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Spazi (e luoghi) nelle scritture letterarie del primo Rinascimento * S I potrebbero forse riferire anche a un sommo poeta delle corti italiane del primo Cinquecento, Ludovico Ariosto, alcune ri- flessioni proposte – mezzo secolo fa – da Maurice Blanchot, nel suo volume Lo spazio letterario. Spesso, osserva Blanchot, si dice che lo scrittore trova nel suo lavoro un modo comodo di vivere sottraendosi alla serietà della vita. Si difenderebbe dallo spazio del mondo, dove agire è difficile, insediandosi in uno spazio irrea- le, su cui regna sovranamente: «L’artista dà spesso l’impressione di essere un debole che si rifugia timorosamente dentro la sfera chiusa della sua opera, là dove, parlando da padrone e agendo senza impedimento, può prendersi una rivalsa sulle sue sconfitte nella società». 1 È ciò di cui molti lettori di Ariosto, e della critica ariostesca, hanno fatto illusoria esperienza: fino a vedere in lui, come sembrò a De Sanctis, un don Abbondio con il dono della poesia; fino a trarne l’immagine, cristallizzata quanto deformante, di un tipo «non solo sedentario e contemplativo, ma anche fur- bescamente sornione, scettico e magari epicureo», per il quale la poesia avrebbe offerto – né più, né meno – uno spazio di evasione e rivincita «sopra le ristrettezze del vivere quotidiano» (fuga dalla realtà, sogno smemorato e perdizione felice). 2 * Il presente contributo amplia il testo della relazione tenuta dall’autore al Seminario La corte e lo spazio organizzato dal Centro studi “Europa delle Corti”, presso la sede ita- liana della Kent State University (Firenze, 5-6 dicembre 2008). Si ringraziano i promotori dell’incontro fiorentino per averne consentito la pubblicazione in questa sede. 1 M. BLANCHOT, Lo spazio letterario [1955], trad. it. di G. Zanobetti, con un saggio di J. Pfeiffer e una nota di G. Neri, Torino, Einaudi, 1975, p. 38. 2 Questo snodo fondamentale nella ricezione ariostesca è stato analizzato, in pagine ormai classiche, da L. CARETTI, per cui si rimanda, in particolare, alla Appendice III. La

Spazi (e luoghi) nelle scritture letterarie del primo Rinascimento

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Spazi (e luoghi) nelle scrittureletterarie del primo Rinascimento *

Si potrebbero forse riferire anche a un sommo poeta delle corti italiane del primo Cinquecento, Ludovico Ariosto, alcune ri-flessioni proposte – mezzo secolo fa – da Maurice Blanchot, nel suo volume Lo spazio letterario. Spesso, osserva Blanchot, si dice che lo scrittore trova nel suo lavoro un modo comodo di vivere sottraendosi alla serietà della vita. Si difenderebbe dallo spazio del mondo, dove agire è difficile, insediandosi in uno spazio irrea-le, su cui regna sovranamente: «L’artista dà spesso l’impressione di essere un debole che si rifugia timorosamente dentro la sfera chiusa della sua opera, là dove, parlando da padrone e agendo senza impedimento, può prendersi una rivalsa sulle sue sconfitte nella società».1 È ciò di cui molti lettori di Ariosto, e della critica ariostesca, hanno fatto illusoria esperienza: fino a vedere in lui, come sembrò a De Sanctis, un don Abbondio con il dono della poesia; fino a trarne l’immagine, cristallizzata quanto deformante, di un tipo «non solo sedentario e contemplativo, ma anche fur-bescamente sornione, scettico e magari epicureo», per il quale la poesia avrebbe offerto – né più, né meno – uno spazio di evasione e rivincita «sopra le ristrettezze del vivere quotidiano» (fuga dalla realtà, sogno smemorato e perdizione felice).2

* Il presente contributo amplia il testo della relazione tenuta dall’autore al Seminario La corte e lo spazio organizzato dal Centro studi “Europa delle Corti”, presso la sede ita-liana della Kent State University (Firenze, 5-6 dicembre 2008). Si ringraziano i promotori dell’incontro fiorentino per averne consentito la pubblicazione in questa sede.

1 M. Blanchot, Lo spazio letterario [1955], trad. it. di G. Zanobetti, con un saggio di J. Pfeiffer e una nota di G. Neri, Torino, Einaudi, 1975, p. 38.

2 Questo snodo fondamentale nella ricezione ariostesca è stato analizzato, in pagine ormai classiche, da l. caretti, per cui si rimanda, in particolare, alla Appendice III. La

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Ma qual è, davvero, lo ‘spazio’ dell’Orlando furioso? Verrebbe di suggerire che sia, in primis, un ‘fuori’ campo, un ‘al di là’ del reale, complementare e simmetrico, a cui la parola del poeta resti-tuisce intimità e concretezza. «Ariosto, e con lui il Furioso, escono dalla corte, la superano, l’attraversano sognandola utopicamente, per traguardare lo spazio esterno ad essa, così come le lunghe onde dello stile che solcano l’intero Libro-Oceano per slanciarlo oltre».3 È lo spazio del libro, degli «studii delle lettere», come dimensione specifica della vita sentimentale e spirituale, della ricerca e del de-siderio, in un’accezione che già era stata prevista da Leon Battista Alberti nel primo dei Libri della famiglia, dove erano richiamati il senso e l’utilità dell’erudizione umanistica: Voi, giovani, quanto fate, date molta opera agli studii delle lettere. Siate assidui; piacciavi conoscere le cose passate e degne di memoria; giovivi comprendere e’ buoni e utilissimi ricordi; gustate el nutrirvi l’ingegno di leggiadre sentenze; dilettivi d’ornarvi l’animo di splendidissimi costumi; cercate nell’uso civile abondare di maravigliose gentilezze; studiate cono-scere le cose umane e divine, quali con intera ragione sono accomandate alle lettere. […] Non è sì dilettoso e sì fiorito spazio alcuno, quale in sé tanto sia grato e ameno quanto la orazione di Demostene, o di Tullio, o Livio, o Senofonte, o degli altri simili soavi e da ogni parte perfettissimi oratori. Niuna è sì premiata fatica, se fatica si chiama più tosto che spasso e ricreamento d’animo e d’intelletto, quanto quella di leggere e rivedere buone cose assai. […] Se cosa alcuna si truova qual stia bellissimo colla gentilezza, o che alla vita degli uomini sia grandissimo ornamento, o che alla famiglia dia grazia, autorità e nome, certo le lettere sono quelle, senza le quali si può riputare in niuno essere vera gentilezza, senza le quali raro si può stimare in alcuno essere felice vita, senza le quali non bene si può pensare compiuta e ferma alcuna famiglia.4

La lezione di Alberti è chiara: lo spazio della letteratura merita di essere frequentato con assiduità e pazienza, nell’ampio spettro delle sue applicazioni, poiché se ne traggono le conoscenze più proprie della dignità umana; in esso si radica – attraverso la definizione e il

fortuna dell’Ariosto, datata 1966, nel suo vol. Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1989, pp. 68-78.

3 c. Bologna, «Orlando furioso» di Ludovico Ariosto, in Letteratura italiana. Le opere, II, Torino, Einaudi, 1993, p. 252.

4 l. B. alBerti, I libri della famiglia, a cura di R. Romano e A. Tenenti, Torino, Einaudi, 1972, pp. 84-85.

