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1 I parte Lancelot en prose e l’ Europa dei romanzi

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I parte

Lancelot en prose e l’ Europa dei romanzi

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Siamo nel 1646, 1Jean Chapelain, membro dell’academie francaise è sorpreso da due amici: l’erudito Jean Menage e il poeta Jean Francois Sarasin mentre si accinge a immergersi nella lettura di un volume di Lancelot en prose di cui possiede nella sua biblioteca ben due edizioni a stampa. Alla reazione inorridita di Menage, fautore della classicità, che definisce il Lancelot un’”orrenda carcassa”, Sarasin di contro ribatte che il Lancelot è «la fonte di tutti i romanzi che negli ultimi 400 anni hanno avuto successo in tutte le corti europee ed hanno impedito che la barbarie occupasse il mondo intero”. E se Chapelain che si era spinto fino a paragonare il Lancelot alle opere d Omero e a suggerire che lo stesso Aristotele lo avrebbe apprezzato Menage incalza: ”Attraverso un libro come il Lancelot diventiamo amici intimi di quei personaggi fino a cogliere l’essenza stessa delle loro anime ».Questo piccolo aneddoto letterario, raccontato da Chapelain stesso Nella Lecture de Vieux Romaines,  sembra porre l’accento su un capitolo importante della ricezione dell’opera: il riconoscimento del Lancelot come grande modello europeo per la tradizione successiva, ma anche come motore di civiltà per i secoli a venire e infine la capacità propria del testo di avvincere il lettore di creare quel legame con i protagonisti che i lettori delle grandi saghe romanzesche ben conoscono. Ma prima di fermarci sull’ ineludibile ruolo giocato da questo testo in un’ideale canone della letteratura europea sarà opportuno presentare rapidamente il testo: sotto il nome di Lancelot-Graal facciamo riferimento ad un ciclo formato da 5 romanzi, sorta di summa arturiana che raccoglie storie originariamente indipendenti databile intorno al primo quarto del XIII secolo: il Lancelot propre che va dalla infanzia di Lancillotto, rimasto ancora neonato orfano di padre e che verra cresciuto da una misteriosa fata , la dama del lago, fino al suo trionfo come il più grande dei cavalieri e amante della regina, la Queste che si concentra sul personaggio del figlio di L. Galeotto, cavaliere purissimo cui solo spettera il privilegio di portare a compimento al più grande delle avventure: la contemplazione dei misteri del graal e infine la Mort Artu vero e proprio crepuscolo del mondo arturiano che vedrà la morte di Artu ucciso per mano di suo figlio incestuoso e la morte in un eremo di L.1 Cfr Carlo Guinzburg Il filo e le tracce, 2006

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A questa triade verranno poi aggiunti in un secondo momento, a scopo di grande preambolo, l’ Estoire e il Merlin rielaborazione di testi in versi di Robert de Boron Si tratta dunque di un ciclo formatosi nel tempo grazie all’abile lavoro dell’architetto o degli architetti che nel tempo sono intervenuti sui testi che lo compongono per costruire raccordi, richiami, riprese e creare una configurazione il più possibile coerente delle unità narrative la cui coesione è bene subito dirlo pur nella differenza di gusti e sensibilità è certamente garantita dall’approccio biografico. La fortuna EUROPEA dell’opera è ben documentata dalla ricchissima e articolata galassia manoscritta, che sfiora i 100 testimoni e che si snoda ininterrotta per almeno tre secoli per poi consegnarsi alle stampe2, una lunga durata durante il quale il testo ha assunto fisionomie diverse sia per quel che riguarda il suo assetto materiale, sia per i criteri di selezione adottati dai compilatori e ancora sul piano della diverse redazioni della storia veicolate nei testimoni3. Se dunque ogni manoscritto è unico e irripetibile e portatore di scelte e bisogni precisi questo è tanto iù importante quando si scelga di esplorare un genere che certamente è codificato nel Medioevo ma diventerà il genere per eccellenza della modernità. Questa mobilità testuale è tutta ancora interna al XIII quando quei caratteri già presenti nel romanzo in versi del secolo precedente di stampo classico e bretone, si affermano e si stabilizzano attraverso la forma prosa indice di una volontà di fare del romanzo un genere più aperto e tale da inglobare branche diverse del sapere e che s’impone come portatrice di verità grazie alla coerenza e alla sistematica narrazione dei fatti sul modello della prosa per eccellenza: la Sacra Scrittura. In questa direzione è bene tenere conto che la storia si costruisce internamente alla materialità del libro, libro come oggetto concreto che propone un tempo interno e lo scandisce, attraverso il paratesto, il corredo di miniature le iniziali che scandiscono la storia, ma anche selezionando e montando diversamente le sezioni che compongono la vicenda

2 Per la tradizione manoscritta si veda Micha, 1960-1963.3

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Così proprio la complessità e ricchezza della tradizione manoscritta e l’intreccio di redazioni diverse conservate propongono tre diverse direzioni che la storia dell’eroe prenderà nel tempo: l’una legata alla visione di un Lancillotto come il più grande cavaliere arturiano e amante della regina Ginevra, propria di quei codici che riportano solo la parte centrale del ciclo e probabilmente la più antica l’altra , quella dei manoscritti che propongono l’intera triade volta a seguire l’intera parabola della vita dell’eroe che sconta il suo fallimento di cavaliere tutto legato alla terra e che di fronte al disfacimento del grande sogno arturiano sceglie di concludere santamente la sua esistenza ed infine quelli che recano l’intero ciclo dove la storia è inserita in un più ampio quadro della storia della salvezza che principia dalla morte di Cristo. Ecco così che il romanzo diviene il serbatoio di storie, di eroi e soprattutto ed è su questo che vorrei lavorare veicolo di civiltà. Scegliere in particolare di soffermarsi sul Lancelot propre significa scegliere un testo che già presenta i tratti distintivi del genere romanzo che verrà considerato il genere fondativo della modernità, i cui tratti, secondo Moretti sono rappresentati da una notevole complessità anche grazie alla tendenza alla digressione, l'enciclopedismo, una polifonia che può spingersi fino a diventare dissonanza, così da mimare la molteplicità del reale.Ora se questi tratti sono già tutti presenti nel romanzo arturiano, ritengo che l’eredità più importante del grande ciclo del Lancelot Graal sia rappresentato dalla scelta verso una parola civilizzatrice: proporre una riflessione in forma narrativa intorno alla regalità, alla fede, amicizia, amore, coraggio, e dunque prendere atto che il romanzo, sin dalla sua genes, si pone come un genere capace di affrontare l’uomo e la sua interiorità. La struttura narrativa diviene in questa direzione portatrice di senso attraverso il raffinato uso del cosiddetto entrelacement un meccanismo che attraverso un’alternarsi sapiente di sospensione del flusso narrativo e ripresa, riesce a intrecciare centralità della stria e sue coaperture all’esterno, anche grazie a quel potente mezzo di coesione dato dal modello biografico. Ma nella storia di una vita che come ogni vita è percorso complesso dove alberga il buono e il cattivo, dove c’è spazio per il dubbio, dove ci può essere caduta e redenzione, è la relazione l’incontro

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Come sappiamo il romanzo di formazione viene ritenuto -mi riferisco ancora per esempio ai bei lavori di Franco Moretti, ne Il romanzo di formazione (Einaudi 1999), uno dei filoni fondamentali del romanzo dell’Ottocento e si caratterizza con la collocazione al centro dell'evoluzione del protagonista verso la maturazione e l'età adulta e dove la crescita psicologica passa attraverso l'integrazione sociale del protagonista. Il romanzo di formazione si intreccia ad un’altra tendenza: quella di raccontarne emozioni, sentimenti, progetti, azioni viste nel loro nascere dall'interno. Ora è ancora Chretien de Troyes con il fortunato romanzo del conte du Graal ad inaugurare il romanzo di formazione attraverso l’immagine non solo di una vita ma di una crescita che si lega progressivamente alla ricerca dell’identità E in effetti, uno dei temi fondanti del Lancelot en prose è rappresentato dalla conquista dell’identità, da intendersi proprio come scoperta del nome da parte del protagonista. La storia inizia infatti dalla morte del padre di Lancillotto, successivamente strappato dalle braccia della madre e allevato da una donna/fata che lo cresce nel misterioso e inquietante spazio del lago. Ma se il protagonista dovrà aspettare per conoscere il suo nome di imbattersi in una lapide cimiteriale strategicamente posta dopo l’avventura della dolorosa guardia (p. 339), il lettore invece si trova davanti ad un testo che inizia offrendo coordinate riconoscibili per il personaggio:VI, 1 Li rois Bans estoit viex hom, et sa feme jovene et molt estoit bele et boine dame et moult amee de boines gens; ne onques de lui n’avoit eu enfant que .I. tout seul qui valés estoit et non Lancelos en sournon, mail il avoit non en baptesme Galaaz. (LM, VII, I, 1) Il re Bans era un uomo vecchio e la regina sua moglie era una donna giovane e bella ed erano entrambi molto amati dalla brava gente. E il re Ban suo signore non poté avere da lei nessun figlio tranne un fanciullo che Aveva il nome di Lancillotto ma come nome di battesimo si chiamava Galaad.

Ecco allora che sin dall’inizio della storia si presenta un personaggio segnato da un duplice nome, dove però il secondo nome: Galaad coincide con il nome del figlio, il cavaliere purissimo che egli concepirà provvidenzialmente con una fanciulla predestinata credendola grazie ad un filtro l’amata Ginevra. Sarà lui: Galaad a portare a compimento ciò che il padre per la sua lussuria non potrà realizzare: contemplare i misteri del Graal. Così il doppio nome, l’uno afferente

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alla sfera del sacro, l’altro del profano lo rendono destinato ad inverarsi in colui che verrà, ad essere figura imperfetta del cavaliere celeste che sarà suo figlio E’ quasi come se a partire da queste premesse si aprissero allora due diverse possibilità: l’una centrata su una storia tutta profana dove Lancillotto appare come l’eroe assoluto in cui tutto converge: amato e amante per eccellenza e il più grande cavaliere; l’altra una biografia che ha il respiro narrativo di una vita, vita che si costruisce a partire da relazioni orizzontali (amici, nemici ecc..), ma anche verticali (il figlio, il destino futuro) e che si chiuderà alla fine della Mort Artu sulla morte santa dell’eroe. Ed ecco che nelle maglie di una storia profana si insinua un discorso altro che si intreccia alla trama della vicenda conferendo alla parola romanzesca lo spessore di una parola civilizzatrice. Una parola che ruota intorno a temi nodali come la regalità, il potere, l’amore, la morte destinati ad imorimersi nel ostro immaginario di europei.Mostrerò questi aspetti attraverso due figure la cui presenza nella storia è strettamente legata a L. e che giocano un ruolo essenziale nel percorso di formazione di L.: Ninienne la dama del lago, una fata che rapirà L. neonato dalle braccia della madre appena rimasta vedova e lo crescerà nello spazio incantato del lago e Galeotto, signore delle isole lontane, l’amico e forse innamorato di L. In entrambi l’amore che nutrono per Lancillotto si declina attraverso un grande spazio dato alle emozioni e si intreccia ad una nuova idea di nobiltà, che rappresenta una novità importante costituendo per l’Europa dell’epoca una vera educazione sentimentale e civile tutta giocata sulla centralità del cuore come centro pulsante dell’interiorità dell’individuo.Questo cuore che in L. diviene segno distintivo direi fisico della sua persona come vediamo già nella descrizione del corpo dal petto quasi sproporzionato, rispetto all’armonia perfetta delle sue membra perché destinato ad accogliere un cuore dalla dimensione smisurata.Ma ecco le trame familiari con le loro ben note complessità imporsi prepotentemente sulla scena atverso la dama del lago, che ricordo rapisce Lancillotto neonato, lo ama come un figlio, ma, diversamente dalla madre di Perceval in Chretien de Troyes, sa che il figlio non gli appartiene, sa che compito di una madre è lasciare che il figlio vada per la strada che lo attende,

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che solo fino ad un certo punto può essere lei, anche attraverso i precettori, a guidare il cammino Arriva il momento del distacco come le ricorderà lo stesso L.:

1. Mais anchois que je m’en aille, voel je bien que vous sachiés que cuers d’omme ne puet a grant honour venir, qui trop longement est sous maistre ne sous maistresse, car il le covient souvent trambler; ne endroit de moi n’ai je cure de maistre de signour, ne de dame ne di jou mie. (LM VII, IX, 20)

Ma prima che io me ne vada voglio che voi sappiate che cuore d’uomo non può raggiungere un grande onore se troppo a lungo rimane sotto il controllo di un maestro o di una maestra, perché troppo spesso deve provare soggezione…

La dama dunque è anche colei che lo guida e lo accompagna verso la scoperta dell’identità, lo accompagna amandolo e accettando che il figlio voglia farsi signore di se stesso Et des ore mais voel je que vous soiés de vous sire et maistres (LM VII, IX, 22)E d’ora in poi voglio che voi siate sire e maestro di voi stessoche sembra preannunciare la famosa affermazione di Virgilio nel XXVII canto PG quando, ormai giunto alle soglie del Paradiso terrestre, si congeda dal suo discepolo Dante:Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: 

per ch’io te sovra te corono e mitrio».  (Pg. XXVII, 139-142)

Seppure con il cuore gonfio di dolore, Ninienne sa che lo deve lasciare andare, pena il commettere un grande peccato, si osservi il riferimento al peccato mortale:

2. Et s’ele le peust encore delaier de prendre chevalerie, ele le feist moult volentiers, car a moult grant paine se porra consivrer de lui, car toutes amours de pitié et de noureture i avoit mis. Mais se ele outre son droit eage le detenoit d’estre chevalier et l’en destournoit, ele feroit pechié mortel si grant comme de traïson, car ele li taudroit chou a quoi il ne porroit recouvrer legierement. (LM VII, XXI a, 1)

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E se lei avesse potuto rinviare il momento di diventare cavalliere lo avrebbe fatto molto volentier, perché con grandissima pena si separerà da lui perché in lui ha riposto ogni amore nell’accudirlo pietosamente e nel nutrirlo. Ma se leigli avesse impedito di diventare cavaliere oltre l’età giusta e lo avesse sviato avrebbe commesso un peccato mortale grave come un tradimento… Ed ecco un giorno la dama fissare lo sguardo sul figlio come se lo vedesse per la prima volta, come se improvvisamente si rendesse conto di avere davanti un uomo e la reazione è quasi del dolore di un’innamorata che sa che l’oggetto del suo amore le verrà tolto. Lancillotto chiede ragione dell’attitudine dolente della dama e questa scoppia in singhiozzi come un’amante che vede infrangersi il suo sogno d’amore, ma di fronte al desiderio del giovane di andare alla corte dove tutti divengono cavalieri, non può che accettare perché sono parole di Lancillotto stesso (p. 247)“sarebbe proprio di un cuore vile rinunciare a ciò che si può ottenere, perché se il corpo possente è un dono di natura il cuore buono è esercizio di volontà:e aggiunge:Mais les teches del cuer m’est il avis que chascuns les poroit avoir, se pereche ne li toloit, car chascuns puet avoir cortoisie et debonaireté et les autres bien qui del cuer muevent, che m’est avis: por che quit je que l’en nel pert se par pereche non a estre preus, car a vous meismes ai je oï dire pluseurs fois que riens ne fait le preudome se li cuers non. (LM VII, XXI a, 10) Ma le qualità del cuore ritengo che ognuno potrebbe averle se la pigrizia non gliele togliesse, perché ognuno può avere cortesia e bontà e gli altri beni che muovono dal cuore; (…) Perché io stesso vi ho più volte sentito dire più volte che nulla fa un uomo valoroso se non il cuore

Così il rito della separazione si tramuta poi in una straordinaria lezione sulla storia della cavalleria, e sul valore di questa classe le cui funzioni sono perfettamente sintetizzate nella portata simbolica delle sue armi:

Et saciés que au conmenchement, si com tesmoigne l’Escriture, n’estoit nus tant hardis qui montast sor cheval, se chevaliers ne fust avant, et por che furent il chevalier clamé. Mais les armes que il porte et que nus qui chevaliers ne soit ne doit porter, ne furent pas donnees sans raison, ains i a raison assés et moult grant senefiance… (LM VII, XXI a, 11-12)E sappiate che all’inizio, così come testimonia la Scrittura, non vi era nessuno tanto ardito da montare a cavallo, se non fosse prima stato nominato

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cavaliere, e dal cavallo furono chiamati cavalieri. Ma le armi che porta, che nessuno se non è cavaliere ha diritto di portare, non furono date senza ragione ai cavalieri, anzi vi è una ragione e un significato da cercare in profondità.

