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C’era una volta la Vita, quella vera, quella fatta di sentimenti
puri e vissuta come un dono, quella del Dio Sole e Sorella Luna,
non quella monoteista in cui l’unico Dio è chiamato Denaro.
C’era una volta ed adesso non c’è più…
c’erano uomini che vivevano a contatto con la natura e da essa
dipendevano, uomini che cacciavano nelle immense praterie per sopravvivere e non
ammassavano gli animali in minuscoli box per rendere le carni più tenere. Pescavano per
mangiare la sera e non distruggevano i fondali, uomini che non immaginavano che i
salmoni pescati in Europa potessero
finire il giorno dopo su un banco del mercato di Tokio e quello delle nostre scatolette fosse
il “pinne gialle” assente nel mediterraneo.
La società oggi ci “impone” e noi accettiamo senza un minimo
di spirito critico, la nostra felicità coincide con quella di tutti gli altri,cioè accumulare, i
nostri gusti sono quelli di un ragazzo medio americano o australiano o giapponese.
Nostri beninteso,non vostri, perché sono sempre stato il primo
a vivere in questa maniera; facile per un ragazzo italiano benestante
del XX-XXI sec, seduto su una poltrona con il proprio computer portatile a riflettere e
scrivere su come dovrebbe andare il mondo.
Però io ci penso e ci ripenso, ma non riesco proprio ad immaginare
come si è fatto ad arrivare ad un punto tale, in cui si è dall’altra parte del pianeta in poche
ore e si è collegati in un istante,in cui l’economia si gioca in borsa senza che nessuno
sappia cosa sia o come funzioni, in cui ci
sconvolgiamo forse per quelle guerre che ci raccontano come vogliono senza sapere che
queste non sono che una minima parte di tutti i conflitti, in cui si lanciano bombe a
chilometri di distanza con una percentuale
di errore dello 0,05% ma quello 0,05% vuol dire ammazzare persone innocenti, la maggior
parte delle quali per delle risorse come il petrolio, e
ohimè l’acqua, che presto finiranno; in un mondo in cui
“Che noia il tg, gira che Lucilla deve corteggiare Costantino”, in cui Lecce è out perché la
moda arriva in ritardo di 6 mesi. Ma cosa è la
moda se non far sentire a proprio agio le persone spendendo soldi,
in continuazione e sempre di più. Soldi guadagnati lavorando,
in continuazione e sempre di più. Soldi, a costo della Vita…
U.
Indice
Introduzione..........................................................................................................................3
Capitolo 1
1. Dalla rivoluzione industriale ad oggi..............................................................................7
2. La proposta di uno “sviluppo sostenibile”......................................................................9
3. La “Charte de l’environnement” français......................................................................16
Capitolo 2
1. Decrescita: un “NO” allo sviluppo sostenibile..............................................................19
2. La nascita della Decrescita............................................................................................25
3. Perché la Decrescita: un po’ di numeri..........................................................................31
4. Uno stile di vita... decrescente.......................................................................................36
4.1. Autoproduzione ed altre proposte decrescenti......................................................40
4.2. Schonau, un esempio per tutti...............................................................................47
5. Ritorno ai vecchi valori..................................................................................................51
Capitolo 3
1. La necessità di un’alternativa al Pil...............................................................................57
2. Dal Pil al Bil...................................................................................................................59
Conclusioni..........................................................................................................................65
Bibliografia.........................................................................................................................69
Introduzione
Difficile approcciarsi a un tema così delicato, così profondo da entrare dentro di te e
rimescolare la tua stessa esistenza, così viscerale da non permetterti di compiere
nessun gesto di vita quotidiana senza una riflessione, così sconvolgente che le
persone intorno a te, quelle con cui hai condiviso e condividi le giornate, si girano, ti
guardano attonite e spesso si chiedono: “Ma è impazzito?”...
Non è forse importante come ci si arrivi, né tanto meno come ci sia arrivato il
sottoscritto, ma è qualcosa che si insinua e ti permea corpo e cervello, ti fa chiedere
perché e come si sia giunti a questo punto di nonritorno. È qualcosa che ti si incolla
ed è impossibile staccartelo di dosso perché nasce dentro di te un processo vorticoso
che porta a vivere diversamente il “tutto”. Non è un vivere contro, ma è vivere il
giusto, vivere in armonia, è soprattutto un rincorrere i valori veri e farlo senza
quell’angoscia e quella paura di non farcela che è diventata ormai l’esistenza di
ciascun abitante del pianeta. Ed è per questo che l’aggettivo spesso associato al
termine Decrescita, quello più caratterizzante, non è “economica” o “sostenibile”
ma “felice”, una parola facile facile, quasi banale, da pronunciare, uno stato d’animo
quasi irraggiungibile nell’attualità.
Il lavoro che mi propongo di svolgere è affrontare il tema quasi “blasfemo” di una
catastrofe alla quale stiamo inesorabilmente andando incontro a tutta velocità; capire
come si sia giunti a questo punto; chiedermi se ciò che chiamiamo “sviluppo
sostenibile” sia una soluzione valida o solo un rallentare la corsa verso la fine;
3
cercare di diffondere la cultura della Decrescita, cosa è, perché potrebbe
rappresentare l’unica via d’uscita per un Pianeta allo sbando.
Nel fare questo, parto dal presupposto che una teoria organica a riguardo non è
ancora stata formulata e quindi con questo lavoro provo ad articolare una “tesi”
convincente. Infine propongo l’interessante analisi dei dati raccolti su un
questionario, elaborato per comprendere quanto sia diffusa una cultura decrescente
all’interno di gruppi differenti di persone, o ad esempio capire se la cultura del PIL
sia completamente radicata all’interno della società da lasciare poche speranze.
È proprio il bisogno morboso di crescita del prodotto interno lordo l’immaginario da
decolonizzare, l’identità creata ad hoc fra beni e merci, falsa, che ci porta a voler
sempre sostituire il vecchio col “nuovo che avanza e rende vecchio il nuovo di un
istante fa” (Mario Proto), ad accumulare “cose” e desiderarne altre.
Il sistema così com’è può essere paragonato ad un ciclista: può stare in equilibrio
solamente continuando a pedalare, ma bruciando una forma di energia non
rinnovabile1. Terminata essa, ci si ferma, e si cade. Destra e Sinistra, anche nelle loro
frange più estreme, non mettono in dubbio la Crescita come unica soluzione al
problema generato da essa stessa: proprio in un periodo di rivolgimento e
sconvolgimento politico, nonché di disaffezione del cittadino dalla vita pubblica e il
suo rifiuto di essere “zoon politikon”, le promesse che ci vengono fatte sono rivolte
in tale direzione, ed è proprio ciò che il cittadino medio che arranca per
sopravvivere fino alla fine del mese vuole sentirsi dire: “Più il PIl cresce, più soldi
per tutti”.
1 S. Latouche, La scommessa della decrescita, trad. it., Feltrinelli Editore, Milano, 2007, p. 20.
4
Oggi il Presidente americano afferma, ma è il pensiero di tutti: «La crescita è la
chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di
investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problema». Di fondo
questa posizione «procrescita» è condivisa anche da molti «altermondialisti», che
nella crescita vedono la soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di
posti di lavoro e una più equa ripartizione dei redditi.
Sono passati quarant’anni dal 18 Marzo del 1968, quando Robert Kennedy
pronunciava, presso l’Università del Kansas, un discorso nel quale evidenziava
l’inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni
economicamente sviluppate. Tre mesi dopo veniva ucciso durante la sua campagna
elettorale che lo avrebbe probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati
Uniti d’America:
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale
soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico,
nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice DowJones,
né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le
ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei finesettimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni
per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano
la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la
produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per
migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli
equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare
quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro
educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza
della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro
dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia
5
nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza
né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente
degna di essere vissuta.”
Parole pronunciate 40 anni fa ma attuali adesso più che mai, parole che toccano nel
profondo ma nel fondo sono destinate a rimanere. Parole che potrebbero invece
essere la base per una nuova società sobria, serena, conviviale... una società
decrescentemente felice.
Fonte: rivista “La Decrescita”, n.3, Dicembre 2006, p. 1.
6
Capitolo 1
Lo sviluppo è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti.
Eduardo Galeano
1. Dalla rivoluzione industriale ad oggi
“Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere cose più lontane,
non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla
statura dei giganti”. Così affermava Bernard de Chartres nel XII sec., una frase da
tenere sempre a mente specie quando ci si accinge ad analizzare un determinato
momento storico, per cercare di far luce nel futuro ma anche per voltarsi e capire
come si è giunti fino a quel punto. E allora ci si pone questa domanda così semplice
la cui risposta è una ardente necessità che sfugge solo a coloro per i quali la
questione del senso e del fine non è più valida. JeanClaude BessonGirard individua
quattro periodi chiave della storia occidentale, le cui conseguenze sulle nostre
mentalità e il nostro modo di vita attuale non sono state ancora misurate con
precisione per non mettere in discussione ciò a cui oggi, in Occidente, teniamo di
più: il nostro benessere intellettuale e materiale. Sono quattro momenti fondamentali
che comprendono duemila anni di storia e vanno da quella che egli chiama
“La pretesa unitaria di dominio”, che si identifica con l’avvento delle lingue
indoeuropee, della filosofia greca e del monoteismo, fino alla società
termoindustriale (“Prometeo scatenato”), toccando il diritto romano che, riscoperto
7
nel Medioevo, sarà utilizzato per legittimare la nascita degli Stati Europei legati al
trionfo politico del cristianesimo, e infine in quella che è definita “La grande
separazione”, un breve periodo a cavallo fra XV e XVI secolo segnato da una serie
di eventi: la scoperta dell’America, l’invenzione della stampa, l’invenzione della
nozione di arte separata dalla religione e l’invenzione e la diffusione della banca2.
Senza andare così indietro nel tempo, partendo dal presupposto che ogni elemento
passato è fondamentale per analizzare il presente, si possono trovare nella
rivoluzione industriale i prodromi di quella società che attraverso modernismo e
postmodernismo è giunta fino ai giorni nostri e più segnatamente nell’inizio
dell’uso industriale delle energie fossili in luogo di quelle tradizionali che hanno
dato il via all’ossessione della velocità e della produzione. Con lo sviluppo di nuove
tecnologie e nuove tecniche agricole la produzione aumentò e si creò una grande
eccedenza di mano d’opera, i contadini che prima lavoravano il cotone ed altre
materie prime furono costretti a spostarsi nelle città per lavorare a tempo pieno
all’interno di grandi capannoni, si costruirono alle periferie delle grandi città
abitazioni fatiscenti e insane, prive di servizi igienici. Il lavoro subì una radicale
trasformazione: nelle fabbriche all’operaio non era richiesta una particolare capacità
come invece era richiesta all’artigiano; inoltre la lavorazione a catena costringeva il
lavoratore ad atti ripetitivi e stressanti per dodici, quattordici ore giornaliere, in
capannoni umidi per il vapore acqueo accumulato e scarsamente arieggiati. La
borghesia arricchita accedeva alla rendita terriera e comprese perfettamente i
vantaggi economici a breve termine che lo sfruttamento diretto del capitale terrestre
2 Cfr. J.C. BessonGirard, Piccolo manuale per una decrescita armonica, trad. it, Milano, Jaca Book, 2007.
8
non rinnovabile poteva procurare, senza passare attraverso i tempi lunghi e i profitti
mediocri legati alle semplici rendite del capitale di superficie. Non restò che mettere
a profitto i vantaggi dell’essere Stati centralizzati per sfruttare le materie prime del
mondo intero trasformandole industrialmente grazie al sistematico saccheggio delle
risorse energetiche fossili. Il problema dei rifiuti e dell’inquinamento di ogni sorta,
diretta conseguenza di quelle pratiche all’epoca non interessava a nessuno e sarebbe
diventato un’eredità delle successive generazioni, così come la gestione dei conflitti
socioeconomicopolitici originati da questo progresso. Dopo il carbone vennero il
petrolio il gas l’uranio. Quale che sia la risorsa energetica, il suo sfruttamento
procurava e produceva un degrado del sistema globale, che oggi chiamiamo biosfera,
a causa dell’aumento dell’entropia che regola la trasformazione della materia fossile
energetica in calore, poi in lavoro. Se è vero che in Natura nulla si crea nulla si
distrugge tutto si trasforma, è anche vero che dalle ceneri di un albero bruciato non
saremo mai in grado di ricreare radici rami e foglie. Ogni sistema vivente è legato ad
un principio di irreversibilità che regge il tempo e l’energia.
2. La proposta di uno “sviluppo sostenibile”
Era il 1972 quando fu pubblicato il Rapporto Meadows, commissionato dal Club di
Roma al Massachussets Institute of Technology (MIT), sui limiti dello sviluppo (o
con una traduzione migliore “i limiti della crescita”).
Il mondo si trovava di fronte a tre modelli: “il mondo non ha limiti”, il che avrebbe
necessariamente portato al collasso essendo un modello palesemente falso.
9
“Il mondo ha limiti troppo vicini, non c’è più nulla da fare”. E qui è insito un
collasso in tempi brevi. Oppure, terzo ed ultimo modello, “ci sono limiti reali e
vicini, c’è giusto il tempo di rimediare”. L’unica via da percorrere secondo Ray
Forrester, uno degli studiosi del MIT, sarebbe dunque questa, attraverso un
riequilibrio di cinque elementi fondamentali: Popolazione mondiale, sviluppo
economico, produzione alimentare, risorse non rinnovabili ed inquinamento.
La conclusione alla quale si giunse per raggiungere un equilibrio sistemico globale
era “la crescita zero” di popolazione ed investimenti, a partire da subito...
Nel 1992 è stato pubblicato un primo aggiornamento del Rapporto, col titolo
“Beyond the Limits” (“Oltre i Limiti”), nel quale si sosteneva che erano già stati
superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta.