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culto della propria tradizione, ossia della propria memoria (familiare e collettiva) – l’educazione morale ed estetica, civile e religiosa, in ultima istanza razionale, dell’individuo. E di qui viene la più vera delle ricchezze («cose buone assai»): la dottrina (insieme teorica e pratica) per cui ogni persona è ascoltata volentieri, lodata, amata. La dimensione del sapere umanistico, affatto evasiva o astratta, fornisce all’esistenza terrena il necessario nutrimento e complemento, per arrivare, oltre che a «gentilezza» e «felicità», a una solidità e fer-mezza di costumi che, poggiando sul conforto di voci ed esperienze molteplici (del passato e del presente), «sommamente piacciono», poiché si inseriscono nella società e nella storia in modo sereno e produttivo. Tra la sfera dell’azione e quella della contemplazione la letteratura – secondo Alberti – stabilisce un rapporto dialogico e dialettico, che, a beneficio dell’umana operosità, garantisce a ogni individuo una base sicura (un ‘senso comune’ e un ‘gusto’) su cui fondare i propri progetti: 5 con un taglio che, tuttavia, può anche essere drammatico, come è stato recentemente dimostrato per gli Asolani del Bembo, domandando la costruzione dello spazio poetico sacrifici e clamorose rinunce, fino a prospettare «una via breve alla conoscenza che può prevenire e in parte sostituire quella che ci viene dall’esperienza diretta dei vari casi della vita».6

La narrazione ariostesca si pone come riproduzione mimetica del gioco della Fortuna, componendone la dinamica entro leggi di calcolata proporzione, con un passo ora rapinoso, ora pacata-mente disteso. Il poema possiede, cioè, una sua architettura, che in profondità organizza il procedere della fantasia dell’autore, e il significato complessivo dell’opera si risolve nel modello spaziale da essa delineato.7 L’universo del Furioso, da tale punto di osservazio-ne, abbraccia un cosmo fisico e una sfera esistenziale fondati sulla legge della contemporaneità. Lo spazio di Ariosto è il luogo della compresenza simultanea, ovvero della reversibilità, e il suo primo equivalente simbolico diventa perciò, come è noto, la foresta, i cui sentieri sono sempre percorribili in ogni direzione. Il Furioso – già

5 M. Paoli, Leon Battista Alberti, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 31-37.6 l. Bolzoni, Il cuore di cristallo. Ragionamenti d’amore, poesia e ritratto nel Rinasci-

mento, Torino, Einaudi, 2010, p. 38.7 g. Barlusconi, L’«Orlando furioso» poema dello spazio, in Studi sull’Ariosto, a cura

di E. N. Girardi, Milano, Vita e Pensiero, 1977, pp. 39-130.

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notava Calvino – è un’opera essenzialmente «policentrica e sincro-nica, le cui vicende si diramano in ogni direzione e s’intersecano e biforcano di continuo»: 8 non omogenea o convergente verso un unico punto d’attrazione, ma discontinua. La logica della conse-quenzialità (dello sviluppo rettilineo), fondamento di ogni narrazione tradizionale, è espunta dallo spazio del poema, costruito – invece – intorno a una pluralità di nodi irriducibili.

«Questa articolazione policentrica della materia» (sono parole di Nino Borsellino), nel proliferare e intrecciarsi delle avventure, conferisce dunque al testo l’aspetto di un labirinto (che è poi altra cosa – fra parentesi – rispetto al mondo frantumato e additivo dei Cinque canti).9 E nello spazio del Furioso si rispecchia – secondo una modalità di percezione tipica del suo autore – la poliedricità vorticosa del mondo e delle situazioni esistenziali connesse, e si denuncia «la coscienza della volubilità (o precarietà) della vita e dei possibili suoi esiti», sempre esposti al rischio dell’errore o dello scacco, per eccesso o difetto di energia, per inibizione della volon-tà e dell’arbitrio da parte degli appetiti (cfr. Orl. fur. XXIV 2).10 Ne è strumento espressivo precipuo quella che Segre ha chiamato «sottile arte delle transizioni», che «porta il lettore a una superiore contemplazione degli estremi positivi e negativi di un sentimento, dei limiti (tragico e comico, sublime e miserabile) che può di volta in volta raggiungere l’azione umana.11

Basti, al proposito, una citazione. Nel canto IV, mentre Ruggiero è rapito dall’ippogrifo, Rinaldo, sbattuto dalla tempesta, approda infine in Scozia, dove conoscerà la triste vicenda di Ginevra. Il passaggio dall’una all’altra storia, alle ottave 50-51, è congegnato in questo modo:

Poi che sì ad alto vien, ch’un picciol puntolo può stimar chi da la terra il mira,prende la via verso ove cade a punto

8 i. calvino, Ariosto: la struttura dell’«Orlando furioso» [1974], in Saggi (1945-1985), a cura di M. Barenghi, I, Milano, Mondadori, 1995, p. 759.

9 n. Borsellino, Lettura dell’«Orlando furioso», Roma, Bulzoni, 1972, p. 34.10 g. De Blasi, L’Ariosto e le passioni (studio sul motivo poetico fondamentale dell’«Or-

lando furioso»), «Giornale storico della letteratura italiana», 129, 1952, p. 340.11 c. segre, La poesia dell’Ariosto, nel suo vol. Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-

Lischi, 1966, p. 22.

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il sol, quando col Granchio si raggira;e per l’aria ne va come legno untoa cui nel mar propizio vento spira.[…]Rinaldo l’altro e l’altro giorno scórse,spinto dal vento, un gran spazio di mare,quando a ponente e quando contra l’Orse,che notte e dì non cessa mai soffiare.Sopra la Scozia ultimamente sorse,dove la selva Calidonia appare.12

Nel Furioso ogni luogo diventa correlativo di una situazione temperamentale, di una condizione emotiva: la foresta e il castello, la spiaggia e il mare, il cielo e la luna non sono semplici sfondi ma veri e propri centri tematici, simbolici e polivalenti (e perciò: «Se nei termini più generali si può parlare di una oscillazione continua tra una spinta centripeta […] e una spinta centrifuga […], è vero però che i movimenti centrifughi si rivolgono verso i più diversi “altrove”», mescolando «nei modi più vari spazi e luoghi reali e luoghi immaginari o addirittura indefiniti, che restano “ciechi”»).13 Il documento più evidente viene fornito dal palazzo di Atlante («col-locato in Francia», ma in un luogo imprecisato), dove entrano – in successione (tra il canto XI e il XXII) – Ruggiero, Orlando, Ange-lica, Bradamante, Astolfo: è la gabbia da cui, una volta penetrati, non si può più uscire, benché nessuna interdizione reale precluda la fuga. È il luogo che esprime – mimetizzandolo – il movi mento tragico della vita umana: in cui ciascuno può essere murato dal proprio desiderio insoddisfatto, incapace tuttavia di desistere dal perpetuo inseguimento trovando un freno nella ragione. Viene così rappresentato «il recinto assoluto del privato, la dimensione della soggettività individuale nella sua incomunicabile chiusura su di sé», dove l’assenza di oggetti reali fa sì che i personaggi, compresenti ma reciprocamente estranei, assolutamente irrelati, rimangano invi-schiati in se stessi e prigionieri di un’illusione.14 Si tratta della tra-

12 Questa, e tutte le citazioni seguenti, sono tratte da l. ariosto, Orlando furioso, a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1974.

13 g. Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno Editrice, 2008, p. 195 (di qui, a p. 197, la breve cit. che segue).

14 G. Barlusconi, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., p. 62.

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sfigurazione fantastica o mitica di un tema che Ariosto, in chiave etico-riflessiva, psicologica e autobiografica, introduce spesso anche nelle Satire (si pensi, in particolare, alla terza: dove la rappresenta-zione dell’ingordigia umana, della ricerca inesausta di un’impossi-bile sazietà trova due correlativi sintomatici, l’uno reale – la Roma pontificia – e l’altro simbolico – la luna).15

Che lo spazio mondano del vivere possa innescare una mobili tà voluttuaria senza fine (come quella che ha per sommo protagonista o interprete il «giocondo» Astolfo, che, dopo i viaggi per terra e per mare illustrati nel canto XV, parte nel XXII con l’ippogrifo, «spin-to dal desiderio puro di cercar tutte le occorrenze del mondo»),16 per cui la cupida bramosia è destinata fatalmente a restare inappa-gata, è il dramma a cui Ariosto propone una sua (oraziana) solu-zione. Diversa, per fare un confronto, da quella che al medesimo riguardo avrebbe poi suggerito Vittoria Colonna. Per Ariosto è un passo indietro (cioè un invito a desistere, a ritrarsi), per la Colon-na è un passo in avanti (ovvero, l’ipotesi esplicita di un altro spa-zio, di un altro luogo, finalmente capaci di soddisfare il desiderio umano).

Le occorrenze del tema, e quindi del sostantivo ‘spazio’, nelle Rime della Colonna sono tra le più incisive della lirica primo-cinquecentesca. Valgano due citazioni, in cui compare una dialettica (tra piano della terra e sfera del cielo) di esplicita derivazione neo-platonica. «Quanto invidio – scrive la Colonna – al pensier ch’al Cielo invio / l’ali sì preste, ch’a lui non contende / lo spazio il giunger tosto al Sol ch’accende». E poi:

Se guarda il picciol spazio de la terral’alma, mercé del Ciel, grande e immortale,non scorge obietto al suo desire equale,né trova pace in sì continua guerra;

del vero albergo a se medesma serrala porta, e tanto scende quanto salementre fra le fallaci inutil scaledel labirinto uman vaneggia ed erra.

