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Le tavole di corte tra Cinquecento e Settecento a cura di Andrea Merlotti Bulzoni Editore ESTRATTO

Tavola di corte e tavola rustica nella letteratura medio francese

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Le tavole di cortetra Cinquecento e Settecento

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Andrea Merlotti

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€ 25,00

In copertina:

Banchetto di Cristina di Francia, sul palco con accanto le figlie Adelaide e Margherita, al Castello di Rivoli il 10 febbraio 1645, da T. Borgonio, Dono del Re delle Alpi a Madama Reale» (1645), Torino, Ris.q. V.60, Torino, Biblioteca Nazionale, foto Ernani Orcorte.

ISBN 978-88-7870-867-9

Bulzoni Editore

ESTRATTO

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Patrizio Tucci

«DESHONNESTE SONT GRANS MANGIERS».TAVOLA DI CORTE E TAVOLA RUSTICA

NELLA LETTERATURA MEDIO FRANCESE

Rimato nel primo quarto del Trecento da Philippe de Vitry, futuro vescovo diMeaux, il breve testo che va sotto il titolo di Dit de Franc Gontier introduce unanovità sostanziale nella tradizione letteraria francese: la rappresentazione dellacampagna come il luogo di una vita libera e felice nella sua volontaria semplicità,di cui funge da sineddoche l’alimentazione, e la sua assunzione quale referentepositivo rispetto al mondo intemperante, servile e perciò infelice della corte1. Noncostituivano invece una novità né la critica della vita curiale, né la condanna del-l’ingordigia, tutt’altro. Per la prima basterà menzionare l’esempio illustre del Po-licraticus (1159), per la seconda i libri penitenziali del secolo XII e i manuali deipeccati che si moltiplicano nei secoli successivi2. La gula è classificata in tutticome uno dei sette peccati capitali, e uno dei due che non pertengono allo spirito,ma al corpo; perversione in tanto più temibile in quanto si accompagna all’eb-

1 Riprendo in queste pagine alcuni rilievi che ho formulato in occasioni precedenti: Il cor-tigiano moralizzato, il villano addomesticato. Note su alcuni testi medio-francesi, in Omaggio aGianfranco Folena, Padova 1993, I, pp. 497-521; Villon contre Franc Gontier, actes du IIe ColloqueInternational sur la Littérature en Moyen Français (Milan, 8-10 mai 2000), «L’analisi linguisticae letteraria», VIII/1-2 (2000), pp. 281-302; La lode dell’«estat moyen» nella poesia di EustacheDeschamps, in Lingua, cultura e testo. Miscellanea di studi francesi in onore di Sergio Cigada,a cura di E. Galazzi, G. Bernardelli, Milano 2003, II/2, pp. 1211-1225.

2 Vedi Y. ROGUET, Gloutonnerie, gourmandise et caquets, in Banquets et manières detable au Moyen Âge, actes du XXIe Colloque du CUER MA (Aix-en-Provence, février 1996),«Senefiance», 38 (1996), pp. 255-277; e J.-C. MÜHLETHALER, Le vin entre morale et carnaval:Jean Molinet et François Villon, in Écritures du repas. Fragments d’un discours gastronomique,éd. K. Becker, O. Leplatre, Frankfurt am Main 2007, pp. 51-74, anche per i riferimentibibliografici.

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brezza. Infatti «glotonnie» e «ivresse» sono quasi sempre associate nella ripro-vazione come peccati di gola, ma i trattati pedagogici a beneficio di principi enobili, memori delle prescrizioni e delle invettive vetero-testamentarie3, racco-mandano la sobrietà più della moderazione a tavola, per le conseguenze a cui ilbere senza misura espone: la perdita del dominio di sé – «le pire estat de l’hom-me, c’est où il pert la connoissance et gouvernement de soy», scriverà Montai-gne nel capitolo «De l’invrongnerie» (Essais, II, 2) – e la vulnerabilità alle ten-tazioni carnali. Va rilevato, riguardo a quest’occupazione esclusiva dell’oriz-zonte ideologico da parte della dottrina cristiana, che i trattatisti medievali, con-trariamente a quelli rinascimentali, non disponevano di riferimenti antichi di-versi da Orazio e dall’Etica Nicomachea volgarizzata nel 1370 da Nicole Ore-sme o da florilegi come le Auctoritates Aristotelis. Basti qui citare i Sumpo-siaka@ di Plutarco, opera tra quelle cui sarà fatto più frequentemente ricorso nelCinquecento, e che non soltanto codifica le buone maniere e la buona conversa-zione a tavola, ma disciplina la cerimonia alimentare e ne contrasta gli abusi4.

Ho segnalato all’inizio come sia radicalmente nuova, e per certi aspetti rivolu-zionaria, la lode dell’umanità rustica, personificata nel componimento di Philippede Vitry da un tagliaboschi di nome Gontier, il quale si fregia fin dall’inizio dell’epi-teto di «Franc», ossia libero, e dalla sua compagna Helayne5. Nei secoli anteriori ipoeti, i romanzieri, gli autori di opere didascaliche di vario argomento, cominciandodall’amore (Andrea Cappellano), o avevano guardato con avversione e disprezzo alvillano, ridotto spesso alla condizione d’incrocio tra bestia e uomo, male odorante emal facente6, oppure avevano descritto le occupazioni, l’alimentazione, gli amori, igiochi campestri con una benevolenza mista a condiscendenza7. Il Dit mette a frutto

3 In specie Ecclesiastico, 31.25-31 e 19.1-2. Vari testi in latino e in volgare citano lamaledizione di Isaia: Vae qui consurgitis mane ad ebrietatem sectandam et potandum usquead vesperam, ut vino aestuetis (ISAIA, 5.11: «Guai a voi che vi alzate presto la mattina percercare l’ebbrezza e bevete fino al crepuscolo per infiammarvi di vino»).

4 Si rinvia, in proposito, a M. JEANNERET, Des mets et des mots. Banquets et propos detable à la Renaissance, Paris 1987, pp. 64 sgg., 75-76.

5 Si cita dall’edizione procurata da A. PIAGET, «Le Chapel des Fleurs de lis», par Philippede Vitri, «Romania», XXVII (1898), pp. 63-64. Il testo si articola in quattro ottave di decasillabi.

6 «Hommes bestiaulx», li chiamerà ancora Eustache Deschamps (Œuvres complètes,A. Queux de Saint-Hilaire, G. Raynaud, Paris 1878-1903, V, pp. 127-128: ballata 923), ben-ché altre volte egli sia molto meno sdegnoso nei loro confronti, come vedremo. Per l’atteggia-mento ostile della letteratura medievale cfr. il saggio di N. PASERO, «Li vilen portent les somes».Sull’immagine tripartita della società nei testi medievali, «L’immagine riflessa», IV (1980),pp. 31-82.

7 L’intenzione ironica sarà ancora trasparente nei versi del Dit dou Lyon (1350 ca.) chedipingono «les estranges pourtraitures» e «les trés estranges contenences» dei villici, nutriti dilatte e formaggio, di cavoli, fave e rape (GUILLAUME DE MACHAUT, Œuvres, éd. E. Hoepffner,Paris 1921, II, p. 212-214).

