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Scetticismo e criticismo nel medioevo Alfonso Maierù e Luisa Valente 0. Introduzione 1. L’immagine dello scetticismo antico nel medioevo: da Agostino a Enrico di Gand 1.1. L’eredità tardo antica 1.2. Il Contra Academicos di Agostino 1.2.1. Importanza della ricerca della verità 1.2.2. Il criterio della verità zenoniano 1.2.3. Una confutazione della tesi dell’impossibilità di distinguere sogni e deliri dalla realtà 1.2.4. Interpretazione esoterica dello scetticismo accademico 1.2.5. Accadamici e platonismo cristiano 1.3. Immagine negativa dello scetticismo nell’Alto Medioevo 1.4. Dal dubbio alla questione e dalla questione alla verità. Abelardo 1.5. L’adesione allo scetticismo da parte di Giovanni di Salisbury 1.6. Condanna dello scetticismo ed elogio del dubbio nelle Sententiae Aristotelis 1.7. Scetticismo e neoplatonismo in Enrico di Gand 1.8. La certezza del Cogito 1.8.1. Il Cogito in Agostino 1.8.2. Il Cogito in Giovanni Scoto Eriugena 1.9. Conclusione 2. Il criticismo nel medioevo 2.1. La ricezione d’Aristotele: esaltazione dell’autorità del Filosofo 2.2. La critica ad Aristotele 2.3. La critica ad Aristotele circa l’universalità della logica e la fondazione della conoscenza 2.3.1. Le logiche speciali: logica della fede, logica della morale 2.3.2. Le discussioni ‘scettiche’ nel secolo XIV 2.3.2.1. Guglielmo d’Ockham 2.3.2.2. Nicola d’Autrécourt 2.3.2.2.1. La prima lettera a Bernardo d’Arezzo 2.3.2.2.2. La seconda lettera a Bernardo 2.4. Conclusione 0. Introduzione La speculazione filosofica medievale, nel mondo latino come in quello arabo, ebraico e greco-bizantino, si muove quasi esclusivamente nell’orizzonte segnato dalla religione, nel caso del mondo latino quella cristiana; in un orizzonte dunque caratterizzanto dal fondarsi sulla ‘certezza’ data dalle fede indiscussa in una ‘verità’ rivelata. Tuttavia, anche nel pensiero dei maestri medievali la risposta scettica all’antico interrogarsi intorno alle possibilità e ai limiti della conoscenza umana trova alcuni, seppur limitati, significativi spazi Considerando il tema della collocazione dello scetticismo nel medioevo bisogna cercare innanzitutto di distinguere tre diverse problematiche: I Conosce il medioevo (qui ci limiteremo a quello latino) lo scetticismo antico? II Si danno nel medioevo latino adesioni consapevoli ed esplicite alle antiche tesi scettiche, o esplicite confutazioni di esse? III Si possono rinvenire nel pensiero medievale tesi somiglianti a quelle caratteristiche dello scetticismo antico anche senza riferimenti espliciti ad esso?

Scetticismo e criticismo nel medioevo

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Scetticismo e criticismo nel medioevo Alfonso Maierù e Luisa Valente 0. Introduzione 1. L’immagine dello scetticismo antico nel medioevo: da Agostino a Enrico di Gand

1.1. L’eredità tardo antica 1.2. Il Contra Academicos di Agostino

1.2.1. Importanza della ricerca della verità 1.2.2. Il criterio della verità zenoniano 1.2.3. Una confutazione della tesi dell’impossibilità di distinguere sogni e deliri dalla realtà 1.2.4. Interpretazione esoterica dello scetticismo accademico 1.2.5. Accadamici e platonismo cristiano

1.3. Immagine negativa dello scetticismo nell’Alto Medioevo 1.4. Dal dubbio alla questione e dalla questione alla verità. Abelardo 1.5. L’adesione allo scetticismo da parte di Giovanni di Salisbury 1.6. Condanna dello scetticismo ed elogio del dubbio nelle Sententiae Aristotelis 1.7. Scetticismo e neoplatonismo in Enrico di Gand 1.8. La certezza del Cogito

1.8.1. Il Cogito in Agostino 1.8.2. Il Cogito in Giovanni Scoto Eriugena

1.9. Conclusione 2. Il criticismo nel medioevo

2.1. La ricezione d’Aristotele: esaltazione dell’autorità del Filosofo 2.2. La critica ad Aristotele 2.3. La critica ad Aristotele circa l’universalità della logica e la fondazione della

conoscenza 2.3.1. Le logiche speciali: logica della fede, logica della morale 2.3.2. Le discussioni ‘scettiche’ nel secolo XIV

2.3.2.1. Guglielmo d’Ockham 2.3.2.2. Nicola d’Autrécourt

2.3.2.2.1. La prima lettera a Bernardo d’Arezzo 2.3.2.2.2. La seconda lettera a Bernardo

2.4. Conclusione 0. Introduzione

La speculazione filosofica medievale, nel mondo latino come in quello arabo, ebraico e greco-bizantino, si muove quasi esclusivamente nell’orizzonte segnato dalla religione, nel caso del mondo latino quella cristiana; in un orizzonte dunque caratterizzanto dal fondarsi sulla ‘certezza’ data dalle fede indiscussa in una ‘verità’ rivelata. Tuttavia, anche nel pensiero dei maestri medievali la risposta scettica all’antico interrogarsi intorno alle possibilità e ai limiti della conoscenza umana trova alcuni, seppur limitati, significativi spazi

Considerando il tema della collocazione dello scetticismo nel medioevo bisogna cercare innanzitutto di distinguere tre diverse problematiche:

I Conosce il medioevo (qui ci limiteremo a quello latino) lo scetticismo antico? II Si danno nel medioevo latino adesioni consapevoli ed esplicite alle antiche tesi

scettiche, o esplicite confutazioni di esse? III Si possono rinvenire nel pensiero medievale tesi somiglianti a quelle caratteristiche

dello scetticismo antico anche senza riferimenti espliciti ad esso?

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A tutte e tre queste domande si può dare risposta affermativa, ma con delle importanti attenuazioni:

I Il medioevo conosce lo scetticismo antico? Sì, ma lo conosce poco, e soprattutto lo conosce attraverso mediazioni e non direttamente.

II Ci sono casi di adesioni consapevoli ed esplicite a tesi scettiche? Sì, ma sono casi estremamente rari. Inoltre, si tratta piuttosto di inviti alla cautela e alla modestia intellettuale e mai di posizioni radicali di invito alla sospensione del giudizio in ogni ambito della conoscenza. Per quanto riguarda le confutazioni dello scetticismo nel vero senso della parola, l’unica di cui siamo a conoscenza è ad opera di Agostino.

III Esistono nel pensiero del medioevo riflessioni che si possono accostare a quelle scettiche anche se non sono messe esplicitamente in relazione con lo scetticismo antico? Sì esistono, ma ben di rado giungono a costituire linee portanti nella costruzione filosofica di un singolo autore o di una scuola.

Nella prima parte di questo articolo ci soffermeremo sulle prime due questioni, considerando alcune emergenze di riferimenti allo scetticismo antico da Agostino al XIII secolo. Nella seconda parte, si prenderà in considerazione piuttosto il terzo quesito, esaminando alcuni temi presenti nel pensiero del tardo medioevo che hanno dato modo in passato di parlare di ‘scetticismo medievale’ – nozione storiografica, come si vedrà, che non manca di essere fuorviante.1

1. L’immagine dello scetticismo antico nel medioevo: da Agostino a Enrico di Gand 1.1. L’eredità tardo antica Nella tradizione latina medievale lo scetticismo antico è conosciuto molto limitatamente

e per via indiretta. Esiste una traduzione medievale delle Ipotiposi pirroniane di Sesto Empirico risalente alla fine del XIII o inizio del XIV secolo, ma non ebbe circolazione effettiva: nessun autore latino la cita.2 Il medioevo latino conobbe lo scetticismo secondo la forma che esso aveva ricevuto in Cicerone, in particolare nei suoi Libri Academici, attraverso alcune informazioni trasmesse da Lattanzio,3 e soprattutto attraverso la mediazione di Agostino. Questi infatti in uno dei suoi dialoghi giovanili o ‘filosofici’, il Contra Academicos, intreccia un fitto confronto critico con le tesi scettiche così come riteneva si trovassero presso l’Accademia Platonica all’altezza di Arcesilao. Agostino a sua volta in questo dialogo ha come fonte sostanzialmente Cicerone. Non stupisce dunque, date queste fonti, che i termini scepticus e derivati non compaiano fino agli anni ’30 del XV secolo, in seguito alla diffusione della traduzione di Diogene Laerzio effettuata da Traversari, e che in luogo di essi si usassero invece nel medioevo proprio il ciceroniano e agostiniano academicus e derivati.

1.2. Il Contra Academicos di Agostino 1.2.1. Importanza della ricerca della verità Il Contra Academicos4 ha la forma di un dialogo tra amici che si sarebbe svolto in una

villa a Cassiciàco, non lontano da Milano, dove Agostino si era ritirato in meditazione con alcuni compagni dopo la conversione e in attesa di ricevere il battesimo. In un momento

1 La prima parte di questo articolo è ad opera di Luisa Valente, la seconda di Alfonso Maierù. Sulla

tematica della discussa presenza di una riflessione di carattere scettico nel medioevo cfr. gli Atti del convegno tenutosi a Uppsala dal 6 all’8 maggio 2005 Skepticism in Medieval and Renaissance Thought.

2 Cavini 1977, Porro 1994, Grellard 2004. 3 Faes de Mottoni 1982. 4 Cfr. Agostino, Contro gli Accademici. Introduzione, traduzione, note e apparati di Giovanni Catapano,

Milano 2005 (cui rimandiamo per l’ampia bibliografia su quest’opera).

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quindi in cui l’incontro con la filosofia platonica da parte di Agostino è ancora recente e in cui, avendo superato sia la ‘fase’ manichea che quella scettica, egli ha già abbracciato in toto la fede cristiana.

Il tema della ricerca della verità, centrale nel dialogo, è per Agostino strettamente connesso a quello della felicità. Come viene detto nel proemio al secondo libro, il dedicarsi alla ricerca della verità e dunque alla filosofia è l’unico mezzo per accedere alla felicità. Con il suo dialogo Agostino intende rimuovere uno dei maggiori ostacoli sulla via della conoscenza e dunque della felicità: la disperazione, la mancanza di fiducia che sia possibile ottenere la verità, disperazione diffusa dalle argomentazioni scettiche della Nuova Accademia.

La fiducia nella possibilità di raggiungere la verità è dunque per Agostino una necessità che potremmo dire esistenziale, in quanto condizione della realizzazione dell’essere stesso dell’uomo. Agostino trova anche il modo di dare a questa fiducia un fondamento scritturale. Il proemio al secondo libro si chiude infatti significativamente con il richiamo al versetto evangelico “Quaerite et invenietis”, “Cercate e troverete” (nel discorso alle folle: Matteo 7,7 e Luca 11, 9). La fiducia nella possibilità di trovare la verità viene cioè appoggiata sull’autorità scritturale e nientemeno che sulle parole di Cristo.