15 c. Berra, La «sciocca speme» e la «ragion pazza»: la conclusione delle «Satire», in Fra «Satire» e «Rime» ariostesche, Atti del seminario (Gargnano del Garda, 14-16 ott. 1999), Milano, Cisalpino, 2000, pp. 165-181.

16 G. Ferroni, Ariosto cit., pp. 197-198.

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Non ha del fil di questa vita il fine,e pur trama ed ordisce, apre e raccoglie,tira e rallenta la sua fragil tela;

ma solo il voler nostro erge e ritoglieda la nebbia mortal, ch’intorno il vela,la fede de le cose alte e divine.17

Gioverà forse considerare con appena meno che fuggevole atten-zione i materiali impiegati dall’autrice nella costruzione del testo, desumendone il bersaglio morale perseguito in sede lirica. Il duplice argomento del sonetto viene enunciato con schiettezza: l’animo, «grande e immortale» per grazia del Creatore, non trova sulla terra risposta commisurata al suo desiderio di bene e felicità (v. 3); e soltanto la fede in una diversa e ‘piena’ ricompensa (v. 14), perciò, consente all’umana volontà di vincere la nebbia che la circonda (v. 13: «ch’intorno il vela», con eco di R.v.f. CLI 10 e CCCXXIII 17), ossia di tendere a quella sola meta all’altezza delle sue aspirazioni (e non, invece, ingannevole rispetto ad esse: vv. 12-14). Proprio la «nebbia mortal» definisce, quindi, lo spazio della finitezza o debolezza umana (precisando e approfondendo una situazione che già Petrarca, per esempio nella celebre canzone LXX, ai vv. 35-37, aveva posto in questi termini: «Se mortal velo il mio veder ap-panna, / che colpa è de le stelle, / o de le cose belle?»), di dove occorre che l’individuo, con la speranza, si elevi o allontani. Non è un dramma semplicemente morale, se «il voler nostro» (v. 12), quando pure con ogni sforzo «tira e rallenta la sua fragil tela», non riesce da sé a liberarsi «da la nebbia mortal»: la Colonna parrebbe qui, anzi, prendere atto, traendone subito le conseguenze, di quella «metaforica navigazione tempestosa, dall’esito presumibilmente cata-strofico», che Petrarca aveva per sé evocato (e paventato) nel sonetto 189, Passa la nave mia colma d’oblio («nebbia mortal» enfatizza la «nebbia di sdegni», al v. 11 di R.v.f. CLXXXIX 9, e l’intero v. 11, «tira e rallenta la sua fragil tela», riesce ricalcato sul v. 10 del testo petrarchesco, «bagna et rallenta le già stanche sarte»).18 E non a

17 v. colonna, Rime, a cura di A. Bullock, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 181 (la cit. prec. a p. 62).

18 La citazione da F. Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Monda-dori, 1996, p. 820.

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caso – a sigillo di un passaggio reputato dalla scrivente, insieme, topico e fondamentale – mentre «nebbia mortal» ricorre (in qua-si analoga posizione) anche nel sonetto, della medesima Colonna, Padre Noè, del cui buon seme piacque (vv. 13-14: «viva la fede mia chiara e sicura / d’ogni nebbia mortal, d’ogni ombra scarca»; oltre che – con analoga accezione – nel sonetto di Tansillo indirizzato «A Dio: che lo riconduca sulla buona via», È un nodo di martìr, non forse lieve, vv. 9-11: «Fa ch’un tuo raggio, fra tant’ombre, io vegga, / né sia nebbia mortal, che mi contenda, / chiuso tra duo sentier, ch’il dritto elegga»),19 «erge e ritoglie» viene impiegato dalla poetessa – pure in rima con «raccoglie» – nella seconda quartina del sonetto Se ’l breve suon che sol quest’aer frale, per suggerire la necessità d’un improrogabile riconoscimento: «con tal dolcezza il cor sovente assale / che d’ogni cura vil s’erge e ritoglie, / sprona, accende ’l pensier, drizza le voglie, / per gir volando al Ciel con leggiere ale».20 L’uomo infatti, per quanto s’industri e s’affatichi («e pur trama ed ordisce» viene appositamente da Ariosto, ovvero da un poema dedicato agli smacchi subiti dalle umane volontà: cfr. Orl. fur. I 51, v. 6 e XLV 42, v. 5), non possiede o domina «del fil di questa vita il fine», né da sé conquista la chiave che gli apra il «vero albergo», che tuttavia l’anima brama: come, prima della Colonna, aveva indicato Dante (in un passo del Convivio magari non estraneo alla genesi di questo sonetto: «Rendesi dunque a Dio la nobile anima in questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare de l’albergo e ritornare ne la propria mansione»).21 Quel ‘luogo’ che l’uomo non si può dare, può essere comunque atteso e desiderato: quale unico «obietto al suo desire equale» (e perciò il «vero albergo», qui auspicato al v. 5, è costitutivamente diverso dal «Vero albergo d’amore» menzionato da Veronica Gambara nell’incipit di uno dei suoi sonetti più celebri, per eleganza virtuosistica e dominio della tecnica letteraria, sugli occhi del marito Giberto, signore di Correggio: i quali potevano alla poetessa – poi ammirata da Leopardi – offrire, come un dono

19 l. tansillo, Il Canzoniere edito ed inedito, vol. I, a cura di E. Pèrcopo, Napoli, Liguori, 1996, p. 302.

20 V. colonna, Rime cit., pp. 98 e 140.21 D. alighieri, Convivio, iv xxviii 7, in Opere minori, I-2, a cura di C. Vasoli e D.

De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, p. 866.

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del «Cielo», fonte perenne di riposo e sostegno, liberando il suo cuore da ogni pena o pensiero funesto).22

Il sonetto della Colonna pone, fin dal primo verso, un proble-ma di ‘sguardo’, di prospettiva, di misura (circa l’affidamento che meriti lo «spazio de la terra»), e si potrebbe quasi allegare, per conforto, un passo della Comedia delle ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto: il prosimetro del giovane Boccaccio sulla forza purifica-trice dell’amore, e sull’approdo dalla brutalità ferina alla felicità spirituale, cioè alla contemplazione divina), qui almeno in parte risemantizzato, con un taglio più genuinamente cristiano (Comedia, XXXII 33: «Subitamente io mi vidi in uno lucente carro, tirato da bianche colombe, portare per lo cielo; e chinati gli occhi alle cose basse, mi si scoperse il picciolo spazio della gimbosa terra e l’acque a lei ravolte in forma di chelidro»).23 Le cose della terra, da sole, non bastano (ed è, ai fini d’una interpretazione spaziale della dimensione religiosa, un assunto elementare), poiché quel che l’individuo, fermo a esse, sperimenta, è illustrato nel testo di Vittoria a più riprese, con l’adibizione di tessere illustri: «vaneggia ed erra» (dalla Colonna messo anche nel sonetto Quando fia il dì, Signor, che ’l mio pensero, ai vv. 3-4, per dire che – appunto – l’animo «mentre fra le nebbie erra e vaneggia / mal si puote fermar nel lume vero», ma già in Orl. fur., sempre in fine di verso: XXVII 106, v. 4 in rima con «guerra» e «sotterra»; XXXIII 94, v. 5 in rima con «guerra» e «terra»; XLII 49, v. 6 in rima con «guerra» e «disserra»); 24 «tanto scende quanto sale … fra le fallaci inutil scale» (da intendersi quale citazione da Petrarca, Triumphus Cupidinis IV 137-144: «E vidi a qual servaggio, ed a qual morte, / a quale stra-tio va chi s’innamora. / Errori e sogni ed imagini smorte / eran d’intorno a l’arco triumphale / e false opinïoni in su le porte, / e lubrico sperar su per le scale, / e dannoso guadagno ed util dan-no, / e gradi ove più scende chi più sale»); «né trova pace in sì continua guerra» (che pare debba essere letto col conforto – più

22 v. gaMBara, Le rime, a cura di A. Bullock, Firenze - Perth, Olschki - The University of Western Australia, 1995, pp. 80-81 (il testo del sonetto si legge anche in Poetesse italiane del Cinquecento, a cura di S. Bianchi, Milano, Mondadori, 2003, p. 8).

23 Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, vol. II, Filostrato (a cura di V. Branca) – Teseida delle nozze di Emilia (a cura di A. Limentani) – Comedia delle ninfe fiorentine (a cura di A. E. Quaglio), Milano, Mondadori, 1964, p. 777.