Così la ricerca della ratio raison e della senefiance sottesa ad ogni arma che il cavaliere porta proietta l’oggi del cavaliere senza nome in una storia che è storia scritturale:Li escus qui au col li pent et dont il est covers par devant senefie que autresi qu'il se met entre lui et les cous, autresi se doit metre li chevaliers devant Sainte Eglise encontre tous malfaiteurs, ou soient robeor ou mescreant…(LM VII, XXI a, 12)Lo scudo che è appeso al collo e da cui è coperto davanti, significa che come lo scudo si pone fra lui ed i colpi altrettanto deve porsi il cavaliere davanti alla santa Chiesa contro tutti i malfattori, fra i quali sono ladri e miscredenti…

Gli oggetti dunque non appaiono come realtà menzognere o puri simboli ma oggetti concreti che rappresentano ad un tempo se stessi ed il loro significato riposto, la semblance rinvia ad una senefiance talora non ovvia che ancora una volta ci richiama alla centralità del cuore:***Le chevaliers doit avoir II cuers, l’un dur et serei autresi com aimant et l’autre mol et  ploiant autresi comme syre caude. Chil qui est durs com aymans doit ester encontre les desloiaus et les felons, car autresi com li aymans ne sueffre nul polissement, autresi doit ester li chevaliers fel et cruex vers les felons qui droiture depiechent et empirent a lor pooirs; et autresi com la cyre mole et caude puet ester flequie et menee la ou on le veut mener, autresi doivent les boines gens et pitex mener le chevalier a tous les  poins qui apartiennent a deboinareté et a douchor. (LM VII, XXI a, 12)

Il cavaliere deve possedere due cuori, l’uno duro e serrato come il diamante e l’altro morbido e flessibile come cera bollente. Quello che è duro come il diamante deve essere usato contro le genti sleali e fellone (…) ed altrettanto come la la cera morbida e bollente può essere piegata e condotta dove la si vuole condurre, altrettanto devono le genti buone e pietose condurre il cavaliere4 verso tutto ciò che appartiene a bontà e dolcezza.

La lunga glossa sul compito del cavaliere è una delle prime, significative digressioni della storia, una digressione che restituisce al testo un’impronta

4 cheline de Combarieu du GrèsLe Lancelot comme roman d’apprentissage Enfance, démesure et chevalerie*

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fortemente didascalica educativa e, non a caso, la lezione sulla cavalleria verrà ripresa da Raimondo Lullo grande mistico catalano del 300 che tra il 1274 e il 1276 scriverà un trattatello per fortificare gli ideali cristiani del ceto militare del secolo XIII, e ha avuto una considerevole fortuna letteraria.Il Libro dell’ordine della cavalleria consta di sette capitoli, che trattano rispettivamente: l’origine e nobiltà della cavalleria; la descrizione dell’ufficio di cavaliere; l’esame dell’aspirante cavaliere; il cerimoniale della vestizione; il simbolismo delle armi offensive e difensive; i costumi propri del cavaliere e l’onore che si deve al cavaliere.

Ma il compito della dama è più complesso la psicanalisi lo sappiamo tutto a sempre esplorato luci e ombre del materno e in particolare Lacan ha messo in guardia dalla madre bocca-di-coccodrillo che anziché lasciar andare il figlio lo vorrebbe divorare, mentre solo chi sa perdere chi ha generato (o accudito e allevato) può essere una madre autentica, e Ninienne è ad un tempo madre che restituisce un’identità e madre che libera. Sarà lei ad accompagnarlo alla corte di Artù e ad affidarlo, salvo poi come Venere con Enea intervenire nei momenti cruciali della sua vita per restituirgli conforto e guida e per aiutarlo a riprendere la via che la sua vocazione gli impone. Il secondo personaggio dove si realizza l’intreccio fra amore per Lancillotto e forte istanza civilizzatrice capace di veicolare anche valori che diverranno fondativi per la nostra lettura del mondo, è un personaggio noto ai più grazie alla menzione che ne fa Dante nel V canto dell’Inferno: Galeotto signore delle isole lontane uno dei protagonisti più affascinanti del grande ciclo del Lancelot Graal. Come tanti eroi del mito egli proviene dalle Isole lontane, dunque da quegli spazi isolati, luoghi dell’alterità, “sires de tous ces gens devers” circondati dall’acqua dalle forti risonanze simboliche. La sua statura gigantesca, egli è definito come il figlio della Bele Jaiande, sembrerebbe trascinare con sé la figura ferina del gigante, del mostro smisurato e aggressivo contro l’altro diverso da sé. In realtà egli appare sulla scena circondato da quei valori di nobiltà, coraggio e prodezza che attraversano la letteratura cavalleresca nelle sue diverse declinazioni. Pronto a conquistare il regno di Artù egli decide di

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rinunciare all’ambizioso progetto quando a sfidarlo compare un giovane di cui ignora il nome: Lancillotto del Lago. L’eccezionale valore del cavaliere innominato lo colpisce al punto tale che accetta di piegarsi ad una pace vergognosa pur di ottenere l’amicizia di Lancillotto. Galeotto, infatti, di fronte alla grandezza del giovane innominato, non solo è colto da uno stupore carico di rispetto, ma è invaso da un crescente desiderio di tenere L. con sé, e come un amante di fronte a midons, come un vassallo di fronte ad un re, sceglie per sé un vincolo, quello di non separarsi mai più da Lancillotto.Così l’uomo dalla mole smisurata abbandona i panni del guerriero per vestire quelli dell’innamorato pronto a cedere potere, ricchezze, onore pur di avere con sé l’amato: ***«Biaus dols amis, remanés encore et ne quidiés pas que je vous voeille decevoir, car vous ne savrois ja rien demander que vous n'aiés por remanoir; et sachiés que vous porrés bien avoir compaignie de plus riche homme que je ne sui, mais vous ne l'avrés jamais a homme qui tant vous aint. Et puis que je feroie plus pour vostre compaignie avoir que tous li mons, bien la deveroie dont avoir sor tous les autres. (LM VIII, LIIa, 64) («Bello e dolce amico, rimanete ancora e non crediate che io voglia ingannarvi, perché non c’è nulla che voi potreste chiedermi che non otterreste purché rimaniate; e sappiate che voi potreste certo avere la compagnia di uomini più potenti di quanto non sia io, ma voi non potete avere un altro che vi ami così tanto. E dal momento che io farei qualsiasi cosa pur di avere la vostra compagnia, davvero merito di ottenerla su chiunque altro).

In nome di questo sentimento, che vede prevalere l’amore sulla potenza, sulla ricchezza, sugli onori, egli riscrive le coordinate stesse della sua vita secondo nuovi parametri e se prima tutto il suo essere era teso alla brama di conquista ora l’unica cosa che conta è l’adesione assoluta e incondizionata ai desideri dell’amato. Così quando i re alleati, invitati a piegarsi al nemico per eccellenza, Artù, lo mettono in guardia dal compiere azioni di cui potrebbe pentirsi, egli risponde:Quidiés vous que je me bee a repentir? Se tous li mondes estoit miens, se li oseroie je tout doner (LM, VIII, 66)Credete voi che io possa pentirmi? Se pure tutto il mondo mi appartenesse, io oserei donarglielo interamente

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Ed ancora nelle parole che in seguito Galeotto rivolgerà all’amico appare chiaro come la smisurata ambizione, quasi una smania di onnipotenza, appaiono sotto una luce tutta diversa dopo l’incontro con Lancillotto: *** Et il meismes en descovri son corage a Lancelot et dist que, a l'ore que la guerre commença, baoit il a tot monde conquerre: et bien i parut, kar il fu a vint cinc ans chevaliers et puis conquist il .XXVIII. roialmes et a trente noef ans fu la fin de son aage. Mais de totes ces choses le traist Lancelos ariere et il li mostra bien, la ou il fist de sa grant honor sa grant honte, quant il estoit au desus le roi Artu et il li ala merci crier (LM I, I 2) (Ed egli stesso aprì a Lancillotto il suo cuore e disse che nel momento in cui la guerra cominciò aspirava a conquistare tutto il mondo. ( E in effetti così sarebbe andato, perché egli divenne cavaliere a 25 anni e poi conquistò 28 regni ma a 39 anni concluse la sua esistenza.) Ma da tutte queste cose lo allontanò Lancillotto come dimostrò chiaramente nel momento il suo grande onore si trasformò nella sua grande vergogna: lui che era al di sopra di Artù andò a implorare pietà).

Appare così chiaro che la vera figura del civilizzatore appartiene a Galeotto, e che il figlio della gigantessa è colui che supera la violenza in nome di un’altra idea: il potere non è avere ricchezza ma essere ricco di affetti e di valori e sembra quasi di sentire risuonare il monito paolino Prima epistola ai Corinzi, I, 17-31”    Il linguaggio della croce infatti per coloro che si perdono è follia (moría), ma per coloro che si salvano, …, è potenza divinaLeggiamo ancora uno stralcio di questo intenso dialogo:***Lors respondi il que il n'avoit onques tant gaaignié ne tant d'onor conquise, «kar il n'est pas, fet il, richece de terre ne d'avoir mais de preudome, ne les terres ne font mie les preudomes, mais li preudome font les terres et riches hom doit tos jors baeer a avoir ce que nus n'a.» En ceste maniere torna Galehout a savoir et a gaaing ce que li autre tornoient a perte et a folie, ne nus n'osast avoir cuer de tant amer buens chévaliers com il faisoit (…) (LM I, I 3)(Allora egli rispose che non aveva mai guadagnato tanto, né mai conquistato tanto onore, «perché non è –disse- ricchezza (possedere) terre o beni, ma essere uomini di valore, né sono le terre a rendere gli uomini di valore, ma sono gli uomini di valore che fanno le terre e un uomo ricco deve sempre desiderare di avere ciò che nessuno ha». In questo modo volse a sapere e a guadagno ciò che gli altri ritengono privazione e follia né nessun altro aveva cuore di amare tanto un cavaliere buono come faceva lui)

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E così il tragico crollo di un sogno di Potenza tutta esteriore, affidata al possesso di beni materiali, diviene straordinaria occasione di una dichiarazione dell’assoluta superiorità del sentimento d’amore come spiega Galeotto all’amico in un ragionameno che muove dalla libertà del suo cuore da tutto ciò che esula dall’amore:Bials doz compains-fait Galehols- mes cuers ne devise de nule dolour ne de paour qui me puisse avenir fors de vous et de moi, et autant j’ameroie la mescheance de l’un com de l’autre; et j’ ai mise toute m’amor en vous ne aprés vostre mort ne me laist ja Dix vivre. (p. 934)Bello e dolce amico- replicò G.- il mio cuore non è oppresso da alcun dolore né da alcuna paura che possa toccarmi salvo ciò che riguarda voi e me, ed io tanto soffrirei il vostro male quanto il mio*, io nutro per voi un così grande amore che chiedo a Dio di non farmi sopravvivere alla vostra morte.

Vediamo dunque come il romanzo in prosa –sin dalle sue più antiche manifestazioni- assuma su di sé un compito importante: quello di intrecciare alla fictio narrativa una “ parola utile, esemplare, - riprendo qui quanto ha scritto Patrizia Serra- che rivesta una precisa funzione sociale ed offra modelli di comportamento” (La parola utile p. 16). Ed è qui evidente come si rimettano in gioco quegli elementi su cui si fonda la letteratura cavalleresca: l’avventura, il potere, la conquista di un’identità e si vogliano di contro svelare invece le tragiche conseguenze di una visione del mondo basata sulla volontà di potere, sulla violenza. Ma è un amore che, liberandosi dall’attenzione concentrata sul proprio cuore si apre al mondo sentimentale dell’altro riuscendo empaticamente a “sentirne” in profondità le emozioni fino a coglierne ogni sfumatura. Così assistiamo ad un giovane L che al nome della regina è invaso dalla forza del pensiero di lei e perde ogni contatto con la realtà.Il pianto al pensiero della regina non ha tregua nemmeno nello spazio sospeso del sonno/sogno, e Galeotto accorato non può che riconoscere i segni fin troppo palesi del dolore d’amore che si imprimono sul viso di Lancillotto sfatto dalle lacrime al pensiero della regina:

Et quant il l’ot, si est si angoisseus que il ne li pot mot dire, si s'akelt a plorer si tres durament comme se il veist morte la rien el monde que il plus amast et fait tel duel que par.I. poi que il ne se pasme. Et Galahos le court prendre entre

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ses bras, si li baise le bouce et les iex et le conforte moult durament et li dist: «Biaus dous amis, dites moi vostre mesestance...» (LM VIII, LIIa, 80) (E quando egli l’ode, è così angosciato che non riesce a dire una parola, e continua a piangere con tale forza come se assistesse alla morte della persona più amata al mondo e manifesta un tale dolore che per poco non sviene. E Galeotto corre a prenderlo tra le sue braccia e gli bacia la bocca e gli occhi e lo conforta con forza e gli dice «Bello e dolce amico, ditemi la ragione del vostro dolore…»).

Il gesto di prendere l’amato fra le braccia e baciargli gli occhi e la bocca è certo gesto che denuncia un amore esclusivo e fortissimo. Ed è in nome di questo amore totale che Galeotto si farà veicolo dell’incontro fra il giovane e la regina, esortandola a incoraggiare il tremante adoratore, perché per lui la prima cosa è la felicità dell’essere amato anche a costo di perderlo per sempre. Dunque si configura come un personaggio mai auto-centrato, ma sempre estro-verso l’unico capace di vero sacrificio, capace di farsi da parte se in gioco vi è la felicità dell’amico. Dopo molte imprese valorose Lancillotto è giunto al culmine del suo valore di cavaliere, ed è infatti accolto fra i cavalieri di Artù e di amante ed il suo amore con Ginevra è ormai completo sia sul piano fisico sia per intensità del legame. Lancillotto ha però promesso all’amico che l’avrebbe seguito nelle sue terre ed ecco dunque i due uomini mettersi in cammino verso le terre del gigante. Si veda come il testo sottolinea lo stato d’animo di Galeotto lacerato fra gioia e timore dei due uomini evidenziando proprio questo dono del cuore all’amico Or s'en vet Galehout entre lui et son compaignon, liés et dolens: liés de ce que ses compains s’en vet avec lui, et dolens de ce qu'il est remis de la maisnee le roi Artu, kar par ce le cuide il avoir perdu a tos jors; et il avoit mis son cuer en lui outre ce que cuers d'ome pooit amer autre home estrange de loial compaignie. (LM, I 1)(Ora se ne va Galeotto, lui ed il suo compagno lieto e dolente: lieto perché il suo compagno se ne va insieme a lui e dolente perché egli appartiene alla corte del re Artù e per questo egli crede che lo perderà; ed egli ha messo in lui il suo cuore più di quanto uomo non possa amare un altro uomo.).

La coscienza chiara che Lancillotto non gli apparterrà mai e che il loro pur forte legame è destinato a spezzarsi non appena la regina lo rivorrà tutto per sé provoca in Galeotto un dolore così forte che sviene: s’ai ansi perdue l’amor que j’avoie an lui mise et lo grant meschief que ge fis por sa conpaignie avoir la ou g’ estoie au desus de conquerre tot lo pris et tote l’anor del monde». Totes ces choses met Galehoz devant sez iauz, si l’en toiche

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au cuer si grant angoisse que a force lo covint pasmer et chaoir a terre. (LM III, I 2-3)“Avrò così perduto l'amore che io vi ho messo e il grande disonore che io ho commesso per ottenere la sua compagnia nel momento in cui ero in procinto di ottenere tutto il pregio e tutto l'onore del mondo» Tutto ciò mette Galeotto davanti ai suoi occhi e una grande angoscia lo colpisce nel cuore che non può che svenire.

Ed ecco allora la passione travolgente che a poco a poco si insinua nel cuore del figlio della bella gigantessa fino a trascinarlo nel pericoloso gorgo di quella malattia che si chiama mal d’amore. Di fronte al dolore di Galeotto, Lancillotto insiste per saperne le cause. Ecco allora che Galeotto rivela al compagno i due sogni che lo hanno tormentato: nel primo lui si trovava nella corte di Artù insieme ad altri compagni quando ecco apparire un serpente che scaglia contro di lui fuoco e fiamme5. Come scopriremo più tardi attraverso le parole di uno dei chierici consultati da Galeotto il serpente rappresenta la regina che contendendogli l’amore del giovane cavaliere gli squarcia le membra Ed ecco ancora il tema del cuore lacerato dal corpo, diviso, ripensamento di un motivo già trobadorico e poi largamente sfruttato nella narrativa qui assume immagini metaforiche di grande pregnanza narrativa come il cuore che assume i connotati del leopardo che rappresenta l’amato L. 6: ***A l’autre nuit aprés me fu avis que je avoie .ii. cuers en mon ventre, et estoient si paringals que a painnes peüst on deviser l’un de l’autre, et quant je me regardoie si en perdoie l’un et quant il ert partis de moi, si devenoit un lieupart et se feroit en une grant compaignie de bestes salvages; et maintenant me sechoit li cuers et tout li autre menbre et m’ert avis que je moroie. (p. 929)

5 je estoie en la maison le roi Artu mon seignor o grant compaignie de chevaliers: si venoit hors de la chambre la roine un serpent, le greignor don je onques euisse oï parler, et venoit droitement a moi et espandoit feu et flambe si que je perdoie la moitié de tos mes menbres. Ensint m'avint la premiere nuit, et l'autre aprés me fu avis que j’ avoie dedens mon ventre .II. cuers et estoient si pareil que a paines peust l'en l'un deviser de l'autre. (LM, I, II 10)Ero nella casa di Artù in compagnia di tanti cavalieri e veniva fuori dalla camera della regina un serpente, il più grande di cui avessi sentito parlare, e veniva dritto contro di me e spandeva fuoco e fiamme così che perdetti la metà delle mie membra.

6 Si pensi per esempio al Cligés di Chrétien de Troyes, vv. 2812-2836

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E la notte successiva mi sembrò di avere dentro di me due cuori talmente simili che a stento potevano distinguersi l’uno dall’altro. E quando io mi osservai, ne persi uno e non appena questo si fu separato da me divenne un leopardo e si unì ad un grande mucchio di bestie selvagge; ed immediatamente mi si seccò il cuore e tutte le altre membra e mi sembrò di morire.