Tuttavia la fiducia evangelicamente fondata nella possibilità del rinvenimento di verità certe è accompagnata da un invito a non ammettere come verità se non quelle conoscenze che si presentano con la stessa evidenza delle verità matematiche: “Ma ora dico a entrambi: guardatevi dal credere di sapere qualche cosa se non l’avete appresa almeno con la stessa certezza con la quale sapete che uno, due, tre e quattro, sommati fra loro, fanno dieci. Ma guardatevi parimenti dal credere che la verità in filosofia o non la conoscerete mai o non possa essere in alcun modo conosciuta con la medesima certezza! Fidatevi di me, o meglio fidatevi di Colui che dice: Cercate e troverete (Matteo 7,7), e credete che non solo non bisogna perdere la speranza di raggiungere la conoscenza, ma essa sarà ancor più evidente di quanto lo siano quei numeri”.5

L’atteggiamento di Agostino in tutto il dialogo è dunque duplice: da una parte egli intende confutare gli argomenti scettici per aprire la via alla realizzazione dell’uomo, alla sua felicità e alla sua ascesa verso Dio; dall’altra accoglie dello scetticismo l’invito a non concedere facilmente il carattere di certezza a conoscenze che non siano solidamente fondate.

1.2.2. Il criterio della verità zenoniano Gli Accademici infatti, dice Agostino, hanno desunto la loro convinzione che non sia

possibile raggiungere la verità a partire dalla definizione di rappresentazione vera data dagli stoici e in particolare da Zenone. Secondo tale definizione è vera solo quella rappresentazione (fantasia cataleptica) che ha caratteri tali da distinguerla in modo immediato ed evidente dalle reppresentazioni false. Poiché nessuna percezione possiede tali caratteri di certezza, gli scettici deducevano l’impossibilità di qualsiasi conoscenza vera: “Che tutto sia incerto, non solo lo affermavano, ma anche lo confermavano con abbondanti argomentazioni. Essi parevano però aver tratto il concetto che il vero non si può comprendere dalla famosa definizione dello stoico Zenone, il quale dice che può essere conosciuto con certezza quel vero che sia stato impresso nell’animo in modo talmente conforme a ciò da cui proviene, da non poter essere conforme a ciò da cui non proviene. … Gli Accademici spesero tutte le loro energie proprio per dimostrare che un vero come questo non può essere trovato. Di lì vennero in voga, nella difesa di quella causa, i dissensi dei filosofi, di lì gli inganni dei sensi, di lì i sogni e i

5 Contra Academicos II, 9, p. 152 s.: “ Sed nunc ambobus dico : cavete, ne quid vos nosse arbitremini,

nisi quod ita didiceritis saltem, ut nostis unum duo tria quattuor simul collecta in summam fieri decem. Sed item cavete, ne vos in philosophia veritatem aut non cognituros aut nullo modo ita posse cognosci arbitremini. Nam mihi credite, vel potius illi credite, qui ait: quaerite et invenietis, nec cognitionem desperandam esse et manifestiorem futuram, quam sunt illi numeri”.

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deliri, di lì i mentitori e i soriti”.6

Agostino da parte sua accetta la definizione zenoniana di verità (che dice essere omnino verissima), ma non ne trae come gli scettici la conseguenza dell’impossibilità di conoscenze certe. Anche lo scettico infatti, dice Agostino, messo alle strette deve ammettere di poter conoscere almeno qualcosa come vero in questo senso forte – non fosse altro perché riconosce la verità della definizione stessa.

Va però detto che l’adesione di Agostino alla definizione stoica di rappresentazione vera ne comporta uno stravolgimento, in quanto presso gli Stoici la definzione concerneva in prima istanza l’evidenza della sensazione, mentre Agostino, nel fare propria la definizione zenoniana, la legge in chiave neoplatonica: vera non può essere una rappresentazione sensibile, che in quanto tale è al massimo ‘verisimile’, ma vero può essere solo, come vedremo, un contenuto intelligibile.7

1.2.3. Una confutazione della tesi dell’impossibilità di distinguere sogni e deliri dalla

realtà Alla fine del passo appena letto, Agostino elenca le grandi classi di argomentazioni

scettiche: errori dei sensi, impossibilità di distinguere le conoscenze vere dai sogni e dai deliri, paradossi ecc. Queste argomentazioni scettiche vengono confutate da Agostino nella cosiddetta oratio perpetua, cioè il lungo discorso che chiude il terzo libro dell’opera.

Soffermiamoci sulla confutazione dell’argomentazione scettica secondo cui non ci sono tratti che permettano di distinguere chiaramente le rappresentazioni - che si presumono false - dei sogni e dei deliri dei pazzi da quelle dei sani che si presumono vere, e che di conseguenza, di nulla si può avere certezza.

Una delle numerose confutazioni agostiniane di questa argomentazione è che anche nei sogni e nei ragionamenti dei pazzi le leggi logiche e quelle matematiche restano vere. Agostino cioè concorda con gli scettici nel sostenere che le sensazioni non rivestono caratteri di evidenza e possono ingannare.8

Ma il piano della conoscenza sensibile non interessa ad Agostino: quello che gli interessa è di raggiungere un piano di certezza incontrovertibile, e tale certezza per lui si può trovare nell’ambito dell’intelleggibile. La massima evidenza è infatti quella posseduta dalle leggi della logica e della matematica. Per le leggi logiche l’esempio è quello della verità delle disgiunzioni di due proposizioni contraddittorie. Anche ammesso che non si possa determinare se il mondo continui ad esistere quando dormiamo, tuttavia l’affermazione secondo cui il mondo o è uno o non è uno è necessariamente vera. Per le leggi matematiche l’esempio è che anche in queste condizioni di incertezza inevitabilmente un mondo più sei mondi non possono non fare sette mondi.9 Già la certezza delle leggi della logica e della

6 Ivi II,11, p. 158: “Et omnia incerta esse non dicebant solum verum etiam copiosissimis rationibus adfirmabant. Sed verum non posse comprehendi ex illa Stoici Zenonis definitione arripuisse videbantur, qui ait id verum percipi posse, quod ita esset animo inpressum ex eo, unde esset, ut esse non posset ex eo, unde non esset. … Hoc prorsus non posse inveniri vehementissime ut convincerent incubuerunt. Inde dissensiones philosophorum, inde sensuum fallaciae, inde somnia fuororesque, inde pseudomenoe et soritae in illius causae patrocinio viguerunt”.

7 Cfr. ivi III, 37, p. 280. 8 Anche se, rileva sempre Agostino, soggettivamente parlando le sensazioni sono sempre vere. E’ vero

cioè che i sensi ingannano, si pensi all’esempio del remo che appare spezzato nell’acqua e simili. Tuttavia l’esperienza della singola sensazione in quanto tale, ‘come sensazione’, è certa per colui che la esperisce. Solo, non si può inferire con certezza che le cose oggettivamente stiano così come sono esperite. Cfr. Contra Academicos, III, 26.

9 Ivi III, 25, p. 250: “Quam ob rem hoc dico, istam totam corporum molem atque machinam, in qua sumus sive dormientes sive furentes sive vigilantes sive sani, aut unam esse aut non esse unam. Edissere,

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matematica dunque confuta secondo Agostino la tesi scettica dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere conoscenze vere.

1.2.4. Interpretazione esoterica dello scetticismo accademico Secondo Agostino, peraltro, nemmeno gli scettici credevano veramente in quello che

dicevano quando sostenevano l’inconoscibilità assoluta della verità e la necessità di sospendere l’assenso. Essi avrebbero sostenuto queste tesi in funzione antimaterialistica. Il materialismo di origine stoica ed epicurea infatti avrebbe dominato le menti all’epoca della Nuova Accademia di Arcesilao, e per difendersi da questo dilagare di tesi materialiste gli Accademici si sarebbero decisi a nascondere le loro vere convinzioni e a trasmetterle in segreto.10 In realtà gli Accademici nel loro insegnamento esoterico sostenevano, per Agostino, teorie che erano perfettamente in linea con l’insegnamento di Platone. Tale insegnamento è da Agostino riassunto nella tesi dell’esistenza di due mondi, quello sensibile e quello intelleggibile. Solo quello intelleggibile sarebbe la sede della verità, e compito dell’uomo sarebbe sollevarsi ad esso sfuggendo alla compromissione col sensibile.

1.2.5. Accademici e platonismo cristiano Alla fine del Contra Academicos la vera filosofia dell’Accademia viene in fondo a

coincidere con il platonismo professato dallo stesso Agostino, un platonismo però chiaramente e fortemente corretto in senso cristiano: “… poiché non mancarono uomini acutissimi a insegnare che Aristotele e Platone si accordano … è stato depurato (con molti secoli e molte dispute), io credo, un solo sistema di filosofia verissima. Essa non è infatti una filosofia di questo mondo, che i nostri testi sacri giustissimamente esecrano, ma dell’altro intelleggibile, al quale però codesta ragione finissima non avrebbe mai richiamato le anime … se il sommo Iddio, con una specie di clemenza popolare, non avesse piegato e abbassato fino al corpo umano stesso l’autorità dell’Intelletto divino…”11

1.3. Immagine negativa dello scetticismo nell’Alto Medioevo La ricchezza e lo spessore filosofico di Agostino vanno persi nei primi secoli del

medioevo. Cenni molto sintetici e fortemente critici alle dottrine scettiche si trovano negli enciclopedisti tardoantichi e altomedievali, in particolare Isidoro di Siviglia e Rabano Mauro. Rabano Mauro nel IX secolo afferma, riprendendo probabilmente spunti che si trovano già in Girolamo e Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo), che gli Accademici erano eretici, dediti al godimento dei tutti i piaceri mondani, e li associa in questo agli Epicurei, agli Stoici e addirittura ai Peripatetici.12

1.4. Adesione allo scetticismo da parte di Giovanni di Salisbury?

quomodo ista possit falsa esse santentia…. Si autem unus et sex mundi sunt, septem mundos esse, quoquo modo affectus sim, manifestum est et id me scire non impudenter affirmo. Quare vel hanc conexionem vel illas superius disiunctiones doce somno aut furore aut vanitate sensuum posse esse falsas et me, si expergefactus ista meminero, victum esse concedam”.

10 Ivi III, 38, p. 282. 11 Ivi III, 42, p. 288 s.: “ … quia non defuerunt acutissimi et sollertissimi viri, qui docerent

disputationibus suis Aristotelem ac Platonem ita sibi concinere… multis quidem saeculis multisque contentionibus, sed tamen eliquata est, ut opinor, una verissimae philosophiae disciplina. Non enim est ista huius mundi philosophia, quam sacra nostra meritissime detestantur, sed alterius intellegibilis, cui animas multiformibus erroris tenebris caecatas et altissimis a corpore sordibus oblitas nunquam ista ratio subtilissima revocaret, nisi summus deus populari quadam clementia divini intellectus auctoritatem usque ad ipsum corpus humanum declinaret atque submitteret…”. Cfr. anche III, 43, p. 292.