24 V. colonna, Rime cit., p. 130.

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che di Pace non trovo, et non ho da far guerra – di R.v.f. CL 1-2, «Che fai, alma? che pensi? avrem mai pace? / avrem mai tregua? od avrem guerra eterna?», e R.v.f. CCCLX 28-30, «Che s’i’ non m’inganno, era / disposto a sollevarmi alto da terra: / e’ mi tolse di pace et pose in guerra»).25

Piccolo lo spazio della terra, secondo la Colonna, al cospetto del desiderio umano; piccolo lo spazio del cuore, per Michelangelo (si cita dal celebre, ma forse incompiuto, madrigale Come può esser ch’io non sia più mio?), al cospetto delle passioni che in esso si accendono e fatalmente, spossandolo e sgomentandolo, traboccano: «Che cosa è questo, Amore, / c’al core entra per gli occhi, / per poco spazio dentro par che cresca? / E s’avvien che trabocchi?» (vv. 9-12).26

Secondo moduli che rinnovano cadenze insigni della lirica delle origini, Michelangelo testimonia come il fuoco della passione possa divampare con una forza che decompone lo spazio dell’interiorità, fino a rendere preferibile la morte.27 Nella meditazione religiosa condotta, in versi, dalla Colonna, invece, «il picciol spazio de la terra» costituisce per il pensiero e per l’anima, insieme, una ten-tazione e un ostacolo, un’attrattiva e un’esca ingannevole, che, per quanto possa offrire, riesce sempre inferiore, insoddisfacente. Il cuore dell’uomo («lo cor umil puro e mendico») – si legge nel sonetto Con la croce a gran passi ir vorrei dietro – porta dentro di sé una sete che il mondo non può definitivamente esaudire, e tutte le circostanze della vita, per quanto belle e affascinanti, ri-

25 Si tratta naturalmente, in specie per quest’ultimo caso, di fenomeni a base petrar-chesca con larga ricorrenza nella poesia del Quattro e Cinquecento, che gli autori più originali piegano, ciascuno, in una maniera specifica. Valgano, circa l’antitesi fra desiderio di pace e esperienza di guerra, accanto a quello della Colonna, due altri esempi: Sannazaro nella sestina Spente eran nel mio cor le antiche fiamme (che continua: «et a sì lunga e sì continua guerra / dal mio nemico omai sperava pace, / quando a l’uscir de le dilette selve / mi senti’ ritener da un forte laccio, / per cui cangiar conviemmi e vita e stile», in J. sannazaro, Opere volgari, a cura di A. Mauro, Bari, Laterza, 1961, p. 159), e Galeazzo di Tarsia, nella sestina Come nocchier che con sdruscito legno (vv. 25-30, «Sono scogli i desir, la vita è mare / ove si soffre una continua guerra, / e la nostra speranza è un fragil legno, / a cui si cela ogni benigna stella / che menar possa al sospirato porto, / senza la guida di ragion, la vela»: da leggere con le puntualizzazioni di C. Bozzetti, in Rime, Milano, Fondazione Mondadori, 1980, pp. 133-136).

26 M. Buonarroti, Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari, Laterza, 1960, p. 6.27 c. scarPati, Michelangelo poeta dal ‘canzoniere’ alle rime spirituali, nel suo vol.

Invenzione e scrittura. Saggi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2005, p. 112.

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chiamano l’insuperabile mistero (il «lume vero») che le trascende e le legittima.28 «Quello che Vittoria va scoprendo […] potrebbe essere definito nei termini di una sproporzione: la rinuncia e la perdita introducono a un possesso incomparabilmente più vasto. Nello spazio creato dalla dimissione degli abiti antichi sottentra una percezione della sostanza divina».29

L’amore è desiderio di bellezza, ovvero – come si legge nel terzo libro degli Asolani, sulla falsariga del Simposio di Platone – esperienza di grazia, innescata dalla realtà sensibile. Ma ciò che Michelangelo e Vittoria Colonna sviluppano in forme drammatiche, virtualmente ascetiche, costituisce per il Bembo lirico un’occasione di gradita pacificazione interiore, di effettiva soddisfazione del cuore, che si sente perfettamente ‘corrisposto’ dallo spettacolo del mondo, riconosciuto e interpretato. A esempio, per la forza e pertinenza dell’incipit conviene citare, almeno in parte, questo sonetto (risalente al secondo decennio del secolo):

Mostrommi entro a lo spatio d’un bel voltoet sotto un ragionar cortese humile,per farmi ogni altro caro esser a vile,Amor quanto pò darne il ciel raccolto.[…]

Fortuna, che sì spesso indi mi svia,tolga a gli occhi, a gli orecchi il proprio obietto,e ’n parte le dolcezze mie distempre;

al cor non torrà mai l’alto diletto,ch’ei prova di veder la donna miaovunque io vado, et d’ascoltarla sempre.30

Nello «spatio» di un «bel volto» l’occhio educato riconosce la quin tessenza o il paradigma della bellezza naturale, in accezione dantesca prima ancora che petrarchesca (data la formula peren-toria che compare fin da Donne ch’avete intellecto d’amore, vv. 49-50: «Ella è quanto di ben pò far Natura; / per exemplo di lei

28 V. colonna, Rime cit., p. 87.29 c. scarPati, Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a

Michelangelo, in Invenzione e scrittura cit., p. 135.30 P. BeMBo, Le Rime, a cura di A. Donnini, Roma, Salerno Editrice, 2008, I, pp. 206-

208 (a cui si rimanda per datazione, commento e censimento degli stilemi petrarcheschi).

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bieltà si prova»),31 restando così adombrato – al v. 4 del testo di Bembo – il tema del Deus artifex che sovrintende alla creazione della donna amata. Che il corpo (specialmente femminile) sia spazio propedeutico, e quasi didascalico, per la fruizione della bellezza (coi pericoli che ciò però comporta), d’altronde, è moneta corrente nelle scritture ariostesche, con momenti di massima emergenza quando si tratti di evocare l’ovale del volto di Alcina (Orl. fur. VI 11, v. 8) o la perfetta misura di Olimpia (XI 68, v. 5).32 La situazione, topica della letteratura petrarchesca del primo Cinquecento, ritorna immutata in un sonetto di Bandello, di cui basterà riportare le due quartine:

Chi vuol veder in poco spazio accoltoquant’è di bel al mondo, miri il viso,che mille volte l’alma e ’l cor m’ha tolto,e fede fa tra noi del paradiso.

Bellezze vederà nel vago voltodivine e sole, e vederà quel risoch’un rubin parte in orïente colto,e perle scopre, u’ regna Amor assiso.33

«L’Ariosto – ha scritto Giovanna Barlusconi – spazializza il mon-do della coscienza», cioè trasferisce la sua percezione della realtà nell’organizzazione fantastica della materia.34 Il dato psicologico, pre-supposto dell’individuo empirico, si coagula sempre in una struttura visibile, in una configurazione dello spazio esterno; per prova si menziona qui un passo del canto III, allorché Bradamante, dopo essere stata tutta la notte nella grotta del mago Merlino, che l’ha incoraggiata a salvare Ruggiero, si mette in cammino con la maga Melissa verso il castello di Atlante: «Lasciò di poi le sotterranee case, / che di nuovo splendor l’aria s’accese, / per un camin gran spazio oscuro e cieco, / avendo la spirtal femina seco» (Orl. fur.

31 D. alighieri, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996, p. 100.32 F. chiaPPelli, Ariosto, Tasso e la bellezza delle donne, «Filologia e critica», 10,

1985, pp. 325-341.33 M. BanDello, Rime, a cura di M. Danzi, Modena, Panini, 1989, p. 145 (dove sono

puntualmente registrate le tracce lasciate dal modello petrarchesco nell’articolazione del tema proposta dallo scrittore rinascimentale).