Ma diversamente da quanto avviene nel motivo folclorico di smembramento del corpo, qui la scena assume un’evidenza terribile, come fosse un ribaltamento del mito della fertilità: quasi che il giovane leopardo Lancillotto fosse carne della sua carne, come se fosse lui a generarlo e a vederlo poi lontano da sé, strappato a lui da Ginevra dalla donna serpente.Così Galeotto consumato dall’angoscia, dall’insonnia e dall’inappetenza si risolve a ricorrere al consiglio degli uomini più sapienti della corte. Il più saggio tra questi, Helie de Toulouse, rivela al tormentato gigante la realtà dei mali del cuore descrivendone senza infingimenti la difficile guarigione: ***Et quant li cuers est tant atisiés qu’ il est en l'amor entrés, si chace sa proie et s’il avint chose qu’i la tiegne, ou il garira del tot en tot, ou il morra: ne il n'est mie legiere chose del retorner, kar quant il a sa proie atainte, si li covient il en ausi grant prison gesir com s'il eust del tot failli, tant quant cele prison li avient si en a uns alegemens et unes joies comme d'oïr le dolces paroles et la bone compaignie de ce qu’ il atent a avoir son desirrer, kar conment que li cuers se sente, li cors n'en a forç l’oïr et le veoir. (LM I, IV 16)E quando il cuore è tanto colpito che si è innamorato, va in caccia della sua preda e se riesce a catturarla o guarirà o morirà: ma non è certo facile tornare indietro, perché quando (il cuore) ha ottenuto la sua preda è necessario che giaccia in una grande prigione come se l’amore gli fosse stato negato, salvo che in quella prigione lo tocca un conforto ed una gioia nell’ascoltare le dolci parole e le notizie e la compagnia di colui che tanto si desidera, perché qualsiasi sia il modo in cui il cuore si sente, il corpo ha solo la possibilità di vedere ed udire.

E quest’amore è un dolce gorgo che trascina l’uomo in una prigione da cui non si desidera evadere in un nodo di dolcezza e dolore che non conosce salvezza: Mais par mi totes les joies a i et mals et dolours qui l’acorent sovent, kar il a esmais de perdre ce que il aime plus et a poor de fausses acheisons, ce sont les dolors que li cuers sent par coi li cor ne puet venir a garrison. (LM I, IV 16)

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(Ma a fronte di tutte queste gioie vi sono molti mali e dolori e angosce, perché vi sono frequenti corrucci, vi è la paura di perdere ciò che più si ama, si ha paura di false accuse. E questi sono i dolori che il cuore prova e la ragione per la quale non può guarire).

Si sottolinea così (come osserva Fenzi) la natura puramente desiderante del fenomeno amoroso, che diventa fenomeno del tutto giocato nell’intimo del soggetto che le prova e che patisce dentro di séIl paradosso dell’amore, quell’ amare il proprio male e cullarsi nell’aspra dolcezza del proprio sentimento, viene qui abilmente sintetizzato recuperando uno sfruttatissimo topos letterario che attraversa tutta la storia della letteratura (cfr M. Ciavolella, La malattia d'amore dall'antichità al Medioevo, Roma, Bulzoni, 1976) -Al di là delle tante fonti che si potrebbero citare, pur non necessariamente fruite in maniera diretta da Saffo  a Catullo che la riprende nel carme 51 e che largo spazio darà alla descrizione patologica dell’amore, si ricordi che el I secolo d. C., sarà Galeno a catalogare l’amore tra le malattie, e su questa scia Avicenna (X-XI secolo d. C.), considererà l’amore tra le malattie cerebrali, come una forma di ossessione, provocata dal pensiero di qualcosa di bello che non si può ottenere, e segnata da sintomi ben precisi, scatenati da una forza distruttiva che porta all’annullamento di sé in una linea che vediamo ben presente nel destino del gigante buono

Mais la tierce maladie est la plus perillose, car maintes fois avient que li cuers ne querroit pas garison, s’il la poit avoir por ce puet fins cuers trover garison a paines de sa maladie qu’ il aime plus le mal que la santé. (LM I, IV 16)(Ma la terza malattia è la più pericolosa, perché molte volte avviene che il cuore non gioisce nella guarigione anche se riesce ad ottenerla. Per questo difficilmente può guarire in quanto ama più il suo male che la sua salute.)

Le pulsioni di disintegrazione e di morte che assalgono Galeotto non riescono così ad essere neutralizzate e il gigantesco principe, diversamente dagli altri personaggi che impazziscono, lucidamente va incontro al suo destino: la morte per amore. Nelle incessanti quêtes dei personaggi che segnano il proseguio della storia Lancillotto e Galeotto si cercano, si sfiorano senza trovarsi: Lancillotto arriva

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nel Sorelois, regno di Galeotto proprio mentre Galeotto è partito per cercarlo. Ma il destino di un uomo, a volte, è scandito da piccoli inutili gesti mancati. Piccoli e inutili appunto, ma le cui conseguenze sono irreversibili, così Galvano, personaggio antipatico nella sua futile superficialità si dimentica di dire a Lancillotto che Galeotto lo sta cercando. Le vie narrative e le vie delle vite si incrinano così declinando sulla morte necessaria del gigante. La malattia d’amore qui descritto come male psicologico frutto dell’ossessione dell’oggetto amato esplode in tutta la sua sintomatologia e precipita nell’accidia. Così il gigante, convinto dal sangue sul letto, che sia morto l’amico precipiti nella disperazione più fosca7:Galeotto, convinto che sia morto l’amico cessa di mangiare e bere: Tant fist de la mort Lancelot que il fu, ce dist li contes, .XI. jors et .XI. nuis que il ne menja ne ne but, et tant que les gens religiouses qui sovent le veoient li distrent que s'il moroit en tel maniere il avroit s'ame perdue. Si le font mengier a force, mes ce n'ot mestier, que li lons jueners li fist trop mal. Et si li revint uns autres encombriers, que la plaie qu'il avoit eue quant il conquist l'escu li sorsama, kar ele avoit esté malvaisement garie: si li porri la chars. Et lors li avint une maladie dont tos li cors li secha et tuit li menbre. (LM, I, XXXV 2)

Tanto fece per la morte di L., ci dice il racconto, che stette 11 giorni ed 11 notti senza mangiare né bere, al punto che i religiosi che sovente venivano a visitarlo gli ripetevano che in quel modo avrebbe perduto l’anima. Lo facevano mangiare a forza, ma non serviva, perché troppo gli avevano nuociuto i digiuni. Ed avvenne un altro male: la piaga che si era provocato nel difendere lo scudo di L. ricomincia a sanguinare, perché era guarita male e la carne imputridiva. E allora lo colse una malattia per la quale tutto il corpo gli si seccò e tutte le membra.

L’inserzione della piaga che va in putrefazione trascina con sé l’idea della corruzione dei sensi e solleva qualche dubbio sul rilievo conferito alla morte santa che attende Galeotto, forse questa un’aggiunta posteriore volta a sottrarre al personaggio il marchio della lussuria. Anche in questo caso nelle pieghe riposte del testo sembrano annidarsi tentativi più o meno maldestri di rileggere la vicenda di cui non è sempre facile comprendere la direzione: La narrazione ora –archiviato questo personaggio- può prendere altre vie. Ma Galeotto muore perché il mondo sentimentale ed etico che ha sognato e che 7 Su questa morte per amore si vedano anche FRAPPIER 1976 e BERTHELOT 1994.

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vorrebbe abitare non può esistere. Non a caso dopo la sua morte la rotta della storia subisce una forte deviazione, il mondo arturiano prepara il suo crollo.Solo più tardi Lancillotto scoprirà la morte di quell’amico straordinario. Quando arrivato in un cimitero, trova una tomba dove legge:«Ci gist Galehout li fiz a la Jaiande, li sires des Lointaignes Isles, qui por l'amor de Lancelot morut.» Etquant il vit ce, si chiet pasmés et gist grant piece a terre sans mot dire; et li chevalier le corent relever, si se merveillent molt qu'il puet estre. (LM II, XLIX, 10.)(Allora si dirige Lancillotto da quella parte, guarda la scritta che dice:«Qui giace Galeotto, figlio della gigantessa, signore delle isole lontane che morì per amore di Lancillotto». E quando Lancillotto vide questo cadde a terra svenuto e giacque a lungo senza proferire parola, e i cavalieri colsero a rialzarlo, e si meravigliarono molto dell’accaduto).

I gesti del dolore sono quelli che una tradizione ormai codificata ascrive sotto l’etichetta del planctus per la morte dell’amico: grida, gesti di violenza contro di sé, movimenti incontrollatiMa che il legame sentimentale che ha unito i due amici sia speciale, unico ed esclusivo ce lo mostra il desiderio di morire che s’impadronisce di Lancillotto: chi ama, infatti, non sopravvive alla morte dell’amato. Ma ciò che rende più acuto il dolore di Lancillotto è lo scoprire di essere stato lui la causa della morte:Quant il a son duel demené grant piece, si regarde les letres qui dient que por lui est mors Galehout; si dist que or seroit il trop malvés, s'il ausi ne moroit por lui: si saut maintenant jus des prones et pensa qu'il iroit querre s'espee et qu'il s'en ocirroit, kar ausi avoit eie esté Galehout. (LM II, XLIX, 11). (Dopo essersi a lungo disperato, guarda ancora la scritta che dice che Galeotto è morto a causa sua, e dice che sarebbe un essere spregevole se non morisse anche lui: saltò giù dal cavallo e pensò di andare a cercare la sua spada per uccidersi).

Solo l’arrivo di una messaggera della Dama del lago, di cui parlavamo, l’amatissima madre adottiva, può evitare il peggio, e Lancillotto rientra in se stesso, sancendo però la disparità di sentire fra il morto e il vivo, questi, oggetto per eccellenza d’amore, quello soggetto di una passione destinata a perderlo. Galeotto muore e con la morte di Galeotto declina anche la prima parte della tradizione manoscritta, secondo Elspeth Kennedy anche la più

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antica e così anche il sogno di un modo diverso di concepire il mondo incarnato dal figlio della bella gigantessa. La versione cosiddetta “speciale”, l’unica che non inserisce la vicenda in un assetto ciclico e tutta costruita sull’intreccio fra amore e ricerca dell’identità, declina così sull’immagine di un Lancillotto consolato dal corpo dell’amata, al punto da poter rapidamente cancellare lo strazio per la morte dell’amico. Et se ne fust li cors la reine, jamés par autre ne fust confortez. Mes ce l'asoaje molt et done granz confort de totes ires et de totes angoisses oblier qu'il est en la compaignie de la plus vaillant dame dou monde et de la rien que il plus aime. (LM III, IV 24).(E se non fosse stato per il corpo della regina nient’altro lo avrebbe confortato, ma questo lo consola molto e lo solleva da ogni ira e lo rende dimentico di ogni angoscia: trovarsi in compagnia della più valente dama del mondo e colei che lui ama di più).

Si sancisce così la superiorità della forza di amore su ogni altro sentimento, che da un lato conduce a morte Galeotto, dall’altro rende Lancillotto dimentico del dolore per la perdita dell’amico nel momento in cui giace fra le braccia dell’amata. Saranno i lettori successivi a cominciare da Dante a strappare Galeotto al testo che lo ha creato e, con ardita manipolazione, a fare di lui il tramite e l’occasione per l’incontro d’amore fra due amanti, mettendo in ombra come per Galeotto spingere Ginevra fra le braccia di Lancillotto non sia altro che l’estremo e altissimo segno del sacrificio d’amore.Un amore che nel resto del ciclo non cessa di svelare i suoi lati drammatici: Lancillotto, il primo tra i cavalieri, sarà escluso dalla più grande dell’avventure : la contempazione del graal, per colpa del fuoco della passione d’amore che lo divora, un amore (e se si vuole anche questo è di una grande modernità) che appare sempre oscillante in una dialettica direi non risolta, fra nobiltà del sentimento verso una donna che assume tratti di madonna e la colpa gravissima e perturbante verso il suo stesso re. E tuttavia quando Ginevra addolorata si assume la colpa del fallito tentativo di contemplare il graal, lui risponderà:***

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«Dame-fait Lanceloz- vos dites mal. Sachiez que ja ne fusse venuz a si grant hautesce com je sui, se vos ne fuissiez , car je n’eusse mie mie cuer par moi au conmancement de ma chevalerie d’amprandre les choses que li autre laissoient par defaute de pooir. Mais ce que je baoie a vos et a vostre grant biauté mist mon cuer en l’orgueil ou j’estoie si que je ne poisse trouver aventure que je ne menasse a chief; car je savoie bien, se je ne pooie les aventures passer par prouesce, que a vos ne vandroie je ja, et il m’i couvenoit avenir ou morir. Dont je vos di vraiement que ce fu la chose qui plus acroissent mes vertuz. » (LM., V LXXXV, 2)Dama- risponde Lancillotto- voi vi sbagliate. Sappiate che mai sarei giunto a queste grandi altezze se non fosse stato per voi perché non avrei mai avuto il coraggio di intraprendere ll’inizio della mia vita di cavaliere ciò che altri abbandonano per mancanza di forza. Ma poiché aspiravo a voi e alla vostra grande bellezza ho alimentato nel mio cuore tale orgoglio da ritenere che non ci fosse avventura che io non potessi condurre a buon fine. 8

Lancillotto rivendica così con orgoglio il suo essere cresciuto in valore e in virtù grazie alla potenza amorosa spinta essenziale per fare di lui l’uomo valoroso che è poi diventato. Ma l’amore potenzia e l’amore distrugge perché l’adulterio mina i rapporti di fedeltà che lui deve al re, qel re che pure lo ama al punto da non voler vedere la relazione che lo unisce alla moglie. Quando ormai alla fine della storia scoprirà dolorosamente il tradimento del primo dei suoi cavalieri lo caccerà per sempre dalla corte esponendosi così’ all’attacco dei nemici ed alla tragica morte per mano di Mordred figlio incestuoso. A Lancillotto, di fronte al disfacimento del mondo che lui ha attraversato, non resta che allontanarsi e andar via per sempre.Ed eccolo allora volgere, nella sua ultima erranza, verso una nuova, diversa, avventura. Anche Ginevra è ormai morta9, santificata dalla penitenza e la scena del mondo non ha più alcuna attrattiva su di lui*Ad accoglierlo e guidarlo in quest'ultima fase della sua parabola esistenziale, è, come altre volte nel ciclo, un religioso di bianco vestito, un uomo insignito di alte cariche ecclesiastiche, che pure aveva deciso di abbandonare per scegliere una via diversa: la rinuncia al mondo per dedicarsi a Dio.

8 Text and Intertext in Medieval Arthurian Literature a cura di Norris J. Lacy

9 Ribadendo così il valore "strutturante" della morte della donna sul piano letterario, cfr. sul punto ANTONELLI, La morte di Beatrice e la struttura della storia cit., pp. 41-43.

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En tel ire et en tel duel chevaucha toute la nuit einsi comme aventure le portoit et menoit, car il n’aloit nule foiz droit chemin. Au matin li avint qu’il trouva une montaigne toute pleinne de roches ou il avoit un hermitage assez estrangié de toutes genz; il torne cele part son frain et pense qu’il ira veoir ce leu, por savoir qui i repere ; si s’en vet tout contremont un sentier, et tant qu’il est venu au leu qui estoit assez povres ; et i avoit une petite chapelle ancienne. Pieno d’ira e di dolore cavalcò tutta la notte così come avventura lo portò e lo condusse, perché egli non seguiva affatto un cammino dritto. Al mattino gli capitò di trovare una montagna piena di rocce dove vi era un eremitaggio immerso nella solitudine, si volge da quella parte e pensa che andrà a vedere quel luogo (…) percorre un sentiero finché giunge in un luogo molto povero e vi era una piccola e antica cappella

L’ultima avventura dunque porta il più grande dei cavalieri fuori e per sempre questa volta dal suo spazio, lo spazio della corte, il terreno di battaglia, il compagnonaggio con i pari, per entrare in uno spazio altro, ma popolato da uomini che del suo mondo facevano parte ma che hanno scelto di separarsene per abitare un luogo dell’anima dove coltivare attivamente la «nostalgia del paradiso” quello vero, che comincia in terra con una straordinaria tensione verso la santitàI due uomini spiegano a Lancillotto che dopo la battaglia finale di Salebières, ormai privati di gran parte dei compagni, anche loro furono condotti qui da Aventure e scelsero di dedicare la loro vita al servizio di Dio:. Aventure nos aporta ça: si trouvames un hermite ceanz qui nos acueilli avec lui; si est puis morz, et nos i somes remés aprés lui ; si userons , se Dieu plest, le remenant de noz vies el servise Nostre Seigneur Jhesucrist et li proierons qu’il nous pardoint nostre pechiez. Et vos sire, que feroiz vos, qui avez esté jusques ci li mieudres chevaliers del monde?».  «Je vos dirai –fet il – que je ferai ; vos avez esté mi compaignon es deliz del siecle; or vos ferai compaignie en cest leu et en ceste vie; ne jamés tant con ge vive ne me mouvrai de ci  » (MA, § 200).