12 Cfr. Faes de Mottoni 1981.

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Allo stato attuale delle conoscenze, Giovanni di Salisbury, nel XII secolo, sembra essere stato il primo ad avanzare in modo esplicito una rivalutazione dello scetticismo. Giovanni dichiara esplicitamente di seguire le orme degli scettici nel dubitare di quelle cose circa le quali non sembra possibile trovare risposte certe: “… nelle discussioni filosofiche mi sono attenuto alle posizioni che risultavano probabili, disputando razionalmente al modo degli Accademici. Né mi vergogno di professarmi seguace degli Accademici, dato che nelle cose che agli occhi del saggio sono oggetto di dubbio non mi distacco dalle loro orme. Per quanto infatti sembri che questa setta getti tenebre su tutte le cose, tuttavia nessun’altra è più vicina di questa alla verità che deve essere indagata, e come asserisce Cicerone che ad essa aderì in vecchiaia nessuna è più contigua al progresso. Dunque per quanto riguarda argomenti come la provvidenza, il fato, il libero arbitrio e cose simili, ritieni piuttosto che io sia un accademico e non un assertore temerario di cose dubbie.”13

Siamo tuttavia ben lungi da un’autentica professione di scetticismo nel senso antico. Giovanni non ritiene affatto che si debba sospendere il giudizio in generale su ogni conoscenza. Si tratta invece sostanzialmente di un invito alla modestia intellettuale: riconoscere il fatto che, nel caso di argomenti probabili, cioè che è possibile sottoporre ad una disanima razionale, ma dubbi, cioè sui quali non si giunge a soluzione certa, è opportuno astenersi da asserzioni definitive. Giovanni afferma in modo molto netto che dubitare di tutto è insano e indegno della professione di filosofi.14 E’ contro questo tipo di Accademici, scrive Giovanni, che hanno rivolto le loro critiche Agostino e Cicerone, i quali però hanno accettato della posizione accademica molti aspetti che sono utili nel rispetto della verità. In definitiva, la professione di scetticismo è compatibile in Giovanni sia con una certa fiducia nei dati dei sensi e della ragione, sia e soprattutto con la saldezza della fede. L’interesse della posizione di Giovanni risiede proprio nel fatto che essa mostra la compatibilità tra la fede, la fiducia nelle possibilità di conoscere in ampi ambiti del sapere, e una forma, sia pure assai moderata, di scetticismo: il dubbio applicato con discernimento risulta utile ai fini di avvicinarsi alla verità che si deve ricercare.

1.5. Dal dubbio alla questione e dalla questione alla verità. Abelardo. Va a questo proposito fatto un cenno al metodo della ‘questione’ e alla tesi medievale

della sua origine dallo stato intellettuale del dubbio. Sia come pratica scolastica che come genere letterario, la questio ha radici già nell’antichità, ma diviene fondamentale nel medioevo. In particolare nel XII secolo il metodo della questione da un lato si afferma sempre più nella pratica di scuola e come genere letterario, soprattutto in teologia; dall’altro è non di rado fatto oggetto di attenta riflessione di carattere metodologico.15

Una questione può prodursi dal rilevare una contraddizione fra passi autoritativi, ad esempio dei Padri. I maestri medievali sono ben lungi da limitarsi a constatare la contraddizione e ancor meno dall’usarla per mostrare l’impossibilità di trovare la verità

13 Policraticus, Prol., ed. K.S.B. Keats-Rohan, Turnhout 1993 (CCCM 118), pp. 25 s., ll. 132-142: “... in philosophicis Academice disputans pro rationis modulo quae occurrebant probabilia sectatus sim. Nec Academicorum erubesco professionem, qui in his quae sunt dubitabilia sapienti ab eorum uestigiis non recedo. Licet enim secta haec tenebras rebus omnibus uideatur inducere, nulla ueritati examinandae fidelior et, auctore Cicerone qui ad eam in senectute diuertit, nulla profectui familialior est. In his ergo quae incidenter de prouidentia et fato et libertate arbitrii et similibus dicta sunt, me Academicum potius esse noueris quam eorum quae dubia sunt temerarium assertorem”. Cfr. anche Policraticus, l. VII, cap. 1, ed. C.C.J. Webb, 2 voll., Oxford 1909, vol. II, pp. 93-99.

14 Ivi, p. 97, ll. 10-16: “Qui ergo ad singula nescii sunt, qua temeritate uel impudentia philosophandi professionem arripiunt? ... inanis est ratio hominis cui nihil persuaderi potest quin semper et in omnibus opinionum lubrico vacillet”.

15 Sulla formazione del metodo della questione nel XII secolo cfr., con molte traduzioni di testi medievali e di articoli sull’argomento, P. Feltrin e M. Rossini (edd.) 1992.

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secondo il metodo scettico del rilievo delle contraddizioni dei filosofi. Piuttosto, essi prendono da essa lo spunto per esaminare i testi apparentemente contrastanti nell’intento di trovarne la concordanza. Oppure, una questione può prodursi a partire dal dubbio di fronte ad una tesi. Si raccolgono allora le opinioni a favore e quelle contrarie, e dal confronto tra queste si giunge alla soluzione. Questo genere di questiones dunque si articola, nella sua forma più semplice, nella presentazione della tesi da discutere, nell’elenco delle argomentazioni in favore (pro) e di quelle contrarie (contra), infine in una soluzione (solutio o determinatio) seguita dalla confutazione delle argomentazioni contrarie ad essa. Abbiamo perciò anche in questa forma letteraria il dubbio come punto di partenza per un procedimento che è finalizzato a superare il dubbio stesso.

Già in questo senso si muove un famoso passo di Abelardo contenuto nel prologo al Sic et non, che raccoglie sentenze contrastanti dei Padri. Al fine di invitare il lettore ad accostarsi fiducioso al metodo del dubbio Abelardo chiama a sostegno sia l’autorità evangelica che quella di Aristotele. Significativamente, egli si rifà proprio al passo evangelico ricordato anche da Agostino nel Contra Academicos, “Quaerite et invenietis”, che però associa ad una citazione tratta delle Categorie aristoteliche: “Dubitare de singulis non est inutile”, “Dubitare delle singole cose non è inutile”. La constatazione delle contraddizioni dei Padri, scrive Abelardo, induce all’interrozione, e quindi al dubbio. Attraverso il dubbio si perviene alla ricerca (inquisitio) e quindi al raggiungimento della verità: “Dopo aver premesso le cose dette, è opportuno, come ci siamo proposti, raccogliere diversi detti dei santi Padri … che comportano una questione a causa di un qualche divergenza che sembrano presentare (gli uni rispetto agli altri). Tali passi dovranno provocare i giovani lettori al più alto esercizio di indagine della verità in modo da renderli più penetranti. La prima chiave della sapienza è l’interrogazione assidua e frequente; a raggiungere la quale con tutto il desiderio Aristotele, quell’acutissimo filosofo, esorta parlando della categoria della relazione, quando dice: “Forse è difficile su questo genere di cose prendere posizioni sicure senza che siano state a lungo indagate. Ma dubitare delle singole cose non è inutile”. Dubitando infatti giungiamo alla ricerca, e ricercando conosciamo la verità. Secondo quanto dice anche la Verità stessa quando dice “Chiedete et troverete, bussate e vi sarà aperto”.16

1.6. Condanna dello scetticismo ed elogio del dubbio nelle Sententiae Aristotelis Un invito alla pratica moderata del dubbio simile a quello di Abelardo e di Giovanni di

Salisbury si trova in una raccolta di affermazioni di Aristotele e di altri filosofi di autore incerto, ma con ogni probabilità non anteriore al XIII secolo. Una delle ‘sentenze’ commentate è il passo aristotelico già richiamato da Abelardo “Dubitare de singulis non est inutile”. Anche qui come in Giovanni di Salisbury gli scettici sono presentati come coloro i quali dubitano di tutto sostenendo che di nulla si può avere conoscenza, e la loro posizione è decisamente condannata. Tuttavia, tale condanna è inserita in un contesto di netta adesione al metodo del dubbio, a patto che sia esercitato entro limiti definiti. Il dubbio va cioè seguito nella misura in cui non investe quelle verità talmente manifeste che dubitarne è sciocco, e aiuta invece a raggiungere la verità sulle questioni di cui si può argomentare tramite la ragione. Gli scettici antichi sono dunque anche qui condannati per la loro asserzione che di

16 Abelardo, Sic et non, Prologo, ed. Boyer e McKeon, p. 103 s.: “ His autem praelibatis placet, ut

instituimus, diversa sanctorum patrum dicta colligere … aliquam ex dissonantia quam habere videntur quaestionem contrahentia, quae teneros lectores ad maximum inquirendae veritatis exercitium provocent et acutiores ex inquisitione reddant. Haec quippe prima sapientiae clavis definitur assidua scilicet frequens interrogatio; ad quam quidem toto desiderio arripiendam philosophus ille omnium perspicacissimus Aristoteles in praedicamento Ad Aliquid studiosus adhortatur dicens, “Fortasse autem difficile est de huiusmodi rebus confidenter declarare nisi saepe pertractata sint. Dubitare autem de singulis non erit inutile.” Dubitando quippe ad inquisitionem venimus; inquirendo veritatem percipimus. Iuxta quod et Veritas ipsa Quaerite inquit et invenietis, pulsate et aperietur vobis”.

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tutto si debba dubitare, e tuttavia si presenta la pratica del dubbio come utile al fine di valutare i pro e i contra delle questioni e giungere così a soluzioni razionalmente motivate.17

1.7. Scetticismo e neoplatonismo in Enrico di Gand Dopo quella di Giovanni di Salisbury nel XII secolo, troviamo un’altra ripresa esplicita

delle tesi scettiche nel XIII secolo con Enrico di Gand († 1293). Qui non si tratta tanto di un elogio del dubbio, quanto di un’assimilazione delle teorie accademiche e agostiniane ad un orizzonte gnoseologico e metafisico di chiaro stampo neoplatonico. In polemica contro la teologia aristotelico-tomista, Enrico costruisce nei Quodlibet e nella Summa un raffinato sistema teologico-metafisico che si richiama in particolare al neoplatonismo di Avicenna e ad Agostino. La posizione di Enrico di Gand rispetto alle scetticismo accademico è funzione delle sue tesi gnoseologico-metafisiche. Secondo una teoria tratta da Anselmo di Canterbury, la verità di una cosa è per Enrico la conformità di essa al suo exemplar. Tuttavia, afferma Enrico, esistono due esemplari, quello prodotto dalla mente umana tramite l’astrazione (il primo exemplar), e l’idea divina della res (il secondo exemplar). Tramite la percezione sensibile possiamo sì raggiungere una certa forma di conoscenza vera delle cose (in questo senso la gnoseologia aristotelica è ripresa e ammessa da Enrico); tuttavia questa non è la verità assoluta della cosa stessa, la sua syncera veritas (sintagma agostiniano). Quest’ultima infatti si può raggiungere solo tramite il confronto con l’idea divina, e dunque tramite l’ausilio della illuminazione. In questo quadro, Enrico fa sua l’interpretazione agostiniana della posizione accademica come una posizione platonica mascherata. Gli Accademici avrebbero negato che si possa conoscere alcunché per contrastare il materialismo stoico. In realtà essi ammettevano una certa conoscenza della verità basata sui sensi (aliqualis notitia veritatis) ma non le davano il nome di scienza. Invece, negavano che sia possibile conoscere la verità ultima (syncera veritas) delle cose se non tramite il confronto con l’idea divina (exemplar secundum) permesso dall’illuminazione.18

Più tardi, ed è questo un punto di continuità tra medioevo ed epoca moderna, Gianfrancesco Pico farà propria, richiamandovisi esplicitamente, questa posizione di Enrico di Gand e le sue tesi gnoseologiche, allineando sulla base di un’interpretazione neoplatonica

17 Ps. Beda, Sententiae, Sive Axiomata Philosophica ex Aristotele et Aliis … PL 90, col. 990 B-C :

“ Dubitare de singulis non est inutile (Per Philosophum in praedicamento Relationis et Metaph.). Intelligitur dubitare per rationes de singulis non per se manifestis, et sufficienter determinatis, hoc est, non inutile. De manifestis enim dubitare, et jam sufficienter determinatis, non solum inutile, sed etiam stultum et perniciosum est ambigere. Unde non immerito etiam dicunt theologi quod dubius in fide infidelis sit… Non inutile est ergo in talibus utrinque ambiguis dubitare, neutri parti omnino firmiter adhaerendo. Nam (ut vulgari jactatum est proverbio) Qui nihil scit, nihil dubitat, etc. Eodem pertinet illa aliorum expositio: Dubitare de singulis non est inutile, non ita debet accipi, quasi omnia sunt incomprehensibilia; ac de iis nihil statui ac decerni possit, quid verum, quid falsum, uti Academici et Pyrrhoni fecerunt de omnibus dubitantes, ac nos nihil scire posse affirmantes: qua απορήτικοι, id est ambigentes, appellati sunt, ut Gellius, lib. II, cap. 5, testatur. Sed is est Aristotelis sensus: Dubitare de utraque parte contradictionis propter rationes probabiles ad dubitandum urgentes, est valde utile. Unde si quis sine ratione dubitat, tunc erit potius inutile” (corsivi miei)

18 Enrico di Gand, Summa, art. I, q. 2, Parisiis 1520, rist. anast. New York – Leuven – Paderborn 1953, f. 5vF-G: “Patet etiam quod certam scientiam et infallibilem veritatem si contingat hominem cognoscere, hoc non contingit ei aspiciendo ad exemplar abstractum a re per sensus quantumcumque sit depuratum et universale factum. Propter quod primi Academici sententiam Platonis imitantes (iidem quippe sunt Academici qui Platonici, ut dicit Augustinus in epistola ad Dioscorum) negabant aliquid omnino scire contra Stoicos, qui solum ponebant sensibilia in mundo, et hoc intelligendo de notitia veritatis syncerae, ponendo omnem notitiam veritatis syncerae de quacumque re haberi non posse, nisi aspiciendo ad exemplar secundum. Qui tamen bene discernebant quod aliqualis notitia veritatis posset percipi per sensus, et mediantibus sensibus per intellectum, quam tamen putabant non mereri scientiam dici”.