34 G. Barlusconi, L’«Orlando furioso» poema dello spazio cit., p. 95.

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III 64, vv. 5-8). I viaggi per il mondo, raccontati nel poema, ogget-tivano un’esplorazione dell’interiorità. In quest’ottica, pare che il castello di Atlante costituisca davvero uno degli ‘spazi’ archetipici della letteratura del Rinascimento: espressione codificata del trionfo (illusorio) dell’ambizione individuale, come fallimentare, e tragico, tradimento di sé. E, al contempo, non sarebbe illecito reputare lo spazio metamorfico del Furioso emblema di una concezione del co-smo, nel segno dell’enigmatica inafferrabilità: la cui unica e stabile identità consiste nella poliedricità, sfaccettata e proteiforme, che lo rende mai definitivamente conquistabile o assimilabile (un piccolo esempio è nel canto V, in cui Dalinda, già cameriera di Ginevra, racconta a Rinaldo come, indossati gli abiti della sua padrona, poté eseguire inconsapevolmente l’intrigo ordito da Polinesso, ed essere scambiata con Ginevra da Ariodante e Lurcanio, che l’osservavano da distante: «e tanto più, ch’era gran spazio in mezzo / fra dove io venni e quelle inculte case, / ai dui fratelli, che stavano al rezzo, / il duca [Polinesso] agevolmente persuase / quel ch’era falso», in Orl. fur. V 50, vv. 1-5). Ariosto confessa così le sue paure, e le minacce di cui più avverte la pressione: se ogni luogo è per l’uomo garanzia di permanenza e stabile identità, uno spazio smisurato o parcellizzato, che si espande e contrae, tanto più depistante quanto più tramato di riferimenti concreti, spesso ambiguo (come quello in cui si muovo-no – nel canto XXIV – Isabella e l’eremita: «Più e più giorni gran spazio di terra / cercaro, e sempre per lochi più inculti; / che pieno essendo ogni cosa di guerra, / voleano gir più che poteano occulti», XXIV 93, vv. 1-4), è il sintomo di una vita che fatica a conservare ordine e senso, minacciata di disgregazione per la ripetizione ossessiva di una brama ingorda ma senza compimento.

L’articolata struttura del Furioso si basa su legami e rapporti di connessione interna studiati con estrema cura. Viene così disegnato il campo di forze irriducibile, che dà voce alla percezione artistica del mondo propria dell’autore. La forma dell’opera denuncia quale sia il nucleo del sistema di pensiero che l’origina. E d’altronde, alla luce di quanto è stato argomentato da Pavel Florenskij nel suo libro su Lo spazio e il tempo nell’arte, la cultura è – essenzialmente – attività di organizzazione dello spazio, inteso come luogo mentale, e come luogo delle nostre relazioni vitali. «Le immagini dell’arte – e della letteratura, scrive Florenskij – sono formule di comprensione della vita parallele a quelle della scienza e della filosofia»: e, trattandosi

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di questione fondamentale per ogni sistema di pensiero e conce-zione del creato, attraverso ciò che rappresenta il poeta afferma i termini essenziali d’una propria visione della realtà.35

In ogni rappresentazione spaziale, di conio letterario o figurativo, secondo la tesi di Pierre Francastel viene condensata e cristallizzata l’esperienza stessa dell’uomo, il suo sistema mentale di decifrazione della realtà, quale somma di valori spirituali e conoscenze storiche finalizzata all’educazione positiva del cuore. Lo spazio non è un dato, ma un giudizio o una promessa: materializzazione di un’at-titudine dello spirito, e proiezione delle competenze e dei bisogni che determinano lo schema d’orientamento necessario alla vita. «Se lo spazio non è una realtà in sé, permanente ed esterna all’uomo, bisogna ammettere che, nella sua esperienza contemplativa o attiva del mondo, l’uomo porta ad un tempo valori positivi e valori im-maginari», che si concretano in «un giudizio pratico (condizionante del comportamento umano) e simbolico del mondo».36 Sicché ogni ricerca spaziale – conclude Francastel – è una ricerca sul l’uomo.

Si potrebbe citare come esempio (per una data simbolica intorno all’anno di nascita di Ariosto) il fiorentino giardino delle sculture di Lorenzo, all’angolo tra piazza San Marco e via degli Arazzieri, che tra il 1472 e il 1475 divenne punto di riferimento e meta per i celebri visitatori: un luogo di studio per i giovani artisti (tra essi Leonardo) accolti alla scuola di Bertoldo di Giovanni (già allievo di Donatello), e di conservazione – in mezzo a piante, vasche e logge – per diversi pezzi di sculture antiche (per lo più frammenti, bisognosi di restauro o di pregio non eccessivo: poiché gli esemplari più importanti erano conservati a Palazzo Medici). Qui si allesti-vano feste, spettacoli, recite, cortei; si costruivano i carri per le sfilate trionfali, e si raccoglievano – forse – anche disegni, cartoni e modelli di scultori moderni.37 Studiare, conservare, festeggiare: di queste tre archetipiche modalità di fruizione dello spazio, proprie

35 P. FlorenskiJ, Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura di N. Misler, Milano, Adelphi, 1995, pp. 15 e 51.

36 P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo [1951], trad. it. di A. M. Mazzucchelli, Torino, Einaudi, 1957, p. 65.

37 c. elaM, Il giardino delle sculture di Lorenzo de’ Medici, in Il giardino di San Marco: maestri e compagni del giovane Michelangelo, Catalogo della mostra (Firenze, Casa Buonarroti, 30 giugno - 19 ottobre 1992), a cura di P. Barocchi, Milano, Silvana, 1992, pp. 157-170.

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del giardino di Lorenzo, una eco compariva già in un sonetto (di gusto burchiellesco) del Bellincioni, Per una certa festa che si fece al giardino di Lorenzo de’ Medici.38

A questa altezza, a Mantova, dopo quasi un decennio, Mantegna aveva appena terminato l’impresa della Camera Picta nel Castello di San Giorgio, dove la cronaca e le quinte della vita di corte – in un decisivo frangente per la dinastia dei Gonzaga – erano elevate alla verità morale della storia: così toccando ai padroni di casa, e agli osservatori, il riconoscimento che avrebbe consentito, in base alla propria esperienza, di leggere e apprezzare, nelle scene dipinte, dietro l’alone vitale un ethos forte e avvincente.39 A Urbino entro il 1472, cioè prima della morte di Battista Sforza, Luciano Laurana fornisce il suo decisivo contributo alla costruzione della residenza dei Montefeltro, definendone gli ambienti più singolari: il cortile d’onore, lo scalone, lo studiolo, la celebre facciata dei torricini. Ne risultava «un ulteriore passo in avanti nel processo di appropriazione delle forme ispirate dall’antichità», non più in chiave di robustezza e consistenza, ma di armonia, trasparenza, purezza formale,40 di cui erano immediato corrispettivo le pitture di Piero della Francesca: rappresentazione fluida e intensa della verità del visibile.41

Su tale sfondo, e con simili, elementari, termini di riferimento, proiettandosi in avanti di qualche decennio, è lecito osservare che il concetto di spazio viene declinato nella letteratura di corte del primo Cinquecento in almeno tre accezioni distinte: lo spazio del mondo, lo spazio dell’opera, lo spazio dell’interiorità. Con alcuni interessanti corollari: a partire dai rapporti fra spazio e tempo (ne scriveva Equicola nel Libro de Natura de Amore), o fra realtà e parola, per arrivare all’ubicazione, o estensione, del luogo dei sen-timenti, delle idee, delle passioni.

38 B. Bellincioni, Le Rime, a cura di P. Fanfani, 2 voll., Bologna, G. Romagnoli, 1876-1878: vol. I, pp. 64-65, n° 59.

39 F. trevisani, La «Camera Picta»: il primato della pittura, in Andrea Mantegna e i Gonzaga. Rinascimento nel Castello di San Giorgio, Catalogo della mostra (Mantova, 16 sett. 2006 - 14 genn. 2007), a cura di F. Trevisani, Milano, Electa, 2006, pp. 37-57.

40 J. höFler, Il Palazzo Ducale di Urbino sotto i Montefeltro (1376-1508). Nuove ricer-che sulla storia dell’edificio e delle sue decorazioni interne [2004], trad. it. di F. Bevilacqua, Urbino, Accademia Raffaello, 2006 (la cit. alle pp. 179-180).

41 Ricerche e studi sui «Signori del Montefeltro» di Piero della Francesca e sulla «Città ideale», a cura di Paolo Dal Poggetto, Urbino, Quattro Venti, 2001.

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Poiché l’individuo non si comprende che in rapporto a una precisa rappresentazione dei fenomeni che lo circondano, lo spazio è il cronotopo attraverso la cui definizione lo scrittore rinascimentale acquista coscienza di sé e della propria funzione. Né, da questo punto di vista, si può trovare pagina più eloquente di quella che introduce il terzo libro delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Qui, al cospetto delle rovine della Roma antica, storia e geografia si intrecciano per consentire a una cultura di scoprire il proprio luogo d’elezione (e di attrazione), e con esso la propria identità. Il veneziano Bembo, dopo gli anni trascorsi a Urbino, giunge a Roma e lì trova lo spazio che gli conferma l’orbita den-tro la quale i fatti della vita e dell’arte, altrimenti irrisolti (in uno stato di acuita precarietà) tra otium letterario e carriera diplomatica, riacquistano un senso.42 La forma della replica, della ripetizione, gli appare come l’unico argine a quel caos di desideri e pulsioni singolari registrato, per altra via, nel Furioso. Tornare sui propri passi, riconoscere la propria matrice, lasciarsi accogliere dal luogo dell’origine: questo e altro ancora è per Bembo la città di Roma. E, di fronte ad essa, lo spazio grande del mondo e dell’esistenza, e lo spazio piccolo delle carte e dei libri ritrovano la propria ar-monia, la propria grammatica.