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lo schema iniziale («Soubz feuille vert / [...] trouvay [Sotto una fronda verde [...]trovai]») e alcuni tratti di rusticità stilizzata tipici delle pastourelles, in specie dellavarietà distinta usualmente con la denominazione di bergeries, depurati però daogni incrostazione sconveniente. Inoltre, ciò che in quella tradizione, almeno nellamaggior parte dei casi, interveniva come materiale decorativo – le immagini dellavita rustica – qui occupa il centro dell’interesse narrativo e ideologico. L’incontrocon un uomo e una donna dei campi ha come meta il confronto tra due modi di vitaai quali corrispondono due sistemi morali antitetici. È notevole, come ho detto co-minciando, che dei costumi specchiati di Gontier e Helayne sia compendio e emble-ma la qualità del vitto. Philippe de Vitry lo descrive con una minuzia rivelatrice,biasimando per opposizione implicita il cibo sovrabbondante e innaturale assunto acorte:

Fromage frais, laict, burre, fromaigee,Craime, matton, pomme, nois, prune, poire.Aulx et oignons, escaillongne froyeeSur crouste bise, au gros sel, pour mieulx boire.(Cacio fresco, latte, burro, dolce di formaggio, panna, latte cagliato, mele, noci,prugne, pere, aglio e cipolle, scalogno sfregato su una crosta di pane nero, con salegrosso, per bere più volentieri [l’acqua attinta al ruscello]).

Un elemento decisivo completa il ritratto: Gontier vive sulle proprie brac-cia e se ne vanta; per parte sua, Helayne cuce vesti di stoffa grezza per riparare«dos et ventre». Nulla di sorprendente in questa esaltazione del lavoro, che faeco a passi scritturali ben noti, come Salmi 127.2: Labores manuum tuarumquia manducabis; beatus es, et bene tibi erit8; ma su ciò torneremo. Per ora èbene osservare che essa, discostandosi dal criterio a cui si erano attenuti i (radi)riconoscimenti anteriori, non verte sulla funzione che il lavoro esercita a van-taggio dell’organismo sociale, ma sui benefici dispensati a coloro stessi che locompiono, e sono benefici dei quali spetta a Franc Gontier, mentre abbatte unalbero, specificare lapidariamente la natura: «Labour me paist en joyeuse fran-chise [Il lavoro mi sostenta in gioiosa indipendenza]» (v. 28). Quanto alle virtùpraticate dall’umanità di cui è campione, esse si qualificano meno di per sé cherispetto ai vizi di cui formano il rovescio: questi villani felici di lavorare e resifelici da Labour disdegnano il lusso e il profitto, sono immuni dalla cupidigia,dall’ambizione e, per l’appunto, dalla voracità. Per logica simmetria, le ricom-pense che spettano alla loro condotta sono antitetiche ai tormenti che si patisco-

8 Cfr. Genesi 3.19 e Salmi 103.23. Deschamps, nella ballata 7, proclama: «Dieu commandeque le labour se face» (Œuvres complètes, cit., I, p. 79).

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no a corte: invece della paura di tradimenti orditi sotto un’apparenza leale e diveleni serviti in un coppa dorata, un’esistenza sicura; invece dell’asservimentoe delle umiliazioni cocenti, una libertà gioiosa.

Tanto basta, mi sembra, a indicare come centro di gravità del testo non siala vita agreste, ma la vita curiale, l’esaltazione della prima servendo per svalu-tare l’altra9, e dunque come gli si adattino male i diplomi di «prima egloga» e diprima «pastorale» francese che gli sono stati conferiti. Neppure l’opinione diJohann Huizinga e di altri commentatori nella sua scia, secondo cui esso rien-trerebbe tra i titoli di una letteratura d’evasione a uso dell’aristocrazia, presa datedio per il «bel gioco» della vita di corte e rattristata dalla crudeltà dei tempi10,rispecchia con fedeltà la sua lettera. Esemplificazione moralistica, apologo dicarattere didattico, il poemetto ha per disegno evidente e unico quello di esorta-re i cortigiani a rettificare i termini della loro esistenza e a porre un freno alleloro passioni e smoderatezze, mostrando con immagini parlanti quanto sia feli-ce chi basta a se stesso e non si dà cura degli adescamenti mondani.

In alcuni testi composti allo scadere del secolo da Eustache Deschamps,servitore di Carlo V e di Carlo VI, e da Pierre d’Ailly, futuro vescovo di Cam-brai, la celebrazione dell’esistenza operosa e virtuosa in seno alla natura con-serva lo stesso chiaro valore strumentale, e continua ad accompagnarsi ai piùcomuni luoghi della polemica antiaulica. Come nel Dit de Franc Gontier, im-porta notarlo, un’importanza centrale è attribuita all’alimentazione per segnarela distanza siderale che separa i due modi di vivere. La «Chançon royal» 315 diDeschamps11 riprende il disegno complessivo e molti particolari (anche verbali)del Dit, eseguendo però qualche aggiustamento non trascurabile, e variandonel’onomastica. Si chiamano infatti Robin e Marion, nomi attinti alla tradizionedelle pastourelles, i villani incoronati di fiori che il narratore riferisce di avereincontrato in un boschetto, mentre tornava da una «court souveraine». Questaparvenza di racconto si esaurisce nello spettacolo dei due compagni che si ciba-no di pane e cipolla e si dissetano. Il seguito del testo, a eccezione dell’envoi,elabora per bocca di Robin il tema del rovesciamento delle prospettive imposta-to nel Dit: l’uomo dei campi, in breve, non ha padroni né deve niente a nessuno,perché vive del proprio lavoro (Marion conduce a sua volta un’esistenza «fran-

9 L’opinione opposta è espressa da J. LEMAIRE, Les Visions de la cour dans la littératurefrançaise de la fin du Moyen Âge, Bruxelles-Paris 1994, p. 381: «La dénonciation des mœurscuriales s’efface presque dans le cas présent devant l’éloge de la vita rustica».

10 J. HUIZINGA, L’autunno del Medioevo, Firenze 1961 [1a ed. olandese 1919], p. 176.L’espressione «pastorale-“évasion”» è di J. BLANCHARD, La Pastorale en France aux XIVe etXVe siècles. Recherches sur les structures de l’imaginaire médiéval, Paris 1983, p. 51.

11 DESCHAMPS, Œuvres complètes, cit., III, pp. 1-3.

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che» filando il lino o la lana). L’invidia non ha potere su di lui, tiranni, giudici eladri non gli fanno paura; ama ed è riamato, perciò nessuno lo avvelenerà; infi-ne, il suo regime alimentare pago del necessario lo preserva dalla malattia e daldolore, destinandolo a una lunga vita. A caricare di significato i «points» recita-ti da Robin sopravviene, nell’ultima strofa, il paragone con l’andazzo delle cor-ti: indipendenza, sicurezza e salute sono beni sconosciuti in quei luoghi, dove siguadagnano solamente e «dueil» e «peine».