La novità era la stessa introdotta nel 1987 da un altro rapporto, quello Brundtland,
cioè quella cosiddetta dello Sviluppo sostenibile, concetto ormai entrato a far parte
del linguaggio di tutti i giorni, nel linguaggio televisivo come in quello politico, se
mai una differenza ci fosse. É un concetto che si risolve nelle due stesse parole che
lo formano, continuare a perseguire il fine ultimo della crescita ma farlo in modo da
salvaguardare il pianeta ed in fin dei conti la razza umana. Per dirlo con le parole
della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED), realizzatori del
rapporto commissionato dall’ONU: “lo Sviluppo sostenibile è uno sviluppo che
garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che
le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. Lo studio prese avvio
sottolineando come il mondo si trovasse davanti ad una “sfida globale” a cui si può
rispondere solo mediante l’assunzione di un nuovo modello di sviluppo definito
10
“sostenibile”.
Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile.
“Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è
piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la
direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i
cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli
attuali”. Tuttavia, se da un lato lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni
fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie
aspirazioni a una vita migliore, dall’altro nella proposta persiste una ottimistica
fiducia nella tecnologia che porterà ad una nuova era di “crescita economica”: il
concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensì imposti
dall’attuale stato della tecnologia e dell’organizzazione sociale alle risorse
economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività
umane. La tecnica e la organizzazione sociale possono però essere gestite e
migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica. Comunque
11
sia, un aspetto merita di essere sottolineato la centralità della partecipazione di tutti:
il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita
economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la
garanzia che tali poveri abbiamo la loro giusta parte delle risorse necessarie a
sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi
politici che assicurino l’effettiva partecipazione dei cittadini nel processo
decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali. Le
tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono
essere affrontate in maniera equilibrata a livello politico3; il concetto si è così
evoluto con il passare degli anni fino ad accostare alle originarie 3 E, ecologia equità
(sociale) ed economia, un quarto pilastro, quello della diversità culturale, necessaria
per l’umanità quanto la biodiversità lo è per la natura. A partire dalla prima
definizione data nel Rapporto Brundtland e sulla base di questo rapporto venne
organizzato, sempre dall’ONU, nel 1992 a Rio de Janeiro (Brasile), la Conferenza su
ambiente o sviluppo (nota anche come Earth summit) che si concluse con la
sottoscrizione, da parte di un centinaio di Stati, di cinque documenti, tra cui
l’Agenda 21, ossia un piano d’azione per il ventunesimo secolo, e la Dichiarazione
su ambiente e sviluppo.
L’attuazione degli accordi sottoscritti in tale sede venne demandata a un’apposita
Commissione per lo sviluppo sostenibile (CSD). Negli anni Novanta si susseguirono
incontri relativi a singole tematiche appartenenti al problema dello sviluppo
sostenibile (sulla popolazione, al Cairo nel 1994, sul ruolo della donna, a Pechino
3 Per ulteriori informazioni si veda http://europa.eu.
12
nel 1995, sulla pianificazione del territorio, a Istanbul nel 1996). Una data
emblematica è il 1997, anno in cui si svolse, in Giappone, la Conferenza di Kyoto sul
clima: sottoscrivendo il relativo Protocollo, i Paesi aderenti si impegnarono a ridurre
del 5,2% le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas che provocano il
cosiddetto “effetto serra” (determinando il surriscaldamento del nostro pianeta) per
il periodo tra il 2008 e il 2012. Il mancato conseguimento di questi obiettivi
determinerebbe, secondo gli esperti, nel 2100, un aumento della temperatura sulla
Terra di 5, 8 gradi centigradi e l’innalzamento del livello del mare di 80 centimetri.
Purtroppo in un primo momento questo protocollo non fu sottoscritto da tanti Stati,
in primis dagli Stati Uniti, che contribuiscono a oltre il 36% delle emissioni globali e
rendendo questa (ed altre dichiarazioni sottoscritte in megavertici) una vuota
proclamazione di intenti. Un risultato sicuramente utile è stato conseguito a
Johannesburg nel 2002: l’adesione di Cina, Russia e Canada al Protocollo di Kyoto
sul Clima (alla quale si è aggiunta l’Australia nel recente vertice di Bali del
Dicembre 2007 lasciando di fatto “soli” gli USA); al di là dell’indiscutibile peso
politico di queste adesioni, esse hanno reso possibile la realizzazione della
condizione cui era subordinata l’entrata in vigore del suddetto protocollo, ossia la
ratifica da parte di almeno 55 paesi che producano insieme almeno il 55% di
emissioni nocive, entrata in vigore avvenuta il 16 febbraio 2005, ad otto anni dalla
sua stesura, un passo sicuramente molto importante ma altrettanto sicuramente non
sufficiente, come d’altro canto hanno lasciato intendere diverse associazioni
ambientaliste.
Nel 2004 è stato pubblicato un secondo aggiornamento del Rapporto Meadows, dal
13
titolo Limits to Growth: The 30Year Update, nella quale Donella Meadows, Jorgen
Randers e Dennis Meadows4 ribadiscono l’assunto fondamentale,cioè che la Terra
non è infinita né come serbatoio di risorse (terra coltivabile, acqua dolce, petrolio,
gas naturale, carbone, minerali, metalli, ecc.), né come discarica di rifiuti, e che è
necessario intraprendere più azioni coordinate per gestire tale finitezza, che gli
effetti negativi dei limiti dello sviluppo rischiano di diventare tanto più pesanti
quanto più tardi si agirà. Gli autori prospettano quindi una rivoluzione sostenibile di
lunga durata come quella agricola o quella industriale, per nulla simile a
cambiamenti repentini come la rivoluzione francese, in grado di dare nuove risposte
al problema millenario della vita umana sulla Terra. Notano, tuttavia, che la
rivoluzione sostenibile dovrà essere accompagnata ben più delle precedenti dalla
consapevolezza della sua necessità e degli obiettivi di massima da raggiungere.
Essi inoltre rifiutano l’obiezione secondo la quale la tecnologia ed i meccanismi
automatici del mercato sono sufficienti ad evitare il collasso del sistema e
propongono al riguardo l’esempio della pesca: lo sfruttamento sempre più intenso di
una risorsa naturale di per sé rinnovabile ha condotto al depauperamento della fauna
ittica, al punto che il prodotto della pesca comincia a diminuire. La tecnologia ha
reso la pesca sempre più aggressiva (sonar, individuazione di branchi tramite
satelliti, ecc.), il mercato ha reagito alla scarsità aumentando il prezzo, trasformando
così un alimento per poveri in un alimento per ricchi. In generale sarebbe possibile
ipotizzare un esito analogo su più ampia scala (consumi crescenti da parte dei
“ricchi”, a prezzi elevati per effetto della scarsità delle risorse, impoverimento della
4 Per ulteriori informazioni si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto sui limiti dello sviluppo.
14
maggioranza), che però non sarebbe sostenibile. Gli autori ricordano, infatti, che di
norma la pianificazione familiare viene praticata dove si può godere di un’adeguata
sicurezza, mentre i tassi di natalità sono alti quando le condizioni di vita sono
difficili. Una società sostenibile, dicono, deve anche essere una società solidale e
con disuguaglianze contenute: ricchezze eccessive inducono comunque un consumo
sostenuto delle risorse naturali ed un crescente inquinamento, mentre una povertà
diffusa esporrebbe il pianeta al peso insostenibile di una crescita esponenziale della
popolazione che, come già visto nel rapporto di trent’anni precedente, è una delle
cause del collasso.
Fonte: rivista “La Decrescita”, n.1, Aprile 2005, p. 9.
Il disegno rappresenta l’emblema dello sviluppo sostenibile all’interno della società occidentale:si viaggia verso la catastrofe ma invece di invertire la rotta si rallenta solo la velocità.
“Una guerra atomica potrebbe far finire il mondo con uno schianto, lo sviluppo potrebbe farlo con una lenta agonia.”
15
3. La “Charte de l’environnement” français
Come visto negli ultimi anni l’idea di “sviluppo sostenibile” si sta evolvendo di pari
passo con la consapevolezza che tutto ciò che facciamo per distruggere l’ecosistema
si ritorce contro noi stessi, che un cambio di rotta è necessario e che il cambiamento
deve partire da questo concetto; pertanto la rifondazione da porre in atto deve essere
radicale, e negli Stati Moderni cosa c’è di più profondo della Costituzione? In tutte
le Costituzioni più recenti, compresa in quella che sarebbe dovuta essere la
Costituzione Europea, c’è un riferimento esplicito come non esplicito allo sviluppo
sostenibile, a partire dalla Svizzera in cui l’art.73 è interamente dedicato, per finire
al Portogallo, passando per Spagna Germania Polonia ed altri, non l’Italia (ma la
legislazione si evolve in tale direzione). Ma è in Francia che certamente troviamo
l’esempio più lampante di assunzione di certi impegni in materia di sviluppo
sostenibile: con Legge costituzionale n. 2005205 del 1 marzo 2005 infatti la
Costituzione francese è stata dotata di una Carta per l’Ambiente5, dieci articoli nella
quale sono racchiusi diversi principi fondamentali, cinque secondo Nathalie
KosciuskoMorizet, Segretario di Stato incaricata di ecologia: il principio di
responsabilità, secondo la quale chi inquina deve pagare secondo regole più
repressive; il principio di precauzione, favorendo il dialogo fra poteri pubblici e
organizzazioni professionali; il principio di integrazione, che fa dell’ecologia una
dimensione sistematica per ogni politica pubblica; il principio di prevenzione, che
evita di dover riparare ai danni; ed infine il principio di partecipazione, che permette
5 Per ulteriori informazioni http://www.teteamodeler.com.
16
ai cittadini attraverso il dibattito e le inchieste pubbliche di essere considerati nelle
decisioni e assicurandone la trasparenza6. Non c’è dubbio che tale scelta marchi la
solennità che si è inteso dare a questa revisione costituzionale, basti pensare che
risulta essere una vera rarità, per non dire un’assoluta novità per l’epoca
contemporanea, la revisione di un Preambolo; inoltre emerge un significato dai
risvolti ben più significativi: il riconoscimento dei diritti e dei doveri legati
all’ambiente viene posto allo stesso livello dei diritti civili e politici contenuti della
Déclaration del 1789 nonché dei principi economici e sociali enunciati nel
Preambolo alla Costituzione del 1946. Si assiste quindi alla costituzionalizzazione,
allo stesso livello dei diritti che la dottrina francese definisce di prima e seconda
generazione, anche del diritto all’ambiente che sempre la dottrina inserisce in una
generazione, la terza, sulla cui “consistenza normativa” molto si discute. In breve in
tale generazione si fanno rientrare non solo il diritto all’ambiente, ma anche quello
alla pace, allo sviluppo, al rispetto del patrimonio comune dell’umanità,
all’autodeterminazione dei popoli. Al di là delle più che fondate perplessità di poter
considerare la maggior parte di queste aspirazioni, per quanto assolutamente
condivisibili, veri diritti soggettivi, l’evoluzione giuridica che ha subito il diritto
all’ambiente e che mostra, senza ombra di dubbio, la parabola, più riuscita, del
processo di emersione di un “nuovo diritto” che appunto da aspirazione, bisogno
collettivo lascia lo “stato prenormativo” per accedere a quello “normativo”. Occorre
però sottolineare anche il rovescio della medaglia. Proprio la formulazione del
principio di precauzione, come anche il restante contenuto della Carta, e più in
6 Per ulteriori informazioni http://blogecolo.canalblog.com.
17
generale la politica ambientale dell’esecutivo, è stato bollato da una parte
consistente dell’opinione pubblica come una sorta di foglia di fico usata da Chirac
per far dimenticare i test nucleari condotti nel Pacifico, la promozione di
un’agricoltura intensiva e inquinante, per nulla intenta a proteggere l’ambiente.
Egli infatti, ha dichiarato nel 2002 alla conferenza dell’Onu sull’ambiente di
Johannesburg: “La casa brucia e noi intanto guardiamo da un’altra parte”,
affermando inoltre che i nostri stili di vita sono insostenibili, dal momento che gli
europei consumano l’equivalente di tre pianeti. Parole vere. Purtroppo però mentre
pronunciava questi discorsi, i suoi uomini, dietro suo mandato, lavoravano
all’Unione Europea affinché il Gaucho e il Paraquat, terribili pesticidi che uccidono
le api, provocano il cancro negli uomini e rendono sterili, non fossero iscritti
all’elenco dei prodotti proibiti.
Sempre Nathalie KosciuskoMorizet indica come debba avvenire questo cambio di
rotta a partire dalla Carta per l’ambiente: “É indispensabile prevedere degli
strumenti per accompagnare la carta: completare e precisare il codice dell’ambiente,
in particolare sulle questioni di responsabilità; creare un’alta istanza, un alto
comitato, luogo di confronto di esperti e consulenti del governo; sviluppare
l’educazione ambientale nelle scuole. Bisogna fare rispettare la Carta e bisogna fare
in fretta”. Soprattutto bisogna farlo veramente e bisogna farlo tutti quanti insieme;
non a caso l’ultimo articolo recita: “la presente Carta ispira l’azione europea e
internazionale della Francia”. Basterà?
18
Capitolo 2
Ce n’è abbastanza per le necessità di tutti, ma non per l’avidità di ciascuno.
Mahatma Gandhi
1. Decrescita: un “NO” allo sviluppo sostenibile
“Il problema del concetto di sviluppo sostenibile non è tanto nel termine sostenibile,
che è tutto sommato una bella parola, quanto nella parola sviluppo, che è
decisamente un termine tossico” Con queste parole Serge Latouche dà il là alla
critica a quello che definisce un pleonasma, un ossimoro che ci “preclude ogni via
d’uscita promettendoci lo sviluppo eterno. Almeno con lo sviluppo non sostenibile
potevamo mantenere la speranza che questo processo mortifero avrebbe avuto una
fine, vittima delle sue contraddizioni, dei suoi insuccessi, del suo insopportabile
carattere e della finitezza delle risorse naturali”. A ben vedere sostenibilità significa
che l’attività umana non deve produrre un livello di inquinamento superiore alla
capacità dell’ambiente di rigenerarsi. Non è altro che l’applicazione del principio di
responsabilità del filosofo Hans Jonas: “Agisci in modo che gli effetti della tua
azione siano compatibili con la continuità di una vita autenticamente umana sulla
terra”. Tuttavia, il significato storico e pratico dello sviluppo implicito nel
programma della modernità, è fondamentalmente contrario alla sostenibilità così
concepita. Si può definire lo sviluppo come un’impresa volta a mercificare i rapporti
tra le persone e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto
19
dalle risorse naturali e da quelle umane. La mano invisibile e l’equilibrio degli
interessi ci garantiscono che tutto procede per il meglio nel migliore dei mondi
possibili. Perché preoccuparsi? Sono lontani ben ventidue secoli i tempi in cui
Catone affermava: “Pianta alberi che ad un’altra generazione daranno frutti”7, ma lo
sono molto di più a livello morale se paragoniamo le conoscenze a nostra
disposizione. Se tutti si comportassero seguendo questo esempio le nostre opere
sarebbero ricompensate attraverso i benefici tratti dalla comunità nella quale
viviamo, e questo sarebbe vero sviluppo. Accostando un termine come “sostenibile”,
ossia la necessità di non ledere le generazioni future, si mina il concetto alla base,
perché dovrebbe già essere insito nella parola stessa. Se non serve a migliorare le
condizioni di vita presenti e future, non stiamo parlando di sviluppo.