E voi signore che farete, voi che siete stato il miglior cavaliere del mondo ? » « Vi dirò ciò che farò »voi siete stati i miei compagni nelle gioie del mondo ; ora vi farò compagnia in questo luogo ed in questa vita ; né mai finché vivrò mi muoverò da qui »

Dall’ira del cuore alla pace della preghiera e della solitudine: e così la grandezza di Lancillotto come cavaliere si tinge ora dei connotati del santo, senza tuttavia perdere le caratteristiche di eccezionalità che lo avevano segnato, esattamente come avviene in tante leggende agiografiche dove

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anche l’eroismo mondano può essere volto al servizio di Dio. E anche ’ l’erranza del cavaliere, il suo peregrinare nella speranza di raggiungere una meta assume una connotazione escatologico: Non abbiamo quaggiù una città stabile ma cerchiamo quella futura” si legge nella lettera agli Ebrei 13, 14.Così per quattro anni Lancillotto espia le sue colpe nella più totale ascesi in veglie digiuni e preghiere, in compagnia anche del fratellastro Estor, che nel frattempo lo aveva raggiunto:Quatre anz fu Lancelos leanz en tel maniere qu’il n’iert hom nez qui tant poïst sofrir peinne et travaill comme il soufroit de jeüner et de veillier et d’estre en prieres et de lever matin ... (MA, § 201).Per quattro anni visse Lancillotto in in tal modo che nessuno potrebbe soffrire pene e travagli come fece lui attraverso digiuni, veglie, pregare ed alzarsi presto al mattino

Nell’immagine degli angeli festanti che accolgono il più grande dei cavalieri morto e in quella tomba baciata come quella di un santo si disegna quella parabola, così letterariamente feconda dalle vidas dei trovatori a Guittone, Dante, Petrarca dell’uomo che, privato di amor et militia, cambia paradigma, poiché non gli resta altra via10 e sceglie dunque lo spazio del sacro, quello spazio separato, abitato da chi rinuncia al mondo dopo averlo conosciuto e averne sperimentato luci ed ombre per volgersi ad una realtà più alta che assorbe la terra ma la supera. E il superamento di Lancillotto sarà ben colto da Dante che nel noto passo di Convivio IV, XXVIII, 8, esalterà la scelta di Lancillotto, ormai giunto alla maturità, di volgere le vele verso altri porti, cosi da imprimere alla propria vita un senso nuovo che non rinneghi i valori della giovinezza, ma li superi e li proietti verso una dimensione verticale, tesa verso la salvezza eterna.Ma Dante non è certo l’unico a garantire la fittissima conoscenza della materia arturiana anzi come hanno ben mostrato gli studi sulla tradizione italiana del Lancelot, penso in particolare ai lavori di Daniela Delcorno Branca Tristano e Lancillotto in Italia. Studi di letteratura arturiana , Ravenna 1998, di Cigni ma anche di tanti altri come il prezioso volume di Marisa Meneghetti che intreccia tradizione figurativa e testuale, il Lancelot ha rappresentato un

10 Cfr. Clôtures du cycle arthurien cit., p. 125

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autentico bestseller per l’Italia fra tardo duecento e trecento come ci mostrano i tanti testimoni conservati di mano italiana.

Ma non c’è dubbio che lo studio della ricezione del testo francese ha assunto una nuova prospettiva dopo il ritrovamento nel 2011 di un giovane studioso, Luca Cadioli, quando dalla soffitta di una casa signorile di Savona sono state rinvenute 56 carte databili intorno all’ultimo quarto del Trecento dove una mano fiorentina ha vergato la traduzione italiana del Lancelot en prose, Si tratta di una scoperta molto importante, siamo infatti di fronte alla prima traduzione nota di questo testo in Italia, di quelle che cambiano la storia degli studi e che ci aiuta a ridisegnare i contorni ed i confini della tradizione delle prose arturiana in Italia che dunque si rivela non solo ricchissima terra di ricezione d questi materiali, ma anche attiva nella produzione di traduzioni /riscrittureMa ciò che colpisce è che nel 300 tracce consistenti ed importanti sembrano rapidamente invadere l’Europa: ecco per l’area iberica tracce di traduzioni del Lancelot propre  in due regioni diverse sempre a partire dalla seconda metà del Trecento: il castigliano Lanzarote del Lago , copia cinquecentesca esemplata su un modello perduto datato 1414 (ma Contreras Martín ritiene possa essere retrodatata alla metà del Trecento 19);o ancora i frammenti catalani appartenenti a due diversi manoscritti, databili 1340-60. Ma la fascinazione che il Lancelot ha esercitato in Europa raggiunge oltre alla Germania, precoce terra di ricezione, anche gli estremi confini a nord in particolare sotto l’illuminato re Hákon (1217-1263), che favorì un’intensa attività di traduzione , ma non mancano tracce anche in Europa centrale( in particolare in area boema e ceca)

Ma sarà certo con il maturo 400 che troveremo un autore in grado di raccogliere, riscrivere e rilanciare nei secoli a venire il fecondo tesoro di immagini, valori e forme narrative inaugurate dal grande ciclo del Lancelot-graal: Thomas Malory.

La sua Mort Artù, pubblicato da Caxton nel 1485 eserciterà uno straordinario influsso in tutta Europa che arriverà alla modernità, basti citare fra gli altri e siamo ormai in pieno romanticismo, La Dama di Shalott la protagonista del poema romantico omonimo del poeta inglese Lord Alfred

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Tennyson. (uscita in prima edizione nel 1833 e in seconda nel 1842), 11 o il californiano John Ernst Steinbeck, premio nobel 1962, che compose "Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" tra il 1958 e il 1959, basandosi sul manoscritto dei racconti di Thomas Malory conservato al Winchester College,. "Per molto tempo" scrive Steinbeck nella sua premessa a questo libro " ho desiderato trasferire nella lingua d'oggi le storie di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Sono storie vive anche in quelli di noi che non le hanno lette. Ma nella nostra epoca forse ci spazientiscono i termini desueti e i ritmi maestosi... Ho voluto trasporli nel semplice linguaggio del giorno d'oggi".

Ma non c’è alcun dubbio che il medium che ha consentito alle storie arturiane di diventare parte integrante del nostro immaginario, e qui concludo, è stato il cinema che ha mostrato ancora una volta la poliedricità di questo straordinario repertorio narrativo: dal cinema anni 50 con i cavalieri della tavola rotonda (R. Thorpe, 1953) con un aitante Robert Thaylor nel ruolo di L ed una prosperosa Ava Gardner nel ruolo di Ginevra, alle raffinate atmosfere di Robert Bresson del 1974 , al Primo cavaliere del 1995 con un cast stellare con Richard Gere e Sean Connery, fino ai recenti serial tv, Lancillotto, Ginevra Artù sanno ancora con il loro straordinario potere di emozionarci e di consentirci di diventare come diceva Jean Chapelain dal quale siamo partiti “amici intimi di quei personaggi fino a cogliere l’essenza stessa delle loro anime “.__________________________________

11 la Dama vive in una torre sull’isola di Shalott, in un fiume vicino Camelot, il leggendario regno di Re Artù.A causa di una maledizione, però, non può guardare verso la città, altrimenti morirà all’istante: ecco che così

deve “spiare” il mondo esterno attraverso uno specchio, tessendo quel che vede su una tela magica.Un giorno, attraverso lo specchio, vede Lancillotto: si invaghisce di lui e, stanca della vita vissuta fino a quel

momento, guarda fuori verso l’uomo di cui si è innamorata. Poi sale in barca e si lascia portare dalla corrente fino a Camelot, dove però arriverà morta.

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II ACHILLE

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Achille Eroe della mitologia greca, figlio di Peleo e della nereide Tetide. È l'eroe principale dell'Iliade e uno dei personaggi più celebri nel mondo antico.1. Il punto debole del guerrieroSecondo antiche leggende, la madre avrebbe immerso Achille nel fuoco, o nelle acque del fiume Stige, per renderlo invulnerabile; ma poiché era stato sorretto per il tallone, questa parte del corpo sarebbe rimasta vulnerabile (di qui l'espressione 'tallone d'Achille' per indicare il punto debole di una persona). Achille fu poi consegnato al centauro Chirone perché lo educasse. Altre leggende narrano le imprese della sua giovinezza, a cui sembra doversi riferire l'epiteto di "piè veloce" presente nell'Iliade, e il periodo in cui l'eroe restò nascosto tra le figlie del re Licomede per evitare la morte che, secondo una profezia, l'avrebbe colto presso Troia se vi si fosse recato. Da una delle figlie di Licomede, Deidamia, ebbe il figlio Neottolemo.2. La guerra di Troia

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Nell'Iliade Achille, re dei tessali mirmidoni, partecipa di propria volontà alla spedizione di Troia, ma un diverbio con Agamennone, a causa di Briseide che il re vuole sottrargli, lo fa ritirare per un certo tempo dalla lotta. La morte dell'amico Patroclo lo spinge però alla vendetta e l'uccisione, dopo uno spietato duello, del campione dei troiani, Ettore, sembra decidere le sorti della guerra. Questo è quanto dice l'Iliade: altri poemi narrano fatti posteriori alla morte di Ettore, come l'uccisione dell'amazzone Pentesilea, di cui Achille si sarebbe innamorato mentre la colpiva, o la morte dello stesso Achille per opera di Paride la cui freccia, guidata da Apollo, avrebbe colpito l'eroe al tallone. Nell'Iliade la figura di Achille è presentata con notevole coerenza: violento anche quando cede a sentimenti di pietà, un'ombra di dolore si proietta su di lui per la consapevolezza della morte vicina.La storia mitica di Achille avrebbe dovuto essere raccolta, nel mondo latino, nell’Achilleide(Achilleis), poema scritto da  Publio Papinio Stazio (45-96 d.C.) a partire dal 95. Il poema comincia con la fuga di Elena con Paride e il tentativo di Tetide per sottrarre Achille alla guerra, ma non va oltre l'azione fortunata di Ulisse e Diomede per rintracciare Achille; in tutto (poiché la partizione dei versi in libri è diversa anche nei codici), un primo libro di 960 e 167 versi per il secondo, divisi secondo la volgata in 674 e 453. L'opera rimase incompiuta per la morte di Stazio.L'arte antica raffigura Achille nell'aspetto di un giovane guerriero (esempi nella ceramica dipinta greca, nelle pitture pompeiane, in rilievi metallici, in sarcofagi romani).

a.) Achille guerriero e la sua ira

Iliade, vv. 1-100Traduzione di Daniele Ventre

L’ira tu celebra, dea, del figlio di Pèleo, Achille,devastatrice che inflisse agli Achei dolori infiniti,ed anzitempo nell’Ade molte anime forti d’eroiinabissò, delle spoglie imbandì razzia per i canie per gli uccelli banchetto, consiglio di Zeus si compiva,sin dal principio, da quando si fecero ostili, a contesavennero, il re di guerrieri Atride e lo splendido Achille.Ma fra gli dèi chi li aveva forzati a contendere in lizza?Il figlio di Leto e Zeus: in collera con il sovrano,sparse nel campo la peste maligna, e perivan le armate,già, poiché a Crise mancò di rendere onore, l’Atride,a un sacerdote; era giunto fra le agili navi d’Achei,per liberare sua figlia, recando un immenso riscatto,strette fra mano le bende d’Apollo infallibile arciere,sopra lo scettro dorato, e pregava tutti gli Achei,ma più di tutti gli Atridi, i due condottieri d’armate:«O voi Atridi, e voi altri, Achei dai ben fatti schinieri,possano darvi gli dèi, che hanno dimora in Olimpo,

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di rovesciare la rocca di Priamo e ben giungere in patria;ma liberate la mia figliola, accettate il riscatto,figlio di Zeus venerate Apollo infallibile arciere!»Ecco che gli altri, gli Achei, allora acclamarono tutti:che il sacerdote onorassero e avessero ricco riscatto;né tuttavia lo gradiva, l’Atride Agamennone, in cuore,ma lo scacciò con asprezza, gli impose crudele comando:«Vecchio, non io più ti colga vicino alle concave navi,non a indugiarvi tuttora e non a tornarvi in futuro,non ti varrebbero a nulla, lo scettro e la benda del dio;io non la libererò; prima in Argo, via dalla patria,dentro la nostra dimora, vecchiaia sarà su di lei,che starà china al telaio e a parte verrà del mio letto:va’ ora, non irritarmi, che salvo tu possa tornare!»Sì, così disse: tremò, l’antico: obbedì a quel comando;tacito andò lungo il lido del mare dal vasto fragore;poi quell’anziano, venuto in disparte, supplicò a lungoil sire Apollo, che nacque da Leto la bella di chiome:«Odimi, o Arco-d’argento, che Crisa circondi a difesa,Cilla la chiara di dèi, e Tènedo reggi con forza,Smínteo, se io per te mai ho innalzato un tempio grazioso,o se già io per te mai ho bruciato cosci opulentie di giovenchi e di capre, tu compi per me questo voto:che le mie lacrime i Danai le scontino per le tue frecce!»Disse così, nel pregarlo, e l’udiva, Apollo il Radioso:giù dalle cime d’Olimpo calò, con il cuore adirato,l’arco portandosi dietro le spalle, e la chiusa faretra;rumoreggiarono i dardi, in spalla a quel nume adirato,quando si mise in cammino: egli venne simile a notte.Poi dalle navi si pose in disparte e trasse una freccia;e risuonò spaventoso, il ronzio dell’arco d’argento;prima diresse l’assalto sui muli e sui cani veloci,poi sugli stessi guerrieri mirò con il dardo affilato,quindi colpì: sempre, fitti, bruciavano i roghi dei morti.Per nove giorni sul campo volarono i dardi del dio,e in adunanza chiamò le armate nel decimo, Achille:ché i suoi pensieri ispirò la dea Era bianca di braccia:s’impietosiva dei Danai, poiché li vedeva morire.Dopo che furono infine riuniti ed insieme raccolti,sorto fra loro, esordì Achille dai rapidi piedi:«Noi, ricacciati lontano, Atride, oramai, ben lo credo,ci volgeremo al ritorno, se pure sfuggiamo alla morte,già, ché la guerra e la peste uccidono insieme gli Achei;ma a un indovino, suvvia, domandiamo, o ad un sacerdote,o ad un esperto di sogni (anche il sogno viene da Zeus),che svelerà perché tanto è adirato, Apollo il Radioso,s’egli d’un voto ci fa rimprovero, d’un’ecatombe,se del vapore d’agnelli, o magari d’ottime capre,s’appagherà, se da noi vorrà allontanare la piaga».Quindi, com’ebbe parlato, sedé; si levò fra di loro,figlio di Tèstore, sommo fra gli auguri tutti, Calcante,

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che conosceva vicende presenti e future e passatee sulle navi segnò la via degli Achei fino ad Ilio,con l’arte sua d’indovino, che a lui diede Apollo, il Radioso;egli fra loro parlò, con saggio proposito, e disse:«Ordini, Achille, tu amato da Zeus, ch’io m’attenti a spiegarel’ira d’Apollo signore, dell’inesorabile arciere;io parlerò, certamente: però tu comprendi e a me giurache m’offrirai di buon grado difesa col braccio e la voce;temo altrimenti s’adiri un uomo che grande potereha sopra tutti gli Argivi, e a cui obbediscono Achei;e ben è un re più potente, se col popolano s’adira;anche se infatti, quel giorno, dovrà digerire il suo cruccio,persisterà, tuttavia, nel covare in petto rancore,fino a che l’abbia appagato: tu di’ se mi proteggerai».Ed in risposta gli disse Achille dai rapidi piedi:«Abbi coraggio e rivela qualunque responso tu sappia;no, per Apollo l’amato da Zeus, per quel dio che, Calcante,chiami in preghiera e così ne sveli i responsi fra i Danai,non vi sarà, fino a quando vivrò, finché in terra avrò luce,uomo fra i Danai, fra tutti, che levi a te gravi le mani,presso le concave navi, se pur tu Agamennone intenda,che fra gli Achei di gran lunga ora vanta d’essere il primo!»Dunque si fece coraggio, parlò, l’impeccabile vate:«No, non di voto ci fa rimprovero, non d’ecatombe,ma per colui che Agamennone ha leso, per quel sacerdote,cui non ha reso la figlia, e da cui non volle riscatto,doglie ci diede e più ancora darà, l’infallibile arciere;e non allontanerà dai Danai l’ignobile piaga,prima che al padre sia resa la giovane d’occhi vivaci,senza riscatto né prezzo, se a Crisa una sacra ecatombenon sia inviata: sì, allora, potremmo placarlo e piegarlo».Quindi, com’ebbe parlato, sedé; si levò fra di loro,grande e potente sovrano, l’Atride, Agamennone eroe,pieno d’angoscia: d’intorno la collera, greve, gonfiavaneri i precordi, i suoi occhi parevano vampa di fuoco;verso Calcante da prima girò gli occhi biechi, poi disse:«Divinatore di mali, a me mai fortuna annunciasti;mali da sempre è gradito all’animo tuo divinare,mai pronunciasti parola giovevole, né la compiesti!Ora, per giunta, fra i Danai, svelando responsi, tu affermiche sofferenze per loro creò l’infallibile arciere,solo perché io non volli accettare il ricco riscattodella fanciulla Criseide, ché molto desidero averlanella mia casa: alla sposa legittima, sì, a Clitemnestra,la preferisco senz’altro, poiché non a lei è inferiore,non di figura o di membra, non d’opere, non di pensieri.A darla indietro acconsento, però, se davvero è più saggio;voglio ben io che sia salva, l’armata, e non già che perisca;ma preparatemi subito un premio, affinché non io solosenza più premio mi stia fra gli Argivi, ché non conviene:su, stabilite voi tutti che premio in compenso mi tocchi».