Come si vede, Deschamps batte proprio sulle piaghe aperte da Philippe deVitry, polarizzando le argomentazioni attorno alla verità capitale proclamatadal modello: i «curiaulx» sono tutti servi (v. 44). L’invettiva, tuttavia, appareorganizzata con maggiore sottigliezza. Il monologo di Robin è rivolto a Marion,mentre Gontier, lasciata Helayne ai suoi lavori femminili, si inoltrava nel boscocon l’ascia in spalla e si metteva a parlare da solo, «en abatant son arbre»: il cheaveva visibilmente del posticcio e dell’incongruo. Inoltre la pittura della corteposta sulle labbra di Gontier suonava astratta e generica, non essendo detto allettore da dove provenissero le sue notizie di quel mondo, mentre le parole diRobin poggiano sull’esperienza diretta, acquistata consegnando un carico dilegna «l’autre sepmaine». Dettaglio degno di nota, in tale occasione aveva vistoi cortigiani mangiare «pis que viande crue [di peggio che carne cruda]», con-dannandosi così alla malattia e alla morte.

Un giro consimile di motivi, e Robin e Marion assunti a campioni del mon-do dei villani, si ritrovano nel Lay de Franchise12, ma l’architettura di questotesto presenta qualche incongruenza e i casi raccontati rispondono a una logicameno lineare, così come contraddittorie e ambigue appaiono le loro implicazio-ni. Lo spunto è preso dal Calendimaggio e dalla riunione nel castello di Beauté(una delle residenze regie) di una compagnia eletta di gentiluomini e dame gui-data dal giovane Carlo VI, che il testo non designa con il suo nome, ma lasciariconoscere con segnali certi. Il narratore, il quale era arrivato senza volerlo allimitare del parco, vi penetra e, secondo una delle convenzioni più familiari aiclercs dell’epoca, si cela dietro a un cespuglio per spiare lo spettacolo: soprauna grande tavola interamente coperta da un baldacchino, vede servire un pran-zo ricchissimo, con rinforzo di «bons vins». Contrariamente a quanto accadenei componimenti del poeta che vituperano la corte senza fare appello a idealidi compensazione, la qualità degli alimenti qui non è specificata13; in compenso

12 Ivi, II, pp. 203-214.13 Nella ballata 809, per esempio, la «grant plenté de mez [grande abbondanza di vivan-

de]» consiste in varie specie di carne arrostita e lessata, che costituisce l’alimento base delmondo di corte: la persona loquens è un membro della corte in lotta perpetua per ottenerequanto gli è dovuto (IV, pp. 325-326). Nella ballata 1182 il quadro è lo stesso, ma l’enumerazione

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apprendiamo che a ogni nuova portata i menestrelli suonano il corno. Il quadrosembrerebbe già pienamente realizzato di per se stesso, con la consacrazionedella festa cortese e aulica. Invece vi è posto per una coda nella quale la vicendaprende un ben diverso corso. Infatti il narratore, non molto tempo dopo averelasciato il suo rifugio e essersi rimesso in via, arriva al cospetto di Robin eMarion, attori di uno spettacolo di gioiosa frugalità che contrasta radicalmentecon quel «diner», quella «feste» e il vino bevuto senza ritegno: i due compagniinzuppano un tozzo di pane nell’acqua che hanno attinto a un ruscello e se nenutrono allegramente all’ombra di un faggio. Subito dopo Robin prende la pa-rola, e l’esaltazione della vita libera e sicura condotta grazie al suo lavoro pro-cede di pari passo con la riprovazione della gente di palazzo («palazins»): aessere innanzi tutto biasimati come «disonesti» sono appunto gli eccessi ali-mentari, i «grans mangiers» che ho citato nel titolo del mio intervento. Di talieccessi egli mette anche in vista le conseguenze fisiche: una lunga età gli èpromessa come premio della sua moderazione, mentre la bulimia destina i «gransseigneurs» e i loro satelliti a una fine prematura (vv. 287-292). A conchiudere iltesto, ma non a scioglierne i nodi, valgono le considerazioni ispirate al narratoreda quell’incontro salutare. Impressionato dalla «sentence» di Robin, eloquentequanto il suo contegno, egli deve paradossalmente benedire la solennità di corte(«le doulz may») per avergli dato l’occasione di intendere fino a che puntoquell’ambiente sia una «perilleuse balance».

Una rappresentazione molto più fosca, e una più dura censura, contrasse-gnano un poemetto di Pierre d’Ailly14, tramandato non certo per avventura neimedesimi codici e stampe che ospitano il Dit de Franc Gontier e, come queltesto, parafrasato in esametri latini da Nicolas de Clamanges15. In effetti, il pro-posito di fargli eco, o piuttosto pendant, è ostentato fin dall’architettura esterna(anche qui quattro ottave di decasillabi, con identico intreccio di rime). Ma Lavie du tyran mostra appunto che ci si poteva spingere ancora più in là nell’in-flessione etica del contrasto tra vita curiale e vita agreste, e infatti anche il ma-

delle pietanze è caotica: dopo le carni («beufs, moutons, porcs, volaille, veaulx») vengononominati vini, «grains et foings», pesce, sale, spezie, insieme a tovaglie e vasellame di pregio.L’ultima strofa loda il comportamento, assai più salubre e per il corpo e per l’anima, di chi staa casa sua e mangia i porri che ha coltivato (VI, pp. 135-136). Proprio il regime di vita autosuf-ficiente tra le pareti domestiche è l’ideale invocato più spesso da Deschamps, e gli fa quasisempre complemento l’aspirazione all’«estat moyen», la condizione media.

14 Edito con il titolo Combien est misérable la vie du tyran da PIAGET, «Le Chapel desFleurs de lys», cit., pp. 64-65.

15 Entrambi i testi si leggono in A. COVILLE, Recherches sur quelques écrivains du XlVe etdu XVe siècle, Paris 1935, pp. 274-277 (Descriptio vite rustice) e 278-281 (Descriptio vitetirannice).

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lanimo nei confronti degli abitatori del «grant palais» assume ben altra piegadall’umore che presiedeva ai versi di Philippe de Vitry. Questi aveva insistitomolto più sulla schiavitù del cortigiano che non sulle sue colpe, ritraendolo inginocchio e a testa nuda dinanzi al tiranno, e persino esposto all’insulto degliuscieri. Invece la visione di Pierre d’Ailly è dominata dall’orrore per la lungacatena di turpitudini di cui il «thirant» (che si prende qui il centro della scena) ela sua «famille pompeuse» si macchiano. Quanto migliore è la vita di FrancGontier, proclama la chiusa del testo. Tuttavia lo scopo crudamente pedagogicoperseguito riceve una chiara indicazione, se mai ce ne fosse bisogno, dal fattoche neppure una parola è dedicata ai piaceri onesti e temperanti di Gontier e diHelayne; di quest’ultima, anzi, è cancellato significativamente persino il nome.

Il tiranno alloggia in un castello battuto dai venti, in cima a una rupe orrida.La «haute table» a cui siede corrisponde alla magna mensa della quale parlal’Ecclesiastico (31.12), e l’allusione ha per effetto di veicolare già nei primiversi il peso della tradizione biblica16. La seconda strofa è dedicata all’elenca-zione degli alimenti di cui si compone il menu principesco, e questo, se nonprevede i 367.014 buoi imbanditi nel giorno della nascita di Gargantua, è co-munque «sans mesure», con carni e pesci – il testo non dice «preparati», mauccisi («occis») in vari modi, specificazione sintomatica –, vini, salse, brodi didiversa composizione, pasticceria raffinata. Fa corona al tiranno, sua degna com-mensale e infida complice, la turba dei cortigiani, serva della cupidigia, piena divizi odiosi («fraude», «envie», «murmure»), vuota di virtù essenziali («foy»,«amour», «paix joyeuse»).

