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Leadership e potere mafioso: l’élite di Cosa nostra * di Attilio Scaglione 1. Le dimensioni del potere mafioso Tra le finalità dei mafiosi, come è noto, non vi è unicamente l’accumulazione del denaro attraverso l’uso della violenza o la minaccia del suo utilizzo, ma anche e soprattutto la gestione del potere all’interno del proprio territorio di competenza [Catanzaro 1988, 2010; Gambetta 1992; Santino 2006; Sciarrone 2006, 2009]. L’esercizio dell’autorit{ da parte delle famiglie mafiose non può essere osservato in maniera unidimensionale. Il potere dei mafiosi presenta molteplici sfaccettature che qui possiamo solo accennare. Una delle modalità più tipiche è costituita dalla riscossione del pizzo che costituisce probabilmente il segno più tangibile della «signoria territoriale» mafiosa e un fattore di legittimazione dell’iniziativa criminale. Non a caso, il racket delle estorsioni è stato spesso considerato alla stregua del pagamento di una tassa che ciascun individuo corrisponde volente o nolente allo Stato-mafia. Un altro elemento caratteristico dell’iniziativa politica di Cosa nostra è rappresentato dalla capacità di interrelazione dei singoli esponenti mafiosi con la politica. Nelle zone in cui operano, forti di un controllo pressoché assoluto del territorio, i mafiosi riescono ad intercettare una parte considerevole dei finanziamenti pubblici, instaurando scambi collusivi con esponenti delle istituzioni e della politica, in cambio della promessa di sostegno elettorale e/o di altri benefici. Il controllo di ingenti quantità di risorse economiche consente inoltre ai rappresentanti delle cosche di rivestire un’importante funzione di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. La distribuzione di posti e di risorse accresce e consolida il prestigio e il consenso sociale dei mafiosi tra gli strati meno abbienti della popolazione. Il meccanismo clientelare si traduce, a sua volta, nella possibilità di orientare il voto di una massa considerevole di individui, la cui preferenza sarà destinata a quei soggetti previamente indicati dagli esponenti del sodalizio criminale [Sciarrone 2011]. In tutti questi casi, tra le componenti più rilevanti del potere mafioso possiamo dunque includere le risorse relazionali possedute dai membri della consorteria. Adoperando un concetto sociologico, Sciarrone ha evidenziato come ciascun mafioso possieda una dotazione di capitale sociale che impiega per perseguire i propri obiettivi. Il reticolo relazionale di un mafioso è generalmente piuttosto complesso. Esso si compone sia di legami forti, che mettono in collegamento i mafiosi uniti dal vincolo associativo, sia di legami deboli che connettono gli stessi agli esponenti della cosiddetta zona grigia [ibidem]. Un tipo di legami particolari, che per certi aspetti potremmo definire ibridirispetto alla dicotomia granovetteriana, perché non pienamente “forti” né completamente “deboli”, sono quelli che collegano i mafiosi di una cosca qualsiasi agli esponenti delle altre cosche di Cosa nostra. Questi legami risultano molto utili per il consolidamento del potere all’interno della propria famiglia di riferimento ma anche per l’accrescimento della leadership nel contesto organizzativo criminale più generale. In questo lavoro, concentreremo l’attenzione proprio sulle dinamiche che caratterizzano le relazioni tra le famiglie di Cosa nostra. L’organizzazione mafiosa siciliana, e in modo particolare quella palermitana, si presenta come un oggetto di ricerca privilegiato per la peculiarità della sua articolazione. L’intero sodalizio può essere, infatti, rappresentato come una federazione di singole cosche formalmente autonome, che operano in maniera esclusiva su un determinato territorio, generalmente un quartiere o un paese, stabilendovi quello che potremmo definire un vero e proprio monopolio della violenza illegittimo. Tali cosche, ed è questo l’elemento che distingue la mafia siciliana delle altre organizzazioni criminali italiane come la camorra e l’ndrangheta, sono tenute insieme da un vincolo di appartenenza che ne * Stesura preliminare e provvisoria. Si prega di citare solo con il consenso dell’autore.

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Leadership e potere mafioso: l’élite di Cosa nostra* di Attilio Scaglione 1. Le dimensioni del potere mafioso

Tra le finalità dei mafiosi, come è noto, non vi è unicamente l’accumulazione del denaro attraverso l’uso della violenza o la minaccia del suo utilizzo, ma anche e soprattutto la gestione del potere all’interno del proprio territorio di competenza [Catanzaro 1988, 2010; Gambetta 1992; Santino 2006; Sciarrone 2006, 2009].

L’esercizio dell’autorit{ da parte delle famiglie mafiose non può essere osservato in maniera unidimensionale. Il potere dei mafiosi presenta molteplici sfaccettature che qui possiamo solo accennare. Una delle modalità più tipiche è costituita dalla riscossione del pizzo che costituisce probabilmente il segno più tangibile della «signoria territoriale» mafiosa e un fattore di legittimazione dell’iniziativa criminale. Non a caso, il racket delle estorsioni è stato spesso considerato alla stregua del pagamento di una tassa che ciascun individuo corrisponde volente o nolente allo Stato-mafia. Un altro elemento caratteristico dell’iniziativa politica di Cosa nostra è rappresentato dalla capacità di interrelazione dei singoli esponenti mafiosi con la politica. Nelle zone in cui operano, forti di un controllo pressoché assoluto del territorio, i mafiosi riescono ad intercettare una parte considerevole dei finanziamenti pubblici, instaurando scambi collusivi con esponenti delle istituzioni e della politica, in cambio della promessa di sostegno elettorale e/o di altri benefici. Il controllo di ingenti quantità di risorse economiche consente inoltre ai rappresentanti delle cosche di rivestire un’importante funzione di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. La distribuzione di posti e di risorse accresce e consolida il prestigio e il consenso sociale dei mafiosi tra gli strati meno abbienti della popolazione. Il meccanismo clientelare si traduce, a sua volta, nella possibilità di orientare il voto di una massa considerevole di individui, la cui preferenza sarà destinata a quei soggetti previamente indicati dagli esponenti del sodalizio criminale [Sciarrone 2011].