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Gli rispondeva così lo splendido Achille veloce:«Ah, più di tutti glorioso, di tutti il più avido, Atride,come te lo doneranno un premio, i magnanimi Achei?Nulla di ricchi tesori giacenti in comune sappiamo;quelli razziati alle rocche distrutte oramai son divisie non conviene alle armate riunirli, a rifare le parti.Questa fanciulla ora al dio tu cedila: un giorno gli Acheiti pagheranno del triplo, del quadruplo, solo che Zeusdia che s’abbatta la rocca di Troia ben salda di mura».Ed in risposta il potente sovrano Agamennone disse:«No, non così, tu che pur sèi valido, Achille divino,m’eluderai, ché non me froderai, non me piegherai.O per serbare il tuo dono, vorresti però che senz’altroio sia privato di lei, e m’ordini di consegnarla?Solo se a me doneranno un premio i magnanimi Achei,l’animo mio secondando, perché ne sia degno riparo.Se nulla più mi daranno, io da te verrò di persona,ad involarlo, o da Aiace, o forse da Odísseo, quel premio,l’involerò e prenderò: s’incollerirà, chi io raggiunga!Pure, di queste incombenze avremo pensiero in futuro,ora nel nitido mare una nera nave traiamo,i rematori opportuni riuniamovi, poi l’ecatombecaricheremo ed a bordo Criseide la bella di guanceimbarcheremo: un eroe del consiglio andrà per guidarla,sia pure Aiace o Idomèneo, lo splendido Odísseo, o magari,figlio di Pèleo, tu stesso, fra tutti gli eroi il più tremendo,sì che propizi per noi sacrifici e plachi l’arciere».Lo guardò bieco e gli disse, Achille dai rapidi piedi:«Ah, d’impudenza t’ammanti, ché solo il guadagno hai nel cuore!Come l’acheo di buon grado alla tua parola obbedisce,nell’avanzare alla marcia, nel battere in forza i nemici?Né sono giunto, non io, per Troiani pronti di lancia,a battagliare fin qui, poiché non con me sono in colpa;non mi razziarono mai, fino ad oggi, mandrie o cavalli,né mai a Ftia la feconda di zolle, alla madre d’eroi,hanno disfatto il raccolto, ché sono fra noi molti e moltimonti ammantati dall’ombre, e c’è il mare fervido d’echi;sommo impudente, con te venimmo, a che tu ne gioissi,di Menelao difendiamo l’onore, ed il tuo, cane infame,presso i Troiani: ma a ciò tu non guardi, né ti dài pena;anzi, tu stesso mi fai minaccia di togliermi il premioche con gran pena acquistai, che m’han dato i figli d’Achei.Io non ottengo mai premio a te pari, quando gli Acheihan catturata ai Troiani una ben tenuta fortezza;queste mie braccia, però, dell’aspro tumulto di guerrareggono il peso maggiore; ma quando si viene a spartire,premio va a te ben più ricco, ed io uno piccolo e caroreco, tornando alle navi, sofferte fatiche di guerra.Ora ritornerò a Ftia, poiché più onorevole è certovolgersi verso la patria su navi ricurve: io non credoche rimarrò, senza onore, qui, a porgerti lusso e ricchezza!»

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Ed Agamennone, il re di guerrieri, gli rispondeva:«Fuggi, piuttosto, se caldo ne hai l’animo, certo non iot’implorerò di restare, per me, con me sono pur altri,quelli che m’onoreranno, e su tutti Zeus il sapiente.Tu sèi per me il più aborrito, fra i principi alunni di Zeus;sempre ti furono care e contesa e guerre e battaglie;se così forte tu sèi, questo dono un dio te lo diede;con le tue navi e coi tuoi compagni alla patria ritorna,sopra i Mirmídoni regna, io no, non di te mi do pena,né la tua collera temo; e di questo poi ti minaccio:se mi depriva così di Criseide, Apollo il Radioso,con la mia nave e coi miei compagni io farò ricondurrelei, ma per me prenderò Briseide la bella di guance,il premio tuo, io alla tenda verrò, perché tu sappia benequanto abbia rango più alto di te, che aborrisca pur altridi contrastarmi da pari, di farmisi eguale in cospetto!»Disse così; n’ebbe angoscia, il figlio di Pèleo, e il suo cuore,dentro il suo petto villoso, fra duplice impulso fu in dubbio,se, tratta fuori da presso al fianco la lama affilata,gli altri facesse scostare, spogliasse di vita l’Atride,o racquietasse la collera e all’animo desse contegno.Mentre agitava nel cuore, nell’animo, questi pensieri,e la gran spada estraeva dal fodero, allora, ecco, Atenavenne dal cielo: la inviò la dea Era bianca di braccia,per ambedue nel contempo sollecita d’animo e amica;dietro gli fu, per i biondi capelli trattenne il Pelide,e solo a lui si mostrò: degli altri, nessuno la scorse.N’ebbe stupore e si volse Achille e all’istante conobbePallade Atena: tremendi all’eroe brillarono gli occhi;dunque spiegò la sua voce e le disse alate parole:«Figlia di Zeus che dell’egida è cinto, a che pro sèi discesa?Forse a vedere a che segno oltraggia Agamennone Atride?Questo però io ti dico e si compirà, ben lo credo:per i suoi atti superbi fra poco avrà persa la vita!»Disse di contro, però, la dea Atena, Occhi-di-strige:«A racquietare il tuo sdegno, se solo volessi obbedirmi,venni dal cielo: m’inviò la dea Era bianca di braccia,per ambedue nel contempo sollecita d’animo e amica;modera, via, la contesa, non stringere in pugno la spada;ma con parole soltanto ingiuria, annunciando il futuro;sì, poiché questo ti dico e sarà già evento compiuto:triplo indenizzo daranno a te un giorno, doni stupendi,a riparare l’oltraggio: ma frénati, a noi obbedisci!»Ed in risposta le disse Achille dai rapidi piedi:«Certo, la vostra parola, o dea, è opportuno la osservianche chi ha collera grande nell’animo: questo è più saggio:l’uomo che a loro obbedisce, l’ascoltano spesso, gli dèi».Disse e sull’elsa d’argento trattenne la grave sua manoe la gran spada respinse nel fodero, né fu restioalla parola d’Atena; ma ella era ascesa all’Olimpo,fra gli altri numi, alle case di Zeus che dell’egida è cinto.

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Ma nuovamente il Pelide, allora, con aspre paroleverso l’Atride si volse, né più moderò la sua ira:«Ebbro, che gli occhi soltanto hai del cane e il cuore del cervo,mai rivestire corazza in guerra, affiancando l’armata,mai collocarti in agguato coi primi campioni d’Acheisoffri nell’animo: questo a te sembra artiglio di Chera!Ben è più agevole, certo, nel campo spazioso d’Achei,togliere i doni a colui che contro ti debba parlare;re che il tuo popolo sbrani, su gente da nulla tu regni;o certo, Atride, oggi avresti offeso per l’ultima volta!Questo ti dico però, farò giuramento solenne;sì, per lo scettro che impugno e mai più né fronde né ramigermoglierà, ché in principio ha lasciato il ceppo sui monti,e non darà mai più fiori, ché il bronzo d’intorno gli ha toltoe la corteccia e le foglie; così, ora, i figli d’Acheil’hanno fra mano, i ministri del giusto, essi, i quali le leggiserbano in nome di Zeus; è mio giuramento solenne:ritornerà desiderio d’Achille nei figli d’Achei,in tutti quanti; ma allora a salvarli, pur nell’angoscia,tu non varrai, quando molti, per Ettore sterminatore,s’abbatteranno e morranno: nell’animo ti roderai,ti cruccerai, perché il primo eroe fra gli Achei hai spregiato!»Sì, così disse, il Pelide, e scagliò giù in terra lo scettrotutto intarsiato di borchie dorate, ed infine s’assise;gli era di fronte l’Atride, in collera; ma fra di loroNestore sorse, eloquente, arguto oratore dei Pili,dalla cui lingua la voce fluiva più dolce del miele;già, vivo lui, due semenze degli uomini nati a morirecaddero, quanti al suo fianco già nacquero e crebbero prima,in Pilo amata dai numi, e ormai sulla terza regnava;egli fra loro parlò, con saggio proposito, e disse:«Ahi, grande lutto davvero raggiunge la terra d’Acaia;Priamo e i figli di Priamo avranno di che rallegrarsi,e proveranno gran gioia nell’animo, gli altri, i Troiani,quando di voi si sapesse ogni cosa, che contendete,voi, ch’eccellete in consiglio, eccellete i Danai in battaglia!Dunque, obbedite: di me più giovani siete ambedue,ed in passato già, io, fui compagno d’altri guerrieri,anche migliori di voi, né mi disprezzarono mai.No, fino ad oggi non vidi né più rivedrò degli eroiquali Pirítoo e non meno Driante, il pastore d’armate,Cèneo, ed Essàdio con lui e, pari agli dèi, Polifemo,ed anche Tèseo, l’Egide, immagine degli immortali;crebbero come i più forti, fra gli uomini sopra la terra;erano certo i più forti, lottavano contro i più forti,contro i centauri dei monti, ne fecero strage tremenda.Di quegli eroi fui anch’io compagno, ero giunto da Pilo,terra remota, lontano; già, essi m’avevan chiamato;come potei, mi battei anch’io; no, con loro nessunosi batterebbe, fra quanti mortali oggi vivono in terra;pure, accettavano un mio consiglio, obbedivano a un cenno;

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dunque obbedite anche voi, poiché l’obbedirmi è più saggio;non toglierai, tu che pur sèi valido, a lui la fanciulla,lasciagli il premio, ché l’ebbe per primo dai figli d’Achei;tu non dovresti, Pelide, aver col sovrano contesae ostilità, poiché mai d’onore comune ebbe sorteuno scettrato, un sovrano a cui Zeus concesse la gloria.Ché se più forte tu sèi, se per madre avesti una dea,egli è di rango più alto, poiché su più uomini regna.Ma la tua collera, Atride, tu sedala; te io, sì, io,prego, non far segno d’ira Achille, che, grande difesaper tutti quanti gli Achei, s’oppone all’orribile guerra!»Ed in risposta il potente sovrano Agamennone disse:«Sì, tutto questo senz’altro, o vecchio, a ragione l’hai detto;ma sopra gli altri, su tutti, vorrebbe innalzarsi, quest’uomo,e dominare su tutti vorrebbe e su tutti regnare,tutti ai suoi cenni, a cui uno non obbedirà, no, non credo;pronto di lancia lo fecero, i numi che vivono sempre:gli ingiungerebbero forse, perciò, di gridare insolenze?»Ma l’interruppe e così rispose lo splendido Achille:«Mi chiamerei veramente e vigliacco e uomo da nulla,se la cedessi a te sempre, per ogni parola che dici;dunque i tuoi ordini imponili ad altri, a me più non faraicenno, non già, poiché io non t’obbedirò, no, non credo.E un’altra cosa ti dico, tu ponila dentro il tuo cuore;certo non combatterò col mio braccio per la fanciulla,io, né con te, né con altri, ché voi la donaste e togliete;ma d’altri beni che serbo nell’agile, nera mia nave,nulla, se io non vorrò, tu potrai rapirmi e involarmi;fanne la prova, su, avanti, che n’abbiano anch’essi coscienza:subito scivolerà sull’asta il tuo livido sangue!»

b. Achille e l’amoreHeroides di Ovidio

Risale all’incirca tra il 20 a.C. e il 2 a.C. questa raccolta di 21 lettere d’amore non tutte scritte da eroine, in quanto include tre lettere scritte in risposta alle “eroine” dai propri uomini (Paride, Leandro e Aconzio).                              BRISEIDE AD ACHILLE,  Heroid. 3La lettera che leggi te la mandaBriseide a te strappata: a malapenala mia mano di barbara ha saputocomporre i segni greci. Dove vedicancellature, le hanno cagionatele mie lacrime: ma le stesse lacrime

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hanno una voce. Se un poco di te,o mio signore e sposo, m’è permessodolermi, un poco mi dorrò del miosignore e sposo. Se al comando regioio sono stata subito concessa,non tua è la colpa, ma tu pure hai colpa.Infatti come Eurìbate e Taltibio mi richiesero, subito ad Eurìbatee a Taltibio fui data per seguirli.Guardandosi a vicenda, si chiedevano,muti, dove mai fosse il nostro amore.Si poteva d’un poco differire:un indugio era caro alla mia pena.Ahimè! Nemmeno un bacio nel partireti detti: versai tutte le mie lacrime e mi strappai i capelli. Me infelice:mi sembrò di cadere prigionierauna seconda volta. Spesso, elusala sorveglianza, volevo tornare,ma c’erano i nemici pronti a prendere me tremante. Temevo che, inoltrandomi,venissi catturata ed a qualcunadelle nuore di Priamo destinata. Ma si doveva darmi e sono statadata. Da molte notti sono assente,ma tu non mi reclami: la tua iraè lenta. Pure il figlio di Menezio,mentre mi consegnavano, mi dissenell’orecchio: “Perché piangi? Starailà non per molto”. E’ poco non avermireclamata: perché non ti sia resa,Achille, tu combatti! Va ora dunquee abbi nome di amante appassionato.Di Telamone e di Amìntore i figlida te sono venuti, uno di sanguea te congiunto, l’altro tuo compagno, e il figlio di Laerte, perché fosserodi scorta al mio ritorno. Alle suadentipreghiere grandi doni si aggiungevano:venti fulvi lebeti di sbalzatobronzo con sette tripodi di uguale arte e peso: dieci talenti d’oro  e dodici cavalli sempre avvezzi alla vittoria e, ciò che era superfluo,fanciulle di incantevole bellezzadi Lesbo, tratte schiave dalle lorocase distrutte; e insieme a tutto questo

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(ma tu non hai bisogno di una sposa)una delle tre figlie di Agamennone.Quel che avresti dovuto dare tuall’Atride per riscattarmi, oralo rifiuti? Per quale colpa, Achille,ho meritato che tu mi ritengadi poco prezzo? Dove se n’è andatocosì presto da noi il fugace amore?Per me non spira un vento più propizio?Ho veduto le mura di Lirnessodistrutte dalla tua furia guerresca,ed ero della mia patria gran parte.Ho veduto cadere, da comunenascita e morte uniti, tre guerrieri;dei tre la madre era pure la mia. Ho visto al suolo arrossato di sangue,disteso per quant’ era lungo, il mio sposo col petto ansante e sanguinante.Tu solo hai compensato tante perdite:tu signore, tu sposo, tu fratello.Tu stesso mi dicevi, per la tua divina madre marina giurandolo, che ero stata per te un prezioso acquisto:certo perché, malgrado ti sia resacon ricchi doni, sia da te respintae con me i doni che ti sono offerti!Si dice addirittura che domani,come l’aurora brillerà nel cielo, darai le vele di lino ai piovosiventi di mezzogiorno. Quando a mesbigottita pervenne questa voce  funesta, me infelice, né più sangue,     né alito di vita mi rimase.Andrai; e a chi me misera, o crudele, tu lascerai? Chi potrà dare qualchesollievo al mio abbandono? Che la terraall’improvviso si  apra sotto ai mieipiedi e m’inghiotta o la folgore ardentem’incenerisca, prima che bianchegginosenza di me le acque marine al batteredei remi verso Ftia e che, sul lidoabbandonata, veda le tue naviprendere il largo. Se vuoi ormai tornareai tuoi Penati, non sarò un pesantefardello per la tua flotta. Da schiavaseguirò il vincitore, non da sposail marito. So tessere la lana.

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Tra le matrone greche di gran lungala più avvenente accederà da sposaal tuo talamo, nuora meritevoledi un discendente di Giove e di Egìnae di cui il vecchio Nèreo accetti di essereil prosuocero. Umile tua serva,io filerò la lana a me assegnata,traendo dalla rocca colma il filolavorato. Di questo ti scongiuro:non mi tormenti la tua sposa: il cuoremi dice che con me non sarà giusta.Non lasciare nemmeno che mi strappii capelli davanti a te e tu dicacon leggerezza: “Pure lei fu mia”.O anche questo permettilo, purchénon sia messa da parte ed ignorata:questo timore le più interne fibre,me sciagurata, mi sconvolge. Cosaaspetti tuttavia? L’ira Agamennoneha deposto, la Grecia afflitta giacetutta  ai tuoi piedi. Vinci la tua collera,vinci il tuo cuore, tu che vinci tutto. Perché fa a pezzi i Greci l’instancabileEttore? Prendi l’armi, sangue d’Èaco(prima però me accogli) e, col favoredi Marte, incalza i nemici atterriti.Per me è nata, per me finisca l’ira:io causa e fine sia del tuo soffrire.Non ritenere per te vergognosocedere alle mie suppliche: anche il figliod’ Èneo dalle preghiere della sposafu spinto a prender l’armi: a me agli orecchiè giunta questa storia, a te è ben nota:dei suoi fratelli privata, la madrevotò alla morte la giovane vitadel figlio. Si era in guerra: furibondo,quello depose l’armi, rifiutandocon animo ostinato di soccorrerela patria. Solamente la sua sposariuscì a piegarlo. Fortunata lei!Le mie parole invece a nulla valgono.Non mi sdegno per questo: io non da sposaho voluto passare, troppe voltechiamata come schiava dal padrone nel suo letto. Ricordo che a una servache mi chiamava padrona, risposi:“Alla mia schiavitù tu l’irrisione

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del nome aggiungi”. E tuttavia per le ossadel mio sposo, deposto nella terrasenza l’onore d’un sepolcro, ossasempre per il mio cuore venerabili,per le gagliarde anime dei mieitre fratelli, miei numi protettori,che, alla patria votati, con lei giacciono,per la tua testa e per la mia che unimmo,per la tua spada, di cui tutti i mieila potenza conobbero, ti giurodi non avere mai col Miceneodiviso il letto. Qualora ti menta,cacciami via. Ma, se ora ti dicessi,fortissimo guerriero: “Pure tugiura di non avere alcun piaceregoduto senza me”,  rifiuteresti.T’immaginano i Greci nel dolore,tu ti diletti a suonare la cetra.Tu nel tiepido seno di una teneraamante poggi il capo. Se qualcuno chiedesse la ragione della tuainerzia in guerra, il fatto è che combattereè nocivo, suonar la cetra, il canto e darsi in braccio a Venere è piacevole.E’ più sicuro starsene adagiatosopra un letto, abbracciare una fanciulla,passar le dita sulla lira tracia,che con le mani reggere lo scudoe l’asta acuminata e d’un pesanteelmo cingersi il capo. Ma una voltadi illustri imprese eri avido, sprezzandoqualunque rischio. Era dolce al tuo cuoreconquistare la gloria combattendo.Forse solo per catturare meamavi la feroce guerra e giacecon la mia patria vinta la tua gloria?Meglio dispongano gli dèi! Io pregoche, dal tuo braccio energico vibrata,l’asta del Pelio passi il corpo di Ettore.Mandate, o Danai, me: il mio signoreio pregherò portandogli frammistialla vostra ambasciata molti baci. 

