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VENT’ANNI SENZA TONINO BELLO Semplicemente don «Se la Chiesa, il vescovo, i presbiteri, gli istituti religiosi sono ricchi; se amano il lusso, il denaro, i conti in banca, le comodità, lo sperpero, il consumo; se sono attaccati ai guadagni, alle tariffe, ai posti, al possesso (…); se avviene tutto questo, avremo giocato agli “ultimi”, ingannando, come a teatro, la povera gente». Don Tonino Bello (18 marzo 1935 - 20 aprile 1993) dossier Ricordiamolo. Lui non avrebbe mai voluto una celebrazione della sua persona e della sua vita, restio come era ai trionfalismi. Qui raccogliamo la voce di chi lo ha conosciuto e stimato perché ci aiuti a riscoprire l’attualità della sua testimonianza di profeta della pace, vicino ai poveri e seguace di Gesù di Nazaret. Affinché non cadiamo nella rassegnazione, arrendendoci alla logica della violenza e delle armi, considerata ancora normale via per la risoluzione dei conflitti nel nostro mondo. a cura della redazione FOGLI.DELCAMPE.IT

01-COP APRILE 2013 - elabora.fondazionenigrizia.itelabora.fondazionenigrizia.it/public/1/pdf_documenti/dossier... · ve esistenza (è morto a 58 anni) don To-nino è passato nel cielo

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VENT’ANNI SENZA TONINO BELLO

Semplicemente don

«Se la Chiesa, il vescovo, i presbiteri, gli istituti religiosi sono ricchi; se amano il lusso, il denaro, i conti in banca, le comodità, lo sperpero, il consumo; se sono attaccati ai guadagni, alle tariffe, ai posti, al possesso (…); se avviene tutto questo, avremo giocato agli “ultimi”, ingannando, come a teatro, la povera gente». Don Tonino Bello (18 marzo 1935 - 20 aprile 1993)

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Ricordiamolo. Lui non avrebbe mai voluto una celebrazione della sua persona e della sua vita, restio come era ai trionfalismi. Qui raccogliamo la voce di chi lo ha conosciuto e stimato perché ci aiuti a riscoprire l’attualità della sua testimonianza di profeta della pace, vicino ai poveri e seguace di Gesù di Nazaret. Affinché non cadiamo nella rassegnazione, arrendendoci alla logica della violenza e delle armi, considerata ancora normale via per la risoluzione dei conflitti nel nostro mondo.

a cura della redazione

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Con il passare del tempo (sono vent’anni dalla morte di don Tonino ed è in corso il processo di beatificazione) si avverte sempre più come la sua figura e la sua popolarità siano l’espressione di un insie-me complesso di valori che non possono essere letti separatamente. Nella sua bre-ve esistenza (è morto a 58 anni) don To-

nino è passato nel cielo della Chiesa italiana come una cometa luminosa, lasciando una scia ricca e feconda fatta di segni e di insegnamenti che costituiscono la memoria viva della sua pre-senza e della sua attualità.

Lo testimonia la processione di pellegrini che visitano la sua tomba ad Alessano (Lecce), il paese natale, lasciano messaggi d’amore e gli affidano i loro segreti pensieri, come farebbero con un amico. Così come le vie, le piazze, le scuole che porta-no il suo nome; e la diffusione, attraverso un passa-parola complice e misterioso, dei suoi libri e dei suoi discorsi, che ci riportano la sua voce calda e avvolgente e il suo sorriso illumi-

nante. Una fama di beatitudine, non ancora formalizzata ma diffusa, che affascina anche chi non l’ha conosciuto.

Nel suo Dna c’era anzitutto il dono dell’autenticità, forse un’eredità della sua terra natale; la capacità di aprirsi agli altri con limpida semplicità e dolcezza.

Fin dagli anni di Ugento, giovane prete, quando era inse-gnante al seminario e assistente dell’Azione cattolica, conqui-stava i giovani con la sua carica vitale e le capacità organizzati-ve: epiche partite di calcio, nuotate nel limpido mare del Sa-lento, incontri al suono della fisarmonica; amico di tutti, come un fratello maggiore. Già allora spendeva il suo stipendio di insegnante per abbonare i suoi allievi a riviste culturali e per aiutare i poveri. Poi a Tricase, come parroco, si era immerso tra

LA SUA TRAIETTORIA

Sulle strade di don Tonino

Il rischio è di confinare la sua straordinaria personalità in una formula restrittiva: il vescovo pacifista, ispiratore della Chiesa del grembiule, il testimone del concilio, l’autore della “Lettera al marocchino”. Ma ogni volta ci si rende conto dell’insufficienza di un’analisi che lo riporti a una sola dimensione, per quanto nobilissima. Don Tonino è questo e molto “altro”.

di Claudio Ragainigiornalista, già vicedirettore di Famiglia Cristiana, autore di Don Tonino. Fratello vescovo, Paoline 1994 e 2012

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la gente, aveva scoperto un mondo nuovo, galvanizzato dalle novità portate dal concilio. Aveva rianimato e stravolto la vita di una cittadina addormentata, rinnovando la liturgia, ravvi-vando le associazioni, organizzando incontri teologici con esponenti della cultura cattolica. Le sue funzioni, le sue messe, riempivano la chiesa come non era mai avvenuto. I poveri e gli emarginati erano interlocutori privilegiati. Quel modo nuovo di “fare” il parroco stupiva e conquistava la gente. Era stato nominato monsignore a soli 28 anni, ma volle essere chiamato sempre “don”; e don Tonino rimase sempre, anche quando diventò vescovo.

CON GLI ULTIMI DELLA FILAAl suo esordio come vescovo a Molfetta spiazza tutti, ben-

pensanti e tradizionalisti, per il suo stile semplice e spontaneo. Aveva il pastorale e la croce di legno di ulivo, girava a piedi per le vie della città fermandosi a parlare con tutti, faceva la coda dal barbiere aspettando il suo turno, guidava una vecchia 500, andava a scovare i senzatetto attorno alla stazione e se li porta-

va in vescovado: la sua porta era sempre aperta, giorno e notte. La sera intratteneva i giovani con la fisarmonica che si era por-tata da casa. La gente era conquistata dal suo comportamento, ma qualcuno, anche tra i suoi preti, mugugnava.

I rapporti con il potere politico ed economico erano forma-li e cortesi, ma chiari. Lui stesso amava ripetere, con uno di quei giochi di parole che gli erano cari, che ai segni del potere preferiva il «potere dei segni». E segni ne lasciò copiosi nei dieci anni del suo ministero. Andò di persona a difendere gli operai di un’acciaieria minacciati di licenziamento; ebbe più di una polemica con l’amministrazione comunale per la carenza di alloggi per i poveri e ospitò gli sfrattati in vescovado; da uomo libero che non accettava compromessi ed etichette, sfer-zò la classe politica locale fino alla rottura; richiamò col suo esempio la città ai valori della convivenza e della solidarietà.

Sognava una Chiesa calata tra la gente, nello spirito del concilio; una Chiesa di servizio che mettesse al primo posto l’attenzione agli «ultimi della fila». I poveri erano l’insegna del suo ministero, scolpiti nel suo stemma episcopale: “Ascoltino gli ultimi e si rallegrino”. «La Chiesa del grembiule», sintesi della sua pastorale. Non sempre capita, non sempre seguita.

Dalle linee dei suoi piani pastorali emergono l’ansia e le preoccupazioni del pastore per la comunione e l’unità della sua Chiesa che amava profondamente. Soffriva per le piccole rivalità nel clero, raccomandava la sobrietà negli apparati e nelle cerimonie, condannava il «giro di danaro nelle sacrestie», la raccolta di offerte nelle feste patronali e le «spese pazze» per le prime comunioni e le cresime.

Scriveva e lavorava molto: di notte, chiuso in una piccola cappella davanti all’immagine della Vergine (la stessa che si farà portare accanto al letto negli ultimi giorni di vita), pren-devano vita i suoi straordinari scritti che pubblicava sul gior-nale diocesano Luce e vita, le sue riflessioni, i suoi libri diven-tati famosi: Alla finestra la speranza, Sui sentieri di Isaia, Let-tere ai catechisti e tanti, tanti altri che si sono moltiplicati dopo la sua morte.

In quella straordinaria stagione degli anni ’80, che vide l’as-sociazionismo cattolico, riviste missionarie e movimenti di opinione impegnati nella difesa dei valori della pace e della nonviolenza, Tonino Bello, chiamato alla guida di Pax Christi, fu il catalizzatore delle voci e delle speranze degli “operatori di pace”, un svolta vissuta in coerenza con il vangelo.

Con gli scritti e i suoi gesti fu il profeta moderno della nonviolenza, il messaggero di una teologia della pace che testi-moniò di persona, fino alla consunzione, sognando l’avverarsi del sogno di Isaia. La pace come «convivialità delle differenze», secondo una formula fortunata, icona della Trinità. Dalla Bo-snia alla prima Guerra del Golfo, dallo sbarco dei clandestini sulle coste pugliesi alle proteste contro i poligoni di tiro in Puglia e le basi dei bombardieri in Calabria, alla legge sul com-mercio delle armi: il suo fu un impegno tormentato, segnato da fatiche, incomprensioni e non ultimo, dai richiami “dall’al-to”. Fino all’epilogo che suggellava il senso di un’intera esisten-za: la marcia su Sarajevo, già gravemente malato, e poco dopo l’offerta della sua vita sull’«altare della sofferenza», con un ul-timo saluto: «Vi voglio bene».