In tutti questi casi, tra le componenti più rilevanti del potere mafioso possiamo dunque includere le risorse relazionali possedute dai membri della consorteria. Adoperando un concetto sociologico, Sciarrone ha evidenziato come ciascun mafioso possieda una dotazione di capitale sociale che impiega per perseguire i propri obiettivi. Il reticolo relazionale di un mafioso è generalmente piuttosto complesso. Esso si compone sia di legami forti, che mettono in collegamento i mafiosi uniti dal vincolo associativo, sia di legami deboli che connettono gli stessi agli esponenti della cosiddetta zona grigia [ibidem]. Un tipo di legami particolari, che per certi aspetti potremmo definire “ibridi” rispetto alla dicotomia granovetteriana, perché non pienamente “forti” né completamente “deboli”, sono quelli che collegano i mafiosi di una cosca qualsiasi agli esponenti delle altre cosche di Cosa nostra. Questi legami risultano molto utili per il consolidamento del potere all’interno della propria famiglia di riferimento ma anche per l’accrescimento della leadership nel contesto organizzativo criminale più generale. In questo lavoro, concentreremo l’attenzione proprio sulle dinamiche che caratterizzano le relazioni tra le famiglie di Cosa nostra. L’organizzazione mafiosa siciliana, e in modo particolare quella palermitana, si presenta come un oggetto di ricerca privilegiato per la peculiarità della sua articolazione. L’intero sodalizio può essere, infatti, rappresentato come una federazione di singole cosche formalmente autonome, che operano in maniera esclusiva su un determinato territorio, generalmente un quartiere o un paese, stabilendovi quello che potremmo definire un vero e proprio monopolio della violenza illegittimo. Tali cosche, ed è questo l’elemento che distingue la mafia siciliana delle altre organizzazioni criminali italiane come la camorra e l’ndrangheta, sono tenute insieme da un vincolo di appartenenza che ne

* Stesura preliminare e provvisoria. Si prega di citare solo con il consenso dell’autore.

rilassa i rapporti attenuandone i potenziali conflitti, cui fa riscontro un medesimo meccanismo di solidarietà reciproca, che pur non entrando in azione in maniera automatica si rivela il più delle volte efficace per il superamento delle diverse criticità.

Ricostruire, anche solo parzialmente, il sistema relazionale che connette queste famiglie potrebbe fornire, a nostro avviso, un valido contributo per lo studio del potere mafioso. Studiare il potere in Cosa nostra significa analizzare i meccanismi relazionali che conducono le famiglie alla sua conquista. Nel prosieguo di questo lavoro, approfondiremo l’analisi del potere come concetto relazionale, soffermandoci in particolare sui legami che si stabiliscono tra le famiglie mafiose palermitane. Un interessante spunto di riflessione è dato dalle risultanze dell’operazione antimafia “Perseo” del dicembre 2008. L’indagine ha infatti rivelato il tentativo da parte dei principali leader della provincia di Palermo di ricostituire la commissione provinciale di Cosa nostra. La vicenda è interessante perché da sempre la storia della commissione, detta anche cupola, come vedremo nel prossimo paragrafo, è collegata a quella della conquista del potere. Potendo contare su un materiale giudiziario ricco di informazioni ed elementi utili alla ricostruzione dei legami e dei rapporti che collegano i mafiosi, quale quello che scaturisce dall’operazione “Perseo”, si rende dunque possibile tracciare il network relazionale complessivo delle organizzazioni mafiose della provincia di Palermo. A tal fine, nel terzo paragrafo, saranno impiegate le tecniche di analisi delle reti. Lo studio delle dinamiche relazionali messe in atto dai mafiosi per la conquista del potere si concentrer{ sia sull’osservazione dell’intero reticolo, sia sulle singole figure dei leader delle famiglie palermitane. 2. La commissione di Cosa nostra

In questo lavoro, come detto, concentriamo l’attenzione sulla capacità di networking delle cosche mafiose. L’idea alla base della nostra riflessione è che le risorse relazionali dei mafiosi costituiscano un elemento fondamentale per l’acquisizione del potere e la legittimazione dello stesso agli occhi dei gruppi rivali. Dire che i legami tra le cosche costituiscono una componente della leadership mafiosa significa innanzitutto ripercorrere la storia dei rapporti tra le famiglie partendo dalle vicende che hanno portato alla costituzione dell’organo collegiale di Cosa nostra: la commissione provinciale di Palermo. Se infatti il potere è un concetto relazionale, la sua conquista passa attraverso delle vere e proprie strategie relazionali (alleanze ma anche conflitti) tra le famiglie mafiose e questa considerazione ci ricorda come tali rapporti siano stati spesso regolati attraverso l’organismo della commissione.

La cupola viene istituita per la prima volta sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, nel febbraio del 1958, dopo una serie di incontri tra boss della mafia americana e siciliana tenuti all’Hotel delle Palme di Palermo. L’istituzione di un simile organismo, composto dai rappresentanti dei mandamenti, risponde all’esigenza di regolare i rapporti tra le famiglie e di porre fine ai conflitti endemici che periodicamente mettono a rischio la sopravvivenza di Cosa nostra. Il rappresentante della commissione, per enfatizzarne la natura collegiale, e la qualità di primus inter pares, assume inizialmente la qualifica di “segretario”. L’esperienza della commissione è brevissima. L’organismo viene sciolto nel 1963 in seguito alla prima guerra di mafia, che ne sancisce il fallimento per l’incapacità di assolvere alla sua funzione nel momento in cui entrano in gioco interessi grandi come quelli sottesi al traffico di stupefacenti che contrappongono la famiglia La Barbera a quella dei Greco. La cupola viene ricostituita su basi nuove che ne modificano parzialmente la struttura all’incirca dieci anni più tardi, nel 1973. Al vertice si colloca un triumvirato, composto da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade e Luciano Liggio, che riproduce i rapporti di potere allora esistenti. La nuova cupola svuotata delle sue funzioni residuali di coordinamento finisce così per conformarsi ai criteri di gestione

della triade mafiosa. All’inizio degli anni Ottanta, durante la seconda guerra di mafia, nella quale viene assassinato Stefano Bontate e il rappresentante della cupola sulla carta è Michele Greco, il processo di trasformazione della Commissione giunge a compimento. Il potere ormai incontrastato dei corleonesi ne stravolge la natura collegiale e apparentemente “democratica”. La Cupola viene trasformata in organo esecutivo e centro di direzione strategica, e al suo vertice si pone Salvatore Riina che diviene di fatto il capo indiscusso dell’intera organizzazione.