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Più di Fenice, più dell’eloquenteUlisse, più del fratello di Teucrosaprò, dovete credermi, ottenere. Conta pure qualcosa con le avvezzebraccia cingergli il collo, con i mieiocchi parlare ai suoi. Sii pure tuquanto più vuoi feroce e più selvaggiodelle ondate marine, le mie lacrime, anche tacendo, ti convinceranno.Anche ora – e che tuo padre Pèleo giungaalla più tarda età e tuo figlio Pirrocon gli auspici paterni vada in guerra –volgi il tuo sguardo, valoroso Achille,all’ansiosa Briseide: non sfiniresenza pietà con una lunga attesaun’infelice. Oppure se il tuo amoreper me s’è tramutato in avversione,quella che senza te costringi a vivere,costringila a morire. In questo modolo farai: da me s’è dileguatala bellezza e il colore: solamente la speranza di te mi tiene in vita.Se mi abbandona, seguirò i fratellie il marito: non è per te un onoreche una donna per tuo comando muoia.Perché dovresti comandarlo? Stringiil ferro e colpiscimi: dal pettotrafitto ho ancora sangue da versare.Pianta in me quella spada che, se avessela dea permesso, avrebbe trapassatoil corpo di Agamennone. O piuttostoserba la vita a chi l’hai già donata:quella vita che avevi ad un nemicoda vincitore concesso, la chiedoora da amica. La Nettunia Pergamoti offre migliori vittime: rivolgia quella il cuore cupido di strage.Ma a me, sia che ti appresti a navigare,sia che tu resti, per il tuo dirittodi signore, comanda di raggiungerti.

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ACHILLE NEI COMMENTI DANTESCHI

Jacopo Alighieri (1322), Inferno 5.65-66Achille fu figliuolo de' re Peleo d'Atilia, detta Civita di Creti, il quale, essendo a Troia nell'oste de' Greci con certi compagni per fare alcuna pace della morte d'Ettore, da quei dentro fu falsamente fidato, dovendo torre Polisena figliuola de' re Priamo, di cui egli era vago, per moglie, e dare Andromaca, cioè la moglie ch'era stata d'Ettore, a Pirro suo figliuolo. Nel quale trattamento in alcun tempio di Troia, essendo per vendetta d'Ettore da' fratelli a tradimento fu morto.

Jacopo Alighieri (1322), Inferno 26.61-63Ancor di lor seguaci operazioni qui contra Deidamia così operando seguiro, che essendo l'esercito de' Greci, com'è detto, a Troia, alcuna volta rivelato fu loro dagli dii che per loro non s'avrebbe vittoria sanza il figliuolo de' re Peleo nominato Achille. Onde a grandissima cierca i detti Greci per trovarlo si misero, tra' quali finalmente Ulisse e Diomede ciercandone, l'esser d'alcuno re dell'isola d'Aschiro, nominato Nicomede, sentito, siccome di molti e di diversi paesi avea damigelle per compagnia di sua figliuola Deidamia, immaginandosi che tra loro, siccome fanciulla isconosciutamente Achille esser potesse, il quale dalla madre sua, essendo i' re Peleo [morto] in forma di fanciulla femina per sua guardia al detto re fu fuggito; ond'egli per femmina ricevendolo, a conpagnia di sua figliuola il lasciava, colla quale crescendo, l'un dell'altro innamorati s'aviddero, usando insieme carnalmente più volte. E pervenne il detto Ulisse e Diomede alla detta isola [e] vogliendo delle dette damigelle fare prova, nobilissimi arredi da donne e da uomini per donargli loro, insieme mischiati, portarono, si come di cinture e di ghirlande, e di borse e di coltella e di spade, immaginandosi che nel prendere de' doni naturalmente ciò si vedesse. Tra le quali, essendo alla prova, e tuttavia ragionando de' fatti de' Greci, e prendendo, con volontà de' re, delle dette gioie, al suo diletto, ciascuna: per Achille una spada si prese. Per la quale così conosciuto, incontanente da Ulisse e da Diomede amorevolmente fu preso, certificandosi di lui col detto re Nicomede, e significandogli la cagione che convenia che nell'oste de' Greci tornasse. Del quale, così partendosi, la detta Deidamia grossa, per l'usanza che co lui avea fatta, d'uno figliuolo maschio rimase, il quale nominato fu Pirro. Per lo quale Achille nell'esercito di Troia permanendo, a grandissima vittoria finalmente si venne, e a nobilissimi fatti, secondo che nelle sue storie si conta. Onde per cotale isconsolazione e inganno che Deidamia per Achille da loro ricevette, qui così si ragiona e simigliantemente per la tolta di Pallade, idolo de' Troiani, cioè Iddio di sapienza, che per loro sagacitadi e malizie si fece, sanza qual tolta la detta terra pei Greci acquistare non si potea, in istatua d'oro nella rocca d'Ilion di Troia permanendo, con fattura d'alquanti cittadini traditori finalmente tra le mani de' Greci pervenne, per cui diserta e abbassata incontanente fu Troia [in] ogni grandezza, secondo che nelle sue istorie si legge.

Jacopo della Lana (1324-28), Inferno 5.64-66Questa Elena fu una bellissima donna, ed era mogliera di Menelao grande e possente in tra i Greci. Paris figliuolo di Priamo re di Troia essendo andato in Grecia, vide questa donna e innamorò di lei ed ella di lui. Trattò secretamente d'averla e sì la furò al marito e menolla a Troia; per la quale cagione li Greci

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irati di tale oltraggio, feceno oste a Troia, e infine la distrussero, e però dice Dante: per cui tanto reo Tempo si volse, cioè per lo assedio di Troia, che fu molto. Achille: Questo Achille fue figliuolo di Peleo e di Thete dea marina. Or essendo ello giovane al tempo dello assedio di Troia e morto il padre, questa Thete sua madre previde che ello dovea esser morto in lo assedio di Troia, pensò di volere schifarli tal morte in questo modo, che ella lo vestì in abito di femina, e mandollo all'isola di Licomede re, cioè a Schiro. E mandò pregando lo detto re che dovesse salvare e guardare questo suo figliuolo sì come facea Deidamia sua figliuola, la quale lo detto re tenea in uno palagio con molte fanciulle e serventi. Lo detto re avendo ricevuto lo prego, e credendo che fusse femina sì lo mise a stare con Deidamia sua figliuola: ed e' ebbe a fare con essa carnalmente. Or in processo di tempo fu ditto per alcuni augurii, overo indivinatori, a Greci ch'elli non potrebbono conquistare Troia se inanzi elli non avessono con loro Achille, lo quale era fortissimo e valente uomo, e vedeano ch'elli era ascosto in una isola in abito di femina. Li Greci udito questo si misono a volerlo cercare, e fenno in questo modo: ch'elli commisono ad Ulisses ed a Diomedes, ch'erano due grandi gentili uomini, in forma di mercatanti andassono cercandoro per l'isole del mare e portassono merciarìa da uomini e da femine, e in ciascuno luogo ch'elli presumessono ch'elli potesse essere, lìe mostrassono queste sue merciarìe, e quando vedessero che alcuna femina prendesse o toccasse cosa che appartenesse a cavaliere come spade, isproni, coltelli da ferire o lancia, e non cose che apartenessono a femina, fossero certi che quello era Achille: poscia trovato lui facessono comandamento a quella signorìa, dove lo trovassero, da parte del re e dello esercito di Greci, che a loro fosse dato. Questi Diomedes ed Ulisses, tolta tale commissione, preseno a fare la detta cerca, e più isole cerconno finchè furno all'isola dov'elli era. Come funno dismontati de' suoi navili novella andò per l'isola: due mercatanti sono giunti in porto, li quali hanno di diverse maniere di gioie e merciarìe. Udito questo la figliuola del re mandò per essi. Questi andonno là e portonno tutte sue merciarìe e gioie. Or quelle damigelle, ch'erano lìe, toccavano e cercavano di quelle cose, chi trecciera, chi ghirlanda, chi cintura e chi specchio e pure cose feminili. Achille guardava spade e coltelli e metteasi scudi a collo, missidava sproni e pure tramutava cose ch'apartenevano a cavalieri. Questi aveduti del fatto dissono insieme: questi è esso. Poi dissono a lui: tu sei Achille; ed elli nol seppe negare. Fatto costoro allegrezza grande, fenno comandamento al re, sì che l'ebbono e menonlo all'oste. Lo quale Achilles ad una scaramuccia uccise Ettor figliuolo di Priamo re di Troia e fratello di Paris e di Polissena. Uscendo un dì fuor di Troia Polissena e gran gente de' Troiani a far onore al corpo d'Ettor, imperocchè quel dìe era uno anno che era stato morto, ed essendo tregua di tre mesi tra li Troiani e li Greci, Achilles andò a veder quel pianto, e veggendo Polissena così bella innamorò di lei: alla fine mandolle certi messi. Paris, e la reina Ecuba madre d'Ettor, saputo tale innamoramento, mandolli a dire s'ello la volea per mogliera ch'ello glie la darebbe; e se ello la volea vedere venisse da cotal porta. Achilles montò suso un palafreno, e tutto disarmato fuor che dalla spada, menò seco Antilogo figliuolo del re Nestore, e andò da quella porta per vederla. Paris fu al tempio d'Apolline, ove dovea venire Achilles armato con venti compagni; e quando Achilles e Antilogo vennero, sì li ancise. Vero è che, come pone lo troiano, quelli feceno grandissima difesa, sichè per amor combattenno, e morti furono.

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Jacopo della Lana (1324-28), Inferno 26.58-63E soggiunge come lì dentro gemeno, cioè portano passione del cavallo di Troia, per la quale ella fu presa: ancora gemeno l'arte, per la quale elli tolseno a Deidamia Achille; ancora gemeno per lo Palladio che fu guasto. Circa le quali cose è da sapere che Ulixes e Diomedes furono gentilissimi uomini di Grecia, e furono al tempo della distruzione di Troia; erano grandi trattatori e sottili d'ingegno, e per lo suo sapere preseno Troia. In prima, sicom'è detto nel quinto capitolo, per sua sottigliezza elli seppeno trovare Achille, ch'era ascoso in abito di femina, e tolseno a Deidamia figliuola di Licomede re di Aschiro, con la quale elli giacea carnalmente e lassolla gravida. Ancora seppeno fare che 'l Palladio fu tolto giuso dalle mura di Troia. Palladio era una imagine d'oro, la quale fu costrutta ad onore di Palas, ed era uno templo sovra una delle porte della terra, ed erali scritto attorno: beata civitas illa, qua est imago haec, quia non poterit capi nec igne cremari, donec ibi fuerit. Sichè saputo Ulixes e Diomedes di questa imagine, seppeno tanto fare che la ebbeno, e d'allora inanzi la terra andò sempre indrieto. Ancora ordinonno li sopradetti di fare e fenno uno grandissimo cavallo di metallo, in lo quale elli nascoseno grande moltitudine di cavallieri, poi lo menonno infino presso la porta della città. La notte si partinno con tutto suo navilio. La mattina le guardie delle mura e delle torri veggendo che alcuno non era al campo, e credendo che i greci se ne fosseno partiti per non tornar lì più, fennolo asapere al re Priamo re di Troia. Uscirono li Troiani fuori della terra per tòrre questo cavallo di metallo; era sì grande che non potea entrare per la porta della città, sichè ruppeno lo muro, e menonlo fino suso la piazza con grande allegrezza dicendo: questo è della roba de' greci, che nun hanno possuto portar via. La notte seguente tutto lo navilio delli greci ritornò allo assedio, e sicome fu ordinato per li predetti, nel rompente del dìe questi di fuora denno stormo e battaglia alla terra, e quelli del cavallo uscirono fuori e combatterono e corseno la terra; e a tal modo e ingegno l'ebbeno. Per la qual presa ebbe Eneas parola di partirsi sano e salvo con grandissima compagnìa, e venne ad abitare nelle parti occidentali; della quale discese poi Remus e Romulus, li quali construsseno Roma. E però dice: Onde uscì de' Romani il gentil seme. Jacopo della Lana (1324-28), Inferno 30.13-21Qui intende adurre un'altra istoria, di Ecuba reina di Troia; la quale come apparirà divenne insana e furiosa tanto, che andava abbaiando come cane. Al tempo che li Greci assedionno Troia lo re di Troia avea uno figliuolo picciolo, ch'avea nome Polidoro, il quale elli molto amava; pensossi che per lo detto esercito de' greci li potrebbe avenir alcuna disgrazia, sì che mandò questo Polidoro con moltissimo avere in Tracia a Polinestor re di quelle contrade, ch'era intimo suo amico, pregandolo ch'elli lo facesse custodire e guardare fino che quella pestilenzia, la quale li era data per li Greci, cessasse, che manderebbe per esso poi. Avea eziandìo una figliuola ch'ebbe nome Polissena, per la quale fu morto Achille, com'è trattato nel V capitolo, la quale era molto bella. In processo di tempo li Greci preseno Troia com'è detto, e Pirro figliuolo d'Achille volle che della detta Polissena per amore di suo padre fosse fatto sacrificio alli Dèi in su l'arca del padre, quasi a dire per vendetta: mio padre morì per costei, ed ella ne porterà pena. Ancora in la ditta presa di Troia fu morto Priamo re suo marito; sichè la detta Ecuba, sua mogliere, si vide cotanta fortuna; e morto il marito, morta la figliuola, e cacciata dal reame vedendosi, cotanto infortunio portava in pace sperando: io ho in Tracia Polidoro mio

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figliuolo con grande avere, io andarò a stare con lui, e trarrò mia vita come potrò. Or avenne che Polinestor sapendo che Priamo avea perduta la terra ed era morto, essendo andato suso lo lito del mare Polidoro in caccia, ordinò ch'elli fosse morto, e lì rimanesse. Morto costui fu lasciato sullo lito e non seppellito. Ecuba sua madre andando per stare con suo figliuolo lo trovò su lo lito morto, ebbelo cognosciuto; di grandissima tristezza venne matta e insana, e andava latrando come fanno li cani. Sì che pare per la sopradetta istoria come Ecuba venne furiosa e insana.