Dalla fine degli anni Ottanta hanno fatto la loro comparsa nuove formule di sviluppo
“aggettivato”: si parla di sviluppo umano autocentrato, endogeno, partecipativo,
comunitario, integrato, autentico, autonomo e popolare, equo, per non parlare dello
sviluppo locale, del microsviluppo, dell’endosviluppo e persino dell’etnosviluppo,
nonchè naturalmente di sviluppo durevole/sostenibile. Questo però senza mai
mettere in discussione i presupposti del mito e delle pratiche dello sviluppo: la fede
incondizionata nel progresso tecnico, la massimizzazione dei profitti per le imprese
e, soprattutto, la crescita illimitata della produzione e dei consumi, vera e propria
spina dorsale di ogni politica di sviluppo. Come ha sottolineato H. Daly, siamo ben
consapevoli che sviluppo e crescita non coincidono, tuttavia è mai esistita una forma
di sviluppo senza crescita? Si potrebbe affermare che aggiungere l’aggettivo
7 Cicerone, Catone il vecchio. La vecchiaia, Mursia editore, Milano, 1987, p. 24.
20
sostenibile al concetto di sviluppo non significa certo rimettere seriamente in
discussione lo sviluppo esistente, quello che domina il pianeta da due secoli, ma
semplicemente concepirlo in un’accezione ecologica. E’ alquanto improbabile che
ciò basti a risolvere i problemi. Ormai, neanche la riproduzione sostenibile è più
possibile. Ci vuole tutta la fede degli economisti per pensare che la scienza del
futuro risolverà tutti i problemi e che la sostituibilità illimitata della natura attraverso
l’artificio sia possibile8. Come si chiede Mauro Bonaïuti, qualora si dovesse riuscire
a sfruttare nuove energie, sarebbe sensato costruire “grattacieli senza scale né
ascensori, esclusivamente sulla base della speranza che un giorno trionferemo sulla
legge di gravità?”. Il processo economico è di natura entropica. “La terra ha dei
limiti – sottolinea MarieDominique Pierrot – e trattarla come qualcosa che si possa
sfruttare all’infinito attraverso la mitizzazione del concetto di crescita, significa
condannarla a scomparire. Non si può invocare la crescita illimitata e accelerata per
tutti e allo stesso tempo chiedere che ci si preoccupi delle generazioni future. Il
richiamo alla crescita e la lotta alla povertà costituiscono solo delle formule magiche
e delle parole d’ordine buone per tutte le stagioni. Si tratta dell’idea magica della
torta della quale basta aumentare le dimensioni per nutrire tutto il mondo e che
rende ‘innominabile’ la questione della possibile riduzione delle parti di alcuni”. La
nostra ipercrescita economica oltrepassa già largamente la capacità di carico della
terra. Se tutti i cittadini del mondo consumassero come gli americani medi i limiti
fisici del pianeta sarebbero già ampiamente superati. Se prendiamo come indice del
“peso” ambientale del nostro stile di vita “l’impronta” ecologica di questa categoria
8 S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 109.
21
in termini di superficie terrestre necessaria, otteniamo risultati insostenibili sia dal
punto di vista dell’equità nei diritti di sfruttamento della natura, che dal punto di
vista della capacità di rigenerarsi della biosfera. Prendendo in considerazione i
bisogni di risorse e di energia necessarie ad assorbire i rifiuti e gli scarti della
produzione e del consumo e aggiungendoci l’impatto dell’habitat e delle
infrastrutture necessarie, i ricercatori del World Wide Fund (WWF) hanno calcolato
che lo spazio bioproduttivo pro capite dell’umanità è di 1,8 ettari. Un cittadino degli
Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5.
La prospettiva dello sviluppo sostenibile continua pertanto a ritenere positivo il
meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a
proporre di correggerlo con l’introduzione di tecnologie meno inquinanti e
auspicando una sua estensione, con queste correzioni, ai popoli che non a caso
vengono definiti «sottosviluppati»; nel settore cruciale dell’energia, ad esempio, a
partire dalla valutazione che le fonti fossili non sono più in grado di sostenere una
crescita durevole e una sua estensione a livello planetario, ne propone la sostituzione
con fonti alternative. Ciò non è altro che un palliativo che alla lunga, o forse lo ha
già fatto, ripropone il problema in tutta la sua gravità; c’è bisogno di un
cambiamento alla base, una nuova educazione, come ad esempio nel caso delle fonti
fossili una riduzione dei consumi energetici, da perseguire sia con l’eliminazione di
sprechi, inefficienze e usi impropri, sia con l’eliminazione dei consumi indotti
da un’organizzazione economica e produttiva finalizzata alla sostituzione
dell’autoproduzione di beni con la produzione e la commercializzazione di merci.
Sicuramente il ricorso all’efficienza ecologica è fortemente aumentato, ma se nel
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frattempo si prosegue sulla via di una crescita forsennata si produce
complessivamente degrado. La diminuzione dell’impatto ecologico e
dell’inquinamento per ogni singola unità è sistematicamente annullata dalla
moltiplicazione del numero di unità vendute e consumate. A questo fenomeno è dato
il nome di “paradosso di Jevons” o più comunemente di “effettorimbalzo” (effetto
rebound). L’effettorimbalzo permette di comprendere che, ogni volta che si riesce a
economizzare energia o materie prime per fabbricare un prodotto, l’effetto positivo
di questo guadagno è annullato dall’incitamento a consumare che ne risulta e
dall’aumento delle quantità prodotte. Una vettura che consuma meno, ad esempio,
incita a percorrere più chilometri di una vettura che consuma di più, poiché permette
di andare più lontano allo stesso prezzo. Allo stesso modo, la miniaturizzazione
degli oggetti elettronici stimola il loro consumo, i trasporti veloci permettono di
intraprendere viaggi sempre più lontani, ecc... La diminuzione del consumo
energetico per unità ha dunque l’effetto di aumentare il volume globale di consumo,
dato che i numero di prodotti fabbricati aumenta anch’esso. Da un lato, si riduce la
materia prima necessaria per ogni prodotto, ma poiché dall’altro si aumenta il
numero di prodotti fabbricati, il costo ambientale totale è sempre più elevato. È così
che, tra il 1970 e il 1988, nei paesi dell’OCSE, il consumo di energia per unità è
diminuito del 25%, mentre l’utilizzazione totale di energia aumentava del 30%. Un
altro classico esempio è quello dell’avvento dell’informatica che, secondo alcuni,
doveva provocare una brutale caduta del consumo di carta. È successo esattamente il
contrario, ossia tutti hanno acquistato una stampante personale per trascrivere su
carta i documenti scoperti in linea. Gli effetti positivi derivanti dall’adozione di un
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certo numero di misure di ispirazione ecologica (ricorso alle pale eoliche, riduzioni
di energia, nuove norme di costruzione delle automobili, ecc...) sono annullate dalla
crescita globale. Si possono dunque anche inventare dei “carburanti verdi” per le
vetture, o farle funzionare con l’elettricità, il beneficio che ne risulterà per
l’ambiente sarà annullato dal fatto che ci saranno sempre più vetture in circolazione.
Ma è importante vedere che questo effetto perverso è anche, dal punto di vista del
sistema economico dominante,e cioè dagli stessi creatori dello sviluppo sostenibile,
un effetto voluto, perché favorisce la domanda, e il che permette di aumentare le
vendite e dunque i profitti9.
Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile è un tale “fai da te” concettuale, che
cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua
antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale,
attesta la denominazione della ideologia dello sviluppo, ideologia che manifesta la
logica economica in tutto il suo rigore. Non c’è più rispetto in questo paradigma per
il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell’uomo
reclamato dagli umanisti. “Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua
verità... E lo sviluppo alternativo come un miraggio”10.
9 Cfr. A. De Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile, Bologna, Arianna Editrice, 2006.
10 François Partant,. La Ligne d’horizon. Paris, La Découverte, 2007, p. 134.
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2. La nascita della Decrescita
Una teoria, una sfida, un termine provocatorio... queste e tante altre definizioni
vengono affibbiate alla parola “decrescita”, ed effettivamente non è chiaro a tutti
cosa essa rappresenti; non è neanche facile da spiegare per coloro che in questo
concetto si identificano a pieno. Latouche a riguardo afferma che é improprio
parlare di teoria della decrescita, come gli economisti hanno fatto per le teorie della
crescita, soprattutto perché decrescita non identifica un modello pronto per l’uso.
Decrescita non è il termine simmetrico di crescita, ma è uno slogan politico con
implicazioni teoriche, è un termine esplosivo che cerca di interrompere la cantilena
dei drogati del produttivismo”11. Forse la cosa migliore per introdurre l’argomento è
sgombrare il campo da alcuni possibili fraintendimenti, chiarendo subito cosa la
decrescita non è: non è un programma masochisticoascetico di riduzione dei
consumi, nell’ambito di un sistema economicosociale immutato. Come ha
affermato più volte Latouche, parafrasando Hannah Arendt, non vi sarebbe nulla di
peggio di una società di crescita senza crescita. È evidente che una politica
economica incentrata su una drastica riduzione dei consumi creerebbe, data l’attuale
struttura del sistema produttivo e delle preferenze, una drammatica riduzione della
domanda globale e dunque un aumento significativo della disoccupazione e del
disagio sociale. Non è questa, dunque, la prospettiva qui auspicata. Decrescita,
inoltre, non significa condannare i paesi del Sud del mondo a un’ulteriore riduzione
dei loro redditi pro capite. L’appello alla decrescita è rivolto dunque, in primo luogo,
ai paesi del Nord. Anche per i paesi del Sud, tuttavia, la decrescita comporta un
11 S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 11.
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significativo cambiamento di prospettiva: non si tratterebbe più, infatti, di seguire i
paesi “più avanzati” lungo il sentiero della crescita. Questa via, oltre ad essere
distruttiva per gli ecosistemi, è in ogni caso, loro preclusa in quanto gli aumenti
della domanda globale sono ampiamente coperti dagli aumenti di produttività dei
paesi occidentali. Si tratterà dunque, anche per i paesi del Sud, di puntare in un’altra
direzione. Per quanto la decrescita alluda, sul piano economico, a una riduzione
complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa
in un senso più ampio come una complessiva trasformazione della struttura socio
economica, politica, e dell’immaginario collettivo, verso assetti sostenibili12. Questo
nella prospettiva di un significativo aumento, e non certo di una riduzione, del
benessere sociale. Paul Ariès la definisce “una parolabomba (motobus,
letteralmente parolagranata) per polverizzare il pensiero economista dominante, che
non si limita al neoliberismo”13. Ma come si è giunti ad adottare questo termine per
identificare questa “urgenza”? Fra le varie difficoltà che il concetto di decrescita è
costretto ad incontrare, il primo in ordine cronologico è appunto quello che riguarda
la natura stessa della parola. Nicholas GeorgescuRoegen, economista rumeno del
ventesimo secolo, padre fondatore della bioeconomia, è stato il primo a presentare la
decrescita come una conseguenza inevitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura.
Egli parla letteralmente di “declining” (declino) che non rende esattamente il
significato odierno, ma tuttora in inglese,così come in tedesco, è quasi impossibile
trovare una parola corrispondente al francese “decroissance” ed all’italiano
“decrescita” (e spagnolo “decrecimiento”): decrease, ungrowth, degrowth,
12 M. Bonaiuti, Obiettivo Decrescita, Edizioni EMI, Bologna, 2004, p. 3.13 P. Ariès, Decrescita, una parolabomba, in http://www.decrescita.it.
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dedevelopment, downshifting non esprimono quello che Michael Singleton
definisce il “cool down, take it easy, slacken off, relax man” proprio della decrescita
(calmarsi, moderarsi, stare bene, rilassarsi). Probabilmente, come nelle lingue
africane è impossibile tradurre letteralmente parole come “crescita economica e
sviluppo”, lo stesso accade nel caso appena menzionato, e bisogna ricorrere ad un
giro di parole come “the decreasing of growth” cioè “crescita decrescente”.