Con l’arresto di Riina, avvenuto nel 1993, la commissione, ormai decapitata, cessa di funzionare, pur sopravvivendo nella struttura ordinamentale dell’organizzazione siciliana, le cui regole, almeno nella forma, non hanno perso vigore. In assenza di Riina, il ruolo di vertice dell’associazione mafiosa è assunto da Bernardo Provenzano, il quale tuttavia, non avendo mai goduto di un’investitura formale da parte dei capi mandamento, nei tredici anni che lo separarono dalla sua cattura (2006), adotta uno stile di gestione prudente che si addice più alla figura del consulente che a quella del capo. In realt{, l’anziano boss corleonese, in un momento di crisi e di sfaldatura di una parte consistente di Cosa nostra, è pienamente consapevole di non essere in grado di governare e per questa stessa ragione si limita a distribuire consigli e a mantenere un atteggiamento di neutralità o di ambiguità. È il caso ad esempio della risoluzione delle controversie più scottanti, come quella che riguarda il ritorno degli “scappati”, le famiglie perdenti della seconda guerra di mafia, dagli Stati Uniti, nei cui confronti Provenzano preferisce non prendere una posizione netta. La prudenza del boss corleonese è dovuta al fatto che la questione rientrava nella competenza della commissione, che gi{ aveva deliberato l’esilio dei perdenti. Decisione questa che non può essere modificata stante lo stato di detenzione dei suoi componenti.

L’ultima tappa della storia della commissione ci riporta all’indagine oggetto di questo studio. Facciamo riferimento all’operazione antimafia denominata Perseo eseguita dai carabinieri il 16 dicembre del 2008, che ha portato all’arresto di circa un centinaio di uomini d’onore tra boss e gregari. L’indagine, che si è avvalsa dell’utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre che della collaborazione di alcuni testimoni di giustizia, ha infatti permesso di interrompere il tentativo di ricostituzione della commissione da parte delle famiglie palermitane di Cosa nostra. A pianificare la rinascita della cupola vi erano capimafia anziani e giovani ventenni. Dalla lettura delle carte emergono due gruppi antagonisti. Da un lato, si distingue lo schieramento capeggiato dai Capizzi del mandamento di Santa Maria del Gesù, il cui anziano boss aspirava a rivestire la carica di rappresentante provinciale del nascente organo collegiale. La commissione, secondo i programmi di Benedetto Capizzi, del figlio Sandro, e di altri esponenti delle cosche del capoluogo, avrebbe avuto una funzione di coordinamento e di raccordo, ma avrebbe dovuto anche servire per «cose gravi», per stabilire ad esempio l’esecuzione di un omicidio. A questo gruppo di mafiosi, si contrapponeva il fronte degli oppositori, il cui leader era Gaetano Lo Presti, boss di Palermo centro, il quale contestava la legittimità della nomina di Benedetto Capizzi. La vicenda, ripercorsa attraverso le intercettazioni effettuate anche all’interno dei locali dove si riunivano gli esponenti mafiosi, ha consentito di ricostruire con una straordinaria precisione gli assetti organizzativi, le alleanze, i rapporti gerarchici delle famiglie mafiose dell’intera provincia palermitana. Sullo sfondo dell’operazione si intravedono anche la figura di Matteo Messina Denaro, latitante di Castelvetrano, e di Totò Riina, tirati in ballo dai mafiosi quali presunti coordinatori, supervisori, dell’operazione-commissione.

A conclusione di questo breve excursus storico-temporale, sarà abbastanza evidente come dietro l’istituzione della commissione sia possibile scorgere una lotta feroce per la conquista e il controllo del potere. L’esito di questo scontro ha avuto conseguenze di volta in volta diverse per la struttura organizzativa di Cosa nostra, che ha attraversato periodi caratterizzati da una forte centralizzazione del potere e altri invece in cui è prevalso un modello organizzativo

pluralistico. Se dunque dalla lettura delle vicende dell’operazione Perseo si ripropone la questione della conquista del potere in Cosa nostra, collegata al tentativo poi fallito di ripristinare l’antica commissione, può essere senza dubbio interessante approfondire il modello relazionale che emerge dall’interazione dei principali esponenti delle famiglie mafiose palermitane. 3. L’analisi del reticolo

Per osservare le dinamiche relazionali delle famiglie mafiose sono state dunque applicate le tecniche della social network analysis ad uno studio di caso, tratto da una recente attività investigativa delle forze dell’ordine, la già citata operazione Perseo, la cui analisi appare rivelare aspetti di notevole interesse sociologico. Per ricostruirne il reticolo relazionale è stata utilizzata l’ordinanza di custodia cautelare redatta dai pubblici ministeri. Nel documento di oltre 1.500 pagine sono contenute le trascrizioni integrali di svariate centinaia di intercettazioni ambientali e telefoniche. L’analisi delle conversazioni ha consentito di identificare 202 attori, appartenenti a 28 differenti famiglie mafiose, articolate in 13 mandamenti, dei quali 8 sono presenti sul territorio della città di Palermo (Boccadifalco, Brancaccio, Noce-Cruillas, Pagliarelli, Palermo Centro, Resuttana, San Lorenzo e Santa Maria del Gesù), mentre i restanti 5 (Bagheria, Belmonte Mezzagno, Corleone, San Giuseppe Jato e San Mauro Castelverde) sono attivi in provincia.