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Agostino e gli Accademici, e mostrando così la compatibilità dell’atteggiamento scettico con i fondamenti del sapere cristiano.19

1.8. La certezza del Cogito Sulla base delle cose viste finora si può dire che non si dà nel medioevo un’esperienza

del dubbio ‘sistematico’ in una cornice scettica, bensì quella di un dubbio ‘costruttivo’. Tuttavia in alcuni contesti si ipotizza, quasi come una sorta di esperimento mentale, uno

stato di dubbio portato all’estremo. E’ il caso del famoso argomento del cogito, così chiamato a partire dalla sua formulazione più famosa, quella cartesiana. Qui il dubbio è portato all’estremo per giungere ad argomentare l’evidenza di una certezza minima ma intaccabile, quella della propria esistenza, dedotta dal fatto stesso di pensare, di interrogarsi, di dubitare, o di rischiare di cadere in errore. Due sono gli autori da prendere qui in considerazione: Agostino e Giovanni Scoto Eriugena.

1.8.1. Il Cogito in Agostino Negli scritti di Agostino l’argomentazione del Cogito è presente a più riprese a partire

dai Dialoghi giovanili fino agli scritti dell’età matura,20 per quanto singolarmente non se ne trovi se non una labile traccia proprio là dove uno più se l’aspetterebbe, cioè nel Contra Academicos. Nel De trinitate l’argomento si presenta molto più maturo ed dispiegato che negli scritti giovanili.21 Agostino lo menziona in due luoghi, X, x, 14 e XV, xii, 21. Nel libro XV il riferimento agli Scettici è esplicito. La certezza di vivere si deduce proprio dalla possibilità di sbagliare: “Qui fallitur, vivit”. Agostino dichiara che si tratta di una intima scientia, non dipendente dai sensi e quindi saldissima. Tale intima scientia è paradossalmente fondata proprio sull’accoglienza della tesi secondo cui è possibile che i sensi ingannino: solo chi vive infatti è nella condizione di potersi sbagliare.22 Nell’altro passo del De trinitate la certezza di vivere è basata non tanto sulla possibilità di errare quanto proprio sul dubbio stesso. Agostino coglie quello che si può definire l’aspetto ‘trascendentale’ dell’argomento del cogito: non è lecito dubitare di ciò che è precondizione dello stesso dubbio; dunque non si può dubitare della propria vita.23

1.8.2. Il Cogito in Giovanni Scoto Eriugena Ragionamenti simili a questi di Agostino si trovano nel IX secolo in Giovanni Scoto

Eriugena, il grande pensatore d’ispirazione neoplatonica dell’epoca carolingia. Nel Periphyseon Eriugena stabilisce che chiunque si ponga anche solo la questione se lui stesso esista o meno, necessariamente esiste, perché se non esistesse non potrebbe nemmeno sapere di non sapere se esiste. Anche chi non sappia di vivere, conoscerà almeno la propria ignoranza, e dunque possiederà qualche conoscenza.24

19 Cfr. Porro 1994, pp. 251-253. 20 Cfr. Marrou 1955, pp. 96-97, Boyer 1937, Bermon 2001. 21 Cfr. De beata vita 2.7; Soliloqui II, 1,1; De libero arbitiro II, 3, 7, 20. 22 Cfr. anche De civitate dei XI, 26. 23 De trinitate X x, ed. W.J. Mountain e Fr. Glorie, Turnhout 1968 (CCSL 50 et 50A), vol. I, p. 327 s.:

“Viuere se tamen et meminisse et intellegere et uelle et cogitare et scire et iudicare quis dubitet? Quandoquidem etiam si dubitat, uiuit; si dubitat, unde dubitet meminit; si dubitat, dubitare se intellegit; si dubitat, certus esse uult; si dubitat, cogitat; si dubitat, scit se nescire; si dubitat, iudicat non se temere consentire oportere. Quisquis igitur alicunde dubitat de his omnibus dubitare non debet quae si non essent, de ulla re dubitare non posset”.

24 Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, lib. IV, ed. É. Jeauneau, Turnhout 2000 (CCCM 164), p. 5, ll. 1396-1410: “Scio enim me esse, nec ego praecedo scientiam mei (altra versione: nec tamen me praecedit scientia mei), quia non aliud sum et aliud scientia qua me scio; et si nescirem me esse, non nescirem ignorare me esse. Ac per hoc, siue sciuero, siue nesciuero me esse, scientia non carebo: Mihi enim remanebit scire

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Non può non venire in mente di accostare a questi testi l’argomentazione cartesiana del cogito: la famosa deduzione della propria esistenza, certa al di là di ogni dubbio suscitato dalle argomentazioni degli scettici, dal fatto stesso di pensare che è esposta sia nella Meditazione Seconda che nel Discorso sul metodo (parte IV). Il grande studioso del pensiero medievale e di Cartesio Étienne Gilson25 presenta i passi agostiniani che abbiamo menzionato come precorrimenti del cogito di Cartesio. Anche se non è accertato se e in quale misura Cartesio avesse presente Agostino, la somiglianza tra i ragionamenti di Agostino, quelli di Eriugena e quelli di Cartesio è evidente. Va ad ogni modo tenuto presente che nell’Agostino maturo come in Eriugena il cogito aveva sostanzialmente il fine di condurre a cogliere nell’anima le traccie della trinità, non escludento come esito la convinzione dell’impossibilità di una conoscenza della vera essenza umana. Differentemente, in Cartesio il cogito diviene il punto di partenza di una grande costruzione scientifica e metafisica basata sulla conoscenza dell’essenza dell’uomo quale sostanza pensante.26

1.9. Conclusione In definitiva, si può dire che nel periodo che va da Agostino al XIII secolo la presenza

dello scetticismo antico è episodica, e che non ci sia stato qualcosa come una ripresa cosciente di esso se non nella forma di un moderato invito alla prudenza intellettuale. E tuttavia le poche e indirette conoscenze che dello scetticismo antico avevano i medievali hanno contribuito a stimolare riflessioni significative su temi che poi si riveleranno centrali nel pensiero moderno: l’utilità della critica e del dubbio, l’attenzione alle problematiche dei limiti della possibilità di conoscere, l’emergere della dimensione dell’autocoscienza con le poche ma salde certezze che da essa derivano.

2. Il criticismo nel medioevo Nella prima metà del secolo scorso lo studioso polacco Konstanty Michalski (1879-

1947), formatosi nell’università cattolica di Lovanio dove si erano affermate posizioni neoscolastiche, pubblicò vari saggi nei quali individuava fonti e motivi di scetticismo e di criticismo del secolo XIV27. La storiografia successiva ha mostrato che lo scetticismo non ha trovato sostenitori espliciti nel medioevo (a parte il caso di Giovanni di Salisbury, di cui si è detto)28, mentre il ‘criticismo’ è stato atteggiamento diffuso dalla fine del secolo XIII in poi. Con ‘criticismo’ si intende in primo luogo l’atteggiamento critico verso dottrine filosofiche adottate nel secolo XIII dopo l’arrivo della filosofia aristotelica (nelle ‘sintesi’ scolastiche)29; ma, più propriamente, con quel termine si intende l’esame serrato delle modalità della conoscenza umana e dei limiti della ragione naturale, esame da cui nacque la critica alla scolastica precedente30. ignorantiam meam. Et si omne quod potest nescire se ipsum, nescire non potest se esse (nam si penitus non esset, non sciret se ipsum nescire), conficitur omnino esse omne quod scit se esse, uel scit nescire se esse”. Sul tema del cogito in Eriugena a confronto con quello agotiniano cfr. Stock 1977 e Jeauneau 1995.

25 Cfr. Gilson 1930, pp. 191 ss. e Gilson 1983, pp. 57 ss. 26 Cfr. Jeauneau 1995, p. 107. 27 I vari saggi sono ora raccolti in Michalski 1969. Secondo Boehner 1958, p. 292, a Michalski si deve

la “creazione degli scettici del medioevo”, la quale “necessita di una revisione completa”: una tale revisione si è avuta per Ockham (Boehner 1258 e Adams 1987) e per Nicola d’Autrécourt (Kaluza 1995 e Grellard 2005); esamineremo perciò questi due autori per i quali si dispone di strumenti adeguati (per Nicola si aspetta l’edizione critica dell’Exigit ordo).

28 Ma cfr. ancora Kennedy 1983; per Giovanni di Salisbury, cfr. sopra il contributo di Luisa Valente. 29 Cfr. De Wulf 1949, II, pp. 391-392 (“§ 3. Il patrimonio comune”); III, p. 243 (“Alla fine del sec. XIII

la filosofia si era cristallizzata in sintesi possenti, con una fisionomia ben marcata”). 30 De Rijk 1986, pp. 214-218.

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2.1. La ricezione d’Aristotele: esaltazione dell’autorità del Filosofo L’arrivo della filosofia d’Aristotele nell’Occidente latino fu salutato come l’acquisizione

del frutto più alto della ragione umana nella sua esplicazione puramente naturale. La ricezione delle opere aristoteliche fu infatti accompagnata dall’esaltazione dell’eccellenza intellettuale dello Stagirita da parte del suo commentatore spagnolo di lingua araba Averroè (1126-1198): nel proemio del commento alla Fisica, infatti, Averroè presenta lo Stagirita come colui che ha portato a compimento logica, fisica e metafisica, sicché dopo di lui queste tre discipline sono rimaste immutate, e aggiunge di considerare miracoloso che un solo uomo possedesse una tale capacità, divina più che umana31; nel commento al De anima, inoltre, lo stesso Averroè afferma di ritenere Aristotele la ‘regola’ e il modello fornito dalla natura per mostrare la perfezione raggiungibile dall’uomo32. Il giudizio di Averroè ha trovato grande eco nel secolo XIII, ed è stato poi ripreso da Dante nel Dante nel Convivio (III v, 7; IV, vi, 8 e 15); nella Commedia, poi, come si sa, il Poeta esalta il filosofo di Cordoba come autore del “gran commento” alle opere d’Aristotele (Inf. IV, 144).