Seppure utilizzando un termine probabilmente improprio, GeorgescuRoegen è stato
il primo intellettualeeconomista negli anni settanta ad introdurre la questione
ecologica nell’economia affermando che qualsiasi processo economico che produce
merci materiali diminuisce la disponibilità di energia nel futuro e quindi la
possibilità futura di produrre altre merci e cose materiali. Le leggi dell’economia
sono convenzioni stabilite dagli uomini e non vanno d’accordo con quelle della
fisica, stabilite dalla natura. In particolare è il secondo principio della
termodinamica a elevare barriere insormontabili contro l’illusione di un crescita
continua dei consumi (di energia e di materie prime). E’ il principio dell’entropia,
che sancisce la degradazione dell’energia (e della materia) da forme “disponibili”
per l’uomo, a forme “non disponibili”, o talora dannose (come l’inquinamento). La
folle corsa ai consumi da parte dell’umanità è vista in realtà come un più rapido
avvicinamento alla nostra fine, allorché avremo basato l’intero nostro stile di vita
non su ritmi compatibili con il rinnovamento delle risorse naturali, bensì sul rapace
sfruttamento dei limitati forzieri di energia fossile. Il suo programma bioeconomico
si articola in otto punti fondamentali che sebbene siano “vecchi” più di trent’anni
sono attuali adesso più che mai. Egli afferma per prima cosa che la produzione di
27
tutti i mezzi bellici, non solo la guerra, dovrebbe essere completamente proibita. Le
nazioni così sviluppate da essere le maggiori produttrici di armamenti dovrebbero
riuscire senza difficoltà a raggiungere un accordo su questa proibizione se, come
sostengono, hanno abbastanza saggezza da guidare il genere umano. L’arresto della
produzione di tutti i mezzi bellici non solo eliminerebbe almeno le uccisioni di
massa con armi sofisticate, ma renderebbe anche disponibili forze immensamente
produttive senza far abbassare il tenore di vita nei paesi corrispondenti. Secondo,
utilizzando queste forze produttive e con ulteriori misure ben pianificate e franche,
bisognerebbe aiutare le nazioni in via di sviluppo ad arrivare il più velocemente
possibile a un tenore di vita buono (non lussuoso). Tanto i paesi ricchi quanto quelli
poveri dovrebbero effettivamente partecipare agli sforzi richiesti da questa
trasformazione e accettare la necessità di un cambiamento radicale nelle loro visioni
polarizzate della vita. Inoltre il genere umano dovrebbe gradualmente ridurre la
propria popolazione portandola a un livello in cui l’alimentazione possa essere
adeguatamente fornita dalla sola agricoltura organica. Questo punto, già presente
come sappiamo nel Rapporto Meadows, è al giorno d’oggi fonte di discussioni
infinite tanto nelle politiche nazionali quanto all’interno della stessa “Rete per la
decrescita”, discussione fra coloro che non vedono altra soluzione alla crescita zero
(o anche più radicale) e chi afferma che le capacità di tolleranza del nostro pianeta
sarebbero quasi doppie (circa dieci miliardi di persone) se solo la società fosse sana.
Quarto punto della teoria bioeconomica è che ogni spreco di energia per
surriscaldamento, superraffreddamento, superaccelerazione, superilluminazione ecc.
dovrebbe essere attentamente evitato e, se necessario, rigidamente regolamentato,
28
fin quando l’uso diretto dell’energia solare non diventerà un bene generale o non si
otterrà la fusione controllata. Quinto, dovremmo curarci dalla “passione morbosa”
per i congegni stravaganti, splendidamente illustrata da un oggetto contraddittorio
come l’automobilina per il golf, e per splendori pachidermici come le automobili
che non entrano nel garage. Se ci riusciremo, i costruttori smetteranno di produrre
simili “beni”. Dobbiamo liberarci anche della moda, quella malattia della mente
umana, come la chiamò Fernando Galiani in “Della moneta” già nel 1750. È
veramente una malattia della mente gettar via una giacca o un mobile quando
possono ancora servire al loro scopo specifico. Acquistare una macchina «nuova»
ogni anno e arredare la casa ogni due è un crimine bioeconomico. Settimo punto
(strettamente collegato al punto precedente), i beni dovrebbero essere resi più
durevoli tramite una progettazione che consenta poi di ripararli. Infine (in assoluta
armonia con tutte le considerazioni precedenti), dovremmo curarci per liberarci di
quella che GeorgescuRoegen chiama «la circumdrome del rasoio», che consiste nel
radersi più in fretta per aver più tempo per lavorare a una macchina che rada più in
fretta per poi aver più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più in
fretta, e cosi via, ad infinitum. Egli già nel 1975 affermava che “questo cambiamento
richiederà un gran numero di ripudi da parte di tutti quegli ambienti professionali
che hanno attirato l’uomo in questa vuota regressione senza limiti. Dobbiamo
renderci conto che un prerequisito importante per una buona vita è una quantità
considerevole di tempo libero trascorso in modo intelligente”14. Purtroppo questo
ripudio è continuato di pari passo con la regressione fino al punto odierno di non
14 Nicholas GeorgescuRoegen, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, trad. it. a cura di M. Bonaiuti, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 9596.
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scelta ma di necessità, necessità che ancora oggi pare non essere ascoltata. Forse
però qualcosa sembra muoversi e la parola d’ordine “decrescita”, come i concetti di
acrescita e doposviluppo, sta incontrando secondo Paul Ariès un rapido successo
dovuto alla coesistenza delle quattro crisi maggiori del sistema: la crisi ambientale
(deregolamentazione del clima), la crisi sociale (aumento delle diseguaglianze), la
crisi politica (disaffezione e deriva della democrazia), la crisi dell’essere umano
(perdita di senso): il sistema sviluppista schiaccia l’uomo così come schiaccia i
legami sociali e distrugge la natura15. In realtà seppur è vero che questi concetti
stanno incontrando un buon successo, è anche vero che lo stanno ottenendo solo in
pochi Paesi, in una piccola porzione della loro popolazione e sicuramente non sono
presi in considerazione dai “piani alti”, da coloro che hanno un potere decisorio e
decisivo; proprio per questo motivo la “decolonizzazione dell’immaginario” deve
partire dal basso: il cammino verso la decrescita non può essere intrapreso senza
prima accedere ad un percorso di disintossicazione, di purificazione del nostro
immaginario dalle tossine diffuse a profusione dalla società dei consumi e della
crescita. D’altro canto occorre divenire consapevoli che, per quanto le associazioni e
i movimenti si affannino a proporre valori alternativi (la pace al posto della guerra,
la cooperazione al posto della competizione, ecc.) questi valori non potranno mai
affermarsi su vasta scala sino a quando non verranno rimesse in discussione le
strutture economiche e sociali che producono questi stessi valori in una realtà
globale che è tale economicamente ma non politicamente, e che esige una
conduzione che non sia solo quella dei grandi poteri economici. Bisogna mettere
15 P. Ariès, Decrescita, una parolabomba, cit., in http://www.decrescita.it.
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sotto accusa una società ricca che sarebbe in grado di sfamare l’intera popolazione
del globo, mentre abbiamo un miliardo e mezzo di persone sottoalimentate. Una
società tecnologicamente avanzata tanto da poter soddisfare i reali bisogni di tutti
con una ridotta quantità di lavoro, mentre invece gli orari continuano ad aumentare,
al fine di produrre quantitativi crescenti di merci sempre più scadenti, destinate in
poche settimane a finire in discarica.
Una società scientificamente in grado di far vivere tutti a lungo e in buona salute, ma
in cui si continua a morire di AIDS perché i farmaci hanno costi inaccessibili, e
sempre più si muore di tumori a causa di aria, acqua, territori inquinati. Una società
che, quando i mercati si fanno pigri e la produzione ristagna, ha sempre una nuova
guerra di riserva, così da riattivare la produzione di armi e far ripartire il Pil.
3. Perché la decrescita: un po’ di numeri
Ormai è un dato di fatto, i numeri parlano chiaro, sia che siano diffusi dalla Banca
Mondiale o da Ong o da chi per loro, la situazione è allarmante. Pur utilizzando dei
criteri di valutazione di ricchezza e povertà intrinseci alla cultura di un sistema
economico fondato sulla mercificazione totale del Pil, dalla quale bisognerebbe
prendere le distanze, risulta che più di due miliardi di persone vivono con meno di
due dollari al giorno, soglia sotto la quale si è “ufficialmente” poveri; un paio d’anni
fa il livello di povertà in Italia si aggirava fra il 15 ed il 20%, oltre dieci milioni di
persone, e molte di più sono coloro che vivono con qualche euro in più ma che di
certo non hanno una sicurezza economica. Nel 2004 il Pil mondiale è arrivato a
31
quarantamila miliardi di dollari, settanta volte quello di cinquant’anni prima, ma
l’84% dei redditi complessivi è appannaggio del 20% dei più ricchi. Un lavoratore
africano medio guadagna in un anno meno di quanto guadagni un lavoratore
francese con salario minimo in un mese, ma non solo, visto che ogni mucca europea
“gode” di una sovvenzione di due dollari al giorno, cioè di più di quella di 2 miliardi
di abitanti. Ma proprio in questo si cela il paradosso ecologico della crescita: si
considera ogni attività remunerata come un valore aggiunto generatore di benessere,
mentre per esempio l’investimento in attività per eliminare l’inquinamento non
aumenta affatto il benessere16, e come afferma HervéRené Martin “i disastrosi
effetti ambientali e sociali provocati dal sistema di produzione industriale, prima di
tutto le materie plastiche, e dai modi di vita che induce, uccidono più persone di
quanto i filtri e protesi in plastica riusciranno mai a salvarne17. Inoltre in molti paesi
che hanno fatto registrare una crescita positiva del Pil, in realtà la ricchezza
diminuisce se si considerano i costi sostenuti per il degrado delle risorse naturali. In
Francia, per fare un esempio, si è registrato un aumento di persone affette da cancro
di circa il 63% dal 1980 al 2000, e in Italia la situazione non è certo differente.
Nell’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl nel 1986, o nelle piogge acide
in Europa centrale, o nella comparsa di malattie nuove e letali come l’AIDS
o l’encefalite spongiforme bovina, la cosiddetta “mucca pazza”, la parte di
responsabilità incombente ad attività umane sconsiderate è palese, ma tutte le misure
politiche prese per contrastare le loro conseguenze puntano solo agli effetti, e a volte
16 J. Ellul, Le bluff technologique, Hachette, Parigi 1998, p. 76.17 H.R. Martin, La mondialisation racontée a ceux qui la subissent. La fabrique du diable, vol. 2, Climats,
Parigi, 2003, p. 79.
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ad alcune cause secondarie, senza mai rimettere in discussione il modello che le ha
prodotte, e che quindi ne produrrà altre. Un esempio forse meno conosciuto ma
emblematico e di portata smisurata è quello della “tragedia di Bhopal”, tanto perché
riguarda una fabbrica che produce dal 1969 ogni anno cinquemila tonnellate di
pesticidi, fra i maggiori inquinanti al mondo, tanto perché la Union Carbide (ora
Dow Chemical Company) non ha fatto e continua a non far nulla per porre rimedio
alle conseguenze. La notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, a Bhopal, in India,
fuoriuscirono quaranta tonnellate di gas letali dalla fabbrica di pesticidi della Union
Carbide: ottomila furono i morti nell’immediato e dodicimila in seguito; i
sopravvissuti non hanno mai ricevuto un risarcimento adeguato, ancora oggi a venti
anni di distanza gli effetti negativi sulla popolazione sono notevoli: le falde acquifere
sono fortemente contaminate e tonnellate di rifiuti tossici sono ancora abbandonati
sul posto, il sito industriale non è stato bonificato, l’assistenza medica non assicurata
così come non c’è più acqua potabile per le comunità residenti18.
Di esempi di catastrofi, tragedie legate all’inquinamento purtroppo il mondo è pieno,
ma è il discorso più generale che va affrontato con serietà, una destrutturazione di
tutto il ciclo produttivo così com’è, bisognerebbe rivedere e riordinare il sistema alla
base. Una critica costruttiva viene da Annie Leonard, un’esperta di sostenibilità
ambientale con una ventennale esperienza investigativa nelle fabbriche e nelle
discariche di tutto il mondo: con “the story of stuff” (“la storia della roba”) espone
in un video di venti minuti le connessioni fra un enorme numero di questioni
ambientali e sociali riepilogando brevemente i nostri modelli di produzione e
18 Per ulteriori informazioni http://greenpeace.it.
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consumo: dall’estrazione passando per la produzione, la distribuzione, il consumo
per terminare con lo smaltimento, tutte le “cose” nella nostra vita hanno un enorme
impatto sulla società, sul mondo intero, ma la maggior parte di questo ciclo è
nascosto alla nostra vista. Il punto è che il nostro sistema di produzione e
smaltimento è un sistema lineare, e non è possibile immaginare che questa
situazione possa essere sostenibile all’infinito: per la salute di tutti la “roba”
dovrebbe essere inserita in un ciclo in cui le risorse vengano riutilizzate. Essa pone
l’accento su come nelle cinque fasi del processo in realtà siano omesse
immancabilmente una serie di variabili e quindi come queste fasi siano diverse da
come ci vengono propinate: ad esempio l’estrazione che è una “espressione carina
per dire sfruttamento delle risorse, che è una espressione carina per dire distruzione
del pianeta: abbattiamo alberi, facciamo saltare in aria montagne per estrarre
metalli, esauriamo le risorse idriche e causiamo estinzioni”; nella produzione
vengono utilizzate sostanze tossiche (come il B.F.R., Brominated flame retardant,
sostanze chimiche utilizzate per rendere ignifughi gli oggetti ma che sono in realtà
estremamente tossiche essendo neurotossine che hanno effetti dannosi sulle cellule
cerebrali) che con la distribuzione entrano nei centri commerciali multinazionali e
poi nelle nostre case; il consumo è diventato usa e getta, la vita media di un
computer è calata da sei a due anni dal 1997 al 2005, mentre i telefoni cellulari
hanno un ciclo di vita inferiore a due anni, per non parlare del vestiario e delle
mode; sullo smaltimento dei rifiuti un’altra tesi intera non basterebbe. The “Story of
stuff” analizza la deriva del sistema produttivo occidentale, con particolare
riferimento numerico al capitalismo americano: negli ultimi tre decenni, un terzo
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delle risorse naturali del pianeta sono state consumate, e negli Stati Uniti sono
rimaste meno del 4% delle foreste, il 40% delle risorse idriche americane sono
diventate non potabili; gli USA hanno il 5% della popolazione mondiale ma
consumano il 30% delle risorse e creano il 30% dei rifiuti di tutto il pianeta e se tutti
consumassero come un cittadino americano avremmo bisogno da tre a cinque
pianeti; attualmente esistono oltre centomila composti chimici sintetici in
commercio e solo una manciata di questi composti sono stati testati sulla salute
dell’uomo e nessuno è stato testato sulla salute in sinergia con altri; negli USA l’
Industria rilascia di oltre sei miliardi di euro di sostanze chimiche tossiche in un
anno. In media un cittadino americano consuma il doppio rispetto al 1960 ed ognuno
guarda più pubblicità in un anno di quanta ne potesse vedere una persona fino a
cinquant’anni fa in tutta la vita; negli Stati Uniti le ore dedicate allo shopping dalle
tre alle quattro volte in più rispetto all’Europa19. Ci si chiede giustamente: quand’è
che potremo portare nel nostro sacchetto le patate affianco ai pomodori vicino alle
mele senza separarle con quelle inquinantissime quanto inutili bustine di plastica?
