72
C’era una volta la Vita, quella vera, quella fatta di sentimenti puri e vissuta come un dono, quella del Dio Sole e Sorella Luna, non quella monoteista in cui l’unico Dio è chiamato Denaro. C’era una volta ed adesso non c’è più… c’erano uomini che vivevano a contatto con la natura e da essa dipendevano, uomini che cacciavano nelle immense praterie per sopravvivere e non ammassavano gli animali in minuscoli box per rendere le carni più tenere. Pescavano per mangiare la sera e non distruggevano i fondali, uomini che non immaginavano che i salmoni pescati in Europa potessero finire il giorno dopo su un banco del mercato di Tokio e quello delle nostre scatolette fosse il “pinne gialle” assente nel mediterraneo. La società oggi ci “impone” e noi accettiamo senza un minimo di spirito critico, la nostra felicità coincide con quella di tutti gli altri,cioè accumulare, i nostri gusti sono quelli di un ragazzo medio americano o australiano o giapponese. Nostri beninteso,non vostri, perché sono sempre stato il primo a vivere in questa maniera; facile per un ragazzo italiano benestante del XX-XXI sec, seduto su una poltrona con il proprio computer portatile a riflettere e scrivere su come dovrebbe andare il mondo. Però io ci penso e ci ripenso, ma non riesco proprio ad immaginare come si è fatto ad arrivare ad un punto tale, in cui si è dall’altra parte del pianeta in poche ore e si è collegati in un istante,in cui l’economia si gioca in borsa senza che nessuno sappia cosa sia o come funzioni, in cui ci sconvolgiamo forse per quelle guerre che ci raccontano come vogliono senza sapere che queste non sono che una minima parte di tutti i conflitti, in cui si lanciano bombe a chilometri di distanza con una percentuale di errore dello 0,05% ma quello 0,05% vuol dire ammazzare persone innocenti, la maggior parte delle quali per delle risorse come il petrolio, e ohimè l’acqua, che presto finiranno; in un mondo in cui “Che noia il tg, gira che Lucilla deve corteggiare Costantino”, in cui Lecce è out perché la moda arriva in ritardo di 6 mesi. Ma cosa è la moda se non far sentire a proprio agio le persone spendendo soldi, in continuazione e sempre di più. Soldi guadagnati lavorando, in continuazione e sempre di più. Soldi, a costo della Vita… U.

C’era una volta la Vita, quella vera, quella fatta di ... · PDF fileC’era una volta la Vita, quella vera, quella fatta di sentimenti puri e vissuta come un dono, quella del Dio

Embed Size (px)

Citation preview

C’era una volta la Vita, quella vera, quella fatta di sentimenti

puri e vissuta come un dono, quella del Dio Sole e Sorella Luna,

non quella monoteista in cui l’unico Dio è chiamato Denaro.

C’era una volta ed adesso non c’è più…

c’erano uomini che vivevano a contatto con la natura e da essa

dipendevano, uomini che cacciavano nelle immense praterie per sopravvivere e non

ammassavano gli animali in minuscoli box per rendere le carni più tenere. Pescavano per

mangiare la sera e non distruggevano i fondali, uomini che non immaginavano che i

salmoni pescati in Europa potessero

finire il giorno dopo su un banco del mercato di Tokio e quello delle nostre scatolette fosse

il “pinne gialle” assente nel mediterraneo.

La società oggi ci “impone” e noi accettiamo senza un minimo

di spirito critico, la nostra felicità coincide con quella di tutti gli altri,cioè accumulare, i

nostri gusti sono quelli di un ragazzo medio americano o australiano o giapponese.

Nostri beninteso,non vostri, perché sono sempre stato il primo

a vivere in questa maniera; facile per un ragazzo italiano benestante

del XX-XXI sec, seduto su una poltrona con il proprio computer portatile a riflettere e

scrivere su come dovrebbe andare il mondo.

Però io ci penso e ci ripenso, ma non riesco proprio ad immaginare

come si è fatto ad arrivare ad un punto tale, in cui si è dall’altra parte del pianeta in poche

ore e si è collegati in un istante,in cui l’economia si gioca in borsa senza che nessuno

sappia cosa sia o come funzioni, in cui ci

sconvolgiamo forse per quelle guerre che ci raccontano come vogliono senza sapere che

queste non sono che una minima parte di tutti i conflitti, in cui si lanciano bombe a

chilometri di distanza con una percentuale

di errore dello 0,05% ma quello 0,05% vuol dire ammazzare persone innocenti, la maggior

parte delle quali per delle risorse come il petrolio, e

ohimè l’acqua, che presto finiranno; in un mondo in cui

“Che noia il tg, gira che Lucilla deve corteggiare Costantino”, in cui Lecce è out perché la

moda arriva in ritardo di 6 mesi. Ma cosa è la

moda se non far sentire a proprio agio le persone spendendo soldi,

in continuazione e sempre di più. Soldi guadagnati lavorando,

in continuazione e sempre di più. Soldi, a costo della Vita…

U.

Indice

Introduzione..........................................................................................................................3

Capitolo 1 

1. Dalla rivoluzione industriale ad oggi..............................................................................7

2. La proposta di uno “sviluppo sostenibile”......................................................................9

3. La “Charte de l’environnement” français......................................................................16

Capitolo 2 

1. Decrescita: un “NO” allo sviluppo sostenibile..............................................................19

2. La nascita della Decrescita............................................................................................25

3. Perché la Decrescita: un po’ di numeri..........................................................................31

4. Uno stile di vita... decrescente.......................................................................................36

4.1. Autoproduzione ed altre proposte decrescenti......................................................40

4.2. Schonau, un esempio per tutti...............................................................................47

5. Ritorno ai vecchi valori..................................................................................................51

Capitolo 3 

1. La necessità di un’alternativa al Pil...............................................................................57

2. Dal Pil al Bil...................................................................................................................59

Conclusioni..........................................................................................................................65

Bibliografia.........................................................................................................................69

Introduzione

Difficile approcciarsi a un tema così delicato, così profondo da entrare dentro di te e 

rimescolare  la  tua stessa esistenza, così  viscerale da non permetterti  di compiere 

nessun   gesto   di   vita   quotidiana   senza   una   riflessione,   così   sconvolgente   che   le 

persone intorno a te, quelle con cui hai condiviso e condividi le giornate, si girano, ti 

guardano attonite e spesso si chiedono: “Ma è impazzito?”...

Non è   forse  importante  come ci  si  arrivi,  né   tanto meno come ci  sia  arrivato  il 

sottoscritto, ma è qualcosa che si insinua e ti permea corpo e cervello, ti fa chiedere 

perché e come si sia giunti a questo punto di non­ritorno. È qualcosa che ti si incolla 

ed è impossibile staccartelo di dosso perché nasce dentro di te un processo vorticoso 

che porta a vivere diversamente il “tutto”. Non è un vivere contro, ma è vivere il 

giusto,  vivere   in  armonia,  è   soprattutto  un   rincorrere   i  valori  veri   e   farlo   senza 

quell’angoscia  e quella paura di  non farcela che è  diventata  ormai  l’esistenza di 

ciascun abitante  del  pianeta.  Ed è  per  questo che  l’aggettivo spesso associato al 

termine Decrescita,  quello più  caratterizzante, non è  “economica” o “sostenibile” 

ma “felice”, una parola facile facile, quasi banale, da pronunciare, uno stato d’animo 

quasi irraggiungibile nell’attualità.

Il lavoro che mi propongo di svolgere è affrontare il tema quasi “blasfemo” di una 

catastrofe alla quale stiamo inesorabilmente andando incontro a tutta velocità; capire 

come   si   sia   giunti   a   questo   punto;   chiedermi   se   ciò   che   chiamiamo   “sviluppo 

sostenibile”  sia  una soluzione  valida  o solo  un rallentare   la  corsa  verso  la   fine; 

  3

cercare   di   diffondere   la   cultura   della   Decrescita,   cosa   è,   perché   potrebbe 

rappresentare l’unica via d’uscita per un Pianeta allo sbando. 

Nel  fare questo,  parto dal presupposto che una teoria  organica a riguardo non è 

ancora stata  formulata  e quindi  con questo  lavoro provo ad articolare  una “tesi” 

convincente.   Infine   propongo   l’interessante   analisi   dei   dati   raccolti   su   un 

questionario, elaborato per comprendere quanto sia diffusa una cultura decrescente 

all’interno di gruppi differenti di persone, o ad esempio capire se la cultura del PIL 

sia completamente radicata all’interno della società da lasciare poche speranze.

È proprio il bisogno morboso di crescita del prodotto interno lordo l’immaginario da 

decolonizzare, l’identità creata ad hoc fra beni e merci, falsa, che ci porta a voler 

sempre  sostituire il vecchio col “nuovo che avanza e rende vecchio il nuovo di un 

istante fa” (Mario Proto), ad accumulare “cose” e desiderarne altre. 

Il sistema così com’è può essere paragonato ad un ciclista: può stare in equilibrio 

solamente   continuando   a   pedalare,   ma   bruciando   una   forma   di   energia   non 

rinnovabile1. Terminata essa, ci si ferma, e si cade. Destra e Sinistra, anche nelle loro 

frange  più   estreme,  non mettono  in  dubbio  la  Crescita  come unica  soluzione  al 

problema   generato   da   essa   stessa:   proprio   in   un   periodo   di   rivolgimento   e 

sconvolgimento politico, nonché di disaffezione del cittadino dalla vita pubblica e il 

suo rifiuto di essere “zoon politikon”, le promesse che ci vengono fatte sono rivolte 

in   tale   direzione,   ed   è   proprio   ciò   che   il   cittadino   medio   che   arranca   per 

sopravvivere fino alla fine del mese vuole sentirsi dire: “Più il PIl cresce, più soldi 

per tutti”. 

1  S. Latouche, La scommessa della decrescita, trad. it., Feltrinelli Editore, Milano, 2007, p. 20.

  4

Oggi il Presidente americano afferma, ma è il pensiero di tutti: «La crescita è  la 

chiave del  progresso ambientale,   in  quanto  fornisce  le  risorse  che consentono di 

investire nelle tecnologie appropriate: è  la soluzione, non il problema». Di fondo 

questa posizione «pro­crescita» è condivisa anche da molti «altermondialisti», che 

nella crescita vedono la soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di 

posti di lavoro e una più equa ripartizione dei redditi. 

Sono   passati   quarant’anni   dal   18   Marzo   del   1968,   quando   Robert   Kennedy 

pronunciava,   presso   l’Università   del   Kansas,   un   discorso   nel   quale   evidenziava 

l’inadeguatezza   del   PIL   come   indicatore   del   benessere   delle   nazioni 

economicamente sviluppate. Tre mesi dopo veniva ucciso durante la sua campagna 

elettorale che lo avrebbe   probabilmente portato a divenire Presidente degli Stati 

Uniti d’America:

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale 

soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico,

 nell’ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow­Jones, 

né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo (PIL).

Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le  

ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine­settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni  

per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano 

la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la 

produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per  

migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli  

equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare 

quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro 

educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza 

della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro 

dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia

  5

 nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza 

né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.  

Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente 

degna di essere vissuta.”

Parole pronunciate 40 anni fa ma attuali adesso più che mai, parole che toccano nel 

profondo ma nel   fondo sono destinate  a   rimanere.  Parole  che  potrebbero  invece 

essere   la   base   per   una   nuova   società   sobria,   serena,   conviviale...   una   società 

decrescentemente felice.

Fonte: rivista “La Decrescita”, n.3, Dicembre 2006, p. 1.

  6

Capitolo 1

Lo sviluppo è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti.

Eduardo Galeano

1. Dalla rivoluzione industriale ad oggi

“Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere cose più lontane, 

non per   l’acutezza  della  nostra  vista,  ma perché   sostenuti  e  portati   in  alto  dalla 

statura dei giganti”. Così affermava Bernard de Chartres nel XII sec., una frase da 

tenere sempre a mente specie quando ci  si  accinge ad analizzare un determinato 

momento storico, per cercare di far luce nel futuro ma anche per voltarsi e capire 

come si è giunti fino a quel punto. E allora ci si pone questa domanda così semplice 

la   cui   risposta  è   una   ardente   necessità   che   sfugge   solo   a   coloro   per   i   quali   la 

questione del senso e del fine non è più valida. Jean­Claude Besson­Girard individua 

quattro   periodi   chiave   della   storia   occidentale,   le   cui   conseguenze   sulle   nostre 

mentalità   e   il   nostro   modo   di   vita   attuale   non   sono   state   ancora   misurate   con 

precisione per non mettere in discussione ciò a cui oggi, in Occidente, teniamo di 

più: il nostro benessere intellettuale e materiale. Sono quattro momenti fondamentali 

che   comprendono   duemila   anni   di   storia   e   vanno   da   quella   che   egli   chiama 

“La   pretesa   unitaria   di   dominio”,   che   si   identifica   con   l’avvento   delle   lingue 

indoeuropee,   della   filosofia   greca   e   del   monoteismo,   fino   alla   società 

termoindustriale (“Prometeo scatenato”), toccando il diritto romano che, riscoperto 

  7

nel Medioevo, sarà utilizzato per legittimare la nascita degli Stati Europei legati al 

trionfo   politico   del   cristianesimo,   e   infine   in   quella   che   è   definita   “La   grande 

separazione”, un breve periodo a cavallo fra XV e XVI secolo segnato da una serie 

di  eventi:   la   scoperta  dell’America,   l’invenzione della   stampa,   l’invenzione  della 

nozione di arte separata dalla religione e l’invenzione e la diffusione della banca2.

Senza andare così indietro nel tempo, partendo dal presupposto che ogni elemento 

passato   è   fondamentale   per   analizzare   il   presente,   si   possono   trovare   nella 

rivoluzione industriale   i  prodromi di  quella  società  che attraverso modernismo e 

postmodernismo   è   giunta   fino   ai   giorni   nostri   e   più   segnatamente   nell’inizio 

dell’uso industriale delle energie fossili  in luogo di quelle tradizionali  che hanno 

dato il via all’ossessione della velocità e della produzione. Con lo sviluppo di nuove 

tecnologie e nuove tecniche agricole la produzione aumentò  e si creò una grande 

eccedenza  di  mano d’opera,   i   contadini  che  prima  lavoravano  il   cotone  ed  altre 

materie  prime furono costretti  a  spostarsi  nelle  città  per   lavorare  a   tempo pieno 

all’interno   di   grandi   capannoni,   si   costruirono   alle   periferie   delle   grandi   città 

abitazioni fatiscenti e insane, prive di servizi igienici.  Il  lavoro subì  una radicale 

trasformazione: nelle fabbriche all’operaio non era richiesta una particolare capacità 

come invece era richiesta all’artigiano; inoltre la lavorazione a catena costringeva il 

lavoratore ad atti  ripetitivi  e stressanti  per dodici,    quattordici ore giornaliere,   in 

capannoni   umidi   per   il   vapore   acqueo   accumulato   e   scarsamente   arieggiati.   La 

borghesia   arricchita   accedeva   alla   rendita   terriera   e   comprese   perfettamente   i 

vantaggi economici a breve termine che lo sfruttamento diretto del capitale terrestre 

2   Cfr.  J.C. Besson­Girard, Piccolo manuale per una decrescita armonica,  trad. it, Milano, Jaca Book, 2007.

  8

non rinnovabile poteva procurare, senza passare attraverso i tempi lunghi e i profitti 

mediocri legati alle semplici rendite del capitale di superficie. Non restò che mettere 

a profitto i vantaggi dell’essere Stati centralizzati per sfruttare le materie prime del 

mondo intero trasformandole industrialmente grazie al sistematico saccheggio delle 

risorse energetiche fossili. Il problema dei rifiuti e dell’inquinamento di ogni sorta, 

diretta conseguenza di quelle pratiche all’epoca non interessava a nessuno e sarebbe 

diventato un’eredità delle successive generazioni, così come la gestione dei conflitti 

socio­economico­politici originati da questo progresso. Dopo il carbone vennero il 

petrolio   il   gas   l’uranio.  Quale   che   sia   la   risorsa   energetica,   il   suo   sfruttamento 

procurava e produceva un degrado del sistema globale, che oggi chiamiamo biosfera, 

a causa dell’aumento dell’entropia che regola la trasformazione della materia fossile 

energetica in calore, poi in lavoro. Se è  vero che in Natura nulla si crea nulla si 

distrugge tutto si trasforma, è anche vero che dalle ceneri di un albero bruciato non 

saremo mai in grado di ricreare radici rami e foglie. Ogni sistema vivente è legato ad 

un principio di irreversibilità che regge il tempo e l’energia.

2. La proposta di uno “sviluppo sostenibile”

Era il 1972 quando fu pubblicato il Rapporto Meadows, commissionato dal Club di 

Roma al Massachussets Institute of Technology (MIT), sui limiti dello sviluppo (o 

con una traduzione migliore “i limiti della crescita”). 