2.2. La critica ad Aristotele Per tutto il secolo XIII il pensiero latino ha fatto i conti con la progressiva assimilazione

del corpus delle opere d’Aristotele, ma dovette ben presto prendere atto che la concezione del mondo proposta dello Stagirita e le interpretazioni avanzate dal suo più accreditato commentatore presentavano aspetti che mal si conciliavano con le tradizionali posizioni di fede. Nel corso del secolo l’autorità ecclesiastica intervenne più volte, prima per bloccare l’utilizzazione delle opere di Aristotele e dei suoi interpreti (1210), poi per proibire alcune dottrine (1270, 1277). Una volta che le opere d’Aristotele furono adottate come libri di testo dalla facoltà delle arti dell’università di Parigi (1255), anche un sostenitore delle posizioni aristoteliche come Sigieri di Brabante finì per ammettere che “Aristotele era un uomo e potè sbagliare”33. All’inizio del secolo XIV l’autorità dello Stagirita appare piuttosto ridimensionata: si affermò infatti che Aristotele non fu ‘regola’ tale da non poter mai fallire; ciò a cui egli non arrivò poteva ben essere trovato da altri34.

2.3. La critica ad Aristotele circa l’universalità della logica e la fondazione della

conoscenza Il criticismo del tardo medioevo, dunque, si esercita in primo luogo nei riguardi

dell’autorità e delle posizioni di Aristotele. I risultati conseguiti sono ritenuti dalla più recente storiografia atti ad avviare il superamento della concezione aristotelica del mondo, aprendo nuove prospettive e innescando il complesso processo da cui ha tratto origine la scienza moderna35. Qui di seguito mi propongo di illustrare tre casi di criticismo che attaccano le tre discipline portate a perfezione da Aristotele: il tentativo di ridimensionamento della universale validità della logica aristotelica; la posizione del francescano Guglielmo d’Ockham, a lungo ritenuto responsabile di avere introdotto posizioni che hanno dato luogo a conseguenze scettiche, e la critica esercitata da Nicola d’Autrécourt nei riguardi delle posizioni precedenti (Aristotele e l’esegesi universitaria dei suoi testi di filosofia della natura

31 Averroè, Commentum Physicorum, prooemium, ff. 4H-5A. 32 Averroè, Comm. magnum in Aristotelis De Anima, III, comm. 14, p. 433. 33 Sigieri di Brabante, Quaestiones super librum De Causis, q. 27, p. 115. 34 Erveo di Nédellec O.P., De cognitione primi principii, cit. in Mannath (1969), p. 55. 35 Grant 2001.

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e metafisica) e contemporanee al fine di dare una base rigorosa alle proprie proposte fondate sull’esame dell’esperienza36.

2.3.1. Le logiche speciali: logica della fede, logica della morale Nell’alto medioevo Aristotele era ritenuto il maestro di logica per eccellenza. La logica

fu coltivata in funzione apologetica, in quanto cioè ritenuta strumento utile alla difesa dell’ortodossia nelle controversie riguardanti la dottrina cristiana. In seguito all’introduzione dell’epistemologia aristotelica (con gli Analitici posteriori) nel secolo XIII, anche la teologia si è costituita come ‘scienza’: il domenicano Tommaso d’Aquino è presentato come il maestro che realizzò questa operazione di grande impegno37. Tuttavia, come ci si dovette render conto che la teologia risultava indocile all’epistemologia aristotelica, così si dovette constatare che la dottrina cristiana, con la sua stessa concezione di Dio uno e trino (una natura o essenza e tre persone o relazioni sussistenti: Padre, Figlio e Spirito Santo) faceva difficoltà alla logica d’Aristotele, apparentemente messa in scacco nei suoi stessi principi e strumenti fondamentali. All’inizio del secolo XIV si precisò l’ampiezza del contrasto. Le dottrine messe in discussione dalla concezione unitrinitaria sono il principio di contraddizione, giacché sembra che una stessa cosa non possa essere tre cose, e il sillogismo, sia nella sua forma più nota e più propriamente aristotelica, sia nella forma a premesse singolari nota nel medioevo come ‘sillogismo espositorio’. Dato il seguente sillogismo: “questa essenza è il Padre, questa essenza è il Figlio, dunque il Figlio è il Padre”, secondo la dottrina cristiana le premesse sono vere, mentre la conclusione è falsa (le persone infatti sono tra loro distinte). E anche se si adotta la forma comune del sillogismo (con almeno una premesse universale: “ogni essenza divina è il Padre, il Figlio è l’essenza divina, dunque il Figlio è il Padre”) non si evita il problema, giacché di nuovo le premesse sono vere, ma la conclusione è falsa. In entrambi i sillogismi, infatti, l’unità dei termini estremi con il medio nelle premesse non basta a garantire, in questa materia, la loro corretta congiunzione nella conclusione.

Di fronte a queste difficoltà, un altro domenicano, l’inglese Robert Holcot (m. 1349), negli anni del suo insegnamento (o ‘lettura’) delle Sentenze di Pietro Lombardo a Oxford (1331-1333), avanza l’esigenza di ricorrere a una “logica della fede” là dove la “logica naturale” di Aristotele è incapace di funzionare, e cioè là dove si parla di una “cosa che è una e tre”. 38

La logica della fede si configura come proposta di una logica speciale in funzione di un determinato ambito d’indagine. Anche se non pare adottata da Holcot, la locuzione ‘logica speciale’ pare entrata in uso fra XIII e XIV secolo.

Possiamo indicare i precedenti che hanno permesso a Holcot di avanzare la sua proposta. Il punto di partenza può essere individuato nell’Etica Nicomachea (I, 1, 1094b23-27), là dove Aristotele sostiene che il tipo d’argomentazione di volta in volta adottato deve essere proporzionato alla materia trattata:

“è proprio dell’uomo colto richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza quanta ne permette la natura dell’argomento: e sarebbe lo stesso lodare un matematico perché è persuasivo e richiedere dall’oratore delle dimostrazioni”.

Il passo successivo è rappresentato dall’affermazione di Averroè nel commento 15 al secondo libro della Metafisica (“c’è una logica comune a tutte le scienze e una logica propria a ciascuna scienza”), richiamato da Holcot, ma già impiegato dal domenicano Alberto Magno (c. 1200-1280) quando, commentando intorno al 1250 l’Etica Nicomachea appena tradotta

36 Kaluza 1995, pp. 213-214, e vedi sopra, nota 1. 37 Chenu 1985. 38 Su tutto ciò si veda Maierù 1987, pp. 265-166; per il testo di Holcot, cfr. Gelber 1983, p. 26 nota 72.

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nella sua interezza, s’interrogava sul modo di trattare l’etica: Alberto argomenta infatti che la logica è il modo di procedere comune a tutte le scienze, mentre il modo di procedere proprio di ciascuna scienza va assunto in rapporto ai principi di ciascuna ed è insegnato in ciascuna scienza, e aggiunge che se questo modo ‘speciale’ è detto ‘logica’, si darà una ‘logica speciale’39. Un altro caso è quello del contemporaneo di Holcot Giovanni Buridano (1295/1300-dopo il 1358), maestro alla facoltà delle arti di Parigi, il quale nel prologo del suo commento all’Etica sostiene che c’è una logica della scienza morale, contenuta dei libri della Retorica e della Poetica.40

A mia conoscenza, la riflessione medievale non è andata molto al di là dell’aver posto l’esigenza d’una logica della fede e d’una logica della morale nei termini che abbiamo indicato41.

2.3.2. Le discussioni ‘scettiche’ nel secolo XIV L’adozione delle opere d’Aristotele come libri di testo ha dato ai maestri del secolo XIII

l’occasione di fare i conti con le opinioni dei filosofi antichi (Eraclito, Protagora) trasmesse dal libro IV della Metafisica e di valutare, seguendo Aristotele, argomenti considerati scettici e discutere dei primi principi e della stessa possibilità di conoscere qualcosa e di accedere alla verità42.

2.3.2.1. Guglielmo d’Ockham Nel secolo successivo viene in primo piano il problema dell’evidenza43, discusso in

rapporto alla distinzione, introdotta da Giovanni Duns Scoto (1265 c.-1308), tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva. È bene ricordare che l’attribuzione all’intelletto umano dell’intuizione intellettiva del singolare si deve ai Maestri francescani, che intorno al 128044 modificarono la dottrina tradizionale d’impianto aristotelico per cui il singolare spetta al senso e l’universale all’intelletto. Per Guglielmo d’Ockham (1285 c.-1347) l’intuizione è l’apprensione (sensibile e intellettiva) di qualcosa in modo tale da poter sapere se essa esista o no, mentre la seconda conosce la cosa con modalità diversa, in quanto astrae dall’esistenza e dagli altri aspetti contingenti di essa. Per l’autore, dunque, conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva non si distinguono per l’oggetto, ma per la natura dell’atto. Ockham pone all’origine della nostra conoscenza l’intuizione perché essa fornisce la conoscenza dell’oggetto immediata, cioè senza la mediazione d’alcuna specie: il contatto diretto con la realtà sensibile, e con gli atti interiori, costituisce infatti la base sulla quale si costruisce il sapere scientifico. L’autore così fonda sulla conoscenza intuitiva la certezza e l’evidenza della conoscenza del contingente, giacché a suo avviso il giudizio di esistenza è causato dall’atto di intuizione e insieme dall’oggetto presente ed esistente, mentre il giudizio di non esistenza è causato solo dall’atto di conoscenza intuitiva in assenza dell’oggetto. Per spiegare i giudizi esistenziali relativi al passato, Ockham fa ricorso a un’altra distinzione, anch’essa desunta da Duns Scoto: quella tra intuitiva perfetta e intuitiva imperfetta. Se l’intuitiva perfetta garantisce la presenza dell’oggetto, in quella imperfetta (detta anche ‘ricordativa’) l’oggetto non è presente, ma c’è il ricordo di esso. Secondo quella che sembra la posizione finale di Ockham su questo punto,

39 Alberto Magno, Super Ethica, I, lect. 14, p. 12 e cfr. Maierù 1987, p. 264. 40 Giovanni Buridano, Questiones, proem. f. iirb, e cfr. Maierù 1987, pp. 251-263 per Buridano e i suoi

precedenti (soprattutto Ruggero Bacone). 41 Per la riflessione contemporanea, cfr. Goble 2001. 42 Cfr. Grellard 2004, pp. 115-116. 43 Cfr. Grassi 1994. 44 Bérubé 1964, p. 94 e pp. 100-106 (Olivi).

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l’intuitiva imperfetta è una conoscenza astrattiva che è concausa, insieme con l’intelletto, di un giudizio esistenziale evidente relativo al passato (e al futuro)45.

La dottrina della conoscenza intuitiva è però esaminata alla luce di un’altra distinzione, teologica, tra potenza assoluta e potenza ordinata di Dio; la potenza assoluta di Dio, come la possibilità logica, trova il suo limite nella contraddizione: Dio può fare tutto ciò che non implica contraddizione; perciò si può dire che Dio, causa prima di tutto, può fare direttamente (e miracolosamente, per potenza assoluta) ciò che, secondo il normale corso della natura (naturalmente, per potenza ordinata), egli fa mediante le cause seconde, purché ciò non implichi contraddizione. Ockham ammette che si possa avere conoscenza intuitiva di qualcosa senza che l’oggetto sia presente ed esistente, se Dio si sostituisce all’oggetto nel produrne gli effetti sul soggetto conoscente: l’unica cosa che Dio non può fare è produrre nel soggetto un atto di conoscenza per cui un oggetto appaia evidentemente presente mentre è assente, perché ciò importerebbe una contraddizione (l’oggetto è presente, l’oggetto non è presente)46.