La lettura degli atti giudiziari ha inoltre consentito di identificare con precisione l’incarico ricoperto dalla maggior parte degli oltre 200 attori individuati. In molti casi, sono gli stessi mafiosi intercettati a svelare l’organigramma delle cariche più rilevanti dell’intera organizzazione. È stato possibile individuare le seguenti categorie: capo-mandamento, vice capo-mandamento, capo famiglia, reggente, gregario. Per motivi di privacy, tenuto conto del fatto che il processo non è ancora passato in giudicato, ogni riferimento a nomi e cognomi è stato tolto e sostituito con una sigla convenzionale applicata secondo un ordine numerico progressivo (N1, N2 … N*). Restano invece i riferimenti ai territori, ai mandamenti, alle famiglie mafiose.

La prima dimensione della nostra analisi è basata sulla struttura dell’intero reticolo. A tale livello è possibile osservare le dinamiche relazionali dei diversi gruppi di potere (i mandamenti mafiosi), che possono essere concepiti come attori collettivi che interagiscono reciprocamente. L’attenzione è rivolta alla distribuzione dei legami, che sono alla base dei meccanismi di conquista e di mantenimento del potere e che costituiscono parte di strategie che mirano al rafforzamento o all’indebolimento del gruppo. Gli strumenti di misurazione che possiamo adoperare si basano sulle propriet{ generali della rete. L’intento che ci proponiamo a tale livello è di avanzare ipotesi sul funzionamento complessivo del reticolo e sulle interazioni tra gli attori collettivi. Il network relazionale che unisce gli attori dei diversi mandamenti palermitani rappresentato in figura 1 si compone di 1.535 legami. Per ricostruire il reticolo sono state prese in considerazione relazioni di tipo parentale, di appartenenza (tra esponenti della stessa famiglia) e di cooperazione (tra esponenti di famiglie differenti). I rapporti tra gli attori sono stati individuati sia direttamente, secondo quanto emerso dalle attività di indagine, sia indirettamente, secondo quanto riportato e raccontato dagli stessi soggetti.

Tab. 1 – Proprietà del reticolo

Proprietà Valore

Legami 1.535

Densità 0.04

Grado medio 7,6

Distanza media 3,1

Diametro 6

Centralizzazione di grado 19,2%

Centralizzazione di betweenness 0,28%

L’immagine risulta utile per descrivere i principali gruppi mafiosi e i rapporti di forza

presenti in Cosa nostra alla fine del 2008. Se analizziamo infatti in maniera più approfondita il reticolo possiamo individuare altre caratteristiche morfologiche. Attraverso il ricorso ad una procedura di analisi dei sotto gruppi abbiamo individuato le caratteristiche relazionali dei singoli mandamenti. Le proprietà reticolari dei sotto gruppi rapportate a quelle complessive della rete sono risultate nella gran parte dei casi considerati significativamente più alte della media. Tali valori confermano la suddivisione morfologica in mandamenti ma individuano alcune specificità di cui terremo conto nel prosieguo di questo paragrafo.

Tab. 2 – Proprietà reticolari dei mandamenti

Mandamento External-Internal Index SMI Cohesion Index Density

Bagheria 0,564 0,879 7,734 0,429 Belmonte Mezzagno -0,566 0,947 18,393 0,2 Boccadifalco 0,707 0,861 6,72 0,4 Brancaccio 0,683 0,802 4,552 0,278 Corleone 0 0,98 49,25 0,5 Noce-Cruillas 0,767 0,791 4,292 0,333

Pagliarelli 0,152 0,84 5,698 0,217 Palermo Centro -0,28 0,888 8,423 0,163

Resuttana 0,667 0,903 9,85 0,2 San Giuseppe Jato 0,059 0,919 11,873 0,229 San Lorenzo 0,54 0,732 3,236 0,19 San Mauro Castelverde 0,778 0,923 12,438 0,333 Santa Maria del Gesù 0,344 0,684 2,677 0,145

La consorteria siciliana si caratterizza per l’assenza di un leader riconosciuto. Con l’arresto

di Bernardo Provenzano e quelli successivi di Nino Rotolo, Antonino Cinà e poi ancora dei Lo Piccolo, sembra mancare un punto di riferimento in grado di raccogliere attorno a sé le famiglie mafiose. Non vi è un soggetto di notevole spessore criminale che possa assolvere una funzione di coordinamento tra tutti i mandamenti, ma esclusivamente personaggi autorevoli per una parte dell’organizzazione. Cosa nostra conserva senza dubbio, come si evince dal reticolo, una struttura unitaria. Le famiglie mafiose si riconoscono reciprocamente e sono interrelate fra loro in molti casi attraverso una ragnatela di legami. Si rivelano tuttavia, come diremo, alcune linee di frattura e contrapposizioni anche di un certo rilievo che, in un fase storica confusa quale quella attuale rendono lo scenario palermitano particolarmente instabile e fluido.

Fig. 1 – Reticolo relazionale degli attori dell’operazione “Perseo”

Da un punto di vista generale, il reticolo ha una struttura complessa caratterizzata dalla

presenza di numerosi attori con un livello medio di centralit{. Nell’immagine è possibile visualizzare un nucleo principale di attori leggermente decentrato sulla destra, composto dalla maggior parte dei rappresentanti delle famiglie mafiose palermitane oggetto dell’indagine. Qui troviamo anche i protagonisti del processo di rinascita della cupola. Fautori di questo progetto sono in particolare i rappresentanti dei mandamenti di Santa Maria del Gesù. Dello schieramento favorevole alla rinascita della commissione fanno parte anche i mandamenti di Bagheria e di Belmonte Mezzagno. A questa triade si aggiungono poi anche tutta una serie di esponenti delle famiglie dello Zen, di Cruillas, di Pallavicino, Partanna, Resuttana e San Lorenzo. Vedremo meglio più avanti come si dispongono questi attori collettivi nel reticolo relazionale.