Il mondo si trovava di fronte a tre modelli: “il mondo non ha limiti”, il che avrebbe 

necessariamente portato al collasso essendo un modello palesemente falso. 

  9

“Il  mondo ha  limiti   troppo vicini,  non c’è  più  nulla  da  fare”.  E qui  è   insito un 

collasso in tempi brevi.  Oppure,   terzo ed ultimo modello,  “ci sono limiti   reali  e 

vicini,  c’è  giusto  il   tempo di  rimediare”.  L’unica via  da percorrere secondo Ray 

Forrester,   uno   degli   studiosi   del   MIT,   sarebbe   dunque   questa,   attraverso   un 

riequilibrio   di   cinque   elementi   fondamentali:   Popolazione   mondiale,   sviluppo 

economico, produzione alimentare, risorse non rinnovabili ed inquinamento. 

La conclusione alla quale si giunse per raggiungere un equilibrio sistemico globale 

era “la crescita zero” di popolazione ed investimenti, a partire da subito...

Nel   1992   è   stato   pubblicato   un   primo   aggiornamento   del   Rapporto,   col   titolo 

“Beyond the Limits” (“Oltre i Limiti”), nel quale si sosteneva che erano già  stati 

superati i limiti della “capacità di carico” del pianeta. 

La novità era la stessa introdotta nel 1987 da un altro rapporto, quello Brundtland, 

cioè quella cosiddetta dello Sviluppo sostenibile, concetto ormai entrato a far parte 

del linguaggio di tutti i giorni, nel linguaggio televisivo come in quello politico, se 

mai una differenza ci fosse. É un concetto che si risolve nelle due stesse parole che 

lo formano, continuare a perseguire il fine ultimo della crescita ma farlo in modo da 

salvaguardare il pianeta ed in fin dei conti la razza umana. Per dirlo con le parole 

della  Commissione  Mondiale   su  Ambiente   e  Sviluppo   (WCED),   realizzatori  del 

rapporto   commissionato  dall’ONU:  “lo  Sviluppo   sostenibile  è   uno  sviluppo  che 

garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che 

le   generazioni   future   riescano   a   soddisfare   i   propri”.   Lo   studio   prese   avvio 

sottolineando come il mondo si trovasse davanti ad una “sfida globale” a cui si può 

rispondere  solo  mediante   l’assunzione  di  un nuovo modello  di  sviluppo definito 

  10

“sostenibile”. 

Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Sviluppo_sostenibile.

“Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una definitiva condizione di armonia, è 

piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la 

direzione   degli   investimenti,   l’orientamento   dello   sviluppo   tecnologico   e   i 

cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli 

attuali”. Tuttavia, se da un lato lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni 

fondamentali   di   tutti   e   di   estendere   a   tutti   la   possibilità   di   attuare   le   proprie 

aspirazioni   a  una  vita  migliore,  dall’altro  nella  proposta  persiste  una  ottimistica 

fiducia nella tecnologia che porterà  ad una nuova era di “crescita economica”: il 

concetto  di   sviluppo  sostenibile  comporta   limiti,  ma  non  assoluti,  bensì   imposti 

dall’attuale   stato   della   tecnologia   e   dell’organizzazione   sociale   alle   risorse 

economiche   e   dalla   capacità   della   biosfera   di   assorbire   gli   effetti   delle   attività 

umane.   La   tecnica   e   la   organizzazione   sociale   possono   però   essere   gestite   e 

migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica. Comunque 

  11

sia, un aspetto merita di essere sottolineato la centralità della partecipazione di tutti: 

il soddisfacimento di bisogni essenziali   esige non solo una nuova era di crescita 

economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la 

garanzia   che   tali   poveri   abbiamo   la   loro   giusta   parte   delle   risorse   necessarie   a 

sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi 

politici   che   assicurino   l’effettiva   partecipazione   dei   cittadini   nel   processo 

decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali. Le 

tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono 

essere   affrontate   in   maniera   equilibrata   a   livello   politico3;   il   concetto   si   è   così 

evoluto con il passare degli anni fino ad accostare alle originarie 3 E, ecologia equità 

(sociale) ed economia, un quarto pilastro, quello della diversità culturale, necessaria 

per   l’umanità   quanto   la   biodiversità   lo   è   per   la   natura.     A   partire   dalla   prima 

definizione  data  nel  Rapporto  Brundtland  e   sulla  base  di  questo   rapporto  venne 

organizzato, sempre dall’ONU, nel 1992 a Rio de Janeiro (Brasile), la Conferenza su 

ambiente   o   sviluppo   (nota   anche   come   Earth   summit)   che   si   concluse   con   la 

sottoscrizione,   da   parte   di   un   centinaio   di   Stati,   di   cinque   documenti,   tra   cui 

l’Agenda 21, ossia un piano d’azione per il ventunesimo secolo, e la Dichiarazione 

su ambiente e sviluppo. 

L’attuazione degli accordi sottoscritti in tale sede venne demandata a un’apposita 

Commissione per lo sviluppo sostenibile (CSD). Negli anni Novanta si susseguirono 

incontri   relativi   a   singole   tematiche   appartenenti   al   problema   dello   sviluppo 

sostenibile (sulla popolazione, al Cairo nel 1994, sul ruolo della donna, a Pechino 

3  Per ulteriori informazioni si veda http://europa.eu.

  12

nel   1995,   sulla   pianificazione   del   territorio,   a   Istanbul   nel   1996).   Una   data 

emblematica è il 1997, anno in cui si svolse, in Giappone, la Conferenza di Kyoto sul 

clima: sottoscrivendo il relativo Protocollo, i Paesi aderenti si impegnarono a ridurre 

del   5,2%   le   emissioni   di   anidride   carbonica   e   degli   altri   gas   che   provocano   il 

cosiddetto “effetto serra” (determinando il surriscaldamento del nostro pianeta) per 

il   periodo   tra   il   2008   e   il   2012.   Il   mancato   conseguimento   di   questi   obiettivi 

determinerebbe, secondo gli esperti, nel 2100, un aumento della temperatura sulla 

Terra di 5, 8 gradi centigradi e l’innalzamento del livello del mare di 80 centimetri. 

Purtroppo in un primo momento questo protocollo non fu sottoscritto da tanti Stati, 

in primis dagli Stati Uniti, che contribuiscono a oltre il 36% delle emissioni globali e 

rendendo   questa   (ed   altre   dichiarazioni   sottoscritte   in   megavertici)   una   vuota 

proclamazione   di   intenti.     Un   risultato   sicuramente   utile   è   stato   conseguito   a 

Johannesburg nel 2002: l’adesione di Cina, Russia e Canada al Protocollo di Kyoto 

sul   Clima   (alla   quale   si   è   aggiunta   l’Australia   nel   recente   vertice   di   Bali   del 

Dicembre 2007 lasciando di fatto “soli” gli USA); al di  là  dell’indiscutibile peso 

politico   di   queste   adesioni,   esse   hanno   reso   possibile     la   realizzazione   della 

condizione cui era subordinata l’entrata in vigore del suddetto protocollo, ossia la 

ratifica   da   parte   di   almeno   55   paesi   che   producano   insieme   almeno   il   55%  di 

emissioni nocive, entrata in vigore avvenuta il 16 febbraio 2005, ad otto anni dalla 

sua stesura, un passo sicuramente molto importante ma altrettanto sicuramente non 

sufficiente,   come   d’altro   canto   hanno   lasciato   intendere   diverse   associazioni 

ambientaliste.

Nel 2004 è stato pubblicato un secondo aggiornamento del Rapporto Meadows, dal 

  13

titolo Limits to Growth: The 30­Year Update, nella quale Donella Meadows, Jorgen 

Randers e Dennis Meadows4  ribadiscono l’assunto fondamentale,cioè che la Terra 

non è infinita né come serbatoio di risorse (terra coltivabile, acqua dolce, petrolio, 

gas naturale, carbone, minerali, metalli, ecc.), né come discarica di rifiuti, e   che è 

necessario   intraprendere   più   azioni   coordinate   per   gestire   tale   finitezza,   che   gli 

effetti   negativi  dei   limiti   dello   sviluppo   rischiano  di  diventare   tanto  più  pesanti 

quanto più tardi si agirà. Gli autori prospettano quindi una rivoluzione sostenibile di 

lunga   durata   come   quella   agricola   o   quella   industriale,   per   nulla   simile   a 

cambiamenti repentini come la rivoluzione francese, in grado di dare nuove risposte 

al   problema   millenario   della   vita   umana   sulla   Terra.   Notano,   tuttavia,   che   la 

rivoluzione sostenibile  dovrà  essere  accompagnata  ben più  delle  precedenti  dalla 

consapevolezza della sua necessità e degli obiettivi di massima da raggiungere. 

Essi   inoltre rifiutano l’obiezione secondo la quale la  tecnologia ed i  meccanismi 

automatici   del   mercato   sono   sufficienti   ad   evitare   il   collasso   del   sistema   e 

propongono al riguardo l’esempio della pesca: lo sfruttamento sempre più intenso di 

una risorsa naturale di per sé rinnovabile ha condotto al depauperamento della fauna 

ittica, al punto che il prodotto della pesca comincia a diminuire. La tecnologia ha 

reso   la   pesca   sempre   più   aggressiva   (sonar,   individuazione   di   branchi   tramite 

satelliti, ecc.), il mercato ha reagito alla scarsità aumentando il prezzo, trasformando 

così un alimento per poveri in un alimento per ricchi. In generale sarebbe possibile 

ipotizzare  un  esito   analogo   su  più   ampia   scala   (consumi  crescenti   da  parte  dei 

“ricchi”, a prezzi elevati per effetto della scarsità delle risorse, impoverimento della 

4  Per ulteriori informazioni si veda http://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto sui limiti dello sviluppo.

  14

maggioranza), che però non sarebbe sostenibile. Gli autori ricordano, infatti, che di 

norma la pianificazione familiare viene praticata dove si può godere di un’adeguata 

sicurezza,  mentre   i   tassi  di  natalità   sono  alti   quando   le  condizioni  di  vita   sono 

difficili.  Una società  sostenibile, dicono, deve anche essere una società  solidale e 

con disuguaglianze contenute: ricchezze eccessive inducono comunque un consumo 

sostenuto delle risorse naturali ed un crescente inquinamento, mentre una povertà 

diffusa esporrebbe il pianeta al peso insostenibile di una crescita esponenziale della 

popolazione che, come già visto nel rapporto di trent’anni precedente, è una delle 

cause del collasso.

Fonte: rivista “La Decrescita”, n.1, Aprile 2005, p. 9.

Il disegno rappresenta l’emblema dello sviluppo sostenibile all’interno della società occidentale:si viaggia verso la catastrofe ma invece di invertire la rotta si rallenta solo la velocità. 

“Una guerra atomica potrebbe far finire il mondo con uno schianto,  lo sviluppo potrebbe farlo con una lenta agonia.”

  15

3. La “Charte de l’environnement” français

Come visto negli ultimi anni l’idea di “sviluppo sostenibile” si sta evolvendo di pari 

passo con la consapevolezza che tutto ciò che facciamo per distruggere l’ecosistema 

si ritorce contro noi stessi, che un cambio di rotta è necessario e che il cambiamento 

deve partire da questo concetto; pertanto la rifondazione da porre in atto deve essere 

radicale, e negli Stati Moderni cosa c’è di più profondo della Costituzione? In tutte 

le   Costituzioni   più   recenti,   compresa   in   quella   che   sarebbe   dovuta   essere   la 

Costituzione Europea, c’è un riferimento esplicito come non esplicito allo sviluppo 

sostenibile, a partire dalla Svizzera in cui l’art.73 è interamente dedicato, per finire 

al Portogallo, passando per Spagna Germania Polonia ed altri, non l’Italia (ma la 

legislazione si evolve in tale direzione). Ma è in Francia che certamente troviamo 

l’esempio   più   lampante   di   assunzione   di   certi   impegni   in   materia   di   sviluppo 

sostenibile:   con   Legge   costituzionale   n.   2005­205   del   1   marzo   2005   infatti   la 

Costituzione francese è stata dotata di una Carta per l’Ambiente5, dieci articoli nella 

quale   sono   racchiusi   diversi   principi   fondamentali,   cinque   secondo   Nathalie 

Kosciusko­Morizet,   Segretario   di   Stato   incaricata   di   ecologia:   il   principio   di 

responsabilità,   secondo   la   quale   chi   inquina   deve   pagare   secondo   regole   più 

repressive;   il  principio  di  precauzione,   favorendo  il  dialogo fra  poteri  pubblici  e 

organizzazioni professionali;   il  principio di integrazione, che fa dell’ecologia una 

dimensione sistematica per ogni politica pubblica; il principio di prevenzione, che 

evita di dover riparare ai danni; ed infine il principio di partecipazione, che permette 

5  Per ulteriori informazioni http://www.teteamodeler.com.

  16

ai cittadini attraverso il dibattito e le inchieste pubbliche di essere considerati nelle 

decisioni e assicurandone la trasparenza6. Non c’è dubbio che tale scelta marchi la 

solennità  che si è   inteso dare a questa revisione costituzionale,  basti pensare che 

risulta   essere   una   vera   rarità,   per   non   dire   un’assoluta   novità   per   l’epoca 

contemporanea,   la   revisione  di  un   Preambolo;   inoltre   emerge  un   significato  dai 

risvolti   ben   più   significativi:   il   riconoscimento   dei   diritti   e   dei   doveri   legati 

all’ambiente viene posto allo stesso livello dei diritti civili e politici contenuti della 

Déclaration   del   1789   nonché   dei   principi   economici   e   sociali   enunciati   nel 

Preambolo alla Costituzione del 1946. Si assiste quindi alla costituzionalizzazione, 

allo stesso livello dei diritti che la dottrina francese definisce di prima e seconda 

generazione, anche del diritto all’ambiente che sempre la dottrina inserisce in una 

generazione, la terza, sulla cui “consistenza normativa” molto si discute. In breve in 

tale generazione si fanno rientrare non solo il diritto all’ambiente, ma anche quello 

alla   pace,   allo   sviluppo,   al   rispetto   del   patrimonio   comune   dell’umanità, 

all’autodeterminazione dei popoli. Al di là delle più che fondate perplessità di poter 

considerare   la   maggior   parte   di   queste   aspirazioni,   per   quanto   assolutamente 

condivisibili,  veri  diritti  soggettivi,   l’evoluzione giuridica  che ha subito   il  diritto 

all’ambiente  e  che mostra,   senza ombra  di  dubbio,   la  parabola,  più   riuscita,  del 

processo di emersione di un “nuovo diritto” che appunto da aspirazione, bisogno 

collettivo lascia lo “stato prenormativo” per accedere a quello “normativo”. Occorre 

però   sottolineare   anche   il   rovescio   della   medaglia.   Proprio   la   formulazione   del 

principio  di  precauzione,  come anche   il   restante  contenuto  della  Carta,  e  più   in 

6  Per ulteriori informazioni http://blogecolo.canalblog.com.

  17

generale   la   politica   ambientale   dell’esecutivo,   è   stato   bollato   da   una   parte 

consistente dell’opinione pubblica come una sorta di foglia di fico usata da Chirac 

per   far   dimenticare   i   test   nucleari   condotti   nel   Pacifico,   la   promozione   di 

un’agricoltura   intensiva   e   inquinante,   per   nulla   intenta   a   proteggere   l’ambiente. 

Egli    infatti,   ha   dichiarato   nel   2002   alla   conferenza   dell’Onu   sull’ambiente   di 

Johannesburg:   “La   casa   brucia   e   noi   intanto   guardiamo   da   un’altra   parte”, 

affermando inoltre che i nostri stili di vita sono insostenibili, dal momento che gli 

europei consumano l’equivalente di tre pianeti. Parole vere. Purtroppo però mentre 

pronunciava   questi   discorsi,   i   suoi   uomini,   dietro   suo   mandato,   lavoravano 

all’Unione Europea affinché il Gaucho e il Paraquat, terribili pesticidi che uccidono 

le   api,   provocano   il   cancro   negli   uomini   e   rendono   sterili,   non   fossero   iscritti 

all’elenco dei prodotti proibiti. 

Sempre  Nathalie Kosciusko­Morizet indica come debba avvenire questo cambio di 

rotta   a   partire   dalla   Carta   per   l’ambiente:   “É   indispensabile   prevedere   degli 

strumenti per accompagnare la carta: completare e precisare il codice dell’ambiente, 

in   particolare   sulle   questioni   di   responsabilità;   creare   un’alta   istanza,   un   alto 

comitato,   luogo   di   confronto   di   esperti   e   consulenti   del   governo;   sviluppare 

l’educazione ambientale nelle scuole. Bisogna fare rispettare la Carta e bisogna fare 

in fretta”. Soprattutto bisogna farlo veramente e bisogna farlo tutti quanti insieme; 

non  a  caso   l’ultimo  articolo   recita:   “la  presente  Carta   ispira   l’azione  europea  e 

internazionale della Francia”. Basterà?