La scena evocata da Bembo potrebbe essere accostata a quella che si vede alle spalle del San Sebastiano di Mantegna (1480 ca.), dal 1910 esposto al Museo del Louvre:

Questa città, la quale per le sue molte e riverende reliquie, infino a questo dì a noi dalla ingiuria delle nimiche nazioni e del tempo, non leggier ni-mico, lasciate, più che per li sette colli, sopra i quali ancor siede, sé Roma essere subitamente dimostra a chi la mira, vede tutto il giorno a sé venire molte artefici di vicine e di lontane parti; i quali le belle antiche figure di marmo e talor di rame, che o sparse per tutta lei qua e là giacciono o sono publicamente e privatamente guardate e tenute care, e gli archi e le terme e i teatri e gli altri diversi edificii, che in alcuna loro parte sono in piè, con istudio cercando, nel picciolo spazio delle loro carte o cere la forma di quelli rapportano; e poscia, quando a fare essi alcuna nuova opera intendono, mirano in quegli essempi, e di rassomigliarli col loro artificio procacciando, tanto più sé dovere essere della loro fatica lodati si

42 l. Fortini, Tra Venezia e Roma: intorno a Bembo, Trifon Gabriele e altri, in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di R. Alhaique Pettinelli, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 177-193.

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credono, quanto essi più alle antiche cose fanno per somiglianza ravicinare le loro nuove; per ciò che sanno e veggono che quelle antiche più alla perfezzion dell’arte s’accostano, che le fatte da indi innanzi.43

Lo spazio, il luogo del Rinascimento è «questa città», Roma (inconfon-dibile più che per i «sette colli», per le «molte e riverende reliquie»: preservate dall’«ingiuria» del tempo e dalla furia degli stranieri), da cui si può estrarre («con istudio») l’unica regola che assicuri alle vicende umane, storiche e artistiche, oltre che linguistiche, altrimenti imprevedibili e sfuggenti, un volto comprensibile, cioè riconoscibile. Bembo è guidato in simili affermazioni (sulla falsariga di una lettera-tura in auge fin dalla metà del Quattrocento, e dedicata a promuovere la cura per le glorie architettoniche dell’Urbe) da una precisa idea: dalla volontà di non far morire il passato, e il presente, e di rendere permanente ciò che è transitorio attraverso la recuperabile stabilità – innanzi tutto – di uno spazio. Già in avvio del dialogo De Virgilii Culice et Terentii fabulis (del 1503) infatti, interlocutori Pomponio Leto ed Ermolao Barbaro – ossia i due campioni dell’umanesimo romano e veneziano – alla presenza di Tommaso ‘Fedra’ Inghirami, la vista di un moncone di statua ormai irriconoscibile simboleggiava il triste stato in cui, per colpevole incuria, giacciono le rovine della Roma antica e le corruttele che affliggono le opere letterarie della classicità.44 E tali guasti gli parevano una minaccia pervasiva e pro-fonda, oltre che sintomatica, capace di compromettere la leggibilità, cioè la trasmissione nel tempo, di un’intera civiltà. Perché quanto appaga l’attesa dell’uomo è solo la ripetizione (il ritrovamento) di una matrice esemplare e perfetta, rivelata e realizzata fin dall’origine, e il desiderio umano di bellezza (di ‘assoluto’) si compie nel passaggio dall’accidentale al permanente, dal contingente all’universale.

Questo hanno fatto più che altri – si legge nel prosieguo della medesima pagina delle Prose – Michele Agnolo fiorentino e Rafaello da Urbino, l’uno

43 Si cita da Trattatisti italiani del Cinquecento, I, a cura di M. Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 167-168 (previo controllo di P. BeMBo, Prose della volgar lingua. L’«edi-tio princeps» del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano latino 3210, a cura di C. Vela, Bologna, CLUEB, 2001, pp. 109-110, e M. tavosanis, La prima stesura delle «Prose della volgar lingua»: fonti e correzioni, Pisa, ETS, 2002, pp. 255-256).

44 M. caMPanelli, Pietro Bembo, Roma e la filologia del tardo Quattrocento: per una lettura del dialogo «De Virgilii Culice et Terentii fabulis», «Rinascimento», s. II, 37, 1997, pp. 283-319.

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dipintore e scultore e architetto [aggiunto, comprensibilmente, nell’edizione Torrentino, apparsa nel 1549] parimente, l’altro e dipintore e architet-to altresì; e hannolo sì diligentemente fatto che amendue sono ora così eccellenti e così chiari che più agevole è a dire quanto essi agli antichi buoni maestri sieno prossimani, che quale di loro sia dell’altro maggiore e miglior maestro. La quale usanza e studio, se, in queste arti molto minori posto, è come si vede giovevole e profittevole grandemente, quanto si dee dire che egli maggiormente porre si debba nello scrivere, che è opera così leggiadra e così gentile che niuna arte può bella e chiara compiutamente essere senza essa?

Interessa qui porre l’accento non sul tema della fedele imitazio-ne dei modelli antichi, o sul pregiudizio umanistico (vivo ancora in Bembo) circa l’inferiorità delle arti figurative rispetto alle più nobili e durevoli testimonianze della letteratura, ma sull’equazione risolta in partenza del passo, collegando lo spazio (grande) di una città e lo spazio («picciolo») delle carte, in ragione dell’esemplarità formale del primo, destinato a valere come imperitura grammatica dell’invenzione. La tensione tipica del classicismo rinascimentale acquista in tale pagina un baricentro geografico preciso, e trova il suo luogo precipuo di riferimento nelle rovine delle imponenti ar-chitetture dell’Urbe: non è, da parte di Bembo, un progetto, quanto la constatazione di ciò che era accaduto nel corso dell’ultimo secolo, quando i reperti classici erano stati dissotterrati e scrutinati come campioni assoluti, oggetto di un’immediata pulsione affettiva e di un originale slancio ricreativo.45 Curiosità, amore e gioia si mescolano, per fare delle reliquie dell’antichità la forma modellizzante (estetica ed etica) dell’età moderna: proprio come si legge anche nella lettera di Castiglione e Raffaello a Leone X, risalente al 1519.46

Il medesimo Mantegna già aveva in simili termini progettato la propria casa mantovana: una dimora semplice e severa nei volumi e nelle decorazioni, quale chiara espressione della sua cultura anti-quaria, dall’impianto classico (di memoria albertiana) vicino all’idea della domus romana. Uno spazio emblematico, di sobria e austera eleganza, sintomo di sprezzatura e piena coscienza di sé; un luogo

45 Si veda, al riguardo, a. QuonDaM, Rinascimento e Classicismo. Materiali per l’analisi del sistema culturale di Antico regime, Roma, Bulzoni, 1999.

46 F. P. Di teoDoro, Raffaello, Baldassar Castiglione e la «Lettera a Leone X», Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1994 (II ed.: Bologna, Minerva, 2003).

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«carico di una funzione al di là del semplice valore estetico e orna-mentale», come limpida e geniale «espressione di una riconquistata grammatica dell’antichità», per cui l’armonia e la bellezza visibili traducono in immagine il valore (la dignità) dell’uomo.47 Si colloca al punto estremo di tale parabola il Cristo giudice (e vincitore della morte) dipinto da Michelangelo, sulla parete della Cappella Sistina, coi lineamenti nobili e radiosi dell’Apollo del Belvedere.48

L’alternativa a Roma (a questa «idea» di Roma: di ascendenza ultimamente petrarchesca),49 non fittizia o retorica ma reale, è una zucca. Quella evocata da Folengo nel libro XXV (e ultimo) del Bal-dus, quale spazio proprio e dimora di tutti i poeti, senza alcuna di-stinzione o eccezione, in nome della vanità e leggerezza menzogne-ra, ingannevole, consustanziale di ogni esperienza letteraria: onesto ma inane mezzo di puro intrattenimento (v. 621: «Zucca levis, sbu-sata intus similisque sonaio»). E se non la zucca, l’antro della fan-tasia, dove Folengo confina grammatici, filosofi e teologi, affinché si rendano conto della sicumera delle proprie arti:

Hic Phantasiae domus est, completa silentimurmure, vel tacito strepitu, motuque manenti,ordine confuso, norma sine regula et arte.Undique phantasmae volitant, animique balordisomnia, penseri nulla ratione movesti,sollicitudo nocens capiti, fantastica cura,diversae formae, spetiesque et mentis imago.Gabia stultorum dicta est; sibi quisque per illambeccat cervellum pescatque per aëra muscas.Hi sunt gramaticae populi pedagogaque proles.50

47 g. Ferlisi, La Casa del Mantegna: dove l’armonia si dipinge nella pietra, in A casa di Andrea Mantegna. Cultura artistica nella Mantova del Quattrocento, Catalogo della mostra (Mantova, Casa del Mantegna, 26 febbraio - 4 giugno 2006), a cura di R. Signorini, Milano, Silvana Editoriale, 2006, pp. 154-177 (le due cit. alle pp. 168 e 172).