Tra i sidamo in Etiopia. In alto: Verona. 19 settembre 1993, Arena 5 “Quando l’economia uccide bisogna cambiare...”.

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LEZIONE MAGISTRALE SU GIUSTIZIA E PACE

Bello contra bellum

Ha predicato e praticato un messaggio chiaro ed evangelico: no a ogni guerra, e impegno per la nonviolenza attiva.

di Luigi Bettazzivescovo emerito di Ivrea, presidente emerito di Pax Christi

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Ho avuto la fortuna – e la grazia – di essere molto vicino a don Tonino Bel-

lo, prima a Bologna, dov’era stato mandato al seminario

dell’Onarmo (Opera nazionale per l’assistenza religiosa e mo-rale agli operai), che allora preparava i cappellani di fabbrica, e frequentava le lezioni di teologia al Pontificio seminario regio-nale, dove io insegnavo filosofia. L’avevo poi incontrato, ca-sualmente ma significativamente, a Tricase, dove lui era parro-co, e l’avevo presentato alla Conferenza episcopale nella terna di candidati alla presidenza di Pax Christi Italia quando, dive-nuto io presidente internazionale, cercavo un vescovo che mi sostituisse nella sezione italiana.

La ricerca fu lunga e complessa, tanto che finii col lasciare contemporaneamente (nel 1985) ambedue le presidenze: quella internazionale al card. König, arcivescovo di Vienna, e quella nazionale appunto a mons. Tonino Bello, da poco divenuto vescovo di Molfetta.

Fu lì che cominciai a conoscerlo più a fondo, nella sua attenzione e vicinanza ai giovani e ai poveri derivatagli dalla mamma, una donna forte, terziaria francescana, rimasta ve-dova con tre bambini piccoli ma educatrice all’amore e alla solidarietà, soprattutto verso chi è provato dalla povertà e

dalla sofferenza. Pare in realtà che don Tonino abbia rifiutato due volte l’episcopato per non allontanarsi da lei, e quando, morta la mamma, accettò per obbedienza l’episcopato di Molfetta, prese come anello vescovile la fede nuziale della mamma (aggiungendovi una croce) e lasciando scritto nel testamento che voleva essere sepolto per terra accanto a lei.

Nello stesso tempo ebbi modo (anzi avemmo modo tutti i consiglieri di Pax Christi) di dare concretezza alla sua aspi-razione alla pace, presentandogli il lungo lavoro svolto da Pax Christi, dalla sua fondazione in Francia, nel dopoguerra, come movimento di preghiera e di azione per la riconcilia-zione tra Francia e Germania, due paesi cristiani per secoli in guerra tra di loro, al suo sviluppo (dalla presidenza dell’olan-dese card. Alfrink dopo il francese card. Feltin) con l’impe-gno concreto – suggerito dal concilio Vaticano II – contro la guerra atomica e per il disarmo.

Don Tonino lo faceva con la brillantezza della sua fantasia poetica e con l’irruenza della sua giovinezza entusiasta. Ed era quello che disturbava il mondo politico (giunsero perfino ad applicare a lui l’invocazione liturgica per la liberazione dalla guerra: “a peste, fame et ‘bello’ libera nos Domine”), e anche un po’ il mondo ecclesiastico. Quando sulla scia dell’appello insistente di Giovanni Paolo II, si impegnò con-tro la prima “guerra del Golfo” (1991-92), certi vertici eccle-siastici dissero che la Chiesa doveva richiamare i principi, ma che toccava poi ai politici vedere cosa concretamente si do-vesse fare (provocando l’arguto ringraziamento di un giorna-

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Sarajevo, 1992. La “Marcia dei 500”.

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lista, che ne deduceva, anche per la sessualità, l’affermazione dei principi da parte della Chiesa, ma lasciando l’applicazio-ne alla discrezione dei singoli).

FINO ALLA FINEFu così che don Tonino arrivò alla conclusione che l’unica

prospettiva evangelica per il cristiano sono la condanna della guerra, di ogni guerra, e l’impegno per la nonviolenza attiva: ne ha colto la sollecitazione all’interno di Pax Christi, ma Pax Christi deve a lui il concreto prolungato appello.

Già nel concilio Vaticano II s’era proposto il principio che il vangelo, in realtà, condanna ogni guerra; e se n’erano fatti propugnatori, fra l’altro, proprio due cardinali di Pax Christi: Feltin e Alfrink; ma la guerra allora in atto in Vietnam aveva indotto i vescovi americani ad invocare: «Non pugnalate alle spalle i giovani americani che in Estremo Oriente stanno di-fendendo la civiltà cristiana!». Si era giunti peraltro a condan-nare (l’unica condanna di un concilio “pastorale”) la “guerra totale” (cioè atomica, biologica, chimica), che coinvolge per gran parte le popolazioni civili, e nello stesso tempo il riarmo, che consuma risorse che potrebbero e dovrebbero essere desti-nate a combattere la fame e le malattie del mondo.

Don Tonino si era fatto profeta e missionario della non-violenza attiva, di un atteggiamento che non è disimpegno e rassegnazione, ma viceversa intelligente e incessante ricerca delle modalità non violente per risolvere le tensioni.

Benché molto ammalato (sarebbe morto pochi mesi do-po, consumato dal tumore allo stomaco, derivatogli dall’ul-cera della contestazione ai tempi della prima guerra del Gol-fo), volle partecipare alla marcia a Sarajevo, organizzata da “Beati i costruttori di pace” il 7 dicembre 1992. E fu proprio là nel cinema buio, illuminato dalle fiaccole (ci si era trovati insieme dopo che quattro gruppi si erano diretti alla catte-drale cattolica, a quella ortodossa, alla principale moschea e alla sinagoga), che don Tonino, nel suo discorso, enumerò i tre motivi che ci avevano indotto a entrare a Sarajevo: rassi-

curare quei cittadini che non erano dimenticati dal mondo, ma che qualcuno pensava a loro, disposto anche a sfidare la guerra per rompere il loro isolamento; richiamare l’Italia e l’Europa alla responsabilità di aver lasciato crescere una si-tuazione così drammatica; ricordare che solo la nonviolenza attiva può portare alla giustizia e alla pace.

Ed è proprio da questo messaggio, richiamato costante-mente ed unito alla solidarietà verso i più poveri (don Tonino lo viveva nella sua città, curandosi degli sfrattati e dei disoccu-pati, dei barboni e dei drogati) che ci si apriva poi ai poveri del mondo, che sono quelli penalizzati dalle guerre.

Questo messaggio convinto, unito a tanti altri messaggi emergenti nel mondo, sta sollecitando anche i pastori a ren-dersi portavoce di questa esigenza evangelica. Già Giovanni XXIII (Pacem in terris) diceva che «dati i terribili mezzi di di-struzione oggi in uso e le possibilità di incontro, ritenere che le guerre possano portare alla giustizia e alla pace è fuori dalla ragione». (alienum a ratione, una follia!). I pontefici successivi, fino a Benedetto XVI (Caritas in veritate), sono giunti a insi-stere sulla nonviolenza attiva, stimolando intellettuali e poli-tici a individuare le strade concrete per giungere a diffondere questa mentalità. Soprattutto va auspicata – come già ripeto-no anche i papi – una maggiore autorevolezza e un maggior potere dell’Onu, perché diventi il vero gestore di una politica internazionale in grado di evitare le guerre, e unico gestore di una polizia internazionale capace di fermare le violenze.

Don Tonino Bello ha offerto le ultime, insostenibili soffe-renze, per la sua diocesi e per “il popolo della pace”. Le ultime preghiere sono state le invocazioni alla Madonna ricavate dai titoli del suo ultimo “Mese di Maggio”: che la “Madonna del piano superiore”, “la Madonna dell’ultimo giorno”, “la Ma-donna della pace” (e don Tonino ripeteva con i presenti: “Pre-ga per noi!”) ottengano davvero ai cristiani (lo richiamava an-che la grande assemblea ecumenica dello scorso anno in Gia-maica, a Kingston) di farsi nel mondo, sull’esempio di don Tonino Bello, profeti e apostoli della nonviolenza attiva!