  18

Capitolo 2

Ce n’è abbastanza per le necessità di tutti, ma non per l’avidità di ciascuno.

Mahatma Gandhi

1. Decrescita: un “NO” allo sviluppo sostenibile

“Il problema del concetto di sviluppo sostenibile non è tanto nel termine sostenibile, 

che   è   tutto   sommato   una   bella   parola,   quanto   nella   parola   sviluppo,   che   è 

decisamente  un  termine  tossico” Con queste  parole  Serge Latouche dà   il   là  alla 

critica a quello che definisce un pleonasma, un ossimoro che ci “preclude ogni via 

d’uscita promettendoci lo sviluppo eterno. Almeno con lo sviluppo non sostenibile 

potevamo mantenere la speranza che questo processo mortifero avrebbe avuto una 

fine,  vittima delle  sue contraddizioni,  dei  suoi   insuccessi,  del  suo insopportabile 

carattere e della finitezza delle risorse naturali”. A ben vedere sostenibilità significa 

che  l’attività  umana non deve produrre un livello  di   inquinamento superiore alla 

capacità dell’ambiente di rigenerarsi. Non è altro che l’applicazione del principio di 

responsabilità  del   filosofo Hans  Jonas:  “Agisci   in  modo che  gli  effetti  della   tua 

azione siano compatibili con la continuità di una vita autenticamente umana sulla 

terra”.   Tuttavia,   il   significato   storico   e   pratico   dello   sviluppo   implicito   nel 

programma della  modernità,  è   fondamentalmente  contrario  alla  sostenibilità   così 

concepita. Si può definire lo sviluppo come un’impresa volta a mercificare i rapporti 

tra le persone e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto 

  19

dalle   risorse  naturali  e  da  quelle  umane.  La  mano   invisibile  e   l’equilibrio  degli 

interessi  ci  garantiscono che  tutto  procede per   il  meglio  nel  migliore  dei  mondi 

possibili.   Perché   preoccuparsi?   Sono   lontani   ben   ventidue   secoli   i   tempi   in   cui 

Catone affermava: “Pianta alberi che ad un’altra generazione daranno frutti”7, ma lo 

sono   molto   di   più   a   livello   morale   se   paragoniamo   le   conoscenze   a   nostra 

disposizione.  Se   tutti  si  comportassero seguendo questo esempio  le  nostre  opere 

sarebbero   ricompensate   attraverso   i   benefici   tratti   dalla   comunità   nella   quale 

viviamo, e questo sarebbe vero sviluppo. Accostando un termine come “sostenibile”, 

ossia la necessità di non ledere le generazioni future, si mina il concetto alla base, 

perché dovrebbe già essere insito nella parola stessa. Se non serve a migliorare le 

condizioni di vita presenti e future, non stiamo parlando di sviluppo.

Dalla fine degli anni Ottanta hanno fatto la loro comparsa nuove formule di sviluppo 

“aggettivato”:   si   parla   di   sviluppo   umano   autocentrato,   endogeno,   partecipativo, 

comunitario, integrato, autentico, autonomo e popolare, equo, per non parlare dello 

sviluppo locale, del micro­sviluppo, dell’endo­sviluppo e persino dell’etno­sviluppo, 

nonchè   naturalmente   di   sviluppo   durevole/sostenibile.   Questo   però   senza   mai 

mettere in discussione i presupposti del mito e delle pratiche dello sviluppo: la fede 

incondizionata nel progresso tecnico, la massimizzazione dei profitti per le imprese 

e, soprattutto, la crescita illimitata della produzione e dei consumi, vera e propria 

spina dorsale di ogni politica di sviluppo. Come ha sottolineato H. Daly, siamo ben 

consapevoli che sviluppo e crescita non coincidono, tuttavia è mai esistita una forma 

di   sviluppo   senza   crescita?   Si   potrebbe   affermare   che   aggiungere   l’aggettivo 

7  Cicerone, Catone il vecchio. La vecchiaia, Mursia editore, Milano, 1987, p. 24.

  20

sostenibile   al   concetto   di   sviluppo   non   significa   certo   rimettere   seriamente   in 

discussione lo sviluppo esistente, quello che domina il pianeta da due secoli,  ma 

semplicemente concepirlo in un’accezione ecologica. E’ alquanto improbabile che 

ciò  basti a risolvere i problemi. Ormai, neanche la riproduzione sostenibile è  più 

possibile.  Ci  vuole   tutta   la   fede degli  economisti  per  pensare  che  la scienza del 

futuro risolverà tutti i problemi e che la sostituibilità illimitata della natura attraverso 

l’artificio sia possibile8. Come si chiede Mauro Bonaïuti, qualora si dovesse riuscire 

a   sfruttare   nuove   energie,   sarebbe   sensato   costruire   “grattacieli   senza   scale   né 

ascensori, esclusivamente sulla base della speranza che un giorno trionferemo sulla 

legge di gravità?”.  Il processo economico è  di natura entropica.  “La terra ha dei 

limiti – sottolinea Marie­Dominique Pierrot – e trattarla come qualcosa che si possa 

sfruttare   all’infinito   attraverso   la  mitizzazione   del   concetto   di   crescita,   significa 

condannarla a scomparire. Non si può invocare la crescita illimitata e accelerata per 

tutti  e  allo stesso  tempo chiedere che ci  si  preoccupi delle generazioni future.  Il 

richiamo alla crescita e la lotta alla povertà costituiscono solo delle formule magiche 

e delle parole d’ordine buone per tutte le stagioni. Si tratta dell’idea magica della 

torta  della  quale  basta aumentare le  dimensioni  per  nutrire  tutto  il  mondo e che 

rende ‘innominabile’ la questione della possibile riduzione delle parti di alcuni”. La 

nostra ipercrescita economica oltrepassa già largamente la capacità di carico della 

terra. Se tutti i cittadini del mondo consumassero come gli americani medi i limiti 

fisici del pianeta sarebbero già ampiamente superati. Se prendiamo come indice del 

“peso” ambientale del nostro stile di vita “l’impronta” ecologica di questa categoria 

8  S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 109.

  21

in termini di superficie terrestre necessaria, otteniamo risultati insostenibili sia dal 

punto di vista dell’equità nei diritti di sfruttamento della natura, che dal punto di 

vista   della   capacità   di   rigenerarsi   della   biosfera.   Prendendo   in   considerazione   i 

bisogni  di   risorse  e  di  energia  necessarie  ad  assorbire   i   rifiuti   e  gli   scarti  della 

produzione   e   del   consumo   e   aggiungendoci   l’impatto   dell’habitat   e   delle 

infrastrutture necessarie, i ricercatori del World Wide Fund (WWF) hanno calcolato 

che lo spazio bioproduttivo pro capite dell’umanità è di 1,8 ettari. Un cittadino degli 

Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5.

La  prospettiva  dello   sviluppo   sostenibile   continua  pertanto   a   ritenere  positivo   il 

meccanismo   della   crescita   economica   come   fattore   di   benessere,   limitandosi   a 

proporre   di   correggerlo   con   l’introduzione   di   tecnologie   meno   inquinanti   e 

auspicando  una  sua  estensione,  con  queste  correzioni,   ai  popoli  che  non  a  caso 

vengono definiti «sottosviluppati»; nel settore cruciale dell’energia, ad esempio, a 

partire dalla valutazione che le fonti fossili non sono più in grado di sostenere una 

crescita durevole e una sua estensione a livello planetario, ne propone la sostituzione 

con fonti alternative. Ciò non è altro che un palliativo che alla lunga, o forse lo ha 

già   fatto,   ripropone   il   problema   in   tutta   la   sua   gravità;   c’è   bisogno   di   un 

cambiamento alla base, una nuova educazione, come ad esempio nel caso delle fonti 

fossili una riduzione dei consumi energetici, da perseguire sia con l’eliminazione di 

sprechi,   inefficienze   e   usi   impropri,   sia   con   l’eliminazione   dei   consumi   indotti 

da   un’organizzazione   economica   e   produttiva   finalizzata   alla   sostituzione 

dell’autoproduzione di beni con la produzione e la commercializzazione di merci. 

Sicuramente il ricorso all’efficienza ecologica è fortemente aumentato, ma se nel 

  22

frattempo   si   prosegue   sulla   via   di   una   crescita   forsennata   si   produce 

complessivamente   degrado.   La   diminuzione   dell’impatto   ecologico   e 

dell’inquinamento   per   ogni   singola   unità   è   sistematicamente   annullata   dalla 

moltiplicazione del numero di unità vendute e consumate. A questo fenomeno è dato 

il nome di “paradosso di Jevons” o più comunemente di “effetto­rimbalzo” (effetto 

rebound). L’effetto­rimbalzo permette di comprendere che, ogni volta che si riesce a 

economizzare energia o materie prime per fabbricare un prodotto, l’effetto positivo 

di   questo   guadagno   è   annullato   dall’incitamento   a   consumare   che   ne   risulta   e 

dall’aumento delle quantità prodotte. Una vettura che consuma meno, ad esempio, 

incita a percorrere più chilometri di una vettura che consuma di più, poiché permette 

di  andare più   lontano allo  stesso prezzo.  Allo stesso modo,   la  miniaturizzazione 

degli  oggetti  elettronici  stimola  il   loro consumo,  i   trasporti  veloci  permettono di 

intraprendere   viaggi   sempre   più   lontani,   ecc...   La   diminuzione   del   consumo 

energetico per unità ha dunque l’effetto di aumentare il volume globale di consumo, 

dato che i numero di prodotti fabbricati aumenta anch’esso. Da un lato, si riduce la 

materia   prima   necessaria   per   ogni   prodotto,   ma   poiché   dall’altro   si   aumenta   il 

numero di prodotti fabbricati, il costo ambientale totale è sempre più elevato. È così 

che, tra il 1970 e il 1988, nei paesi dell’OCSE, il consumo di energia per unità è 

diminuito del 25%, mentre l’utilizzazione totale di energia aumentava del 30%. Un 

altro classico esempio è  quello dell’avvento dell’informatica che, secondo alcuni, 

doveva provocare una brutale caduta del consumo di carta. È successo esattamente il 

contrario,  ossia tutti  hanno acquistato una stampante personale per  trascrivere su 

carta i documenti scoperti in linea. Gli effetti positivi derivanti dall’adozione di un 

  23

certo numero di misure di ispirazione ecologica (ricorso alle pale eoliche, riduzioni 

di energia, nuove norme di costruzione delle automobili, ecc...) sono annullate dalla 

crescita globale. Si possono dunque anche inventare dei “carburanti verdi” per le 

vetture,   o   farle   funzionare   con   l’elettricità,   il   beneficio   che   ne   risulterà   per 

l’ambiente sarà annullato dal fatto che ci saranno sempre più vetture in circolazione. 

Ma è importante vedere che questo effetto perverso è anche, dal punto di vista del 

sistema economico dominante,e cioè dagli stessi creatori dello sviluppo sostenibile, 

un effetto voluto, perché favorisce la domanda, e il che permette di aumentare le 

vendite e dunque i profitti9. 

Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile è un tale “fai da te” concettuale, che 

cambia  le parole  invece di cambiare  le cose,  una mostruosità  verbale con la sua 

antinomia  mistificatrice.  Ma nello   stesso   tempo,  con   il   suo   successo  universale, 

attesta la denominazione della ideologia dello sviluppo, ideologia che manifesta la 

logica economica in tutto il suo rigore. Non c’è più rispetto in questo paradigma per 

il   rispetto   della   natura   reclamato   dagli   ecologisti   né   per   il   rispetto   dell’uomo 

reclamato dagli umanisti. “Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua 

verità... E lo sviluppo alternativo come un miraggio”10.

9  Cfr. A. De Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile, Bologna, Arianna Editrice, 2006.

10  François Partant,. La Ligne d’horizon. Paris, La Découverte, 2007, p. 134.

  24

2. La nascita della Decrescita

Una  teoria,  una  sfida,  un   termine  provocatorio...  queste  e   tante  altre  definizioni 

vengono affibbiate alla parola “decrescita”, ed effettivamente non è  chiaro a tutti 

cosa essa rappresenti;  non è  neanche facile da spiegare per coloro che  in questo 

concetto   si   identificano   a   pieno.   Latouche   a   riguardo   afferma   che   é   improprio 

parlare di teoria della decrescita, come gli economisti hanno fatto per le teorie della 

crescita,  soprattutto perché  decrescita non identifica un modello pronto per l’uso. 

Decrescita non è  il termine simmetrico di crescita, ma è  uno slogan politico con 

implicazioni teoriche, è un termine esplosivo che cerca di interrompere la cantilena 

dei drogati del produttivismo”11. Forse la cosa migliore per introdurre l’argomento è 

sgombrare   il  campo da alcuni  possibili   fraintendimenti,  chiarendo subito  cosa  la 

decrescita   non   è:   non   è   un   programma   masochistico­ascetico   di   riduzione   dei 

consumi,   nell’ambito   di   un   sistema   economico­sociale   immutato.   Come   ha 

affermato più volte Latouche, parafrasando Hannah Arendt, non vi sarebbe nulla di 

peggio   di   una   società   di   crescita   senza   crescita.   È   evidente   che   una   politica 

economica incentrata su una drastica riduzione dei consumi creerebbe, data l’attuale 

struttura del sistema produttivo e delle preferenze, una drammatica riduzione della 

domanda  globale   e  dunque  un  aumento  significativo  della  disoccupazione  e  del 

disagio   sociale.   Non   è   questa,   dunque,   la   prospettiva   qui   auspicata.   Decrescita, 

inoltre, non significa condannare i paesi del Sud del mondo a un’ulteriore riduzione 

dei loro redditi pro capite. L’appello alla decrescita è rivolto dunque, in primo luogo, 

ai paesi del Nord. Anche per i paesi del Sud, tuttavia, la decrescita comporta un 

11  S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 11.

  25

significativo cambiamento di prospettiva: non si tratterebbe più, infatti, di seguire i 

paesi  “più   avanzati”   lungo   il   sentiero  della   crescita.  Questa  via,  oltre   ad  essere 

distruttiva per gli ecosistemi, è   in ogni caso, loro preclusa in quanto gli aumenti 

della domanda globale sono ampiamente coperti dagli aumenti di produttività  dei 

paesi occidentali. Si tratterà dunque, anche per i paesi del Sud, di puntare in un’altra 

direzione.  Per quanto  la decrescita alluda,  sul  piano economico,  a una riduzione 

complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa 

in un senso più ampio come una complessiva trasformazione della struttura socio­

economica, politica, e dell’immaginario collettivo, verso assetti sostenibili12. Questo 

nella  prospettiva  di  un   significativo  aumento,  e  non  certo  di  una   riduzione,  del 

benessere   sociale.   Paul   Ariès   la   definisce   “una   parola­bomba   (mot­obus, 

letteralmente parola­granata) per polverizzare il pensiero economista dominante, che 

non si limita al neoliberismo”13. Ma come si è giunti ad adottare questo termine per 

identificare questa “urgenza”? Fra le varie difficoltà che il concetto di decrescita è 

costretto ad incontrare, il primo in ordine cronologico è appunto quello che riguarda 

la natura stessa della parola. Nicholas Georgescu­Roegen, economista rumeno del 

ventesimo secolo, padre fondatore della bioeconomia, è stato il primo a presentare la 

decrescita come una conseguenza inevitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura. 

Egli   parla   letteralmente   di   “declining”   (declino)   che   non   rende   esattamente   il 

significato odierno, ma tuttora in inglese,così come in tedesco, è quasi impossibile 

trovare   una   parola   corrispondente   al   francese   “decroissance”   ed   all’italiano 

“decrescita”   (e   spagnolo   “decrecimiento”):   decrease,   ungrowth,   degrowth, 

12  M. Bonaiuti, Obiettivo Decrescita, Edizioni EMI, Bologna, 2004, p. 3.13  P. Ariès, Decrescita, una parola­bomba, in http://www.decrescita.it.

  26

dedevelopment,   downshifting   non   esprimono   quello   che     Michael   Singleton 

definisce il “cool down, take it easy, slacken off, relax man” proprio della decrescita 

(calmarsi,   moderarsi,   stare   bene,   rilassarsi).   Probabilmente,   come   nelle   lingue 

africane  è   impossibile   tradurre   letteralmente  parole   come “crescita   economica  e 

sviluppo”, lo stesso accade nel caso appena menzionato, e bisogna ricorrere ad un 

giro di parole come “the decreasing of growth” cioè “crescita decrescente”.