48 h. W. PFeiFFer, La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, Città del Vaticano-Milano, Libreria Editrice Vaticana - Jaca Book, 2007, p. 269.

49 Le tappe essenziali del percorso sono ora scandite in g. caPPelli, L’umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Roma, Carocci, 2010.

50 t. Folengo, Baldus, a cura di M. Chiesa, Torino, Utet, 1997, libro XXV vv. 476-485, pp. 1030-1032 (trad. it.: «Là è la casa della Fantasia, piena di rumore silenzioso o di un tacito strepito, di un moto immobile, di un ordine disordinato, di una norma senza regola e arte. Svolazzano da ogni parte fantasmi, sogni di un intelletto folle, pensieri non guidati da alcuna ragione, preoccupazione che danneggia la testa, inquietudine bizzarra,

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Da una parte i «sogni di un intelletto folle», dall’altra le «molte e riverende reliquie»: Folengo e Bembo declinano il concetto di grammatica in forme opposte, come sterile e dannoso arzigogolo o, agli antipodi, conseguimento della perfezione attraverso l’uso di un modello (e non si scordi che a grammatici e poeti già erano stati riservati i capitoli 49 e 50 del Moriae Encomium di Erasmo).

Ma che Roma fosse, e dovesse essere lo spazio identitario della civiltà di corte del Rinascimento italiano non era convinzione accolta solo dai letterati. Era, per l’epoca, un dato di fatto. Per prova, tra le molte, si considera la lettera scritta il 10 marzo del 1521 da Federico Gonzaga al suo ambasciatore presso la Curia, Baldas-sarre Castiglione, testo di accompagnamento e presentazione per il pittore Lorenzo Leonbruno (pressoché coetaneo del destinatario della missiva), inviato da Mantova a Roma allo scopo di vedere le bellezze della città e aggiornare la sua cultura.

Conoscendo noi il bonissimo ingegno che ha magistro Lorenzo Leom-bruno nostro pictore, et vedendo alle opere sue quanto gran principio l’ha in l’arte che l’exercita, per il quale ce fa sperare che presto l’habbi a reuscire excellente in tal mestiero, havemo deliberato non mancarli in cosa alcuna perché il pervenga alla perfectione sperata, perché serà anche honore nostro et di questa nostra patria. Et per tanto, estimando noi che il venire a Roma gli possi giovare assai, perché lì potrà vedere de le cose assai da imitare, lo havemo persuaso a questo, et have[mol]i dato il modo di venirne et starli qualche dì. Et piacene [che] sia mentre voi vi ritrovati lì. Esso magistro Lorenzo, dunque, […] se ne viene lì, al quale volemo che dati adito et introductione a vedere quelle cose antiche et moderne belle di Roma; et tra le altre le opere di Michel Angelo, et quelle del già Raphaele da Urbino, et quelle altre che al iudicio vostro sono excellenti, acciò che ’l retorni ben instrutto et pieno di cose da imitare.51

Il marchese di Mantova prescriveva al ‘suo’ pittore non un viaggio di svago, per ampliare genericamente i propri orizzonti, e magari partecipare a banchetti e gite in campagna; ma una missione di

diverse forme, specie e immagini mentali. È chiamata la gabbia dei matti; in essa ognuno arzigogola e pesca mosche per l’aria. Sono questi i popoli della grammatica, la progenie della scuola»).

51 l. ventura, Lorenzo Leonbruno. Un pittore a corte nella Mantova di primo Cinque-cento, Roma, Bulzoni, 1995, p. 258; poi in J. shearMan, Raphael in Early Modern Sources: 1483-1602, New Haven-London, Yale Univ. Press, 2003, pp. 679-681.

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studio, al fine di osservare le testimonianze archeologiche dell’antico e apprendere il nuovo stile, romano, di Michelangelo e Raffaello. Agli occhi di Federico, perché il suo protetto artista raggiungesse la perfezione, a onore e gloria della corte di Mantova, era indi-spensabile che andasse a Roma: «perché lì – sono le sue parole – potrà vedere de le cose assai da imitare», «cose antiche e moderne belle di Roma, e tra le altre le opere di Michel Angelo e quelle del già Raphaele da Urbino, e quelle altre che al iudicio vostro [di Castiglione] sono ecellenti».

Da Mantova a Roma alla ricerca della propria ragione, dentro un ambiente prestigioso, ricco di tradizione e fermento, dove la classicità agiva come propulsore per le nuove imprese dei contem-poranei.52 In poche righe era concentrato il vocabolario essenziale d’un intero programma, di vita e di cultura, simmetrico a quello postulato dal Bembo, sotto l’egida dei nomi subito paradigmatici di Michelangelo e Raffaello: cose da imitare, belle e anzi eccellenti, antiche e moderne. Il Leonbruno rimase a Roma poco più di un mese. Il 24 aprile 1521 Castiglione scriveva a Federico Gonzaga e ne annunciava il ritorno in patria, lamentando, però, che l’artista avrebbe dovuto restare più a lungo, per trarre il profitto che ci si era augurati:

Viene a vostra excellentia magistro Lorenzo pictore, al quale io ho fatto vedere più che mi è stato possibile; ma per haver piena notitia delle cose di Roma bisognerebbe starvi molto più: nientedimeno, penso che per questo poco tempo harà reportato assai buon frutto.53

«Più che mi è stato possibile», nel breve tempo a disposizione: e senza dubbio, come è stato precisato, l’esperto Castiglione avrà mostrato al Leonbruno, soprattutto, le «cose di Roma» più impor-tanti fra quelle prodotte nei due primi decenni del XVI secolo, che già godevano di fama enorme in tutta Italia, e che ancora oggi rimangono per proverbiale emblema di un’epoca e di una città, ossia la volta della Cappella Sistina, affrescata da Michelangelo, e

52 Le coordinate storiografiche essenziali, al proposito, sono tracciate in r. alhaiQue Pettinelli, Tra antico e moderno. Roma nel primo Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1991, e in g. savarese, La cultura a Roma tra Umanesimo ed ermetismo (1480-1540), Anzio, De Rubeis, 1993.

53 L. ventura, Lorenzo Leonbruno cit., p. 259.

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le Stanze di Raffaello (e poi le Logge vaticane e la decorazione della villa di Agostino Chigi, nonché la cupola della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo).54

Ma andare a Roma non era, si è detto, una passeggiata: la vita lì era dura e non semplice riusciva trovarsi uno spazio, tra le febbrili attività in corso, né tutti erano accolti a braccia aperte.55 Lo aveva imparato Ariosto, come è enfatizzato amaramente nelle Satire. E lo stesso Luca Signorelli, tra il 1513 e il 1514, giunse a Roma sperando di ottenere una commissione da Leone X e fu invece costretto a ripartire a mani vuote. La testimonianza rilasciata da Michelangelo, al proposito, in una lettera del maggio 1518 a Zanobi degli Albizi (Capitano di Custodia di Cortona), di cui si invocava l’intervento per avere indietro i denari prestati appunto, in quel difficile frangente, al Signorelli medesimo, è eloquente:

Send’io a·rRoma el primo anno di papa Leone, vi venne maestro Luca da Cortona pictore, e riscontrandolo un dì a presso a Monte Giordano, mi disse che era venuto a parlare al Papa per avere no’ mi ricordo che cosa, e che era già stato per essergli stato tagliata la testa per amore della casa de’ Medici, e che gli parea, come dire?, non essere riconosciuto. […] Passati alquanti giorni venne a casa mia dal Macello de’ Corvi, nella casa che io tengo ancora oggi, e trovommi che io lavoravo in sur una figura di marmo ricta, alta quatro braccia, che ha le mani drieto, e dolsesi meco e richiesemi d’altri quaranta giuli, che dice che se ne volea andare.56

Roma non era per tutti. Non era un soggiorno ameno, poiché, tra l’altro, obbligava il visitatore o residente a ridiscutere la pro-pria coscienza d’artista e d’umanista, al cospetto della nuova piega presa, in ambito culturale – oltre che politico e spirituale –, nel passaggio dall’epoca di Giulio II a quella di Leone X: e la lettera di Castiglione al signore di Mantova, che si è sopra citata, «sembra quasi una denuncia dell’atteggiamento del pittore di fronte alle cose che andava vedendo», refrattario rimanendo – il Leonbruno –, per

54 g. PranDi, Notizie storiche spettanti la vita e le opere di Lorenzo Leonbruno, Man-tova, Tipografia Virgiliana, 1825, pp. 7-9.