Nell’intenzione dei suoi sostenitori, la commissione avrà il compito di regolamentare i rapporti tra le diverse famiglie mafiose, «all’ultimo ci sediamo e cerchiamo di fare una specie di commissione all’antica». L’organismo collegiale servirà soprattutto per far sì che le decisioni fondamentali che riguardano l’intera organizzazione siano prese da «cinque, sei, sette, otto cristiani come si faceva una volta» e quindi «la responsabilità se dobbiamo fare una cosa ce l’assumiamo tutti». Il ripristino della commissione si rende necessario per scongiurare il rischio di una involuzione del modello organizzativo sulla falsariga di quello della camorra napoletana «ma se noi facciamo ognuno per conto nostro, come sono i napoletani, se noi altri facciamo come fanno loro non altri non abbiamo dove andare, quindi stiamoci ognuno per la nostra casa e ci guardiamo la nostra casa». Il fine ultimo non è certo quello di istituire un organismo per coordinare i rapporti tra le famiglie. Dietro l’iniziativa si nasconde il tentativo, nemmeno troppo celato, di ascesa al potere da parte del mandamento di Santa Maria del Gesù, in un momento di forte disorientamento caratterizzato dalla cattura dei Lo Piccolo. Le finalità

di N19 e N182 e dei loro alleati non sfuggono ai boss degli altri mandamenti palermitani che si coalizzano attorno alla figura di N67, boss di Palermo Centro, per opporsi al progetto di rinascita della cupola: «si fottono i soldi di chiunque! hanno travagghi nei paesi! Dovunque, si fottono i soldi! perchè vuoi sapere i nostri fatti! come tu ci hai a sapere i nostri fatti! e neanche te lo voglio dire, e neanche te lo voglio fare sapere a te!». L’opposizione di N67, che non ha alcuna intenzione a riconoscere la designazione di N19 come capo della commissione, non passa inosservata all’interno dello schieramento favorevole alla ricostituzione dell’organismo collegiale, che cerca di trovare una mediazione con il boss di Porta Nuova.

La rappresentazione grafica del reticolo ci consente di individuare con una certa precisione la collocazione spaziale della quasi totalità dei mandamenti mafiosi della provincia di Palermo e di osservarne gli elementi di tensione e le contrapposizioni più evidenti.

Il mandamento di Palermo Centro, contrario alla creazione di un organismo sovra-locale, occupa uno spazio relazionale ben delineato e delimitato dal resto del network. La fazione rappresentata dal N67 è infatti compatta nell’esprimere la propria contrariet{ alla nomina di N19 quale rappresentante di Palermo: «chi lo ha fatto a lui capo della provincia! cioè scusa! ma a noi altri ci è arrivata comunicazione che questo è capo della provincia?». L’assoluta

contrarietà degli esponenti del mandamento mafioso di Palermo Centro, di non aderire al progetto di ricostituzione della commissione emerge in numerose conversazioni: «che ci sediamo! gli ho detto ma con chi mi deve sedere! io non mi siedo con nessuno! io non voglio conoscere a nessuno! gli ho detto quando è stato ieri! a me mi devi mollare! a me mi devi lasciare in pace! a me non me lo deve dire questo! a me mi interessa che invece i cristiani che non devono avere guai! basta! non mi interessa più niente»; «gli ho detto appuntamento io non ne faccio con nessuno (…) noi altri! ci siamo parlati tutti tra noi altri e allora né quelli di sopra! e né quelli di sotto! non riconosciamo nessun capo del (…)noi non riconosciamo nessun’altro al di fuori di noi stessi, noi altri qua possiamo stare (…) non venire più per questo discorso! noi altri dobbiamo stare per i fatti nostri». Nel corso delle conversazioni emerge persino l’eventualità di opporsi con la violenza al progetto d riorganizzazione: «a noi la pace ci piace, ma la guerra non ci dispiace». La configurazione interna del mandamento di Palermo Centro presenta invece una maggiore differenziazione e una bassa densità interna e una polarizzazione riconducibile alla lotta interna per la leadership nel mandamento. Alcuni esponenti della famiglia di Porta Nuova contestano la legittimità della carica formale di N67, «Sì ma a Tanino chi lo ha messo?». Gli esponenti di Santa Maria del Gesù, come detto, cercano di sfruttare la situazione sponsorizzando la figura di un anziano boss, N72, quale nuovo referente della famiglia mafiosa. N72 è favorevole alla strategia di N19 ma si trova in una situazione di difficoltà perché alcuni esponenti del mandamento di Porta Nuova si oppongono alla nomina di N19 come capo della Commisione: «Mi ha detto materialmente dice accanto ho un poco di astio. Noi di fuori siamo qua perché per noi qua c’è lei … nella situazione attuale per noi è lei perciò se ha bisogno di aiuto. Dice io ho bisogno di altri purtroppo qua dentro … dice fate quello che ritenete opportuno e sapete che sono con voi». N67 è un leader del reticolo. La sua posizione di autorit{ è evidente anche dall’analisi delle misure di centralit{. N67 non è certamente un leader globale, la sua leadership è limitata a una porzione ristretta del network (centralità di grado 17%) ed assolve soltanto parzialmente ad una funzione di broker (13%) per il mandamento da lui diretto, stante i contatti che intercorrono fra esponenti di Porta Nuova e esponenti di altri mandamenti favorevoli alla commissione. E tuttavia N67 è sicuramente una figura di maggior spessore dell’intero reticolo, la cui posizione non viene intaccata e anzi si rafforza in seguito ai tentativi di destituzione.