Come si vede, questa posizione di Ockham si colloca in ambito teologico e non è certo introdotta con intenzione scettica, dato che – come si è visto – l’autore si preoccupa di assicurare solide basi all’edificio della scienza. Del resto, Ockham “non fu il solo e neppure il primo ad esprimere il parere secondo cui una conoscenza intuitiva sensibile potrebbe essere causata in noi direttamente da Dio, senza la collaborazione di un oggetto esterno”47. Secondo la storiografia del secolo scorso, tuttavia, la posizione di Ockham avrebbe finito per ingenerare una ‘crisi scettica’ in quanto si ritenne che, se si ammette che Dio possa intervenire direttamente nel processo conoscitivo causando l’intuizione del non-esistente, l’uomo non potrebbe essere certo della propria conoscenza sensibile e intellettiva48; detto diversamente, la posizione di Ockham non avrebbe soddisfatto tutte le condizioni richieste dalla concezione della certezza poste dagli Accademici, in quanto l’autore non indica il modo di distinguere le intuizioni evidenti da quelle che non lo sono, finendo così per ammettere che Dio può ingannarci. La più recente storiografia, tuttavia, riconosce che Ockham non era interessato alla discussione delle posizioni degli Accademici, che pure doveva conoscere ma che non ha mai fatto oggetto di discussione, accontentandosi di “costruire una teoria secondo cui possiamo avere una conoscenza libera da dubbi ed errori e che in ultima analisi trova la sua causa originaria nella conoscenza intuitiva sensibile”49.

2.3.2.2. Nicola d’Autrécourt Indubbio protagonista delle discussioni concernenti la natura e le condizioni della

conoscenza è il maestro del clero secolare Nicola d’Autrécourt (1298 c.-1369), ritenuto campione dello scetticismo del secolo XIV50. La condanna che gli fu inflitta nel 1346, cui seguirono la ritrattazione pubblica e la distruzione delle sue opere nel 1347, comportò l’interdizione dell’insegnamento: Nicola si ritirò a Metz e visse come canonico della cattedrale. I pochi testi conservati (quelli relativi alla condanna, editi per primi, il che ha contribuito a determinare la valutazione negativa dell’autore; alcune lettere, il trattato Exigit

45 Cfr. Boehner 1958, p. 273. 46 Boehner 1958, pp. 280-287. 47 Maier 1967, pp. 370-371, e cfr. pp. 371-372 nota 8 (testi di Erveo di Nédellec, Giovanni di Bassolis e

Pietro Aureoli). 48 Cfr. Adams 1987, I, pp. 588-594. 49 Adams 1987, I, pp. 594-601 (a p. 601), e cfr. Boehner 1958, pp. 280-287 (sopra, nota 23). 50 Cfr. Lappe 1908, p. 21: “Die skeptische Phänomenalismus des Nicolaus von Autrecourt”; Kennedy

1971, p. 1; anche Zupko 1993, p. 198, afferma che Buridano “vede che gli argomenti di Nicola hanno serie conseguenze scettiche” e parla di “Ultricurian skepticism”, pur avvertendo (p. 199): “It is of course possible that Nicholas himself was not an Ultricurian skeptic”.

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ordo, una questione) consentono di dare del suo pensiero una valutazione tutt’altro che scettica. Importanti in tal senso sono le due prime lettere a Bernardo d’Arezzo, il francescano suo collega nella lettura delle Sentenze (1335-1336), obbligatoria per coloro che aspiravano al magistero in teologia.

Per facilitare l’esame delle due lettere, è bene tenere presente che secondo Nicola la conoscenza è sempre conoscenza di qualcosa appreso nell’intuizione, cioè con evidenza; le cose evidenti sono semplici o complesse: le prime sono gli oggetti sensibili e gli atti interiori; le seconde sono i principi per sé noti, grazie all’apprendimento dei loro termini, e le conclusioni tratte da essi51. Inoltre, secondo Nicola l’evidenza non ammette gradi, sicché tutto ciò che non è sommamente evidente va considerato solo probabile, e il probabile ammette il più e il meno. Poiché rifiuta la metafisica e la fisica d’Aristotele e adotta una spiegazione atomistica della realtà con conseguente accettazione dell’eternità del mondo e dell’incorruttibilità delle cose, Nicola può affermare che gli argomenti in favore della sua posizione filosofica sono altrettanto, e talora più, persuasivi di quelli addotti dallo Stagirita52.

2.3.2.2.1. La prima lettera a Bernardo d’Arezzo (a) Nella prima lettera, Nicola inizia criticando tre proposizioni di Bernardo tratte da uno

scritto sulle Sentenze (questione 4, sulla distinzione 3 del primo libro) fatto circolare da Bernardo stesso. Da queste critiche egli procede alla demolizione della posizione di Bernando mostrandone tutte le implicazioni scettiche. La prima proposizione è la seguente: “la conoscenza intuitiva chiara è quella grazie alla quale noi giudichiamo che la cosa esiste, sia ch’essa esista, sia che non esista”; la seconda proposizione è la seguente: “non vale l’inferenza: ‘l’oggetto non esiste, dunque non è visto’; né vale quest’altra inferenza: ‘questo è visto, dunque questo esiste’; anzi, si tratta di due paralogismi, come lo sono queste due inferenze: ‘Cesare è nel pensiero, dunque Cesare esiste’, ‘Cesare non esiste, dunque Cesare non è nel pensiero’”; la terza proposizione di Bernardo è la seguente: “la conoscenza intuitiva non richiede necessariamente la cosa esistente”53.

Il contesto dottrinale in cui sembra che vada collocato Bernardo (non abbiamo opere sue) è quello postscotista: il Francescano assume che la conoscenza intuitiva vada distinta dal suo oggetto (contrariamente a quel che ritiene Nicola), sicché l’intuizione non pare essere fonte di certezza circa l’oggetto intuito quanto all’esistenza di esso, e l’inferenza dalla notizia dell’oggetto all’affermazione della sua esistenza è ritenuta un paralogismo dello stesso tipo di quelli che la tradizione ha classificato come indebito passaggio dall’ordine del pensiero a quello della realtà. Sullo sfondo sta la discussione sull’ipotesi dell’intervento della potenza assoluta di Dio nell’ambito della conoscenza umana, di cui si è detto e a cui si accenna in questa prima lettera, come vedremo.

(b) Da queste tre proposizioni Nicola ne trae due altre, che indica come quarta e quinta: “Da esse traggo un’altra proposizione, ed è la quarta: ‘Ogni nostra apparenza, relativa all’esistenza di

oggetti fuori di noi, può essere falsa’, e ciò consegue al fatto che secondo voi l’oggetto può essere o non essere. E un’altra proposizione, che è la quinta, ed è la seguente: ‘nel lume [della ragione] naturale non possiamo essere certi che la nostra apparenza circa l’esistenza di oggetti fuori di noi sia vera o falsa’, poiché voi dite ch’essa

51 Nicola d’Autrécourt, Exigit ordo, p. 235, linee 6-9. 52 Su Nicola e Aristotele cfr. O’Donnell 1942. 53 Nicola d'Autrécourt, Correspondance, p. 74: “(1) Legi enim in quadam scriptura quam in scolis

Fratrum minorum legistis et pro vera omni volenti habere concessistis, propositiones que sequuntur. (2) Prima, que ponitur a vobis primo Sententiarum, dist. 3, q. 4, est ista: ‘notitia intuitiva clara est per quam iudicamus rem esse, sive sit sive non sit’. Secunda propositio vestra, que ponitur ubi supra, est talis: ‘obiectum non est, igitur non videtur’, non valet consequentia; nec ista: ‘hoc videtur, ergo hoc est’. Ymo utrobique est fallacia, sicut in hiis consequentiis: ‘Cesar est in opinione, igitur Cesar est’; ‘Cesar non est, igitur Cesar non est in opinione’. Tertia propositio, ibidem posita, est ista: ‘notitia intuitiva non requirit necessario rem existentem’”.

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rappresenta in modo uniforme che la cosa esiste, sia ch’essa esista, sia che non esista”54.

Nicola usa il termine ‘apparenza’ per designare l’oggetto che si presenta in modo chiaro e distinto ai sensi esterni55, e preferisce usare il termine ‘chiaro’ per riferirsi alla conoscenza intuitiva, che è ‘chiara’ per definizione (con riferimento alla percezione sensibile, di preferenza visiva d’un oggetto debitamente illuminato e posto a distanza debita e colto da un organo ‘disposto’), mentre quella detta astrattiva è per Nicola conoscenza meno chiara. Va aggiunto che per Nicola non c’è distinzione tra conoscenza e oggetto conosciuto, e l’oggetto non è causa (o concausa) della conoscenza56, come è in Ockham, ma percezione e oggetto sono ‘compresenti’ nell’atto percettivo57, e l’oggetto preesiste all’atto; se non c’è oggetto, non c’è visione: l’ipotesi dell’intervento d’una causa superiore non è ammessa58.

(c) Nicola prosegue sottolineando che il suo collega non ha evidenza certa dell’esistenza esteriore degli oggetti, se ritiene una fallacia (“la bianchezza è vista, dunque la bianchezza è”) quella che è un’inferenza formale ed evidente. Richiamando una disputa tenuta nel convento dei Domenicani, Nicola ipotizza che Bernardo potrebbe osservare che la proibizione di passare dalla visione dell’oggetto all’affermazione della sua esistenza è limitata solamente al caso in cui intervenga una causa soprannaturale, mentre l’inferenza vale nell’ordine naturale delle cose. Per Nicola invece un’inferenza formale ed evidente vale sempre indipendentemente dalla natura dell’agente, sia esso naturale o soprannaturale. Le cose non vanno meglio se si riformula l’inferenza aggiungendo all’antecedente una ‘modificazione’ (cioè, esplicitando il riferimento all’intervento della potenza assoluta), dal momento che comunque la certezza del conseguente non si inferisce da un antecedente non certo. Anzi, le cose peggiorano: privi di fede, Aristotele e gli altri filosofi non avrebbero mai potuto costruire un’inferenza con antecedente ‘modificato’, “non credendo che Dio potesse impedire gli effetti delle cause naturali, e quindi non avrebbero mai avuto certezza dell’esistenza delle cose sensibili”59. Bernardo stesso non potrebbe indicare natura e numero delle cause naturali, né in che modo sapere se qualcosa è frutto di un intervento soprannaturale60; e a proposito della intuitiva imperfetta, che secondo Bernardo può naturalmente essere di cosa non esistente, Nicola chiede in che modo essere certi con evidenza quando l’intuitiva è perfetta, cioè quando è conoscenza di cosa esistente61. Dunque in tal modo la posizione di Bernardo mette in crisi i fondamenti della conoscenza scientifica.

(d) Ma ne segue ancora che Bernardo non può dirsi certo dell’esistenza degli oggetti dei cinque sensi né, ciò che è più grave, dei suoi stessi atti come vedere e sentire: nel citato scritto sulle Sentenze, continua infatti Nicola, Bernardo afferma che l’intelletto non ha conoscenza intuitiva dei nostri atti. Allora: se l’intelletto non ha certezza dell’esistenza di ciò di cui ha

54 Nicola d'Autrécourt, Correspondance , p. 74 (continuazione del testo cit. in nota prec.): “ (3) Ex istis infero unam propositionem quartam quod ‘omnis apparentia nostra quam habemus de existentia obiectorum extra, potest esse falsa’, ex quo, per vos, potest esse, sive obiectum sit sive non sit. Et unam aliam propositionem, que quinta est et est talis: ‘in lumine naturali non possumus esse certi quando apparentia nostra de existentia obiectorum extra sit vera vel falsa’, quia uniformiter, ut dicitis, representat rem esse, sive sit sive non sit”.