Antonio Bello – per tutti don Tonino – nacque ad Alessano in

provincia di Lecce, il 18 marzo 1935. Rimasto orfano di padre all’età di sette anni, fu cresciuto insieme ai due fratelli più piccoli, Trifone e Marcello, da mamma Maria che resterà il riferimento per tutta la vita dei suoi affetti più cari. Ordinato sacerdote nel 1957, all’età di 22 anni, fu insegnante e poi rettore del seminario di Ugento, e in seguito parroco a Tricase fi no al 1982. Consacrato vescovo della diocesi di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi-Ruvo esercitò il ministero episcopale sorretto

da un amore profondo per Gesù Cristo, dalla passione per la giustizia e dalla predilezione per gli ultimi.Nel 1985 don Tonino fu nominato presidente di Pax Christi Italia e si impegnò attivamente in varie iniziative di pace a livello nazionale, a partire dalle campagne a favore dell’obiezione fi scale contro le spese militari e

contro il piano di militarizzazione della Puglia. Nel 1991 alzò la sua voce di denuncia contro l’intervento militare dell’Occidente nella prima guerra del Golfo e apertamente manifestò la sua protesta nei confronti del governo italiano per il modo disumano con il quale vennero trattati i profughi

albanesi sbarcati nei porti pugliesi.Intanto era scoppiata la guerra nei Balcani e don Tonino, nella sua ultima impresa allorché era già gravemente ammalato, entrò pellegrino di pace nel dicembre 1992 con i 500 dell’ “Onu dei popoli” nella Sarajevo assediata dalla guerra.Morì il 20 aprile 1993.

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Il popolo della pace non è un popolo di rassegnati. È un popolo pasquale, che sta in piedi come quello dell’apocalisse; «tutti stavano in piedi davanti al tro-no e davanti all’Agnello». Davanti al “trono” di Dio, non davanti alle poltrone dei tiranni, o davanti agli idoli di metallo. E davanti all’“Agnello”, simbolo di tutti gli oppressi dai poteri mondani. Di tutte le vit-time della terra. Di tutti i discriminati dal razzismo.

Di tutti i violentati nei più elementari diritti umani. A questo popolo invisibile della pace, dall’Arena di Verona, giunga la nostra solidarietà. Ma anche il nostro incoraggiamento: con le parole delle beatitudini, secondo la traduzione che sostituisce il termine “beati” con l’espressione “in piedi”. «In piedi, co-struttori di pace. Sarete chiamati figli di Dio».

(…) Anche per quanto riguarda la pace è giunta la pienez-za dei tempi. E come nella pienezza dei tempi Gesù, nostra pace, ci ha rivelato la paternità di Dio, nostra Giustizia, e ci

ha rivelato anche lo Spirito che è Signore e dà la vita a ogni creatura, così oggi abbiamo il privilegio di capire che l’an-nuncio della pace si completa, oltre che con la lotta per la giustizia, anche con l’impegno della salvaguardia del creato. Quello della tutela dell’ambiente non è l’ultimo ritrovato della nostra furbizia brontolona o delle nostre strategie del consenso. Non è ammiccamento alle mode correnti. Ma è un compito primordiale che ci sovrasta come partner dello Spirito santo, affinché la terra passi dal xàos, cioè dallo sbadi-glio di noia e di morte, al xòsmos, cioè alla situazione di tra-sparenza e di grazia.

Tra otto giorni celebreremo la festa di Pentecoste e noi ripeteremo l’invocazione «Manda il tuo Spirito, Signore: tut-to sarà ricreato e rinnoverai la faccia della terra». La faccia della terra. La crosta della terra. La pelle di questa nostra terra deturpata dagli inquinamenti, invecchiata dalle nostre manipolazioni, violentata dalle nostre ingordigie. Ebbene, questa pelle diventerà fresca come la pelle di un’adolescente. E si realizzerà la splendida intuizione di Isaia che, addirittura invertendone l’ordine, aveva collegato insieme salvaguardia del creato, giustizia e pace: «In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto diventerà un giardino…e la giusti-zia regnerà nei giardino…e frutto della giustizia sarà la pace» (32, 15-17). Il deserto, quindi, diventerà un giardino. Nel giardino crescerà l’albero della giustizia. Frutto di quest’albe-ro sarà la pace!

C’è da chiedersi: è mai possibile che questa visione trini-taria della pace, così saldamente fondata sui plinti della Sacra Scrittura, abbia tanto stentato a diffondersi perfino nelle no-stre Chiese? La risposta è semplice: se solo ora dal monotei-smo assoluto della pace siamo passati al monoteismo trinita-rio, è perché siamo giunti davvero alla pienezza dei tempi. Il che non significa che ormai il discorso sia acquisito. Tutt’al-tro. Come per il discorso trinitario su Dio, nei primi dieci secoli del cristianesimo, si sono sostenute tante lotte, sono scoppiate tante dispute, e si sono celebrati tanti concili, così sarà per il discorso trinitario della pace.

“ARENA 3”

Il 30 aprile 1989, il popolo dei “Beati i costruttori di pace” si dava appuntamento all’Arena di Verona per il terzo incontro. Don Tonino interveniva. Stralciamo dal suo discorso.

LE ARENE“Le Arene” sono i grandi momenti assembleari celebrati nell’Arena di Verona dal 1986 al 1993. Promosse dal movimento cattolico “Beati i costruttori di pace”, vedono una forte partecipazione della società civile. Nelle assemblee intervengono testimoni da tutto il mondo e sono messi a fuoco i grandi temi della pace.Arena 1 (4 ottobre 1986): Educazione alla mondialità e alla pace, disarmo, obiezione di coscienza, stili di vita.Arena 2 (30 maggio 1987): L’apartheid e le obiezioni di coscienza.Arena 3 (30 aprile 1989): Giustizia, pace, salvaguardia del creato.Arena 4 (22 settembre 1991): Dalla conquista alla scoperta: a 500 anni dalla conquista dell’America Latina.Arena 5 (19 settembre 1993): Quando l’economia uccide bisogna cambiare.

In piedi, costruttori di pace!

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QUELLE DOMANDE INASCOLTATE

Come uomo del concilio, don Tonino riteneva pace e povertà i primi luoghi di verifica della vita cristiana. E a suo avviso in Italia non c’era (non c’è) un’apprezzabile teologia della pace.

di Sergio ParonettoVice presidente di Pax Christi Italia, autore di Tonino Bello, maestro di nonviolenza, Paoline, 2012.

Se la Chiesa Se la Chiesa non ama la pace

Nell’anno del 50° anniversario dell’inizio del concilio e della Pacem in terris, la memoria di Tonino Bello vibra di particolare intensità e interpella i credenti con le sue domande brucianti al ritorno da Sarajevo (dicembre 1992): «Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davve-ro questa la strategia di domani? Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? (...) Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incon-tenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo voglio-no». (La speranza a caro prezzo, San Paolo, 1999) I poveri lo vorranno? E con quale aiuto? La Chiesa lo vorrà?

IL DRAMMA DELLE COMUNITÀ CRISTIANE Per don Tonino «il vero dramma» delle comunità cristiane

è quello di «non aver ancora assunto la nonviolenza come

unico “abito da società” veramente firmato dal Signore e continuare a baloccarsi con gli altri vestiti contraffatti che ci assediano l’armadio». Dovremmo essere più audaci: «Il Si-gnore ci ha messo sulla bocca parole roventi: ma noi spesso le annacquiamo col nostro buon senso. Ci ha costituiti senti-nelle del mattino, annunciatori, cioè, dei cieli nuovi e delle terre nuove che irrompono, e invece annunciamo cose scon-tate, che non danno brividi, che non provocano rinnova-mento». (Scritti vari. Interviste. Aggiunte, Mezzina, 2007)

Negli anni ’80, nel vivo di tante iniziative, spesso in con-tatto con la rete veneta dei “Beati i costruttori di pace”, con Nigrizia e padre Alex Zanotelli, don Tonino dichiara che la nonviolenza costituisce l’essenza del vangelo. Lo dice con lo stile di un moderno padre della Chiesa, precisando: «Pur-troppo non c’è ancora in Italia un’apprezzabile teologia della

THE POST INTERNAZIONALE

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pace (...). È doloroso dirlo: ma io penso che buona parte delle perplessità anche dei nostri episcopati sul tema della pace derivi dalla mancanza di una seria fondazione teologi-ca» che sia premessa della «convivialità delle differenze». (Le mie notti insonni, San Paolo, 2002)

LA MALINCONIA DEL NOSTRO SILENZIO In occasione del giovedì santo del 1986, osserva con tri-

stezza: «È malinconico osservare oggi (se si eccettuano le audaci sortite del papa, di qualche episcopato e di pochi gruppi) i tentennamenti delle nostre Chiese. Quello della pace sembra un campo minato da mille prudenze, recintato dal filo spinato di infinite circospezioni, protetto da pavidi silenzi. Non ci decidiamo ancora, come popolo profetico, a uscire allo scoperto. Ci nascondiamo dietro i fortilizi delle logiche umane. Viviamo ambigue neutralità, che tutto pos-sono essere meno che disarmate. Ma se tacciamo noi, eredi della profezia di pace del Cristo, chi si assumerà il compito di dire alla terra che, scivolando sui binari che ha imbocca-to, corre inesorabilmente verso l’olocausto? Coraggio miei cari fratelli profeti! Diciamo che ogni guerra è iniqua. Pro-muoviamo una cultura di pace che attraversi tutta la nostra prassi pastorale. Denunciamo a chiare lettere l’ingiustizia della corsa alle armi. Insorgiamo quando vengono violati i più elementari diritti umani in ogni angolo del mondo. Aiutiamo la gente distratta a rendersi conto che lo stermi-nio per fame di milioni di persone pesa sulla coscienza di tutti. Smilitarizziamo il linguaggio».