L'Ottimo Commento (1333), Inferno 5.65-66Vidi 'l grande Achille ec. In costui si punisce incesto, fornicazione, e rapimento, e soddomia. Fue Achille il fortissimo de' Greci, figliuolo di Peleo e di Teti, la quale per guardarlo del venire sopra Troia, lo rinchiuse in un monisterio di donne: quivi sverginò la monaca Deidamia, figliuola di Licomede, della quale nacque Pirro, del quale si toccherà di sotto, capitolo XXVI Inferni, quivi – Piangevisi entro ec. Nella persona della quale Deidamia commisse strupo; e incesto poi, quando elli venne sopra Troia, come si toccherà di sopra capitolo predetto. Combatterono un castello nome Leino, e quivi ne rapìe la fanciulla del detto Apollo, la quale avea nome Briseis, in costei commisse rapimento, fornicazione; soddomia commisse in Patroculus. Poi finalmente innamor[ò]e di Polisena figliuola di Priamo in un tempo di tregua; e però dice l'Autore che, cessato della battaglia de' Troiani, combattè con amore, che vince li forti petti: la quale egli procurò d'avere per moglie: sotto lo quale tratto Ecuba mandò per lui, e fecelo venire nel tempio d'Apollo dinante alla porta di Troia, nella quale era in aguato Paris; questo Paris il [ferìo] di saette, ond'elli e 'l suo compagno Antiloco, figliuolo di Nestore, morìo.Servio III, 321

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Firenze BN II, I 39

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Achille nel Roman de Troie di Benoit de Sainte MaureLa figura di Achille nel Roman de Troie rientra solo in parte nella figura del perfetto cavaliere. Ritenuto lussurioso, si recupera anche la leggenda post omerica sull’omosessualità d’Achille verso Troilo (Servius à Aen. I, 474: «Troili amore Achillem ductum palumbes ei quibus ille delectabatur obiecisse: quas cum vellet tenere, captus ab Achille in eius amplexibus periit». -verso Patroclo, come -secondo alcuni studiosi-parrebbe suggerire anche la descrizione del testo francese :Patroclus ot le cors mout gent e mout fu de grant escïent. Blans fu e blonz e lons e granz e chevaliers mout avenanz; les ieuz ot vairs, n’ot pas grant ire; beaus fu mout, a la verté dire. Larges, donere merveillos, mais mout par esteit vergondos. (Roman de Troie, v. 5171-78) 12

E su questo punto sembra provocarlo Ettore responsabile della sua morte:

L’ire grant que vostre cuers a porreiz vengier e les mesfaiz que tant dites que vos ai faiz, e la dolor del compaignon dont j’ai fait la desevreison, que tantes feiz avez sentu entre voz braz tot nu a nu, et autres gieus vis e hontos,

dont li plusor sont haïnos as deus, quin prenent la venjance par la lor devine poissance». (Roman de Troie, v. 13178-88)12 Patroclus fu jeunes hons et de merveillouse biauté. Les iauz ot vairz et rianz et tous jors sambloit honteus come une pucele. Larges estoit en doner et miaux estoit tailliés a sejorner delicïousement que a travail d’armes. (Roman de Troie en prose, §70, 16-19)

Patroclus estoit beaulx a merveilles, blonz cheveulx menuz recercellez, crespés, et blans et vermeulx, et preux et hardiz. Et s’entreamoient moult entre lui et Achillez. (ms. de Rouen, f. 23c) Prose 5Et por ce vos di je que li poins en est venus, se vos avés tant de proësce en vos come vos demoustrés ici par semblant, et se vos avés talent de vengier

Patroclus que vos tant amastes, de quele amour aucune folles gens distrent cruël vilenie, la quel chose je ne vossice por amor de vos por mil mars d’or que ce fust voirs. (Roman de Troie en prose 5, §136, 17-23)

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La grande ira che alberga nel vostro cuore potrebbe vendicare i misfatti che io avrei compiuto ed il dolore del vostro compagno che ho ucciso che tante volte avete stretto fra le vostre braccia tutto nudo e in altri vergognosi giochi invisi agli dei che poi si vendicano grazie alla loro potenza divina

Achille uccide Ettore in un momento in cui è distratto:

E quant l’aperceit li coilverz, – c’est Achillès, qui le haeit, – cele part est alez tot dreit. dreit a lui broche le destrier: nel pot guarir l’auberc doblier que tot le feie e le poumon ne li espande sor l’arçon.

(Roman de Troie, v. 16222-28)E quando lo scorge il vigliacco- Achille che lo odia procede tutto dritto, lancia il destriero e lo colpisce ferendo il polmonee lo stende sull’arcione

Ed ancora un’altra infrazione al codice cortese, ammazza Troilo caduto a terra:

N’ot o lui compaignon ne per: ainz qu’il s’en poüst relever, fu Achillès sor lui venuz. (..)Grant defense, dure meslee lor a rendu: mais ço que chaut? Rien ne li monte ne ne vaut, quar Achillès, le reneié, li a anceis le chief trenchié qu’il puisse aveir socors n’aïe. Grant cruëuté, grant felenie a fait: bien s’en poüst sofrir! (Roman de Troie, v. 21423-45)

Troilo non aveva con lui né compagno, né pari e prima che si fosse rialzato, Achille si avventò su di lui … quello ha opposto una dura resistenza ma a che serve? Niente gli serve perché Achille, il rinnegato, gli ha tagliato il collo senza che quello potesse essere soccorsp. Grande crudeltà, grande fellonia ha fatto: possa pagare per questo!

ACHILLE AMOROSO

Tradizione ben attestata già in Servio III, 321

Achilles dum circa muros Troiae bellum gereret, Polyxenam visam adamavit et conditione pacis in matrimonium postulavit. Quam cum Troiani fraude promissent, Paris post Thymbraei Apollinis simulacrum latuit et venientem Achillem ad foedus missa vulneravit sagitta.

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Achille, ha ucciso Ettore e -un anno dopo- vede Polissena che piange il fratello morto e subito se ne innamora:

***vv. 17531 ssNeis meïsmes danz AchillésI vint toz desarmez si pres Qui bien poeit o elz parler.Mes mielz l’en venist consirrer:mar i porta onques ses piezcar ainz que il fust reperezne de la feste retornez,s’est si il meïsmes atornezque sa mort a mise en son sein.Veüe i a PolixeneinApertement en mi la chiere:c’est l’achaison a la manierepar qu’il sera gitez de viea l’ame de son cors partie.Oez cumfet destinement!Hui mes orrez cumfeitement Il fu destreiz par fine amor.Mar vit onc ajorner cel jor.Molt est fotz chose d’Aventure,car as plusors est aspre et dure.

Venne anche Achille, disarmato e si avvicinò tanto ai troiani che poteva rivolgergli la parola. Ma avrebbe fatto meglio a evitare di venire perché sarà per sua sventura che entrò in città, in effetti prima che la cerimonia fosse conclusa e prima di lasciare la festa, era così trasformato da portare la morte in seno. Ha visto Polissena , ha visto chiaramente il suo viso, e questa è la ragione per la quale la sua anima abbandonerà il suo corpo. Udite quale sorte gli fu riservata e ancor più come fu stretto in nome dell’amore. E’ pur sua sventura che ha visto levarsi il giorno. Terribile è il destino, aspro e duro verso tanti esseri umani.

17551Granz mals vont par poi d’achaison.La grant biautié e la façonQu’Achillés vit en la puceleL’a cuit el cuer de l’estenceleQui ja par li nen iert esteinte13.En son cuer l’a descrite e peinte:14

13 nver’ ch’eo son distrettotanto coralemente:foc’aio al cor non credo mai si stingua;25 “anzi si pur alluma:perché non mi consuma?” (GdL Maravigliosamente)14      Meravigliosa - menteun amor mi distringee mi tene ad ogn’ora.

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ses tres biauz oilz veirs ez son fronte son biau chief , qu’il a si blontque il resemble estre doreztotes denotes ses biautez15.N’a rien sor li qu’il ne retraie:el cuer li a feit mortiel plaie.

Ed un evento minimo fu all’origine di un grande male. La grande bellezza della fanciulla, del suo viso, del suo corpo, avvolgono il cuore di Achille di una fiamma che non potrà mai spegnersi. Nel suo cuore l’ha incisa e dipinta, i suoi begli occhi vai nella fronte e il suo bel capo biondo che sembra dorato, tutto mostra la sua bellezza. Non c’è nulla di lei che lui non ritragga: nel cuore gli si è aperta una piaga mortale. La resplendor qu’ist de sa faceEl cors li mete freidore et glace16

Sis nes, sa boche e son mentonLe resprenent de tiel arsonDom ardra mes dedenz lo cors:pinciez sera d’Amors e mors.Ses tres biaus cors e sa peitrineLi redonent tel desciplineQue ja n’iert mes ne nuit ne jorQu’il ne sente les treiz d’AmorPlus de quarante treize feiz.Des or sera mes si destreizQu’il ne savra conseillier;des or li estovra veillierles longues nuiz sans clore l’oil.

Lo splendore che esce dal suo viso provoca un freddo come ghiaccio, il suo naso, la sua bocca, il suo mento lo avvolgono di una tale arsura per la quale

Com’om che pone mente5in altro exemplo pingela simile pintura,così, bella, facc’eo,che ’nfra lo core meoporto la tua figura. In cor par ch’eo vi porti,pinta come parete,e non pare difore.15 tuttavia raguardo e mirole suoe adornate fattezze,lo bel viso e l’ornamentoe lo dolze parlamento,35occhi, ahi, vaghi e bronde trezze.16 Le bellezze che ’n voi paremi distringe, e lo sguardarede la cera;la figura piacente50lo core mi diranca:quando voi tegno mentelo spirito mi manca – e torna in ghiaccio.

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brucerà dentro al corpo: sarà stritolato dall’amore e dalla morte. Il suo per bel corpo ed il suo seno gli impongono un tale tormento che mai né di notte né di giorno potrà evitare di sentire la forza d’amore più di 43 volte. D’ora in poi sarà così stretto che non saprà che fare; d’ora in poi dovrà vegliare per tutta la notte senza chiudere occhio.

17577Tost a Amor plaissié l’ergoil:poi li vaudra ci sis escuze sis hauzbers mailliez menuz.Ja s’espee trenchant d’acierNe li avrai ci mestier:force, vertu ne hardementne valent contre Amor neient.Achilles mire la pucele:ce li est vis que molt est bele;si i est, sans contredit:nus hom si tres bel ne vitne ne fera james nul jor.(…)

Amore ha schiacciato rapidamente il suo orgoglio, a poco gli serviranno lo scudo e l’usbergo dalle maglie minute. La sua spada d’acciaio tagliente non gli fornirà alcun soccorso: la forza, il valore, e l’ardimento non valgono nulla contro Amore. Achille guarda la fanciulla, si rende conto di quanto è bella; e lo è certamente, mai si vedrà una bellezza simile, mai si è vista o si vedrà una bellezza simile.

***vv. 17606Sovent mue color sa face:une ore est pale, autre vermeille.A sei meïsmes se merveilleQue se puet estre qui il sent,qu’ensi freidist et puis resprent.Sempres li estreit si le cuerQu’il ne se meüst a nul fuerTant cum il la poïst choisir.Del cuer i issent lonc sospir.Quant ne la voit, adonc s’en torne:molt fet pensive chiere e morne,molt va petit ne s’arestacepor remirer ancore la placeou la damaisele ot veüe.Tot si estres li change e mue.Tant i pense e tant i ententQu’il n’ot mes ne qu’il n’ententRien nule que dite li seit:trop est en angoissos destreit!Molt malades, molt desheitiez,

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s’est en son paveillon couchiez:n’a si privé qui i remaigne;des ore a prou de qu’il se plaigne,Amors li a chargié tiel fesQui molt est grief a sostenir.“Ha las, fet il, tant mar i mui!Tant mal alai veeir les ior!Tant mar i vi la resplendorDont mis cuers sent mortel dolorE main e seir, e nuit e jor!(…)Continuamente il suo viso cambia colore, e da pallido diventa rosso. Si chiede cosa gli succeda, perché il suo sangue diventa ghiaccio poi brucia. Il suo cuore è stretto con tale forza che non si sarebbe mosso in alcun modo fino a quando era possibile vedere la giovane. Dal cuore leva profondi sospiri. Quando non la vede si volta, è tutto sconvolto dai suoi pensieri. Ma non si allontana senza contnuare a contemplare il luogo dove l’ha veduta. Tutto il suo essere cambia e si muta, pensa a lei con tale intensità che non inende, né comprende nulla di ciò che gli è detto. Troppo è stretto da un doloroso tormento! Malato e affranto si è sdraiato nel suo padiglione; nessun amico rimane con lui, di tutto si lamenta, Amore lo ha cambiato in modo tale che a fatica può resistere. “Ahimé, così malamente muoio, per mio male andai a vederla quel giorno, per mio male ho visto quello splendore per il quale il mio cuore sperimenta un così forte dolore di mattina, sera, notte e giorno.

(vv. 17695-6):

«Narcisus sui, ço sai e vei,17

Qui tant ama l’ombre de sei Qu’il en morut sor la fontaine. Iceste angoisse, iceste peine Sai que jo sent: jo raim mon ombre,Jo aim ma mort e mon encombre; Ne plus que il la pot baillier Ne acoler ne embracier, – Que rien nen est ne rien ne fu, Ne il ne pot estre sentu, –Plus ne puis jo aveir leisor De li aveir ne de s’amor. Faire m’estuet, jo n’en sai plus,Iço que fist danz Narcisus, 17 Cfr. Jean Frappier 1976, p. 160 e Frappier Jean. Variations sur le thème du miroir, de Bernard de Ventadour à Maurice Scève. In: Cahiers de l'Association internationale des études francaises, 1959, n°11. pp. 134-158. Ma si veda anche Bernart de Ventadorn, Can vei la lauzeta mover… “III

Anc non agui de me poderNi no fui meus de l’or’ en saiQue.m laisset en sos olhs vezerEn un miralh que mout me plai.Miralhs, pus me mirei en te,M’an mort li sospir de preon,C’aissi.m perdei com perdet seLo bels Narcisus en la fon.

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Qui tant plora, criant merci, que l’ame del cors li parti. Ço iert ma fin, que que il tart, Quar jo n’i vei nul autre esguart. Narcisus por amer mori, E jo referai autresi. Deceüz fu en sa semblance: Ne rai pas meillor atendance, Quar jo n’en puis aïde aveir Ne plus qu’il ot, ço sai de veir [...]».

 «Sono Narciso, lo so e lo vedo, | che tanto amò la sua stessa ombra | che ne morípresso la fonte. | La stessa angoscia, lo stesso tormento | io so di sentire. Amo la mia ombra, | amo la mia morte e la mia prigione. | Cosí come egli non la può possedere |né gettarsi al suo collo e abbracciarla | – poiché non è nulla, né mai fu nulla – | né può da lei essere percepito, | cosí non posso provare il piacere | di avere lei e il suo amore.| Bisogna dunque che io faccia, non so altrimenti, | ciò che fece Narciso, | che tantopianse, implorando pietà, | che l’anima lasciò il suo corpo. | Sarà questa la mia morte,sebbene tardi a venire, | poiché non vedo altre possibilità. | Narciso per amore morí,| e io lo stesso. | Trovò l’inganno nel suo stesso sembiante: | non affronto un destino migliore, | poiché non posso avere piú aiuto | di quanto ne ebbe lui, lo so per vero (traduzione a cura di D’Agostino)

Achille continua il suo delirio amoroso:

18076Hai, fine de biaus senblant,esperitaus, enluminee,sor totes autres desirree,sor totes cele qui plus vaut,cum malement Amors m’assautpor vostre senblance delitequ’en mon cuer port peinte et escrite!18

Haimé voi dal sembiante raffinato, spirituale, luminoso, desiderata su ogni altra, sopra chiunque valga, ome con crudeltà mi assale amore per colpa del vostro bel sembiante che nel cuore porto scritto e dipintoPer amore rinuncia a combattere

18440-52C'est dévié lor fait Achillès, 18428 18 Cfr P. Borsa, L’immagine nel cuore e l’immagine nella mente : dal Notaro alla Vita nuova attraverso i due Guidi

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Se il mesfait, qu'en puet il mais, Quant cil li tout sen e mesure, Qui ne guarde lei ne dreiture, Noblece, honesté ne parage? Qui est qui vers Amors est sage? Ço n'est il pas ne ne puet estre : 18450 En Amors a trop grevos maistre; Trop par lit grevose leçon. Ço parut bien a Salemon ..

Questo rifiuto fa Achille, se lui sbaglia, cosa si può fare quando (Amore) gli toglie senno e misura e non considera legge né giustizia ? Chi è saggio nei confronti d’Amore? Non può che essere così, ha in Amore un maestro troppo tormentoso, e troppo gravosa è la sua lezione. Ciò apparve chiaro nella persona di Salomone

***18458-71(…)Qui très bien est d'amor espris, Il n'a en sei sen ne reison. Ensi, par iceste acheison, Laissa armes danz Achillès : Blasmez en fu lonc tens après. La soë gent e sa maisniee En ert dolorose e iriee: De duel les veïst om plorer, Qu'il n'osoënt armes porter. Hontos en erent e destreit, Mais a lor seignor n'en chaleit.

Chi è molto preso d’amore non ha senno né ragione. Dunque per questa causa Achille abbandonò le armi: fu per questo a lungo biasimato. Per questa ragione la sua gente e la sua masnada ne sono stati addolorati ed irati: li si è visti piangere per questo suo rifiuto di portare le armi. Ne saranno svegognati e addolorati ma al loro signore non importa.

Achille allora invia un messaggio ad Ecuba promettendo di ritirarsi insieme ai suoi Mirmidoni in cambio delle nozze con Polissena. Ecuba si dichiara d’accordo, ma prima vuole consultare Priamo. Questi chiede una pace totalee Achille convoca un consiglio in cui stigmatizza le ragioni di una guerra legate ad una donna, Elena e invita tutti a ritirarsi. Molti principi greci giudicano disonorevole questo discorso e Achille, ancora in preda all’ira, proibisce ai suoi di combattere.

Allora gli amici lo accusano di recreantise, accusa infamante che indica un’attitudine di rinuncia rispetto ai propri doveri verso la comunità:

***

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vv- 19015 ss« Coilverz », fait il, « de traison Devriez bien estre apelez, Qu'a ocire nos esguardez. Hui somes mort, pris e vencu : 19020 « Onc n'en preïstes vostre escu Ne n'eûmes par vos socors. La honte e li granz deshonors Que hui receit nostre ligniee Deûst par vos estre vengiee. Vis recreanz, a toz jorz mais En sereiz tenuz por mauvais, Qui c'endurez por nule rien, Qu'ensi nos vainquent Troiien. Failliz nos estes al bosoing. (…)Recreanz e coarz e feus, Quel vergoigne devez aveir!»Servo del tradimento dovreste essere chiamato, che ci guardate morire. Oggi siamo morti, presi, vinti, e voi non avete preso il vostro scudo per portraci soccorso. La vergogna ed il grande disonore che il nostro lignaggio ha ricevuto, dovrebbe essere vendicato. Vile e rinunciatario, per sempre sarete considerato cattivo, che accettate di lasciarci vincere dai Troiani. Ci avete abbandonato nel momento del bisogno. Rinunciatario, codardo, passivo nei confronti del destino, che vergogna dovete avere!