55 “Apparentia” è termine di Nicola e non va confuso con “esse apparens”: cfr. Nicola d’Autrécourt, Correspondence, p. 157, nota 4.

56 Nicola d’Autrécourt, Exigit ordo, p. 259, linee 15-19 (per questo e i testi seguenti mi servo dell’introduzione di Grellard, a Nicola d’Autrécourt, Correspondance, pp. 20 e seguenti).

57 Nicola d’Autrécourt, Exigit ordo, p. 190, linee 3-6 58 Ivi, p. 246, linee 16-22. 59 Nicola d'Autrécourt, Correspondance, prima lettera cit., § 4-8, pp. 76-78. 60 Ivi, § 9, p. 78; sullo statuto della causalità in Nicola, cfr. Grellard 2002. 61 Nicola d'Autrécourt, Correspondance, prima lettera cit., § 10, p. 78.

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conoscenza più ‘chiara’, esso non sarà certo di ciò di cui ha conoscenza meno chiara; e se Bernardo dice che talora l’astrattiva è ‘chiara’ come l’intuitiva (per esempio, nel caso del principio – o nozione comune – “il tutto è maggiore della parte”), ciò non serve a niente: Bernardo infatti non è certo dell’evidenza di ciò che gli appare, e perfino non è certo se qualcosa gli appaia62. E Nicola va fino in fondo nella riduzione all’assurdo della posizione di Bernardo. Questi, infatti, non può essere certo se una qualche proposizione sia vera o falsa – dal momento che non può dire con evidente certezza se ci sia o ci sia stata una qualche proposizione –, così come non può essere certo del suo stesso atto di fede, al punto che, se gli si chiedesse se crede negli articoli di fede, dovrebbe rispondere che ne dubita: giacché, come potrebbe esserne certo, mediante lo stesso atto (ma allora atto diretto e atto riflesso sarebbero la stessa cosa, e Bernardo non vuole ammetterlo), o con un altro atto? Ma allora non ne sarebbe certo in modo assoluto63.

(e) Insomma, Nicola conclude: “Raccogliendo quel che si è fin qui detto, mi sembra che dovreste dire che non siete certo di ciò che è

fuori di voi, al punto da non sapere se siete in cielo o in terra, nel fuoco o nell’acqua. E, di conseguenza, ignorate se il cielo oggi sia lo stesso di quello che fu ieri, giacché non sapete neppure se ci fu o no il cielo [...]. Similmente ignorate ciò che vi riguarda, se avete testa, barba, capelli e così via. Da ciò segue, a maggior ragione, che non siete certo di quel che avvenne in passato, cioé se avete letto, visto o udito. Ancora, ciò che avete detto sembra così portare alla distruzione della società civile e dello stato, dal momento che, se i testimoni depongono su ciò che hanno visto, non è valida l’inferenza: ‘abbiamo visto, dunque fu così’. Ancora, in base a ciò chiedo in che modo a vostro avviso gli apostoli furono certi della passione di Cristo in croce e della sua resurrezione e così via. [...]. E mi meraviglio molto in che modo possiate dire d’essere certo in modo evidente di alcune conclusioni più ‘occulte’, come dell’esistenza del primo Motore, e tuttavia non siete certo di ciò che si è detto. Ancora, è straordinario che, stando alle vostre parole, credete di mostrare che la conoscenza si distingue dal conosciuto, mentre non siete certo neppure, sempre secondo le vostre parole, che si dia una qualche conoscenza, e neppure che ci siano delle proposizioni [...]. E inoltre non dovreste aver certezza neppure del vostro intelletto, e così ignorate se esso esista. A me pare che la vostra posizione importi assurdità maggiori di quelle che importa la posizione degli Accademici. Perciò, ad evitare tali assurdità, ho sostenuto nella sala del collegio di Sorbona, in occasione delle dispute, di essere certo con evidenza degli oggetti dei cinque sensi e dei miei atti”64.

Dall’andamento della lettera, di tenore formalmente cortese, ma ironico e fermo nel mostrare le conseguenze scettiche della posizione di Bernardo, appare chiaro che colpevole di scetticismo deve essere ritenuto l’oppositore di Nicola, e non Nicola.

2.3.2.2.2. La seconda lettera a Bernardo Nella seconda lettera a Bernardo, il Filosofo d’Autrécourt propone la parte positiva del

suo discorso, e cioè esplicita con ordine i fondamenti della sua epistemologia, alcuni elementi dei quali sono già presenti nella prima lettera. Si tratta del primo principio evidente su cui si fonda ogni altra evidenza e di due altri principi, conseguenti ad esso, che regolano la riduzione di ogni altra conoscenza all’evidenza del primo principio e, più in generale, il passaggio dalle premesse alla conclusione (dato il rilievo riconosciuto all’evidenza della forma sillogistica).

(a’) Il primo elemento ch’egli pone è il principio di non contraddizione: “i contraddittori non possono essere veri nello stesso tempo”. Ad avviso di Nicola, esso è il primo principio in due sensi, negativo (“niente è anteriore ad esso”) e positivo (“esso è anteriore a tutto il resto”). A sostegno di questa duplice lettura dell’anteriorità del principio l’autore argomenta in questo modo: “Ogni certezza da noi conseguita si risolve in questo principio. Ma esso non si risolve

62 Ivi, § 11-12, pp. 78-80. 63 Nicola d’Autrécourt, Correspondance, prima lettera cit., § 13, p. 80. 64 Ivi, § 14-15, pp. 80-82.

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in qualcosa d’altro alla maniera in cui una conclusione si risolve nel suo principio. Dunque ne segue ch’esso è primo per un doppio ‘primato’”65.

L’affermazione che funge da proposizione maggiore dell’argomentazione è la fondamentale assunzione dell’autore: ogni nostra certezza va ricondotta a quella del primo principio.

Sennonché risulta che Nicola ha anche presentato come primo principio quello d’identità nella forma: “se qualcosa è, qualcosa è”, noto anche nella forma: “l’ente è l’ente”. A questo proposito il Grellard osserva che entrambi i principi, di identità e di non contraddizione, vanno tenuti come primo principio in quanto rappresentano rispettivamente il versante ontologico e quello epistemologico del primo principio, e indica che i due principi che regolano la riduzione dell’inferenza al primo principio si fondano appunto sui due versanti del principio primo, come si dirà66.

Dopo i due punti sul primato negativo e positivo del principio di non contraddizione, il terzo punto è rappresentato dalla definizione della contraddizione, che è quella tradizionale: la contraddizione è l’affermazione e la negazione di uno stesso predicato circa lo stesso soggetto67.

(b’) Seguono sei corollari che espongono e giustificano la riduzione delle nostre certezze a quella del primo principio. Il primo definisce la certezza dell’evidenza raggiunta nell’ambito del lume naturale come certezza assoluta, perché è conseguita grazie al primo principio, il quale non può essere contraddetto. La dimostrazione fondata sul lume naturale è dimostrazione assoluta. Il primo principio è universalmente valido e vincola anche la potenza assoluta. In questo contesto viene introdotto uno dei due principi che regolano il rapporto inferenziale tra premesse e conclusione: si afferma che neppure Dio può fare che l’opposto del conseguente stia insieme con l’antecedente (cioè, è impossibile che p.-q), o che i contraddittori siano veri allo stesso tempo. Questo principio deriva dal principio di non contraddizione68.

(c’) I corollari secondo e terzo sono riservati alla definizione della certezza. La certezza dell’evidenza non ha gradi (ed è tesi rifiutata anche da chi ha giudicato negativamente il processo istruito contro Nicola)69. Ma l’autore nota che la riduzione delle conoscenze al primo

65 Nicola d’Autrécourt, Correspondance, seconda lettera, p. 84: “(2) Et primum quod occurrit in ordine

dicendorum, est istud principium: ‘contradictoria non possunt simul esse vera’. Circa quod occurrunt duo. Primum est quod istud est primum principium, ‘primum’ negative exponendo: ‘quo nichil est prius’. Secundum quod occurrit est quod istud est primum affirmative et positive: ‘quod est quocumque alio prius’. (3) Et hec duo probantur uno medio sic: Omnis certitudo a nobis habita resolvitur in istud principium. Et ipsum non resolvitur in aliquod aliud sicut conclusio in principium suum. Igitur sequitur quod ipsum est primum principium duplici primitate”. Per la formulazione d’Aristotele, cfr. Metafisica, IV, 6, 1011b13-14.

66 Cfr. Grellard, introduzione a Nicola d’Autrécourt, Correspondance, pp. 31-34. 67 Nicola d’Autrécourt, Correspondance, seconda lettera, § 4, p. 86; cfr. Aristotele, De interpretatione,

6, 17a33-34. 68 Cfr. Grellard, introduzione a Nicola d’Autrécourt, Correspondance, pp. 34 e 38. Il riferimento alla

potenza assoluta di Dio è dato nella stessa formulazione del principio (ivi, seconda lettera, § 5, p. 86): “Nec per aliquam potentiam posset fieri quod oppositum consequentie staret simul cum antecedente, sicut nec aliqua potentia potest facere quod contradictoria sint simul vera”. Stessa formula al § 25, p. 98: “Nam dictum est quod consequentia evidens in lumine naturali est simpliciter evidens, sic quod contradictio est quod per aliquam potentia posset fieri quod oppositum consequentis staret cum antecedente. Et si dicit quod consequentia est evidens addito ad antecedens quod Deus non faciat miraculum, istud reprobatur secundum ea que dicta sunt in simili casu in epistola prima ad Bernardum”, per cui vedi sopra all’altezza di nota 60.

69 Penso a Pietro d’Ailly (1350-1420), maestro in teologia, cancelliere di Notre-Dame, poi cardinale; per il suo giudizio sul processo, cfr. Nicola d’Autrécourt, Correspondance, p. 176 nota 116; per l’affermazione “in evidentia sunt gradus” fatta in un contesto che risente molto delle esigenze avanzate da Nicola, cfr. Maierù 1984, p. 255 e nota 25, p. 264.

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principio può avvenire immediatamente o mediante vari passaggi, e perciò ammette che a una prima valutazione non si è certi alla stessa maniera in tutti i casi; non per questo però assegna gradi diversi di certezza ai diversi casi: ritiene infatti che la riduzione allo stesso primo principio importa la stessa certezza70. Inoltre, l’autore menziona due tipi di certezza: quella della fede, che appartiene all’ordine pratico della salvezza, e quella del primo principio o che può essere ricondotta al primo principio. L’indagine di Nicola è concentrata sulla dimensione naturale della conoscenza71.

(d’) Nel corollario quarto, la forma sillogistica è ricondotta al primo principio immediatamente (la prima figura) o mediatamente (attraverso la riduzione delle altre figure alla prima)72. Altrove l’autore suggerisce a chi vuole avere evidenza di un’inferenza, di ridurla alla forma sillogistica, che è evidente.73 Questa esplicita assunzione della tradizione aristotelica indica che, nonostante tutto, l’autore si muove nel solco di Aristotele e con lui continua a fare i conti.

(e’) Negli ultimi corollari (il quinto e il sesto), l’autore pone l’altro principio che governa la riduzione dell’inferenza al primo principio: in ogni inferenza immediatamente ridotta al primo principio il conseguente deve essere realmente identico con l’antecedente, in tutto o in parte; l’identità è intesa come reale identità del significato del conseguente e di quello, totale o parziale, dell’antecedente. Questo principio deriva dal primo principio inteso come identità74. I due principi che governano la riduzione al primo principio devono essere applicati insieme (secondo Grellard, “i due principi [...] esposti da Nicola sono entrambi necessari per l’evidenza d’una inferenza, ma nessuno dei due è sufficiente”)75 .