Occorre essere disposti a salire sulla croce: «E si sale sulla croce ogni volta che si contrastano le logiche correnti tribu-tarie degli schemi pagani del profitto, della sicurezza, dello schieramento dei blocchi, della deterrenza. Si sale sulla croce ogni volta che si afferma che la produzione delle armi, il commercio degli strumenti di morte e il segreto che copre il loro traffico sono una grossa violenza alla giustizia e un at-tentato gravissimo alla pace: anzi sono già guerra». (Convi-vialità delle differenze, La meridiana, 2006)

IL FUOCO DELLA PROFEZIACome uomo del concilio, don Tonino ritiene la pace e la

povertà i primi luoghi di verifica della vita cristiana. Su di essi, «sembra che siamo stati colti da afasia (…). Basta pensare al tema dei nostri compromessi col potere. Quante volte la paura di perdere i privilegi non ci blocca la profezia sulle labbra, se pure non ci rende complici di tante ingiustizie consumate sul-la pelle dei poveri!» (Non c’è fedeltà senza rischio, San Paolo, 2000). Le sue argomentazioni lo legano a Primo Mazzolari e a Giovanni XXIII, a Giuseppe Dossetti e a Giacomo Lercaro, a Hélder Câmara e a Oscar Romero. Sviluppando il tema del-la pace espresso nel capitolo V della Gaudium et spes (ricco di spunti ma carico di cautele), don Tonino intende tenere ac-ceso il fuoco della profezia: «È contro la violenza che la Chie-sa oggi è chiamata a pronunciare per intero la parola della pace, esplicitandone tutte le esigenti conseguenze, se vuole essere fedele annunciatrice del vangelo». I credenti non pos-sono essere mediatori incerti. «Dire che ogni apparato di guerra, anche se non verrà mai messo in funzione, è una vio-lenza profonda che corrode alla radice la logica del vangelo, è compito dei profeti. E guai ad essi se, temendo il compati-mento dei benpensanti, o arrestandosi dinanzi alle seducenti ragioni del buonsenso, o sentendosi minacciare dall’accusa di fondamentalismo, o privilegiando il realismo dei piedi per terra sulla sacra ingenuità dell’utopia, dovessero pronunciare per metà l’unica parola, shalom, per la quale sono abilitati a parlare con forza. Il vangelo è così chiaro sulla nonviolenza attiva, che non si possono operare sconti sul prezzo del para-dosso». (La speranza a caro prezzo, San Paolo, 1999).

LA RETORICA DI GUERRAQuali sconti, infatti, sta provocando la retorica di guerra

diffusa da certe omelie funerarie per i soldati uccisi, definiti dall’ordinario militare “eroi”, “missionari” o “profeti”! Quale esagerazione lontana dalla realtà e ignara dell’opera di santi, volontari e missionari! Che abbaglio, inoltre, l’interpretazio-ne nazionalista e militarista di Giovanni XXIII e Primo Maz-zolari!. Che lontananza da don Tonino che invitava a rivede-re il ruolo dei cappellani militari che possono svolgere me-glio il loro ministero tra i soldati senza l’inquadramento mi-litare («Accade già nelle carceri. Non si vede per quale moti-vo non potrebbe accadere anche nelle forze armate. Cappel-lani sì, militari no»). Quale carenza di vangelo e di conoscen-za del magistero ecclesiale! È Benedetto XVI a osservare, il 1° gennaio 2010, che la vera profezia è quella dei volti dei bam-bini sfigurati dal dolore, vittime innocenti delle guerre: «pro-

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fezia dell’umanità che siamo chiamati a formare», «chiave di lettura del problema della pace», «appello alla nostra respon-sabilità». Davanti a loro, osservava il papa, «crollano tutte le false giustificazioni della guerra e della violenza. Dobbiamo semplicemente convertirci a progetti di pace, deporre le armi di ogni tipo e impegnarci tutti insieme a costruire un mondo più degno dell’uomo».

TORMENTO E DOLOREA causa della sua azione, don Tonino soffre molto. Il peso

di critiche superficiali ma taglienti lo prova e lo ferisce. Il 28 marzo 1991, ad esempio, confessa il suo dolore per tante denigrazioni. «Ci siamo generosamente giocati la vita tutta intera, ma abbiamo talvolta il presentimento di aver perduto la scommessa. Ci avvilisce la povertà dei risultati (…). Avver-tiamo, come forse non ci era mai capitato, la frantumazione dei nostri sforzi, l’incapacità di lavorare insieme, il venir me-no di quella solidarietà apostolica che in passato ci aveva sempre sorretto (…). Qualche volta ci è venuta meno la vici-nanza di chi, per il suo carisma dell’insieme, avrebbe dovuto confermarci con un segnale d’incoraggiamento e stimolarci a un impegno più robusto, forse anche con una parola di rim-provero. Non di rado ci siamo visti abbandonati a noi stessi». Il suo dolore è tutto pasquale. Pensa che la tristezza non ab-bia diritto di cittadinanza in “una comunità di risorti”.

LA PACE È IL PROGETTO DELLA CHIESA Lo proclama con questi accenti vibranti: «Chiesa di Dio,

dal giorno di Pasqua questo è dunque il tuo progetto politi-

co. Questa la tua linea diplomatica. Questo il tuo indirizzo amministrativo. La pace. Non la tua sistemazione “pacifica”. Non il plauso dei potenti, che sarebbero disposti a pagare la metà del prezzo ricavato dalla vendita delle armi pur di com-prare i tuoi silenzi sulla guerra. La pace, non il consenso della gente, che è sempre disposta a barattare la libertà con le cipol-le d’Egitto. Non ti scoraggiare, Chiesa di Dio, anche se il com-pito che ti ha assegnato il Risorto la sera di Pasqua è difficile, richiede una carica eccezionale di speranza, e ti espone costan-temente al rischio di essere giudicata ingenua, visionaria o so-gnatrice ad occhi aperti. Ma chi altro può parlare di pace con la certezza che essa è possibile se non tu, che hai il vantaggio di attingere a piene mani al fondo di quella riserva utopica che ti ha dato il Signore?» (Alla finestra la speranza, San Paolo, 1990). La fede cristiana chiama al “disarmo integrale”, esplicitato nel-la Pacem in terris che definisce la guerra “pura follia” (nn. 61 e 67) o invocato da Giovanni Paolo II davanti alla guerra del Golfo: «Mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra, spirale di lutto e di violenza».

APPELLO AI COSTRUTTORI DI PACEIl concilio afferma la pace come “un edificio da costruirsi

continuamente con mentalità completamente nuova” (Gau-dium et spes, 78 e 80). Oggi fare memoria del concilio vuol dire attivarne le dinamiche innovatrici andando verso don To-nino che ci viene incontro dal futuro. Forse per attuare il pro-getto, espresso dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, di un concilio ecumenico delle Chiese cristiane per la pace. La strada è ancora lunga (in poche diocesi esistono le Commissioni

MOSAICO DI PACE

Piacenza. Marcia per la pace, 31 dicembre 1988.

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Giustizia e Pace). Il 30 aprile 1989, a Verona davanti alla folla areniana, don Tonino propone una visione dinamica della be-atitudine: In piedi, costruttori di pace! Occorre «essere segno dell’inquietudine, richiamo del “non ancora”, stimolo dell’ul-teriorità. Spina dell’inappagamento, insomma, conficcata nel fianco del mondo. Riconosciamolo. Come Chiesa accusiamo ancora pesanti deficit di “parresia” (…). Siamo spesso prigio-nieri del calcolo, vestali del buon senso, guardiani della pru-denza, sacerdoti dell’equilibrio (…). Coraggio! Non dobbia-mo tacere (…). Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire, che la remissione dei debiti del Terzo mondo è appena un acconto

sulla restituzione del nostro debito ai due terzi del mondo, che la nonviolenza attiva è criterio di prassi cristiana, che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena…se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali. Ce lo auguriamo con le parole di Bonhoeffer: “vogliamo par-lare a questo mondo, e dirgli non una mezza parola, ma una parola intera. Dobbiamo pregare perché questa parola ci sia data”. E noi pregheremo (...). E invocheremo lo Spirito Santo. Non solo perché rinnovi il volto della terra. Ma anche perché faccia un rogo di tutte le nostre paure» (cfr Le mie notti inson-ni, San Paolo, 1996; Scritti di pace, Mezzina, 1997)

Di don Tonino ci sono rimasti molti scritti, e su di lui non

mancano i titoli che ne propongono la biografi a o focalizzano aspetti diversi del suo messaggio. L’Emi si è invece concentrata sui suoi rapporti – «spesso audaci e provocatori», come chiarisce d’emblée l’autore – con il mondo politico e le istituzioni. Questo, non per volontà di ingerenza ma, laicamente, per esigere dalle autorità l’attenzione al bene comune, alla pace e ai più fragili nella società. Per… disturbare il manovratore,

troppo spesso distante dalle vere preoccupazioni della gente (vent’anni fa come oggi).Di qui il testo di Sergio Magarelli, Disturbare il manovratore – Politica e Chiesa in don Tonino Bello, prefazione di Tonio Dell’Olio, Emi, 2013, pp. 192, € 13,00. Magarelli, che ha conosciuto di persona don Tonino, lo sottolinea fi n dalla prima pagina: «I rapporti tra stato e Chiesa in Italia rinviano sicuramente alla dimensione storica, politica, giuridica, diplomatica e, se vogliamo, economica. In queste dimensioni

non è possibile pensare e leggere l’esperienza terrena di don Tonino Bello». Il sorridente vescovo pugliese era solo mosso, in altre parole, dall’urgenza del vangelo e di dare delle risposte ai “marocchini”. «Se mi togli la parola del vangelo dalle labbra, non mi rimane nient’altro», rispose un giorno a chi lo interrogava se non avesse mai pensato a un impegno diretto in politica. Per completezza d’informazione va segnalato che è uscito anche Don Tonino Bello e la politica di Cesare Paradiso, Cittadella.