Agamennone tenta di convincere Achille, ma inutilmente, lui rimane inflessibile e continua i suoi deliri amorosi:

vv 19427-46S'estut dedenz mornes, pensis, Com cil qui d'amor est espris, Qui ne se set vis conseillier, Qui ne puet beivre ne mangier, Qui n'a repos de nuit ne jor. Si le travaille fine amor Qu'il nen a joie ne déport. Rien ne li puet doner confort, Qu'il trait la peine que cil traient Qui por amor sovent s'esmaient Qui en tel lieu ont lor cuer mis Dont n'ont déport ne gieu ne ris, Aise, voleir ne atendance: 19440 Icez ocit désespérance.

Dentro di lui è triste e pensoso, Come colui che è preso da amore, che non è in grado di seguire consiglio, non può bere, né mangiare, non ha riposo né notte né giorno. Così lo tormenta fin amor e non ha gioia né diporto, nulla può dargli

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conforto perché lui è preso dalla pena che prende coloro che per amore sono così spesso turbati, perché hanno messo il loro cuore in un luogo nel quale non esiste diporto, gioco o riso, agio, volontà o speranza. La disperazione tutto travolge.

lce est la rien dont Achillès Porte e sostient le greignor fais. Sovent s'esmaie e se despeire; Ne sait que cuider ne que creire: Qui la dedens estait assis D’amors mult destrois et pris

E questa è una cosa di cui Achille porta e sostiene il peso più grande. Continuamente si turba e si dispera; non sa cosa pensare né cosa credere: perché è assediato da amore e stretto e preso

Durante la XVI battaglia, Achille concede ai suoi uomini -i Mirmidoni- di partecipare agli scontri. Tuttavia i Greci, grazie al coraggio di Troilo-hanno la meglio:

vv 20679 ssQuant Achillès vit sa maisniee Morte e laidie e empeiriee,De cent n'en est uns repairié, Qu'el champ sont mort e detrenchié; Des vis i a plusors navrez, Qui les cors ont ensanglantez, — S'il ot ire, nus nel demant : Celé nuit fu il moût destreiz. Bien se sont acointié a lui Amors e Mesfaiz ambedui. Amors li dit : «Que vueus tu faire Ne a quel chief en vueus tu traire ? D'aveir Polixenain t'amie? a ensi ne me servent il mie, Li mien sougiet, li mien amant.

Quando Achille vede la sua masnada, morta, disonorata, distrutta, e che di cento non uno è sopravvissuto, perché nel campo sono morti e fatti a pezzi; feriti, insanguinati, se prova ira non c’è da chiedersi, (…) Quella notte fu molto tormentato e ben si sono scontrati dentro di lui Amore e Misfatto. Amore gli dice: “Che vuoi fare, qual è il tuo obiettivo? Avere Polissena, la tua amica? Non è così che mi servono, i miei fedeli, i miei amanti.

Tu as mostré e fait semblant Que tu te vueus partir de mei Mais mout conois poi mon segrei.

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Jo te faiseie estre atendant A la bele fille Priant, Que de beauté est resplendor E d'autres dames mireor : E tu as enfraite ma lei. Ne deiisses pas al tornei Enveier tes Mirmidoneis : Celé que plus blanche est que neis S'en est griefment a mei clamée. (…)Fort en sera la pénitence: De sa forme e de sa semblance Guit bien que t'estovra morir.

Tu hai chiaramente mostrato di volerti separare da me, ma poco conosci il mio segreto. Io ti avrei fatto diventare seguace della bella figlia di Priamo, splendore di bellezza e specchio delle donne: e tu hai infranto la mia legge. Non dovevi inviare al torneo i Mirmidoni: colei che è più bianca della neve si è con forza lamentata con me.(…) Terribile sarà la punizione, per la sua bellezza dovrai morire

Ne me vueus pas ensi servir Qu'o genz respons e o beaus diz « E o estre toz tens guarniz « De faire mon comandement, 20730 « E si guarz bien qu'a tote gent «Seies larges, simples e douz E que les miens honors sor toz ? Itel sont cil de ma maisniee: «A ceus ai ma joie otreiee;20735 « Icil sevent de quel savor Jo sui après la granr dolor. Mais tu nen iés pas a dou deie Que tu sentes mei ne la meie. Jo ne faz pas a guerreier, 20740 « Qui humblement a depreier, E tôt laissier e tôt guerpir Por ma volenté acomplir. Remembre tei que tu atenz. Donc n'est t'amie la dedenz ? 20745 « Ne li as tu son frère mort? Damage li as fait e tort. N'aveies tu en covenant A la reine al cors vaillant Que ja mais nés guerreiereies 20750 « Ne lor mal ne porchacereies? N'iés tu de covenant eissuz E de parole derompuz, La ou tu ta gent trameïs Eus damagier ? Mei est a vis

vv. 20763Tu perz ton pris e ta valor, E si perz t'amie e t'amor.

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N'en avras mie, ensi morras: Ja mais par li socors n'avras. E si n'en iras pas a tant: Jo vueil qu'el face son talant De tei ocire e cruciier, Qu'el te toille beivre e mangier, Dormir, repos e alejance, Senz bon espeir, senz atendance. Dès or li apareil e faz Come el te destreigne en ses laz.»

Tu perdi pregio e valore e così perdi la tua amica e il tuo amore. Così morirai, da lei nessun soccorso avrai. E se ne andrà, ed io voglio che faccia ciò che desidera: ti uccida e crocifigga, ti tolga il bere ed il mangiare, il dormire, il riposo e il sollievo, senza speranza, senza attesa. D’ora in poi vedrai come di stritolerà nei suoi lacci»

E cruciiez e tormentez Fu Achillès desci qu'ai jor. En duel, en lermes e en plor Est por amor, que sil destreint. 20780 Mout est iriez e mout se plaint ; Mout sospire, mout a travail: Ne sont pas suen li enviail; Des gieus partiz n'a pas le chois: «Jo meïsmes, » fait il, «me bois ; Nus ne me fait mal se jo non. Trop ai le cuer pesme e felon: Il me destruit, il me deceit. Mes maus conoist e aperceit: Ne m'en esloigne, ainz m'i atrait.

20790 « Haï! bêle, tant mal me vait! Tant sui por vos desavanciez E de joie desconseilliez!

2o8o5 Fors vos ne me puet rien valeir. Iço me torne a desespeir, Que jo ne puis a vos parler Ne vostre face remirer Ne conter vos ma grant dolor. Ha ! douce, fine, fresche flor, Sor les beles esperitaus E sor totes angeliaus, Come jo pert por vos la vie Senz aveir socors ne aïe ! Uevre de nature devine, Sor trestotes beautez reïne,

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A vos s'en vait mis esperiz 19; Mais, las ! ja n'i iert acoilliz, Qu'Amors me nuist, jol sai e vei : Ne s'en tient mie devers mei. Polixena, a vos m'otrei. Se n'en prenent li deu conrei, J'en ferai ço que jo ne dei. Ne sai que dire, mais muir mei. »

22117-Amor li a le sein toleit: ne set, ne veit ne n’aparceit; ne dote mort, ne l’en sovient. Ço fait Amors, qui rien ne crient. Tot autresi com Leandès, cil qui neia en mer Ellès, qui tant ama Ero s’amie que, senz batel e senz navie, se mist en mer par nuit oscure20, ne redota mesaventure: tot autresi Achillès fait. De rien ne tient conte ne plait; ne crient peril ne encombrier, qu’Amors li fait le sen changier, qui home fait sort, cec e mu. ... (…)Amore gli ha tolto il suo senno; non sente, non vede e non si rende conto di nulla; non teme la morte, non se ne ricorda. Questo gli fa fare l’Amore, che nulla teme. Proprio come Leandro colui che annegò nel mare della Grecia, che tanto amò Ero la sua amica, che senza battello e senza nave si mise in mare durante una notte oscura senza temere sventura, altrettanto fece Achille. Di nulla tiene conto non teme pericolo né problema perché Amore gli ha fatto cambiare il senno.

Alla diciottesima battaglia i Mirmidoni sono decimati, allora Achille in preda ad una terribile ira torna in battaglia21050E por la grant desconfiture, Que jusqu'al tref Achillès dure, Tel mil s'en passent par devant, Qui ne font chiere ne semblant Qu'en eus ait plus defension. Grant noise font al paveillon ; Sovent s'escriënt : « Achillès, Vostre enemi sont ja si près Que, se ci les volez atendre, 21060 « Jan i verreiz teus mil descendre, 19 Jaufre Rudel, Non sap chantar qui so non di, vv. 19-22 Anc tan suau non m'adurmi mos esperitz tost no fos la, 20 Il giovane Leandro, innamorato di Ero, sacerdotessa di Afrodite ogni sera attraversava lo stretto per incontrare la sua amata. Ero, lo aiutava con una lucerna finché una tempesta spense la lucerna e Leandro, disorientato, morì tra i flutti. All'alba Ero vide il corpo senza vita dell'amato sulla spiaggia e, affranta dal dolore, si suicidò gettandosi da una torre.

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N'i avra cel qui ne vos meisse, Honte e damage nos i creisse. Perdu avez hui vostre gent : « Detrenchié sont, mort e sanglent. Al bosoing nos estes failliz, Mais cil vos en rendront merciz Qui o vos n'ont ne pais ne trieve. » 2io55 Mout li desplaist e moût li grieve Ço que il ot e que il veit :

Angoissos est e si destreit Que il n'a sen ne remembrance. Isnelement, senz demorance, Giete son hauberc en son dos: Moût a le cuer del ventre gros. (…)Ne li membre, tant a iror, Adonc d'amie ne d'amor : Ne fait semblant qu'il l'en seit rien.

E’ così angosciato e stritolato, che non ha senno, né memoria. Rapidamente, senza esitazione, indossa il suo usbergo, molto è grande il cuore nel ventre. (…) In preda al’ira non ricorda l’amica e l’amore, sembra non saperne nulla. Dès or se guardent Troïien; Dès or criem moût que li choisiz Ne seit pas lor des gieus partiz. Tot autresi com sueut li lous 21090 Entre les aigneaus fameillos, Qui destreiz est de jeûner E qui ne[l] puet plus endurer, E cui ne chaut qui que le veie, Quant il vueut acoillir sa preie; 21095 Tot autresi fait Achillès: Qui quel veie, ne li chaut mais. Fel e desvez e d'ire espris, Sailli entre ses enemis. D'eus fait ensi com lous d'oëilles: Plus de dous cenz testes vermeilles Lor i a fait en petit d'ore; Il est li lous qui tôt dévore. Es greignors presses se treslance, Fiert de l'espee e de la lance. Mout rest feruz, mais ço que vaut? Rien nel prise ne ne l'en chaut.

Priamo domanda una tregua di 30 giorni. Intanto Ecuba decide di vendicarsi e convince Paride ad ucciderlo dopo averlo attirato in un tranello. Achille, convinto di recarsi ad un incontro con Polissena accetta e verrà ucciso dopo aver cercato di difendere Antiloco, figlio di Nestore che lo aveva accompagnato:22327Antilocus se rest pasmez El pavement, qui fu listez.

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E Achillès moût longement 22230 S'estait sor lui e le defent. Pitié en a plus que de sei : « Amis, » fait il, « ço peise mei, « Que de mort vos sui acheison : « Se jo dotasse traïson, 22255 « Il alast or tôt autrement. « Deceiiz sui trop malement. 22200 « Tôt cest plait m'a basti Amors : « Sentir m'en fait morteus dolors. « Ne somes pas des premerains, 22260 « Ne ne serons des dererains, « Qui en morront ne quin sont mort. « Beaus douz amis, n'i a confort : « Dejoste vos, o peist o place, « M'estuet morir en ceste place. 22265 « Ne me puis mais guaires aidier : « Por quant, o cest mien brant d'acier, « Vos vengerai, se fairel puis. « Se jo Paris ataing e truis, « Ja li rendrai le guerredon 22270 « De ceste mortel traïson. » (…)22285 A genoillons e en gisant, Desci qu'il ne pot en avant, Defent son compaignon e sel. Paris li dist : « Or vos otrei 22280 « Que compareiz cez druëries. 22290 « Mare ont par vos perdu les vies « Hector e Troïlus mi frère : « Par le comandement ma mère « Les vengerai de vostre cors. 22235 « Trop par vos estiez amors 22295 « A nos laidir e damagier, « Mais or le comparreiz moût chier, « Quar ci morreiz; ço iert grant joie « A trestote la gent de Troie. » 22240

Achille è ucciso. I Greci erigono una tomba straordinaria sulla quale si leva la statua di Polissena addolorata:

22435 Une image d'or tresgeterent, E sacheiz bien moût s'en penerent Qu'a Polixenain fust semblant : Ne fu ne mendre ne plus grant. Triste la firent e plorose E par semblant moût angoissose Por Achillès qui morz esteit, Qui a femme la requereit: Formée tout en tel manière

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Que moût en fait dolente chiere. 22445 E si fist el: ço sacheiz bien, Qu'il l'en pesa sor tote rien: S'osast, qu'en mal ne fust retrait, Merveillos duel en eiist fait. Vers sa mère en fu moût iriee, 22450 Que l'uevre aveit apareilliee. Por li est morz, e si l’en peise. Mais n'est pas fole ne borgeise ; Sage est, si ne vueut faire mie Rien qu'om li tort a vilenie. 22455 Por ço s'en tôt, si fist que sage: Grant mal l'en vousist son lignage. En son cuer ot puis grant iror De ço qu'il ert morz por s'amor:

Dopo il sacco di Troia i Greci non riescono a ripartire e l’oracolo rivela che è necessario vendicare la morte di Achille e Pirro immolerà Polissena sull’altare del padre:

A la mort veit que l'om la meine : A eus parole a moût grant peine, Quar de paor tremble e tressaut; Li cuers li mue e change e faut : 26475 « Seignor, » fait ele, « vil concire « Avez tenu de mei ocire. « One ne fu mais venjance faite « Que en si grant mal fust retraite. « Haut home estes e riche rei 26480 « A faire tel chose de mei? « N'ai mort ne peine deservie, « N'onques ne fis jor de ma vie « Par que jo fusse ensi traitiee. « Tant par sui de haute Iigniee, 26485 « Pucele jovne senz malice, « Que, SOS pleiist, ceste jostice « Deûst bien remaindre de mei. « Ocis avez Priant le rei, « Ses fiz, ses frères, ses nevoz 26490 « E ses autres bons amis toz : « D'ocire e d'espandre cerveles « E d'estre en sanc e en boëles « Deiisseiz estre tuit saol, « E aveir en autel refol 26495 « Qu'un meis entier avez esté « Si cruëlment ensanglenté « De l'ocise des cors dampnez « Que c'est merveille quos avez « De ma mort faim ne desirier. 265oo « Volez vos vos rasaziier « Ancor de mei? Ço sacheiz bien,

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« Que jo ne vueil por nule rien « Vivre après si faite dolor : « Ja ne verreie mais nul jor 265o5 « Chose que me reconfortast « Ne que leece me donast. 26400 « N'istra de mei fille ne fiz Par quei seit vis n'abastardiz « Li lignages dont jo sui née. 265 10 « Ne refus pas ma destinée : O ma virginité morrai. Bel m'est, quant jo ne maumetrai La hautece de ma valor. Ne dei aveir ja mais amor A rien vivant : ja Deus nel doint ! Or ne vueil pas qu'om me perdoint, 26410 « Qu'om m'asueille, moût le desvueil : « Trop plorassent sovent mi ueil. « Que me vausist vivre en dolor 26520 « N'en mortel glaive ne en plor? « Vienge la mort, ne la refus, 26415 « Quar n'ai talent de vivre plus. « Mon pucelage li otrei : « Onc si bel n'ot ne cuens ne rei. 2652 3 « Ne vueil pas que cil Talent pris, « Qui mon chier père m'ont ocis. 26420 « Nel vochasse pas sauf en eus : « Traïtors sont cruëus e feus. « Moût sui liée, quant jo fenis 2653o « E quant jo d'eus me départis : « Moût haïsse lor compaignie. 26425 « Tant a or porchacié Envie, « Que de ma beauté se plaigneit « E que tant me par haïsseit, 26535 « Qu'or n'iert ja mais por mei iriee. « Ne fusse mie a mort jugiee, 26480 (f Se Envie nel feïst faire. » Ço vos puis bien dire e retraire, Ne fust oriente la destinée, 26540 S'el poûst estre rachatee ; Li comuns toz de Test Grezeis 26435 La raensist d'or set cenz peis; Mais ço que Calcas lor enseigne, Par que la tormente remaigne, 26545 Covient faire. Las! quel damage ! La bêle, la pro e la sage 26440 E de totes la mieuz preisiee A Neptolemus detrenchiee Sor la sepouture son père. 2655o Tôt ço vit Ecuba sa mère : Del sanc de ses fines beautez 26445 Fu li tombeaus ensanglentez. De la reine vos sai dire Qu'o ses dous mains se vueut ocire :

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26555 De duel, d'angoisse e de haschiee Ist de son sen tote enragiee, 26450 Ensi desperse, ensi desvee, Si estrange, si forsenee Que rien ne la poëit tenir 2656o Ne por batre ne por ferir. Les reis, les princes laidisseit 26455 E tote jor les honisseit; A eus lançot couteaus aguz E pierres e basions e fuz; 26565 Sovent les mordeit o les denz. Ne la porent sofrir les genz : 26460 Ço dit Diiis, le chevalier, A forz peus la firent leier, Puis la lapidèrent a mort. 26570 En Abidie, loinz del port, La li firent sa sepouture 26465 Grant e haute, que ancor dure. Por ço qu'ensi faitierement Se fist ocire laidement,