Nicola dunque tratta l’inferenza non in termini estensionali, ma dal punto di vista intensionale, dei contenuti: il contenuto del conseguente deve essere in tutto o in parte identico con quello dell’antecedente, o incluso in esso. Per avere il controllo del contenuto di volta in volta importato, l’autore fa riferimento alla definizione nominale dei termini76 (nell’inferenza spesso illustrata nel testo: “la casa esiste, dunque la parete esiste”, la parete è contenuta nella definizione nominale di casa). Con ciò egli scarta l’inferenza materiale, e accetta solo l’inferenza formale, che cioè vale per la sua sola forma, intendendola in modo più ampio di quanto non facciano i logici del tempo perché chiama in causa il contenuto, e sembra chiedere aiuto alla topica, e precisamente al ‘luogo intrinseco’ sottinteso: è conseguenza formale, infatti, quella che tiene grazie a un luogo intrinseco77. Più oltre, Nicola ricorda che dall’entimema (forma argomentativa composta di antecedente e conseguente, e cioè senza la terza proposizione che ne farebbe un sillogismo) si può ottenere il sillogismo esplicitando la proposizione sottintesa78. Il luogo intrinseco è la regola in virtù della quale l’inferenza è valida; nel caso della conseguenza, o entimema: “Socrate non corre, dunque

70 Nicola d’Autrécourt, Correspondance, § 6 (secondo corollario), p. 86: date due conclusioni evidentemente certe, “Vel igitur ille conclusiones eque immediate reducuntur in idem primum principium, et ita non habemus unde magis simus certi de una sicut de alia. Vel una mediate et alia immediate; et adhuc hoc non obstat, quia, reductione facta in primum principium, eque certi sumus de una sicut de alia. Ut geometra dicit se esse certum de secunda conclusione sicut de prima, et ita de tertia et sic de aliis, licet propter pluralitatem deductionum non poterit in prima consideratione esse ita certus de quarta vel tertia sicut de prima”.

71 Ivi, § 7, p. 88. 72 Ivi, § 8, p. 88. 73 Nicola d’Autrécourt, Exigit ordo, p. 235, linee 1-3; cfr. Grellard 2005, p. 80. 74 Ivi, § 9-10, p. 88. 75 Grellard, introduzione a Nicola d’Autrécourt, Correspondance, p. 40. 76 Ivi, pp. 35-36. 77 Ivi, p. 33; il ricorso al luogo intrinseco è suggerimento del Grellard (ivi, pp. 32-33). 78 Ivi, § 18, p. 92.

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l’uomo non corre”, il luogo che ne assicura la validità è: “Socrate è uomo”, che è ‘intrinseco’ alla conseguenza perché è composto di termini presenti nell’antecedente e nel conseguente di essa79.

(f’) Nel seguito, Nicola applica il quadro dottrinale appena delineato ai temi discussi con Bernardo d’Arezzo, sostenitore d’Aristotele. Il punto di attacco è costituito dal tema della validità o meno dell’inferenza dall’affermazione dell’esistenza di una cosa all’affermazione dell’esistenza di un’altra cosa. Bernardo l’afferma. Il filosofo d’Autrécourt, invece, nega decisamente la validità di una tale inferenza. Egli ricorda di avere in altra occasione sostenuto appunto che da una cosa non si può inferire un’altra cosa (nelle parole di Nicola: “dal fatto che qualche cosa è conosciuta esistente non si può inferire con evidenza ricondotta al primo principio, o alla certezza del primo principio, che un’altra cosa esista”). E dei molti argomenti allora addotti a sostegno richiama il seguente: “in una conseguenza in cui da una cosa se ne inferisce un’altra, il conseguente non sarebbe realmente identico con l’antecedente, o con parte del significato di esso”; trattandosi infatti di cose diverse (A e B), l’opposto del conseguente e l’antecedente sarebbero entrambi veri, il che è contrario alla definizione della contraddizione80.

Bernardo sostiene che l’inferenza: “la bianchezza esiste, dunque esiste un’altra cosa”, è evidente di evidenza riconducibile alla certezza del primo principio, perché la bianchezza (l’accidente) non potrebbe essere se qualcosa (la sostanza) non la tenesse in essere; e lo stesso si dica dell’altra inferenza: “il fuoco è vicino alla stoppa, e non è impedito, dunque c’è il calore”. Si tratta della difesa della conoscibità della sostanza e della causalità, pilastri della dottrina aristotelica.

Nicola risponde che l’obiezione non inficia la sua posizione. Infatti, le conseguenze proposte possono avere due interpretazioni: (1) si dirà che il conseguente è realmente identico con l’antecedente o una parte di esso, nel qual caso Nicola concederebbe che esse sono evidenti e sarebbe d’accordo con il suo avversario; oppure (2) si dirà che conseguente e antecedente (o una sua parte) non sono identici, e in tal caso Nicola concederebbe che l’opposto del conseguente e l’antecedente siano entrambi veri senza perciò concedere che i contraddittori siano entrambi veri; in tal modo però la conseguenza non è evidente con l’evidenza del primo principio (infatti, l’evidenza del primo principio si ha quando, concedendo che l’opposto del conseguente sta con l’antecedente, si concede che i contraddittori siano entrambi veri). Ed esemplifica con l’inferenza già nota: “la casa esiste, dunque la parete esiste”. Chi concede che la casa sia e la parete non sia, non concede che i contraddittori siano entrambi veri (infatti, le proposizioni “la casa esiste” e “la parete non esiste” non sono contraddittorie perché possono essere entrambe false), e tuttavia concede i contraddittori per un’altra ragione: chi significa che la casa esiste significa che la parete esiste (la parete è infatti inclusa nel significato di casa), ed è contraddittorio che la parete sia e la parete non sia. La posizione di Nicola, per il quale bisogna badare all’identità del significato e non alla verità delle proposizioni, non è perciò inficiata neppure in questo caso81.

g’) Infine, l’autore conclude andando all’attacco di Aristotele e delle sue procedure, difesi da Bernardo, in questi termini:

“Da questa regola così spiegata a chiunque abbia intelletto inferisco che Aristotele non ha mai avuto conoscenza evidente di una sostanza diversa dall’anima sua, intendendo con ‘sostanza’ una qualche cosa diversa

79 Cfr. Pinborg 1993, p. 351: “2. I loci hanno ancora una doppia funzione: a) come regole d’inferenza,

b) come una indagine sulle relazioni semantiche tra i predicati. 3. I loci valgono anche per i sillogismi (in ogni caso per la loro verifica di contenuto”; l’esempio è tratto un testo di Ockham riportato ivi, p. 372).

80 Nicola d’Autrécourt, Correspondance, seconda lettera, § 11, pp. 80-90. 81 Ivi, § 20-21, p. 94.

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dagli oggetti dei cinque sensi e dalle nostre esperienza formali82. Ed è così, perché allora ne avrebbe avuto conoscenza prima di ogni ragionamento, il che non è vero, perché queste cose non sono oggetto d’intuizione, altrimenti anche gli incolti le conoscerebbero; né si conoscono per ragionamento, cioè per inferenza da ciò che è percepito prima di ogni ragionamento, dal momento che da una cosa non si può inferire l’esistenza di un’altra cosa, come insegna la conclusione appena illustrata. E se non ha avuto conoscenza evidente delle sostanze composte, molto meno ne ha avuta di quelle astratte. Da ciò segue – piaccia o non piaccia, né se ne dia colpa a me, ma alla forza dell’argomento – che Aristotele in tutta la sua filosofia naturale e teorica [cioè, metafisica] ha avuto una tale certezza solo di due conclusioni, e forse neppure di una; e parimenti, o molto meno Frate Bernardo, che non anteporrà certo se stesso ad Aristotele”83.

Nicola si spinge fino ad affermare che Aristotele, a suo avviso, non solo non ha avuto una conoscenza evidente, ma neppure una probabile. Sostiene infatti di avere un argomento per provarlo, argomento ch’egli non difende ma che non sa confutare, e che è riassumibile in questi termini. Si ha conoscenza probabile di un conseguente in virtù di un antecedente quando si sia evidentemente certi che in passato il conseguente e l’antecedente si siano dati insieme. Ad esempio, colui che in passato ha avuto ‘evidenza’ che ponendo la mano sul fuoco aveva caldo, è ‘probabile’ che se ora ponesse la mano sul fuoco avrebbe caldo. Ma dalla regola sopra citata segue che a nessuno mai fu evidente che, poste le cose apparenti prima di ogni ragionamento (antecedente), esistessero altre cose come le sostanze (conseguente). Ne consegue perciò che non si ha conoscenza probabile della loro esistenza. Nicola ribadisce ch’egli non difende questa conclusione e invita chi trovasse la soluzione a confutare l’argomento84.

La conoscenza probabile è quella che non è riconducibile al primo principio in modo evidente nel modo fissato dal filosofo d’Autrécourt. L’argomento appena sviluppato illustra la probabilità che compete all’induzione, la quale per lui deve avere a fondamento precedenti conoscenze evidenti, esperienze sensibili certe.

In conclusione, Nicola propone una delimitazione rigorosa della conoscenza certa ed evidente sia a livello di esperienza sensibile, sia a livello di conoscenza mediante inferenza. Fuori dell’ambito dell’evidenza e della certezza si pone l’ambito del probabile, che è quello in cui si svolge la ricerca scientifica. In questo ambito, come si è detto, si danno gradi diversi di probabilità in rapporto alla forza degli argomenti portati a sostegno della tesi adottata. La dialettica tra le posizioni a confronto (quale veniva praticata nelle dispute universitarie) è produttrice di novità e ipotesi di lavoro più avanzate rispetto alle assunzioni di partenza85. Più che aperture allo scetticismo, abbiamo visto il rigoroso impegno dell’autore ad evitare di dare adito a questo tipo di accuse.

2.4. Conclusione Abbiamo presentato un’esposizione del trionfo di Aristotele al suo arrivo nell’Occidente

latino e, poi, della messa in discussione della sua autorità e delle sue dottrine (logica, fisica e metafisica). Le posizioni critiche illustrate non hanno dato luogo ad acquisizioni definitive; possiamo però riconoscere in esse delle direzioni di ricerca che hanno impiegato secoli prima che si arrivasse al superamento di Aristotele. Naturalmente non tutto si è svolto pacificamente. In particolare, per quanto riguarda il filosofo d’Autrécourt, la difesa di

82 Cfr. la nota 42 di Grellard in Nicola d’Autrécourt, Correspondance, p. 165. 83 Ivi, § 22-23, pp. 94-96. 84 Ivi, § 23-24, p. 96. 85 Nell’indagine sugli atomi (dei quali non si fa menzione nei testi qui esaminati) Nicola si propone di

procedere in questo modo: “porre innanzi tutto la conclusione di Aristotele con i suoi argomenti, confutandoli per quanto possibile, e poi esporre gli argomenti che a mio parere concludono l’opposto in modo sufficientemente probabile” (Nicola d’Autrécourt, Exigit ordo, p. 206, linee 29-30).

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Aristotele con il connesso rifiuto dell’atomismo da lui professato sono stati prevalenti presso i suoi contemporanei86. Il processo e la condanna sono valsi a frenare l’insorgere di analoghi tentativi.

86 A cominciare da Egidio del Foin, collega di Nicola al collegio di Sorbona (se ne veda lo scambio

epistolare in Nicola d’Autrécourt, Correspondance, pp. 100-131, e cfr. l’introduzione di Grellard, ivi, pp. 45-56) e dal contemporaneo Giovanni Buridano (cfr. Zupko 1993). Le posizioni di Nicola hanno avuto eco, spesso in forma anonima (cfr. Kaluza 1995, Grellard 2005).