Questo è un esempio di come ormai all’interno della nostra società sia così radicato
lo “spreco” da non farci più caso: chi è che in una cena informale con amici
rinuncerebbe ai bicchieri di plastica (nonriciclabili) o chi si pone il problema che
ogni volta che si tira lo sciacquone del water si inquinano più di dieci litri d’acqua (il
30% dell’acqua consumata in casa) dapprima resa potabile come lo spreco di cloro
ed energia?
19 Per ulteriori informazioni http://storyofstuff.com.
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4. Uno stile di vita... decrescente
La ricerca di alternative è oggi auspicata da tutti gli insoddisfatti dello sviluppo ed è
la necessaria prosecuzione di qualsiasi critica radicale delle concezioni e delle
pratiche attualmente dominanti. È però evidente che le proposte dei “decrescitori”
possano non sembrare costruttive né credibili agli occhi degli “sviluppisti” in buona
fede, perché si pongono al di fuori di un sistema in cui regna ed impera il concetto di
sviluppo e mettono in discussione la società del mercato e dell’economia come fine
ultimo. Proprio per questo motivo è abbastanza complicato rispondere a domande
come: “Ma potresti spiegarmi in poche parole la decrescita che cosa è?” oppure:
“Se si nega il concetto di sviluppo, con che cosa si intende sostituirlo?”. Gilbert Rist
afferma che quest’ultima domanda trae in inganno perché impone di accettare i
presupposti del contraddittorio per poter avviare il dibattito; per non passare subito
per utopisti o sognatori bisogna fare il “gioco dell’altro” e conformarsi a quelle
regole, ma siccome sono proprio le regole di questo gioco ad essere messe in
discussione, la battaglia appare impossibile già in partenza20. Rist si pone anche il
problema se valga la pena intraprendere questo percorso tanto più che anche se le
alternative esistono non sembrano interessare a nessuno. Questo dubbio appare
alquanto insensato partendo dal presupposto che la decrescita è una necessità, una
inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l’attuale
modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con il
mantenimento della pace. Esso inoltre porta con sé, anche all’interno dei paesi
20 Cfr. C. Corneliau, Brouillons pour l’avenir: contributions au débats sur les alternatives, IuedPuf, GinevraParigi, 2003.
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ricchi, perdita di autonomia, alienazione, aumento delle disuguaglianze e
dell’insicurezza. La decrescita non è una ricetta ma semmai un segno, un cartello
stradale che indica un nuovo percorso, un percorso che ci conduce verso un nuovo
immaginario, ma il cui programma non può essere formulato con il linguaggio dei
grandi esperti e tecnocrati. Peraltro non è facile la presentazione e non è facile da
realizzare: non bisogna certo rinunciare semplicemente perché l’audacia della
prospettiva sostenuta rende difficilmente realizzabili le necessarie misure complete e
le loro implicazioni. Il problema è che queste misure non rappresentano un modello
pronto all’uso come le tipiche strategie di sviluppo, ma sono “vere e proprie utopie
che mettono in movimento e creano nuove dinamiche in grado di riattivare
prospettive bloccate e aprire la via a possibilità precedentemente ostruite”21.
Per capire cosa sia la decrescita, e come possa costituire il fulcro di un paradigma
culturale capace di orientare sia le scelte di politica economica, sia le scelte
esistenziali, è necessario prima di tutto fare chiarezza su cosa è la crescita
economica. Generalmente si crede che la crescita economica consista nella crescita
dei beni materiali e immateriali che un sistema economico e produttivo mette a
disposizione di una popolazione nel corso di un anno. In realtà l’indicatore che si
utilizza per misurarla, il prodotto interno lordo, si limita a calcolare, e non potrebbe
fare diversamente, il valore monetario delle merci, cioè dei prodotti e dei servizi
scambiati con denaro. Il concetto di bene e il concetto di merce non sono
equivalenti22. Esistono beni che non sono merci, come tutti i cibi e gli oggetti
21 S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 95.22 Cfr. M. Pallante la decrescita felice,La qualità della vita non dipende dal PIL, Editori Riuniti, Roma,
2005.
37
autoprodotti, oppure i servizi gratuiti ricevuti o dati ai parenti e agli amici (non sono
merci perché non si scambiano con denaro e non fanno aumentare il PIL); esistono
merci che non sono beni, come la benzina sprecata in una coda, la riparazione di un
incidente, le misure di sicurezza contro i ladri. Secondo Maurizio Pallante, saggista
esperto di efficienza energetica e membro del comitato scientifico di “M’illumino di
meno” nonché presidente del “Movimento per la decrescita felice”, la decrescita
consiste nel fare aumentare i beni e decrescere le merci; in questo modo è possibile
ridurre l’impatto ambientale, diminuendo i rifiuti e le emissioni di CO2. Si tratta di
ripensare l’attività economica in tre cerchi concentrici: il primo è quello della
autoproduzione (yogurt, pane, frutta e verdura); il secondo è quello del dono (del
tempo, delle capacità professionali, della disponibilità umana, dell’attenzione, della
solidarietà); il terzo è quello dell’economia in senso convenzionale. Oggi la terza
sfera sta soffocando le prime due, che devono riappropriarsi del loro spazio, uno
spazio che si è ridotto notevolmente con l’avvento della società industriale, ma che
già iniziava a diminuire con la nascita del baratto, che ha dato origine agli scambi
mercantili. Le società industriali sono caratterizzate dalla prevalenza della
produzione di merci sulla produzione di beni e il loro prodotto interno lordo cresce
in continuazione. Nel loro sistema di valori, che misura il benessere con la ricchezza
monetaria, ciò testimonia la superiorità della civiltà industriale sulla civiltà
contadina e delle società occidentali, in cui la civiltà industriale si è sviluppata, su
tutte le altre. Nelle comunità agricole la produzione di beni prevale sulla produzione
di merci e la compravendita ha un ruolo complementare, sono realizzate forme di
scambio non mercantili basate sul dono e sulla reciprocità, e da qui ne deriva proprio
38
il nome: comunità in latino vuol dire “cum munus” ossia “con il dono”.
Per Enrico Moriconi, Consigliere Regionale del Piemonte e fondatore dell’AVDA
(Veterinari per i diritti animali) parlare di decrescita significa prendere coscienza
della globalizzazione e delle grandi disuguaglianze che ci sono nel mondo. La dieta
alimentare rappresenta simbolicamente queste disuguaglianze: mentre due terzi del
mondo è vegetariano per forza, il terzo rappresentato dai ricchi è ipercarnivoro, dal
momento che ha un consumo di carne giornaliero superiore al triplo del necessario.
In Italia si tratta di circa ottantacinque chilogrammi di carne pro capite all’anno
(compresi lattanti e anziani) a cui si aggiungono ventidue chili di pesce, sette chili di
uova di uova e cento litri di latte, come a dire, un po’ troppe proteine. Scegliere di
non mangiare carne, o di mangiare meno carne, non è soltanto un fatto privato,
perché per prima cosa può ridurre la nostra impronta ecologica: un chilogrammo di
carne bovina (come prodotto finito) necessita di nove chili di petrolio (concimi di
sintesi, agricoltura meccanizzata, trasporti) e di ben quindicimila litri di acqua
(irrigazione ecc). Inoltre può andare a incidere sui meccanismi di produzione del
cibo a livello mondiale che creano disuguaglianza; gli animali sono alimentati con
cereali, le cui sementi sono in mano per il 65% a sole cinque multinazionali che
vendono anche il 70% degli erbicidi.
Come afferma Latouche: “Fin tanto che l’Etiopia e la Somalia nel culmine della
carestia sono condannate ad esportare alimenti per i nostri animali domestici e
fintanto che noi ingrassiamo il nostro bestiame da macello con la soia cresciuta sulle
ceneri della foresta amazzonica, noi asfissiamo ogni tentativo di vera autonomia per
39
il Sud del mondo”23.
4.1 Autoproduzione ed altre proposte decrescenti
Lo sviluppo economico, la crescita del PIL, sono direttamente collegati agli scambi
monetari. Il passaggio dalla civiltà contadina alla società industriale e urbana ha
determinato un aumento del ricorso allo scambio monetario per soddisfare bisogni.
Dalla autoproduzione dei beni si è passati alla produzione del reddito per acquistare
i beni, passaggio proposto e vissuto come una liberazione: la possibilità di acquistare
anziché di dover fare una cosa è stata considerata una conquista del progresso, un
affrancamento da uno stato di necessità ad uno di libertà di scelta. E ha costituito lo
stimolo a lavorare di più, per avere più reddito per poter acquistare più beni. Contro
tale meccanismo, la decrescita ripropone forme tradizionali di produzione di beni,
non monetarizzate. Parlando di autoproduzione l’esempio tipico proposto da
Pallante è quello dello yogurt: in un dettagliato saggio intitolato appunto “la
parabola dello yogurt”24 egli descrive del processo di questo comune vasetto
presente in quasi tutte le case, come ci arriva, l’inquinamento arrecato all’ambiente,
quando autoproducendolo avremmo sulle nostre tavole un prodotto più di qualità
superiore, con un costo molto inferiore e, perché no, anche più buono...Tuttavia
questa scelta, che migliora la qualità della vita di chi la compie e non genera impatti
ambientali, comporta un decremento del prodotto interno lordo: sia perché lo yogurt
autoprodotto non passa attraverso la mediazione del denaro, quindi fa diminuire la
23 S. Latouche, Et la décroissance sauvera le Sud..., in “Le monde diplomatique”, Novembre 2002, rivista mensile telematica in www.mondediplomatique.fr.
24 Per ulteriori informazioni http://www.decrescita.it.
40
domanda di merci; sia perché non richiede consumi di carburante; quindi fa
diminuire la domanda di merci; sia perché non richiede confezioni e imballaggi,
quindi fa diminuire la domanda di merci; sia perché fa diminuire i costi di
smaltimento dei rifiuti. Ad esempio facendo diminuire la domanda di vasetti di
plastica e di imballaggi in cartoncino, l’autoproduzione dello yogurt fa diminuire la
domanda di petrolio: sia quello che serve per produrre la plastica (due chili di
petrolio per chilo di plastica), sia quello che serve per il carburante necessario a
trasportare vasetti e imballaggi dalle fabbriche in cui vengono prodotti alle fabbriche
in cui viene prodotto industrialmente lo yogurt. Se questo comporta quindi una
diminuzione delle emissioni di CO2 e del prodotto interno lordo, è solo una piccola
parte di un piccolo esempio di “decrescita” che attraverso “il Movimento per la
Decrescita Felice si propone di promuovere la più ampia sostituzione possibile delle
merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti commerciali con
l’autoproduzione di beni. In questa scelta, che comporta una diminuzione del
prodotto interno lordo, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della
vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli,
gli Stati e le culture”25. Dal vasetto di yogurt di Pallante, ad un vestito o alla cura del
giardino, è possibile soddisfare le proprie esigenze anziché pagando, facendo da sé.
Magari impegnandovi il tempo libero sottratto al lavoro, invertendo un processo
automatico che ci porta a dover lavorare di più solo per poter pagare beni o servizi
che potremmo assicurarci da soli. Lavorare a tempo parziale, ad esempio, per potersi
dedicare alla cura dei figli o dei genitori anziani, anziché lavorare di più per potersi
25 M. Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, cit., p. 126.
41
pagare tata o badante, con il risultato, per altro, di recuperare forme di conoscenza,
di saper fare (l’ars dei latini) spesso perdute, di dedicare più tempo a noi, di
conseguire beni spesso di qualità migliore, prodotti con cura anziché
industrialmente. O anche la reciprocità, lo scambio non monetario, il dono o il
favore agli altri, il mettere a disposizione le proprie capacità ed il proprio tempo in
un reciproco rapporto con amici, familiari, vicini. Sistema fondante nelle civiltà
tradizionali, finché non è arrivato la sviluppo, che ha prodotto la mercificazione dei
rapporti tra gli uomini e di questi con la natura. La reciprocità non costituisce
soltanto un modo diverso di produrre beni e soddisfare bisogni, ma rappresenta un
diverso modo di vivere con gli altri, all’insegna della convivialità, dei legami
comunitari anziché dell’egoismo individualista.
Ovviamente le proposte non si fermano di certo qui, ma sono tutte delle linee guida
da affermare a livello individuale locale e nazionale, partendo dal singolo individuo
con la speranza di una rapida conoscenza attraversi i dibattiti e una conseguente
diffusione: a livello individuale, significherebbe innanzitutto riduzione di consumi
di materia ed energia, interrogandosi su cosa è veramente necessario alla nostra
vita; si potrebbero acquistare detersivi vino acqua olio alla spina, eliminando
inquinamento attraverso il risparmio di plastica e di trasporti e pertanto usufruendo
di un prezzo inferiore (purtroppo questa pratica è ancora molto poco diffusa); si
potrebbe utilizzare acqua con depuratore specie nelle mense; mettere a disposizione
la banda internet, una piccola cosa ma che genere sempre risparmio e crescita (che
sfugge al pil). Ovviamente, accanto al solo utilizzo di ciò che è indispensabile, si
colloca di pari passo il riciclaggio dei rifiuti, che permette la diminuzione della
42
quantità di diossina (sostanza più tossica mai creata dall’uomo) dispersa tramite gli
inceneritori, e riduce la necessità di estrarre e tagliare nuove materie prime.
Purtroppo ciò non sarà mai abbastanza: gli scarti che escono dalle nostre case non
sono altro che la punta di un iceberg, per ogni bidone della spazzatura che portiamo
fuori ce ne sono settanta a monte soltanto per creare il contenuto di quel bidone.
Quindi anche se riciclassimo la totalità dei nostri rifiuti non arriveremmo al cuore
del problema. Inoltre molti rifiuti non possono essere riciclati, sia perché
contengono troppe sostanze tossiche, sia perché sono progettati apposta per non
essere riciclabili, come le confezioni dei succhi di frutta con strati di metallo carta e
plastica impossibili da separare.