Seppure utilizzando un termine probabilmente improprio, Georgescu­Roegen è stato 

il   primo   intellettuale­economista   negli   anni   settanta   ad   introdurre   la   questione 

ecologica nell’economia affermando che qualsiasi processo economico che produce 

merci   materiali   diminuisce   la   disponibilità   di   energia   nel   futuro   e   quindi   la 

possibilità  futura di produrre altre merci e cose materiali. Le leggi dell’economia 

sono convenzioni  stabilite  dagli  uomini  e  non vanno d’accordo con quelle  della 

fisica,   stabilite   dalla   natura.   In   particolare   è   il   secondo   principio   della 

termodinamica  a  elevare  barriere   insormontabili   contro   l’illusione  di  un  crescita 

continua dei consumi (di energia e di materie prime). E’ il principio dell’entropia, 

che sancisce la degradazione dell’energia (e della materia) da forme “disponibili” 

per l’uomo, a forme “non disponibili”, o talora dannose (come l’inquinamento). La 

folle corsa ai consumi da parte dell’umanità  è  vista in realtà  come un più rapido 

avvicinamento alla nostra fine, allorché  avremo basato l’intero nostro stile di vita 

non su ritmi compatibili con il rinnovamento delle risorse naturali, bensì sul rapace 

sfruttamento dei limitati forzieri di energia fossile. Il suo programma bioeconomico 

si articola in otto punti fondamentali che sebbene siano “vecchi” più di trent’anni 

sono attuali adesso più che mai. Egli afferma per prima cosa che la produzione di 

  27

tutti i mezzi bellici, non solo la guerra, dovrebbe essere completamente proibita. Le 

nazioni così sviluppate da essere le maggiori produttrici di armamenti dovrebbero 

riuscire senza difficoltà  a raggiungere un accordo su questa proibizione se, come 

sostengono, hanno abbastanza saggezza da guidare il genere umano. L’arresto della 

produzione di   tutti   i  mezzi  bellici  non solo eliminerebbe almeno  le  uccisioni  di 

massa con armi sofisticate, ma renderebbe anche disponibili forze immensamente 

produttive senza far abbassare il tenore di vita nei paesi corrispondenti. Secondo, 

utilizzando queste forze produttive e con ulteriori misure ben pianificate e franche, 

bisognerebbe aiutare le nazioni  in via di sviluppo ad arrivare il  più  velocemente 

possibile a un tenore di vita buono (non lussuoso). Tanto i paesi ricchi quanto quelli 

poveri   dovrebbero   effettivamente   partecipare   agli   sforzi   richiesti   da   questa 

trasformazione e accettare la necessità di un cambiamento radicale nelle loro visioni 

polarizzate  della  vita.   Inoltre   il  genere  umano dovrebbe  gradualmente   ridurre   la 

propria   popolazione   portandola   a   un   livello   in   cui   l’alimentazione   possa   essere 

adeguatamente fornita  dalla sola agricoltura organica. Questo punto, già  presente 

come   sappiamo nel  Rapporto  Meadows,  è   al   giorno  d’oggi   fonte  di  discussioni 

infinite tanto nelle politiche nazionali quanto all’interno della stessa “Rete per la 

decrescita”, discussione fra coloro che non vedono altra soluzione alla crescita zero 

(o anche più radicale) e chi afferma che le capacità di tolleranza del nostro pianeta 

sarebbero quasi doppie (circa dieci miliardi di persone) se solo la società fosse sana. 

Quarto   punto   della   teoria   bioeconomica   è   che   ogni   spreco   di   energia   per 

surriscaldamento, superraffreddamento, superaccelerazione, superilluminazione ecc. 

dovrebbe essere attentamente evitato e, se necessario, rigidamente regolamentato, 

  28

fin quando l’uso diretto dell’energia solare non diventerà un bene generale o non si 

otterrà la fusione controllata. Quinto, dovremmo curarci dalla “passione morbosa” 

per i congegni stravaganti, splendidamente illustrata da un oggetto contraddittorio 

come l’automobilina per il golf, e per splendori pachidermici come le automobili 

che non entrano nel garage. Se ci riusciremo, i costruttori smetteranno di produrre 

simili  “beni”.  Dobbiamo  liberarci  anche della  moda,  quella  malattia  della  mente 

umana,   come   la   chiamò   Fernando   Galiani   in   “Della   moneta”   già   nel   1750.   È 

veramente   una   malattia   della   mente   gettar   via   una   giacca   o   un   mobile   quando 

possono ancora servire al loro scopo specifico. Acquistare una macchina «nuova» 

ogni anno e arredare la casa ogni due è un crimine bioeconomico. Settimo punto 

(strettamente   collegato   al   punto   precedente),   i   beni   dovrebbero   essere   resi   più 

durevoli tramite una progettazione che consenta poi di ripararli. Infine (in assoluta 

armonia con tutte le considerazioni precedenti), dovremmo curarci per liberarci di 

quella che Georgescu­Roegen chiama «la circumdrome del rasoio», che consiste nel 

radersi più in fretta per aver più tempo per lavorare a una macchina che rada più in 

fretta per poi aver più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più  in 

fretta, e cosi via, ad infinitum. Egli già nel 1975 affermava che “questo cambiamento 

richiederà un gran numero di ripudi da parte di tutti quegli ambienti professionali 

che   hanno   attirato   l’uomo   in   questa   vuota   regressione   senza   limiti.   Dobbiamo 

renderci  conto che un prerequisito  importante per una buona vita  è  una quantità 

considerevole di   tempo libero  trascorso in modo intelligente”14.  Purtroppo questo 

ripudio è continuato di pari passo con la regressione fino al punto odierno di non­

14   Nicholas  Georgescu­Roegen,  Bioeconomia.  Verso un’altra   economia ecologicamente  e   socialmente sostenibile, trad. it. a cura di M. Bonaiuti, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 95­96.

  29

scelta ma di necessità,  necessità  che ancora oggi pare non essere ascoltata. Forse 

però qualcosa sembra muoversi e la parola d’ordine “decrescita”, come i concetti di 

a­crescita e dopo­sviluppo, sta incontrando secondo Paul Ariès un rapido successo 

dovuto alla coesistenza delle quattro crisi maggiori del sistema: la crisi ambientale 

(deregolamentazione del clima), la crisi sociale (aumento delle diseguaglianze), la 

crisi  politica   (disaffezione e  deriva della  democrazia),   la  crisi  dell’essere umano 

(perdita  di  senso):   il   sistema sviluppista   schiaccia   l’uomo così   come schiaccia   i 

legami sociali  e  distrugge la natura15.  In realtà  seppur  è  vero che questi  concetti 

stanno incontrando un buon successo, è anche vero che lo stanno ottenendo solo in 

pochi Paesi, in una piccola porzione della loro popolazione e sicuramente non sono 

presi in considerazione dai “piani alti”, da coloro che hanno un potere decisorio e 

decisivo;  proprio per questo motivo la “decolonizzazione dell’immaginario” deve 

partire dal basso: il cammino verso la decrescita non può essere intrapreso senza 

prima   accedere   ad   un   percorso   di   disintossicazione,   di   purificazione   del   nostro 

immaginario dalle   tossine diffuse a profusione dalla  società  dei  consumi e della 

crescita. D’altro canto occorre divenire consapevoli che, per quanto le associazioni e 

i movimenti si affannino a proporre valori alternativi (la pace al posto della guerra, 

la cooperazione al posto della competizione, ecc.) questi valori non potranno mai 

affermarsi   su  vasta   scala   sino  a  quando  non  verranno   rimesse   in  discussione   le 

strutture   economiche   e   sociali   che   producono   questi   stessi   valori   in   una   realtà 

globale   che   è   tale   economicamente   ma   non   politicamente,   e   che   esige   una 

conduzione che non sia solo quella dei grandi poteri economici.  Bisogna mettere 

15  P. Ariès, Decrescita, una parola­bomba, cit., in  http://www.decrescita.it.

  30

sotto accusa una società ricca che sarebbe in grado di sfamare l’intera popolazione 

del globo, mentre abbiamo un miliardo e mezzo di persone sottoalimentate.  Una 

società tecnologicamente avanzata tanto da poter soddisfare i reali bisogni di tutti 

con una ridotta quantità di lavoro, mentre invece gli orari continuano ad aumentare, 

al fine di produrre quantitativi crescenti di merci sempre più scadenti, destinate in 

poche settimane a finire in discarica. 

Una società scientificamente in grado di far vivere tutti a lungo e in buona salute, ma 

in cui si continua a morire di AIDS perché  i farmaci hanno costi inaccessibili,  e 

sempre più si muore di tumori a causa di aria, acqua, territori inquinati. Una società 

che, quando i mercati si fanno pigri e la produzione ristagna, ha sempre una nuova 

guerra di riserva, così da riattivare la produzione di armi e far ripartire il Pil.

3.  Perché la decrescita: un po’ di numeri

Ormai è un dato di fatto, i numeri parlano chiaro, sia che siano diffusi dalla Banca 

Mondiale o da Ong o da chi per loro, la situazione è allarmante. Pur utilizzando dei 

criteri  di  valutazione di   ricchezza e  povertà   intrinseci  alla  cultura  di  un sistema 

economico   fondato   sulla   mercificazione   totale   del   Pil,   dalla   quale   bisognerebbe 

prendere le distanze, risulta che più di due miliardi di persone vivono con meno di 

due dollari al giorno, soglia sotto la quale si è “ufficialmente” poveri; un paio d’anni 

fa il livello di povertà in Italia si aggirava fra il 15 ed il 20%, oltre dieci milioni di 

persone, e molte di più sono coloro che vivono con qualche euro in più ma che di 

certo non hanno una sicurezza economica. Nel 2004 il  Pil mondiale è  arrivato a 

  31

quarantamila miliardi  di  dollari,  settanta volte quello di  cinquant’anni  prima, ma 

l’84% dei redditi complessivi è appannaggio del 20% dei più ricchi. Un lavoratore 

africano   medio   guadagna   in   un   anno   meno   di   quanto   guadagni   un   lavoratore 

francese con salario minimo in un mese, ma non solo, visto che ogni mucca europea 

“gode” di una sovvenzione di due dollari al giorno, cioè di più di quella di 2 miliardi 

di  abitanti.  Ma proprio  in questo si  cela  il  paradosso ecologico della crescita:  si 

considera ogni attività remunerata come un valore aggiunto generatore di benessere, 

mentre   per   esempio   l’investimento   in   attività   per   eliminare   l’inquinamento   non 

aumenta   affatto   il   benessere16,  e   come   afferma   Hervé­René   Martin   “i   disastrosi 

effetti ambientali e sociali provocati dal sistema di produzione industriale, prima di 

tutto le materie plastiche, e dai modi di vita che induce, uccidono più  persone di 

quanto i filtri e protesi in plastica riusciranno mai a salvarne17. Inoltre in molti paesi 

che   hanno   fatto   registrare   una   crescita   positiva   del   Pil,   in   realtà   la   ricchezza 

diminuisce se si considerano i costi sostenuti per il degrado delle risorse naturali. In 

Francia, per fare un esempio, si è registrato un aumento di persone affette da cancro 

di circa il  63% dal 1980 al 2000, e in Italia la situazione non è  certo differente. 

Nell’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl nel 1986, o nelle piogge acide 

in    Europa   centrale,   o   nella   comparsa   di   malattie   nuove   e   letali   come   l’AIDS 

o  l’encefalite   spongiforme   bovina,   la   cosiddetta   “mucca   pazza”,   la   parte   di 

responsabilità incombente ad attività umane sconsiderate è palese, ma tutte le misure 

politiche prese per contrastare le loro conseguenze puntano solo agli effetti, e a volte 

16  J. Ellul, Le bluff technologique, Hachette, Parigi 1998, p. 76.17  H.R. Martin, La mondialisation racontée a ceux qui la subissent. La fabrique du diable, vol. 2, Climats, 

Parigi, 2003, p. 79.

  32

ad alcune cause secondarie, senza mai rimettere in discussione il modello che le ha 

prodotte,  e che quindi  ne produrrà  altre.  Un esempio forse  meno conosciuto ma 

emblematico e di portata smisurata è quello della “tragedia di Bhopal”, tanto perché 

riguarda  una   fabbrica  che  produce  dal  1969  ogni   anno  cinquemila   tonnellate  di 

pesticidi, fra i maggiori inquinanti al mondo, tanto perché  la Union Carbide (ora 

Dow Chemical Company) non ha fatto e continua a non far nulla per porre rimedio 

alle   conseguenze.   La   notte   tra   il   2   e   il   3   dicembre   1984,   a   Bhopal,   in   India, 

fuoriuscirono quaranta tonnellate di gas letali dalla fabbrica di pesticidi della Union   

Carbide:   ottomila   furono   i   morti   nell’immediato   e   dodicimila   in   seguito;   i 

sopravvissuti non hanno mai ricevuto un risarcimento adeguato, ancora oggi a venti 

anni di distanza gli effetti negativi sulla popolazione sono notevoli: le falde acquifere 

sono fortemente contaminate e tonnellate di rifiuti tossici sono ancora abbandonati 

sul posto, il sito industriale non è stato bonificato, l’assistenza medica non assicurata 

così come non c’è più acqua potabile per le comunità residenti18.  

Di esempi di catastrofi, tragedie legate all’inquinamento purtroppo il mondo è pieno, 

ma è il discorso più generale che va affrontato con serietà, una destrutturazione di 

tutto il ciclo produttivo così com’è, bisognerebbe rivedere e riordinare il sistema alla 

base.  Una critica  costruttiva  viene  da  Annie  Leonard,  un’esperta  di   sostenibilità 

ambientale   con   una   ventennale   esperienza   investigativa   nelle   fabbriche   e   nelle 

discariche di tutto il mondo: con “the story of stuff” (“la storia della roba”) espone 

in   un   video   di   venti   minuti   le   connessioni   fra   un   enorme   numero   di   questioni 

ambientali   e   sociali   riepilogando   brevemente   i   nostri   modelli   di   produzione   e 

18  Per ulteriori informazioni http://greenpeace.it.

  33

consumo: dall’estrazione passando per la produzione, la distribuzione, il consumo 

per terminare con lo smaltimento, tutte le “cose” nella nostra vita hanno un enorme 

impatto   sulla   società,   sul   mondo   intero,   ma   la  maggior   parte  di  questo   ciclo   è 

nascosto   alla   nostra   vista.   Il   punto   è   che   il   nostro   sistema   di   produzione   e 

smaltimento   è   un   sistema   lineare,   e   non   è   possibile   immaginare   che   questa 

situazione   possa   essere   sostenibile   all’infinito:   per   la   salute   di   tutti   la   “roba” 

dovrebbe essere inserita in un ciclo in cui le risorse vengano riutilizzate. Essa pone 

l’accento   su   come   nelle   cinque   fasi   del   processo   in   realtà   siano   omesse 

immancabilmente una serie di variabili e quindi come queste fasi siano diverse da 

come ci vengono propinate: ad esempio l’estrazione che è una “espressione carina 

per dire sfruttamento delle risorse, che è una espressione carina per dire distruzione 

del   pianeta:   abbattiamo   alberi,   facciamo   saltare   in   aria   montagne   per   estrarre 

metalli,   esauriamo   le   risorse   idriche   e   causiamo   estinzioni”;   nella   produzione 

vengono utilizzate sostanze tossiche (come il B.F.R., Brominated flame retardant, 

sostanze chimiche utilizzate per rendere ignifughi gli oggetti ma che sono in realtà 

estremamente tossiche essendo neurotossine che hanno effetti dannosi sulle cellule 

cerebrali) che con la distribuzione entrano nei centri commerciali multinazionali e 

poi   nelle   nostre   case;   il   consumo   è   diventato   usa   e   getta,   la   vita   media   di   un 

computer è  calata da sei a due anni dal 1997 al 2005, mentre i  telefoni cellulari 

hanno un ciclo di vita   inferiore a due anni,  per non parlare del vestiario e delle 

mode; sullo smaltimento dei rifiuti un’altra tesi intera non basterebbe. The “Story of 

stuff”   analizza   la   deriva   del   sistema   produttivo   occidentale,   con   particolare 

riferimento numerico al capitalismo americano: negli ultimi tre decenni, un terzo 

  34

delle   risorse  naturali  del  pianeta   sono  state  consumate,  e  negli  Stati  Uniti   sono 

rimaste  meno del  4% delle   foreste,   il  40% delle   risorse   idriche  americane  sono 

diventate   non   potabili;   gli   USA   hanno   il   5%   della   popolazione   mondiale   ma 

consumano il 30% delle risorse e creano il 30% dei rifiuti di tutto il pianeta e se tutti 

consumassero   come   un   cittadino   americano   avremmo   bisogno   da   tre   a   cinque 

pianeti;   attualmente   esistono   oltre   centomila   composti   chimici   sintetici   in 

commercio e solo  una manciata  di  questi  composti  sono stati   testati  sulla  salute 

dell’uomo e nessuno è stato testato sulla salute in sinergia con altri; negli USA l’ 

Industria rilascia di oltre sei miliardi di euro di sostanze chimiche tossiche in un 

anno. In media un cittadino americano consuma il doppio rispetto al 1960 ed ognuno 

guarda più  pubblicità  in un anno di quanta ne potesse vedere una persona fino a 

cinquant’anni fa in tutta la vita; negli Stati Uniti le ore dedicate allo shopping dalle 

tre alle quattro volte in più rispetto all’Europa19. Ci si chiede giustamente: quand’è 

che potremo portare nel nostro sacchetto le patate affianco ai pomodori vicino alle 

mele senza separarle con quelle inquinantissime quanto inutili bustine di plastica? 