Non è privo di rilievo che il peccato di gola non sia una tara del cattivoprincipe insieme con altre, come nel divulgatissimo De regimine principum(1277-1279) di Egidio Romano, o nelle chiose di Nicole Oresme all’Etica Ni-comachea da lui tradotta in francese nel 1370. Pierre d’Ailly lo eleva a deprava-zione dominante, per tutte le potenzialità metaforiche che racchiude: ipostasidel trionfo della carne sullo spirito, delle tentazioni sul rigore, tale peccato met-te a nudo l’indole profonda del principe, indifferente alla voce della ragione e diDio, come Sardanapalo quale era stato dipinto quarant’anni prima da Boccac-cio17. I suoi eccessi gli negano, paradossalmente, i piaceri della tavola («car

16 Vedi J.-C. MÜHLETHALER, Le tyran à table. Intertextualité et référence dans l’invectivepolitique à l’époque de Charles VI, in Représentation, pouvoir et royauté à la fin du MoyenÂge, actes du Colloque organisé par l’Université du Maine (25-26 mars 1994), éd. J. Blanchard,Paris 1995, pp. 58-60.

17 G. BOCCACCIO, De Casibus virorum illustrium, II, 12-13. La segnalazione è inMÜHLETHALER, Le tyran à table, cit., p. 58. Si veda, dello stesso studioso, Mourir à table.Contextualisation et enjeux d’une séquence narrative au XIIe siècle (De la «Chanson deGuillaume» à «Erec et Enide»), in Banquets et manières de table, cit., pp. 218 e 232-233.

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ventre saoul en saveur n’a plaisance») e, materializzandosi nel «corps bouffi»(corpus turgens deforme, secondo la traduzione di Nicolas de Clamanges), nel-la «crasse pance», nel ventre ridotto a «sepulcre a vin» (sepulcrum Bachi), gliprecludono il gioco, il riso, i diletti della danza. Gontier, invece, si bea senzafine della sua sobria letizia («sobre leesse»).

Tutt’altra atmosfera e una ben diversa figura di principe illuminano il Ditde la Pastoure, poema di oltre duemila versi rimato da Christine de Pizan nel1403, il quale segna una svolta senza ritorno nella vicenda avviata da Philippede Vitry18. Non soltanto, infatti, viene ricomposta la frattura fra i due mondi,apparsa fino allora irrimediabile sia nei testi ostili alla campagna, sia nei pochiche vantavano la sua superiorità, ma sono già chiaramente annunziati tutti ifermenti che, nei decenni a venire, condurranno la vita pastorale a conquistarsiun posto tra gli ideali di corte. Strumento della riconciliazione è l’incontro nellacampagna fiorita tra Monseigneur e Marotele, il principe e la pastora, con ilromanzo d’amore che ne nasce. A tale fine si producono alcune convergenze:Monseigneur, che – diversamente da quanto succedeva di solito nelle pastou-relles – non ha intenzioni disoneste, aiuta Marotele a condurre le greggi alledimore notturne, e la cosa non gli appare sconveniente, sebbene il testo lo qua-lifichi come uomo «de nature contraire» ad azioni di quella specie (vv. 701 sgg.,943-944). Per parte sua Marotele, benché «povre femme» (v. 1684), ha un ani-mo e maniere gentili. A mano a mano che la narrazione procede verso l’episo-dio culminante – un bacio scambiato «sans pensee autre villeine [senza cattivipensieri]» (v. 1747) – l’identificazione fra pastora e dama diventa sempre piùpiena, tant’è vero che non canta più canzonette rustiche, ma si esercita nelleforme liriche della tradizione cortese. Dunque la differenza di condizione è neu-tralizzata dall’equivalenza spirituale, fenomeno pressoché impensabile nellaletteratura dei secoli XII e XIII.

Ma le innovazioni del Dit de la Pastoure trascendono il canovaccio narrati-vo, per toccare anche e soprattutto il modo in cui è dipinta la vita pastorale. Unodei capitoli che si prendono le maggiori attenzioni è ancora quello del vitto:seduti sull’erba tenera, pastori e pastorelle mangiano formaggio e pane nerotagliato a grandi fette, che tra un abbraccio e una canzone ammorbidiscono

18 CHRISTINE DE PIZAN, Œuvres poétiques, éd. M. Roy, Paris 1886-1896, II, pp. 223-294.Nel prologo Christine segnala lo scarto tra il significato apparente e il significato latente delsuo racconto, invitando il lettore ad aguzzare lo sguardo. Ma, qualunque sia la «sentencenotable» iscritta «en parabole couverte» (e non credo che sia di ordine autobiografico, comequalcuno ha sostenuto), tanto il ciclo dell’avventura di Marotele (v. 35) quanto le scene bucolicheconservano un senso ben definito e parlante.

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nell’acqua di una «clere fontenelle» (vv. 221 sgg.). È evidente, peraltro, che ilcibo rustico non serve questa volta da specchio e garanzia di rettitudine morale.Se la vita agreste rimanda ancora un’immagine luminosa, a tal punto da esserecelebrata come la più lieta possibile, tuttavia i suoi privilegi non si configuranopiù come una conquista ottenuta attraverso l’astensione volontaria dall’ingordi-gia e dalla cupidigia: sono un dono della natura, giustificato dall’innocenzaistintiva dei pastori. Inoltre Christine, ed è ciò che più conta nella nostra pro-spettiva, si guarda bene dal biasimare, fosse pure in maniera obliqua, il mondodi Monseigneur. In altre parole, non è il confronto con la «tristeur» e i «perilz»della vita di corte19 a far significare le immagini rustiche, perché queste risplen-dono di luce propria.

S’intende che il «mestier de bergerie» è ancora un mestiere, e non ancorauna condizione dello spirito, come sarà nell’Astrée di Honore d’Urfé. TuttaviaChristine, lo si è detto, tralascia completamente di alludere agli aspetti dai qualiPhilippe de Vitry e i suoi successori avevano ricavato austera materia d’inse-gnamento, e converte la campagna nella sede di una esistenza idillica, se nongià in un luogo con i contorni dell’Arcadia, ritraendo la società che la abita noncome l’antitesi, ma come una sorta di doppione primaverile e festivo della so-cietà di corte. Il valore di pietra miliare detenuto dal poema, sul piano cronolo-gico come su quello ideologico, è fuori discussione: dopo di esso, nessun testoquattrocentesco, tranne – e in forma più appariscente che reale – le scene pasto-rali collegate alla Natività che decorano le Prime Giornate di alcuni Mystères dela Passion, tornerà a seguire la strada indicata da Philippe de Vitry, così comenessuno si rimetterà su quella della repulsione e del disprezzo.