A livello locale si potrebbero favorire gli eventi ciclistici come critical mass,
proteggere le aree verdi e difendere il suolo dalla cementificazione; sensibilizzare
alla riduzione dei rifiuti (prima ancora del riciclo), valorizzare gli ambienti naturali
del territorio. È possibile fare qualcosa anche sul piano dell’inquinamento dovuto ai
trasporti (responsabile di un terzo dell’inquinamento totale) per eliminare le polveri
sottili: non basta fermare traffico qualche giorno, ci vuole un piano della mobilità
per non utilizzare le vetture, come ad esempio a Parma dove vi sono parcheggi
gratuiti fuori città e bus navetta di giorno, bus a chiamata la sera. Sempre a Parma
dal 2008 è stato avviato il progetto “car sharing”, ossia automobili in condivisione:
un servizio di trasporto individuale che consente agli abbonati, previa prenotazione,
di utilizzare un’autovettura ecocompatibile, anche a metano, scelta tra una flotta
distribuita su più parcheggi cittadini, per il periodo necessario alle proprie esigenze.
L’auto prescelta può essere utilizzata per il tempo che realmente occorre, anche solo
43
per un’ora, cosi come per più giorni, in tutta Italia ed anche all’estero, pagando solo
l’uso effettivo (tempo impiegato e km percorsi). Per quanto riguarda il caso del
trasporto delle merci un esempio sostenibile “locale” è dato dalla città di Padova,
dove i camion compiono solo la parte iniziale e finale del tragitto, il resto avviene in
treno.; successivamente vengono accentrati gli stock di merce nella periferia della
città e parte un carico unico per più fornitori. Pertanto vengono utilizzati sei mezzi
in luogo di trenta che entrano in città, per un risparmio di tredicimila litri in quindici
mesi, quarantuno chilogrammi di pm10 il cui peso viene generalmente effettuato in
microgrammi).
Continuando, a livello nazionale si potrebbe incentivare la riduzione dei consumi
elettrici (premiando chi consuma di meno e non di più) e l’isolamento termico degli
edifici (minore bolletta petrolifera); incentivare la riduzione dei package di plastica
nei prodotti, promuovendo la distribuzione di prodotti “sfusi” a prezzo più basso;
fare pagare i biglietti autostradali in proporzione alle emissioni di CO2 e all’usura
del manto stradale (così si riduce il commercio “inessenziale”); non finanziare più
con denaro pubblico campagne pubblicitarie per indurre le persone a mangiare più
carne facendoci credere che sia l’unico alimento con determinate caratteristiche (ad
esempio il seitan, altamente proteico, ricavato dal glutine del grano tenero o da altri
cereali, è una valida alternativa). Come sempre un discorso più lungo va dedicato
alle fonti di energia: d’altronde la sostituzione di quelle fossili (e adesso scarse) con
quelle rinnovabili è la priorità non solo per i sostenitori della decrescita, non solo
per tutti gli ambientalisti, ma per tutti coloro dotati di una certa lungimiranza.
Neanche molta oramai... Nel riordinamento del mercato dell’energia a favore di un
44
rifornimento energetico più orientato al futuro, l’impegno della cittadinanza ed
il potere del consumatore svolgono un ruolo determinante: la trasformazione del
mercato dell’energia da strutture centrali, dissipanti e contaminanti a strutture
decentrali, economiche ed ecologiche é possibile solo grazie ad un’attività svolta su
tutti i livelli.
È piuttosto recente la notizia che Enel (il cui azionista di maggioranza è il governo
italiano) investirà quasi due miliardi di euro per il completamento di due reattori
nucleari anni ‘70 a Mochovce in Slovacchia, completamento molto pericoloso: la
tecnologia è assolutamente antiquata, i reattori sovietici di 40 anni fa sono senza un
guscio di contenimento che possa proteggerli da eventi esterni come la caduta di un
aereo o un attentato terroristico, mentre oggi i reattori di terza generazione vengono
costruiti con un doppio guscio; inoltre è stato dichiarato che non si intende effettuare
alcuna procedura di valutazione di impatto ambientale. L’energia nucleare è costosa
e rischiosa sia come tecnologia che come possibile obiettivo dei terroristi. Ha un
potenziale energetico assai limitato e regala una pesante eredità alle generazioni
future che dovranno occuparsi per alcuni secoli delle scorie meno pericolose e che
dovranno risolvere lo stoccaggio definitivo di quelle a vita lunghissima26.
A vent’anni dal referendum sul nucleare che ha visto gli italiani rifiutare l’utilizzo di
questa forma di energia, il problema si ripresenta più serio che mai, ignorando la
volontà dei cittadini. Un passo importante, invece, sarebbe quello dell’utilizzo di
fonti d’energia rinnovabili, ossia quelle forme di energia generate da fonti che per
loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili nella scala dei tempi
26 Per ulteriori informazioni http://greenpeace.it.
45
umani e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le
generazioni future (solare, eolica, idraulica, geotermica, del moto ondoso, di maree e
correnti e le biomasse).
Vi sono numerosi esempi, più o meno importanti, che testimoniano come questo sia
possibile: per restare in Italia basta citare l’esempio del “villaggio fotovoltaico” di
Alessandria, che rappresenta un progetto altamente innovativo dal punto di vista
della introduzione di fonti di energia rinnovabili in un normale contesto abitativo. Si
trova alla periferia sudovest della città ed occupa una superficie totale di circa sette
ettari, comprende duecento alloggi dotati di pannelli solari per una superficie
complessiva di millecinquecento metri quadrati. La potenza installata permette, con
le condizioni di irraggiamento solare del nord Italia, di ottenere una produzione
annua che copra la totalità dei consumi comuni (illuminazione, ascensore...) e più
o meno il 70% dei consumi privati, permettendo anche di risparmiare circa
cinquecento euro all’anno per famiglia, oltre ovviamente a ridurre le emissioni di
CO2. Il tempo di ammortamento degli impianti è previsto in circa sei anni a partire
dal 2005, anno di inaugurazione del villaggio. Limitando il ragionamento al solare,
considerato che l’installazione del fotovoltaico costa circa seimila euro a famiglia,
estendendo l’esperienza di Alessandra a tutta l’Italia, la spesa e l’incidenza sul Pil
sarebbe ingente, ma nulla di trascendentale rispetto all’acquisto del petrolio sempre
più costoso all’estero, o di fronte al rischio di una centrale nucleare27.
27 Per ulteriori informazioni http://www.ecoalfabeta.blogosfere.it.
46
4.2 Schonau, un esempio per tutti
Un altro esempio di utilizzo dell’energia decrescente è sicuramente quello della
cittadina di Schonau28, un paese tedesco nella foresta nera, i cui cittadini, subito
dopo la catastrofe della centrale atomica di Cernobyl nel 1986, si resero conto della
necessità di trovare una alternativa, e che lo spreco d’energia era un problema chiave
(sia per il consumatore che per il fornitore). Dopo una lotta politica durata anni, i
cittadini ottennero nel 1997 la concessione di rifornimento di corrente per la città di
Schönau. L’EWS fu la prima azienda di rifornimento d’energia di proprietà dei
cittadini, nata dal movimento antinucleare ed anche l’unica azienda di rifornimento
d’energia a vendere esclusivamente corrente prodotta da energie rinnovabili e di
cogenerazione anche nella propria aria di distribuzione. Così si è dimostrato che
ogni comune é in grado di produrre una gran parte della corrente da solo per mezzo
di risparmio energetico, energie rinnovabili e cogenerazione. I cittadini hanno
realizzato pian piano tutte le esigenze ecologiche di una politica d’energia duratura:
tariffe che favoriscano il risparmio energetico, proibizione di creare nuovi
riscaldamenti alimentati con corrente elettrica (e l’ampliamento di questi
riscaldamenti é possibile soltanto pagando una supplemento), incentivazione di
impianti di fotovoltaggio e di cogenerazione tramite una migliore remunerazione per
la corrente fornita.
Quando i cittadini di Schonau dopo Cernobyl cominciarono a cambiare in modo
positivo il panorama energetico, l’esperienza più importante fu quella di rendersi
conto che non si poteva sempre aspettare che le cose cambino perché mosse da
28 Per ulteriori informazioni http://www.ewsschoenau.de.
47
qualcun’altro. Si abbandonò l’illusione che i mali del mondo si possano risolvere da
sé oppure che ci sia sempre qualcuno, sia nell’ambito della politica o della scienza o
dell’economia, che sia in grado di risolvere i problemi. La gente di Schonau si rese
conto che se si vuole che qualcosa cambi bisogna rimboccarsi le maniche in prima
persona e intraprendere qualcosa. La forza del consumatore é enorme: con ogni
decisione fatta quotidianamente riguardante come investire il denaro si decide anche
sul destino di uomini vivi e non ancora nati (non soltanto nel settore della corrente).
Le misure mirate al risparmio energetico a livello domestico non implicano affatto la
rinuncia: si tratta invece di sfruttare meglio l’energia. É possibile risparmiare molta
corrente cambiando le proprie abitudini di consumo, usando tecniche più efficaci ed
elettrodomestici che consumino meno corrente. Inoltre un minor consumo
energetico non serve soltanto all’ambiente, ma anche al portamonete. Nell’ambito
della discussione pubblica riguardante il miglior metodo per generare corrente per il
clima e l’ambiente si dimentica spesso che “la corrente più favorevole all’ambiente é
quella che non si consuma”. Visto che il risparmio energetico é un eccellente
contributo politicoeconomico, basti pensare che si evitano emissioni e
contaminazioni, sarebbe opportuno che questo contributo venisse ricompensato;
spesso però avviene il contrario: siccome il prezzo base é molto alto
indipendentemente dal consumo, quelli che consumano poca energia pagano di più
per ogni chilowatt rispetto a quelli che consumano molto. Non solo da parte del
consumatore, ma anche del produttore di corrente c’è molto potenziale di risparmio
energetico: producendo infatti la corrente in una grande centrale elettrica c’è anche
una perdita d’energia impressionante. Durante la produzione di corrente dall’energia
48
primaria (carbone, petrolio, uranio) si ottiene soltanto una parte di corrente elettrica
mentre due sono di calore. Si tratta di un semplice principio di fisica: il calore
che viene generato nelle grandi centrali elettriche non viene utilizzato, bensì
semplicemente emanato all’ambiente tramite torri di raffreddamento, i fiumi
vengono riscaldati, il calore viene ridotto ad un prodotto di scarto senza utilizzo
proprio. Ciò significa che due terzi dell’energia primaria non viene sfruttato, il
grado di sfruttamento delle grandi centrali elettriche si aggira infatti intorno il 35 e il
40 %. Esistono per questo motivo degli impianti di cogenerazione forzacalore molto
grandi con i quali si riscaldano interi quartieri, piscine ed altro, ma anche piccoli
impianti che servono solo per uso domestico, ovvero in primo luogo per il
riscaldamento della casa, mentre la corrente é quasi un prodotto di scarto che viene
usato nella propria casa e l’eccedenza viene restituito alla rete di corrente comune.
Il problema chiaro a tutti è che fonti rinnovabili sono discontinue: grandi centrali per
grande una grossa utenza porterebbero spreco di un’energia disponibile in quantità
non immense, ma piccole centrali vicino alle persone permetterebbero all’energia
imprevedibile delle rinnovabili di essere assorbita in accumulatori e riutilizzata.
Basterebbe regolare il traffico quartiere per quartiere, città per città, regione per
regione, una rete di reti (come internet) ma per l’energia. Sembra un progetto
difficile (di certo non quanto la costruzione di una centrale nucleare), ma anche
questo è stato realizzato in Germania, a Mannehim per la precisione. All’interno di
tutte le abitazioni vi è un apparecchio, chiamato letteralmente “maggiordomo
dell’energia” collegato alle tariffe della borsa di Lipsia, dal funzionamento
all’apparenza impossibile. Il regolatore, quando il prezzo è alto, ossia le industrie
49
stanno utilizzando energia, abbassa la temperatura di un grado centigrado e consiglia
di non utilizzare la lavatrice; mentre il nucleare è una produzione di corrente
elettrica basata sull’offerta e le persone vengono sempre più stimolate a consumare
elettricità, quest’apparecchio al contrario lavora soltanto quando c’è veramente
bisogno di energia: è una tecnologia basata sulla necessità del consumo e non sullo
stimolo della domanda. Il contrario dello schema economico dominante. La
domanda mondiale di energia è raddoppiata negli ultimi vent’anni, per il 2030 si
prevede un altro raddoppio, quindi bisogna aumentare l’offerta: nuove centrali a gas,
a carbone, nucleari, rigassificatori e così via all’infinito. Se questo regolatore
dell’energia venisse usato dappertutto, si potrebbero evitare i picchi di carico
elettrico e se immaginiamo di usarlo in tutta Europa si potrebbe arrivare al risultato
che costruire questa o quella nuova centrale elettrica diventerebbe inutile.
In Italia c’è stato qualcuno che ha avuto idee illuminanti sul risparmio energetico:
centrali solari con dei tubi irradiati dagli specchi all’interno delle quai scorre una
soluzione altamente salina, capace di raggiungere altissime temperature senza
evaporare, permettendo direttamente nei condotti lo stoccaggio del calore; degli
scambiatori di calore portano il calore all’interno di contenitori d’acqua, che
evaporando viene utilizzata per produrre energia. Purtroppo però, fino a quando un
fisico premio Nobel come Carlo Rubia è costretto a emigrare in Spagna insieme al
suo solare termodinamico a causa di attriti col Governo (pronucleare), la salvezza
rimarrà un’utopia per pochi nell’ignoranza dei più.