Questo è un esempio di come ormai all’interno della nostra società sia così radicato 

lo  “spreco”  da  non  farci  più   caso:     chi  è   che   in  una  cena   informale  con amici 

rinuncerebbe ai bicchieri di plastica (non­riciclabili) o chi si pone il problema che 

ogni volta che si tira lo sciacquone del water si inquinano più di dieci litri d’acqua (il 

30% dell’acqua consumata in casa) dapprima resa potabile come lo spreco di cloro 

ed energia?

19  Per ulteriori informazioni http://storyofstuff.com.

  35

4. Uno stile di vita... decrescente

La ricerca di alternative è oggi auspicata da tutti gli insoddisfatti dello sviluppo ed è 

la   necessaria   prosecuzione   di   qualsiasi   critica   radicale   delle   concezioni   e   delle 

pratiche attualmente dominanti. È però evidente che le proposte dei “decrescitori” 

possano non sembrare costruttive né credibili agli occhi degli “sviluppisti” in buona 

fede, perché si pongono al di fuori di un sistema in cui regna ed impera il concetto di 

sviluppo e mettono in discussione la società del mercato e dell’economia come fine 

ultimo. Proprio per questo motivo è abbastanza complicato rispondere a domande 

come: “Ma potresti spiegarmi in poche   parole la decrescita che cosa è?” oppure: 

“Se si nega il concetto di sviluppo, con che cosa si intende sostituirlo?”. Gilbert Rist 

afferma che  quest’ultima  domanda   trae   in   inganno perché   impone  di  accettare   i 

presupposti del contraddittorio per poter avviare il dibattito; per non passare subito 

per  utopisti  o  sognatori  bisogna fare   il  “gioco dell’altro” e  conformarsi  a  quelle 

regole,   ma   siccome   sono  proprio   le   regole  di  questo  gioco   ad   essere   messe   in 

discussione, la battaglia appare impossibile già in partenza20. Rist si pone anche il 

problema se valga la pena intraprendere questo percorso tanto più che anche se le 

alternative   esistono   non   sembrano   interessare   a   nessuno.   Questo   dubbio   appare 

alquanto insensato partendo dal presupposto che la decrescita è una necessità, una 

inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l’attuale 

modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con il 

mantenimento  della  pace.  Esso   inoltre  porta   con   sé,   anche  all’interno  dei  paesi 

20  Cfr.  C.  Corneliau,  Brouillons pour  l’avenir:  contributions au débats  sur  les alternatives,  Iued­Puf, Ginevra­Parigi, 2003.

  36

ricchi,   perdita   di   autonomia,   alienazione,   aumento   delle   disuguaglianze   e 

dell’insicurezza. La decrescita non è una ricetta ma semmai un segno, un cartello 

stradale che indica un nuovo percorso, un percorso che ci conduce verso un nuovo 

immaginario, ma il cui programma non può essere formulato con il linguaggio dei 

grandi esperti e tecnocrati. Peraltro non è facile la presentazione e non è facile da 

realizzare:   non   bisogna   certo   rinunciare   semplicemente   perché   l’audacia   della 

prospettiva sostenuta rende difficilmente realizzabili le necessarie misure complete e 

le loro implicazioni. Il problema è che queste misure non rappresentano un modello 

pronto all’uso come le tipiche strategie di sviluppo, ma sono “vere e proprie utopie 

che   mettono   in   movimento   e   creano   nuove   dinamiche   in   grado   di   riattivare 

prospettive bloccate e aprire la via a possibilità precedentemente ostruite”21. 

Per capire cosa sia la decrescita, e come possa costituire il fulcro di un paradigma 

culturale   capace   di   orientare   sia   le   scelte   di   politica   economica,   sia   le   scelte 

esistenziali,   è   necessario   prima   di   tutto   fare   chiarezza   su   cosa   è   la   crescita 

economica. Generalmente si crede che la crescita economica consista nella crescita 

dei  beni  materiali  e   immateriali  che un sistema economico e  produttivo mette  a 

disposizione di una popolazione nel corso di un anno. In realtà l’indicatore che si 

utilizza per misurarla, il prodotto interno lordo, si limita a calcolare, e non potrebbe 

fare diversamente, il  valore monetario delle merci, cioè  dei prodotti  e dei servizi 

scambiati   con   denaro.   Il   concetto   di   bene   e   il   concetto   di   merce   non   sono 

equivalenti22.  Esistono   beni   che   non   sono   merci,   come   tutti   i   cibi   e   gli   oggetti 

21  S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., p. 95.22  Cfr. M. Pallante la decrescita felice,La qualità della vita non dipende dal PIL, Editori Riuniti, Roma, 

2005.

  37

autoprodotti, oppure i servizi gratuiti ricevuti o dati ai parenti e agli amici (non sono 

merci perché non si scambiano con denaro e non fanno aumentare il PIL); esistono 

merci che non sono beni, come la benzina sprecata in una coda, la riparazione di un 

incidente, le misure di sicurezza contro i ladri. Secondo Maurizio Pallante, saggista 

esperto di efficienza energetica e membro del comitato scientifico di “M’illumino di 

meno” nonché  presidente del  “Movimento per   la  decrescita  felice”,   la  decrescita 

consiste nel fare aumentare i beni e decrescere le merci; in questo modo è possibile 

ridurre l’impatto ambientale, diminuendo i rifiuti e le emissioni di CO2. Si tratta di 

ripensare   l’attività   economica   in   tre   cerchi   concentrici:   il   primo   è   quello   della 

autoproduzione (yogurt, pane, frutta e verdura); il secondo è quello del dono (del 

tempo, delle capacità professionali, della disponibilità umana, dell’attenzione, della 

solidarietà); il terzo è quello dell’economia in senso convenzionale. Oggi la terza 

sfera sta soffocando le prime due, che devono riappropriarsi del loro spazio, uno 

spazio che si è ridotto notevolmente con l’avvento della società industriale, ma che 

già iniziava a diminuire con la nascita del baratto, che ha dato origine agli scambi 

mercantili.   Le   società   industriali   sono   caratterizzate   dalla   prevalenza   della 

produzione di merci sulla produzione di beni e il loro prodotto interno lordo cresce 

in continuazione. Nel loro sistema di valori, che misura il benessere con la ricchezza 

monetaria,   ciò   testimonia   la   superiorità   della   civiltà   industriale   sulla   civiltà 

contadina e delle società occidentali, in cui la civiltà industriale si è sviluppata, su 

tutte le altre. Nelle comunità agricole la produzione di beni prevale sulla produzione 

di merci e la compravendita ha un ruolo complementare, sono realizzate forme di 

scambio non mercantili basate sul dono e sulla reciprocità, e da qui ne deriva proprio 

  38

il nome: comunità in latino vuol dire “cum munus” ossia “con il dono”. 

Per Enrico Moriconi,  Consigliere Regionale del Piemonte e fondatore dell’AVDA 

(Veterinari per i  diritti  animali)  parlare di decrescita significa prendere coscienza 

della globalizzazione e delle grandi disuguaglianze che ci sono nel mondo. La dieta 

alimentare rappresenta simbolicamente queste disuguaglianze: mentre due terzi del 

mondo è vegetariano per forza, il terzo rappresentato dai ricchi è ipercarnivoro, dal 

momento che ha un consumo di carne giornaliero superiore al triplo del necessario. 

In Italia  si   tratta di circa ottantacinque chilogrammi di  carne pro capite all’anno 

(compresi lattanti e anziani) a cui si aggiungono ventidue chili di pesce, sette chili di 

uova di uova e cento litri di latte, come a dire, un po’ troppe proteine. Scegliere di 

non mangiare carne,  o di  mangiare meno carne,  non è  soltanto un fatto privato, 

perché per prima cosa può ridurre la nostra impronta ecologica: un chilogrammo di 

carne bovina (come prodotto finito) necessita di nove chili di petrolio (concimi di 

sintesi,   agricoltura   meccanizzata,   trasporti)   e   di   ben   quindicimila   litri   di   acqua 

(irrigazione ecc). Inoltre   può andare a incidere sui meccanismi di produzione del 

cibo a livello mondiale che creano disuguaglianza; gli animali sono alimentati con 

cereali, le cui sementi sono in mano per il 65% a sole cinque multinazionali che 

vendono anche il 70% degli erbicidi. 

Come afferma Latouche: “Fin tanto che l’Etiopia e la Somalia nel culmine della 

carestia   sono  condannate   ad  esportare   alimenti  per   i   nostri   animali  domestici   e 

fintanto che noi ingrassiamo il nostro bestiame da macello con la soia cresciuta sulle 

ceneri della foresta amazzonica, noi asfissiamo ogni tentativo di vera autonomia per 

  39

il Sud del mondo”23. 

4.1 Autoproduzione ed altre proposte decrescenti

Lo sviluppo economico, la crescita del PIL, sono direttamente collegati agli scambi 

monetari.  Il  passaggio dalla civiltà  contadina alla società   industriale e urbana ha 

determinato un aumento del ricorso allo scambio monetario per soddisfare bisogni. 

Dalla autoproduzione dei beni si è passati alla produzione del reddito per acquistare 

i beni, passaggio proposto e vissuto come una liberazione: la possibilità di acquistare 

anziché di dover fare una cosa è stata considerata una conquista del progresso, un 

affrancamento da uno stato di necessità ad uno di libertà di scelta. E ha costituito lo 

stimolo a lavorare di più, per avere più reddito per poter acquistare più beni. Contro 

tale meccanismo, la decrescita ripropone forme tradizionali di produzione di beni, 

non   monetarizzate.   Parlando   di   autoproduzione   l’esempio   tipico   proposto   da 

Pallante   è   quello   dello   yogurt:   in   un   dettagliato   saggio   intitolato   appunto   “la 

parabola   dello   yogurt”24  egli   descrive   del   processo   di   questo   comune   vasetto 

presente in quasi tutte le case, come ci arriva, l’inquinamento arrecato all’ambiente, 

quando autoproducendolo avremmo sulle nostre tavole un prodotto più  di  qualità 

superiore,  con un costo  molto  inferiore  e,  perché  no,  anche più  buono...Tuttavia 

questa scelta, che migliora la qualità della vita di chi la compie e non genera impatti 

ambientali, comporta un decremento del prodotto interno lordo: sia perché lo yogurt 

autoprodotto non passa attraverso la mediazione del denaro, quindi fa diminuire la 

23  S. Latouche, Et la décroissance sauvera le Sud..., in “Le monde diplomatique”, Novembre 2002, rivista mensile telematica in www.monde­diplomatique.fr.

24  Per ulteriori informazioni http://www.decrescita.it.

  40

domanda   di   merci;   sia   perché   non   richiede   consumi   di   carburante;   quindi   fa 

diminuire  la domanda di merci;  sia  perché  non richiede confezioni e imballaggi, 

quindi   fa   diminuire   la   domanda   di   merci;   sia   perché   fa   diminuire   i   costi   di 

smaltimento  dei   rifiuti.  Ad esempio  facendo  diminuire   la  domanda  di  vasetti  di 

plastica e di imballaggi in cartoncino, l’autoproduzione dello yogurt fa diminuire la 

domanda  di  petrolio:   sia  quello   che   serve  per  produrre   la  plastica   (due  chili   di 

petrolio per chilo di plastica),  sia quello che serve per il  carburante necessario a 

trasportare vasetti e imballaggi dalle fabbriche in cui vengono prodotti alle fabbriche 

in  cui  viene  prodotto   industrialmente   lo  yogurt.  Se  questo  comporta  quindi  una 

diminuzione delle emissioni di CO2 e del prodotto interno lordo, è solo una piccola 

parte  di  un piccolo esempio di  “decrescita”  che attraverso “il  Movimento per   la 

Decrescita Felice si propone di promuovere la più ampia sostituzione possibile delle 

merci   prodotte   industrialmente   ed   acquistate   nei   circuiti   commerciali   con 

l’autoproduzione   di   beni.   In   questa   scelta,   che   comporta   una   diminuzione   del 

prodotto interno lordo, individua la possibilità  di straordinari miglioramenti  della 

vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, 

gli Stati e le culture”25. Dal vasetto di yogurt di Pallante, ad un vestito o alla cura del 

giardino, è possibile soddisfare le proprie esigenze anziché pagando, facendo da sé. 

Magari   impegnandovi   il   tempo  libero sottratto  al   lavoro,   invertendo un processo 

automatico che ci porta a dover lavorare di più solo per poter pagare beni o servizi 

che potremmo assicurarci da soli. Lavorare a tempo parziale, ad esempio, per potersi 

dedicare alla cura dei figli o dei genitori anziani, anziché lavorare di più per potersi 

25  M. Pallante, La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL, cit., p. 126.

  41

pagare tata o badante, con il risultato, per altro, di recuperare forme di conoscenza, 

di   saper   fare   (l’ars  dei   latini)   spesso   perdute,   di   dedicare   più   tempo   a   noi,   di 

conseguire   beni   spesso   di   qualità   migliore,   prodotti   con   cura   anziché 

industrialmente.  O anche   la   reciprocità,   lo   scambio  non monetario,   il  dono  o   il 

favore agli altri, il mettere a disposizione le proprie capacità ed il proprio tempo in 

un  reciproco rapporto  con amici,   familiari,  vicini.  Sistema  fondante  nelle  civiltà 

tradizionali, finché non è arrivato la sviluppo, che ha prodotto la mercificazione dei 

rapporti   tra  gli   uomini   e  di  questi   con   la  natura.  La   reciprocità   non  costituisce 

soltanto un modo diverso di produrre beni e soddisfare bisogni, ma rappresenta un 

diverso   modo   di   vivere   con   gli   altri,   all’insegna   della   convivialità,   dei   legami 

comunitari anziché dell’egoismo individualista.

Ovviamente le proposte non si fermano di certo qui, ma sono tutte delle linee guida 

da affermare a livello individuale locale e nazionale, partendo dal singolo individuo 

con la speranza di una rapida conoscenza attraversi   i  dibattiti  e una conseguente 

diffusione: a livello individuale, significherebbe innanzitutto riduzione di consumi 

di  materia  ed energia,   interrogandosi  su cosa  è  veramente  necessario  alla  nostra 

vita;   si   potrebbero   acquistare   detersivi   vino   acqua   olio   alla   spina,   eliminando 

inquinamento attraverso il risparmio di plastica e di trasporti e pertanto usufruendo 

di un prezzo inferiore (purtroppo questa pratica è  ancora molto poco diffusa);  si 

potrebbe utilizzare acqua con depuratore specie nelle mense; mettere a disposizione 

la banda internet, una piccola cosa ma che genere sempre risparmio e crescita (che 

sfugge al pil). Ovviamente, accanto al solo utilizzo di ciò che è indispensabile, si 

colloca di  pari  passo il   riciclaggio dei  rifiuti,  che permette  la diminuzione della 

  42

quantità di diossina (sostanza più tossica mai creata dall’uomo) dispersa tramite gli 

inceneritori,   e   riduce   la   necessità   di   estrarre   e   tagliare   nuove   materie   prime. 

Purtroppo ciò non sarà mai abbastanza: gli scarti che escono dalle nostre case non 

sono altro che la punta di un iceberg, per ogni bidone della spazzatura che portiamo 

fuori ce ne sono settanta a monte soltanto per creare il contenuto di quel bidone. 

Quindi anche se riciclassimo la totalità dei nostri rifiuti non arriveremmo al cuore 

del   problema.   Inoltre   molti   rifiuti   non   possono   essere   riciclati,   sia   perché 

contengono  troppe sostanze   tossiche,   sia  perché   sono progettati   apposta  per  non 

essere riciclabili, come le confezioni dei succhi di frutta con strati di metallo carta e 

plastica impossibili da separare.