55 t. henry, La cultura artistica a Roma tra il 1510 e il 1514, in Correggio, Catalogo della mostra (Parma, 20 settembre 2008 - 25 gennaio 2009), a cura di L. Fornari Schianchi, Milano, Skira, 2008, pp. 135-139.

56 Michelangelo, Rime e lettere, a cura di P. Mastrocola, Torino, Utet, 1992, pp. 410-411.

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tenace fedeltà alle proprie origini, davanti agli strepitosi cantieri romani, da poco chiusi o ancora aperti dopo il 1520.57

Si insiste su Roma per verifica, se mai ce ne fosse bisogno, del teorema formulato da Dionisotti circa il mutamento o trapasso avvenuto, nella cultura italiana, tra il primo e il secondo decennio del secolo, quando su tutti i centri della vita reale, diplomatica e letteraria (in auge alla fine del Quattrocento), uno direttamente si impose, non senza riserve e compromessi, nell’età prima di Giulio II e poi di Leone X. «Insomma – scrive Dionisotti – a guardare Il Cortegiano del Castiglione in trasparenza e nel processo della sua composizione, non poco vi si trova che piuttosto sembra at-tenere al De Cardinalatu del Cortese. […] Attorno all’opera che glorifica una ideale società di gentiluomini laici, sembra addensarsi gradualmente l’ombra di un’altra società, di uomini vestiti con i panni purpurei della Curia».58

Ci si conceda, allora, un’ultima sosta romana. Il 16 giugno 1519, da Roma, Baldassarre Castiglione scrisse alla volta di Mantova almeno tre lettere, diverse per tenore e argomento, a Federico Gonzaga (sui timori d’una prossima «gran guerra» tra spagnoli e francesi), a Francesco Maria Della Rovere (per la difficile riappacificazione tra il duca espropriato e il papa Leone X), e a Isabella d’Este.59 Alla marchesa di Mantova in particolare, signora ineguagliabile nel mondo delle corti rinascimentali, era inviata una missiva densa di fatti ed eventi della scena culturale romana. Uno su tutti: «Nostro Signore – le scriveva Baldassarre – sta su la musica più che mai, e di varie sorti: si diletta anchor de la architettura, e va sempre facendo qualche cosa nova in questo palazzo. Et hor si è fornita una loggia dipinta e lavorata de stucchi, alla antica, opera di Ra-phaello, bella al possibile, e forsi più che cosa che si vegga hoggi dì de’ moderni».

Sembra che questa «loggia» vaticana possa valere per emblema di una fruizione specifica, tutta rinascimentale e cortigiana, dello spazio: si trattava infatti di una galleria semiprivata, al secondo piano

57 L. ventura, Lorenzo Leonbruno cit., p. 84.58 c. Dionisotti, Chierici e laici, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino,

Einaudi, 1971, pp. 84-85.59 B. castiglione, Le lettere, I, a cura di G. La Rocca, Milano, Mondadori, 1978, pp.

408-415 (la cit. che segue a p. 414).

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del palazzo progettato da Bramante per Giulio II (e terminato da Raffaello per Leone X: prendendo a modello lo schema del Co-losseo e del Tabularium), che il papa utilizzava per le udienze, per passeggiare coi consiglieri e i dignitari, oltre che per l’esposizione di statue antiche.60 Una loggia, inoltre, aperta, affacciata – allora – su un giardino segreto chiuso da muri e alberi ad alto fusto.

Un luogo per la civile e dotta conversazione (come già il Palazzo di Urbino), decorato con elegante sprezzatura, e attraversato da una fitta trama di riferimenti all’arte degli antichi (oltre che alla scultu-ra, alla pittura, allora conosciuta attraverso le rovine della Domus Aurea di Nerone), e alla natura del creato, inesauribili entrambe. E non sarebbe difficile scorgere, ancora oggi, nelle tredici campa-te della loggia, affrescate dalla bottega di Raffaello, la proiezione sintomatica degli interessi e degli svaghi del gentiluomo, laico o ecclesiastico, di una sua ecumenica concezione del mondo. La luce e il sole inondano fiori, piante, animali (rettili e roditori, uccelli e pesci), strumenti musicali, monete e gemme (le une copiate dal repertorio di circa duecento medaglioni di imperatori o personaggi celebri dell’antichità, allestito da Andrea Fulvio e pubblicato nel 1517; 61 le altre citate, oltre che come documenti dell’antico, per le proprietà magiche che erano loro attribuite), sculture e rilievi, scene bibliche (quattro per ogni campata), in una realizzazione affascinante per varietà e precisione (quasi prefigurazione delle ta-vole che illustreranno – alla fine del secolo – i trattati di zoologia, botanica, numismatica). Il visitatore era introdotto in un mondo di sogno, in cui la classicità è ritrovata in seno a una natura lieta e feconda, dove regnano, pur in un clima di dovizia e tripudio, la calma e la serenità: non solo un modernissimo inno a Leone X e al suo buon governo, in termini di grottesche, festoni e stucchi; ma anche un’originale sintesi del racconto biblico, dalla creazione del mondo fino all’Ultima Cena, con particolari dedotti, per esempio, dai mosaici di Santa Maria Maggiore o dagli affreschi paleocristiani di San Paolo fuori le Mura (era – la Bibbia di Raffaello, da lui

60 n. Dacos, Le Logge di Raffaello. L’antico, la Bibbia, la bottega, la fortuna, Città del Vaticano-Milano, Libreria Editrice Vaticana - Jaca Book, 2008.

61 a. Fulvio, Illustrium imagines. Imperatorum et illustrium virorum ac mulierum vultus ex antiquis numismatibus expressi, Romae, G. Mazzocchi, 1517 (poi riprodotto in fac-simile a cura di R. Peliti, e con una nota di R. Weiss, Roma, Stabilimento tipografico Julia, 1967).

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meticolosamente progettata in ogni dettaglio, ed eseguita dai suoi allievi – una ricostruzione interpretativa poggiante sulle figure di Mosè, Salomone e Cristo: un poema saturo di cultura e – al tempo stesso – umile e popolare, non drammatico ma felice, ed edificante, centrato sul tema della presenza rincuorante di Dio, del sostegno che il Creatore non si stanca di offrire al suo ‘popolo’).

Questo era lo spazio per l’uomo del Rinascimento, per il gen-tiluomo del Cortegiano: non un dato ma una ri-creazione, e una promessa. Si pensi, da ultimo, alle finissime quinte, paesaggistiche e architettoniche, che introducono il dialogo di Castiglione, e lo concludono: si ricordino, ai due estremi dell’opera, la «città in forma di palazzo» («nell’aspero sito di Urbino», «alle pendici dell’Ap-pennino, quasi al mezzo della Italia»), e «l’alta cima del monte di Catri» con le «mormoranti selve de’ colli vicini» (in «una bella aurora color di rose») – osservate, come in un quadro, da una fi-nestra. È uno spazio rassicurante e classicamente grammaticalizzato, colmo di «fiducia» nonostante la crisi e la vergogna «delle nostre ruine e della virtù prostrata» (I 43): un argine e un antidoto alle violenze e ai drammi della storia, per cui – finalmente – geogra-fia politica e percezione spirituale si raccordano. E perciò, anche, l’ipotesi – il sogno – di una storia diversa. L’ideale, per l’appunto, dell’umanesimo.62

uBerto Motta

62 Sulla valenza insieme realistica e modellizzante degli ‘spazi’ prospettati nel Libro di Baldassarre sia permesso rinviare a u. Motta, Castiglione e il mito di Urbino. Studi sulla elaborazione del «Cortegiano», Milano, Vita e Pensiero, 2003.