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5. Ritorno ai vecchi valori
Ormai è chiaro: questo è un sistema in crisi e ci stiamo scontrando con i suoi limiti,
dal cambiamento climatico alla diminuzione della nostra felicità. Ma il lato positivo
di un problema così ampio è che ci sono un sacco di punti su cui intervenire: ci sono
persone che lavorano per salvare le foreste, altre per produrre in modo pulito,
persone che si occupano dei diritti dei lavoratori, del commercio equo, del consumo
consapevole, di bloccare discariche ed inceneritori e soprattutto di riportare il
governo sulla retta via, in modo che sia fatto davvero da persone per le persone. Le
cose cominceranno a muoversi solamente quando vedremo i collegamenti, il quadro
generale, quando si uniranno le forze per trasformare questo sistema in uno che non
butta via risorse e persone, ma solo questa mentalità usa e getta. Occorre un
pensiero unanime fondato su sostenibilità e giustizia, chimica verde, zero rifiuti,
produzione a circolo chiuso, energie rinnovabili, economie locali. “Alcuni dicono
che tutto ciò non è possibile, non è realistico, non può avverarsi, ma i veri visionari
sono coloro che vogliono continuare sulla vecchia via, è da pazzi. La vecchia via non
c’è da sempre, non è come la forza di gravità con la quale dobbiamo per forza
convivere, le persone l’hanno creata, ed anche noi siamo persone. Quindi creiamo
qualcosa di nuovo”29.
Secondo Ivan Illich, filosofo austriaco altermondista, la crisi ha le sue radici nel
fallimento dell’impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all’uomo. Il
grande progetto di sostituire la soddisfazione razionale e anonima alla risposta
occasionale e personale si è trasformato in un implacabile processo di asservimento
29 Per ulteriori informazioni http://storyofstuff.com.
51
del produttore e di intossicazione del consumatore: “Per un secolo l’umanità si è
dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo strumento può rimpiazzare lo
schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento
che fa dell’uomo il suo schiavo”30. La soluzione della crisi esige un radicale
rovesciamento: solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l’uomo
e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire. Lo
strumento veramente razionale risponde a tre esigenze: genera efficienza senza
degradare l’autonomia personale, non produce né schiavi né padroni, estende il
raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare,
non di un’attrezzatura che lavori al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che
esalti l’energia e l’immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca
e lo programmi. L’industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato
di tali strumenti. Che si sposti o sia fermo, l’uomo ha bisogno di strumenti: ne ha
bisogno per comunicare con gli altri come per curarsi. L’uomo che va a piedi e
prende erbe medicinali non è l’uomo che corre a duecento sull’autostrada e prende
antibiotici; ma tanto l’uno quanto l’altro non possono fare tutto da sé e dipendono da
ciò che gli fornisce il loro ambiente naturale e culturale. Lo strumento e quindi la
fornitura di oggetti e di servizi variano da una civiltà all’altra. L’uomo non vive
soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno
attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. si
definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli
strumenti che utilizza: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio
30 I. Illich, La convivialità, trad. it., Red Editore, Como, 1993, p. 32.
52
dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. Il rapporto industriale è
riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un
altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai
comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che
partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla
convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore
materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata
nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci.
“Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un
certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività
riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara”31.
Ai nostri giorni si tende ad affidare a un corpo di specialisti il compito di sondare e
leggere il futuro. Si consegna il potere agli uomini politici che promettono di
costruire la megamacchina per produrre il futuro. Si accetta una crescente disparità
dei livelli di energia e di potere, perché lo sviluppo della produttività esige questa
diseguaglianza. Infatti, più la distribuzione del prodotto industriale è egualitaria, più
il controllo della produzione dev’essere centralizzato. Le stesse istituzioni politiche
funzionano come meccanismi di pressione e di repressione che indirizzano il
cittadino e raddrizzano il deviante, per renderli conformi agli obiettivi di
produzione. Il diritto è subordinato al bene dell’istituzione. Il consenso della fede
utilitaristica abbassa la giustizia al semplice rango di un’equa distribuzione della
merce industriale e pertanto misurabile. Una società che definisce il bene come il
31 Ivi, p. 38.
53
soddisfacimento massimo del maggior numero di individui mediante il maggior
consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e
mutila in modo intollerabile l’autonomia della persona. Nella misura in cui il
consumo programmato aumenta, l’austerità adottata per scelta personale diventa
un’attività antisociale. È proprio questa sobrietà ciò che professa la decrescita,
sapendo che il passaggio dall’attuale stato di cose a un modo di produzione
conviviale sarà accompagnato da sofferenze estreme sia per il Sud che per il Nord
del mondo ed esigerà una rinuncia generale alla sovrabbondanza e al superpotere da
parte degli individui come dei gruppi: questa transizione può auspicarla solo chi sa
che l’organizzazione industriale dominante si avvia a produrre sofferenze ancor
meno immaginabili, peggiori di quelle attuali.
Per quanto riguarda il Sud, la decrescita dell’impronta ecologica (ma anche del Pil),
non è né necessaria né auspicabile; ma questo non vuol dire che ci sia la necessità di
costruire una società di crescita. Decrescita al Sud significa tentare di giocare la
carta del “dissviluppo”, ossia togliere gli ostacoli alla realizzazione di società
autonome e avviare un circolo virtuoso in grado di porsi nella logica delle “otto R”.
Questo programma delle “otto R” (Rivalutare, Riconcettualizzare, Reinquadrare,
Ristrutturare, Rilocalizzare, Redistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) è un
insieme di obiettivi fissati da Latouche, alla quale se ne possono accostare molti
altri, che andrebbero a sostituire quello che qualcuno utilizza per descrivere il Nord
del mondo attuale dei “sovra” (savrasviluppo, sovrapproduzione, sovraconsumo,
sovrabbondanza ecc...) e si porrebbe come base per una nuova società serena,
conviviale e sostenibile. Rivalutare significa rivedere i valori ai quali crediamo e in
base ai quali organizziamo la nostra vita. I valori che vanno portati avanti e che
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dovrebbero prendere il sopravvento rispetto a quelli dominanti sono: l’altruismo che
dovrebbe prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza sfrenata, il
piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale
sul consumo illimitato, il locale sul globale, il gusto di una bella opera
sull’efficienza produttivista, il ragionevole sul razionale, ecc. La scelta di un’etica
personale differente, come la semplicità volontaria, può invertire la tendenza e non è
da trascurare. Va anche incoraggiata, ma senza una rimessa in discussione radicale
dello stesso sistema la rivalutazione rischia di essere limitata. Ristrutturare significa
adattare l’apparato produttivo e i rapporti sociali in funzione del cambio dei valori.
Rilocalizzare vuol dire produrre localmente ciò che occorre alla soddisfazione dei
bisogni della popolazione a partire dalle imprese del posto finanziate dal risparmio
raccolto localmente, utilizzare i prodotti del territorio, riducendo i trasporti, i
maggiori imballaggi inutili, i trattamenti che consentono ad un prodotto alimentare
di essere consumato dopo giorni. Consumare alimenti di stagione, anziché frutta
prodotta nell’altro emisfero, ricreando anche rapporti con i produttori del territorio,
in alternativa ai prodotti senza volto dell’industria e dei centri commerciali.
Ridistribuire è da intendersi nell’ottica della ripartizione delle ricchezze e
dell’accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire ridurre gli orari di lavoro, ma
anche diminuire l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare.
Ridurre il nostro consumo materiale fino a che ritroviamo l’impronta ecologica
corrispondente ad un pianeta32.
Puntare sulla decrescita significa dunque recuperare uno stile di vita più
parsimonioso, che sappia distinguere i bisogni reali da quelli effimeri, e che punta a
soddisfare, oltre alle necessarie esigenze materiali, anche esigenze immateriali, 32 Cfr. S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., passim.
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spirituali, affettive, sociali ecc…. Se sobrietà vuol dir rinuncia, è comunque rinuncia
del superfluo, non solo inteso come bisogni indotti, ma anche come bisogni reali
soddisfatti in modo superfluo: evitando, ad esempio la trappola dell’ultimo modello
più accattivante e dell’obsolescenza programmata, oppure il richiamo delle marche
o, ancora, degli imballaggi inutili. Sobrietà significa saper rinunciare al non
necessario, recuperando la virtù della frugalità, nella convinzione che ciò sia bene
per l’ambiente, per gli altri, ma anche per noi stessi, per la nostra salute mentale.
Come dice Wolfgang Sachs, ex presidente di Greenpeace Germania: “La felicità
si trova più nell’agire sui desideri che nell’agire sulle cose possedute, non
nell’accumulare di più, ma piuttosto nel desiderare di meno”.
Parigi, inno alla Decrescita sulla Colonna di Luglio in place de la Bastille
durante lo sciopero generale del 28 marzo 2006.
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Capitolo 3
Credo nell’utopia nella quale ci si proietti con ferrea volontà.
Charles Péguy
1. La necessità di un’alternativa al Pil
“La grande importanza attribuita al Pil, i dati a esso relativi e i criteri che lo
conformano sono all’origine di una delle più diffuse menzogne sociali”33.
Quest’affermazione di Galbraith è in linea con quanto si è più detto e ridetto, ma che
non fa mai male ripetere: il Pil viene confuso con il benessere, e tutto concorre a
mantenere quest’inganno; l’opinione pubblica è stata formattata a considerare la
felicità proporzionale al consumo di “cose” e a misurare il livello di vita con la
quantità di merci e servizi che il reddito nazionale permette di acquistare. Tutto ciò
che può essere venduto e che ha un valore aggiunto monetario, concorre a gonfiare il
Pil e la crescita, ossia la progressione di tutte le produzioni, indipendentemente dal
fatto che questo contribuisca o meno al benessere individuale e collettivo. Ad
esempio una delle conseguenze della distruzione del pianeta sono gli uragani che in
questi anni hanno devastato gli Stati Uniti. Di fatto si sono creati posti di lavoro sia
per medici, infermieri ecc... sia per ricostruire tutto, c’è bisogno di materiali nuovi,
in poche parole le catastrofi ambientali aumentano il Pil; il Pil ci comunica che
l’economia sta andando bene; più sale il Pil meglio stiamo, secondo gli economisti
33 J.K. Galbraith, L’economia della truffa, trad.it., Rizzoli, Milano, 2004.
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tradizionali. Ma le migliaia di persone coinvolte stanno davvero bene? Si sentiranno
bene quando un economista dirà che grazie al loro dolore la situazione economica è
migliorata? Un’altra considerazione: una sorgente d’acqua pura non è un dominio
privato quindi non è ricchezza; se qualcuno ci fa un recinto attorno significa che
questo qualcuno sta creando ricchezza (in economia sì) o che sta usurpando
ricchezza?
Si è dovuto attendere il 1968 con Ivan Illich ed il suo concetto di “disvalore” per
assistere alla nascita e lo sviluppo di una reale critica a questo sistema: “La società
disegna quel genere di perdita che non può essere valutato nelle categorie
economiche... e sono ormai molte le persone che, vittime dell’economicismo
imperante, appaiono cieche e indifferenti alla perdita provocata da ciò che chiamo
disvalore”34.
Esistono allora altre forme di misurazione che evitino di fornire una falsa
descrizione della realtà?
Certo il problema è stato affrontato diverse volte; si è ad esempio parlato di Gpi
(Genuine Progress Indicator) e di Ibed (Indice di Benessere Durevole), si sono create
formule molto più complesse di quelle del Pil stesso, sottraendo dal prodotto interno
lordo i dispositivi per ridurre l’inquinamento, le spese per la lotta al terrorismo ed
altro, si sono effettuate statistiche che ci dicono che in realtà diminuisce il benessere
ed aumenta il benavere. Ma il nodo centrale della questione è che non ci interessano
formule e numeri, il benessere non si calcola. Come afferma Jean Gadrey
riprendendo dopo due secoli un pensiero dell’economista Malthus: “Non appena si
34 I. Illich, nello specchio del passato, trad.it., Red, Como, 1992, p. 43.
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cominciano a considerare la produzione domestica, il volontariato e gli attivi
naturali, non siamo più in grado di stabilire i criteri a cui limitarsi per individuare la
ricchezza così ridefinita: non si può contabilizzare la felicità nazionale...e nessuno lo
richiede”. A che cosa serve allora cercare un misuratore differente se si è già detto
che la decrescita in una società della crescita è quanto di più sbagliato esiste? Il
diritto di contare diversamente ha come scopo quello di difendere il diritto di non
contare.
2. Dal Pil al Bil
In quest’ottica si inserisce la “Mappa del Bil”, lo strumento su cui si basa il progetto
“DePILiamoci” per evidenziare fatti e comportamenti che possono generare circuiti
virtuosi utili a trasformare la dominante cultura consumistica del Pil nella cultura del
Bil. Tutto ciò deve avvenire tramite una “rivoluzione quotidiana” fatta di piccole
attenzioni, piccole riflessioni collettive che sono un ottimo modo per salvare il
pianeta e l’umanità dal destino verso cui lo sfruttamento incondizionato delle risorse
umane, energetiche e naturali, richiesto dalla cultura della crescita, lo sta portando35.
Il Bil (Benessere Interno Lordo) è sì un indicatore alternativo al tradizionale Pil, ma
opera non con i numeri bensì attraverso un circuito causale con il quale è possibile
rappresentare fenomeni evolutivi nella quale sono indicati più di trenta elementi
connessi fra loro da frecce: seguendone la direzione a partire da qualsiasi punto ogni
percorso genera un circolo virtuoso orientato al benessere.
35 Per ulteriori informazioni http://depiliamoci.it.
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Questi elementi vanno dalla pratica della temperanza alla necessità di operare per il
bene comune; dalla solidarietà nel donare quello di cui gli altri hanno bisogno
(realmente) ai buoni rapporti coniugali; da una diminuzione dei rifiuti, che parta
dalla minore produzione di merci, alla diminuzione dell’orario di lavoro. Questo può
essere molto vantaggioso per il lavoratore purché si siano innescati meccanismi di
riduzione della necessità di reddito. E per innescare tali meccanismi è sufficiente
avere più tempo a disposizione per la famiglia, per la comunità, per gli interessi
personali, che tra le altre cose fa ridurre la spesa in psicofarmaci per curare lo stress.
Del minor tempo di lavoro si possono avvantaggiare gli inoccupati e i lavoratori
disoccupati. Tipico è l’esempio del lavoratore che lavora di più per permettersi di
pagare la badante per la madre anziana: e se le dedicasse quel tempo?