Fig. 2 – Reticolo Palermo Centro

Dal punto di vista morfologico, il mandamento di Belmonte Mezzagno presenta dei confini

netti e precisi che lo separano quasi del tutto dal resto del network. Il sotto gruppo è collegato all’intero reticolo da un unico attore che ne è anche il capo-mandamento. N17, il cui padre già boss mafioso era uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, è tra gli alleati più forti ed autorevoli dei Capizzi e può contare sul sostegno di altre cinquanta famiglie mafiose: «Subito uscendo di qua a salire … ha tutto l’appoggio di tutti quindi i paesi sono tutti rappresentati devi fare conto che ci sono altre cinquanta famiglie». N17 riveste nella vicenda una vera e propria funzione di brokeraggio (29%). È un gatekeeper in quanto fa da tramite per gli esponenti del suo mandamento, ma è anche un elemento di contatto, un liason in quanto è incaricato per espressa volontà dei suoi capi di rappresentare la famiglia di San Giuseppe Jato e la famiglia di Corleone. Anche N17 è un leader locale, ma gode di stima e fiducia da parte degli stessi esponenti dello schieramento avverso alla rinascita della commissione. N67 ad esempio lo reclama come mediatore nei rapporti con Santa Maria del Gesù. Secondo quanto

riferito da N182, l’appuntamento questa volta era stato richiesto proprio dal N67 che, intimorito dal silenzio degli altri «questo silenzio a quanto pare non è piaciuto un granché, forse hanno capito pure qualcosa nell’aria che c’era in movimento», aveva richiesto che fosse presente in qualità di garante N17. L’incontro sarebbe quindi dovuto avvenire nel territorio di competenza di N17 e cioè a Misilmeri o a Belmonte Mezzagno, anche perché la zona di Villagrazia era considerata poco sicura in quanto «è pieno di sbirri». Il sotto reticolo di Belmonte Mezzagno presenta una articolazione gerarchica e una ulteriore suddivisione in due gruppi, dovuta all’esistenza di attriti all’interno del mandamento di Belmonte, che tuttavia non mettono in discussione la posizione di rilievo di N17.

Fig. 3 – Reticolo Belmonte Mezzagno

Sulla cornice esterna del reticolo trovano collocazione anche i due restanti mandamenti

della zona interna della provincia di Palermo vicini al sodalizio di Belmonte Mezzagno, ovvero San Giuseppe Jato e Corleone. Nelle vicende affrontate i due mandamenti occupano uno spazio secondario. Il mandamento di Corleone ricopre un ruolo marginale. Il gruppo capeggiato da N159 ha delegato N17 di rappresentare la propria famiglia nei rapporti con le altre consorterie: «Allora, Corleone c’è lo zio N159… Lo zio … che è sano e pieno di vita persona… è stato messo lì da loro a rappresentare l{ (…) Gli è stato posto il discorso di riprendere a dialogare con tutti. N159 mi ha detto: “tu vai avanti per tutto quello che tu fai a fine di pace”, perché stiamo parlando ai fini di pace(…) vai e tu sei la mia voce…quando tu hai di bisogno mi vieni a prendere e io con te vado in cima al mondo… da parte mia tu vai avanti per la mia voce… stiamo parlando di Corleone». Più controversa appare invece l’analisi del sotto gruppo del mandamento di San Giuseppe Jato, la cui distribuzione mantiene comunque un basso livello di dispersione. Non è casuale che sia in quest’ultimo caso che nel precedente, le principali misure di centralità non rilevino la presenza di nodi significativi. Entrambi i mandamenti sono infatti rappresentati, come detto, dal boss di Belmonte Mezzagno. Il sodalizio di San Giuseppe Jato inoltre è interessato da un processo di ristrutturazione che ha portato all’individuazione di nuovi referenti e ad una ridefinizione della composizione delle unità organizzative.

In una posizione diametralmente opposta ai due sodalizi appena trattati, si colloca il mandamento palermitano di Pagliarelli, la cui estensione è limitata ad una porzione del reticolo in prossimità del mandamento di Palermo Centro e di quello di Santa Maria del Gesù. Tale vicinanza non è affatto casuale, stante l’opposizione di una parte dei suoi esponenti al progetto di rinascita della commissione, e la subalternità della parte restante ai propositi di N19. Gli esponenti di Pagliarelli non sono infatti coesi e compatti al pari di quanto osservato

per Palermo Centro. Il mandamento risulta frammentato nella sua sotto articolazione in famiglie e la stessa leadership è contesa da diversi boss. Il momento di difficoltà è ben sintetizzato dalle parole di Capizzi che si propone di destituire l’attuale reggente: «“a N148 gli verrà comunicato da noi, tutti assieme, che lui è fuori. I motivi gli saranno comunicati là, perché quello che ha combinato è una cosa incredibile. Anche la famiglia di Pagliarelli sarebbe stata affidata non più al N148 bensì a due persone perfettamente capaci di gestirla: il latitante N87 e N96. Nell’intenzione di Capizzi, le famiglie di Pagliarelli, Molara e Corso Calatafimi, che insieme completano il mandamento di Pagliarelli per andare fuori dal proprio territorio avrebbero dovuto avere l’autorizzazione del mandamento di Santa Maria del Gesù: «Pagliarelli, Molara e Corso Calatafimi si devono venire a “stricare” [stare vicini] a noi per andare fuori, per le cose interne loro se la fottono loro, per le altre cose non si devono muovere».