Non serve ripetere qui le osservazioni che ho proposto altrove riguardo allescene ora evocate. Mi limiterò a notare come nella Passion d’Arras di EustacheMarcadé20 e nella Passion di Arnoul Greban21, la cui composizione si colloca,rispettivamente, negli anni 1430-1440 e in una data prossima al 1450, i pastoridiscorrano della propria condizione, e la magnifichino. A differenza che neitesti poetici coetanei, parte degli accenti primitivi sussistono, e termine di para-gone torna a essere il mondo dell’abbondanza e del potere. I pastori di Marcadési vantano appunto di avere una sorte migliore dei re (vv. 1629-1630), tanto chenon acconsentirebbero a lasciare «pastourrie» neppure se fosse offerto loro incambio il comando del mondo (vv. 1641-1647). Nell’altra Passion è proclama-to che non esiste «seignourie», per quanto grande, capace di largire gli stessidoni di felicità, e viene anche stabilito un rapporto di causa ed effetto tra ric-

19 DESCHAMPS, Œuvres complètes, cit., II, p. 95: ballata 256.20 E. MARCADÉ, Passion d’Arras, éd. J.-M. Richard, Arras 1891.21 A. GREBAN, Le Mystère de la Passion, éd. O. Jodogne, Bruxelles 1965.

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chezza e inquietudine da una parte, «pastourrie» e letizia dall’altra. Riconosciu-to questo, converrà guardarsi dal fare credito al testo di intenzioni che essoappare ben lontano dal nutrire. Inutilmente, infatti, si ricercherebbe (e lo si ri-cercherebbe invano anche nella Passion d’Arras) un riflesso del postulato sucui i moralisti trecenteschi avevano fondato la propria apologia: che la verafelicità risieda nell’indipendenza, e che all’indipendenza si abbia accesso sola-mente abbinando l’operosità e la frugalità. L’elemento dominante è una sortad’ebbrezza della bella stagione, delle merende e dei trastulli rustici, delle pasto-relle graziose e versate nel canto; e questo è anche l’unico ordine di argomentiche intervenga a legittimare la supremazia della vita dei campi. Un tale quadro,svuotato com’è sia del suo simbolismo di partenza che di qualsiasi altro signifi-cato secondo, non si presta a insegnare più nulla, ma contiene pur sempre in sétutte le ragioni per prospettare un ideale di vita: «Pastours ont bon temps», perl’appunto22. E andrà tenuto presente che il pubblico dei drammi religiosi era,com’è stato scritto, niente meno che «la société entière»23.

D’altra parte è questo – la rappresentazione della campagna come un luogodi delizia e la rinunzia concomitante a ogni intendimento moralistico e pedago-gico – l’esito verso cui convergono i testi quattrocenteschi, per qualunque ra-gione vi sia fatto appello al mondo dei campi, e quali che siano la ratio che liispira, il genere in cui si iscrivono, l’ambiente da cui promanano, il pubblico alquale sono destinati24: con una sola, ma illustre eccezione, come vedremo trapoco. Che l’espressione «vie de Franc Gontier» sia diventata una vera e propriaantonomasia, e rinvii a un genere di condotta e a piaceri ben diversi da quellicelebrati nel Trecento, è comprovato molto eloquentemente dal Bancquet du

22 GREBAN, Le Mystère de la Passion, cit., p. 66 (v. 4671).23 M. ACCARIE, Le théâtre sacré de la fin du Moyen Âge. Étude sur le sens moral de la

Passion de Jean Michel, Genève 1979, p. 9. Non può stupire che la vita campestre finissecon l’apparire essa stessa ai moralisti come un modello da combattere e da moralizzare asua volta. Questo rivolgimento è testimoniato nel modo più chiaro da un passo dell’intransi-gente Debat de l’Omme mondain et du Religieux (1470-1480) di Guillaume Alexis: al primointerlocutore, che idoleggia «la vie de Franc Gontier», lieto tra le sue pastorelle sotto lefronde, «au chant des oyseaulx», e la invoca come condizione tra tutte perfetta, il secondorisponde che, sia nei palazzi sia in campagna, dopo l’estate viene l’inverno e la dolcezza sicommuta in amarezza: perché il mondo è solo «vanité», e nessun uomo, nemmeno FrancGontier, è esentato dal morire (G. ALEXIS, Œuvres poétiques, éd. A. Piaget, É. Picot, Paris1896-1908, III, pp. 155-156).

24 Tengo conto, ovviamente, solo dei testi che rispecchiano, in modo diretto o indiretto,un giudizio di valore. Non sono dunque presi in considerazione tutti quelli, francesi e latini,nei quali le immagini campestri si pieghino a una funzione strettamente allegorica e servanoda velame per una riflessione politica, religiosa o sull’attualità.

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boys25. Si tratta di un «traictié joyeux» in versi tramandato senza nome d’autoree impossibile a datarsi con precisione, ma composto secondo ogni verosimi-glianza nel periodo 1450-1470, il quale richiama in vita Franc Gontier in perso-na e la dolce Helaine per allestire il banchetto che gli dà il titolo e ne formaanche l’esile traccia narrativa. Poiché è corsa notizia in campagna che durantel’ultima Quaresima i signori di Parigi hanno tenuto le feste più ricche di cui siconservi memoria (è l’unica allusione pungente all’indirizzo dell’antico bersa-glio), i due compagni decidono di solennizzare sul loro esempio la fine delmaltempo invernale, invitando tutti i pastori nel raggio di dieci leghe. In luogodella buona acqua «toute plate», cioè senza vino, e del buon pane nero di cui sicompone il loro vitto abituale, procurano per l’occasione latte, «molz fromma-ges» in quantità, pane fatto di farina passata due volte al setaccio, legumi, aglio,cipolle (pp. 213-214). Sebbene vari elementi testuali tradiscano una filiazionediretta dal Dit de Franc Gontier, o per lo meno una sua lettura solerte, il Banc-quet non si muove sul terreno del modello, ma su uno manifestamente affine aquello delle scene pastorali frammesse nella maggior parte dei Mystères, le qualiricavano ragioni di sorriso dalla goffaggine e dagli sproloqui a catena dei pasto-ri, ma anche da una loro marcata disposizione alle arguzie e ai tiri burloni. Ac-cade pure che esse si inoltrino, con comprensibile stupore dei lettori odierni,considerata la natura del contesto, fin sulla soglia della scurrilità, qualche voltaoltrepassandola. La luce dell’opera è tutta nell’atmosfera da kermesse rusticanache suggerisce, nelle danze «a la mode bergiere», nella «mommerie» improvvi-sata al termine del pranzo, negli intermezzi amorosi con le ben disposte pasto-relle. Al repertorio drammatico, del resto, il Bancquet du Boys si riconduce giàper l’onomastica: se Franc Gontier e Helaine rimandano ostensibilmente al te-sto di Philippe de Vitry, i nomi di Gombault, di Rifflart e di Aloris si incontranonella Nativité della Bibliothèque Sainte-Geneviève (ms. 1131), nella Passion diEustache Marcadé e in quella di Arnoul Greban. Le notazioni di carattere sen-tenzioso occupano non più di una decina di versi su un totale di circa quattro-cento, il che è già indicativo del loro valore affatto accessorio, né si avventuranoa stabilire paragoni espressi di nessun genere, ma solo uno larvato. E più che diun paragone larvato parlerei di un attributo ripreso meccanicamente: i pastorisono contenti dei beni dati loro da natura, e «biens ont assez, car ilz ont souffi-sance»26.