A   livello   locale   si   potrebbero   favorire   gli   eventi   ciclistici   come   critical   mass, 

proteggere le aree verdi e difendere il suolo dalla cementificazione; sensibilizzare 

alla riduzione dei rifiuti (prima ancora del riciclo), valorizzare gli ambienti naturali 

del territorio. È possibile fare qualcosa anche sul piano dell’inquinamento dovuto ai 

trasporti (responsabile di un terzo dell’inquinamento totale) per eliminare le polveri 

sottili: non basta fermare traffico qualche giorno, ci vuole un piano della mobilità 

per  non utilizzare   le  vetture,  come ad esempio a  Parma dove vi  sono parcheggi 

gratuiti fuori città e bus navetta di giorno, bus a chiamata la sera. Sempre a Parma 

dal 2008 è stato avviato il progetto “car sharing”, ossia automobili in condivisione: 

un servizio di trasporto individuale che consente agli abbonati, previa prenotazione, 

di  utilizzare  un’autovettura  ecocompatibile,  anche a  metano,  scelta   tra  una flotta 

distribuita su più parcheggi cittadini, per il periodo necessario alle proprie esigenze. 

L’auto prescelta può essere utilizzata per il tempo che realmente occorre, anche solo 

  43

per un’ora, cosi come per più giorni, in tutta Italia ed anche all’estero, pagando solo 

l’uso effettivo (tempo  impiegato e  km percorsi).  Per  quanto  riguarda  il  caso del 

trasporto delle merci un esempio sostenibile “locale” è dato dalla città di Padova, 

dove i camion compiono solo la parte iniziale e finale del tragitto,  il resto avviene in 

treno.; successivamente vengono accentrati gli stock di merce nella periferia della 

città e parte un carico unico per più fornitori. Pertanto vengono utilizzati sei mezzi 

in luogo di trenta che entrano in città, per un risparmio di tredicimila litri in quindici 

mesi, quarantuno chilogrammi di pm10 il cui peso viene generalmente effettuato in 

microgrammi). 

Continuando, a livello nazionale si potrebbe incentivare la riduzione dei consumi 

elettrici (premiando chi consuma di meno e non di più) e l’isolamento termico degli 

edifici (minore bolletta petrolifera); incentivare la riduzione dei package di plastica 

nei prodotti, promuovendo la distribuzione di prodotti “sfusi” a prezzo più basso; 

fare pagare i biglietti autostradali in proporzione alle emissioni di CO2 e all’usura 

del manto stradale (così si riduce il commercio “inessenziale”); non finanziare più 

con denaro pubblico campagne pubblicitarie per indurre le persone a mangiare più 

carne facendoci credere che sia l’unico alimento con determinate caratteristiche (ad 

esempio il seitan, altamente proteico, ricavato dal glutine del grano tenero o da altri 

cereali, è una valida alternativa). Come sempre un discorso più lungo va dedicato 

alle fonti di energia: d’altronde la sostituzione di quelle fossili (e adesso scarse) con 

quelle rinnovabili è la priorità non solo per i sostenitori della decrescita, non solo 

per   tutti   gli   ambientalisti,   ma   per   tutti   coloro   dotati   di   una   certa   lungimiranza. 

Neanche molta oramai... Nel riordinamento del mercato dell’energia a favore di un 

  44

rifornimento   energetico   più   orientato   al   futuro,   l’impegno   della   cittadinanza   ed 

il  potere del consumatore svolgono un ruolo determinante:   la  trasformazione del 

mercato   dell’energia   da   strutture   centrali,   dissipanti   e   contaminanti   a   strutture 

decentrali, economiche ed ecologiche é possibile solo grazie ad un’attività svolta su 

tutti i livelli. 

È piuttosto recente la notizia che Enel  (il cui azionista di maggioranza è il governo 

italiano) investirà  quasi due miliardi di euro per il completamento di due reattori 

nucleari anni ‘70 a Mochovce in Slovacchia, completamento molto pericoloso: la 

tecnologia è assolutamente antiquata, i reattori sovietici di 40 anni fa sono senza un 

guscio di contenimento che possa proteggerli da eventi esterni come la caduta di un 

aereo o un attentato terroristico, mentre oggi i reattori di terza generazione vengono 

costruiti con un doppio guscio; inoltre è stato dichiarato che non si intende effettuare 

alcuna procedura di valutazione di impatto ambientale. L’energia nucleare è costosa 

e rischiosa sia come tecnologia che come possibile obiettivo dei terroristi.  Ha un 

potenziale  energetico assai   limitato e   regala  una pesante  eredità  alle  generazioni 

future che dovranno occuparsi per alcuni secoli delle scorie meno pericolose e che 

dovranno risolvere lo stoccaggio definitivo di quelle a vita lunghissima26. 

A vent’anni dal referendum sul nucleare che ha visto gli italiani rifiutare l’utilizzo di 

questa forma di energia, il problema si ripresenta più serio che mai, ignorando la 

volontà  dei  cittadini.  Un passo importante,   invece,  sarebbe quello dell’utilizzo di 

fonti d’energia rinnovabili, ossia quelle forme di energia generate da fonti che per 

loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono esauribili nella scala dei tempi 

26  Per ulteriori informazioni http://greenpeace.it.

  45

umani  e,   per  estensione,   il   cui  utilizzo  non pregiudica   le   risorse  naturali   per   le 

generazioni future (solare, eolica, idraulica, geotermica, del moto ondoso, di maree e 

correnti e le biomasse). 

Vi sono numerosi esempi, più o meno importanti, che testimoniano come questo sia 

possibile: per restare in Italia basta citare l’esempio del “villaggio fotovoltaico” di 

Alessandria,  che rappresenta  un progetto  altamente  innovativo dal  punto di  vista 

della introduzione di fonti di energia rinnovabili in un normale contesto abitativo. Si 

trova alla periferia sud­ovest della città ed occupa una superficie totale di circa sette 

ettari,   comprende   duecento   alloggi   dotati   di   pannelli   solari   per   una   superficie 

complessiva di millecinquecento metri quadrati. La potenza installata permette, con 

le  condizioni  di   irraggiamento solare  del  nord Italia,  di  ottenere  una produzione 

annua che copra la totalità dei consumi comuni (illuminazione, ascensore...) e più 

o  meno   il   70%   dei   consumi   privati,   permettendo   anche   di   risparmiare   circa 

cinquecento euro all’anno per famiglia, oltre ovviamente a ridurre le emissioni di 

CO2. Il tempo di ammortamento degli impianti è previsto in circa sei anni a partire 

dal 2005, anno di inaugurazione del villaggio. Limitando il ragionamento al solare, 

considerato che l’installazione del fotovoltaico costa circa seimila euro a famiglia, 

estendendo l’esperienza di Alessandra a tutta l’Italia, la spesa e l’incidenza sul Pil 

sarebbe ingente, ma nulla di trascendentale rispetto all’acquisto del petrolio sempre 

più costoso all’estero, o di fronte al rischio di una centrale nucleare27.

27  Per ulteriori informazioni http://www.ecoalfabeta.blogosfere.it.

  46

4.2 Schonau, un esempio per tutti

Un altro  esempio  di  utilizzo  dell’energia  decrescente  è   sicuramente  quello  della 

cittadina di  Schonau28,  un paese tedesco nella foresta nera,   i  cui cittadini,  subito 

dopo la catastrofe della centrale atomica di Cernobyl nel 1986, si resero conto della 

necessità di trovare una alternativa, e che lo spreco d’energia era un problema chiave 

(sia per il consumatore che per il fornitore). Dopo una lotta politica durata anni, i 

cittadini ottennero nel 1997 la concessione di rifornimento di corrente per la città di 

Schönau.  L’EWS  fu   la  prima azienda  di   rifornimento  d’energia  di  proprietà  dei 

cittadini, nata dal movimento antinucleare ed anche l’unica azienda di rifornimento 

d’energia  a vendere esclusivamente corrente  prodotta  da energie  rinnovabili  e  di 

cogenerazione anche nella propria aria di distribuzione. Così  si  è  dimostrato che 

ogni comune é in grado di produrre una gran parte della corrente da solo per mezzo 

di   risparmio   energetico,   energie   rinnovabili   e   cogenerazione.   I   cittadini   hanno 

realizzato pian piano tutte le esigenze ecologiche di una politica d’energia duratura: 

tariffe   che   favoriscano   il   risparmio   energetico,   proibizione   di   creare   nuovi 

riscaldamenti   alimentati   con   corrente   elettrica   (e   l’ampliamento   di   questi 

riscaldamenti   é   possibile   soltanto   pagando   una   supplemento),   incentivazione   di 

impianti di fotovoltaggio e di cogenerazione tramite una migliore remunerazione per 

la corrente fornita.

Quando i  cittadini di Schonau dopo Cernobyl cominciarono a cambiare in modo 

positivo il  panorama energetico, l’esperienza più   importante fu quella di rendersi 

conto che non si  poteva sempre aspettare  che  le  cose  cambino perché  mosse  da 

28  Per ulteriori informazioni http://www.ews­schoenau.de.

  47

qualcun’altro. Si abbandonò l’illusione che i mali del mondo si possano risolvere da 

sé oppure che ci sia sempre qualcuno, sia nell’ambito della politica o della scienza o 

dell’economia, che sia in grado di risolvere i problemi. La gente di Schonau si rese 

conto che se si vuole che qualcosa cambi bisogna rimboccarsi le maniche in prima 

persona e   intraprendere qualcosa.  La  forza  del  consumatore é  enorme:  con ogni 

decisione fatta quotidianamente riguardante come investire il denaro si decide anche 

sul destino di uomini vivi e non ancora nati (non soltanto nel settore della corrente). 

Le misure mirate al risparmio energetico a livello domestico non implicano affatto la 

rinuncia: si tratta invece di sfruttare meglio l’energia. É possibile risparmiare molta 

corrente cambiando le proprie abitudini di consumo, usando tecniche più efficaci ed 

elettrodomestici   che   consumino   meno   corrente.   Inoltre   un   minor   consumo 

energetico non serve soltanto all’ambiente, ma anche al portamonete. Nell’ambito 

della discussione pubblica riguardante il miglior metodo per generare corrente per il 

clima e l’ambiente si dimentica spesso che “la corrente più favorevole all’ambiente é 

quella   che   non   si   consuma”.   Visto   che   il   risparmio   energetico   é   un   eccellente 

contributo   politico­economico,   basti   pensare   che   si   evitano   emissioni   e 

contaminazioni,   sarebbe   opportuno   che   questo   contributo   venisse   ricompensato; 

spesso   però   avviene   il   contrario:   siccome   il   prezzo   base   é   molto   alto 

indipendentemente dal consumo, quelli che consumano poca energia pagano di più 

per ogni chilowatt rispetto a quelli  che consumano molto. Non solo da parte del 

consumatore, ma anche del produttore di corrente c’è molto potenziale di risparmio 

energetico: producendo infatti la corrente in una grande centrale elettrica c’è anche 

una perdita d’energia impressionante. Durante la produzione di corrente dall’energia 

  48

primaria (carbone, petrolio, uranio) si ottiene soltanto una parte di corrente elettrica 

mentre due sono di  calore.  Si   tratta  di  un semplice  principio  di  fisica:   il  calore 

che  viene   generato   nelle   grandi   centrali   elettriche   non   viene   utilizzato,   bensì 

semplicemente   emanato   all’ambiente   tramite   torri   di   raffreddamento,   i   fiumi 

vengono riscaldati,  il  calore viene ridotto ad un prodotto di  scarto senza utilizzo 

proprio.  Ciò   significa   che  due   terzi  dell’energia  primaria  non  viene  sfruttato,   il 

grado di sfruttamento delle grandi centrali elettriche si aggira infatti intorno il 35 e il 

40 %. Esistono per questo motivo degli impianti di cogenerazione forza­calore molto 

grandi con i quali si riscaldano interi quartieri, piscine ed altro, ma anche piccoli 

impianti   che   servono   solo   per   uso   domestico,   ovvero   in   primo   luogo   per   il 

riscaldamento della casa, mentre la corrente é quasi un prodotto di scarto che viene 

usato nella propria casa e l’eccedenza viene restituito alla rete di corrente comune.

Il problema chiaro a tutti è che fonti rinnovabili sono discontinue: grandi centrali per 

grande una grossa utenza porterebbero spreco di un’energia disponibile in quantità 

non immense, ma piccole centrali vicino alle persone permetterebbero all’energia 

imprevedibile  delle   rinnovabili   di   essere   assorbita   in   accumulatori   e   riutilizzata. 

Basterebbe regolare  il   traffico quartiere per quartiere,  città  per  città,   regione per 

regione,   una   rete   di   reti   (come   internet)   ma   per   l’energia.   Sembra   un   progetto 

difficile (di  certo non quanto la costruzione di una centrale nucleare),  ma anche 

questo è stato realizzato in Germania, a Mannehim per la precisione. All’interno di 

tutte   le   abitazioni   vi   è   un   apparecchio,   chiamato   letteralmente   “maggiordomo 

dell’energia”   collegato   alle   tariffe   della   borsa   di   Lipsia,   dal   funzionamento 

all’apparenza impossibile. Il regolatore, quando il prezzo è alto, ossia le industrie 

  49

stanno utilizzando energia, abbassa la temperatura di un grado centigrado e consiglia 

di   non   utilizzare   la   lavatrice;   mentre   il   nucleare   è   una   produzione   di   corrente 

elettrica basata sull’offerta e le persone vengono sempre più stimolate a consumare 

elettricità,   quest’apparecchio   al   contrario   lavora   soltanto   quando   c’è   veramente 

bisogno di energia: è una tecnologia basata sulla necessità del consumo e non sullo 

stimolo   della   domanda.   Il   contrario   dello   schema   economico   dominante.   La 

domanda mondiale di energia è  raddoppiata negli ultimi vent’anni, per il  2030 si 

prevede un altro raddoppio, quindi bisogna aumentare l’offerta: nuove centrali a gas, 

a   carbone,   nucleari,   rigassificatori   e   così   via   all’infinito.   Se   questo   regolatore 

dell’energia   venisse   usato   dappertutto,   si   potrebbero   evitare   i   picchi   di   carico 

elettrico e se immaginiamo di usarlo in tutta Europa si potrebbe arrivare al risultato 

che costruire questa o quella nuova centrale elettrica diventerebbe inutile.

In Italia c’è stato qualcuno che ha avuto idee illuminanti sul risparmio energetico: 

centrali solari con dei tubi irradiati dagli specchi all’interno delle quai scorre una 

soluzione   altamente   salina,   capace   di   raggiungere   altissime   temperature   senza 

evaporare,  permettendo  direttamente  nei   condotti   lo   stoccaggio  del   calore;  degli 

scambiatori   di   calore   portano   il   calore   all’interno   di   contenitori   d’acqua,   che 

evaporando viene utilizzata per produrre energia. Purtroppo però, fino a quando un 

fisico premio Nobel come Carlo Rubia è costretto a emigrare in Spagna insieme al 

suo solare termodinamico a causa di attriti col Governo (pro­nucleare), la salvezza 

rimarrà un’utopia per pochi nell’ignoranza dei più.

  50

5. Ritorno ai vecchi valori

Ormai è chiaro: questo è un sistema in crisi e ci stiamo scontrando con i suoi limiti, 

dal cambiamento climatico alla diminuzione della nostra felicità. Ma il lato positivo 

di un problema così ampio è che ci sono un sacco di punti su cui intervenire: ci sono 

persone   che   lavorano   per   salvare   le   foreste,   altre   per   produrre   in   modo   pulito, 

persone che si occupano dei diritti dei lavoratori, del commercio equo, del consumo 

consapevole,   di   bloccare   discariche   ed   inceneritori   e   soprattutto   di   riportare   il 

governo sulla retta via, in modo che sia fatto davvero da persone per le persone. Le 

cose cominceranno a muoversi solamente quando vedremo i collegamenti, il quadro 

generale, quando si uniranno le forze per trasformare questo sistema in uno che non 

butta   via   risorse   e   persone,   ma   solo   questa   mentalità   usa   e   getta.   Occorre   un 

pensiero unanime fondato su sostenibilità  e  giustizia,  chimica  verde,  zero  rifiuti, 

produzione a circolo chiuso, energie rinnovabili,  economie locali.  “Alcuni dicono 

che tutto ciò non è possibile, non è realistico, non può avverarsi, ma i veri visionari 

sono coloro che vogliono continuare sulla vecchia via, è da pazzi. La vecchia via non 

c’è  da  sempre,  non è  come la  forza di  gravità  con la  quale  dobbiamo per  forza 

convivere, le persone l’hanno creata, ed anche noi siamo persone. Quindi creiamo 

qualcosa di nuovo”29.  