Il mandamento di Santa Maria del Gesù occupa una ampia area del reticolo che si estende dal nucleo alla cornice più esterna del semicerchio inferiore. Il sotto gruppo può essere diviso in due ulteriori componenti. La parte centrale è occupata dagli esponenti della famiglia di Villagrazia, promotori del progetto di rinascita della commissione, la parte inferiore raccoglie invece per la quasi totalità appartenenti alla famiglia di Monreale. N182 è il capo mandamento di Santa Maria del Gesù ed anche il soggetto con il più alto livello di centralità di grado dell’intero reticolo. La sua posizione è pressoché allineata al nucleo del reticolo: «che il picciotto, questo Sandro! lo sapete come è ngazzatu [addentrato] nei discorsi! ma a livello! a livello di…!» Capizzi è tra i principali protagonisti della vicenda. La sua capacità di relazionarsi è notevole ed è accresciuta dalla autorevolezza della figura del padre che ne guida i movimenti nel periodo in cui si trova incarcerato. La fitta trama di relazioni che i due insieme riescono a tessere raggiunge la quasi totalità dei boss mafiosi. Anche la figura del boss di Monreale ricade all’interno del nucleo, ma la sua posizione si ferma a ridosso della cornice esterna. Il suo coinvolgimento nelle vicende è solo marginale. Nei confronti del boss di Monrelae vi sono forti diffidenze da parte della famiglia di Villagrazia: «Monreale a Palermo non ha che venirci a fare, loro già hanno sbagliato che li hanno ricevuti perché le regole sono regole per tutte». Del resto, nel processo di riorganizzazione di Cosa nostra portato avanti dai Capizzi, la famiglia di Monreale sarebbe stata annessa al mandamento di San Giuseppe Jato: «Sì, ma a me di lui non mi interessa, a me hanno detto che qua Monreale viene assorbita di nuovo per com’era all’antica, che cosa vuole dire lui con questo discorso». N11 è di certo un leader locale in grado di esercitare il controllo del proprio territorio: «gli unici, gli unici che gli possiamo fare il falò siamo noialtri e questo desiderio non dovrebbe averlo nessuno di fare un gesto del genere».

Fig. 4 – Reticolo Santa Maria del Gesù

Seppur ricostruito soltanto parzialmente nella sua composizione complessiva, il

mandamento di Bagheria rappresentato dalla figura di N116, riveste una funzione strategica estremamente rilevante. Il boss del grosso centro urbano della provincia di Palermo è un personaggio anziano, a conoscenza degli equilibri esistenti nei vari mandamenti mafiosi, la cui autorevolezza è ampiamente riconosciuta dalla maggior parte degli esponenti di Cosa nostra. N116 è un representative in grado di mediare per conto di N19 e N182 con i boss contrari al progetto di ricostituzione della commissione: «Prima che tu parli, io ieri mi sono incontrato con tutti loro, abbiamo fatto tanti discorsi l’altra volta ve l’ho mandato a dire “vedi che vogliono l’appuntamento con me” ed io l’ho mandato a dire e voi: “ci dice che non va da nessuna parte” invece io ci sono andato perché è giusto che io ci vado anche per sentire parlare i cristiani e vedere questa situazione come meglio potere se troviamo un punto di incontro perché non è buono per nessuno fare discorsi tinti per me». N116, pur approvando le linee sostanziali del progetto del N182 ma, al contempo, condividendo la necessità della predetta formale ‘autorizzazione’, ritiene che, in assenza di quest’ultima, l’unica soluzione possibile sia quella di creare una commissione leggera «noi non possiamo fare commissione perché non siamo nessuno autorizzati… almeno io non sono autorizzato da nessuno … poi se qua ci siete persone autorizzate e potete disporre di fare una commissione gli ho detto: la facciamo … Noi possiamo fare semmai… se ci mettiamo tutti d’accordo che dobbiamo essere tutti d’accordo … prendiamo quattro…cinque cristiani grandi o più piccoli … o chi o come … una specie … una cosa di consiglio fra noi per cose gravi … se dobbiamo fare cose gravi … responsabilità credo non ne possiamo prendere nessuno salvo se c’è uno … una persona di l{ dentro che conosciamo tutti e manda a dire attraverso persone … no una sola … a diverse persone lo deve mandare a dire: rivolgetevi a questo … facciamo una specie di commissione così per le cose gravi per le situazioni e restiamo tutti amici».

Più confusa appare invece la rappresentazione degli altri mandamenti. Gli esponenti del mandamento di San Lorenzo e di Brancaccio sembrano gravitare attorno al nucleo centrale, ma la loro posizione testimonia la perduta centralit{ delle due cosche in seguito all’arresto dei Lo Piccolo che avevano esteso il proprio potere in tutta la parte occidentale di Palermo e nella zona industriale di Brancaccio. Lo smantellamento del mandamento ha creato un pericoloso vuoto di potere che ha portato all’ascesa di nuove figure. I cugini N30 e N31, in particolare, sfruttando la situazione di crsi del sodalizio di San Lorenzo decimato dai numerosi e recenti arresti, hanno tentato di acquisire posizioni di leadership vantando una presunta autorizzazione fornitagli da Matteo Messina Denaro, convinti che questa loro affermazione non potesse essere confutata da alcuno: «è stato che dei ragazzi si sono arrampicati sugli specchi, siccome dice là è sicuro che non ci arriva nessuno». Il loro tentativo è stato tuttavia vanificato dall’ intervento di N116 e di N19 e N182. In posizione subordinata rispetto a Santa Maria del Gesù e marginale si trovano infine i mandamenti di Boccadifalco, Resuttana e San Mauro Castelverde. Tab. 3 – Primi venti attori del reticolo per le misure di centralità

Cod. Degree Centrality Closeness Betweenness

N2 9% 44% 3% N3 10% 42% 3% N11 16% 42% 11% N17 15% 48% 29% N19 13% 43% 5% N27 10% 44% 3% N48 12% 39% 4% N50 5% 41% 1% N67 17% 45% 13% N77 9% 42% 2%

N87 14% 42% 5% N96 9% 42% 4% N105 4% 41% 1% N114 11% 40% 3% N116 18% 47% 11% N161 10% 43% 4% N173 14% 45% 7% N182 23% 48% 16% N183 9% 41% 1% N191 11% 42% 5%