DISTURBARE IL MANOVRATORE

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Brescia, 2010. Marcia della pace.

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Per conoscere e capire Tonino Bello bisogna amare e capire la terra da dove è spuntato: il Salento, una terra dol-ce, una distesa infinita di ulivi. Una terra che ha a che fare con la sua

spiritualità biblica, letta nell’oggi parten-do dai poveri. Di qui la sua capacità di legare strettamente fede e vita, prendendo decisioni forti senza perdere di vista la comunione. Di qui la sua passione per il Vaticano II, cioè di una Chiesa povera e dei poveri, e l’assimilazione di ciò che è il cuore del vangelo: pace e nonviolenza attiva.

Ho imparato ad amare il Salento essendoci stato per quasi tre anni dal 1975 al ’78, mentre lavoravo con i gruppi del Gim (Giovani impegno missionario). All’epoca ho conosciuto don To-nino, sacerdote, insegnante e poi rettore del seminario della dioce-si di Ugento-Santa Maria di Leuca, e mi è rimasta impressa la sua immediata disponibilità.

Dal 1978 sono a Nigrizia e ci perdiamo di vista. Un gior-no, mi arriva in redazione un biglietto: “Caro padre Alex, forse tu ti sarai già dimenticato di me. Ma io non ti ho di-menticato. Tu eri quello che, con i tuoi giovani, venivi a ru-

barci i mandarini in seminario, quando vi incontravate da noi per gli incontri di spiritualità”. Firmato Tonino Bello.

Da quel desiderio di ritrovarci nasce l’idea che Tonino raccolga per Nigrizia il testimone da don Antonio Riboldi. È così che con gennaio 1986, prende in mano la rubrica La croce del Sud, che assicura fino alla fine. Con la prima uscita,

Caro marocchino, coglie in pie-no, e quasi anticipa, il tema scottante dei migranti.

La nostra amicizia diviene anche impegno comune contro gli armamenti. È del gennaio 1985 il noto editoriale di Nigri-zia “Il volto italiano della fame africana”. In quel periodo don

Tonino Bello diviene presidente di Pax Christi. Nel novem-bre di quell’anno, m’invita a Brescia, alla prima assemblea nazionale da lui presieduta: ho così l’occasione di sottolinea-re il ruolo dell’Italia nella produzione e nel commercio di

UN’AMICIZIA E UN IMPEGNO DI PACE

LE VICENDE DI DON TONINO E DI PADRE ALEX S’INTRECCIANO PER UNA LUNGA STAGIONE. ECCO, NEL RACCONTO DEL MISSIONARIO, L’INCONTRO CHE HA SEGNATO LA SUA VITA E L’ESPERIENZA A NIGRIZIA.

di Alex Zanotelli

Destini incrociatiMAIOBA.BLOGSPOT.COM

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IL RESTO NON CONTA NULLA.

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armamenti nonché di rimarcare le ombre lunghe del potere militare-industriale. La reazione politica ed ecclesiale nei miei confronti parte proprio da quell’intervento di Brescia, cuore della produzione delle armi leggere in Italia.

Da quel momento don Tonino moltiplica il suo impegno sul tema degli armamenti. E alla fine di quell’anno lancia l’iniziativa “Beati i costruttori di pace”, con un documento che ha l’approvazione dei vescovi del Triveneto e che suscita ulteriori polemiche: il ministro della difesa, Giovanni Spa-dolini ci definisce «preti rossi».

In quel contesto di scontro, don Tonino, pur non interve-nendo polemicamente, si schiera dalla parte della pace. Lo testimonia la prima delle “Arene” di Verona dei “Beati i co-struttori di pace”, il 4 ottobre 1986.

Nell’87 vengo allontanato dalla direzione di Nigrizia. Don Tonino esprime la sua totale solidarietà e vicinanza a me e alla rivista. Verso la fine di quell’anno, mi chiama il segretario na-zionale di Pax Christi: mi dice che don Tonino è sotto pressio-ne e mi invita a stargli vicino in occasione della marcia di Pax Christi del 1 gennaio 1988. La marcia si svolge a Reggio Cala-bria. Prendo la macchina, vado e mi trovo davanti cinque ve-scovi imbarazzatissimi: non sono stati avvisati della mia pre-

senza e temono che vada a innescare nuove polemiche. Ab-braccio don Tonino, i vescovi mi danno la parola.

A tu per tu, don Tonino tira fuori tutta la sua sofferenza per come si sente trattato all’interno della Conferenza epi-scopale e dal Vaticano. Parliamo a lungo: lui si commuove, io non faccio altro che ricambiargli quella solidarietà che avevo ricevuto pochi mesi prima.

SOFFERENZALe parole di don Tonino rimangono. Prendiamo la prefa-

zione al mio libro-intervista La morte promessa (Publiprint, 1987, curato da Antonio del Giudice). Penso che, come ve-scovo, abbia qualche difficoltà a mettere la sua firma sul libro di un prete inviso al Vaticano. Invece manifesta una profon-da libertà. Uno stralcio: «Quando questo libro uscirà, forse Zanotelli avrà già lasciato l’Italia. Ma non per ritirarsi nel deserto a espiare colpe che non ha commesso. Non parte in esilio per fuggire l’ira dei potenti. I quali, peraltro, saranno ben felici che egli non possa più recare disturbi al manovra-tore. Ma parte per obbedienza. Un’obbedienza che ci edifica più di quanto il suo coraggio profetico non ci abbia fatto vibrare. (…) E un giorno non lontano possa tornare a rac-contarci che, ancora oggi, la Pasqua è in agguato sulle strade dei poveri».

Con questa benedizione me ne andavo a Nairobi nel feb-braio 1988, per iniziarvi poi l’esperienza di Korogocho. Due anni più tardi, ricevo a Korogocho da don Tonino una lette-ra in cui mi chiede di fare il direttore di Mosaico di Pace, la nuova rivista di Pax Christi. Lo ringrazio della fiducia, ma gli rispondo anche che non saprei come dirigere quel giornale dal Kenya. Risposta senza tentennamenti: «Tu sei diventato un simbolo della lotta contro le armi e quindi devi accetta-re». L’ho fatto e continuo a farlo.

Come tutti, ricordo don Tonino per le prese di posizione nell’ambito delle “Arene”dei Beati i costruttori di pace e per la marcia della pace a Sarajevo il 7 dicembre 1992. Mi piace però sottolineare quello che fece nel gennaio 1991, espri-mendosi contro la prima guerra del Golfo. Si rivolse ai par-lamentari italiani con una lettera aperta: «Come cristiani ci sentiamo in dovere di ricordare che uccidere è sempre un gesto immorale e contrario al vangelo. Lo diciamo a voi per primi. Osiamo sperare che questa convinzione, che parte non solo dalla logica delle beatitudini ma anche ormai dalle viscere della terra e dalle conquiste della civiltà, verrà assunta responsabilmente da voi».

Per me don Tonino è stato prima di tutto un amico con il quale ho intrecciato un impegno importante, e talora doloro-so, sulla pace e contro gli armamenti. Direi di più: non si può ritornare sull’esperienza di don Tonino senza cogliere questa relazione tra lui e Nigrizia. Questi due cammini si legano in-dissolubilmente. In fondo don Tonino prese in mano ciò che Nigrizia aveva lanciato e lo portò avanti con grande coerenza, fino a pagarne conseguenze anche fisiche. Sono d’accordo con Bettazzi quando dice che quel tumore glielo hanno provocato quegli ambienti, anche di Chiesa, che lo hanno contrastato. Lui sorrideva, sempre, ma dentro soffriva.

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Padre Alex Zanotelli e, a sinistra, don Tonino Bello.

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Caro marocchino,perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non

hai nulla da spartire.(…) Perdonaci, fratello marocchino, se, pur appartenen-

do a un popolo che ha sperimentato l’amarezza dell’emigra-zione, non abbiamo usato misericordia verso di te. Anzi ripe-tiamo su di te, con le rivalse di una squallida nemesi storica, le violenze che hanno umiliato e offeso i nostri padri in terra straniera.

Perdonaci, se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori. Ci manca ancora l’audacia di gridare che le norme vigenti in Italia, a proposito di clandestini come te, hanno sapore poliziesco, non tutelano i più elementari diritti umani, e sono indegne di un popolo libero come il nostro.

Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti dia-mo neppure l’ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le ulive nere della tua miseria.

Perdona soprattutto me, vescovo di questa città, che non ti ho mai fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmen-te il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Mao-metto. Se hai bisogno di un luogo, fosse anche una chiesetta, dove potere riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sven-tura, i silenzi misteriosi della tua moschea.

Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile vian-dante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha…il colore della tua pelle.Ti abbraccio.don Tonino

P.S. Se passi da casa mia, fermati!

(gennaio 1986)

Cari missionari,dal Sudan a Cuba, dal Brasile alla Costa d’Avorio, dal Pa-

kistan all’Argentina, dal Perù allo Sri Lanka, dal Libano al Mozambico, dalla Svizzera all’Australia, dallo Zaire all’Indo-nesia…non c’è angolo della terra dove un frammento euca-ristico, staccatosi dall’ostia delle nostre Chiese locali, non sia andato a depositarsi per divenire fermento di nuove comuni-tà cristiane.

Avete inteso bene: vi ho chiamati “frammento eucaristi-co” a ragion veduta. Non solo per le profonde motivazioni teologiche che ci mostrano come Chiesa ed eucaristia siano due realtà che si richiamano, si completano e si sovrappon-gono. Ma anche perché mi date l’idea di tante particole che il vento dello Spirito, soffiando sul nostro altare, ha dissemi-nato lontano. E, nonostante tutto, la mensa non si è impo-verita. Non è l’eucaristia, infatti, che diminuisce: è l’altare che si dilata.

Così pure voi: portati apparentemente alla deriva dal ven-to di Pentecoste a approdati su spiagge remote, non avete depauperato il “recinto”, ma avete dilatato il “tabernacolo”.

(…) Grazie, sacerdoti, suore e laici di ogni angolo d’Italia, che vi consumate come lampade in terra di missione.

Grazie, perché ci avete imparentati col mondo.Grazie, perché, controbilanciando la nostra anima sedenta-

ria, voi ci salvate la faccia.Grazie, perché ci provocate all’essenziale. E perché, tra i

percorsi alternativi che conducono al Regno, ci indicate i ret-tilinei della semplicità, del coraggio, della donazione totale.

Grazie, perché la leggerezza del vostro bagaglio mette in crisi l’ottusa caparbietà con cui qui trasciniamo rassegnati il “tir” delle nostre improduttive tradizioni.

Grazie, soprattutto, per quello che un giorno forse ci da-rete. Se, infatti, continueremo a fare resistenza passiva all’ur-to dello Spirito, probabilmente il vento di Pentecoste comin-cerà a soffiare in senso contrario. Le favelas delle vostre bi-donvilles o le capanne dei vostri villaggi saranno il nuovo ce-

RIPROPONIAMO ALCUNI DEGLI INTERVENTI CHE PER SETTE ANNI (GENNAIO 1986-GENNAIO 1993) DON TONINO FECE SULLE PAGINE DI NIGRIZIA.

Scritti appena ieri

a c r o c e d e l s u d

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nacolo di Gerusalemme. E le nostre vecchie città occidentali diventeranno “gli estremi confini della terra” bisognosi di re-denzione.don Tonino

(novembre 1986)

Maria, donna ferialeAl quarto paragrafo del decreto conciliare sull’apostolato

dei laici c’è scritto testualmente: «Maria viveva sulla terra una vita comune a tutti, piena di sollecitudini familiari e di lavo-ro». Intanto, «Maria viveva sulla terra». Non sulle nuvole. I suoi pensieri non erano campati in aria. I suoi gesti avevano come soggiorno obbligato i perimetri delle cose concrete.

(…) Ma c’è di più: «Viveva una vita comune a tutti». Si-mile, cioè, alla vita della vicina di casa. Beveva l’acqua dello stesso pozzo. Pestava il grano nello stesso mortaio. Si sedeva al fresco dello stesso cortile. Anche lei tornava stanca la sera, dopo aver spigolato nei campi.

Anche a lei, un giorno dissero: «Maria, ti stai facendo i capelli bianchi». Si specchiò, allora, alla fontana e provò an-che lei la struggente nostalgia di tutte le donne, quando si accorgono che la giovinezza sfiorisce.

(…) Sì, anche lei ha avuto i suoi problemi: di salute, di economia, di rapporti, di adattamento. Chi sa quante volte è tornata dal lavatoio col mal di capo, o soprappensiero perché Giuseppe da più giorni vedeva diradarsi i clienti dalla botte-ga. Chi sa a quante porte ha bussato chiedendo qualche gior-nata di lavoro per il suo Gesù, nella stagione dei frantoi.

(…) Come tutte le mogli, avrà avuto anche lei momenti di crisi nel rapporto con suo marito, del quale, taciturno com’era,

non sempre avrà capito i silenzi. Come tutte le madri, ha spia-to pure lei, tra timori e speranze, nelle pieghe tumultuose dell’adolescenza di suo figlio. Come tutte le donne, ha provato pure lei la sofferenza di non sentirsi compresa, neppure dai due amori più grandi che avesse sulla terra. E avrà temuto di deluderli. O di non essere all’altezza del ruolo.

(…) Santa Maria, donna feriale, forse tu sola puoi capire che questa nostra follia di ricondurti entro i confini della espe-rienza terra terra, che noi pure viviamo, non è il segno di mode dissacratorie. Se per un attimo osiamo toglierti l’aureola, è per-ché vogliamo vedere quanto sei bella a capo scoperto.don Tonino

(aprile 1988)

Vuoto di potere Me lo disse, è vero, con le migliori intenzioni. E forse non

c’era nelle sue parole tutta quella prevaricazione che la frase nella sua crudezza conteneva. Fu il primo giorno del mio ingresso in diocesi. Un amico sacerdote, in una eccedenza di zelo, mi spronava a entrare subito in azione, perché nessuno dovesse avvertire “vuoti di potere”.

Rimasi visibilmente contrariato, perché i progetti che col-tivavo, come vescovo ancora fresco di unzione, erano pro-prio quelli di creare “vuoti di potere”: almeno nella mia vita.

(…) Per un attimo avvertii il fascino di certe nomenclatu-re d’ordine: rigare dritto, avere idee chiare, saper bene quel che si vuole, qui non si scherza, mettere alla frusta… Vidi messi in crisi tutti i discorsi che in passato avevo sostenuto su autorità come servizio e autorità come potere. Mi chiesi se questi discorsi continuavano a essere validi per me, ora che ero

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divenuto vescovo, o se dovevano servirmi solo nelle prediche. Mi interrogai se fosse prudente sostenere da “ufficiale” teorie ascetiche che avevo seguito da “caporale”, e giunsi a doman-darmi se nella visione evangelica la prudenza della carne non avesse qualche diritto a controllare la libertà dello Spirito per-ché questi, abituato a soffiare dove vuole, non facesse pazzie o commettesse intemperanze.

(…) So certamente una cosa: che si va radicando in me, almeno a livello teorico, la convinzione che, tra le insegne pontificali, il cerimoniale liturgico della consacrazione dei ve-scovi dovrebbe prevedere, oltre all’anello, alla mitra e al pasto-rale, anche una brocca, un catino e un asciugatoio. E non cer-to per esigenze di copione o perché la Chiesa “del grembiule” sia un’immagine di più sicura presa emotiva. Ma perché è l’im-magine che meglio esprime la regalità della Chiesa, per la qua-le, come per Cristo, regnare significa servire.

In questo si esprime la sua autorità: lavare i piedi ai fratelli, perché, ristorati da un lavacro d’amore, si mettano con gioia alla sequela di Gesù Cristo, e il loro cammino sia più spedito, e le cadenze del loro passo assumano il ritmo della speranza.don Tonino

(novembre 1988)

I piedi di PietroSì, ce l’ha fatto capire Gesù: anche Pietro è un povero. Og-

gi più che mai. Anzi, per usare la terminologia corrente, ap-partiene alla classe degli ultimi. Noi non ce ne accorgiamo più, perché, a furia di difendere la tesi del “primato” di Pietro, ab-biamo perso di vista che egli è il capostipite di quell’ “ultima-to” di poveri verso cui Gesù ha sempre espresso un amore pre-ferenziale.

Sta di fatto, comunque, che, benché gli accoliti gli lavino ostentatamente le mani nei pontificali solenni, i piedi, però, non glieli lava nessuno.

(…) Povero Pietro. Forse sta scontando ancora gli effetti di quella iniziale resistenza, quando, sottratto l’umido calcagno alla presa del maestro, contestò caparbiamente: «Non mi lave-rai mai i piedi». La sua voleva essere un’affettuosa protesta ri-volta al Maestro. Ed è divenuta un’amara profezia rivolta al popolo dei suoi discepoli.

Carissimi fratelli, se vi scrivo queste cose è perché temo che, a Pietro oggi non gli si voglia molto bene.

Come se non bastasse il peso del mondo, gli incurviamo le spalle pure noi sotto il fardello delle nostre risse fraterne.

(…) Cadiamo una buona volta ai piedi di Pietro. Non per adorarlo, come fece il centurione Cornelio. Ma per lavarglieli, quei piedi. Oggi, specialmente, che sono così stanchi per il tanto camminare sulle strade del mondo.