25 Le citazioni provengono da A. DE MONTAIGLON, J. DE ROTHSCHILD, Recueil de poésiesfrançoises des XVe et XVIe siècles, morales, facétieuses, historiques, Paris 1855-1878, X, pp.206-222.

26 «Hanno beni a sufficienza, perché si accontentano» (MONTAIGLON, ROTHSCHILD, Recueilde poésies françoises, cit., p. 213).

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In queste condizioni, stupisce a prima vista che François Villon, nel Testa-ment (1461), ingaggi una contesa verbale in contumacia proprio con il perso-naggio inventato da Philippe de Vitry: è l’eccezione che annunciavo, e sullaquale si chiuderà il mio discorso. La contesa si svolge in una ballata con unrefrain programmatico – «Il n’est tresor que de vivre a son aise [Non c’è tesoropiù grande che vivere negli agi]», reminiscenza probabile dell’Ecclesiaste, 3.12:Et cognovi quod non esset melius nisi laetari27 – e nelle due strofe che la intro-ducono28. «Contredire» Franc Gontier che esalta la propria povertà, smaschera-re l’inanità della letizia che costui proverebbe nei fatti e rivendica con le parole,questo il proposito dichiarato del poeta. Per eseguirlo, egli non trova nulla dimeglio che paragonare lo stile di vita di Gontier e della sua compagna Helaynecon la prosperità e gli svaghi voluttuosi di un canonico obeso e della sua concu-bina, che ha spiato da una fessura. A «nous», lettori, e al «Prince», destinatariotradizionale delle ballate, il compito di decidere quale condizione sia preferibi-le, e dunque chi, tra Villon e Gontier, abbia torto. Villon avverte invece che nonpolemizzerà con il tiranno assiso in alto («seant en hault») – allusione traspa-rente ai versi di Pierre d’Ailly –, perché la Scrittura lo vieta:

Le Saige ne veult que contendeContre puissant povre homme lasAffin que ses filletz ne tendeEt qu’il ne trebuche en ses las (vv. 1461-1464)29.(Il Saggio non vuole che un pover’uomo sventurato contenda con un potente,affinché questi non tenda le sue reti e lui non inciampi nei suoi lacci).

Un’osservazione s’impone subito, ed è che i «Contreditz de Franc Gon-tier», come il poeta li intitola, sconfessano tanto il primitivismo «duro» di Phi-lippe de Vitry, per usare i termini consacrati da Erwin Panofsky30, quanto ilprimitivismo «molle» della tradizione quattrocentesca, nelle sue varie versioni;dunque tanto l’idealizzazione contro la corte, quanto l’idealizzazione a benefi-cio di essa. Non solo, ma Villon, magnificando la dolce vita («doulce vie») della

27 Come hanno indicato R. KLESCZEWSKI, François Villon: «Les Contrediz de FrancGontier», in Die französische Lyrik. Von Villon bis zur Gegenwart, Düsseldorf 1975, pp. 23-34, 343-345, e P. BROCKMEIER, François Villon, Stuttgart 1977, p. 140.

28 Si cita secondo il testo a cura di J. RYCHNER, A. HENRY, Le Testament Villon, Genève1974, I, pp. 117-118 (vv. 1473-1506).

29 Villon ha sovrapposto in questo passo tre precetti dell’Ecclesiastico: 8.1: Non litigescum homine potente; 8.2: Non contendas cum viro locuplete; e 9.3: Ne respicias mulieremmultivolam, ne forte incidas in laqueos illius.

30 E. PANOFSKY Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Torino1975 [1a ed. inglese 1939], pp. 49 sgg.

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coppia spiata, celebra precisamente quei disvalori che entrambe le rappresenta-zioni della vita rustica, ciascuna a suo modo, rigettavano. Non pone quindi unadomanda retorica, quando chiede cosa sia meglio: giacere sotto un roseto o inun letto soffice? Bere vino aromatizzato («ypocras») giorno e notte, o acqua pertutto l’anno? Baciare «dame Sidoine», nuda, bianca, tenera, o mangiare le ci-polle che appestano l’alito in compagnia di Helayne? «Vivre a son aise», o«estre povre yver et esté [essere povero estate e inverno]»? L’alternativa, puntoper punto, tra i due modi di vivere mira non soltanto a denunciare il paradossocome tale e a reintegrare il senso comune, ma a contestare e capovolgere lagerarchia ortodossa soggiacente a tutte le finzioni rustiche, al di là e a dispettodella loro dissomiglianza. Infatti, i pastori del teatro religioso e il «maistre ber-gier» protagonista di una delle Cent Nouvelles nouvelles (1466) si vantano diignorare il lusso31, come il Gontier di Philippe de Vitry; in tutte le opere citate, enelle altre che si sarebbero potute invocare, il denaro è conosciuto con fierezzasolo per sentito dire, e l’alimentazione è frugale, se non vegetariana. È pure darilevare che le componenti sensuali dell’amore non sono ripudiate, in ragionedella pienezza stessa attribuita alle «amours pastourelles», per definizione «plusdurans et plus naturelles / et de plus haulte joye pleines»32; tuttavia raramente itesti apparecchiano scene poste sotto il segno della lascivia. A una felicità mes-sa sotto la tutela della morale normativa su cui poggia la cultura ufficiale, Villoncontrappone l’ideale materialistico dei beni terreni e del corpo trionfante, laglorificazione e della «pance» e della «dance» (termine equivoco).

È poi vero, venendo all’homo potens, che il poeta lo ha sciolto preventiva-mente da ogni rimprovero. Ma è anche vero che i destini di Franc Gontier e delpotente, lungi dall’essere disgiunti, si incrociano, e non soltanto perché per qual-che tempo il primo è stato additato al secondo come modello di comportamen-to. A veder bene, tutte e due le rappresentazioni maggiori della vita rustica reca-no in controluce un a priori ideologico orientato verso l’alto. Nella versione diPhilippe de Vitry, non appena la si sfrondi delle mire didattiche che ostenta,cosa incarna Gontier, se non il buon bifolco provvisto di tutte le virtù utili aipadroni? Le sue sembianze e le sue attribuzioni non sono, infatti, troppo dissi-

31 A due dame che gli chiedevano (maliziosamente) se non avesse freddo nella sua«maisonnette», quest’ultimo rispose di no, aggiungendo che era «plus aise et mieulx a luy» dicoloro che hanno «leurs belles chambres nattées, et tapissées» (Les Cent Nouvelles nouvelles,éd. F. P. Sweetser, Genève 1966, pp. 357-358: LVII). Il locus amoenus che ospita i piaceri delcanonico e di Sidoine è, segnaliamolo di passaggio, proprio una «chambre bien natee», cioètappezzata di stuoie.

32 «Più durature e più naturali e piene di maggiore gioia»: MARTIN LE FRANC, Le Championdes Dames (1441-1442), éd. R. Deschaux, Paris 1999, III, p. 95 (vv. 13267-13268).