Secondo Ivan Illich, filosofo austriaco altermondista,  la crisi  ha le sue radici  nel 

fallimento dell’impresa moderna, cioè   la sostituzione della macchina all’uomo. Il 

grande   progetto   di   sostituire   la   soddisfazione   razionale   e   anonima   alla   risposta 

occasionale e personale si è trasformato in un implacabile processo di asservimento 

29 Per ulteriori informazioni http://storyofstuff.com.

  51

del produttore e di intossicazione del consumatore: “Per un secolo l’umanità  si è 

dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo strumento può rimpiazzare lo 

schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti scopi, è lo strumento 

che   fa   dell’uomo   il   suo   schiavo”30.   La   soluzione   della   crisi   esige   un   radicale 

rovesciamento: solo ribaltando la struttura profonda che regola il rapporto tra l’uomo 

e   lo   strumento   potremo   servirci   degli   strumenti   che   sappiamo   costruire.   Lo 

strumento   veramente   razionale   risponde   a   tre   esigenze:   genera   efficienza   senza 

degradare   l’autonomia  personale,  non  produce  né   schiavi  né   padroni,   estende   il 

raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di uno strumento col quale lavorare, 

non di un’attrezzatura che lavori  al suo posto.  Ha bisogno di una tecnologia che 

esalti l’energia e l’immaginazione personali, non di una tecnologia che lo asservisca 

e lo programmi. L’industrializzazione programmatica ci ha progressivamente privato 

di tali strumenti. Che si sposti o sia fermo, l’uomo ha bisogno di strumenti: ne ha 

bisogno per comunicare con gli  altri  come per curarsi.  L’uomo che va a piedi  e 

prende erbe medicinali non è l’uomo che corre a duecento sull’autostrada e prende 

antibiotici; ma tanto l’uno quanto l’altro non possono fare tutto da sé e dipendono da 

ciò che gli fornisce il loro ambiente naturale e culturale. Lo strumento e quindi la 

fornitura di oggetti  e di servizi variano da una civiltà  all’altra.  L’uomo non vive 

soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno 

attorno,  di  conformarli  al  suo gusto,  di  servirsene con gli  altri  e  per gli  altri.   si 

definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli 

strumenti che utilizza: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio 

30  I. Illich, La convivialità, trad. it., Red Editore, Como, 1993, p. 32.

  52

dalla ripetizione della carenza alla spontaneità  del dono. Il rapporto industriale è 

riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi  da un 

altro  utente,   che  egli  non  conoscerà  mai,  o  da  un  ambiente   artificiale,   che  mai 

comprenderà;   il   rapporto   conviviale,   sempre   nuovo,   è   opera   di   persone   che 

partecipano   alla   creazione   della   vita   sociale.   Passare   dalla   produttività   alla 

convivialità   significa   sostituire   a  un  valore   tecnico  un  valore   etico,   a  un  valore 

materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata 

nel   rapporto   di   produzione   in   seno   a   una   società   dotata   di   strumenti   efficaci. 

“Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un 

certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività 

riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara”31. 

Ai nostri giorni si tende ad affidare a un corpo di specialisti il compito di sondare e 

leggere   il   futuro.   Si   consegna   il   potere   agli   uomini   politici   che   promettono   di 

costruire la megamacchina per produrre il futuro. Si accetta una crescente disparità 

dei livelli di energia e di potere, perché lo sviluppo della produttività esige questa 

diseguaglianza. Infatti, più la distribuzione del prodotto industriale è egualitaria, più 

il controllo della produzione dev’essere centralizzato. Le stesse istituzioni politiche 

funzionano   come   meccanismi   di   pressione   e   di   repressione   che   indirizzano   il 

cittadino   e   raddrizzano   il   deviante,   per   renderli   conformi   agli   obiettivi   di 

produzione. Il diritto è subordinato al bene dell’istituzione. Il consenso della fede 

utilitaristica abbassa la  giustizia  al  semplice rango di un’equa distribuzione della 

merce industriale e pertanto misurabile. Una società che definisce il bene come il 

31  Ivi, p. 38.

  53

soddisfacimento  massimo  del  maggior  numero  di   individui  mediante   il  maggior 

consumo di prodotti e servizi industriali, logicamente arriva a imporre il consumo e 

mutila   in   modo   intollerabile   l’autonomia   della   persona.   Nella   misura   in   cui   il 

consumo programmato  aumenta,   l’austerità   adottata  per   scelta  personale  diventa 

un’attività   antisociale.   È   proprio   questa   sobrietà   ciò   che   professa   la   decrescita, 

sapendo   che   il   passaggio   dall’attuale   stato   di   cose   a   un   modo   di   produzione 

conviviale sarà accompagnato da sofferenze estreme sia per il Sud che per il Nord 

del mondo ed esigerà una rinuncia generale alla sovrabbondanza e al superpotere da 

parte degli individui come dei gruppi: questa transizione può auspicarla solo chi sa 

che   l’organizzazione   industriale   dominante   si   avvia   a   produrre   sofferenze   ancor 

meno immaginabili, peggiori di quelle attuali. 

Per quanto riguarda il Sud, la decrescita dell’impronta ecologica (ma anche del Pil), 

non è né necessaria né auspicabile; ma questo non vuol dire che ci sia la necessità di 

costruire una società  di crescita.  Decrescita  al Sud significa tentare di giocare la 

carta   del   “dis­sviluppo”,   ossia   togliere   gli   ostacoli   alla   realizzazione   di   società 

autonome e avviare un circolo virtuoso in grado di porsi nella logica delle “otto R”. 

Questo   programma  delle   “otto  R”   (Rivalutare,   Riconcettualizzare,   Reinquadrare, 

Ristrutturare,   Rilocalizzare,   Redistribuire,   Ridurre,   Riutilizzare,   Riciclare)   è   un 

insieme di obiettivi fissati  da Latouche, alla quale se ne possono accostare molti 

altri, che andrebbero a sostituire quello che qualcuno utilizza per descrivere il Nord 

del   mondo   attuale   dei   “sovra”   (savrasviluppo,   sovrapproduzione,   sovraconsumo, 

sovrabbondanza   ecc...)   e   si   porrebbe   come   base   per   una   nuova   società   serena, 

conviviale e sostenibile. Rivalutare significa rivedere i valori ai quali crediamo e in 

base ai quali organizziamo la nostra vita.  I valori che vanno portati  avanti e che 

  54

dovrebbero prendere il sopravvento rispetto a quelli dominanti sono: l’altruismo che 

dovrebbe   prevalere   sull’egoismo,   la   cooperazione   sulla   concorrenza   sfrenata,   il 

piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale 

sul   consumo   illimitato,   il   locale   sul   globale,   il   gusto   di   una   bella   opera 

sull’efficienza produttivista, il ragionevole sul razionale, ecc. La scelta di un’etica 

personale differente, come la semplicità volontaria, può invertire la tendenza e non è 

da trascurare. Va anche incoraggiata, ma senza una rimessa in discussione radicale 

dello stesso sistema la rivalutazione rischia di essere limitata. Ristrutturare significa 

adattare l’apparato produttivo e i rapporti sociali in funzione del cambio dei valori. 

Rilocalizzare vuol dire produrre localmente ciò che occorre alla soddisfazione dei 

bisogni della popolazione a partire dalle imprese del posto finanziate dal risparmio 

raccolto   localmente,   utilizzare   i   prodotti   del   territorio,   riducendo   i   trasporti,   i 

maggiori imballaggi inutili, i trattamenti che consentono ad un prodotto alimentare 

di  essere consumato dopo giorni.  Consumare alimenti  di stagione, anziché   frutta 

prodotta nell’altro emisfero, ricreando anche rapporti con i produttori del territorio, 

in   alternativa   ai   prodotti   senza   volto   dell’industria   e   dei   centri   commerciali. 

Ridistribuire   è   da   intendersi   nell’ottica   della   ripartizione   delle   ricchezze   e 

dell’accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire ridurre gli orari di lavoro, ma 

anche diminuire l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare. 

Ridurre   il  nostro   consumo materiale   fino  a   che   ritroviamo  l’impronta   ecologica 

corrispondente ad un pianeta32. 

Puntare   sulla   decrescita   significa   dunque   recuperare   uno   stile   di   vita   più 

parsimonioso, che sappia distinguere i bisogni reali da quelli effimeri, e che punta a 

soddisfare,   oltre   alle   necessarie   esigenze   materiali,   anche   esigenze   immateriali, 32  Cfr. S. Latouche, La scommessa della decrescita, cit., passim.

  55

spirituali, affettive, sociali ecc…. Se sobrietà vuol dir rinuncia, è comunque rinuncia 

del superfluo, non solo inteso come bisogni indotti, ma anche come bisogni reali 

soddisfatti in modo superfluo: evitando, ad esempio la trappola dell’ultimo modello 

più accattivante e dell’obsolescenza programmata, oppure il richiamo delle marche 

o,   ancora,   degli   imballaggi   inutili.   Sobrietà   significa   saper   rinunciare   al   non 

necessario, recuperando la virtù della frugalità, nella convinzione che ciò sia bene 

per l’ambiente, per gli altri, ma anche per noi stessi, per la nostra salute mentale. 

Come dice Wolfgang Sachs,  ex presidente  di  Greenpeace Germania:  “La felicità 

si  trova   più   nell’agire   sui   desideri   che   nell’agire   sulle   cose   possedute,   non 

nell’accumulare di più, ma piuttosto nel desiderare di meno”. 

Parigi, inno alla Decrescita sulla Colonna di Luglio in place de la Bastille 

durante lo sciopero generale del 28 marzo 2006.

  56

Capitolo 3

Credo nell’utopia nella quale ci si proietti con ferrea volontà.

Charles Péguy

1. La necessità di un’alternativa al Pil

“La  grande   importanza  attribuita   al  Pil,   i   dati   a   esso   relativi   e   i   criteri   che   lo 

conformano   sono   all’origine   di   una   delle   più   diffuse   menzogne   sociali”33. 

Quest’affermazione di Galbraith è in linea con quanto si è più detto e ridetto, ma che 

non fa mai male ripetere: il Pil viene confuso con il benessere, e tutto concorre a 

mantenere  quest’inganno;   l’opinione  pubblica  è   stata   formattata  a   considerare   la 

felicità  proporzionale al  consumo di “cose” e a misurare  il   livello di  vita con la 

quantità di merci e servizi che il reddito nazionale permette di acquistare. Tutto ciò 

che può essere venduto e che ha un valore aggiunto monetario, concorre a gonfiare il 

Pil e la crescita, ossia la progressione di tutte le produzioni, indipendentemente dal 

fatto   che   questo   contribuisca   o   meno   al   benessere   individuale   e   collettivo.   Ad 

esempio una delle conseguenze della distruzione del pianeta sono gli uragani che in 

questi anni hanno devastato gli Stati Uniti. Di fatto si sono creati posti di lavoro sia 

per medici, infermieri ecc... sia per ricostruire tutto, c’è bisogno di materiali nuovi, 

in poche parole le  catastrofi  ambientali  aumentano il  Pil;   il  Pil  ci  comunica che 

l’economia sta andando bene; più sale il Pil meglio stiamo, secondo gli economisti 

33  J.K. Galbraith, L’economia della truffa, trad.it., Rizzoli, Milano, 2004.

  57

tradizionali. Ma le migliaia di persone coinvolte stanno davvero bene? Si sentiranno 

bene quando un economista dirà che grazie al loro dolore la situazione economica è 

migliorata? Un’altra considerazione: una sorgente d’acqua pura non è un dominio 

privato quindi non è  ricchezza; se qualcuno ci fa un recinto attorno significa che 

questo   qualcuno   sta   creando   ricchezza   (in   economia   sì)   o   che   sta   usurpando 

ricchezza? 

Si è dovuto attendere il 1968 con Ivan Illich ed il suo concetto di “disvalore” per 

assistere alla nascita e lo sviluppo di una reale critica a questo sistema: “La società 

disegna   quel   genere   di   perdita   che   non   può   essere   valutato   nelle   categorie 

economiche...   e   sono   ormai   molte   le   persone   che,   vittime   dell’economicismo 

imperante, appaiono cieche e indifferenti alla perdita provocata  da ciò che chiamo 

disvalore”34. 

Esistono   allora   altre   forme   di   misurazione   che   evitino   di   fornire   una   falsa 

descrizione della realtà? 

Certo il problema è stato affrontato diverse volte; si è ad esempio parlato di Gpi 

(Genuine Progress Indicator) e di Ibed (Indice di Benessere Durevole), si sono create 

formule molto più complesse di quelle del Pil stesso, sottraendo dal prodotto interno 

lordo i dispositivi per ridurre l’inquinamento, le spese per la lotta al terrorismo ed 

altro, si sono effettuate statistiche che ci dicono che in realtà diminuisce il ben­essere 

ed aumenta il ben­avere. Ma il nodo centrale della questione è che non ci interessano 

formule   e   numeri,   il   benessere   non   si   calcola.   Come   afferma   Jean   Gadrey 

riprendendo dopo due secoli un pensiero dell’economista Malthus: “Non appena si 

34  I. Illich, nello specchio del passato, trad.it., Red, Como, 1992, p. 43.

  58

cominciano   a   considerare   la   produzione   domestica,   il   volontariato   e   gli   attivi 

naturali, non siamo più in grado di stabilire i criteri a cui limitarsi per individuare la 

ricchezza così ridefinita: non si può contabilizzare la felicità nazionale...e nessuno lo 

richiede”. A che cosa serve allora cercare un misuratore differente se si è già detto 

che la decrescita in una società  della crescita è  quanto di più  sbagliato esiste? Il 

diritto di contare diversamente ha come scopo quello di difendere il diritto di non 

contare.

 

2. Dal Pil al Bil

In quest’ottica si inserisce la “Mappa del Bil”, lo strumento su cui si basa il progetto 

“DePILiamoci” per evidenziare fatti e comportamenti che possono generare circuiti 

virtuosi utili a trasformare la dominante cultura consumistica del Pil nella cultura del 

Bil. Tutto ciò  deve avvenire tramite una “rivoluzione quotidiana” fatta  di  piccole 

attenzioni,   piccole   riflessioni   collettive   che   sono  un  ottimo  modo   per   salvare   il 

pianeta e l’umanità dal destino verso cui lo sfruttamento incondizionato delle risorse 

umane, energetiche e naturali, richiesto dalla cultura della crescita, lo sta portando35. 

Il Bil (Benessere Interno Lordo) è sì un indicatore alternativo al tradizionale Pil, ma 

opera non con i numeri bensì attraverso un circuito causale con il quale è possibile 

rappresentare   fenomeni  evolutivi  nella  quale   sono  indicati  più  di   trenta  elementi 

connessi fra loro da frecce: seguendone la direzione a partire da qualsiasi punto ogni 

percorso genera un circolo virtuoso orientato al benessere. 

35  Per ulteriori informazioni http://depiliamoci.it.

  59

Questi elementi vanno dalla pratica della temperanza alla necessità di operare per il 

bene  comune;  dalla   solidarietà  nel  donare  quello  di   cui  gli   altri   hanno  bisogno 

(realmente) ai buoni rapporti coniugali;  da una diminuzione dei rifiuti,  che parta 

dalla minore produzione di merci, alla diminuzione dell’orario di lavoro. Questo può 

essere molto vantaggioso per il lavoratore purché si siano innescati meccanismi di 

riduzione della necessità  di reddito. E per innescare tali meccanismi è sufficiente 

avere più   tempo a disposizione per la famiglia,  per la comunità,  per gli   interessi 

personali, che tra le altre cose fa ridurre la spesa in psicofarmaci per curare lo stress. 

Del minor tempo di  lavoro si possono avvantaggiare gli  inoccupati e i   lavoratori 

disoccupati. Tipico è l’esempio del lavoratore che lavora di più per permettersi di 

pagare la badante per la madre anziana: e se le dedicasse quel tempo? 

A proposito di ciò è proposto sul sito www.depiliamoci.it un sondaggio nella quale 

si chiede se seduti ad un tavolo con il proprio datore di lavoro si chiederebbe un 

aumento di stipendio pari al 5% mensile (inflazione reale), pari al 2% (inflazione 

programmata),  una settimana in più  di   ferie ogni  anno fino al  pensionamento,  o 

nulla. Il 65% dei circa quattrocento votanti hanno affermato che richiederebbero più 

giorni di ferie, il 30% un aumento di stipendio di cinque punti percentuali. Perché 

non provarci realmente? In una azienda di cinquanta persone, se ognuna di queste 

usufruisse di una settimana in più di vacanza, in un anno (circa cinquanta settimane) 

si creerebbe la possibilità di assumere un nuovo lavoratore. Facile immaginare cosa 

potrebbe succedere in una grande impresa con migliaia di dipendenti.

Gli stessi fondatori del progetto “depiliamoci”, nonché autori del libro Depiliamoci,  

come liberarsi del Pil superfluo e vivere felici, Roberto Lorusso e Nello De Padova, 

  60

hanno creato anche un semplice questionario che chiunque potrebbe compilare per 

scoprire se è un “Uomo­Pil” o sta operando per far crescere il Bil. 