Facciamogli sentire il tepore dell’acqua. Prendiamo l’asciu-gatoio che ha i profumi casalinghi dello spigo. Forse, mentre lo rinfrancheremo dalle sue fatiche con i gesti della tenerezza, cadute certe teorie puritane sullo spreco delle sue itineranze, ripeteremo pure noi i versetti di Isaia: «Come sono belli i piedi dei messaggeri che annunciano la pace!».

(…) Diamo cadenze d’amore trepido alla nostra implora-zione, come avveniva un tempo quando «era tenuto in prigio-ne, e una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui».

Stiamogli vicino, a questo nostro fratello ultimo, che forse più di ogni altro ha bisogno della nostra carità.

Forse, mentre l’acqua tintinnerà nel catino, egli proverà tanto ristoro dalla nostra appassionata premura, che ci mor-morerà all’orecchio, come quella sera fece con Gesù: «Non solo i piedi, ma anche le mani e il capo».don Tonino

(marzo 1989)

Compito dei profetiTra le cose che in questi ultimi tempi mi fanno interior-

mente soffrire di più, c’è quella specie di censura sorda, nasco-sta, ammiccante che mi sento gravare sull’anima ogni volta che, insieme agli altri vescovi “metto lingua” per denunciare il processo di militarizzazione della Puglia.

Una volta uno mi ha chiesto senza mezzi termini se, tra i doveri di un vescovo, ci fosse anche quello di sparare a zero contro i poligoni di tiro, o se il cerimoniale liturgico degli alti prelati prevedesse l’obbligo di dover brontolare contro le citta-delle militari.

Ci sono rimasto male. Non tanto per l’acido corrosivo dell’ironia. Quanto perché mi sono reso conto che l’immagi-nario della gente è lentissimo al cambio, e che certi stereotipi sono duri a morire. Sicché l’uomo di Chiesa che, scavalcando i recinti festivo-sacramentali del rito, invade la strada della fe-rialità e si sforza di illuminare il percorso con la luce della Pa-rola di Dio, è considerato non meno prevaricatore di uno stra-tega che pretenda di regolare lo svolgimento di una messa pontificale.

(…) Indicare l’assurdità di ogni guerra, visto che oggi essa si risolverebbe inesorabilmente in una catastrofe planetaria, è dovere dei pensatori. Sostenere che i soldi impiegati per co-struire bombe sono un furto perpetrato a danno dei poveri, è ufficio degli educatori.

Ma dire che ogni apparato di guerra, anche se non verrà mai messo in funzione, è una violenza profonda che corrode alla radice la logica del vangelo, è compito dei profeti. E guai ad essi se, temendo il compatimento dei benpensanti o arre-standosi dinanzi alle seducenti ragioni del buon senso, o sen-tendosi minacciare dall’accusa di fondamentalismo, o privile-giando il realismo dei piedi per terra sulla sacra ingenuità dell’utopia, dovessero pronunciare per metà l’unica parola, shalom, per la quale sono abilitati a parlare con forza.

(…) Il Signore liberi i suoi servi dalla tentazione del silen-zio, restituisca alla nostra Chiesa il coraggio di non operare riduzioni in scala nel suo annuncio mite e forte della pace. E le conceda la gioia di pronunciarne tutta intera la parola senza smorzarne le finali.don Tonino

(gennaio 1990)

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Un ruolo di raccordo tra la società civile e la comunità ecclesiale, sui temi della pace, del disarmo e della giustizia. È l’istantanea del movimento cattolico, scattata dal suo presidente alla vigilia del congresso nazionale, che titola “È l’ora della nonviolenza”.

a cura di Efrem Tresoldi

Stiamo sul confi ne

PAX CHRISTI / PARLA IL PRESIDENTE, MONS. GIOVANNI GIUDICI

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Campagna “Ponti e non muri” a Betlemme.

Mons. Giovanni Giudici.

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«Ho vissuto i tempi turbolenti del ’68 milanese come studente universitario, benché fossi già ordinato prete. Violenza e non-violenza erano all’ordine del giorno. In anni subito successi-vi, si è aperto il dibattito

sull’obiezione di coscienza alle armi, ed io me ne sono interes-sato seguendo allora l’Azione Cattolica, come assistente del settore giovani, nella Diocesi di Milano. Sono state tutte occa-sioni in cui riflettere e operare per una coscienza cristiana del-la pace. In quegli anni ho stretto amicizie che, penso, hanno portato alcuni membri di Pax Christi a segnalarmi come uno dei tre vescovi da proporre alla Conferenza episcopale italiana (Cei) quando il mio predecessore, mons. Tommaso Valenti-netti, dovette abbandonare l’incarico di presidente di Pax Christi Italia per ragioni di salute. Sono stato scelto dal Con-siglio permanente della Cei tra i nomi proposti dal Consiglio nazionale di Pax Christi, diventandone presidente nel novem-bre del 2009».

Mons. Giudici, vescovo di Pavia, racconta così il suo coin-volgimento con Pax Christi, che descrive come un «movimen-to leggero nella struttura e, pur diffuso da nord a sud, limitato nel numero di aderenti». E alle prese con una sfida: «Il passag-gio di testimone ai giovani, che sta impegnando notevoli ener-gie, anche perché si riempie un vuoto di proposte ecclesiali nell’ambito specifico dell’impegno per la pace, la nonviolenza e la giustizia».

Se gli si chiede che cosa lo incoraggia nel suo impegno alla guida di Pax Christi, mons. Giudici va subito al dunque: «An-zitutto vi è nella comunità cattolica italiana un certo numero di persone, potremmo dire una corrente di pensiero, che ha fatto propria la scelta della pace riconoscendola come una del-le sorgenti di vita cristiana che sgorgano, semplici e cristalline, dagli insegnamenti del vangelo. Questi cristiani stavano all’avanguardia delle esperienze di obiezione di coscienza al servizio militare; altri hanno coltivato negli anni la passione

per la pace, riflettendo sulle cause della violenza e della guerra, sostenendo le campagne contro l’uso delle armi, la costruzione delle armi e le scelte di utilizzare l’esercito per cosiddette mis-sioni di pace. Queste persone vanno rappresentate nella più vasta compagine ecclesiale ed è fondamentale dare loro voce. Vi è poi un secondo aspetto: il dovere di far conoscere il magi-stero della Chiesa a proposito della pace; si tratta di uno dei temi sui quali i Pontefici e la dottrina sociale della Chiesa si sono espressi con maggiore chiarezza. Questi capitoli della dottrina ecclesiale, sono di grande importanza per l’annuncio della fede con notevoli implicazioni educative e spirituali e vaste conseguenze sociali».

A fine aprile Pax Christi terrà il Congresso nazionale che indicherà il cammino da percorrere nei prossimi quat-tro anni: quali le priorità da affrontare?

Con lo slogan del congresso, “È l’ora della nonviolenza”, vogliamo richiamare lo stretto legame che c’è tra la ricerca del-la pace e il futuro di una società che sta trasformandosi veloce-mente. Dunque riflettiamo sul disarmo, sulla giustizia sociale, sulla democrazia e sulla dimensione mondiale della società in cui viviamo. La prospettiva da cui ci poniamo è la fede, perché essa garantisce che la ricerca della pace non sia una semplice utopia umana, ma invocazione del regno di Dio, del quale noi, oggi e qui, siamo chiamati a porre in atto qualche segno concreto e condivisibile.

Per questa ragione intendiamo rafforzare il nostro impegno per animare le comunità cristiane italiane nel coltivare sensibi-lità e itinerari di costruzione della pace. Lo facciamo attraverso varie “campagne” che promoviamo o condividiamo con altri soggetti; ci organizziamo attraverso la nascita di “Punti pace”, gruppi locali sparsi sul territorio nazionale che fanno opera di formazione e informazione. Essi sono collegati in tre aree: nord, centro, sud. Importanti sono i momenti di formazione che attuiamo come movimento attraverso convegni e congres-si; ci serviamo di un Centro studi e promuoviamo la rivista Mosaico di Pace, fondata da don Tonino Bello.

Continuiamo poi a proporre due scelte più specifiche: la nascita o rinascita delle Commissioni giustizia e pace nelle

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Banchetto di Pax Christi di fronte alla cattedrale di Westminster a Londra.

Atlanta (Usa). Pax Christi a sostegno del sindacato e della giustizia sul lavoro.

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diocesi e nella stessa Conferenza episcopale, e la presenza nelle scuole con iniziative formative per la nonviolenza e la pace, condizioni ed espressioni di una piena cittadinanza.

Don Tonino affermava che la pace «non è una delle mil-le cose che la Chiesa evangelizza. Ma è l’unico suo annun-cio…». Ci sono stati passi concreti che indichino come la pace sia oggi maggiormente al centro dell’attività dell’evan-gelizzazione? Se non ci sono, quali sono o possono essere gli ostacoli?

