. 327.0492652

PESCARA (R. Anzellotti) Tel. 338.1702759PISA (G. Mainetto) Tel. 348.8283103RAVENNA (F. Zauli) Tel. 340.6103658

REGGIO EMILIA (S. Caporale) Tel. 328.1822618RIMINI (R. Scarpellini) Tel. 347.8759026ROMA (coord. vacante) Tel. 06.5757611

SALERNO (F. Milito Pagliara) Tel. 328.9147853SASSARI (P. Francalacci) Tel. 349.5653174SIENA (F. Verponziani) Tel. 380.3081609TARANTO (G. Gentile) Tel. 328.8944505TERNI (E. Giulianelli) Tel. 328.4452891TORINO (A.M. Pozzi) Tel. 011.326847TRENTO (E. Pedron) Tel. 348.2643666

TREVISO (F. Zanforlin) Tel. 347.8946625TRIESTE (L. Torcello) Tel. 347.8700557

UDINE (M. Licata) Tel. 328.4151316VARESE (A. D’Eramo) Tel. 348.5808504VENEZIA (F. Ferrari) Tel. 340.4164972VERONA (S. Manzati) Tel. 045.6050186

VICENZA (G. Gualtiero) Tel. 0444.348507

RECAPITO DEI REFERENTIAOSTA (M. Pilon) Tel. 339.1055742ASTI (A. Cuscela) Tel. 333.3549781

CATANIA (G. Bertuccelli) Tel. 333.4426864FERMO (L. Rosettani) Tel. 347.1253692FERRARA (S. Guidi) Tel. 349.4435997

LATINA (A. Palma) Tel. 06.9255204LUCCA (M. Mencarini) Tel. 339.7038322

MACERATA (M. Ciarapica) Tel. 346.3361428MASSA CARRARA (F. Bernieri) Tel. 348.8544605

MESSINA (S. Russello) Tel. 333.9174181NOVARA (S. Guerzoni) Tel. 333.2368689

PORDENONE (L. Bellomo) Tel. 392.0632246POTENZA (A. Tucci) Tel. 333.4249093

RAGUSA (M. Maiurana) Tel. 368.3121858ROVIGO (M. Padovan) Tel. 0426.44688

SAVONA (F. Marzadori) Tel. 349.3827339VERBANO-CUSIO-OSSOLA (A. Dessolis)

Tel. 339.7492413

Tutti i Coordinatori/Referenti sono con-tattabili anche per E-mail, inviando unmessaggio a: nomecittà@uaar.it(esempio: [email protected], ecc.).

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40 n. 3/2010 (69)

In questo numero

Editorialedi Marco Accorti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3di Maria Turchetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4

Codici e riti tra natura e culturadi Dànilo Mainardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

Lingua cheta, e fatti parlantidi Piero Sagnibene. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7

Parla e ti battezzo: il linguaggio negli animali e nell’uomodi Vincenzo Caputo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10

L’importanza di essere scimmiette: perché atei e animalistisono amici per la pelledi Dario Martinelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

Le mille e una faccia del nemicodi Luca Alessandro Borchi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

Senzienza, antispecismo e abortodi Marco Lorenzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18

Non gli manca che la parola. Meno maledi Marco Accorti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20

Aggiungi il gatto in tavola?di Francesco D’Alpa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22

Avvocati di cause persedi Brunella Danesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24

Valiani, Rossi, Salvemini: antifascismo e anticlericalismonel secondo dopoguerra. Il fondamento storicodi una posizione politico-culturaledi Andrea Ricciardi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27

Gaetano Salvemini nostro contemporaneodi Antonietta Dessolis e Marco Accorti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30

La filosofia della religione nell’opera di Hume“Storia naturale della religione”di Giuseppe Boscarino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32

Recensioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34

Lettere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

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