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mili da quelle che aveva delineato, nel secolo XII, il Livre des Manières diÉtienne de Fougères33. In un altro poema sugli stati del mondo riferibile, conmolta probabilità, alla prima metà del secolo XIII, era scritto a chiare lettere cheil villano, più lavora con la mano, tanto più è allegro e sano34. Quanto alla figu-razione edulcorata della società pastorale che i testi cortesi del secolo XV con-gegnano nella scia del Dit de la Pastoure, non è difficile discernervi la volontàdi offrire all’aristocrazia un’immagine purificata della vita di corte, e dunque lepremesse per una imitatio: imitazione di cui il Monseigneur senza nome di Chri-stine de Pizan aveva fornito l’esempio cartaceo, e che si è prodotta nella vitareale, non solo alla corte di René d’Anjou, e non solo con feste campestri etornei in forma di gioco pastorale35.

Bisogna ancora notare che Villon, se ha avuto accesso ai testi di Philippe deVitry e di Pierre d’Ailly nella redazione in cui li conosciamo, o in una redazionevicina, non solo si è preso visibilmente qualche libertà d’interpretazione, ma hapure aggiustato qua e là il tratto per le proprie necessità argomentative. È tocca-to in particolare al dispositivo di Philippe (nei versi di Pierre il contesto rusticoera ridotto al grado zero) di subire un ritocco di breve entità, però decisivo: essoconsiste nell’espressione «laboureux mestier» – cioè “mestiere agricolo” –, la-sciata cadere quasi distrattamente da Villon al verso 1501. Apprendiamo cosìche la disputa ha quale interlocutore muto un aratore, e che la vita dipinta nellaballata è quella di un aratore, mentre il Gontier di Philippe era un boscaiolo.Proprio qui, in questa commutazione apparentemente irrilevante, va individua-to il cardine della confutazione. Perché non è certo un caso che i poeti anteriori,nelle loro celebrazioni, avessero evitato con cura di riferirsi al lavoro agricolo.In realtà, non tutti gli abitatori dei campi si prestano a essere oggetto di unatrasposizione o di un travestimento. Se a Virgilio fu possibile decantare la feli-

33 É. DE FOUGÈRES, Livre des Manières, éd. R. A. Lodge, Genève 1979, pp. 84 sgg. (vv.677 sgg.).

34 «Cum plus labure de sa main, / Tant est plus halegres et sain» (P. MEYER, Fragmentd’un poème sur les États du monde, «Romania», IV (1875), p. 388).

35 Si vedano F. PIPONNIER, Costume et vie sociale. La Cour d’Anjou (XIVe-XVe siècles),Paris-La Haye 1970, pp. 72 sgg.; e, sugli intermezzi bucolici alla corte di Borgogna, N. DUPIRE,Jean Molinet. Sa vie, ses œuvres, Paris 1932, pp. 107 sgg. Passerò sotto silenzio la vecchiaquaestio di un René d’Anjou preso di mira da Villon per procuratore interposto. Che AndryCourault, al quale la ballata è dedicata, fosse al servizio del re di Sicilia, è ciò che la criticapositivista chiamava un fatto: resta da stabilire – ma con che strumenti? – se la coincidenza èo non è fortuita. Conviene invece ricordare che in Regnault et Jehanneton, poema dove unprincipe e una principessa (verosimilmente René stesso e la seconda moglie Jeanne de Laval)sono ritratti come pastori tra i pastori, una lunga sequenza li mostra cibarsi di «aillez, eschalletes,sel, noisettes, sauvages pommettes, oignons» (Le Roi René, Regnault et Jehanneton, éd. M.Du Bos, Paris 1923, pp. 58-60: vv. 401 sgg).

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cità degli aratori allo stesso titolo di quella dei pastori, il Cristianesimo ha ope-rato invece, nei confronti del mondo rurale, una distinzione che si fondava sul-l’autorità biblica, e che ha lasciato un’impronta profonda nella letteratura e nel-la morale. Il primo riferimento della Sacra Scrittura a una diversificazione diattività per dire così professionale tra gli uomini riguarda Caino e Abele: Fuitautem Abel pastor ovium, et Cain agricola (Genesi, 4.2). L’agricoltore Caino èil primo malvagio; il pastore Abele, il primo martire36. Un teologo come Tom-maso d’Aquino non mancava dunque di presupposti legittimi per confinare l’agri-cola in una dimensione subumana37.

Ma si può spiegare con un altro argomento fondamentale l’inadeguatezzadell’aratore a essere arruolato sia nelle favole edificanti sia nelle finzioni allet-tanti, argomento che Fontenelle ha esposto con grande chiarezza nel Discourssur la nature de l’Églogue. Se i «Laboureurs», o i «Pêcheurs» come in Sannaza-ro, non sono personaggi adatti alle egloghe quanto i «Bergers», è perché l’ideadel loro lavoro duro ci ferisce:

L’illusion, et en même temps l’agrément des Bergeries consiste [...] à n’offrir auxyeux que la tranquillité de la vie Pastorale, dont on dissimule la bassesse; on enlaisse voir la simplicité, mais on en cache la misère38.

Occultazione impossibile, invece, nel caso del lavoro agricolo, troppo com-promesso con la realtà. In questo modo, il «vous» e il «Prince» interpellati daVillon trovano il criterio che permette loro di dirimere la questione, qualoranutrissero ancora dubbi circa il genere di vita da premiare: poiché non sonorinviati al quadro – poco importa se soft o hard – di un’esistenza serena controun fondale primaverile, dove Labour, quando pure si lavori, non ha l’aspetto diuna dura penitenza, ma quello di un passatempo, o di una occupazione a cui siattende per essere «franc», di nome e di fatto. Assegnando a Gontier l’eserciziodel «laboureux mestier», Villon conduce il lettore sul piano della verità empiri-ca, evidente a ciascuno: lo stesso piano su cui si collocherà la Danse macabrenouvelle stampata nel 1486 da Guyot Marchant. Dell’aratore che sta per fardanzare, il Morto conosce fin troppo bene l’esistenza ingrata:

36 Seguo qui J. BATANY, Le “bonheur des paysans”: des «Géorgiques» au bas MoyenÂge, in Présence de Virgile, actes du Colloque (Paris E.N.S., Tours, 9-11-12 décembre 1976),éd. R. Chevallier, Paris 1978, pp 234-235. L’agricoltore Caino è riprovato da JACOPO DA CESSOLE,Le Jeu des eschaz moralisé, traduction de J. Ferron (1347), éd. A. Collet, Paris 1999, p. 166.

37 Si vedano su questo punto le osservazioni importanti di M. FEO, Dal “pius agricula” alvillano empio e bestiale, «Maia», XX (1968), pp. 114 sgg.

38 B. DE FONTENELLE, Œuvres diverses, Paris 1715, VI, pp. 169-172.

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Laboureux qui en soing et painneAvez vescu tout vostre temps,[...]De mort devez estre contens,Car de grant soussy vous delivre.(Aratore che in angustia e pena avete vissuto tutto il vostro tempo, dovete esserecontento della morte, poiché vi libera da un grande affanno).

E il moribondo ammette: «La mort ay souhaité souvent [Ho desideratospesso la morte]»39.