Accanto   ai   venti   comportamenti   “decrescenti”,   chi   compila   il   questionario   deve 

apporre una crocetta a seconda che compia quest’azione sempre (3 punti), spesso (2 

pt.), raramente (1 pt.) o mai (0 pt.): più alto sarà il risultato, più la persona si sta 

adoperando per salvare il pianeta. Nel seguente grafico sono riportati i risultati dei 

questionari sottoposti dagli autori in diverse città d’Italia e da me analizzati. 

I dati dimostrano una coscienza da parte della popolazione che qualcosa non quadra 

nel sistema attuale, popolazione che però continua a vedere le cose con uno sguardo 

parziale   e   non   sistemico;   una   popolazione   che   ha   capito   che   se   continuiamo   a 

consumare il pianeta non ne resterà per i suoi figli, ma trova difficoltà a sganciarsi 

da una società in cui la responsabilità è sempre altrui. 

Come si può notare dalla tabella i risultati sono notevolmente variabili.

Solo sei persone su centottantasei (circa il 3%) dichiarano ad esempio di fare da sé i 

regali,   donando   un   oggetto   sentimentalmente   prezioso   per   la   persona   oppure 

realizzandolo con le proprie mani, piuttosto che di acquistare qualcosa di pronto, 

possibilmente costoso. Questo perché la “cultura dello spreco” ci spinge a vedere il 

nuovo come bello e il “riciclato” come causa di vergogna; pazienza se poi il valore 

affettivo di quel bene è incomparabilmente superiore a quello dell’altra merce. 

  61

Descrizione CampioneRisposte

ForniteMedia

Uso prodotti (detergenti, cereali, legumi, bevande, latte, ecc...)

sfusi o in confezioni “ricarica”185 1,6

Preferisco merci di produttori locali 188 2,2

Evito di acquistare frutta e verdure fresche “fuori stagione” 186 2,2

Preparo la salsa di pomodori e/o marmellate e/o liquori in casa 189 1,4

Quando devo fare un regalo lo realizzo da me invece che

acquistarne uno già pronto186 0,8

Vado al lavoro a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici 179 0,8

Accompagno i miei figli a scuola a piedi 135 0,9

A casa non uso stoviglie usa e getta 183 2,0

Al bar chiedo l’acqua in bicchieri di vetro 181 1,3

Dedico ai miei figli almeno un pomeriggio (feriale) a settimana 134 1,9

Se Dipendente: evito di fare straordinario, anche se ben retribuito

Se Lavoratore Autonomo: evito di lavorare più di 40 ore settimanali151 1,5

Prima di accendere il condizionatore chiudo porte e finestre 166 2,7

Preferisco bar e ristoranti che usano zucchero sfuso invece delle

bustine180 1,1

Festeggio i miei compleanni invitando a cena amici e parenti 186 2,1

Realizzo personalmente le piccole manutenzioni/riparazioni della

mia abitazione186 1,8

Faccio da me i piccoli interventi manutentivi della mia automobile. 176 1,0

Dedico almeno sei ore al mese ad attività di volontariato. 182 1,2

Partecipo alla vita politico-sociale della mia comunità

(incontri, dibattiti, riunioni, comizi, ecc...).182 1,6

Quando compro un vestito nuovo è perché uno che avevo non posso

usarlo più189 1,8

Quando compro un libro lo leggo. 189 2,3

Altro motivo di riflessione le 113 persone su 179 (63% circa) che vanno a lavoro con 

mezzi inquinanti propri (auto, moto) contro le 18 (10%) che dichiarano di usufruire 

di mezzi pubblici o di compiere il tragitto direttamente a piedi o in bicicletta. Questo 

  62

dato potrebbe non avere bisogno di ulteriori commenti, in quanto basta guardare il 

traffico non solo nelle grandi città ma anche dentro centri facilmente percorribili a 

piedi.  Si  prende   l’automobile  per   fare   cinquecento  metri,   si   perde   l’abitudine   a 

camminare, si crea nervosismo e stress oltre ad ingorghi in tutti gli incroci. A causa 

di  ciò  si  entra anche in uno dei terribili  circoli viziosi:  i  mezzi pubblici sono in 

perenne ritardo perché imbottigliati nel traffico urbano, fare una passeggiata diventa 

insopportabile   per   occhi,   naso   e   orecchie,   un   giro   in   bici   è   pericoloso   per 

l’incolumità   del   ciclista,   ci   si   sente   costretti   a   prendere   l’automobile  generando 

ancora più intasamenti, e così via...

Se il dato più  positivo sembra riguardare l’utilizzo dei condizionatori (che spesso 

sono comunque frutto di una scelta sbagliata in principio) questo appare causato in 

larga parte da una esigenza contingente: lasciando porte e finestre aperte l’aria non 

si rinfresca.

Un dato incoraggiante proviene invece da un utilizzo preferente di prodotti locali 

nonché della frutta e verdura di stagione. Sono piccole azioni che non cambiano lo 

stile  di  vita  di  una persona e  che costano solo  una particolare attenzione.  Ma è 

proprio   questo  un  punto   che  urge   ribadire:   decrescita  non  vuol   dire   fare  grossi 

sacrifici e vivere di stenti, bensì prestare più attenzione alle cose, alla natura ed, in 

fin dei conti, a se stessi: invitare a casa gli amici per festeggiare una ricorrenza non 

vuol dire non essere “in” perché  non si va in un locale alla moda, ma vuol dire 

passare qualche ora di sobria gioia con le persone a cui si  vuol bene. Effettuare 

piccole   riparazione   di   manutenzione   non   vuol   dire   “sporcarsi   le   mani”   quando 

potrebbe   farlo   qualcun’altro   al   posto  nostro,   così   come  dedicare  qualche   ora   al 

  63

volontariato non equivale a perdere del tempo/denaro. 

Analizzando i questionari questa volta dal punto di vista geografico, dalla seguente 

tabella   si   può   notare   come,   all’interno   di   una   generale   uniformità   nei   risultati, 

emergano comunque delle lievi differenze. 

Bari c/o Sala Consiliare del Comune 1,5

Benevento c/o Libreria Masone 1,7

Bitonto (BA) c/o Libreria del Teatro 1,7

Bologna c/o Associazione Ecologisti 2,1

Cassano delle Murge (BA) c/o Piazza della Biblioteca

1,8

Chiesa Avventista 1,8

Gruppo di lavoro FEPA2000 1,3

Laterza (TA) c/o Progeva 1,6

Modena c/o Libreria Feltrinelli 1,5

Molfetta (BA) 1,1

Su un campione di dieci diverse località   (con prevalenza in Puglia ed in Emilia­

Romagna), si può evincere come le medie Pil/Bil (Min.0; Max.3) rimangano sempre 

comprese fra il 2,1 di Bologna e l’1,1 di Molfetta, attestandosi mediamente intorno 

all’1,6. Senza incappare nella trappola delle generalizzazioni, appare però pressoché 

impossibile   cercare   di   localizzare   dove   sia   più   sviluppata   una   cultura   della 

decrescita. 

Dallo studio si evince quindi che, sebbene ci si renda conto che questo modo di fare 

e queste scelte di vita migliorino il benessere individuale e di tutta la collettività, 

bisogna ancora capire che la qualità  di vita nella propria comunità  dipende da se 

stessi più di quanto si immagini.

  64

Conclusioni

La crescita personale è un processo che si riflette non solo sulla qualità della vita 

individuale,  ma  anche,  di   riflesso,   sulla  qualità  del   rapporto  con  gli   altri   e  con 

l’ambiente circostante, grazie a un maggior senso di compartecipazione.

Quando  un  albero  viene   tagliato   ingiustamente,  quando   la   foresta  vergine  viene 

violata e rasa al suolo, quando muore l’acqua di un piccolo ruscello soffocata dagli 

scarichi,  e   i  pesci degli  oceani si  caricano di  metalli  pesanti,  quando un piccolo 

lemure con i buffi occhi sporgenti, di cui neppure sospettiamo l’esistenza, smette di 

essere presente sulla faccia di questa Terra o intere popolazioni di farfalle e striati 

pesciolini tropicali si estinguono dopo la distruzione del loro habitat... è a noi stessi 

che stiamo facendo un torto, che stiamo facendo del male. Ogni singola persona su 

questa Terra viene sminuita e indirettamente minacciata quando delle motivazioni di 

tipo economico e utilitaristico hanno il sopravvento sul fascino della bellezza di un 

elemento del paesaggio e del rispetto di ogni essere vivente. Il messaggio che passa, 

implicitamente, è che un domani potrebbe toccare anche a noi. 

Viene   in   mente   la   favola   di   quel   giovane   che   sognava   di   cambiare   il   mondo: 

“Diventato più  vecchio e più  saggio scoprii  che il  mondo non sarebbe cambiato, 

decisi di cambiare soltanto il  mio Paese. Ma anche questo sembrava immutabile. 

Arrivando al crepuscolo della mia vita, in un ultimo tentativo disperato, mi proposi 

di  cambiare soltanto la mia famiglia,   le persone più  vicine a me, ma ahimé  non 

  65

vollero saperne. E ora mentre giaccio sul letto di morte, all’improvviso ho capito: se 

solo  avessi  cambiato  prima me stesso,  con  l’esempio  avrei  poi  cambiato   la  mia 

famiglia. Con la loro ispirazione e il loro incoraggiamento, sarei stato in grado di 

migliorare il mio Paese e, chissà, avrei anche potuto cambiare il mondo”.

Nella misura in cui gli individui abdicano alla loro responsabilità personale, prende 

il posto un potere anonimo dietro quale non c’è una presenza, ma un’assenza. E’ la 

logica del profitto, dell’egoismo fatto legge, dell’incapacità di pensarsi parte di un 

contesto più vasto... Il pianeta sta morendo proprio perché siamo soddisfatti con le 

nostre relazioni limitate, in cui il controllo, la negazione e l’abuso sono tollerati, in 

cui sopravvivere sembra a volte più importante di vivere, in cui la mano destra è 

pronta a compromessi che indirettamente metteranno fuori gioco la mano sinistra, in 

cui non ci sentiamo più “interi”, né sappiamo sentirci parte della famiglia umanità e 

men che meno del resto della creazione. I bambini nel mondo muoiono di fame non 

perché non c’è abbastanza cibo, ma perché “siamo una famiglia disfunzionale”: non 

siamo in grado di andare oltre il nostro piccolo nucleo familiare e di prendere in 

considerazione la famiglia dell’umanità. E’ questo artificiale senso di isolamento e 

non coinvolgimento che, se da una parte ci protegge da una eccessiva passione, che 

include il soffrire, dall’altra ci isola e ci fa sentire inutili, a noi stessi e agli altri. 

Sono proprio i meccanismi di controllo, negazione, proiezione e abuso che sabotano 

le relazioni personali e sono poi quelli gli stessi che mettono in pericolo il mondo.

Partendo dal presupposto che la felicità  non è “standard” ed è comunque qualche 

cosa di molto personale ed interiore, mi sono domandato: visto che molte persone 

credono   davvero  che  essa   si   trovi  nell’accumulo  di   “cose”,   cercare  di   sradicare 

  66

questo   luogo  comune  non  equivale   forse   a   tarpare   le   ali   alla   ricerca  della   loro 

felicità? Non significa cercare di  imporre il  mio modo di pensare,  atteggiamento 

tipico del  nostro sistema da me criticato? Sul  momento mi sono risposto che  la 

decrescita non è una scelta ma è una necessità, perché rappresenta l’unica speranza 

di salvezza del pianeta. Poi, riflettendoci (non più di pochi secondi), ho realizzato 

come questo ora espresso equivalga solo al nostro concetto di “felicità”, quello della 

società occidentale, ma non del resto del mondo; e che solamente una piccola parte 

di questa società  può dirsi felice, ma comunque di una felicità  illusoria e fragile, 

fragile come quel muro che ci separa dalla catastrofe mentre noi ci corriamo contro 

come un treno.

Cambiare questi schemi non vuol dire soltanto cambiare la nostra vita, ma anche il 

nostro rapporto con essa; le relazioni sane non sono un obiettivo esoterico, sono una 

questione di sopravvivenza. Molti non vogliono sentir parlare di quello che succede, 

“non è colpa mia”, “non mi interessa”; oppure si sentono in colpa, ma anche così 

non fanno niente. Ma il senso di colpa è il campanello di allarme che non ci stiamo 

comportando secondo i nostri valori più veri e se siamo in disarmonia col mondo è 

perché siamo in disarmonia con noi stessi. Finché agiremo senza introspezione e non 

faremo nulla per affrontare e risolvere i conflitti interni, aumenteremo la disarmonia 

attorno a noi. Criticare gli altri è molto semplice, scovare e combattere il problema 

dentro e fuori di noi è il primo passo da compiere: “Se non è il mio pianeta, di chi 

è?”, “Se non è la mia famiglia, di chi è?”, “Se non è mia responsabilità, di chi è?”. 

Perché  è  solo mettendoci autenticamente in relazione con noi stessi  che potremo 

sentire la comunità umana e il senso di compartecipazione alla vita del pianeta.

  67

Bisogna dissolvere le illusioni che sottomettono l’intelligenza al lavoro, al consumo 

ed   alla   crescita,   curare   lo   psichismo   collettivo   invaso   dai   veleni   della   paura   e 

dell’odio,   creare   forme di  vita   autonoma autosufficiente,  diffondere  un’idea  non 

acquisitiva della ricchezza. Difficile approcciarsi a questi temi, ancora di più agire, 

ma non abbiamo altro compito... ed è un compito gigantesco.

  68

BIBLIOGRAFIA

BESSON­GIRARD J.C.,  Piccolo manuale per una decrescita armonica,  trad.  it., 

Jaca Book, Milano, 2007.

BONAIUTI M., Obiettivo Decrescita, Edizioni EMI, Bologna, 2004.

CICERONE M.C., Catone il vecchio. La vecchiaia, Mursia editore, Milano, 1987.

CORNELIAU   C.,  Brouillons   pour   l’avenir:   contributions   au   débats   sur   les  

alternatives, Iued­Puf, Ginevra­Parigi, 2003.

DE BENOIST A., Comunità e decrescita.  Critica della ragione mercantile,  trad.it., 

Arianna Editrice,  Bologna, 2006.

ELLUI J., Le bluff technologique, Hachette, Parigi 1998.

GALBRAITH J.K., L’economia della truffa, trad.it., Rizzoli, Milano, 2004.

GEORGESCU­ROEGEN N., Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e  

socialmente   sostenibile,  a   cura   di   M.   Bonaiuti,   trad.   it.,   Bollati 

Boringhieri, 2003.

ILLICH I., La convivialità, trad.it., Red, Como, 1993.

ILLICH I., Nello specchio del passato, trad. it., Red, Como, 1992.

LATOUCHE S., La scommessa della decrescita, trad. it., Feltrinelli Editore, Milano, 

2007.

  69

MARTIN H.R., La mondialisation racontée a ceux qui la subissent. La fabrique du 

diable, vol. 2, Climats, Parigi, 2003.

MEADOWS D.H., MEADOWS D.L., RANDERS J., BEHRENS W.W. III,  I limiti  

dello sviluppo, trad. it., Mondadori, Milano, 1972. 

MEADOWS D.H., RANDERS J., MEADOWS D.L.,  I nuovi limiti dello sviluppo, 

trad. it., Mondadori, Milano, 2006. 

PALLANTE M.,  La decrescita  felice.  La qualità  della vita non dipende dal  Pil,  

Editori Riuniti, Roma, 2005.

PARTANT F., La Ligne d’horizon, La Découverte, Parigi, 2007.

  70

Siti consultati

http://aidh.org/

http://altrove­decrescita.blogs.it/

http://blogecolo.canalblog.com/

http://cawa.fr/

http://decrescita.it/

http://decrescitafelice.it/

http://decroissance.info/

http://decroissance.org/

http://depiliamoci.it/

http://ecoalfabeta.blogosfere.it/

http://ews­schoenau.de/

http://greenpeace.it/

http://ecoalfabeta.blogosfere.it/

http://europa.eu/

http://ladecroissance.net/

http://www.monde­diplomatique.fr/

http://nuovoecosistema.it/

http://repubblica.it/

http://storyofstuff.com/

http://teteamodeler.com/

http://it.wikipedia.org/

  71

Un pensiero a chi mi ha iniziato a questo tema e a chi ha contribuito a portare avanti questo progetto, che non si limita alla tesi; a chi ci crede. Un pensiero a Marco a Nello e a Irene.

Un pensiero a Gericault e a tutte quelle persone che senza saperlo, con una frase, hanno cambiato il mio percorso.  

Un pensiero agli amici che, vicini o lontani, nel tempo o nello spazio,     hanno contribuito a rendermi quello che sono.Prendetevela con loro.

Un pensiero ai luoghi ed alle difficoltà incontrate, uno a chi pensa di meritarlo, ed uno a chi avrei voluto che fosse accanto a me in questo momento.

 Uno a chi non dimenticherò.

Grazie alla Marilla, alla Tinita e all’Alina, la mia vita.

  72