4. Conclusioni

Al termine di questo lavoro, qual è dunque il modello reticolare che emerge dai risultati della nostra analisi. Proviamo a sintetizzare i dati fin qui emersi. Gli attori della rete sono interconnessi fra loro in un’unica struttura organizzativa, che seppur segnata da alcune linee di frattura, consente a ciascun contatto di raggiungere con una certa rapidità tutti i punti della rete. I leader della rete sono locali di medie dimensioni, nei migliori casi non raggiungono più del 20% dei contatti, cosicché anche i soggetti con più alto valore non sono in grado di monopolizzare il potere. Per accrescere la propria posizione di leadership gli attori centrali cercano di stabilire nuovi legami e di attivare meccanismi di cooperazione. Il ricorso al conflitto è solo minacciato ma mai attuato. Le numerose sovrapposizioni tra mandamenti

favoriscono la comunicazione e scoraggiano la contrapposizione e la chiusura dei sotto gruppi. Le figure degli intermediari sono poco rilevanti, tranne che in un unico caso che però si rivela favorevole al dialogo anche se potenzialmente instabile. Complessivamente, pur di fronte al fallimento del tentativo di concentrazione del potere nelle mani di pochi soggetti, il reticolo mafioso sembra possedere un buon livello di resilienza e una discreta elasticità che ne preservano l’integrit{ o quantomeno la sopravvivenza dagli attacchi delle forze dell’ordine.

Prima di rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio di quest’ultimo paragrafo, occorre introdurre un’ultima distinzione. Per i nostri fini, è possibile riadattare la tipologia di reti proposta da Richard Locke, all’inizio degli anni Novanta, in uno studio sull’evoluzione della governance. L’aspetto rilevante della sua proposta risiede nel tentativo di spiegare, attraverso la rappresentazione dei reticoli socio-politici locali, le differenti performance economiche conseguite dalle aree urbane. L’idea alla base del ragionamento di Locke è, infatti, che la configurazione complessiva assunta dalla rete sociale, costituita dai principali protagonisti di quella determinata realtà territoriale, sia in grado di spiegare i differenziali economici conseguiti a livello di sistema e i diversi standard qualitativi raggiunti [Locke 1995; Barbera, Negri 2008]. Lo studioso americano per fornire una chiave interpretativa del diverso rendimento delle realtà osservate, identifica tre possibili strutture sociali idealtipiche: il reticolo policentrico, il reticolo polarizzato, e il reticolo gerarchico. Per descrivere i tre idealtipi possiamo utilizzare le parole di Barbera. Il reticolo policentrico è «formato da organizzazioni ed attori legati da legami orizzontali, con ampia possibilità di comunicazione, di gestione del conflitto e di continuazione del dialogo anche in presenza di rottura tra le parti (grazie alla presenza di terzi o leader che collegano i diversi campi). Le organizzazioni sono aperte ed inclusive di interessi diversi. I legami orizzontali sono più numerosi di quelli che collegano gli attori attraverso legami verticali»; Il reticolo polarizzato caratterizza invece uno scenario con «poche organizzazioni divise in campi contrapposti e con poche occasioni di comunicazione. In presenza di giochi a somma zero, il conflitto è letale e l’assenza di figure di mediazione rende molto difficile “riparare” i legami spezzati. Inoltre, i legami verticali che collegano i livelli sono molto più rilevanti dei pochi legami orizzontali». Il reticolo gerarchico infine si distingue per «un elevato numero di attori, collegati tra loro da legami verticali e con il livello macro. L’informazione non circola liberamente tra i diversi attori, piuttosto nei legami scorrono risorse di potere che, in caso di conflitto, possono servire a riattivare il processo» [Barbera 2006b: 143-144].

Fig. 5 – Tre idealtipi di reticolo

Fonte: Locke [1995]

A questo punto possiamo definire con maggiore certezza la forma del reticolo organizzativo mafioso. La valutazione delle misure di centralità degli attori del network e le considerazioni sull’articolazione morfologica che abbiamo formulato in precedenza ci spingono a ritenere l’ipotesi policentrica la più attendibile. L’analisi relazionale ha infatti rivelato l’esistenza di uno «stratum politico» [Dahl 1961] del fenomeno mafioso, una rete di legami di comunicazione rapida ed estesa che, pur in assenza di una commissione formalmente istituita, connette i soggetti più autorevoli di Cosa nostra facilitando la comunicazione, lo scambio d’informazioni, e talvolta di risorse, il consolidamento dei valori e la risoluzione delle controversie territoriali tra un mandamento e l’altro. La presenza di un numero così elevato di soggetti all’interno del nucleo organizzativo tuttavia non sempre favorisce il processo decisionale e può anzi esplodere in pericolosi dualismi. La rete potrebbe gradualmente polarizzarsi accentuando le già esistenti linee di frattura territoriale. Il tentativo fallito da parte dei Lo Piccolo prima e dei Capizzi dopo di accrescere il proprio potere su larga parte della città di Palermo a scapito delle altre famiglie ha sicuramente accentuato le divisioni tra le famiglie e aumentato il livello di diffidenza generale.

Da questo punto di vista, l’intervento delle forze dell’ordine potrebbe puntare a favorire la disgregazione di Cosa nostra in gruppi separati, mirando ai connettori, ai broker dell’organizzazione. L’esistenza di un tessuto policentrico costituisce uno degli elementi che favoriscono la persistenza e la riproduzione nel tempo di Cosa nostra. Si potrebbe obiettare a questo punto che in Campania l’assenza di un tessuto di clan reciprocamente interconnessi non ha portato a un esaurimento del fenomeno camorrista. A questa osservazione si potrebbe rispondere, osservando come i clan napoletani hanno dovuto soffrire un maggior numero di perdite umane per riprodursi nel corso del tempo, mentre le famiglie mafiose hanno gestito in maniera meno dispendiosa le situazioni di tensione. Fig. 6 – Reticolo relazionale (centralità di grado)

Fig. 7 – Reticolo relazionale (closeness)

Fig. 8 – Reticolo relazionale (betweenness)

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