Resta in ogni caso da chiedersi per quali ragioni il poeta abbia scelto dicontraddire proprio il poema di Philippe de Vitry, la cui prospettiva, lo abbiamoconstatato, era obsoleta: un fossile ideologico, letterario e anche linguistico,come Villon stesso indica parodiando la sua grammatica antiquata. Una ragione– forse la ragione – risiede, mi sembra, in ciò che Villon rimprovera a FrancGontier: di lodare la sua povertà. Osserviamo che il luogo testuale preciso, eunico, in cui Gontier «loue sa pouvreté», e reputa una «felicité» quella cheVillon giudica una sventura (vv. 1470-1471) è il componimento di Pierre d’Ail-ly. E, osserviamo ancora, a estasiarsi della sua «nette povreté» (splendida pau-peries, nella parafrasi di Nicolas de Clamanges) non è Franc Gontier, ma il jedel moralista. Può essere che si tratti di un’altra manipolazione da parte di Vil-lon, oppure che egli abbia considerato i due testi come uno solo con due tavolecomplementari. Ma ciò che lo scolaro parigino ha capito, tanto da conservarequesto aspetto, spingendolo fino alle conseguenze estreme, è che il Gontier e laHelayne di Philippe non vivono affatto in «un paradis terrestre», come ostente-ranno invece di fare il Gontier e la Helayne del Banquet du Boys40. Non meravi-glia certo, l’ho detto in precedenza, che l’uomo di chiesa Vitry abbia imposto aisuoi personaggi il lavoro, perché, nella prospettiva cristiana, l’ozio è uno deglielementi dell’acedia, vizio che allontana da Dio. E se ha affidato a Gontier ilmestiere di tagliaboschi, la spiegazione va trovata nel fatto che si tratta di unostato intermedio tra quello dell’agricoltore, non adottabile per i motivi che sisono indicati, e «l’estat de pastourrie», a sua volta inutilizzabile a causa delleimmagini spesso scabrose tramandate dalla tradizione delle pastourelles. Co-munque sia, Philippe ha applicato alla vita dei campi le stimmate che le sonoproprie, quelle della fatica e dell’indigenza, ancorché sottoponendole a decan-

39 Nel Miroer salutaire pour toutes gens et de tous estatz [...], Paris 1486 (Paris, BNF,Rés. Ye 189), c. Bii r. La dichiarazione immediatamente successiva è altrettanto “realistica”:«Mais volentiers la fuisse [Ma la fuggirei volentieri]».

40 MONTAIGLON, ROTHSCHILD, Recueil de poésies françoises des XVe et XVIe siècles, cit., X,p. 208.

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tazione, e alla fine trasfigurandole. Se una simile rappresentazione è, per certiversi, più onesta delle arcadie di cartone approntate dagli scrittori posteriori, ciònon toglie che sia anch’essa contraffatta. Dunque Villon rifiuta e denuncia iltrucco: proclamare l’eccellenza della vita rurale con un artificio logico – la su-blimazione di uno stato di miseria in una scelta volontaria –, e giustificare, conquesto stesso artificio, un processo di investimento morale e moralistico. Neltesto di Philippe de Vitry, è vero, Gontier non «loda» la sua povertà, anche se glischemi della visione cristiana lo avrebbero permesso (beati pauperes), ma ilsuo regime di vita è indiscutibilmente quello di un povero. Il pane nero checosparge di sale grosso «pour mieulx boire» non è altro che quel «pein de neirepaste» di cui Étienne de Fougères compiangeva il villano di doversi nutrire41.Le dolci pietanze di natura («le doulx mès de nature»), come la stoffa grezza(«ce buer») che Helayne si affatica lietamente a cucire, sono i segni, le insegne,di una povertà decorata surrettiziamente con l’aureola della temperanza. Il Ditde Franc Gontier, in definitiva, è costretto a confessare una verità che ha misti-ficata, et pour cause; e, inversamente, a confessare che si tratta davvero di unamistificazione.

Étienne de Fougères aveva scritto che il villano, quanto più povera è la suavita, tanto maggiore è il suo merito («quant plus vit de povre vite, / de tant a ilgrainor merite»). La lezione ultima di Philippe de Vitry, implicita ma non trop-po, è che chi si accontenta della propria sorte, chi sta al suo posto, chi è pazientee docile è sicuro di vivere felice. Ecco profilarsi a questo modo il vero bersagliodi Villon: non l’inoffensivo e masochista boscaiolo degradato a contadino, mal’ideale – nello stesso tempo etico e sociale – della «souffisance», la temperan-za appunto, che il Roman de la Rose aveva propagato nella letteratura vernaco-lare42, e che era servito da pretesto per i peggiori sofismi consolatori e giustifi-catori, quale, per citarne uno solo, il «richesche est mendicité» di EustacheDeschamps43. Se pertanto si vuole individuare nei «Contreditz», come talunoha tentato di fare, qualche altro senso oltre a quello dichiarato dalla loro lettera,mi sembra che lo si debba ricercare nell’ambito di quello svelamento e di quelladisgregazione, topos dopo topos, impostura dopo impostura, della «retorica del

41 «Ne mengera ja de bon pain / – Nos en avon le meilleur gren / Et le plus bel et le plussein [Non mangerà mai pane buono – Noi ne abbiamo il chicco migliore, il più bello e il piùsano]» (É. DE FOUGÈRES, Livre des Manières, cit., vv. 703 e 689-691, pp. 84-85). Non è fuoriluogo rilevare che il principe poeta Charles d’Orléans, sia pure in un contesto probabilmenteequivoco, si dichiara stanco «de blanc pain», e impaziente di mangiare «d’un fres et nouveaupain bis» (Ballades et rondeaux, éd. J.-C. Mühlethaler, Paris 1992, p. 442: n. 96).

42 Per la fortuna di questo concetto ci si riporterà a P.-Y. BADEL, Le «Roman de la Rose»au XIVe siècle. Étude de la réception de l’œuvre, Genève 1980.

43 DESCHAMPS, Œuvres complètes, cit., I, p. 74 (ballata 4).

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conforto», della «saggezza terapeutica»44 a beneficio dei poveri e degli esclusi,cui Villon si applica nel Testament e che costituisce la dimensione autentica-mente trasgressiva dell’opera.

Svelamento vano, peraltro, entro l’orizzonte che ci compete. Basterà soloricordare quale sentenza proferisca uno dei personaggi del Mistere de la con-ception, nativité, mariage et annonciation de la benoiste vierge Marie avec lanativité de Jesuchrist et son enfance, allestito in grande pompa a Parigi nel1507: «Il n’est vie que d’estre bien aise». A parlare è un pastore e, naturalmente,la vita che elogia è la sua, gratificata come sempre di abbondanti ortaggi, panenero e fresca acqua di fonte45.

44 Traggo queste espressioni da G. ANGELI, «Franc Gontier» da Philippe de Vitry a FrançoisVillon, in Operosa parva, offerto a Gianni Antonini, Verona 1996, p. 74.

45 Mistere de la conception, nativité, mariage et annonciation de la benoiste vierge Ma-rie avec la nativité de Jesuchrist et son enfance, Paris s.d., c. 52 v. (Paris, BNF, Rés. Yf 1604).