Vi sono alcuni temi presenti nella prassi pastorale ordinaria che si sono sviluppati negli anni recenti e che hanno affinità o persino rapporti di causa ed effetto a proposito della pace. At-torno a questi ambiti anche Pax Christi ha organizzato le sue iniziative. Ricordiamo per esempio lo sviluppo, nella sensibili-tà di molti cristiani, dei temi legati alla mondialità, al dialogo interreligioso e all’ecumenismo, alla carità mobilitata in favore di migranti e stranieri. Pax Christi ha posto inoltre attenzione alla sensibilità a proposito degli “stili di vita”, variamente arti-colata nel dibattito ecclesiale: vita semplice, stili alternativi, rispetto del creato.

Si comprende bene che si tratta di temi che erano presen-ti in maniera solo iniziale negli anni in cui operava don To-nino. All’epoca il movimento per la pace, e Pax Christi in esso, si è schierato e ha fatto maturare la contestazione alla militarizzazione del territorio, a cominciare dal sottrarre la straordinaria terra di Puglia all’invadenza di aeroporti milita-ri, e dal contrastare i siti missilistici in Sicilia. Allora, come si ricorda, su questi temi si registravano forti contrasti tra “pa-cifisti” e società statuale e civile. Don Tonino ne ebbe molto a soffrire.

È pure interessante riflettere e agire sugli ostacoli che im-pediscono alla pastorale di sviluppare tematiche di pace: in questo tema, come credo per altri aspetti della vita cristiana, ha molto pesato la scelta di dare centralità al dibattito sulle dimensioni morali della fede, i cosiddetti “principi non ne-goziabili”, piuttosto che sviluppare una attività formativa attenta agli aspetti teologici e spirituali della pace e della giu-stizia. Come in altri campi della vita della comunità cristiana italiana, anche per la pace si è badato soprattutto all’aspetto civile, alle conseguenze che la tensione alla pace aveva sulle missioni militari, sulle alleanze internazionali. Nella linea etico-pragmatica caratteristica della pastorale della comunità cattolica, meno ci si è preoccupati di richiamare l’aspetto ideale e la dimensione formativa e spirituale che invece sono tipiche della pace, come scelta che parte dalle coscienze, pas-sa attraverso la riconciliazione come scelta positiva, tocca infine le strutture del conoscere e dell’organizzare la società.

Come agisce Pax Christi di fronte all’aumento delle spese militari, della produzione e commercio di armi in Europa e in Italia?

La produzione e il commercio delle armi è uno degli aspet-ti su cui più immediatamente ci si può impegnare, nell’opera-re per uno sviluppo della sensibilità a proposito della pace. E così Pax Christi tiene monitorato questo tema, richiamandolo spesso nei comunicati e in particolare, in questi ultimi mesi, sostenendo la campagna contro gli F35. In particolare abbia-mo celebrato un Convegno sulla produzione e il commercio delle armi a Brescia, zona di alta produzione bellica, il 29-30 dicembre del 2011. È stata una vera miniera di richiami e di scoperte molto interessanti, perché su questo tema l’opinione pubblica viene tenuta all’oscuro. Tuttavia vi è una legislazione favorevole alla trasparenza sui temi della produzione e del commercio. Ma occorre esercitare una pressione costante da parte dell’opinione pubblica.

Nel gennaio del 2010 abbiamo organizzato a Roma con la Cei un convegno sul tema della produzione delle armi. Nel gennaio scorso, sempre coinvolgendo la Cei, abbiamo invece celebrato i quaranta anni dal riconoscimento della obiezione di coscienza nella legislazione italiana, coinvolgendo in questa celebrazione e ricordo, la Chiesa italiana.

Quali le campagne promosse attualmente da Pax Chri-sti? E sulla questione della smilitarizzazione dei cappellani militari per la quale si era battuto anche don Tonino?

Dalla campagna “Ponti e non muri” a quella delle “Ban-che armate”, gli impegni devono avere sempre una proposta concreta di azione. Per quanto riguarda i cappellani milita-ri, il movimento continua a intrattenere rapporti di dialogo

con singole persone, nella persuasione della neces-sità di distinguere la cura pastorale e spirituale degli addetti all’esercito, dalla condizione di appartenenti alle forze armate che è con-dizione caratteristica dei cappellani.

La spiritualità della pace è alla radice di un impegno serio per chi vuole essere costruttore di pace. Quali sono le ini-ziative di Pax Christi in questo ambito?

La ricchissima eredità di una spiritualità che ma-

L’anima attesa, recentemente prodotto da Pax Christi Italia e Mosaico di Pace, è un fi lm ispirato a don Tonino.Info:docufi [email protected] [email protected]

È NECESSARIO SVILUPPARE UNA ATTIVITÀ FORMATIVA ATTENTA

AGLI ASPETTI TEOLOGICI E SPIRITUALI DELLA PACE E DELLA GIUSTIZIA.

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tura costruttori di pace, ci impegna nella vita ordinaria della comunità ecclesiale sempre con l’attenzione a far lievitare i segni di una invocazione di giustizia o i germi della riconci-liazione. Iniziative di preghiera, veglie, giornate particolari, così come l’iniziativa “Dodici raccolti”, ci impegnano nel proporre itinerari di preghiera per la pace in cui coinvolgere sia gli aderenti sia le comunità in cui ci si ritrova a pregare, ad esempio anche i monasteri. Abbiamo attuato momenti di confronto sul tema della storia della dottrina della pace nella comunità cristiana, in particolare nella ricorrenza del concilio Vaticano II. Oggi la riflessione teologica su questo tema riguarda il modo di considerare la natura della pace alla luce di un continuo rinnovamento ecclesiale.

Essa è solo da considerare come opus justitiae, la pace è espressa solo come tranquillitas ordinis, oppure occorre parlare della “pace del Signore”, e quindi chiederla come suo dono, in prospettiva escatologica? In questa nuova lettura, la costruzio-

ne della pace comporta per il cristiano che ama la pace, un continuo esercizio di prassi nell’impegno per eliminare i fatto-ri di conflitto, e quindi la denuncia delle ingiustizie e l’apertu-ra al tema del ruolo della comunità internazionale. Per costru-ire la pace occorre uno sviluppo economico che porti giustizia nelle diseguaglianze che lacerano il pianeta, e una attenzione alla cura per la vita piena di ogni persona.

È evidente ormai, e lo ricorderemo ancora con le iniziative per i 50 anni della Pacem in terris, che si pone pure in maniera nuova il tema della “guerra giusta” non più primariamente co-me una minaccia di distruzione atomica globale, ma piuttosto come lo svilupparsi di una produzione bellica folle e nel com-mercio dissennato delle armi. Non è secondario, in questo punto, riflettere seriamente sui cosiddetti interventi militari umanitari, e mettere sotto critica la loro effettiva efficacia. Ma su questo punto occorre poter intervenire nelle grandi scelte dell’economia e della politica. O si farà insieme, con una alle-anza tra le nazioni, o saranno vane parole di lamento.

Quali sono i punti forza, le debolezze e le sfide del mo-vimento?

«Pax Christi è un movimento di cerniera tra i grandi pro-blemi teorici della pace, della giustizia, dei diritti umani, del-la qualità della vita, e le concrete comunità ecclesiali: parroc-chie, gruppi, associazioni». Già don Tonino Bello evidenzia-va la grande opportunità che viene offerta al tema della pace dalla presenza istituzionale nella Chiesa in Italia. Il fatto stes-so che la Cei nomini il presidente di Pax Christi, e che venia-

mo interpellati per attività che sono comuni anche alla Cari-tas e all’Ufficio Cei per il sociale, ci consente una certa visi-bilità. Un secondo aspetto positivo lo rilevo nel decentra-mento associativo, per il quale ogni gruppo si organizza e si muove con responsabilità e autonomia propria. Tra le debo-lezze rimarco in special modo il numero limitato degli ade-renti e la struttura tutta sostenuta dal volontariato, con evi-denti fatiche di collegamento e di presenza nei luoghi e nei momenti del dibattito ecclesiale.

La sfida che riteniamo più decisiva riguarda la legittimità, il significato e il valore di un movimento per la pace nella comunità cattolica italiana. La varietà delle istanze che ci ve-dono impegnati – economia democratica, dignità delle lotte di resistenza nonviolenta per i popoli oppressi dalle ingiusti-zie, in Palestina come in America latina, le attività per i beni comuni come la Campagna per l’acqua, l’attenzione all’ecu-menismo, gli impegni di preghiera e formazione, l’advocacy del Sud Sudan e del popolo sahrawi – ci consentono di stare sul confine, figurativamente inteso, tra società civile e comu-nità ecclesiale. Ci auguriamo che un lavoro paziente e capace di presenza nelle comunità parrocchiali e diocesane possa fruttare una più viva coscienza della pace sia nella Chiesa che nella società italiana.

LA COSTRUZIONE DELLA PACE COMPORTA, PER IL CRISTIANO CHE AMA LA PACE,

UN CONTINUO ESERCIZIO DI PRASSI NELL’IMPEGNO PER ELIMINARE I FATTORI DI CONFLITTO,

E QUINDI LA DENUNCIA DELLE INGIUSTIZIE E L’APERTURA AL TEMA DEL RUOLO

DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE.

M. B

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Don Tonino nel 1992 a Sarajevo per la “Marcia dei 500”.

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