A proposito di ciò è proposto sul sito www.depiliamoci.it un sondaggio nella quale
si chiede se seduti ad un tavolo con il proprio datore di lavoro si chiederebbe un
aumento di stipendio pari al 5% mensile (inflazione reale), pari al 2% (inflazione
programmata), una settimana in più di ferie ogni anno fino al pensionamento, o
nulla. Il 65% dei circa quattrocento votanti hanno affermato che richiederebbero più
giorni di ferie, il 30% un aumento di stipendio di cinque punti percentuali. Perché
non provarci realmente? In una azienda di cinquanta persone, se ognuna di queste
usufruisse di una settimana in più di vacanza, in un anno (circa cinquanta settimane)
si creerebbe la possibilità di assumere un nuovo lavoratore. Facile immaginare cosa
potrebbe succedere in una grande impresa con migliaia di dipendenti.
Gli stessi fondatori del progetto “depiliamoci”, nonché autori del libro Depiliamoci,
come liberarsi del Pil superfluo e vivere felici, Roberto Lorusso e Nello De Padova,
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hanno creato anche un semplice questionario che chiunque potrebbe compilare per
scoprire se è un “UomoPil” o sta operando per far crescere il Bil.
Accanto ai venti comportamenti “decrescenti”, chi compila il questionario deve
apporre una crocetta a seconda che compia quest’azione sempre (3 punti), spesso (2
pt.), raramente (1 pt.) o mai (0 pt.): più alto sarà il risultato, più la persona si sta
adoperando per salvare il pianeta. Nel seguente grafico sono riportati i risultati dei
questionari sottoposti dagli autori in diverse città d’Italia e da me analizzati.
I dati dimostrano una coscienza da parte della popolazione che qualcosa non quadra
nel sistema attuale, popolazione che però continua a vedere le cose con uno sguardo
parziale e non sistemico; una popolazione che ha capito che se continuiamo a
consumare il pianeta non ne resterà per i suoi figli, ma trova difficoltà a sganciarsi
da una società in cui la responsabilità è sempre altrui.
Come si può notare dalla tabella i risultati sono notevolmente variabili.
Solo sei persone su centottantasei (circa il 3%) dichiarano ad esempio di fare da sé i
regali, donando un oggetto sentimentalmente prezioso per la persona oppure
realizzandolo con le proprie mani, piuttosto che di acquistare qualcosa di pronto,
possibilmente costoso. Questo perché la “cultura dello spreco” ci spinge a vedere il
nuovo come bello e il “riciclato” come causa di vergogna; pazienza se poi il valore
affettivo di quel bene è incomparabilmente superiore a quello dell’altra merce.
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Descrizione CampioneRisposte
ForniteMedia
Uso prodotti (detergenti, cereali, legumi, bevande, latte, ecc...)
sfusi o in confezioni “ricarica”185 1,6
Preferisco merci di produttori locali 188 2,2
Evito di acquistare frutta e verdure fresche “fuori stagione” 186 2,2
Preparo la salsa di pomodori e/o marmellate e/o liquori in casa 189 1,4
Quando devo fare un regalo lo realizzo da me invece che
acquistarne uno già pronto186 0,8
Vado al lavoro a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici 179 0,8
Accompagno i miei figli a scuola a piedi 135 0,9
A casa non uso stoviglie usa e getta 183 2,0
Al bar chiedo l’acqua in bicchieri di vetro 181 1,3
Dedico ai miei figli almeno un pomeriggio (feriale) a settimana 134 1,9
Se Dipendente: evito di fare straordinario, anche se ben retribuito
Se Lavoratore Autonomo: evito di lavorare più di 40 ore settimanali151 1,5
Prima di accendere il condizionatore chiudo porte e finestre 166 2,7
Preferisco bar e ristoranti che usano zucchero sfuso invece delle
bustine180 1,1
Festeggio i miei compleanni invitando a cena amici e parenti 186 2,1
Realizzo personalmente le piccole manutenzioni/riparazioni della
mia abitazione186 1,8
Faccio da me i piccoli interventi manutentivi della mia automobile. 176 1,0
Dedico almeno sei ore al mese ad attività di volontariato. 182 1,2
Partecipo alla vita politico-sociale della mia comunità
(incontri, dibattiti, riunioni, comizi, ecc...).182 1,6
Quando compro un vestito nuovo è perché uno che avevo non posso
usarlo più189 1,8
Quando compro un libro lo leggo. 189 2,3
Altro motivo di riflessione le 113 persone su 179 (63% circa) che vanno a lavoro con
mezzi inquinanti propri (auto, moto) contro le 18 (10%) che dichiarano di usufruire
di mezzi pubblici o di compiere il tragitto direttamente a piedi o in bicicletta. Questo
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dato potrebbe non avere bisogno di ulteriori commenti, in quanto basta guardare il
traffico non solo nelle grandi città ma anche dentro centri facilmente percorribili a
piedi. Si prende l’automobile per fare cinquecento metri, si perde l’abitudine a
camminare, si crea nervosismo e stress oltre ad ingorghi in tutti gli incroci. A causa
di ciò si entra anche in uno dei terribili circoli viziosi: i mezzi pubblici sono in
perenne ritardo perché imbottigliati nel traffico urbano, fare una passeggiata diventa
insopportabile per occhi, naso e orecchie, un giro in bici è pericoloso per
l’incolumità del ciclista, ci si sente costretti a prendere l’automobile generando
ancora più intasamenti, e così via...
Se il dato più positivo sembra riguardare l’utilizzo dei condizionatori (che spesso
sono comunque frutto di una scelta sbagliata in principio) questo appare causato in
larga parte da una esigenza contingente: lasciando porte e finestre aperte l’aria non
si rinfresca.
Un dato incoraggiante proviene invece da un utilizzo preferente di prodotti locali
nonché della frutta e verdura di stagione. Sono piccole azioni che non cambiano lo
stile di vita di una persona e che costano solo una particolare attenzione. Ma è
proprio questo un punto che urge ribadire: decrescita non vuol dire fare grossi
sacrifici e vivere di stenti, bensì prestare più attenzione alle cose, alla natura ed, in
fin dei conti, a se stessi: invitare a casa gli amici per festeggiare una ricorrenza non
vuol dire non essere “in” perché non si va in un locale alla moda, ma vuol dire
passare qualche ora di sobria gioia con le persone a cui si vuol bene. Effettuare
piccole riparazione di manutenzione non vuol dire “sporcarsi le mani” quando
potrebbe farlo qualcun’altro al posto nostro, così come dedicare qualche ora al
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volontariato non equivale a perdere del tempo/denaro.
Analizzando i questionari questa volta dal punto di vista geografico, dalla seguente
tabella si può notare come, all’interno di una generale uniformità nei risultati,
emergano comunque delle lievi differenze.
Bari c/o Sala Consiliare del Comune 1,5
Benevento c/o Libreria Masone 1,7
Bitonto (BA) c/o Libreria del Teatro 1,7
Bologna c/o Associazione Ecologisti 2,1
Cassano delle Murge (BA) c/o Piazza della Biblioteca
1,8
Chiesa Avventista 1,8
Gruppo di lavoro FEPA2000 1,3
Laterza (TA) c/o Progeva 1,6
Modena c/o Libreria Feltrinelli 1,5
Molfetta (BA) 1,1
Su un campione di dieci diverse località (con prevalenza in Puglia ed in Emilia
Romagna), si può evincere come le medie Pil/Bil (Min.0; Max.3) rimangano sempre
comprese fra il 2,1 di Bologna e l’1,1 di Molfetta, attestandosi mediamente intorno
all’1,6. Senza incappare nella trappola delle generalizzazioni, appare però pressoché
impossibile cercare di localizzare dove sia più sviluppata una cultura della
decrescita.
Dallo studio si evince quindi che, sebbene ci si renda conto che questo modo di fare
e queste scelte di vita migliorino il benessere individuale e di tutta la collettività,
bisogna ancora capire che la qualità di vita nella propria comunità dipende da se
stessi più di quanto si immagini.
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Conclusioni
La crescita personale è un processo che si riflette non solo sulla qualità della vita
individuale, ma anche, di riflesso, sulla qualità del rapporto con gli altri e con
l’ambiente circostante, grazie a un maggior senso di compartecipazione.
Quando un albero viene tagliato ingiustamente, quando la foresta vergine viene
violata e rasa al suolo, quando muore l’acqua di un piccolo ruscello soffocata dagli
scarichi, e i pesci degli oceani si caricano di metalli pesanti, quando un piccolo
lemure con i buffi occhi sporgenti, di cui neppure sospettiamo l’esistenza, smette di
essere presente sulla faccia di questa Terra o intere popolazioni di farfalle e striati
pesciolini tropicali si estinguono dopo la distruzione del loro habitat... è a noi stessi
che stiamo facendo un torto, che stiamo facendo del male. Ogni singola persona su
questa Terra viene sminuita e indirettamente minacciata quando delle motivazioni di
tipo economico e utilitaristico hanno il sopravvento sul fascino della bellezza di un
elemento del paesaggio e del rispetto di ogni essere vivente. Il messaggio che passa,
implicitamente, è che un domani potrebbe toccare anche a noi.
Viene in mente la favola di quel giovane che sognava di cambiare il mondo:
“Diventato più vecchio e più saggio scoprii che il mondo non sarebbe cambiato,
decisi di cambiare soltanto il mio Paese. Ma anche questo sembrava immutabile.
Arrivando al crepuscolo della mia vita, in un ultimo tentativo disperato, mi proposi
di cambiare soltanto la mia famiglia, le persone più vicine a me, ma ahimé non
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vollero saperne. E ora mentre giaccio sul letto di morte, all’improvviso ho capito: se
solo avessi cambiato prima me stesso, con l’esempio avrei poi cambiato la mia
famiglia. Con la loro ispirazione e il loro incoraggiamento, sarei stato in grado di
migliorare il mio Paese e, chissà, avrei anche potuto cambiare il mondo”.
Nella misura in cui gli individui abdicano alla loro responsabilità personale, prende
il posto un potere anonimo dietro quale non c’è una presenza, ma un’assenza. E’ la
logica del profitto, dell’egoismo fatto legge, dell’incapacità di pensarsi parte di un
contesto più vasto... Il pianeta sta morendo proprio perché siamo soddisfatti con le
nostre relazioni limitate, in cui il controllo, la negazione e l’abuso sono tollerati, in
cui sopravvivere sembra a volte più importante di vivere, in cui la mano destra è
pronta a compromessi che indirettamente metteranno fuori gioco la mano sinistra, in
cui non ci sentiamo più “interi”, né sappiamo sentirci parte della famiglia umanità e
men che meno del resto della creazione. I bambini nel mondo muoiono di fame non
perché non c’è abbastanza cibo, ma perché “siamo una famiglia disfunzionale”: non
siamo in grado di andare oltre il nostro piccolo nucleo familiare e di prendere in
considerazione la famiglia dell’umanità. E’ questo artificiale senso di isolamento e
non coinvolgimento che, se da una parte ci protegge da una eccessiva passione, che
include il soffrire, dall’altra ci isola e ci fa sentire inutili, a noi stessi e agli altri.
Sono proprio i meccanismi di controllo, negazione, proiezione e abuso che sabotano
le relazioni personali e sono poi quelli gli stessi che mettono in pericolo il mondo.
Partendo dal presupposto che la felicità non è “standard” ed è comunque qualche
cosa di molto personale ed interiore, mi sono domandato: visto che molte persone
credono davvero che essa si trovi nell’accumulo di “cose”, cercare di sradicare
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questo luogo comune non equivale forse a tarpare le ali alla ricerca della loro
felicità? Non significa cercare di imporre il mio modo di pensare, atteggiamento
tipico del nostro sistema da me criticato? Sul momento mi sono risposto che la
decrescita non è una scelta ma è una necessità, perché rappresenta l’unica speranza
di salvezza del pianeta. Poi, riflettendoci (non più di pochi secondi), ho realizzato
come questo ora espresso equivalga solo al nostro concetto di “felicità”, quello della
società occidentale, ma non del resto del mondo; e che solamente una piccola parte
di questa società può dirsi felice, ma comunque di una felicità illusoria e fragile,
fragile come quel muro che ci separa dalla catastrofe mentre noi ci corriamo contro
come un treno.
Cambiare questi schemi non vuol dire soltanto cambiare la nostra vita, ma anche il
nostro rapporto con essa; le relazioni sane non sono un obiettivo esoterico, sono una
questione di sopravvivenza. Molti non vogliono sentir parlare di quello che succede,
“non è colpa mia”, “non mi interessa”; oppure si sentono in colpa, ma anche così
non fanno niente. Ma il senso di colpa è il campanello di allarme che non ci stiamo
comportando secondo i nostri valori più veri e se siamo in disarmonia col mondo è
perché siamo in disarmonia con noi stessi. Finché agiremo senza introspezione e non
faremo nulla per affrontare e risolvere i conflitti interni, aumenteremo la disarmonia
attorno a noi. Criticare gli altri è molto semplice, scovare e combattere il problema
dentro e fuori di noi è il primo passo da compiere: “Se non è il mio pianeta, di chi
è?”, “Se non è la mia famiglia, di chi è?”, “Se non è mia responsabilità, di chi è?”.
Perché è solo mettendoci autenticamente in relazione con noi stessi che potremo
sentire la comunità umana e il senso di compartecipazione alla vita del pianeta.
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Bisogna dissolvere le illusioni che sottomettono l’intelligenza al lavoro, al consumo
ed alla crescita, curare lo psichismo collettivo invaso dai veleni della paura e
dell’odio, creare forme di vita autonoma autosufficiente, diffondere un’idea non
acquisitiva della ricchezza. Difficile approcciarsi a questi temi, ancora di più agire,
ma non abbiamo altro compito... ed è un compito gigantesco.
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Un pensiero a chi mi ha iniziato a questo tema e a chi ha contribuito a portare avanti questo progetto, che non si limita alla tesi; a chi ci crede. Un pensiero a Marco a Nello e a Irene.
Un pensiero a Gericault e a tutte quelle persone che senza saperlo, con una frase, hanno cambiato il mio percorso.
Un pensiero agli amici che, vicini o lontani, nel tempo o nello spazio, hanno contribuito a rendermi quello che sono.Prendetevela con loro.
Un pensiero ai luoghi ed alle difficoltà incontrate, uno a chi pensa di meritarlo, ed uno a chi avrei voluto che fosse accanto a me in questo momento.
Uno a chi non dimenticherò.
Grazie alla Marilla, alla Tinita e all’Alina, la mia vita.
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